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Il dantismo epigrafico del giovane Leopardi:

Il linguaggio delle prime due canzoni dei Canti sostanzialmente un unico


componimento diviso in due parti anche per la voluta contrapposizione tra antico e
moderno vari caduti delle Termopili e gli italiani morti in Russia nel 1815 tra
l'eroismo riconosciuto dei primi, divenuti simbolo universale dell'amor patrio, e
quello mai venuto alla luce dei secondi, così rimasti in un oblio da poter essere
ritenuto la peggiore delle sventure; tra Simonide di Ceo, se si vuole, e Leopardi in
persona, e dunque come tra due diversi modi di far poesia suggeriti da due diversi
eventi storici e umani; il linguaggio di queste due canzoni dicevamo, a stento
potrebbe far intravvedere il futuro Leopardi. Da Dante a Petrarca, da Filicaia a Monti,
da Alfieri a Foscolo, è il linguaggio della tradizionale poesia civile e patriottica; il
linguaggio dello sdegno e della denuncia che s'impone con il suo lessico, il suo giro
sintattico, i suoi lenocini formali (interrogazioni, esclamazioni, forti impennate
esortative, personificazioni); il linguaggio i cui modelli fondamentali vanno dalla
canzone All’Italia di Petrarca al canto VI del Purgatorio dantesco o al secondo
dell’Eneide che il poeta aveva appena tradotto; e, quanto ai temi, un linguaggio che
rinvia all'Ortis foscoliano, alla Vita dell’Alfieri o, non raramente, alla fastosa
scenografia del miglior Monti. È con questo patrimonio retoricamente eloquente che
il giovane Leopardi fa le prime prove; è con questa scuola che si misura.
Naturalmente non ci sono dubbi sulla sincerità del suo sentire, né ce ne sono sul suo
amor di patria insieme alfieriano e dantesco. Ma è proprio questa tematica, che per
quanto appassionatamente avvertita aveva già da secoli il suo codice espressivo, ciò
costringe il poeta a comprimere la propria originalità e a seguire un cammino già in
gran parte segnato: alto il tono alto della canzone, il tono da “visione” nobilmente
solenne, nella quale la personificazione della patria in una donna già regina e ora
schiava campeggia nella sua disperazione. La disperazione, vale a dire il giudizio
senza speranza sul presente. È però a questo punto, come del resto è stato osservato,
che si opera la prima frattura nei confronti della tradizione; e a questo punto che le
complesse maglie della retorica danno i primi segni di cedimento offrendo i varchi
attraverso i quali comincia a emergere la libera voce del poeta. Questo della
disperazione non è infatti avvertito da Leopardi soltanto come un tema della storia,
ma anche come un tema della propria biografia e della propria personale esperienza.
Di qui, da questa sorta di originale miscelazione a prendono le mosse, anche da un
punto di vista stilistico, le soluzioni più convincenti, talora fondare su alcune parole
chiave che, posta in peculiare posizione, producendo un tono sentenziale, i
programmatico, capace di sprigionare, per prima cosa, con una concezione del mondo
veramente nuovo e personale, come avviene ad esempio in questi versi della canzone
“Sopra il monumento di Dante”: “e questo vi conforti che conforto nessuno avrete in
questa o nell’età futura”. La prolessi fa campeggiare l’assolutezza della sentenza, e
tale sentenza, quasi scolpita più che scritta, stringe in sé una delle leopardiane leggi
dell’esistenza. E tanto più forte, in questo caso, echeggia tale linguaggio sentenziale,
così nudo, spoglio e tende all’elementarità del discorso, quanto più esso era preceduto
da un’accorata vocazione- evocazione: “Anime care, benché infinita sia vostra
sciagura, datevi pace”. Vocazione-evocazione nella
quale, tra l’altro, già palpita una parola leopradianissima come “infinito”. La sconfitta
infelicità del prode, morto oltretutto “quando più bella a noi l’età sorride”, la sua
sventurata innocenza e la sua morte oscura e persino ignominiosa, si propongono già
da ora come simboli delle contraddittorie e inesorabili leggi del vivere. Nessun poeta
della tradizione avrebbe mai potuto scrivere versi come questi. È la forza del
pensiero, della sia meditato e radicata convinzione a suggerire e come a imporre
espressioni così epigraficamente robuste, da poesia dantesca nel timbro e nel suono.
Ma questo dantismo, ed è ciò che più importa, tradisce una precisa tendenza
leopardiana; ed essa è quella alla quale si è appena accennato, vale a dire il proposito
di fare poesia col pensiero e di tradurlo in immagine. Per il momento si tratta si sole
sentenze energicamente scolpite, o di accostamenti fortemente audaci e dissonanti a
un orecchio troppo assuefatto alla tradizione. Più avanti, si tratterà di riplasmare tutto
il tradizionale patrimonio linguistico non con lo stravolgerlo, ma con la capacità,
davvero rara, di innovarlo inserendovi termini tutti personali, affatto sconosciuti, nei
loro diversi accostamenti, a qualsiasi tradizione, persino a quella petrarchesca cui pur
si potrebbero avvicinare per la loro carezzevole e indeterminata liricità. Nell’ “Ultimo
Canto di Saffo” si può leggere: “Arcano è tutto fuor che il nostro dolor”. L’epigrafico
dantismo leopardiano ha qui assunto una forma nuova, e ciò in virtù dell’inserimento
di un vocabolario che certamente appartiene anche alla tradizione ma che pure, per il
suo impiego, pertiene, e si direbbe quasi esclusivamente, al vocabolario ideale del
recanatese.

Il petrarchismo leopardiano e la ricerca della forma:

Che la grande poesia consista per Leopardi nel genere lirico è detto dal poeta in più luoghi
dell’opera sua, e in particolare nello Zibaldone, e su ciò che ha scritto Mario Fubini, alle quali
rimandiamo. Ciò che piuttosto ora preme è accennare al rapporto tra Leopardi e Petrarca, che
del genere lirico, tradizionalmente, è riconosciuto come il moderno iniziatore e l'incontrastato
signore. Rapporti, naturalmente, non mancano, attestati se non altro del commento del recanatese
alle “Rime per Laura”. Ma si può dire davvero che l’animo di Leopardi consuoni con quello di
Petrarca? Nella “Canzone al Mai”, come è ben noto, Leopardi ritrae poeticamente lo “sfortunato
amante” del nostro Trecento, e questo suo ritratto, per la sua elementarità, non solo non regge il
confronto con quello ben più penetrante consegnatoci da Foscolo nei suoi sepolcri, ma neppure, per
intensità, commozione e partecipazione, con quello di Tasso consegnatoci nella settima ottava strofa
della stessa canzone. E insomma dall’infelice Torquato che semmai, attinse il lirismo di Giacomo.
Tuttavia c’è qualcosa che tra Leopardi e Petrarca collima notevolmente; e questo qualcosa, anche se
più leopardianamente che petrarchescamente, e l’atmosfera di vago, di indefinito e di indeterminato
il poeta di Recanati coglie, o crede di cogliere, in certi particolari accenti del canzoniere, in certe
sfumature dei versi che lo accompagnano, in certe loro sospensioni o passaggi. Si faccia riferimento
alla canzone cinquantesima delle rime il cui attacco accenna al sentimento dell’esistenza come un
contro-scontro con l’ignoto. E proprio tale sentimento ciò che al giovane Leopardi non sfugge, e
che gli anzi sviluppa sempre nella “Canzone al Mai”. Anche in questo caso naturalmente non si
tratta di cogliere i precisi riferimenti o di segnalare particolari imprestiti del poeta di Laura. Si tratta
di capire a fondo quanto dovette echeggiare nell’animo di Giacomo “forse” della canzone
petrarchesca, proprio in quanto avverbio dubitativo, diviene per lui quasi il simbolo di quella poesia
liriche che aveva in mente e che si palesa con la teoria del “Vago e indefinito”. Nello Zibaldone non
si stancò di annotare che quel “forse” era sommariamente poetico in quanto stimolava, tanto nel
poeta quanto nel lettore, la qualità del fantasticare, offrendogli di più la possibilità di far “perdere”
la sua mente travagliata in “vane amenità e piacevolezze” e di porgergli quella dolcezza del
naufragio poetico e immaginativo che risuonerà nell’Infinito. Da queste premature affermazioni si
possono riscontrare già le basi per la formulazione di quella che diverrà la “teoria del Piacere”.
Ecco dunque, ciò in cui consiste il petrarchismo leopardiano: nel suo farsi, la levatrice della
tendenza propria del poeta a fermare l’ignoto per immergere il proprio cuore nel vago e
nell’indeterminato; per attingere la confortante esperienza dei “sogni leggiadri” che all’uomo,
nonostante tutto, pure non sono negati: o “nostri sogni leggiadri”, il nostro “caro immaginar£ e,
naturalmente, lo stesso “immaginar” del poeta. Una tendenza che noi possiamo per il momento
cogliere nell’aggettivazione e nella particolare scelta che la contraddistingue; oppure in quegli
specialissimi accoppiamenti di sostantivo e aggettivo che, già all’altezza delle canzoni facevano
intravedere i grandiosi futuri scenari leopardiani. Ciò che insomma Leopardi seppe trarre dalla
lettura del Canzoniere fu quello che De Sanctis avrebbe definito la “forma”: la parola, o il giro
sintattico capaci di far echeggiare nodi concettuali o sentimentali particolarmente propri e
problematici. Farli echeggiare: vale a dire consegnarli in una misura espressiva fondata
sull’indeterminatezza poetica, sull’evocazione-invocazione, sull’interrogativo senza risposta o come
sarà nel caso dell’“Ultimo canto di Saffo”, su uno scenario tragico in cui la voce dialogante o
monologante assumerà il timbro dell’inappellabile giudizio.

Pensiero e immagine poetica:


Una delle più significative formilazioni del pensiero in immagine poetica si legge in chiusa alla
canzone “A un vincitore nel pallone”, laddove, Leopardi materializza la noia nel fluire del tempo e
nello scorrere delle ore “putri e lente”. Osserviamo che il poeta nel suo breve passaggio, allegorizza
la noia quasi facendone la torbida dominatrice del tempo, tanto che la vita in essa immersa non è
che un’esistenza che “delle putri e lente ore, il danno misura e il flutto ascolta”. L’improvviso
folgorare di queste immagini che qui si concentrano in una totalità da spleen particolarmente forte,
sono comunque, nei Canti, tutt’altro che inconsuete. Esse anzi, soprattutto quando verranno sorrette
dalla forma del vocativo o dell’invocazione, diverranno tipiche dell’arte del poeta. Va tuttavia
sottolineato che esse non nascono ex abrupto, ma che piuttosto, vengono sempre preparate da quel
tessuto ragionativo che resta uno degli elementi costitutivi della poesia del recanatese, tessuto che a
torto si è voluto espungere come impoetico.

Il sentimento dell’indefinito e dell’io liricamente tragico:

È noto come la poesia dell’indefinito, dell’indeterminatezza lirica, dei vasti silenzi in


cui sembra adagiarsi il respiro dell’animo siano caratteristiche del Leopardi maturo,
del poeta dei migliori “idilli” e, soprattutto, dei cosiddetti canti pisano-recanatesi. E
tuttavia questi accenti dagli sviluppi tanto travolgenti non mancano neppure nelle
canzoni, alcune delle quali, persino programmaticamente, si aprono appunto a tali
esisti nonostante il loro impianto tradizionale (sia in senso ritmico-sintattico, sia per
le scelte lessicali). Questo sentimento dell’indefinito, del quale l’“io lirico” emerge
con risolutezza, noi lo sentiamo, per la prima volta con prepotenza, nell’Ultimo canto
di Saffo. Ivi si può sentire il suo ideale di poetica e di poesia, che proprio “l’incerto e
lontano, e ardito, e inusitato, e indefinito, e pellegrino” insito in questi versi conferiva
loro quel “vago che sarà sempre in sommo pregio appresso chiunque conosce la vera
natura della poesia”. Osserviamo comunque, che per prima cosa, una poesia cosiffatta
tende intenzionalmente come a colpire i “sensi” del lettore onde sommuoverlo nel
profondo (e di qui naturalmente la centralità della cosiddetta “teoria del piacere”
nell’esperienza poetica leopardiana) e, in secondo luogo, che è interessante che
questo primo nucleo della poetica del vago e dell’indefinito appaia in postilla a un
componimento che, per tanti aspetti è costituito sul modello del carme elegiaco più
che nelle forme dell’ “idillio” o , altrimenti detto, nelle forme delle “avventure
storiche” dell’animo del poeta. Ciò che insomma è notevole è proprio l’ambiguità
strutturale per la quale l’ultima canzone, pur riassumendo l’esperienza delle sorelle
che la precedono. Fa emergere il nuovo Leopardi dell’“io lirico”, lo stesso Leopardi
che aveva scritto l’infinito.

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