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La famiglia Bentivoglio
I. Giovanni II Bentivoglio
Codro, Sermo XII, Bologna, 1502
Presso gli antichi vi furono, come uomini prudenti, non solamente quei sette, dei quali la Grecia si
vanta: invero ve ne furono altri, tanto presso i Romani quanto presso i popoli barbari. E la nostra
epoca ha visto Cosimo de' Medici, Federico duca vittorioso di Urbino, Pino Ordelaffi principe di
Forlì, Lorenzo de' Medici nipote di Cosimo e alcuni altri. Ma soprattutto vediamo il Bentivoglio,
principe del nostro senato, grazie alle decisioni del quale e a quelle dei suoi cittadini ha preservato
questa città immune dalla fame, dalla pestilenza, dalla guerra, dal momento che – dalla guerra
ferrarese ad oggi – non vi è stato alcun luogo, alcuna città, nessun paese dell'Italia – o quasi – che
non sia stato in una qualche agitazione di tumulti.
G. Garzoni, De eruditione principum, 1490 ca.
È il momento di passare alla magnificenza, la virtù che, secondo i Peripatetici, non è separabile
dalla persona del principe, essendone il massimo ornamento. (…) definiamo spese onorifiche quelle
che procurano al principe la lode più grande, come ad esempio costruire templi (chiese) che si
addicano al suo rango, organizzare cerimonie religiose, offrire doni agli uomini nobili e illustri,
compiere atti di magnificenza pubblica, come quando da qualche parte vengono allestiti spettacoli a
spese dello stato o viene imbandito sontuosamente un banchetto pubblico. E tu, Giovanni
Bentivoglio, hai praticato questa virtù nobilissima e splendida con tanta costanza che ti chiamano
padre della patria. Per quanto hai potuto, hai allontanato da essa ogni calamità e hai voluto ornarla
di mura, di palazzi, di templi (chiese), di uno stile di vita raffinato, di buoni costumi, di cultura
letteraria, di torri. E questa è stata opera di grandissimo valore.
1
III. Filippo Beroaldo e la Domus aurea
Annibale II Bentivoglio Codro, Sermo XII, Bologna 1502
Anche la nostra epoca ha avuto uomini forti e magnanimi, e soprattutto Bologna, e, per non parlare
degli altri, sappiamo che Annibale, figlio di Giovanni Bentivoglio, ha combattuto in Liguria, presso
la città di Sarzana tanto strenuamente, tanto valorosamente che per opera sua quella città passò sotto
al dominio dei Fiorentini; in Emilia ha combattuto anche contro i Francesi, nel territorio parmense,
presso il fiume Taro: contro di loro rinfrancò tanto l'esercito degli Italici che era già in fuga al punto
che di lui potremmo dire, rimaneggiando quel famoso verso enniano, che "un solo uomo ci ha
restituito lo Stato, combattendo"; e con questa grandezza d'animo e risolutezza si è messo in luce, in
mezzo ad altri principi e condottieri, presso l'invitto re dei Francesi, Luigi.
Beroaldo, commento a Svetonio (1493)
[Galb. 23, 2] gli antichi definirono colonne scanalate quelle che sono contraddistinte da scanalature.
Se desideri conoscere un esempio di colonne scanalate guarda quelle colonne che sostengono il
vostro nobilissimo palazzo: quelle sono infatti scanalate con scanalature bellissime.
Beroaldo, Orazione sui proverbi (1499)
I Trausi, che sono i popoli della Tracia, hanno nascite luttuose e funerali gioiosi. Infatti, quando
nasce un bambino, i parenti, sedendosi attorno a lui, danno manifestazioni di compianto, pensando a
tutte le umane calamità che colui che è appena nato è inevitabile che subisca; [134] al contrario,
seppelliscono tra la gioia e gli scherzi chi ha terminato il suo percorso terreno, ricordando da quanti
mali si sia liberato e come la morte strappi gli uomini dai mali, non dai beni. Questa cosa è dipinta
benissimo in una pittura monocroma (monochromateo genere picturae) nella casa dei Bentivoglio,
nel portico del giardino, sotto la quale si legge questo nostro monostico: «Questi piangono le
sventure della vita, questi invece gioiscono per la morte» (Hi vitae erumnas deflent, hi funera
plaudunt).
Specula principum
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- Nel 1381 il signore di Verona Antonio della Scala, fece uccidere il fratello maggiore
Bertolomeo, subito dopo aver conseguito la maggior età.
- Nel 1385 Giangaleazzo Visconti trasse in inganno e imprigionò lo zio Bernardo per entrare
in possesso dell’intera eredità dei Visconti.
- Tommaso Chiavelli, signore di Fabriano, venne assassinato in chiesa con membri della sua
famiglia mentre prendeva messa, vittima di una cospirazione cittadina.
- Federico da Montefeltro: nel 1444 fa uccidere suo fratello maggiore Oddantonio, legittimo
erede.
- A Milano nel 1476 Galeazzo Maria Sforza viene pugnalato e ucciso nella chiesa di S.
Stefano.
- A Firenze nel 1478 Giuliano de’ Medici cade vittima della congiura de’ Pazzi; Lorenzo
viene solo ferito, salvato prontamente da Poliziano nella sacrestia di S. Maria del Fiore.
Italia legale e reale nel 1494 vedi foto in slide
John Law, Il principe del Rinascimento, 1988
Nel pensiero politico contemporaneo, famiglie come quelle dei Bentivoglio di Bologna o dei
Baglioni di Perugia – o anche dei Medici a Firenze prima che conseguissero il titolo feudale (1532)
– appartenevano alla categoria della «tirannide velata», e la ricerca è attualmente orientata a
concludere che, in termini politici ed economici, queste famiglie condividessero con altre il potere e
che sia meglio parlare, a loro proposito, più di «primi inter pares» che non di prìncipi. (…)
I prìncipi dell’Italia del Rinascimento tentarono anche di acquistare dei titoli ereditari di governo
dai loro superiori. Sia nello Stato della Chiesa che nel territorio imperiale, i signori cercavano di
accumulare cariche vicariali per provvedere un’eredità alla loro successione. Essi erano altresì
disposti ad intraprendere svariati sforzi, a livello politico, diplomatico e finanziario, per entrare in
possesso di titoli feudali che avessero carattere ereditario. Per quanto parte del territorio imperiale,
il regno d’Italia offre l’esempio più famoso di questo fenomeno; quello di Giangaleazzo [Visconti]
che conseguì il titolo di duca nel 1395, seguito a ruota da altre dinastie: i Gonzaga furono creati
marchesi nel 1433 e gli Este vennero nominati duchi di Modena nel 1452. Delle ambizioni simili
si possono riscontrare anche tra i vicari dello Stato della Chiesa; gli Este ottennero il titolo ducale
per Ferrara nel 1471, i Montefeltro per Urbino nel 1474 e i da Varano per Camerino nel 1515.
Isocrate, A Nicocle (373-370 a.C.) tr.it. di M. Marzi -Tesi che Machiavelli non avrebbe
sottoscritto
Tutte le feste pubbliche non mettono in palio neppure una parte dei premi per i quali voi [re]
gareggiate ogni giorno. Meditando su ciò devi applicarti a superare gli altri in virtù tanto quanto li
sopravanzi negli onori.
Nel culto degli dèi segui l’esempio dei tuoi antenati, ma sii convinto che il sacrificio più bello e la
pietà più grande consistono nel dimostrarsi il più possibile onesto e giusto. (…) Libera i tuoi
cittadini dai tanti motivi di paura, e non volere che gli innocenti vivano in mezzo ai terrori; i
sentimenti che ispirerai agli altri per te, li proverai anche tu per loro. Non agire mai con ira, ma
lascialo credere agli altri quando ti torni opportuno. Mòstrati terribile col non farti sfuggire nulla di
quanto accade, ma mite con l’infliggere pene inferiori alle colpe commesse. (…) Comportati con gli
Stati più deboli come vorresti che i più forti si comportassero con te (…)
Non pretendere che gli altri vivano sobriamente e i re in modo dissoluto, ma fa della tua
temperanza un esempio per gli altri, rendendoti conto che il costume di tutta la città si conforma a
quello dei tuoi capi (…)
Sii raffinato nelle vesti e negli ornamenti della persona, ma sii moderato nelle altre abitudini di vita
come conviene a un re, perché coloro che ti vedono ti giudichino degno del potere per il tuo aspetto
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e coloro che ti frequentano si formino la stessa opinione per la tua forza d’animo (…) Preferisci
lasciare monumenti della tua virtù che della tua persona. Sforzati soprattutto di assicurare
l’incolumità a te e allo Stato; ma se sarai costretto ad affrontare il pericolo, preferisci morire
nobilmente che vivere nell’infamia
Isocrate, A Nicocle -Tesi che Machiavelli avrebbe sottoscritto
Tutti possono consentire, credo, che è dovere dei re, se la loro città è colpita dalle sventure, farle
cessare, e, se è prospera, mantenerla tale e renderla da piccola grande
Senofonte, Ciropedia, I 24 (parla Cambise a Ciro) trad. it. di Franco Ferrari - Una tesi che
Machiavelli non avrebbe sottoscritto
Ma per farsi amare dai sottoposti, ciò che a me sembra questione di vitale importanza, è evidente
che occorre seguire la stessa via che pratichiamo per conquistarci l’affetto degli amici: dobbiamo, io
credo, dimostrare a chiare note di esserne i benefattori. Certo non è facile essere ogni volta in grado
di far del bene a coloro a cui ci piace farlo, ma congratularsi apertamente per i loro casi fortunati,
condividere le loro pene, soccorrerli con sollecitudine quando si trovino in difficoltà, trepidare per i
loro eventuali infortuni e provvedere a sventarli, tutto ciò è quanto si deve fare per assisterli al
meglio
Cfr. Machiavelli, Principe, XVII «E gli uomini hanno meno respetto a offendere uno che si facci
amare che uno che si facci temere; perché l’amore è tenuto da uno vinculo di obligo, il quale, per
essere gli uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto da una
paura di pena che non ti abbandona mai.
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Tre classici del pensiero medievale
- Giovanni di Salisbury, Policraticus (metà XII sec.): il potere temporale del sovrano deriva
dal pontefice; la legge dello Stato si fonda sul concetto morale dell’equità (se viene infranto
dal sovrano i sudditi hanno il diritto di ribellarsi e di uccidere il sovrano); libri I-VI: pars
destruens (contro vita corte); libri VII-VIII: pars costruens.
- Egidio Colonna, De regimine principum (ante 1285). 3 libri. solo chi sa reggere sé stesso è
in grado di governare adeguatamente. Meglio un re che rimane superiore alle leggi cui sono
soggetti i sudditi.
- Coluccio Salutati, De tyranno (1400). Epistola-trattato a Francesco Zabarella. Fu lecita
l’uccisione di Cesare? No, perché se conquistò il potere in maniera tirannica (ex defectu
tituli), esercitò poi il potere virtuosamente (ex parte exercitii). La tirannide non si
contrappone alla repubblica, ma al governo giusto (repubblica o monarchia che sia)
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Petrarca fra tradizione e realismo politico- Due specula e una analisi spietata
F. Petrarca, Ad Nicolaum Azarolum … institutio regia (1352), Fam. XII, 2, per il futuro re
Luigi di Taranto
- Il signore deve essere amato, perché essere amato è più sicuro che essere temuto: amore
chiama amore e nessun regno è più sicuro di chi regna su cittadini che lo amano
- Seguire la virtù (che sta nel mezzo), la buona coscienza
- Il re deve preferire che siano ricchi i sudditi invece che l’erario
- Valore dell’amicizia (attenzione agli adulatori)
- Il signore deve evitare l’ira, la crudeltà
- Rispetti le leggi che impone ai sudditi (linea Aristotele, non quella di Egidio Colonna)
- Il signore deve dire sempre la verità; inoltre deve far mostra di compassione, magnanimità,
castità, gratitudine
- Governare è una laboriosa e faticosa servitù
- Il signore scacci la lussuria e i costumi corrotti
Petrarca, Institutio regia (1352)
E pertanto se vuol che gli [al re] si creda, si abitui a dir sempre la verità e avvezzi la lingua a
ignorare la menzogna. E che c’è di più ridicolo di un re bugiardo, sotto il quale di necessità lo stato
trepida e inneggia? Salda e ferma deve essere sempre la parola di colui, sul quale si puntano le
speranze di tanti e la tranquillità dei popoli. Perché dovrebbe poi mentire chi ha tanto bisogno che
nessuno, se possible, menta? (…) Lui [Roberto d’Angiò ] egli contempli, alle sue norme si
conformi, in quel limpido specchio si guardi: ché quegli era veramente sapiente, e magnanimo, e
mite, e re dei re. (…) Di questo tu non puoi lamentarti, sicuro come sei dell’affetto e della stima del
tuo alunno, del quale sei duce e Auriga; non Chirone era più caro ad Achille, o Palinuro ad Enea, o
Filottete a Ercole, o Lelio a Scipione.
Petrarca, Ad magnificum Franciscum de Carrara Padue dominum, qualis esse debeat qui rem
publicam regit (= Sen. XIV 1)
- Meglio essere amato che temuto
- Importanza dei benefici
- Il principe deve compatire, consolare, visitare, parlare
- Amare Dio
- Importanza amicizia, umiltà e magnanimità
- Principe = esempio per i cittadini
- Deve essere intimo con gli uomini egregi
Petrarca, Ad magnificum Franciscum de Carrara Padue dominum, qualis esse debeat qui rem
publicam regit (= Sen. XIV 1)
Questo rettore sia dunque prima di tutto amabile e non temibile per i buoni; giacché per i cattivi
deve necessariamente essere temibile, se è amico della giustizia. (…) Ma niente è più stolto, niente
più contrario alla stabilità del principato che voler essere temuto da tutti, sebbene alcuni sia dei
principi antichi che di quelli recenti nulla abbiano desiderato più che essere temuti e abbiano
creduto che il potere non si potesse conservare con altro mezzo che col terrore e la crudeltà (…) Il
timore toglie durevolezza e sicurezza; l’una e l’altra le conferisce la benevolenza. E perché si presti
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più fede a questa affermazione, bisogna ascoltare Cicerone, anzi bisogna ascoltare la verità stessa
che parla per bocca di Cicerone: «Fra tutte le cose» dice «niente è più adatto a difendere e
conservare le ricchezze che l’essere amato, né più alieno che l’essere temuto» (…) Che dire qui, se
non che la causa dell’amore pubblico e di quello privato è una sola e identica? «Io» dice Anneo
Seneca [Epist. 9, 6] «ti mostrerò un filtro d’amore senza veleno, senza erbe, senza incantesimi di
nessuna fattucchiera: se vuoi essere amato, ama». (…) I cattivi costumi dei principi sono dannosi
non solo a loro ma a tutti. Si accorda ed è conforme a ciò un luogo in Marco Tullio nel terzo del De
legibus: «Non è infatti così tanto male» dice «il fatto che pecchino i principi, sebbene sia di per se
stesso un gran male, quanto il fatto che ci sono moltissimi imitatori dei principi; giacché puoi
vedere, se solo tu voglia riconsiderare il passato, che quali furono i più alti cittadini, tale fu la città;
qualunque mutamento ci fu nei principi, lo stesso seguì nel popolo, e questo è non poco più vero di
quel che pensa il nostro Platone, che dice che mutando i canti dei musici muta lo stato delle città
Petrarca e Cola di Rienzo Familiare XIII, 6 [Valchiusa, agosto 1352]
Venne poco fa alla Curia, o piuttosto non venne ma fu condotto prigioniero, Nicola di Lorenzo, un
tempo temuto tribuno di Roma, ora il più misero degli uomini e – cosa sopra ogni altra gravissima –
se pur così misero non altrettanto degno di misericordia; il quale, potendo morire gloriosamente sul
Campidoglio, si adattò con ludibrio suo e della repubblica e del nome di Roma a subire il carcere
nella Boemia e poi nel Limosino [… ] Egli è senza dubbio degno di ogni supplizio, perché quel che
volle non lo volle con tutte le sue forze, come avrebbe dovuto e come richiedevano le circostanze; e
invece, dopo essersi impegnato a difender la libertà, si lasciò sfuggire armati i nemici della
libertà proprio quando avrebbe potuto tutti insieme sopprimerli [cum opprimere simul omnes
posset]; magnifica occasione che la fortuna non aveva mai concesso ad alcun signore
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Bartolomeo Platina, De principe (1470)
- Libro I: qualità morali per vivere bene (virtù private. Si tratta di religione, patria, famiglia,
amicizia)
- Libro II: virtù utili all’esercizio del potere (virtù sociali: prudenza, giustizia, fortezza,
temperanza)
- Libro III: tema della guerra (de re militari, cfr. Vegezio, Frontino). Una guerra governata
dalla ratio, umana, non ferina e crudele come quella che combattono i «barbari»
- Fonti principali: Cicerone, De officiis + Tusculanae
- Fonti secondarie: Aristotele e Platone per apoftegmi (= detti sentenziosi)
- Bartolomeo Platina, De principe a Federico Gonzaga (1470), poi De optimo cive a Lorenzo
de’ Medici (1474)
- Dedicato a Federico Gonzaga, erede del Duca Luigi Gonzaga (P. era appena uscito dal
carcere a Roma) e poi ridedicato a Lorenzo de’ Medici
Platina, De principe
Il comportamento in società del principe
Insiste sulle qualità morali, aspetti quotidiani come sonno, vitto, comportamento
«il suo incedere deve essere lento e la sua voce profonda, il discorso, interrotto da intervalli
piuttosto lunghi, mostra una certa autorevolezza degna di un principe (…) questo soprattutto deve
essere osservato dal principe, che tanto nelle faccende interne quanto in quelle esterne non mostri
mai alcun tipo di timore»
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Il principe ideale deve essere tutto prudenza e tutto saggezza, al contrario dei «principi dei Galli e
dei Germani, dal momento che, dimenticata ogni sapere e gentilezza, gli uni perdono il loro tempo
in cacce e giochi, gli altri in bevute e prepotenze»
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emanante una superiore dignità di inflessibile durezza e di illimitata clemenza (es.:
«Ferdinandea equitate»).
- Ira come elemento non sempre negativo (Aristotele). Per M. sarà l’audacia e l’impeto.
- Nel De obedientia del Pontano talvolta l’«utile» è anteposto all’«honestum»; inoltre P. col De
prudentia fa uscire la ‘prudenza’ dalla sfera morale e la fa entrare in quello dell’ars: «arte dello
stato», dirà M. (Ginzburg).
- “hominum pars pleraque tandem / proclivis sceleri”: la gran parte degli uomini è incline ai
delitti, cfr. Giano Anisio, satira De principe.
- La guerra ha fatto venire meno quella mutua caritas tra principe e popolo che la pace
alimentava (Giano Anisio, satira De principe).
- Necessità di costituire solide milizie cittadine e contadinesche (Patrizi, De institutione
reipublicae).
Tesi ricorrenti spazzate via da Machiavelli
- Legame tra sovrano e sudditi deve essere improntato all’amore, simile a quello tra padri e figli
(mutua caritas, cfr. Aristotele, Politica, I, 1259b; Etica, libro VIII); deve esserci una
corrispondenza tra i sentimenti esibiti dal principe e quelli del popolo verso il principe.
- religione va anteposta ad ogni altro valore.
- Il principe deve essere l’uomo più retto di tutti, intransigente verso se stesso, controllore della
morale.
- Importanza degli amici e consiglieri del principe (cfr. Cortigiano, libro IV; contra cfr. Principe
XXII).
- Lealtà del principe (cfr. Principe, XVIII).
- La politica appartiene agli anziani, perché è degli anziani la saggezza, mentre i giovani sono
impulsivi e impetuosi (Pontano, De principe, 21; contra cfr. Principe XXV).
- Gli umanisti non si curano del momento fondativo degli stati, a Machiavelli invece interessa
grandemente (vd. Pastori Stocchi, Il pensiero politico degli umanisti).
Pontano, De Principe
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Le opere poetiche di Pontano
- Pruritus (versi osceni catulliani)
- De laudibus divinis
- Amores
- Urania (poema eziologico-astronomico)
- De hortis Hesperidum (poema sulla coltivazione dei cedri)
- Eglogae
- Hendecasyllabi seu Baiarum libri
- Tumuli (epitaffi funebri)
- Neniae (cantilene per suo figlio)
De principe – la forma
- Primo scritto in prosa del Pontano
- È in forma di epistola (illustri precedenti: Petrarca, Fam. XII, 2; Enea Silvio Piccolomini, lettera
a Ladislao di Ungheria; lettere politiche di Guarino Veronese).
- Epistola «altra parte del dialogo» (Poliziano), mezzo idoneo per esprimere idee complesse in
una forma non organica e non ufficiale;
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- sentenziosità «rapida e tesa» (Scarpati, Dire la verità al principe, p. 40) che oblitera molta prosa
ampollosa del 400 latino. Lascito che servirà a Machiavelli?
De principe all’interno dei trattati sulle virtù sociali
- De liberalitate
- De beneficientia
- De magnanimitate
- De splendore
- De conviventia
- De obedientia
L’epistola De principe
- Dispositio argomenti: Dall’universale al particolare, ovvero dalle virtù morali a quelle
riguardanti il modo di vestire, il portamento, il discorso
- Parenesi: Esortazione alle virtutes e dissuasione dai vizi quali adulazione, ambizione, superbia,
ira.
- Due principali valori da salvaguardare: mutua caritas (tiene uniti sovrano e popolo) e maiestas
(propria di chi non riconosce nessuno sopra di sè)
Il signore deve essere sempre disponibile all’ascolto (ascoltare molte cose è una ricchezza)- De
principe, parr. 62-63
Se vuoi essere amato da coloro che fanno parte della tua casa, cosa che, unica, desideri sopra ogni
altra; se vuoi suscitare l’aspettazione che sarai un buon re, cosa che, unica, chiedi ai celesti, dai
soprattutto di te stesso la garanzia che non vivi dedicandoti a uno solo tra tutti, cosa che è la più
contraria a un principe, ma dividiti tra tutti come a turno, mostrando apertamente che tu sei l’unico
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al quale vuoi che si faccia capo e al quale si deve far capo. Come, infatti, andrebbe male agli uomini
se il Signore si lasciasse pregare da uno solo o da troppo pochi, così pure andrebbe male a coloro
che sono al servizio dei principi e dei re, se in una così grande moltitudine vi fosse posto e
protezione per uno solo o per pochi. Perché non c’è maggior dolore per quelli che fanno parte della
sua casa che essere costretti a trattare col proprio principe quasi con l’aiuto di un interprete.
Conviene che colui che voglia essere amato dai suoi e non sbagliare nell’amministrazione dello
Stato si valga di molti occhi e molte orecchie. Iacopo Caldora, condottiero famosissimo all’epoca
sua, era solito dire di aver guadagnato molto denaro il giorno in cui aveva udito molte persone,
perché riteneva che il maggior tesoro fosse proprio l’udire molte cose.
Il De principe. Testo
Inaspettata apertura nel segno di Scipione
Quando Publio Cornelio Scipione, che per il suo valore fu poi soprannominato l’Africano, vide,
duca Alfonso, che i tribuni della plebe si opponevano alla sua candidatura come edile, perché non
aveva ancora l’età prescritta dalla legge per presentarla, disse: «Ho un numero di anni sufficiente,
solo che i Quiriti mi vogliano considerare capace». Difatti, fidando sulle sue qualità morali, benché
giovinetto e anzitempo, non esitò a chiedere al popolo quella carica. A te invece, appena uscito
dagli anni della pubertà e senza che lo chiedessi, tuo padre ha dato il titolo di vicario del Regno e ti
ha assegnato la provincia di Calabria, e non certo conferendoti queste responsabilità in
considerazione dei tuoi anni, bensì per le tue virtù.
De principe § 10: importanza della lealtà
Nulla è più vergognoso del non mantenere la parola data: il suo valore è così grande che bisogna
mantenerla anche se è stata data a un nemico. E poiché la promessa è, secondo la definizione degli
antichi, costanza e lealtà nelle parole come nei patti, nulla deve essere più importante per il principe
della verità in se stessa, come dimostra l’uso, stabilito dai nostri antenati con grandissima saggezza,
di offrire ogni giorno al principe da baciare, mentre assiste alla Messa, il libro dei Vangeli, nel quale
è posta la verità divina, affinché, spinto da essa a rispettare la verità, ricordi di doverne essere
amantissimo
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De principe § 21: la saggezza è degli anziani
I giovani devono prendere esempio dai vecchi: il padre di Cicerone portò il giovane figlio da
Scevola perché non si allontanasse mai dal vecchio («dal momento che sapiente egli non può essere
a causa dell’immaturità e dell’ignoranza dovuta all’età, per le quali non è capace di vedere né di
fare le cose migliori»). Il giovane deve sforzarsi di imitare i sapienti negli atti e nelle parole [23]
pianta giovane si deve appoggiare a alberi saldi
De principe § 31: la cultura è un’arma
Ho sentito da Marino Tomacelli, che allora viveva a Roma, che quando Callisto [III, Borgia] era
appena succeduto a papa Niccolò V, dopo la sua morte, e si temeva che Iacopo Piccinino muovesse
guerra, poiché era andato da lui un uomo importante ma atterrito dall’imminenza di un nuovo
conflitto, questi ebbe a dire che non c’era di che temere Piccinino, perché la Chiesa di Cristo aveva
tremila e più letterati, con i consigli e la sapienza dei quali si potevano facilmente respingere e
annientare contemporaneamente tutti i tentativi di tutti i condottieri d’Europa»
Machiavelli, Arte della guerra, VII, 23
«Credevano i nostri principi italiani, prima ch’egli assaggiassero i colpi delle oltramontane guerre,
che a uno principe bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella
lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di
gemme e d’oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie
intorno, governarsi co’ sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nello ocio, dare i gradi della
milizia per grazie, disprezzare se alcuno avesse loro dimostro alcuna lodevole via, volere che le
parole loro fussero responsi di oraculi; né si accorgevano, i meschini, che si preparavano ad essere
preda di qualunque gli assaltava»
I libri sono sinceri, i cortigiani no (per timore)
L’avo tuo Alfonso ascoltava con incredibile piacere il poeta Antonio Panormita, quando gli narrava
le gesta tratte dagli antichi annali. Ogni giorno, anzi, si faceva leggere da lui testi di antichi scrittori,
e benché fosse gravato talora da molte e serie preoccupazioni, tuttavia non permise mai che gli
affari gli sottraessero il tempo dedicato ai libri. È straordinario infatti quanto una lettura assidua e
diligente giovi a un’ottima formazione di vita. Sallustio scrive che Scipione aveva l’abitudine di
dire che le immagini degli antichi meravigliosamente eccitano alla virtù chi le guardi; ma quanto
maggiormente dovranno commuoverci le loro parole e gli atti degni d’imitazione, se ce li verremo
di continuo ripetendo e ponendo innanzi agli occhi? L’avo tuo non partì mai per alcuna spedizione
senza libri, e ordinava che venisse posta presso di lui la tenda in cui si conservavano. Non avendo
alcun’altra immagine ove contemplare i Fabi, i Marcelli, gli Scipioni, gli Alessandri, i Cesari,
guardava i libri che conservano le loro gesta. Il suo esempio, in questa come in molte altre cose, tu
che ne rinnovi il nome devi sommamente imitare.
Machiavelli, Arte della guerra, VII, 23
Sogliono le provincie, il più delle volte, nel variare che le fanno, dall’ordine venire al disordine, e di
nuovo poi dal disordine all’ordine trapassare; perché, non essendo dalla natura conceduto alle
mondane cose il fermarsi, come le arrivano alla loro ultima perfezione, non avendo più da salire,
conviene che scendino; e similmente, scese che le sono, e per li disordini ad ultima bassezza
pervenute, di necessità, non potendo più scendere, conviene che salghino; e così sempre da il bene
si scende al male, e da il male si sale al bene. Perché la virtù partorisce quiete, la quiete ozio, l’ozio
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disordine, il disordine rovina; e similmente dalla rovina nasce l’ordine,dall’ordine virtù, da questa
gloria e buona fortuna. Onde si è da prudenti osservato come le lettere vengono dietro alle armi,
e nelle province e nelle città prima i capitani che i filosofi nascono. Perché, avendo le buone e
ordinate armi partorito vittorie, e le vittorie quiete, non si può la fortezza degli armati animi con il
più onesto ozio che con quello delle lettere corrompere; né può l’ozio con il maggiore e più
pericoloso inganno che con questo nelle città bene institute entrare.
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Alberti e Luciano
• 1436-38: Lapo da Castiglionchio traduce e dedica all’A. il De sacrificiis (fonte per
Momus: episodio sui voti degli uomini che salgono all’Olimpo)
• 1440: Guarino Veronese traduce e dedica all’A. il Muscae encomium
• Altri testi di Luciano che hanno influito sul Momus: Iuppiter tragoedus (assemblea degli dei
preoccupati di non venir più adorati se prevale la filosofia epicurea)
• Deorum concilium (dèì greci preoccupati per l’ampio numero di uomini divinazzati e
divinità orientali che popolano l’Olimpo; proposta di una riforma dell’Olimpo)
• Peregrinus e De parasito (tr. Guarino) sono all’origine dell’elogio del vagabondo
pronunciato da Momo nel libro II
• Charon sive contemplantes (tr. Rinuccio Aretino): Momo in esilio sulla terra, contempla i
costumi degli uomini (ma poi pensa a come poter danneggiare gli dèi, prima con l’ateismo,
poi con le preghiere)
• Ipotesto ‘serio’ profondo del Momus (già parodizzato da Luciano): la Repubblica di Platone
(Rinaldi)
Caratteristiche di Momo
• «Versipellis» («versuto»), colui che cambia se stesso in quanti modi vuole (parodia di
Ulisse, cfr. R. Consolo), «versutus et callidus» (così Giove in III 71-72); «tergiversator»
• Troppo proteiforme, dalla «sfuggente identità»: poeta, filosofo, agitatore, buffone di corte,
umanista
Giove (deuteragonista)
Si fa guidare dalla voluptas, si circonda di adulatori, è incostante, non capisce i consigli dei filosofi,
si lascia irretire da Momo-oratore-ingannatore: è il contrario del buon principe umanistico
Dedicatario del Momus?
• Leonello d’Este? (tesi R. Rinaldi)
• Eugenio IV (scontri conciliari)? Nicolò V (renovatio Urbis)?
• Il fatto che il dedicatario sia non dichiarato è una probabile polemica dell’A. contro le
dediche di Bruni e di Decembrio delle loro traduzioni della Politica di Aristotele e della
Repubblica platonica (Rinaldi), rispettivamente a Eugenio IV e al Duca di Gloucester
La datazione: 1451?F. Filelfo a L.B. Alberti, Odae, IV.6 da Cremona 1 ottobre 1451
Nescio quid Momi sunt, qui te ludere dicant
(….)
Nosse igitur, Baptista, velim tibi quanta Camoenae
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cura sedet, nummis qui cumules loculos.
Et quod Momus opus rigido sibi sumpserit ore
mordendum, gladiis quos petat ipse suis.
Non so cosa siano i Momi, che sento dire ti divertono (…) Mi piacerebbe allora sapere, Battista,
quanto ti stia a cuore la poesia, a te che accumuli quattrini su quattrini. E quale compito si sia preso
Momo criticando aspramente, chi voglia colpire con le sue armi.
Libro I
• Presentazione di Momo, dio rissoso, ostile, aspro, molesto, che si fa odiare da tutti per la sua
lingua e le sue azioni
• Giove, creato il mondo, invita ogni divinità a creare qualcosa per adornare il mondo. Momo
dapprima si astiene, poi, stimolato, crea cimici, tignole, calabroni, scarabei stercorari
• Frode, amata da Momo, finge di riavvicinarsi a lui, ma in realtà vuole fargliela pagare per
averla criticata
• Gli dei invidiano gli uomini per la loro vita terrena, così Giove ‘inietta’ negli animi umani
timore, malattie, morte e dolore. Poi concede agli dèi incarichi e responsabilità perché
accettino più volentieri la sua tirannide (p. 22)
• Momo critica con Lode la decisione di Giove di dare troppo potere a Fato (governo dei cieli
e astri)
• Le dee Verina (figlia del Tempo) e Proflua (madre delle Ninfe) riferiscono a Giove quanto
hanno sentito da Momo. Giove convoca il senato per condannare Momo di «lesa maestà»
• Momo fugge per non fare la fine di Prometeo. Precipita nel ‘Pozzo del cielo’ e giunge in
terra etrusca (= Italia)
• Momo, per vendetta, comincia a predicare in Etruria quanto gli dei siano scellerati e corrotti
(a causa di adulteri, stupri, nefandezze), mescolando la verità alla menzogna. Fa il filosofo
epicureo, discetta coi filosofi e diffonde l’incredulità
• Un cinico strappa a morsi la barba fluente di Momo
• Gli dei decidono di mandare sulla terra la dea Virtù, che si fa accompagnare dai figli
Trionfo, Trofeo, Lode e Posterità. Uomini e animali colti da stupore
• Dialogo tra Momo e Virtù nel Tempio: Virtù si impegnerà a perorare presso gli dèi la causa
di Momo, ma Momo restaurerà negli animi umani la fede negli dèi. Per sfuggire a un
possibile attentato ordito contro Momo, Virtù gli regala un velo che gli permetterà di
cambiare aspetto.
• Momo (nelle fogge di una ragazza ‘tersitea’, cioè bruttissima, ma resa meno brutta dai voti
agli dèi) insegna alle donne a rivolgere preghiere agli dèi perché accrescano la loro bellezza
• Momo, trasformatosi in edera, riesce a entrare nel tempio dove Virtù e figli si sono
asserragliati. Momo violenta Lode (di cui si è terribilmente invaghito)
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• Lode partorisce immediatamente un mostro dalle mille bocche e orecchie: Fama. Virtù la
caccia fuori dal tempio, e Fama comincia a visitare tutto il mondo
• Imbaldanziti dal potere della dea Fortuna, gli uomini assaltano il tempio: Virtù si trasforma
in folgore, Lode in fumo; Trionfo in farfalla; Trofeo in un enorme pietrone; Posterità in Eco.
I mortali rimangono a contendersi il mantello di Lode, stracciandolo in minutissimi pezzi.
Libro I, 19 (Momo critica le decisione di Giove)
«Quanto più utile sarebbe alla repubblica degli dei, se le decisioni venissero prese dopo più lunga
meditazione! Non basta infatti davvero che il principe dia retta alla voglia del momento, se non
prende anche in considerazione né valuta attentamente quel che di bene, quel che di male gliene
deriverà in futuro, sicché egli non debba chiedere ad altri di che vivere, ma possa farlo, come si
dice, del suo»
Libro I 43 Momo impara la doppiezza («cedere temporibus»)
Momo parla con se stesso
«E tieni questo per certo, che niente è sconveniente, quando uno faccia quello che conviene fare: è
del sapiente ubbidire ai tempi; anzi, supplicando piegarsi sarà utile a Momo, affinché possa aprirsi
la strada a maggiori conquiste. Mi dirai: non posso non essere quello che sempre sono stato, libero e
tutto d’un pezzo. E siilo: conserva dentro di te quel te stesso che vorrai, purché nel volto, nella
fronte, nelle parole ti simuli e ti dissimuli quale l’utile ti richiede»
I 57: Dopo l’accordo con Virtù: Momo ripristina il culto per gli dei
«Scovò, dunque, una nuova ed inaudita maniera di far del male, ma in cosiffatto modo che, pur
mettendo nefastamente tutto sossopra, desse a credere di averlo fatto con pie e rette intenzioni e, per
il male da lui procurato, fosse ringraziato da coloro che ne fossero stati danneggiati»
Libro II
• Gli dei, compiaciuti di essere nuovamente venerati dagli uomini, esaudiscono tutti i voti
degli umani. Momo, benemerito della stirpe divina, viene quindi richiamato in patria dalle
ambasciatrici Pallade e Minerva. I voti diventano però sempre più numerosi
• Momo prepara la vendetta, con astuzia. Indossa la maschera di adulatore
• Lamentele di Giunone contro il marito Giove, reo di non concederle i voti d’oro degli
uomini e dar ascolto a Momo
• I voti (pieni d’odio, paura, ira, dolore) riempiono il cielo del loro immenso puzzo
• Giove, riconciliatosi con Momo, lo invita a banchetto
• Discorso di Momo sui mestieri umani: sulla terra ha provato il mestiere delle armi, quello
dei re, ma il migliore è quello dell’erro (vagabondo, mendicante? Clerico vagante?
Francescano?)
• Facendo l’erro, Momo ha imparato la ‘divina indifferenza’ nei confronti di ogni desiderio
umano, ha imparato a ridere di ogni passione umana («Quid tum, Mome?»)
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• Momo diventa intrinseco di Giove, che gli concede di entrare e uscire quando vuole dal suo
palazzo
• Minerva e Pallade vanno, separatamente, a scusarsi con Momo per come l’hanno trattato,
accusandosi reciprocamente. Momo dissimula la sua rabbia
• Momo passa in rassegna i vari tipi di «osservatori e giudici della natura» (atomisti, sofisti,
etc…). Querela di uno di loro contro gli dei, che hanno reso gli uomini infelicissimi
• Ercole (portato in cielo da Fama, figlia di Momo) ribattendo a Momo, assume le difese dei
filosofi
• Giunone interrompe il banchetto col suo arco trionfale dorato (ottenuto coi voti dorati degli
uomini), che però poi crolla miseramente.
• Giove si lamenta della sua condizione di principe (cfr. De infelicitate principum):
giaculatoria contro gli dèi e contro l’irriconoscenza degli uomini
• Esasperato dalle continue richieste degli uomini, Giove decide di costruire un mondo
diverso. Gioia di Momo per essere stato la causa di tutto ciò
• Consigli faceti di Momo a Giove per punire gli uomini: fai camminare gli uomini sulle
mani, aumenta il numero delle donne. Momo ‘serio’: ci vuole una matura riflessione prima
di rifare il mondo. Nel frattempo Giove può collocare i voti sulla spiaggia («dicono che i
voti sono quelle minute ampolline, che là risplendono chiare come se fossero di vetro»)
• Dialogo finale tra Frode e Momo: Frode, per far ingelosire l’ex amante Momo, gli chiede
informazione sull’ospite del banchetto, Ercole; Ercole finge di sdegnarsene.
Libro II, 12; II 14 (Momo prepara la vendetta)
«Insomma: questo ho per fermo, che chi deve vivere tra la gente e tra le faccende deve anche non
mai cancellare dal cuore la memoria dell’ingiuria ricevuta, ma senza manifestare il livore
dell’offesa, obbedire bensì ai tempi simulando e dissimulando («simulando atque
dissimulando»); e così comportandosi, non mai venir meno a se stesso, ma vegliare quasi fosse di
sentinella, e carpire quello che ognuno senta, da quali intenti sia mosso, che cosa pensi, che cosa
prepari, a che cosa dia mano, di che cosa ciascuno abbia bisogno, che cosa gli sia indispensabile, e
chi ciascuno voglia bene, chi odi, quali motivi e intenzioni muovan ciascuno, quali possibilità abbia
e quali sistemi tenga in agire. Le sue inclinazioni, viceversa, e i suoi desideri dovrà sempre
nasconderli, artificiosamente e scaltramente fingendo (…) Ma perché continuare? Questo solo ti
sarà utile tenere accuratamente e continuamente presente: tutto, da maestro, efficacemente colorire
(«fuscare») con l’apparenza della probità e dell’innocenza; e bellamente ci riusciremo, se
prenderemo l’abitudine di accomodare ed atteggiare parole, espressione, ogni moto del corpo in
modo tale che sembriamo essere simili a coloro che sono ritenuti buoni e pacifici e dai quali siamo
invece in tutto dissimili. Oh cosa stupenda saper coprire e velare i propri sentimenti con la dotta arte
di una dissimulata ed ingannevole simulazione!»
Libro II, 43-45 (Momo re sulla terra)
«Si era però accorto che, per arrivare al principato, c’erano due strade, brevi ed agevoli: l’una delle
due, difesa dalle fazioni e dalle cospirazioni, si percorre saccheggiando, perseguitando,
distruggendo, radendo al suolo tutto quello che venga ad opporsi contro al tuo cocchio; l’altro
via al potere era, invece, tracciata e resa percorribile dalla maestria nelle buone arti, dal culto dei
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buoni costumi, dall’ornamento delle virtù, ed in essa tale ti devi fare, tale ti devi dimostrare al
genere umano, che ti giudichino degno del loro benevolo favore, imparino a rivolgersi soltanto a te
nelle avversità, a prendere per abitudine di rimettersi fiduciosissimi alle tue decisioni ed ai tuoi
giudizi. Né c’è, infatti, in terra essere vivente che più dell’uomo si ribelli alla servitù; e viceversa,
nello stesso tempo, niente si potrebbe immaginare di più incline dell’uomo alla mitezza e alla
mansuetudine; ma saper esercitare il potere non è arte da tutti; (…) Ma, asseriva, il potere, una volta
conquistatolo e procuratesolo, era indubbiamente cosa difficilissima a chi comanda. (…)
Riflessioni, queste, alle quali aggiungeva come le faccende dello stato fossero tutte singolarmente
ardue e piene di intralci, tali che se in esse ti rimetti soltanto alla tua opera non ce la fai, se invece ti
affidi a quella degli altri, questo è partito pieno zeppo d’imprevisti e di pericoli; che se poi tu
trascurassi i tuoi doveri, allora un tale comportamento ti sarebbe fonte non solo di vergogna e di
disonore, ma anche di sventure e di morte. Infine: se guardi alla cosa in sé, capirai che quello che
chiamano potere è senz’ombra di dubbio una, per così chiamarla, pubblica ed intollerabile servitù
da fuggire comunque»
Libro II, 103-105 (L’infelicità di Giove)
«Ebbene», disse, «e a che mi vale essere principe? Come possono gli uomini lamentarsi che
nessuna ora abbiano in tutto simile a quella precedente, che niente segua secondo i loro voti? Noi,
dèi e principi del creato, non potremo dunque consumare una sola intera cena libera da noie? E di
chi dirò la colpa? Voglie importune e stolti desideri di costoro o non piuttosto la mia pigra
accondiscendenza, a causa della quale, se da una parte si ritengono tutto permesso, dall’altro hanno
il gusto di uscir dal seminato più di quanto sarebbe opportuno? Qualunque cosa preferirei essere
piuttosto che un principe, visto che coloro ai quali tu sei a capo, per i cui vantaggi vegli, la cui
quiete e la cui tranquillità metti avanti alle tue preoccupazioni e alle tue fatiche, non ti si dimostrano
memori né dei benefici da te ricevuti né dei doveri che hanno verso di te, non finendola più di
assordarti con le loro continue e futili richieste e di metterti in agitazione con le loro sollecitazioni
(…) Quante volte ho dovuto sedare le vostre liti, quante farvi desistere dalle contumelie, quante
distogliervi dalla rissa, quante dalla follia richiamarvi alla ragione, quante soffocare i nostri
[vostri?] tumulti!
Libro III
• Riflessioni di Momo, che si compiace di potere tanto su Giove (tanto da indurlo a voler
costruire un nuovo mondo)
• Giove apre alle consultazioni sul nuovo mondo, tenendo Momo in sommo conto
• Giove vuole sentire il parere dei filosofi: non sapendo chi mandare, decide di andare lui
stesso sulla terra, solo e sconosciuto, anche per vedere di persona i filosofi
• Momo consegna a Giove i suoi consigli (commonefactiones de regno), ma Giove neanche li
degna di uno sguardo, e parte per la terra
• Giove va nell’Accademia orfana di Platone, incontra Diogene il Cinico in una botte,
Democrito d’Abdera che viviseziona cadaveri di animali; ascolta infine due uomini che
disputano sull’eternità del mondo e l’infinità dei mondi
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• Gli dei intanto in cielo si dividono in tre schiere: i conservatori (capeggiati da Giunone), i
rivoluzionari (torma dei popolari) e quelli che aspettano a saltare sul carro dei vincitori.
Giove indice un concilio
• Mercurio, alla ricerca della Virtù, dialoga con Socrate (che cerca di strozzarlo), con Diogene
(che lo bastona perché crede che M. gli abbia sfasciato la botte). Anche Apollo viene
mandato sulla terra a interrogare i filosofi
• Giove temporeggia perché non sa che decisioni prendere. Crea Momo rettore del senato, ma
questo spazientisce molto il folto pubblico di dèi
• Prendono la parola: Saturno, Cibele, Nettuno, Vulcano, Marte, Plutone, Ercole, Venere,
Diana, Giunone, Pallade
• Tumulti nell’assemblea, dopo che M. l’ha definita un «bordello pieno di ubriachi», facendo
inoltre una battuta misogina. Ercole, su ordine di Giunone, prende di peso Momo, che viene
evirato «per mano muliebre» e scaraventato nell’oceano
• Torna Apollo, trattenuto troppo a lungo sulla terra dai filosofi-parolai (eccetto Socrate).
Incontro con Democrito imbambolato a contemplare un granchio, alla ricerca della sede
dell’iracondia. Incontro con Socrate, che dialoga con un conciatore di pelli
• Giove loda Socrate come il più grande dei filosofi (in quanto crede che i consigli che ha dato
al calzolaio siano validi anche per lui che vuole rifare il mondo)
• Apollo si accorge che qualcuno gli ha rubato la borsa coi responsi: crede sia stato Socrate e
per questo inveisce contro gli umani
• Calore, Fame e Febbre, sentendo che si stava preparando la fine del mondo, imperversano
sugli uomini, che per placare gli dei indicono grandi giochi in loro onore, ornando d’oro
teatro e circo massimo. Nel teatro sono poste le statue dei più grandi tra gli dèi
• Ercole perora la causa ‘conservatrice’ della fazione giunonica. Giove recede dal suo
primitivo proposito di ricreare il mondo. Condanna Momo a starsene in eterno incatenato a
uno scoglio in mezzo all’oceano (mentre Prometeo era stato salvato da Ercole), con tutto il
corpo, eccetto la testa, immerso nelle onde. Momus diventa Humus su suggerimento di
Giunone (per punire la sua misoginia)
Libro III, 5 (i consigli di Momo sul regno)
«Ma sarà utile che quelli, dai quali tu tema un possibile attacco ai tuoi danni, siano in disaccordo tra
di loro; e infatti, se alcuni di loro faranno impeto contro di te, tu potrai fuggire presso questi altri,
dove ti guadagnerai tanti partigiani quanti sono coloro dalla cui parte ti sarai rifugiato. Ma su tutto
questo vedrò quello che porterà con sé il tempo; frattanto giova che io mi meriti ancor di più il
benevolo favore di Giove: devo calmare e moderare la furia con cui egli vive la cosa. E se io gli
facessi pervenire quegli ottimi ricordi sul regno (commonefactiones de regno) che un tempo
raccolsi presso i filosofi e che redassi in forma di brevissimi commentari? Certo, se egli li leggerà,
più vantaggiosamente provvederà a sé e alle sue cose»
Libro III, 6-7 (l’incostanza dei principi. Giove decide di scendere sulla terra)
Ma Giove, come è vecchia ed abituale usanza e come appartiene al carattere di alcuni, se non a un
dipresso di tutti i principi, che, volendo più essere ritenuti che non essere gravi e fermi, praticano
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non quello che riguarda il culto della virtù, ma quello che contribuisce alla corruzione del vizio - per
cui avviene che, quando hanno promesso di giovare in qualcosa a qualcuno, non hanno in questo il
minimo scrupolo ad ingannarlo venendo meno alla promessa fatta e, ingannandolo, rivelare e far
nota agli altri la loro slealtà, la loro superficialità e la loro incostanza; quando invece hanno
determinato di essere dannosi e nocivi a qualcuno, ritengono al tutto doveroso per la dignità del
loro scettro e la maestà del regno soddisfare col massimo impegno e con la massima fermezza alla
loro voglia: sicché tengono per certo doversi impiegare più ostinazione nello sdegno concepito che
non pagare il proprio debito alla lealtà nella pur dovuta benevolenza – (…) [Giove] non trovando un
aspetto o una forma del nuovo edificando mondo che non posponesse a questa antica e non
dispregiasse, ed accorgendosi che con le forze del suo ingegno non avrebbe potuto facilmente
ottemperare all’impegno assuntosi, concluse che aveva bisogno del consiglio altrui.
Libro III, 11 (Momo dona a Giove la sua operetta)
«Ma, mentre che così andava conversando, accadde che Momo si levasse di seno le sue scritture e,
porgendole a Giove, dicesse: ‘La fede e l’amore che nutro nei tuoi confronti, o Giove, mi inducono
a far sì che io ritenga mio compito impiegare un po’ del mio impegno ed un po’ di fatica nel
difendere, per quanto io possa, e favorire, migliorandoli, i tuoi interessi: per questo mi sono accinto
a pensare e a meditare quello che io ritenevo concernere il decoro e la dignità del tuo impero. Da
queste scritture, alle quali io l’ho affidato, ne potrai, quando avrai un momento di tempo libero,
prendere conoscenza, con questa condizione, che quando in esse meno ti piacerà per difetto di
sapienza, tanto tu attribuisca, ugualmente gradendolo, alla mia fedeltà».
Prese le scritture e congedato Momo, le scritture Giove non le guardò neppure, ma, senza pensar più
ad esse, le gettò in un canto del suo palazzo e, pronto alla massima alacrità, si accinse al viaggio di
ottima voglia.
Libro III, 34 (Momo chiede a Giove cosa ne pensa della sua operetta)
«Se la tua accondiscendenza», disse, «me lo consente, dimmi, Giove, di grazia: le scritture, che ti ho
dato a questi giorni, le hai lette?». «Di questo», disse Giove, «parleremo insieme altra volta: ora, fa’
quello che urge». Le scritture, Giove non si ricordava neppure d’averle avute.
Libro III, 32; III, 70 (Giove cinico come Cesare Borgia?)
«Gli (a Giove) venne in mente di creare Momo rettore del senato e farlo principe dell’assemblea,
non perché lo ritenesse degno di tanti grandi onori, ma per mostrare a certuni, che tra gli dèi si
mostravano audaci ed ambiziosi, che egli voleva solo di sua volontà e per sua sola decisione
conferire ogni carica ed ogni onore a coloro che avessero bene appreso non a comandare, ma ad
ubbidire e servire.
(…)
Per questo, offertasi l’occasione di deversare su Momo l’odio che aveva attirato sopra di sé, ben
volentieri [Giove] la colse, anche se desiderava fare apparire che concedesse come un beneficio
quello che avrebbe comunque fatto di suo iniziativa
Libro III, 42 (la necessaria punizione di Momo)
«Giove, per quanto non approvasse il fatto in sé (il fatto che avessero scagliato Momo nell’oceano)
e, più del fatto, il precedente che con esso veniva a costituirsi, decise tuttavia di concedere a quella
moltitudine quanto essa desiderava e pretendeva con tanta forza: sempre le sommosse e la violenza
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d’una moltitudine, ove non vengano represse, sono di pericolo allo stato, né c’è altro modo per
reprimerle, se non fare a suo modo (…) Quindi, accennando di sì ed avendo placato gli strepiti e gli
schiamazzi di quelle donnacchere, riassunse in poche e concise parole il suo sdegno per una simile
rissa; e il fatto che la brama di perdere definitivamente Momo avesse preso tali e tante matrone a lui
congiuntissime e carissime, disse piuttosto procurargli dolore che non dargli l’ardire di
rimproverarle»
Libro IV
• In terra si apparecchiano giochi magnifici in onore degli dei
• Naiadi, Napee, Driadi, Forceidi vanno a salutare Momo e a consolarlo. Momo (incatenato)
esala una nuvola per non farsi vedere dagli dei, ma così gli dei non vedono neanche gli
spettacoli terreni in loro onore. Decidono quindi di scendere sulla terra
• Per assistere agli spettacoli in teatro, gli dei rimuovano le loro statue e vi si sostituiscono
• Rapimento del filosofo-attore epicureo Enope, che nella selva viene salvato dai suoi rapitori
dalle statue degli dèi. Enope abbraccia la religione e difende la statua di Giove imbrattata da
un ubriacone
• Enope ricerca, tra le statue, quella del dio Stupore che lo ha salvato; raschia la sua faccia per
pulirla
• Intanto agli Inferi Caronte decide di andare a visitare la terra prima che sia distrutta da
Giove; sceglie come guida il filosofo Gelasto (< gelao = ridere), che aspetta invano da
tempo di passare l’Acheronte perché non ha l’obolo (è morto povero in canna). Caronte si
porta dietro la sua barca
• Caronte riporta una favola ‘eziologica’ rarissima sulla creazione dell’uomo che gli ha
raccontato un pittore. Origine delle finzioni umane
• Caronte non è soddisfatto del suo viaggio sulla terra: apprezza solo i bellissimi fiori, per il
resto nota solo stoltezza e disonestà. Decide con Gelasto di tornare agli inferi.
• Nel viaggio per mare di ritorno agli inferi, un mostro si presenta loro tra i flutti: è lo Stato
(vd. brano)
• Arrivo dei pirati: Caronte e Gelasto si dirigono verso la riva per trovare rifugio. Scorribanda
dei pirati
• Caronte e Gelasto riprendono il viaggio in mare per tornare agli inferi, ma una tempesta li
scaraventa sullo scoglio di Momo; la stessa tempesta, causata dalla risata degli dèi a teatro,
provoca la caduta di molte delle statue-dèi
• Giove ordina agli dèi la ritirata in cielo, non prima che ciascuno di loro abbia ricollocato a
posto la propria statua. Rimangono sulla terra solo Stupore, Speranza, Plutone e Notte
• Momo e Gelasto si riconoscono e ricordano le discussioni filosofiche condotte sulla terra
durante l’esilio di Momo
• Momo racconta a Gelasto le sue peripezie, e Gelasto a Momo la sua vita sfortunata. Mal
comune mezzo gaudio
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• Intervento di Nettuno a placare i venti riottosi. Gelasto suggerisce a Nettuno di consigliare a
Giove la lettura del libretto di Momo
• Dialogo (riportato da Caronte) tra il Megalofo e Peniplusio sulla barca di Caronte: se sia
preferibile la vita del re (Megalofo) o quella dell’araldo (Peniplusio)
• Giove, mettendo in ordine la sua stanza, ritrova casualmente il libretto di precetti di Momo e
li legge (ma ormai tardi) con grande attenzione
Libro IV, 8 (l’irrazionalità della massa)
«Ercole soltanto, forse perché temeva le insidie degli invidi e degli emuli e la difficoltà del ritorno
alle sedi superne, disse che o non si addiceva alla maestà degli dèi o non poteva farsi con sufficiente
sicurezza che i celesti scendessero e si confondessero tra le schiere dei mortali: in terra, egli aveva
infatti abbattuto, domato, distrutto i più immani e truculenti mostri, l’impeto invece e l’audacia di
più uomini cospiranti ad un fine comune nemmeno aveva mai potuto fronteggiarli: facile, la
moltitudine, ad essere mossa, mutevole essere invero d’opinioni, volubile di sentimenti, spinta dalle
proprie voglie; facile incitarla a qualunque delitto: né, quando si tratti di una moltitudine, ci
s’indugia a pensare se quello che concordi vogliono i più sia lecito o illecito; inferocisce indomita e
scatenata irrompe, né può essere richiamata indietro o trattenuta, né essere abbastanza frenata da
monito alcuno o dagli argomenti dei saggi o dal comando di chi correttamente pensa e provvede;
né, la folle moltitudine, sa in verità non volere quello che può dipendere da una libera scelta: non
preoccuparsi, una volta che abbia intrapreso qualche cosa, se sia o non sia delittuoso e turpe, pur di
portarlo in fondo, né desistere da orrende iniziative, se prima non ha dato inizio a qualche cosa di
più orrendo; e, cosa ancor più mirabile in una folla di uomini, essi, presi ad uno ad uno, hanno
cervello e sanno che cosa sia corretto: e tuttavia, quando si mettono insieme, tutti insieme
facilmente impazzano e, senza che altro ve li spinga, vanno di per sé fuori della diritta via»
Libro IV, 25 Allocuzione del narratore al lettore/dedicatario
«e so che a costoro che si dilettano di leggere le nostre opericciuole potrebbe sembrare, se non
proprio del tutto, in qualche misura almeno, scurrile, ed alieno dai nostri costumi e dalle leggi che
regolano il nostro modo di scrivere, noi che sempre, invero, agendo e parlando ci siamo guardati
dall’abbracciare argomenti tali che fossero meno gravi e meno santi di quanto non sopportassero e
la religione delle lettere e il culto della religione. Ma se tu guarderai attentamente a quel che
abbiamo tentato di esprimere così in tutti i nostri libelli, come in questo particolare luogo, ti
renderai conto certamente che i prìncipi dediti al piacere vanno a cadere in vergogne assai più gravi
che non siano quelle che abbiamo raccontato: per questo vorrei che tu giudicassi aver noi perseguito
piuttosto lo scopo propostoci che non il nostro precedente modo di vivere e di studiare. Ma forse
abbiamo detto più di quanto non avremmo voluto, meno certamente di quanto l’argomento avrebbe
richiesto. Ma basta di questo: torno al mio racconto»
Libro IV, 43-45 (favola sull’uomo)
«L’artista di una così grande opera come è l’uomo doveva aver accuratamente selezionato e
acclarato il materiale con cui crearlo; vogliono alcuni che fosse fango misto a miele, altri cera
riscaldata maneggiandola: di qualunque cosa si trattasse, egli la mise in due stampi di bronzo,
nell’uno dei quali venissero impressi il petto, il volto e quant’altro è visibile insieme con essi;
nell’altro l’occipite, il dorso, le natiche e le altre parti posteriori; formò molte figure d’uomini e, di
esse, scelse quelle difettose e notevoli per qualche manchevolezza, specialmente quelle leggere e
vuote, perché fossero femmine; e le femmine distinse dai maschi togliendo da quelle una piccola
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quantità di roba da dare in più agli altri; fece anche col fango e con vari altri stampi molte altre
specie d’animali. Portate a termine queste opere, avendo visto che alcuni uomini non erano del tutto
contenti della propria forma, comandò che coloro che lo preferivano si cambiassero nelle figure,
secondo che loro piaceva, di altri animali. Poi mostrò il tempio la cui vista si apriva sulla montagna
posta di fronte e li esortò ad inerpicarvisi per la via che si apriva erta e diritta: lì avrebbero avuto
beni in abbondanza, ma stessero e ancora stessero attenti a non andarvi per altre vie che non quella:
disagevolissima sembrava all’inizio, ma, andando avanti, sarebbe divenuta facilmente percorribile.
Detto questo, se n’era andato.
Libro IV, 43-45 (favola sull’uomo)
«Gli omiciattoli avevano cominciato ad inerpicarsi; ma subito alcuni, nella loro stoltezza,
preferirono prendere le sembianze di buoi, di asini, di quadrupedi, altri, indottivi dal loro erroneo
desiderio, erano usciti di strada deviando per viottoli traversi. Lì, in precipizi scoscesi e cupamente
rimbombanti, intrappolati tra rovi e sterpi, si mutarono, attesa l’impraticabilità del luogo, in mostri
diversi e tornarono ancora alla primitiva strada ma, per la loro mostruosa bruttezza, furono cacciati
via di lì dai loro compagni. Per questo, trovato del fango molto simile a quello con cui erano stati
compattati, si misero addosso delle maschere finte ed uguali ai volti degli altri; umana arte questa,
di mascherarsi, che prese piede coll’uso, fino al punto che a stento sapresti distinguere i volti finti
da quelli veri, a meno che tu, per avventura, non guardassi più accuratamente nell’interno attraverso
i fori della sovrapposta maschera: di lì, infatti, si presentano di solito a chi vi guarda varie figure di
mostri; tali maschere furono chiamate ‘finzioni’ e durano fino alle acque dell’Acheronte, non oltre:
avanzatisi, infatti, nel fiume, avviene che, per il vapore acqueo, si sfanno ed accade per questo che
nessuno approda sull’altro riva se non denudato della perduta maschera»
Libro IV, 60 (il mostro marino: lo Stato)
«Ma che razza di mostro è quello che, tagliando il mare, scivola di lì verso di noi? Non sarà forse
quello che negl’inferi ha portato tante tragedie e che dicono vivere tra i flutti? Ma, per Giove, come
viene incontro ai miei desideri! Mai, infatti, ho potuto sapere che cosa e quale sia: ma tra poco sarà
qui davanti a noi e potremo vederlo; e questo è qualcosa di positivo: ora sì finalmente che venire tra
i mortali si rivela utile. Ma non lo vedi? Ecco lo Stato che naviga!». E Gelasto: «Oh», disse,
«Caronte, e come ti è venuto fatto di pensare a chiamare tanto a proposito ‘Stato’ una nave? Che se
io desiderassi rappresentarla fedelmente a parole, non saprei tirar fuori niente di più brillante: qui,
infatti, come in uno Stato comandano i meno, i più ubbidiscono, e questi, ubbidendo, imparano
nello stesso tempo ad esercitare il comando e quello che cercano di raggiungere per soddisfare
Libro IV, 60 (distinzione re vs tiranni)
«i desideri del loro cuore, che mettono a punto per concretare le loro speranze, che curano per il
loro benessere, tutto adattano alla situazione e vanno di essa a seconda. Aggiungi che costì, come in
uno Stato, la cosa pubblica è regolata da uno solo o da alcuni pochi o dai più: e se costoro
conservano il ricordo del passato, meditano prevedendo il futuro, osservano intorno a loro il
presente, e a tutto si accostano e tutto trattano razionalmente e con senso della misura, non volendo
più per sé i beni che per la comunità, costoro sono dei re, e le cose procedono correttamente; se, al
contrario, tutto arraffano per sé e tutto trascurano salvo ciò che fa loro piacere, allora sono dei
tiranni e le cose procedono malissimo. Ancora: se essi ubbidiscono agli ordini, se sono pronti, se
offrono spontaneamente la loro opera e fanno concordemente quello che viene loro comandato, lo
Stato è allora immune da sconvolgimenti e saldo; se, invece, si trovano in disaccordo, se rifiutano la
loro collaborazione e si tirano indietro, allora lo Stato viene turbato e periclita.
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Libro IV, 100-102 (il De principe di Momo)
Toltosi pertanto il mantello e le vesti, si dette a mutar di posto tutti gli scanni e ammucchiò in un
luogo più degno i molti libri indecorosamente disposti e coperti di polvere. Mentre sistemava queste
cose, gli vennero in mano le scritture di Momo, che, come di sopra abbiamo narrato, egli aveva
consegnato a Giove. Trovatele, Giove non poté fare a meno di turbarsi, nuovamente risovvenendosi,
in preda al dolore, di sé e dei suoi casi; finalmente, si decise a leggere le scritture tanto rallegrandosi
in cuore, eppur tanto addolorandovisi, che né al dolore né all’allegria si sarebbe potuto aggiungere
alcunché, a tal punto vi erano mescolati il gradevole insieme e lo sgradevole: gradevole era che in
esse egli trovava, desunti dagli insegnamenti dei filosofi, precetti ottimi e del tutto necessari a
formare e a mantenere mirabilmente un re; sgradevole era invece che tanto a lungo per la sua
negligenza avesse potuto privarsi di tanti precetti e così utili a procurare gloria e consenso.
Questo il contenuto delle scritture:
- Il principe deve ispirarsi a criteri tali che egli non di tutto si occupi ma neppure di niente, e di
quello di cui si occupa personalmente non deve occuparsene né da solo né insieme
con tutti.
- E deve fare in modo che nessuno possieda, da solo, molto, né molti senza alcuna potenza niente.
- Benèfichi i buoni anche se non lo vogliono; a chi fa del male, male non faccia se non
controvoglia
- Farà attenzione a qualunque persona più per quello che in lui solo pochi riescono a vedere, che
non per quello che può essere notati da tutti
- Si asterrà dalle innovazioni, a meno che non ve lo costringa una grande necessità di salvare la
dignità del potere o non abbia la meglio una certissima speranza di accrescere la propria gloria
- In pubblico ostenterà sempre magnificenza, in privato si atterrà alla parsimonia
- Lotterà contro i piaceri non meno che contro dei nemici.
- Ai suoi procurerà tranquillità, e a se stesso gloria e consenso piuttosto con le arti della pace che
non con le occupazioni della guerra.
- Sopporterà di concedersi alle preghiere e tollererà le sconvenienze di chi sta in basso, con tanta
moderazione con quanta vorrà che chi gli è inferiore sopporti la sua superbia
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in certo senso, l’opposto del “ritratto” ideale del governante “perfetto” descritto da varie penne
contemporanee»
Roberto Cardini: Momo, ovvero della vendetta a mente fredda
Come il Pisanus dell’intercenale Hostis, come il protagonista di Maritus, e come l’Ulisse di cui così
a lungo si parla proprio nei Profugiorum, per certi versi può essere considerato la «variazione di un
motivo unico rimodellato e riscritto infinite volte perché affonda le sue radici vere nella psiche
profonda, nei traumi, nevrosi, angosce, ossessioni e manie da cui sgorga tanta dell’arte così
moderna e inquietante di questo grande moralista e scrittore»
F. Furlan, Introduzione a Alberti, Momo, 2007
Certo è che il Momus, per più versi accostabile alla pittura di un Hieronimus Bosch, alimenta un
filone di neo-lucianismo e, parallelamente, di letteratura utopica o utopistica che attraverso
Tommaso Moro ed Erasmo, l’Ariosto e Rabelais, il Doni stesso dei Mondi (1553), giunge almeno
allo Spaccio de la bestia trionfante (1584) di Giordano Bruno e a Cervantes.
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