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Che la grande poesia consista per Leopardi nel genere lirico è detto dal poeta in più luoghi
dell’opera sua, e in particolare nello Zibaldone, e su ciò che ha scritto Mario Fubini, alle quali
rimandiamo. Ciò che piuttosto ora preme è accennare al rapporto tra Leopardi e Petrarca, che
del genere lirico, tradizionalmente, è riconosciuto come il moderno iniziatore e l'incontrastato
signore. Rapporti, naturalmente, non mancano, attestati se non altro del commento del recanatese
alle “Rime per Laura”. Ma si può dire davvero che l’animo di Leopardi consuoni con quello di
Petrarca? Nella “Canzone al Mai”, come è ben noto, Leopardi ritrae poeticamente lo “sfortunato
amante” del nostro Trecento, e questo suo ritratto, per la sua elementarità, non solo non regge il
confronto con quello ben più penetrante consegnatoci da Foscolo nei suoi sepolcri, ma neppure, per
intensità, commozione e partecipazione, con quello di Tasso consegnatoci nella settima ottava strofa
della stessa canzone. E insomma dall’infelice Torquato che semmai, attinse il lirismo di Giacomo.
Tuttavia c’è qualcosa che tra Leopardi e Petrarca collima notevolmente; e questo qualcosa, anche se
più leopardianamente che petrarchescamente, e l’atmosfera di vago, di indefinito e di indeterminato
il poeta di Recanati coglie, o crede di cogliere, in certi particolari accenti del canzoniere, in certe
sfumature dei versi che lo accompagnano, in certe loro sospensioni o passaggi. Si faccia riferimento
alla canzone cinquantesima delle rime il cui attacco accenna al sentimento dell’esistenza come un
contro-scontro con l’ignoto. E proprio tale sentimento ciò che al giovane Leopardi non sfugge, e
che gli anzi sviluppa sempre nella “Canzone al Mai”. Anche in questo caso naturalmente non si
tratta di cogliere i precisi riferimenti o di segnalare particolari imprestiti del poeta di Laura. Si tratta
di capire a fondo quanto dovette echeggiare nell’animo di Giacomo “forse” della canzone
petrarchesca, proprio in quanto avverbio dubitativo, diviene per lui quasi il simbolo di quella poesia
liriche che aveva in mente e che si palesa con la teoria del “Vago e indefinito”. Nello Zibaldone non
si stancò di annotare che quel “forse” era sommariamente poetico in quanto stimolava, tanto nel
poeta quanto nel lettore, la qualità del fantasticare, offrendogli di più la possibilità di far “perdere”
la sua mente travagliata in “vane amenità e piacevolezze” e di porgergli quella dolcezza del
naufragio poetico e immaginativo che risuonerà nell’Infinito. Da queste premature affermazioni si
possono riscontrare già le basi per la formulazione di quella che diverrà la “teoria del Piacere”.
Ecco dunque, ciò in cui consiste il petrarchismo leopardiano: nel suo farsi, la levatrice della
tendenza propria del poeta a fermare l’ignoto per immergere il proprio cuore nel vago e
nell’indeterminato; per attingere la confortante esperienza dei “sogni leggiadri” che all’uomo,
nonostante tutto, pure non sono negati: o “nostri sogni leggiadri”, il nostro “caro immaginar£ e,
naturalmente, lo stesso “immaginar” del poeta. Una tendenza che noi possiamo per il momento
cogliere nell’aggettivazione e nella particolare scelta che la contraddistingue; oppure in quegli
specialissimi accoppiamenti di sostantivo e aggettivo che, già all’altezza delle canzoni facevano
intravedere i grandiosi futuri scenari leopardiani. Ciò che insomma Leopardi seppe trarre dalla
lettura del Canzoniere fu quello che De Sanctis avrebbe definito la “forma”: la parola, o il giro
sintattico capaci di far echeggiare nodi concettuali o sentimentali particolarmente propri e
problematici. Farli echeggiare: vale a dire consegnarli in una misura espressiva fondata
sull’indeterminatezza poetica, sull’evocazione-invocazione, sull’interrogativo senza risposta o come
sarà nel caso dell’“Ultimo canto di Saffo”, su uno scenario tragico in cui la voce dialogante o
monologante assumerà il timbro dell’inappellabile giudizio.
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