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SOMMARIO
RINGRAZIAMENTI
Questo paragrafo era sulla fascetta pubblicitaria della prima antologia rilegata
di Lansdale (By Bizarre Hands del 1989, curata da Mark V. Ziesing), ma
costituiva solo parte di essa. Joe Lansdale è anche una delle promesse più
interessanti della narrativa moderna, un grande talento in attesa di sfondare.
Dopo avere pubblicato su riviste "minori" come Last Wave, Modern Stories e
Hardboiled, Lansdale si qualificò tra i professionisti già un paio d'anni fa. Si
dedica con altrettanta passione e prolificità alla stesura di romanzi gialli (Cold in
July, di cui sta preparando una versione cinematografica per il regista John
Irvin), western (The Magic Wagon), fantascienza (Tight Little Stitches in a Dead
Man's Back) e commedie nere (La notte del Drive-in, opera divenuta oggetto di
un culto che si legge come un Joe Bob Briggs ed è all'altezza del Signore delle
mosche).
In questa sede ci interessa particolarmente la produzione di racconti dell'orrore
di Lansdale. Nessuno, ma proprio nessuno, mette a disagio i lettori come lui.
Forse sono le sue formidabili descrizioni a dare l'impressione che sappia
destreggiarsi abilmente con la penna. Forse è la violenza esplicita percepibile tra
le ben note debolezze dei protagonisti. Forse è l'entusiastica passione per il
pessimo gusto. O forse è semplicemente il suo particolare senso dell'umorismo,
comunque resta innegabile che Lansdale è uno dei più divertenti e maliziosi
scrittori americani contemporanei.
Non chiamatelo splatterpunk, però. "Io sono Joe Lansdale e non faccio parte
di alcun movimento" dice. "Ovviamente mi piace che si faccia pubblicità per i
miei lavori, ma non sono uno splatterpunk e quest'etichetta non mi va. Io sono la
mia etichetta."
E sia. I numerosi talenti e la varietà dei generi stanno a indicare che siamo in
presenza di un autore che non può essere descritto con un unico termine.
Tuttavia Lansdale di quando in quando scrive racconti classificabili come
splatterpunk, categoria nella quale ricade senz'altro il qui presente. Il racconto,
insignito del Premio Bram Stoker, è uno dei più duri della presente antologia.
Sotto un'incredibile superficie d'impatto si nasconde un profondo rigetto del
razzismo, della discriminazione sessuale e della più banale stupidità.
Anche se Lansdale rifiuta l'etichetta, il racconto che segue è uno dei pochi
altari davanti a cui tutti i veri splatterpunk s'inchinano.
Clive Barker comparve dal nulla nel 1984 con i tre volumi I libri di sangue di
Clive Barker. I tre tomi, originariamente concepiti come un volume unico, sono
scritti in una prosa grafica, intensa ed esplicita in campo sessuale e dimostrano
come l'Autore, dopo avere assimilato tutta la narrativa dell'orrore precedente,
sferri un attacco frontale allo status quo. La tattica di Barker è improntata alla
semplicità: nulla è specificato, tutto è possibile.
I Libri di sangue, in cui a elementi stilistici del cinema di David Cronenberg,
Dario Argento e George Romero si fondono influssi letterari da Ramsey
Campbell, Graham Greene e riviste sadomaso, costituiscono le fondamenta su
cui Barker in seguito edificò un impero solitario (con altri tre volumi della serie,
romanzi come Il mondo nel tappeto, Cabal, Gioco dannato e Il grande
spettacolo segreto, numerosi adattamenti di fumetti e film quali Hellraiser e
Cabal che l'Autore scrisse e diresse).
Dal 1984 questo affascinante e loquace personaggio — che somiglia
fisicamente a Paul McCartney — ha raggiunto apici di vendite pari a quelli dei
grandi James Herbert e Stephen King. Per la sua grande maestria, la fantasia
iperallucinata e la particolare abilità a descrivere gli eccessi del sesso e della
violenza, Barker resta il punto di riferimento fisso per un gruppo di scrittori
affini. Stranamente la produzione di Barker è divisibile in due categorie proprio
come quella del compatriota Graham Greene: intrattenimento da un lato e opere
serie dall'altro (esito a usare il termine arte; anche Greene del resto si serve delle
etichette "intrattenimento" e "romanzi"). Per trovare un'opera seria si rimanda il
lettore a "Sulle colline, la Città", un racconto nello stile di Borges che narra di
lotte tra paesi diversi munito da Barker di un'accurata struttura portante che
sostiene l'aspetto fantastico.
Poi ci sono i divertimenti come il racconto di che qui presentiamo.
Qui le tecniche cinematografiche splatterpunk sono utilizzale con qualche
elemento mitologico tratto dai "grandi antichi" di H.P. Lovecraft. Il risultato è
una satira piuttosto pesante nei confronti della paura che i cittadini di New York
nutrono costantemente nei confronti della propria rete di trasporti metropolitani.
Attenzione però, perché le prossime pagine sono alquanto... sanguinolente. Per
scriverle Barker deve avere studiato a fondo l'anatomia dal libro di Gray. E
infine "Macelleria mobile di mezzanotte" ha anche una funzione storica.
Quest'esercizio carnografico riproduce fedelmente il momento storico in cui,
attraverso l'avvento di Clive Barker, il modello inglese preferito dagli
splatterpunk riesce a sgusciare dal ventre della letteratura tradizionale dell'orrore
dopo averlo squarciato a morsi.
Leon Kaufman ormai non era più nuovo in città, nella Reggia dei Piaceri,
come l'aveva chiamata nei giorni della sua innocenza. Ma allora abitava ad
Atlanta e considerava New York una specie di terra promessa dove era permesso
tutto, qualsiasi cosa.
Ora Kaufman viveva da tre mesi e mezzo nella città dei suoi sogni e la Reggia
dei Piaceri gli sembrava un luogo tutt'altro che piacevole.
Era davvero passata solo una stagione da quando era uscito dal terminal delle
autocorriere di Port Authority e aveva scrutato la Quarantaduesima Strada in
direzione di Broadway? Un intervallo di tempo così breve per perdere tante
illusioni.
Ora si sentiva in imbarazzo per essere stato tanto ingenuo. Sussultava al
ricordo di avere annunciato ad alta voce: "New York, ti amo".
Amore? Mai.
Tutt'al più si era trattato di un'infatuazione.
E ora, dopo essere vissuto per soli tre mesi a contatto con l'oggetto della sua
adorazione, trascorrendo giorni e notti in sua presenza, la città aveva perso ogni
aura di perfezione.
New York era soltanto una città.
L'aveva vista svegliarsi di mattina come una sciattona e togliersi dai denti i
morti ammazzati e spazzolarsi via i suicidi dai capelli aggrovigliati. L'aveva
vista di sera tardi con le sue strade sporche e buie a corteggiare la corruzione
senza provare vergogna. L'aveva osservata nei pomeriggi afosi, indolente e
sgradevole, cieca alle atrocità commesse ogni ora nei suoi vicoli soffocanti.
Quella non era affatto una Reggia delle Delizie.
Generava morte, non piacere.
Tutti i suoi conoscenti erano venuti a contatto con la violenza; faceva parte
della vita. Era quasi considerato chic avere conosciuto qualcuno che fosse morto
di morte violenta. Un modo per dimostrare di essere un abitante di quella città.
Ma Kaufman aveva amato New York da lontano per quasi vent'anni. Ci aveva
pensato durante buona parte della sua vita adulta, non era facile, quindi,
dimenticare quella passione come se non l'avesse mai provata. C'erano ancora
momenti, di mattina presto, prima che cominciassero a farsi sentire le sirene
della polizia, o al crepuscolo, in cui Manhattan era ancora un miracolo.
Per quei momenti, e per amore dei sogni, le dava qualche chance, anche
quando il suo comportamento era ben diverso da quello di una vera signora.
Lei non gli agevolava il compito. Nei pochi mesi in cui Kaufman aveva vis-
suto a New York, le sue strade si erano spesso macchiate di sangue.
Anzi, più che le strade, le gallerie sottostanti.
Dappertutto si parlava di "Assassinii in metropolitana". Soltanto la settimana
precedente c'erano stati altri tre morti. I cadaveri erano stati rinvenuti in una
carrozza della metropolitana dell'AVENUE OF THE AMERICAS, sventrati a
colpi di mannaia e in parte sbudellati quasi fosse stata l'opera di un esperto
macellaio interrotta all'improvviso. Il lavoro era stato compiuto in modo
talmente professionale che la polizia aveva deciso di concentrare le ricerche
sugli elementi sospetti del mondo dei macellai. Venivano tenuti sotto controllo
gli impianti di lavorazione della carne nella zona del porto e i macelli subivano
accurate perlustrazioni. Alla promessa di una rapida soluzione dei casi non fece
seguito alcun arresto.
L'ultimo terzetto di cadaveri non era però il primo a essere rinvenuto in quello
stato. Proprio il giorno che Kaufman era arrivato in città sul Times era stato
pubblicato un servizio di cui tutte le segretarie dell'ufficio che avevano un po' di
gusto del macabro continuavano a parlare.
Secondo il giornalista un turista tedesco, smarritosi nella rete metropolitana di
sera tardi, aveva trovato un cadavere a bordo di un convoglio. La vittima era
un'attraente donna trentenne di Brooklyn. Era stata completamente denudata,
compresi tutti i gioielli, perfino gli orecchini.
Ancora più sorprendente dell'assassinio era l'ordine maniacale con cui i vestiti
erano stati ripiegati e sistemati singolarmente in buste di plastica impilate in
bell'ordine sul sedile accanto al cadavere.
Non si trattava dell'opera di un maniaco. Quello era frutto di una mente lucida:
di un lunatico con uno spiccato senso dell'ordine.
Inoltre, ancora più bizzarro del ripiegamento dei vestiti, era stato ritenuto lo
scempio perpetrato sul cadavere. In base al rapporto, ma il Comando distrettuale
di Polizia non era stato in grado di confermarlo, il corpo era stato
meticolosamente depilato, ovvero privato di ogni pelo, dai capelli al pelo pubico,
ai peli ascellari; tutto era stato rasato fino a scorticare la pelle. Erano perfino
state depilate le sopracciglia e le ciglia.
Questo pezzo di carne così conciato era stato appeso per i piedi a uno dei
sostegni sospesi dal soffitto della vettura sopra un secchio di plastica nero
foderato da un sacco di plastica nero in cui raccogliere il sangue che defluiva
dalle ferite.
In questo stato — nudo, rasato, appeso e praticamente dissanguato — era stato
rinvenuto il cadavere di Loretta Dyer.
Era disgustoso, meticoloso e terribilmente sconcertante.
Non erano stati riscontrati segni di violenza carnale o di sevizie. La donna era
stata eliminata in modo rapido ed efficiente come se fosse un pezzo di carne
qualsiasi. E il macellaio era tuttora a piede libero.
I padri della città, nella loro grande saggezza, avevano decretato il più totale
silenzio stampa. Si diceva che l'uomo che aveva scoperto il cadavere si trovasse
in un luogo sicuro nel New Jersey, fuori dalla portata dei giornalisti curiosi. Ma
si era verificata qualche fuga di notizie. Un poliziotto avido di denaro aveva
spiattellato i particolari più importanti a un giornalista del Times. Ora tutti i
newyorkesi conoscevano l'orribile resoconto degli omicidi. Se ne parlava nelle
tavole calde e nei bar e, ovviamente, sulla metropolitana.
Ma Loretta Dyer non era stata che la prima di una lunga serie.
Ora erano stati trovati altri tre cadaveri in circostanze identiche. In questo caso
il macellaio era evidentemente stato interrotto. Non tutti i corpi erano stati rasati
e non erano state incise le giugulari per dissanguarli. C'era inoltre un'altra
differenza importante: a scoprirli non era stato un turista, ma un giornalista del
New York Times.
Kaufman lesse l'articolo che occupava tutta la prima pagina del quotidiano.
Non nutriva un interesse morboso per quella vicenda come il suo vicino di
sgabello al banco della tavola calda. Avvertiva soltanto un vago senso di
disgusto che gli suggerì di non finire la sua porzione di uova stracotte. Era solo
un'ennesima dimostrazione della decadenza della città, un fenomeno perverso
che non poteva piacergli.
Tuttavia, poiché era un essere umano, non riusciva a ignorare del tutto i
particolari raccapriccianti della vicenda. L'articolo era stato scritto senza enfasi
particolare, ma la chiarezza della forma contribuiva soltanto a rendere più
spaventoso l'argomento. Non riusciva a fare a meno di pensare all'uomo che si
nascondeva dietro tali atrocità. Si trattava di un pazzo solitario o di diversi pazzi
animati da uno spirito di emulazione? Forse era soltanto l'inizio di una storia
truce. Forse sarebbero seguiti altri omicidi fino a quando l'ultimo boia, in preda
all'esaltazione o alla spossatezza, avrebbe commesso qualche errore e sarebbe
stato catturato. Fino a quel momento l'adorata città di Kaufman avrebbe vissuto
sospesa tra estasi e isterismo.
Un uomo con la barba che gli sedeva accanto rovesciò il suo caffè.
— Merda! — esclamò.
Kaufman si spostò per evitare il rivolo di caffè che colava giù dal banco.
— Merda — ripeté l'uomo.
— Non fa niente — lo tranquillizzò Kaufman.
Osservò lo sconosciuto con un'espressione di leggero disgusto. L'idiota stava
tentando di asciugare il caffè con un tovagliolo di carta che gli si scioglieva tra le
dita.
Kaufman si chiese se quello scimmione con le guance floride e la barba
incolta sarebbe stato in grado di commettere un omicidio. Nel viso grasso, nella
forma della testa o nel movimento dei piccoli occhi c'era qualche prova che
tradisse la sua vera natura?
L'uomo parlò.
— Ne vuole un altro?
Kaufman scosse il capo.
— Un nero liscio — riprese l'uomo rivolgendosi alla cameriera. Lei rispose
con uno sguardo interrogativo. Stava pulendo una griglia unta.
— Eeh?
— Un caffè. Sei sorda? L'uomo sorrise a Kaufman.
— È sorda — ripeté.
Kaufman notò che gli mancavano tre denti.
— Brutta storia, eh? — riprese ancora l'uomo.
A che cosa si riferiva? Al caffè? Ai denti mancanti?
— Tre morti così conciati.
Kaufman annuì.
— Fa pensare — disse.
— Già.
— Per me non ci hanno raccontato la verità. La polizia deve sapere chi è stato.
Che conversazione assurda, pensò Kaufman. Si sfilò gli occhiali e se li mise in
tasca: la faccia barbuta non era più a fuoco. Già meglio.
— Bastardi — esclamò l'uomo. — Maledetti bastardi tutti quanti. Scom-
metterei qualsiasi cosa che è una copertura.
— Di che cosa?
— Hanno le prove ma ci tengono all'oscuro. Là fuori c'è qualcosa di mo-
struoso.
Kaufman capì. Lo scimmione tentava di sostenere la teoria di un complotto.
Le aveva sentite così spesso. Una sorta di panacea.
— Con tutti gli esperimenti che fanno in genetica una volta o l'altra
sbaglieranno di certo. A quanto ne sappiamo magari stanno allevando mostri.
Laggiù c'è qualcosa e non vogliono dirci che cos'è. Copertura, come dicevo. Ci
scommetterei qualsiasi cosa.
Kaufman era affascinato dalla convinzione di quell'uomo. Mostri in agguato.
Sei teste, dodici occhi. Perché no?
Sapeva perché no. Perché doveva difendere la sua città, doveva scagionarla. E
in cuor suo Kaufman credeva che i mostri che vivevano nelle gallerie sotterranee
fossero perfettamente umani.
Il barbuto sbatté sul tavolo dei soldi e si alzò facendo scivolare il suo grasso
didietro dallo sgabello in plastica macchiato.
— Probabilmente è proprio un piedipiatti — disse congedandosi. — Volevano
produrre un eroe e invece hanno creato un mostro. — Sul suo volto si dipinse
una smorfia grottesca. — Ci scommetterei qualsiasi cosa — ripeté, quindi uscì
senza dire altro.
Kaufman tirò un sospiro avvertendo che la tensione si allentava.
Odiava quel genere d'incontri che lo facevano sentire impacciato e incapace.
Pensandoci bene odiava quel tipo di persona: i bruti intransigenti che a New
York proliferano così bene.
Alle undici Kaufman non aveva ancora finito e l'ora in cui aveva deciso di
staccare era passata da un'ora. Ma l'esasperazione e la noia gli rendevano più
difficile il lavoro e le colonne di cifre cominciavano a confonderglisi davanti agli
occhi. Alle undici e dieci buttò la penna sulla scrivania e si dichiarò sconfitto. Si
strofinò gli occhi rossi con le parti interne dei polsi fino a vedere striature di tutti
i colori.
— Vaffanculo — esclamò.
Non diceva mai parolacce in pubblico, ma trovava gratificante poter dire
vaffanculo tra sé una volta ogni tanto. Uscì dall'ufficio con il soprabito umido sul
braccio e si diresse verso l'ascensore. Aveva le membra stanche e riusciva a
malapena a tenere aperti gli occhi.
Fuori faceva più freddo di quanto si fosse aspettato e l'aria fresca lo svegliò un
poco. Raggiunse la fermata della metropolitana sulla 34esima Strada. Un
espresso per Far Rockaway. Sarebbe stato a casa in tempo di un'ora.
Alle undici e un quarto Kaufman salì a bordo dell'espresso che proseguiva fino
a Mott Avenue. Nella sua carrozza c'erano altri due passeggeri. Una donna di
colore di mezza età che indossava una giacca viola e un ragazzo dalla pelle
acneica con lo sguardo fisso sulla scritta "mangiami il culo" e gli occhi spiritati.
Kaufman si trovava a bordo della prima carrozza. Aveva davanti a sé un
viaggio della durata di trentacinque minuti. Lasciò calare le palpebre sugli occhi
cullato dal rumore ritmico del treno. Era un viaggio noioso e si sentiva stanco.
Non vide che le luci della seconda carrozza si spegnevano né scorse il volto di
Mahogany affacciato alla finestrella in fondo alla carrozza in cerca di altra carne.
Alla 14esima Strada scese la donna di colore. Non salì nessuno.
Kaufman socchiuse brevemente gli occhi e lanciò uno sguardo al marciapiede
deserto, poi tornò a dormicchiare. Le porte si chiusero con un sibilo. Si sentì
sospeso in quella zona tiepida tra il sonno e la veglia e alla sua mente cominciò
ad affacciarsi un abbozzo di sogno. Era una sensazione piacevole. Il convoglio
ripartì e si tuffò rumoreggiando nella galleria.
Forse nel subconscio Kaufman si accorse che la porta tra la prima e la seconda
carrozza era stata aperta. Forse avvertì l'improvviso odore di galleria e si rese
conto che il rumore delle ruote per un attimo si era fatto più forte. Ma decise di
non badarci.
Forse sentì perfino il tafferuglio quando Mahogany sopraffece il ragazzo dagli
occhi spiritati. Ma il rumore era troppo distante e la promessa del sonno lo
tentava. Continuò a sonnecchiare.
Per qualche strano motivo sognò sua madre. Vide che sorrideva dolcemente e
tagliava rape in cucina. Nel sogno lui era piccolo e osservava dal basso il volto
sereno di lei che lavorava. Zac. Zac. Zac.
Riaprì gli occhi di soprassalto. Sua madre svanì. La carrozza era deserta, il
ragazzo sparito.
Per quanto tempo aveva dormito? Non ricordava la fermata della Quarta
Strada Ovest. Si alzò tutto assonnato e perse quasi l'equilibrio per un sobbalzo
del treno. Sembrava avanzare a una velocità notevole. Forse il conducente non
vedeva l'ora di tornare a casa e di cacciarsi sotto le coperte con la moglie.
Correvano da matti, tanto che si sentì terrorizzato.
Sulla finestra tra le carrozze qualcuno aveva tirato una tenda che prima era
stata aperta, se ne ricordava bene. Si preoccupò un po'. Magari aveva dormito a
lungo e gli addetti al controllo non si erano accorti di lui? Forse la fermata di Far
Rockaway era già passata e il treno era diretto verso il deposito dove lo tenevano
durante la notte?
— Vaffanculo — esclamò ad alta voce.
Doveva andare a informarsi dal conducente? Gli sembrava così stupido dover
chiedere: dove siamo? A quell'ora della notte magari era probabile che gli
rispondesse con una sfilza d'insulti...
Poi il convoglio cominciò a rallentare.
Una fermata. Sì, una fermata. Il treno sbucò dalla galleria e Kaufman scorse la
luce fioca della fermata sulla Quarta Strada Ovest. Non aveva perso nessuna
fermata.
Dov'era andato allora il ragazzo?
O aveva infranto la regola esposta sulla parete in base alla quale era vietato
passare da una carrozza all'altra mentre il treno era in marcia o era andato nella
cabina del conducente. Probabilmente in quell'istante era tra le gambe del
conducente, pensò Kaufman arricciando il labbro. Non sarebbe stata la prima
volta. In fondo quella era la Reggia delle Delizie e tutti avevano il diritto a un po'
d'amore al buio.
Kaufman si strinse nelle spalle. Che cosa gliene importava, di dove fosse
andato il ragazzo?
Le porte si chiusero. Nessuno era salito. Il treno ripartì sferragliando e le luci
si abbassarono; per raggiungere una certa velocità c'era bisogno di più energia.
Kaufman avvertì di nuovo il desiderio di dormire ma l'improvvisa paura di
essersi perso gli aveva fatto entrare troppa adrenalina nel sistema e lo rendeva
nervoso.
Aveva anche i sensi più svegli.
Nonostante lo stridio delle ruote sui binari sentì il rumore di una stoffa che
veniva lacerata nella carrozza vicina. Che qualcuno si stesse strappando la
camicia di dosso?
Si alzò afferrando uno dei sostegni sospesi dal soffitto per non perdere
l'equilibrio.
Il finestrino tra le due carrozze era completamente oscurato, ma lui lo guardò
lo stesso corrugando la fronte quasi si aspettasse di riuscire a perforarlo con lo
sguardo. Il convoglio avanzava ondeggiando. Ora correva di nuovo.
Un altro rumore di qualcosa che veniva strappato.
Magari uno stupro?
Spinto da un'improvvisa curiosità attraversò la carrozza in movimento fino a
raggiungere l'estremità nella speranza che la tenda che gli impediva la visuale
fosse lievemente spostata. Continuava a osservare il finestrino tanto che non
notò le macchie di sangue che aveva calpestato. Finché...
...scivolò. Abbassò lo sguardo. Vide il sangue quasi prima con lo stomaco che
con gli occhi della mente e il panino integrale al prosciutto gli tornò
praticamente in bocca. Sangue. Aspirò diverse boccate di aria viziata e distolse
lo sguardo... tornò a scrutare il finestrino.
Continuava a pensare sangue. Niente riusciva a togliergli di mente quel
pensiero.
Ormai solo uno o due metri lo separavano dalla porta in fondo alla carrozza.
Doveva guardare. Aveva la scarpa macchiata di sangue e una striscia arrivava
fino alla porta, egualmente doveva guardare.
Non poteva farne a meno.
Mosse ancora due passi fino alla porta ed esaminò attentamente la tenda in
cerca di un difetto della stoffa: sarebbe bastato un filo tirato. Trovò un forellino.
Vi incollò l'occhio.
Il suo cervello si rifiutò di accettare quello che gli occhi videro nell'altra
carrozza. Gli sembrava assurdo, un'immagine inventata. La ragione gli suggeriva
che non poteva essere reale ma il corpo sapeva che lo era. S'irrigidì terrorizzato.
Gli occhi non volevano chiudersi su quella scena raccapricciante. Stette a
guardare mentre il treno avanzava sferragliando, il sangue gli defluì dalle
estremità e la testa prese a girargli per mancanza di ossigeno. Luci violente lo
abbagliarono impedendogli la vista su quell'atrocità.
Poi svenne.
Era privo di conoscenza quando il treno si fermò in Jay Street. Non sentì
l'annuncio del conducente che avvertiva i passeggeri di cambiare treno per
proseguire. Del resto se l'avesse sentito sarebbe rimasto sorpreso. Nessun treno
terminava la corsa in Jay Street; la linea proseguiva fino a Mott Avenue
passando dalla pista dell'Acquedotto e dall'aeroporto J.F.K. Si sarebbe chiesto
che razza di treno fosse quello. Ma lo sapeva già. La risposta l'aveva vista
penzolare nella carrozza seguente. La verità gli aveva sorriso soddisfatta da
dietro una cotta di maglia insanguinata.
Quello era il Convoglio di Mezzanotte.
Il conducente lo svegliò. Aprì gli occhi. Il viso che lo guardava era nero, non
ostile. Sorrideva. Kaufman tentò di dire qualcosa, ma aveva la bocca incollata
dal sangue rappreso. Scosse concitatamente il capo tentando di sputare una
parola. Ma produsse soltanto gemiti.
Non era morto dissanguato.
Il conducente lo sollevò e gli parlò come si parla a un bimbo di tre anni.
— Hai un lavoro, amico: sono molto contenti di te.
Il conducente si era inumidito di saliva le dita e le strofinava sulle labbra di
Kaufman tentando di sciogliere il sangue rappreso.
— Hai molto da imparare, prima di domani sera...
Molto da imparare. Molto da imparare.
Condusse Kaufman fuori dalla carrozza. Si trovavano a una fermata che non
aveva mai visto. Era piastrellata di bianco e assolutamente immacolata. Il
Nirvana degli addetti alle pulizie della metropolitana. Le pareti non erano
insudiciate da scritte. Non c'erano cancelli automatici, ma non c'erano nemmeno
passeggeri. Quella linea espletava un solo servizio: Il convoglio di mezzanotte.
Una squadra di addetti stava già pulendo il sangue dai sedili e dal pavimento
della carrozza. Qualcuno spogliava il cadavere del macellaio per prepararlo al
trasporto nel New Jersey. Tutt'attorno a Kaufman c'era gente che lavorava.
Da una grata sul soffitto filtravano fasci di luce dell'alba. Nella luce danzavano
particelle di polvere. Kaufman stette a guardare affascinato. Non aveva visto
nulla di simile fin da quando era stato bambino. Meravigliosa polvere. Sempre
uguale, eterna.
Il conducente intanto era riuscito a scollargli le labbra. La ferita era troppo
grave perché potesse muovere la bocca, ma così almeno riusciva a respirare
meglio. E il dolore stava già diminuendo.
Il conducente gli sorrise, poi si rivolse agli altri addetti.
— Vorrei presentarvi il sostituto di Mahogany. Il nostro nuovo macellaio —
annunciò.
Gli altri lo guardarono. Sembravano deferenti. Kaufman ne fu sconcertato.
Alzò lo sguardo verso la luce del sole che ora inondava la stazione. Fece un
cenno con il capo per indicare che voleva salire in superficie, all'aria fresca. Il
conducente annuì e lo condusse su per una scala ripida, attraverso un passaggio e
poi all'aperto.
Era una giornata splendida. Il cielo luminoso sopra New York era striato di
sottili nubi rosa e l'aria aveva l'odore del mattino.
Strade e viali erano praticamente deserti. In lontananza qualche taxi at-
traversava ogni tanto un incrocio; il motore era come un ronzio sommesso. Un
corridore passò tutto sudato sul marciapiede opposto.
Ben presto quelle stesse strade deserte si sarebbero riempite di gente. La città
ignara si sarebbe dedicata alle proprie occupazioni abituali: non avrebbe mai
saputo su che cosa era stata edificata o a che cosa doveva la propria esistenza.
Senza esitare Kaufman cadde in ginocchio e baciò l'asfalto sudicio con le labbra
insanguinate tacitamente giurando eterna fedeltà al segreto.
La Reggia delle Delizie accettò senza convenevoli quel gesto di adorazione.
John Skipp è metà della coppia di scrittori dell'orrore Skipp e (Craig) Spector,
specialisti del ritmo splatterpunk perché sono stati i primi a introdurre in questo
genere l'elemento più tipico, il rock 'n' roll. Skipp e Spector sono noti membri di
The Splat Pack e di norma scrivono a quattro mani; inoltre sono musicisti e
inseriscono nei loro lavori gli elementi migliori della cultura rock: l'energia e il
confronto. In opere quali Maledizione fatale (Vampiri sulla metropolitana) del
1986, The Scream (il rock è proprio una musica diabolica) del 1988 e nel Book of
the Dead (la migliore antologia sugli zombie) del 1989, la prosa di Skipp e
Spector procede a ritmo serrato. La loro narrativa è cadenzata, cinematica e
socialmente impegnata e si occupa dei temi più svariati, dall'incubo urbano alla
recente (e tuttora reale) negazione delle libertà personali in America.
Skipp e Spector — meglio noti come I ragazzi — sono inoltre gli splatterpunk
più appassionati. Quello che scrivono viene direttamente dal cuore, dagli sbalzi
di umore e dalle loro teste matte; fortunatamente hanno cervelli ed emozioni che
funzionano all'unisono. Ecco per esempio come Skipp descrive lo spirito
splatterpunk — il brano è tratto dall'articolo di Jessie Horsting comparso su
Midnight Graffiti nel 1988 e intitolato "Lo Splat Pack: i giovani autori dell'orrore
vuotano le budelle":
La tematica del fannullone viene affrontata in modo diretto nel racconto che
segue, un raro assolo di John Skipp che volge uno sguardo scuro e adirato alla
sindrome della moglie abusata. Ma quel che è più importante è che "Film alle
undici" costituisce una risposta seria all'accusa di misoginia spesso mossa agli
splatterpunk.
Nel suo articolo peraltro durissimo "Waiting for the Barbarians" (In attesa dei
barbari) comparso sul numero invernale del 1989 di Journal Wired, Lucius
Shepard purtroppo si associa a tali critiche scontate affermando che gli
splatterpunk dovrebbero "smetterla di sgozzare donne dal seno troppo
prosperoso e preoccuparsi invece di tagliare quelle gole che meritano di essere
tagliate."
In questo racconto le gole tagliate sono certamente quelle giuste.
Ma, come sottolinea ironicamente Skipp, dove e quando si cessa di sgozzare?
17 giugno
La prima parte della sua vita non era stata male. Papà era direttore delle
vendite della York Caterpillar e guadagnava cinquantamila dollari l'anno.
Mamma era immersa fino ai suoi stupidi capelli vaporosi nei club di giar-
dinaggio e nelle attività della chiesa. Le avevano voluto abbastanza bene,
mantenendosi però sempre a una certa distanza. Le avevano insegnato a
comportarsi bene, a essere obbediente, pulita e, soprattutto, a sorridere sempre.
Il profitto scolastico di Dottie era sempre stato mediocre, non molto buono,
ma nemmeno particolarmente scarso. Intelligenza ne aveva, ma faticava a
trovare l'entusiasmo. La cosa più importante era riuscire a essere carina, non
smuovere le acque e sorridere sempre. C'erano sempre amici e c'erano feste, e
prima o poi sarebbe anche comparso un uomo che si sarebbe preso cura di lei
con stile.
Ma poi, circa un anno dopo la maturità, le droghe leggere avevano preso
piede; il tempo aveva cominciato a scivolare su un sentiero bagnato di vino da
quattro soldi, carissima neve colombiana e giochi. Erano i primi anni settanta e
la potente controcultura del decennio precedente era esplosa. La ribellione della
classe media, sesso, droga e rock 'n' roll, non era che un resto archeologico ma i
nobili valori erano scomparsi, morti e sepolti o proiettati nello strato di ozono.
Era un'epoca vuota per gli americani bianchi: e mentre alcuni rimediarono alla
situazione con un nuovo e coraggioso cinismo, tutti quelli come Dottie si
abbandonarono alla mediocrità senza avere la più pallida idea di che cosa stesse
accadendo. Fingi. Vai in giro. Non ti preoccupi del domani, tutto si risolve da sé.
Non ha senso costruire. Dammi solo un'altra dose.
I suoi genitori reagirono buttandola fuori di casa dopo i torcimenti di mani e le
grida d'uso. Negli anni che seguirono percorse a ritroso i passi del padre
vendendo pretzels, scarpe colorate e gli ultimi grandi poster, passando da un
grande magazzino all'altro. Le luci si spegnevano, e così pure la sua anima;
benché si sentisse rodere da una costante insoddisfazione, la vita andava avanti.
Quando conobbe il suo unico grande amore aveva quasi ventisette anni. Lui si
chiamava Barry Strasbaugh, era alto e magro e aveva un naso che somigliava a
un grande cetriolo sottaceto; ma con lei era dolce e poi aveva un impiego fisso
ed era certa che non avesse altre donne.
Il fatto più importante era che non aveva tentato di farla cambiare. L'aveva
presa per quella che era. Questo era il dono più grande.
Lei l'aveva accettato e in cambio gli aveva dato tutto il suo amore.
Era seguito un anno di relativa felicità e il sogno non si era infranto che dopo
il matrimonio, quando, incinta da circa cinque mesi, aveva deciso per la prima
volta di tenere il figlio. Allora non era riuscita a trattenersi dal bere, fumare e
imbottirsi di pastiglie, e lui aveva cominciato a perdere la pazienza. Il fatto che
lui non fosse costretto a cambiare nulla delle sue abitudini non gli era parso
importante. In fondo era lei, a essere incinta.
Quando nacque Nichole, Barry strillava sempre e Dottie aveva fatto un passo
importante: aveva cominciato a bere tequila, vodka e gin. La piccola Nikki era
davvero minuscola — nata di otto mesi, pesava meno di due chili e mezzo — i
medici erano stati incerti sulla sua sopravvivenza. Tuttavia, dopo tre settimane in
ospedale senza alcuna assicurazione, devastanti dal punto di vista finanziario, la
loro bambina fu messa in libertà nel mondo del dolore.
Barry fu gentile ad aspettare che nascesse la bambina prima di cominciare a
malmenare Dottie. A quel punto non aveva altro da fare. Non che la situazione
migliorasse, ma perlomeno aveva trovato un modo per tenere occupate le mani
quando non era impegnato a bere, giocare a carte con gli amici o collaudare carri
armati alla Bowen-McLaughlin.
Il matrimonio resistette per quasi tre anni. In quel periodo lei finì all'ospedale
sette volte: due lievi commozioni cerebrali, una leggermente più grave, una
costola fratturata, una brutta distorsione alla caviglia, un'ulcera gastrica e un
ricovero piuttosto lungo al Three Northeast, il reparto psichiatrico dell'ospedale
di York. Fu durante questo soggiorno che Barry levò le tende una volta per tutte
imponendo la presenza malaticcia di Nikki ai pazienti genitori di Dottie.
Sotto le cure esperte del dottor Himmler (un nome che davvero non gli si
addiceva) Dottie trascorse sei settimane d'inferno. Ricordava poco o nulla della
degenza, solo qualche flash che poteva benissimo avere sognato. Ricordava
lunghe serie di domande e risposte prive di senso. Ricordava riunioni
all'Alcolisti Anonimi e incontri con sacerdoti. Ricordava che le avevano
praticato iniezioni nei piedi. Ricordava diversi luoghi strani: una bidonville in
cui venivano ricostruite le porte distrutte, una stanza in cui molti giovani si
muovevano disordinatamente, un ambiente contraddistinto da pareti bianche e da
un moto ondoso continuo. Ricordava di essersi svegliata con un dolore acuto al
retto e poi il vuoto.
Alla fine le era stato diagnosticato un disturbo mentale irregolare. Non era
stata una bella notizia. Ma il dottor Himmler aveva trovato la soluzione ideale
per lei: altri farmaci. Le aveva inoltre fatto assegnare il sussidio di
disoccupazione attraverso il centro di Igiene Mentale della Pennsylvania che
copriva tutte le spese di alloggio, vitto, medicine e visite mediche. Quando era
uscita dall'ospedale era stata in uno stato mentale passivo, libera da ogni brutta
abitudine a parte il fumo e incapace di concentrarsi per più di tre minuti alla
volta.
Col tempo tutto passa, e il tempo di Dottie sembrava dilatarsi all'infinito.
Quando sei mesi dopo riprese a bere e a pensare, nessuno rimase particolarmente
sorpreso. Pur non riuscendo a trovare un lavoro fisso o a mantenerlo quando lo
trovava, una serie di lavori neri di pulizia le permise di continuare a bere
margarite e a comperare ogni tanto un vestito per Nikki. Per qualche tempo la
vita le parve di nuovo quasi sopportabile.
E poi, una sera alla Gaslight Tavern, conobbe Dale. E l'Inferno riprese
davvero...
20 luglio
cara oprah,
è passato un po' di tempo da quando ti ho scritto, intanto le cose sono molto
peggiorate, a volte dale prende fino a dodici percodan in un colpo e quando non
mi picchia è a letto svenuto, è stato licenziato dalla borg warner e i soldi che
prendo dallo stato non bastano per mantenerci tutti, qualche volta cerca di
scroccare soldi a qualcuno, ma i suoi parenti e amici l'hanno abbandonato da
tempo, proprio come i miei, non è strano, è solo difficile.
sto pensando a qualcosa di importante da scrivere, qualcosa della mia storia
che sia diverso da tutte le storie tristi che senti, ma non ci riesco, se avessi
qualcosa di particolare forse non sarei così incasinata.
no, forse mi sbaglio, sto qui a scriverti e d'un tratto ho capito, non sono una
persona qualsiasi perché la gente qualsiasi non cade così in basso, io sono molto
particolare in un senso strano, sono uno sbaglio di dio. sono il casino più
incasinato del mondo.
tutti hanno un angelo custode, capisci? e vivono la loro vita e ogni volta che
sono sul punto di precipitare lui li salva, li aiuta, ti carezza sulla testa e dice è
tutto a posto, dottie, hai fatto qualche sbaglio ma ti voglio bene lo stesso.
tu di sicuro hai ancora il tuo. è ovvio, ti guardo sullo schermo e capisco che sai
perché esisti, ridi e piangi e fai le domande giuste e riunisci milioni di persone
cinque volte la settimana per aiutarci a ricordare perché dio ci ha creati, e la
vocina dell'angelo che ti dice nell'orecchio: su, vieni, abbiamo da fare!
io il mio angelo l'ho perso e adesso non so cosa fare, mi sembra di essere
andata da una parte e lui dall'altra e quando me ne sono accorta ero in un luogo
selvaggio a migliaia di chilometri da lui e non sapevo come tornare perché non si
può tornare indietro, tutti mi hanno sempre detto che non si torna indietro e io
non posso fare a meno di crederci perché sono completamente persa.
cosa posso pensare? senti, forse si sapeva già dall'inizio che l'avrei perso, forse
ho dato l'esempio di quello che non si deve fare, capisci? mi sento come un
soldato che va in guerra e sa che va a morire e sa che non può tornare indietro e
capisce solo che da qualche parte c'è un quadro più grande e che lui sarà uno dei
particolari, uno dei cadaveri ammucchiati in un angolo di un libro di storia che
qualcuno farà leggere ai suoi figli perché loro non facciano lo stesso sbaglio,
perché non perdano l'angelo e non lo lascino andare via finché non è ora di
morire e poi se ne vola via per sempre, credi che sia così?
io non lo so. a dire il vero forse non lo saprò mai. non riesco a fare a meno di
pensare che se fossi invitata al tuo programma e cinquanta milioni di persone mi
guardassero forse il mio angelo custode mi vedrebbe e tornerebbe da me.
ma non ho avuto il coraggio di mandarti la prima lettera e di sicuro non ti
spedirò neanche questa, a volte penso che non rivedrò il mio angelo custode
finché non muoio e così mi vien voglia di morire prima, capisci?
io no. ho le convulsioni al cervello, come si fa a pensare con le convulsioni al
cervello? forse non ho sbagliato di molto, in fondo, che ne pensi?
un abbraccio, cara oprah, e scusami,
tanti saluti,
dorothy abigail neff.
CONTRASSEGNARE COME: DOCUMENTO B
I preparativi più impegnativi erano stati compiuti per lo più la sera precedente,
prima che Dale arrivasse a casa barcollando e la violentasse e la picchiasse.
Aveva preparato tutto: le montagne di vestiti sparsi in giro, i giornali
scompaginati, la mobilia da quattro soldi e la moquette che costituivano la sua
casa.
Più una cosetta da niente...
Sarebbe stata soprattutto questione di strategia e programmazione. Sì, i tempi
erano essenziali; i tempi e l'acquisto di tre bombolette di gas liquido per
accendini. Poi le restava soltanto da vestirsi.
E da fare una telefonata.
E da portare a termine l'operazione.
S'infilò il prendisole verde e i lisi pantaloni corti che aveva lasciato nel salotto
la sera precedente. Per le scarpe non c'era che l'imbarazzo della scelta vicino alla
porta di casa. Optò per i sandali marron.
Mentre se li infilava si disse Questi sono gli abiti che avrai addosso quando
morirai. Il pensiero non la preoccupava quanto riteneva che avrebbe dovuto.
Buffo. Le tornò in mente Buzz Royer con il suo vestito nero e la ridicola cravatta
a righe e la testa pelata. S'impietosì, ma ben presto ricordò che quell'uomo era
morto come aveva vissuto. Se era stato un pazzo, certamente non si poteva
affermare che non fosse stato coerente: non aveva tentato di cambiare, prima di
andarsene.
Sperava di riuscire a essere almeno altrettanto onesta.
Percorrendo tutta Lehman Street rimase sorpresa di vedere quanto tutto fosse
luminoso. Non solo il sole, che da dieci giorni continuava a bruciare la terra
inaridita raggiungendo temperature da record, ma tutto: il verde e il marrone
brillanti degli alberi e dell'erba, il bianco e il mattone delle case lungo la strada e
le auto e i fiori di tutti i colori, il cielo bianco e azzurro... le pareva che le
avessero tolto uno spesso filtro scuro dagli occhi. Si sentiva quasi euforica.
In fondo alla pizzeria "Jim & Nina" c'era un telefono pubblico. Il grande
condizionatore d'aria sulla parete muoveva inutilmente l'aria di quarantatré gradi,
ma il ronzio che produceva era più che sufficiente a impedire alla cameriera di
ascoltare la conversazione. Dottie estrasse dalla tasca posteriore dei calzoni un
pezzo di carta umidiccia, infilò una moneta nella fessura e compose il numero.
Dopo sette squilli una voce maschile la informò che era collegata con la
segreteria del Canale 8.
— Vorrei segnalare un incendio — annunciò lei.
7 agosto
cara oprah,
se stai leggendo questa mia sono certamente morta, non sentirti in colpa, io
non mi sento in colpa, la morte non può essere molto peggio della vita che ho
vissuto, anzi, ho la sensazione che sarà molto meglio.
volevo solo farti sapere che cosa è successo perché voglio che tu mi capisca,
forse potrai fare un programma senza di me, ma almeno potrai raccontare la mia
storia alla gente e altri non avranno bisogno di ripetere la mia esperienza solo per
far sapere al mondo che non ce la fanno più.
tutto è cominciato ieri mentre guardavo la tele, di mattina guardo sempre il 2
che trasmette da baltimora. alle nove vedo te, poi alle dieci phil donohue (mi è
simpatico, ma meno di te, forse perché non è una donna, a volte mi sembra che
mi parli con sufficienza e per questo mi basta dale.) be', poi alle 11 viene la ruota
della fortuna, pat sajak è fantastico, mi fa morire dal ridere, così guardo fino alle
11:30 e poi di solito si sveglia dale, mangia qualcosa e torna a schiantarsi sul
letto.
ma ieri, proprio quando trasmettevano il giro di premio, hanno interrotto il
programma con un tg speciale, forse l'avrai saputo anche tu. un certo buzz royer
si e sparato in bocca davanti alla tv nazionale a una conferenza stampa, non so se
l'hai visto, io l'ho trovato fantastico.
sai, c'era quel poveraccio e si vedeva che soffriva dentro, credo che l'avevano
beccato che rubava al governo, era tesoriere di stato, o roba simile, be',
comunque si vedeva subito che era nella merda fino al collo.
era lì, dietro un piccolo podio, e d'un tratto ha tirato fuori una pistola da una
busta di carta e tutti si sono messi a gridare e lui se la ficca in bocca e poi senti
un rumore tremendo e lui scompare dietro il podio e poi era tutto finito e non
avevo neanche avuto il tempo di pensarci.
ma sai cosa ho pensato dopo?
ho pensato lo saprei fare anch'io.
era finito così presto, la parte più brutta dev'essere stata la conferenza stampa,
adesso che ci penso, parlare con tutta quella gente come se dopo avrebbe bevuto
qualcosa con loro fingendo di non sapere che era già tutto finito, mancava solo
lo sparo.
per tirare il grilletto gli è bastato un secondo e poi era tutto finito, sai, era
proprio sparito, per questo era finito, e allora ho pensato: se è così facile, perché
non lo faccio anch'io?
il problema è nikki. ma non posso fare a meno di pensare che sarà più felice
con il suo vero padre, o forse con i miei genitori, o magari se qualcuno la adotta,
almeno non dovrà più stare con dale e con me. e almeno saprò di averla messa al
sicuro da dale.
cristo, se tu avessi visto come mi trattava dale quando ci siamo conosciuti, mi
avevano avvertito, ma io non volevo crederci perché mi sembrava tanto un buon
ragazzo, andavamo a bere insieme e alle feste e poi tornavamo a casa e
facevamo l'amore e parlavamo per ore e ore. allora mi ascoltava, credo che fosse
come me, così sconvolto dall'idea che qualcuno potesse volergli bene che
avrebbe dato qualsiasi cosa solo per stare con me. almeno io mi sentivo così.
ma poi, quando è stato sicuro che fossi sua, tutto è cambiato, era come se
avesse paura di stare senza di me, paura che potessi piacere a qualcun altro (ha
ha!), paura che lo lasciassi, e poi ha cominciato a non potere più bere se no
vomitava e a portarsi sempre dietro la boccetta di sciroppo per la tosse, non hai
mai visto uno che se ne sta lì a buttare giù sciroppo per la tosse? prima è
divertente, ma poi capisci che è tremendo.
è come diceva quella dottoressa, questione di avere stima di sé. proprio come
quelli che mangiano troppo, i ladri, gli adulteri e perfino i violentatori e gli
assassini che ho visto nel tuo programma, alla fin fine è sempre lo stesso
problema, se dale avesse stima di sé non se la prenderebbe con me, ma non ne
ha, e credo che la persona che odia di più, dopo di me, è lui, e se solo riuscisse
ad ammetterlo, forse non dovrebbe più odiare nessuno.
ovviamente se io avessi stima di me non lo sopporterei.
forse dovrei dirti che dale faceva il cantante, dicono che era bravo, ma aveva
smesso quando ci siamo conosciuti, diceva che sarebbe diventato famoso, ma
non se ne era mai andato da qui. e dopo ha cominciato a perdere i capelli e gli
faceva male la schiena e credo che si sia stancato e basta, ma qualcosa dev'essere
cambiato da quando ha deciso di smettere, perché tutti dicono che da quel
momento ha cominciato a essere incasinato.
be', comunque, domattina me ne vado seguendo l'esempio del vecchio buzz
royer. dale e tutti gli altri possono cavarsela da soli, non do la colpa a lui o a
qualcun altro, nasci, le cose succedono e prima o poi muori, funziona così.
ti voglio tanto bene, oprah, ti faccio i miei più cari auguri, spero di incontrarti
di là ma dubito che noi due finiremo nello stesso posto, sai cosa dicono del
suicidio, no?
credo però che se quella che sento è la voce del mio angelo, lui mi sta dicendo
che è ora di andare.
ciao.
tanti saluti,
dorothy abigail neff.
CONTRASSEGNARE COME: DOCUMENTO C
...e non erano arrivati, non erano ancora arrivati, era passato quasi un quarto
d'ora e i giornalisti del Canale 8 non erano comparsi. Aveva corso per tre isolati
per rientrare dopo essere stata da "Jim & Nina" e aveva controllato che Dale
stesse ancora dormendo, poi aveva irrorato di gas liquido alcuni punti strategici
della casa. Il primo fiammifero era stato il più difficile da accendere, ma una
volta dato il via sarebbe stato impossibile fermare le fiamme.
Per questo ora in casa faceva un caldo spaventoso.
Per questo sperava ardentemente che arrivassero presto.
Non udì i passi alle proprie spalle finché non fu troppo tardi. Tra lo scoppiettìo
del fuoco e le risate di Oprah Winfrey, non era riuscita a sentire. Una forza la
fece girare prima che potesse pensare di girarsi da sola.
L'illusione che aveva avuto di avere sotto controllo la situazione svanì
all'istante.
Quando il suo ragazzo si mise a gridare...
...quando il camioncino frenò stridendo davanti alla casa. Dottie lo scorse dal
basso. Un'immagine che si faceva spazio a fatica nel nulla. Vide le parole
CANALE 8 sul lato del veicolo, due figure che uscivano di corsa, la vi-
deocamera sulla spalla di una...
...e capì che quello era il momento che aveva tanto atteso, o forse no, non
aveva più la pistola in mano e sentiva in gola qualcosa di duro e tagliente, e la
parte del suo cervello che non era già tormentata da nuovi spasmi avvertì
un'improvvisa sensazione di vuoto quando qualcuno la rimise in piedi e i suoi
occhi tornarono a non vedere nulla...
...e Dale fece due più due. Il risultato non fu quattro, ma molto di più. Per la
prima volta in assoluto pensò che magari Dottie non era proprio scema come
aveva sempre creduto o che aveva voluto fargli credere di essere. Forse aveva
percepito per un istante che cosa ci voleva per diventare famosi.
Dai fuoco alla casa. Vengono i giornalisti.
Muori in pubblico.
È nata una star.
— Fantastico! — esclamò. — Davvero fantastico! Maledetta figlia di puttana.
Mi senti?
Era il suo momento.
Bastava soltanto concludere.
L'aveva trascinata in casa, dove le fiamme aumentavano. Aveva ancora in
mente le belle immagini di lei. Scorse una bomboletta di gas per accendini e la
scena fu completa. Lasciò cadere Dottie.
Raccolse la bomboletta.
La irrorò per benino.
Con un calcio la spinse nel fuoco.
Lei si alzò di scatto incendiandosi. Fece una piroetta e crollò ai suoi piedi. Lui
la voltò con il piede. Il viso era in fiamme; l'unica parte buia era la bocca nera
aperta che gridava. — Aah! — esclamò lui. — Finalmente!
Poi con un calcio la mandò a finire in giardino.
La telecamera riprese tutto. Si soffermò sul corpo in fiamme che arrancava
per terra. La porta si riaprì e l'ometto magro, pelato, pazzo, in mutande bianche
uscì barcollando. Brandiva una pistola, gridava qualcosa che il microfono non
riuscì a captare. Prese la mira e sparò; la pancia incendiata parve esplodere.
Ma il corpo continuava ad avanzare carponi. Ora che era abbastanza vicino
si capiva che era una donna. Tese la mano verso l'obiettivo proiettando lunghe
dita di fuoco. Allora l'uomo sparò ancora e la testa della donna esplose in tanti
frammenti bruciacchiati.
La prospettiva della telecamera si allontanò mentre l'operatore balbettava
cristo, cristo. Troppo tardi. Ora l'uomo correva. Aveva uno sguardo acceso e
strillava trionfante: — EH NO! IO MI CHIAMO DALE SNYDER, E SONO
FAMOSO...!
Poi si mise a cantare puntando la pistola verso l'obiettivo.
La telecamera fu spostata e lui sparò di nuovo.
CONTRASSEGNARE COME: DOCUMENTO D
Due cose:
Quando il dolore sparì, dall'altra parte trovò l'angelo che l'aspettava. La
carezzò sulla testolina e le disse è tutto a posto, Dottie. Hai fallo qualche sbaglio
ma ti voglio bene lo stesso.
Poi la rispedì indietro a riprovarci.
Fino a quando non avesse capito.
E nel frattempo, all'Inferno, alle undici veniva proiettato un film: naturalmente
erano stati praticati numerosi tagli.
Per non spaventare i bambini.
E gli animi docili.
ROSSO
Richard Christian Matheson
Probabilmente l'ha già sentita ripetere così spesso che non ne può più, ad ogni
modo riecco la solita presentazione. Richard Christian Matheson è un ragazzo
fantastico, scrittore prolifico, figlio del leggendario Richard Matheson, maestro
della carta stampata, del cinema e della televisione.
Bene. Detto ciò vediamo che cosa scrive di lui Ellen Datlow, redattrice per la
narrativa dell'Omni Magazine: "Richard Christian Matheson ha uno stile
elegante ma parsimonioso; senza dubbio è il maestro contemporaneo del
racconto breve dell'orrore. Nei suoi racconti l'orrore assale il lettore alle spalle e
continua a lungo a riecheggiare nella sua mente, anche dopo che il racconto è
finito". Tutto questo è verissimo, ma la Datlow si è dimenticata di sottolineare
che R.C. è anche uno dei più dotati scrittori/produttori di Hollywood.
Matheson ha scritto e/o prodotto oltre trecento puntate di programmi televisivi
americani come Simon and Simon, L'incredibile Hulk e Amazing Stories (ed è
autore, consulente letterario e/o regista di oltre venti serie televisive prime-time
tra cui: Quincy, Hunter, Stingray e A-Team). Ma aspettate, c'è di più. Oltre a
lavorare per la televisione R.C. ha ideato e prodotto la versione cinematografica
di diversi testi teatrali per registi del calibro di Steven Spielberg (Three O'clock
High), da cui risulta evidente che è destinato a diventare un personaggio di
rilievo anche nell'industria cinematografica.
Nonostante l'enorme mole di lavoro Matheson riesce a sfornare a ritmo
continuo racconti e narrativa forte, opere esemplari di orrore contemporaneo che
compaiono regolarmente sulla stampa alternativa e tradizionale. Mi chiedo
quando trovi il tempo per dormire. Tra gli appassionati di orrore R.C. è noto
soprattutto per i racconti brevi, molti dei quali riflettono chiaramente i valori
degli splatterpunk. Queste piccole gemme sono scritte in uno stile condensato di
cui non si vedevano esempi validi dagli anni '50 e '60, dai tempi di Fredric
Brown (un altro genio del racconto breve nel cui classico del 1954, "Answer", un
personaggio chiede a un supercomputer nuovissimo se esiste un Dio; il
cervellone risponde: "Ora sì").
Non si può dire che Matheson sia uno splatterpunk. Forse in passato fu
definito così per la sua amicizia con alcuni dei più importanti autori splat
(compreso David J. Schow), ma ora afferma senza mezzi termini di non fare
parte del gruppo The Splat Pack, tuttavia continua a scrivere opere affini agli
splatterpunk come "Goosebumps", "Where There's a Will" (scritto in
collaborazione con il padre) e "Rosso" (incluso nella presente antologia).
Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo di persona sa che R.C. è un uomo buono
e sincero. Queste emozioni sono riflesse nel racconto "Rosso", ma non si
confonda la sensibilità con il sentimentalismo. Benché "Rosso" sia
probabilmente il racconto meno esplicito e più sottile di questa raccolta, il
risultato finale è come una bomba a orologeria che vi scoppierà nella testa.
Continuava a camminare.
Il caldo era afoso e schiacciante. Si asciugò la fronte. A sei o sette metri scorse
ancora qualcosa. Grazie a Dio. Forse sarebbe riuscito a completare l'opera.
Accelerò il passo. Respirava a fatica. Proseguì penosamente ricordando la
promessa fatta a se stesso di non fermarsi prima di avere finito. Forse aveva
sbagliato, a chiedere che gli fosse concessa quella grazia, ma gli era sembrato
l'unico modo in cui poteva sperare di porre fine al suo tormento. Egualmente
poteva essere stato uno sbaglio.
Quando si fermò si sentì svenire. Contorse il volto in una smorfia di dolore e
raccolse quello che giaceva ai suoi piedi; lo depose nel grande sacco di canapa,
si pulì le mani e proseguì. Il peso era aumentato, si sentiva un po' meglio. Aveva
trovato quasi tutto nei primi due chilometri. Ancora soltanto un altro mezzo
chilometro, tanto per convincersi, per essere più sicuro.
Per non impazzire.
Era un incubo per lui pensare di essersi allontanato tanto senza accorgersi di
nulla. Si avvinghiò più forte al sacco e proseguì. Le figure che lo aspettavano si
facevano sempre più grandi, più vicine; erano in piedi, con le braccia conserte.
Attorno a loro si era radunata una folla. Tutti protestavano. Avrebbero dovuto
aspettare.
Vide qualcosa a un paio di metri di distanza, deglutì e si avvicinò. Era tutto
sparso in giro; chiuse gli occhi e si sforzò di non visualizzare la scena. Ma la
immaginò tutta, nei minimi particolari. Gli parve di sentirla dentro di sé. Erano
suoni orribili, che non riusciva a cacciare dalla mente. Prima di riuscire a
ricomporre tutto non avrebbe avuto pace. Ne era più che sicuro. Dopo, forse,
sarebbe riuscito a trovare requie. A tirare avanti.
Si chinò e raccolse quello che poteva, poi proseguì scrutando in lontananza. Il
sole picchiava forte. Si sentiva la camicia inzuppata sotto le ascelle e sulla
schiena. Procedette in direzione delle figure in attesa e di nuovo si fermò avendo
scorto qualcosa tra sé e loro. Aveva perso la forma, ma sapeva che cos'era stato e
rimase come impietrito. Depose il sacco e si sedette lentamente incrociando le
gambe sull'asfalto infuocato. Teneva lo sguardo fisso. Fu scosso da un fremito
improvviso.
Un uomo di aspetto grave gli si avvicinò e raccolse con delicatezza l'oggetto,
lo sistemò nel sacco e richiuse l'apertura. Convinse l'uomo in lacrime a rialzarsi,
e lui annuì in silenzio. Insieme si avviarono verso gli altri che guardavano gli
orologi e davano segni d'impazienza.
— Ma non ho finito — protestò l'uomo. La voce si spezzò e gli occhi diven-
nero caldi e gonfi. — Vi prego... impazzirò... ancora solo qualche minuto?
All'uomo dall'aspetto grave quello che stava accadendo non piaceva affatto.
Prese una decisione. — Mi spiace, signore. Dal quartier generale mi hanno
autorizzato a concederle solo la mezz'ora che aveva richiesto. Non posso fare di
più. Deve capire che questa è una strada molto trafficata.
L'uomo si divincolò ma non riuscì a liberarsi. Gridò e implorò.
Due donne di mezza età assistevano alla scena con un certo disagio.
— Chiunque abbia dato quest'autorizzazione andrebbe denunciato — osservò
una di loro scuotendo il capo con fare perplesso. — Il disgraziato è sull'orlo di
un esaurimento nervoso. È una vergogna!
L'altra spiegò di avere saputo che a tutti faceva una gran pena quel povero
diavolo la cui figlioletta si era avvicinata al paraurti posteriore dell'auto e vi era
rimasta impigliata quando lui, senza accorgersene, quel mattino era partito per
andare al lavoro.
Osservarono l'uomo dell'ordine che sorreggeva il padre disperato e lo aiutava a
salire sulla Gazzella afosa. Poi l'ufficiale sollevò il sacco; sull'asfalto cadde
qualche goccia rossa; lo depose delicatamente nel bagagliaio accanto ai resti del
triciclo.
Si sentì il suono dei clacson e a un cenno del poliziotto il traffico riprese
mentre l'uomo veniva portato via.
"Una vita nel cinema" di Mick Garris apparve per la prima volta su Silver
Scream, una raccolta originale di racconti sul cinema curata da David J. Schow.
Che l'attenzione di Schow cadesse su Garris fu di grande rilevanza per lui.
Meglio ancora, segnò una strada; Mick non soltanto consegnò a Schow il
manoscritto per Silver Scream durante la proiezione in anteprima di Hellraiser,
ma, come dice il titolo del racconto, la vita di Garris è il cinema.
Quando incontrai Mick per la prima volta nel 1980, lui lavorava per la Avco-
Embassy (la vecchia società di Joseph E. Levine, ora scomparsa) su Scanners di
David Cronenberg. Diventammo amici; in seguito Garris andò alla Universal, e
fu grazie a lui che ebbi l'incarico di promuovere il primo dei film di Conan
(esordio della mia occasionale attività di promotore di libri di orrore, fumetti,
fantascienza nei convegni; anche se in ritardo, grazie Mick).
Garris poi si ritrovò a lavorare con registi del calibro di Steven Spielberg in
The Goonies e John Landis per l'uscita in sole videocassette di Prossimamente,
un compendio di trailers di film di fantascienza e orrore della Universal. A
quell'epoca Mick apparve anche, insieme con sua moglie Cinzia, nel video di
Michael Jackson, Thriller, nelle vesti di uno degli zombie creati da Rick Baker.
Sfortunatamente, proprio quando Garris divenne redattore di Amazing Stories,
l'antologia per la TV di Spielberg, ci perdemmo di vista. E per di più per nessuna
ragione in particolare; alle volte queste cose succedono e basta. A ogni modo,
non fu una bella cosa da parte mia perché poco dopo non mi feci vivo per
congratularmi con lui per i successi della sua carriera. Ora Mick Garris è
membro a tutti gli effetti della comunità cinematografica di Hollywood. È stato il
regista di Critters (1988), ha scritto il testo originale di La mosca II, e al
momento è impegnato nella regia di Psycho IV. Inoltre sta anche incrementando
la sua carriera di narratore: il racconto "Joy" è apparso nel numero di aprile 1990
di Midnight Graffiti. I suoi progetti imminenti comprendono il film Red Sleep
tratto da un soggetto scritto dallo stesso Garris insieme con Christian Matheson,
che sarà diretto da John Landis. Tutto questo per dire ehe con una esperienza
acquisita a così caro prezzo possiamo credere che l'ambiente frenetico ritratto da
Mick in "Una vita nel cinema" sia autentico. Si tratta di un racconto sugli effetti
speciali, sul disperato tentativo di mettere a segno il colpo grosso, e su una
bambina mutante divoratrice di escrementi che va ben al di là di quello che ci si
potrebbe aspettare da chi ha battezzato la sua società: Produzioni dei ragazzi
perbene.
Ma con quella sua bambina, simile al proprio sé, Garris ha inventato un
potente simbolo dell'autodegradazione che si cela sotto la brillante, luccicante
facciata della Fabbrica dei Sogni hollywoodiana.
Per non dir niente poi dei mostri che girano nell'ambiente.
Un mostro come figlio magari era la peggior disgrazia per quella donna
messicana, ma per me sarebbe potuta essere la miglior fortuna che mi potesse
capitare.
Preferirei molto di più mostrarvelo anziché raccontarvelo, ma non è così che
vanno le cose in questa città. Si sentono tutte quelle stronzate sull'essere tanto
bravi come nell'ultimo film, e tutti quei pistolotti sull'industria con la I
maiuscola, ma quelle sono leggende masturbatone sulla vecchia Hollywood. Se
sei in gamba ti mettono in piedi il tuo secondo film prima ancora che esca il
primo. Sei sempre bravo come nei tuoi ultimi due film.
O almeno così si suppone.
È iniziata con la scuola di cinema. Non avevamo i soldi perché io potessi
andare all'USC e usare tutte le attrezzature che Steven e George le avevano
donato, ma vinsi ugualmente una borsa di studio per l'UCLA. Quindi mi potevo
dare da fare, no?
È stato grandioso! Voglio dire, immaginate soltanto avere a disposizione tutta
quella attrezzatura senza spendere una lira! Certo, la gran parte del lavoro di
studio doveva essere fatta su video, ma la tesi veniva sempre girata su pellicola,
con suono sincronizzato e persino i titoli ottici. Ho girato la mia a 35 mm e su
Dolby stereo.
Un grosso vantaggio della scuola di cinema sono i contatti con gli agenti. Tu
fai un buon film o scrivi un buon soggetto? Persino la porta della Century si apre
improvvisamente per te. E come i cani quando annusano una cagna in calore.
Prova a fare un film per conto tuo, e anche se è I predatori dell'arca perduta,
nessuno lo vorrà vedere se non viene da una scuola di cinema.
Così stanno le cose. Mi ci è voluto un anno e mezzo per finire di girare Mondi
senza voci, ma ne è valsa la pena. Sono andato a ficcarmi in posti incredibili,
costruito scene strane, fantastiche che riproducevano qualsiasi paesaggio di
sogno che vi siate mai immaginati (e molti di voi non si potrebbero neanche
immaginare, sono sicuro), ho costruito una colonna sonora per orchestra
interamente originale, e alla fine ne è uscito il mio capolavoro di 24 minuti.
Se ci sapete fare con luci, manipolazione, composizione e gettate via gli
obiettivi per le zumate, la regia è facile.
Dopo aver messo i diritti del film a mio nome, e non sotto quello della scuola
(non avrebbero fatto soldi con il mio talento), l'ho presentato a vari festival
sparsi per il mondo e ho cominciato a raccogliere riconoscimenti. Primo posto
all'AFI Fest, primo posto al Festival del cinema USA, menzione d'onore a
Seattle (che si fottano. Chi se ne frega di Seattle?).
E poi imparo a procurarmi gli appuntamenti. Gente della ICM, William
Morris, CAA, l'intera lista che mi telefona. I giovani rampanti si danno più
daffare, ma sono quei vecchi scoreggioni di ebrei che hanno i giusti contatti con i
clienti. Può darsi che non vi faccia piacere pranzarci assieme, ma sono loro che
sanno come fare un affare, garantito. Presto ho imparato che è l'agente, non
l'agenzia che fa la differenza. I vecchi non vogliono mai prendersi nuovi clienti,
ma qualcuno di loro lo si può convincere. Prima o poi.
Tutti volevano una cassetta del mio film — Figuriamoci! Ho girato in
Panavision, passato settimane intere allo stereo-mix e questi ci vogliono dare
un'occhiata tra una telefonata e l'altra su uno schermo da 19 pollici. So bene che
questi bastardi rotti in culo hanno tutti delle sale di proiezione, quindi ho insistito
perché proiettassero il film a 35 mm. Con garbo e tatto, ma su questo sono stato
inflessibile in modo che si rendessero conto che avevano a che fare con un
artista.
Be', ho avuto il fior fiore di tutti quei puzzoni. Sulle prime ho fatto un paio di
errori, come tutti del resto. Uno di questi bastardi del 10 per cento si era tutto
infervorato per procurami un incontro per Miami Vice; come se io potessi mai
prendere in considerazione quella merda per la televisione. Un altro insisteva che
il sequel di un film poteva accelerare le cose. Bene. Fai Scuola di polizia 7 e
Hollywood allarga le gambe. Poi, chissà? Hardbodies 4 forse!
Così alla fine ho raggiunto un accordo col vecchio Rosen della CAA. In-
tendiamoci, uno ne farebbe anche a meno di veder mangiare questo pagliaccio
sdentato, ma è uno che sa come muovere i suoi miseri quarantacinque chili. A
noi non interessano i piani di sviluppo, mi dice, noi siamo qui per fare film.
Niente TV, niente via cavo. Solo lungometraggi. Su miei soggetti. Niente
opzioni. Prima si paga e poi si gira.
Ho appuntamenti un po' in tutti gli studios in uffici ai piani alti, con Sean e
Mike e Len e Jeffrey e tutti i pezzi grossi, e scopro quanto sia semplice tutto
questo. Sia ringraziato il cielo per quella scuola di cinema. Questi qua amano
parlare di quale immenso vuoto abbiano lasciato Preston Sturges e Alfred
Hitchcock e di come non ci sia mai stato un equivalente americano di Ladri di
biciclette, e tutte quelle cagate mastodontiche su cui sono stato bocciato in Storia
del cinema 101. Allora io parlo di Carpenter, Dante, Hopper e i miei idoli. A loro
piace, ma solo se discuti Poltergeist e non Lifeforce, Halloween e non La cosa.
La misura suprema dell'arte sono gli incassi.
Quindi io espongo i miei film e ascolto le loro reazioni. Mi danno i loro
"pareri", e io mi eccito tutto per qualche loro idea, come se migliorasse sen-
sibilmente la storia e senza di loro io non ci sarei mai arrivato. Poi faccio marcia
indietro, rifletto un attimo sui loro "suggerimenti", e gli spiego perché quelle
idee non funzionerebbero. Questi ne traggono un'impressione di scambio
reciproco, che sono disponibile ad ascoltare i loro suggerimenti, ma sono anche
abbastanza forte da difendere le mie idee. Gli piaccio.
Il mio compito è di incantarli, poi tocca a Rosen fare il figlio di puttana. Ma va
bene così, ci è abituato. Gli piace. Lui tratta e ritratta, fa in modo che gli studios
si azzuffino per avermi, il prezzo sale alle stelle e io ottengo di girare il mio film
a Burbank.
Ora, quella sì che è un'esperienza. All'UCLA sono tutti supereccitati per avere
una particina nel film (va a dirgli che andrà su cavo e ti potrai scopare tutte
quelle smorfiose che si spogliano gratis per la telecamera). Tutti lavorano venti
ore al giorno solo per far parte del tuo film. Impegno, creatività, motivazione:
ognuno vuol dare una mano.
Ma l'esperienza in uno studio è tutt'altra cosa. Innanzi tutto ci sono i sindacati;
non ho mai visto tanta gente a fare così poco. Tu levi una spina e un elettricista
del sindacato te la deve rimettere. Stai per girare la scena cruciale che con il
cameraman (scusate, l'operatore cinematografico) hai impiegato le ultime tre ore
a mettere su, e l'assistente di regia ferma tutto per la pausa mensa. Naturalmente
quando si riprende tutti stanno a cazzeggiare in giro, e quindi non si incomincia
in tempo, ma guai a farli fermare un po' di più, che si va in straordinario.
E poi ci sono i ventisette autisti di squadra assegnati alla produzione che se ne
stanno seduti sui loro culi quadrati nelle station wagon con l'aria condizionata ad
aspettare, a duemilacinquecento dollari a settimana, nel caso qualcuno avesse
bisogno di una Mr. Pepper dietetica allo spaccio degli studios.
Ma questo è il meno. Tutte 'ste cazzate le posso capire. Questa gente si
mantiene così, fanno il loro lavoro, e vengono pagati. Quei damerini degli
account executives sono i peggiori. Voglio dire, sul set anch'io porto la cravatta;
quando ancora puoi entrare a Disneyland con un biglietto ridotto, e radersi è
un'occasione per sognare a occhi aperti, sei disposto a tutto pur di dirigere da una
posizione di potere. Ma questi cazzoni coi loro Armani e sigari e voci dolci sono
la ragione per cui la gran parte dei film che si vedono in giro sono merda. Ecco
come la pensano. Che cosa intendete voi per "buono"? Qualità? Perfetto. Voi e io
pensiamo allo stesso modo. Ma "buono" per questi qua vuol dire "conosciuto".
Buono è il successo di qualcun altro. Non sia mai. detto che tu faccia qualcosa di
unico, con una visione originale. No, quelli vogliono il "sentimento" di E.T., il
"dinamismo visivo" di Guerre stellari, il "ritmo" di Un poliziotto a Beverly Hills,
l'"attrattiva" di Top Gun, e altre cazzate del genere. Tutto quello che sanno
vendere è quello che hanno già venduto. E anche quello non molto bene.
Così non appena andiamo in lavorazione preproduzione cominciano le lotte.
Loro vogliono i bozzetti, e io non lavoro con i bozzetti. Per farli contenti
assumiamo un grafico bozzettista, ben sapendo che non guarderò mai quei fottuti
cartelloni una volta che andiamo sul set.
Poi c'è da fare il cast. Oh Signore, non vi potete immaginare i nomi che
vorrebbero per il mio film. Se fosse per me, ma, credetemi, non lo è, farei
lavorare tutti sconosciuti. Vorrei mostrare i personaggi che ho creato, non attori
famosi in quei ruoli. E invece niente. Scrivo il ruolo dello scienziato ispirandomi
a un mio vecchio insegnante di biologia, e quelli vogliono Tom Cruise. Tom
vaffanculo Cruise che fa un biogenetista! E per fare l'assistente sociale vogliono
Kelly Le Brock... ma dovrebbero dar credito al marito produttore. Alla fine non
ha nessuna importanza chi voglio io, perché tra le spese e la posizione dei nomi
sui cartelloni e i problemi dello studio, nessuno è più disponibile. A meno di non
andare a pescare al fondo della lista. Città di merda.
E poi, naturalmente, c'è lo zampino, straordinariamente creativo, del dott.
Flotsam, il nostro stimato produttore. Lui ha "sviluppato" questo "pacchetto" e il
suo massimo impegno sta nel portare i Tangerine Dream per le musiche. E di
questo gli viene fatto merito. Per questo dovrebbero fargli un occhio nero! Il film
esige un'intera orchestra, e mi toccano tre fottuti programmatori di sintetizzatoli
che non sanno neanche parlare inglese.
In qualche modo arriviamo alla produzione. Una volta che il carrozzone si
muove non c'è più modo di fermarlo. ILM sta già girando plates per gli effetti
speciali, i giornali cominciano a ronzarci attorno, i damerini rompono le palle
con la diffusione, le recensioni e il boom annunciato. Non hanno la minima idea
di come si faccia un film. Tutto quel che posso dire è Abbiate fiducia in me. So
cosa sto facendo. Vi piacerà quando sarà montato. Ma naturalmente questo non
gli basta. Si incaponiscono sulle recensioni e allo stesso tempo ti fanno le pulci
sui tempi e il budget. E questo non è Howard e il destino del mondo o Ishtar —
questo di cui stanno parlando è un miserabile film da dieci miliardi!
D'accordo, ammetto di essere un po' un tiranno sul set. Ma vorrei vedere! Ne
va del mio nome. Scritto e diretto da. Me. Nessuno vede il nome del contabile.
Nessuno si interessa dello sceneggiatore, o dell'operatore cinematografico, o
dell'atmosfera, o di quello che si occupa dell'effetto notte. A nessuno gliene frega
un cazzo dei costumi. Dunque, sì. Se deve essere fatto, deve essere fatto bene...
anche se questo vuol dire più tempo e più soldi. Che cosa potrebbero fare,
sostituirmi dopo venti giorni su trentacinque di lavorazione?
Quindi può darsi che un paio di attrici si mettano a piangere... è la prestazione
che conta, non come l'hai ottenuta. L'unica cosa che tutti possono giudicare è
quel che sta sullo schermo. E gli attori! Quelli farebbero qualsiasi cosa! A meno
che non siano dei "nomi", s'intende. Allora quelle fottute prime donne non ti
danno neanche un capezzolino così.
Non si è mai vista gente meno disponibile. Non ho mai avuto in mente di
vincere una gara di simpatia; volevo semplicemente fare il mio film.
Alla fine lo abbiamo fatto. Il budget non è stato superato poi di tanto; voglio
dire, non è stato un Cancelli del cielo, o roba del genere. Però quelli si sono
fregati la mia parte, come vuole il Sindacato dei registi. Le prenotazioni per
l'anteprima sono state soddisfacenti, anche se non come speravamo, ma
soddisfacenti. E in ogni caso non era un film fatto per le masse. Questo è un film
sofisticato e loro lo vanno a dare in anteprima ai manovali arrapati e alle loro
ragazze sdentate di Long Beach. Intelligente. Dunque allo studio lo montano di
nuovo e naturalmente sputtanano tutto quanto e vanno a sperimentare il loro
aborto a San Diego... la mia città! Grazie, ragazzi. In qualche modo i sindacati
scoprono la furbata di San Diego e ci crocifiggono. Voglio dire, ci spaccano in
due e ci cavano le interiora. Non c'è niente di meglio per quella gente che
spandere merda sugli artisti. Se ne sanno così tanto su come si fa un film, perché
non li fanno loro! Al diavolo i critici. Se mai vi capitasse di incontrare un critico,
non ci vorreste andare a cena assieme neanche con quello.
Tant'è per gradire. In quattro grandi centri viene disertato, non ne fanno
pubblicità in TV, né alla radio, giusto qualche annuncio sui supplementi
settimanali dei giornali che nessuno paga. Lo danno nella saletta da cinquanta
posti dello Herpes Cineplex, e anche Rosen non risponde più alla mie telefonate.
L'unica mia consolazione è che ha distrutto la carriera di Annamarie Longine.
Ha ottenuto una parte in una sit-comedy, ma dopo tre settimane era già fuori.
L'hanno messa contro Cosby, e io me la sono goduta.
Okay, la Warner Bros e similari mi cacciano a pedate. E allora? Ci sono sei o
sette altre "major". Sì, d'accordo, salvo che con il solito balletto di dirigenti ti
può capitare che il dirigente assegnato al tuo film sia alla Universal la settimana
dopo; la sua donna va a letto con un Vip della Universal che ora è alla Tri-Star
fino a quando suo suocero lo nomina dirigente alla Disney per evitare che se ne
vada in giro a raccontare quell'episodio nel suo jet privato col protagonista del
loro nuovo film.
Così quel vecchio culo viene protetto e io sono segato nel bel mezzo della
carriera.
La CAA mi caccia via, altro che piani di sviluppo e, prima che me ne renda
conto, sto tastando il terreno intorno a New World, Atlantic, New Line e altre
indipendenti. Mi sto sbattendo questa principessina ebrea di quarantatré anni che
fa l'agente e che vuole che la chiami "mammina". Dovreste vedere i segni delle
unghie che mi lascia sulla schiena. Ha un ufficio senza segretaria a Pacoima, a
casa di dio nella Valley, ma il telefono non squilla mai. Mai. Non vale la pena
versarle addosso i miei preziosi fluidi corporali. Ops, scusate, sprecare del tempo
con lei.
Mi fa alcuni favori: mi procura appuntamenti con Rehme e Corman e gli altri
ragazzi. Io ci vado, con la cravatta e tutto, e ogni volta è la stessa musica: — Mi
dispiace. Il dottor Corman è dovuto scappare per un impegno all'ultimo
momento. Ha incaricato personalmente il dottor Nessuno coi brufoli di terzo
livello di ascoltare la sua tiritera.
Inutile a dirsi, i miei tiri non andavano mai a segno. La cosa irritante è che
questa gente è sempre lì che assume registi debuttanti, tipi che al massimo hanno
girato i filmini per il compleanno dei bambini prima di arrivare a beccarsi dieci
miliardi con questi thrilling dove la gente viena fatta a pezzi come col
tritaverdure, e che fanno dai sessantacinque miliardi in su. Io ho fatto un vero
film, per la miseria, e me lo sono preso nel culo.
A questo punto il mio appartamento in un condominio sulla spiaggia è di
nuovo in vendita. Stessa cosa per la mia Porsche. Ho incontrato Rebecca in un
corridoio da DEG; credo che entrambi stessimo cercando di fottere lo stesso
produttore. Il suo sogno era quello di passare dalle telenovelas ai film; credevo
che andasse sul grande schermo solo per fare film a luci rosse, ma chi sono io
per dire così? Se mi andavo a sistemare nell'appartamento di Rebecca in West
Hollywood significava potermi liberare di "mammina" come compagna di letto,
ma tenerla sulla corda come agente.
Inoltre Rebecca aveva un'automobile.
Ero arrivato al punto di pensare che lavorare a una sit-com per la TV non fosse
poi così male. Mi ero preso tante di quelle porte in faccia che tutto sommato
"Charles in Charge" cominciava a sembrarmi piuttosto divertente.
Dovevo uscire, andare da qualche parte, qualunque parte. Allontanarmi dalla
TV.
Rebecca era andata a un colloquio di lavoro, e così saltai sul bus per il centro
città. Il centro di Los Angeles non ha alberi d'arancio, limousines o stelle del
cinema, niente di cui vorreste mandare una cartolina a vostra madre. Ci sono
solo grattacieli di uffici e un vivace quartiere al cento per cento latino con case
fatiscenti: venditori di strada che strillano in spagnolo, ritmi salsa che gracchiano
da diffussori scassati da due lire, negozietti, enormi, fantastici vecchi
cinematografi ora cadenti e ammuffiti, che danno tre successi in lingua spagnola
per due dollari, ventiquattro ore al giorno. Assomiglia molto di più a Città del
Messico che a una metropoli nordamericana.
Tutto quello che posso fare è girovagare e osservare, masticando un churro
mentre i poliziotti fanno circolare gli ubriaconi. Sorseggiando un fresco succo di
frutta esotica mentre qualche pappone ammazza di botte la sua puttana in un
androne maleodorante. Mi piace questo posto; la strada è come un grande
schermo a trecentosessanta gradi.
Una delle cose che mi piacciono di più sono i verdi, traballanti espositori di
riviste all'angolo di ogni strada. Sono carichi di strani giornaletti comici per
adulti, romanzetti rosa strappalacrime, e riviste di lotta libera incredibilmente
sanguinarie... roba davvero forte. E costano quasi niente... e valgono ogni
centesimo. Anche se non conoscete lo spagnolo, come me.
Ma stavolta trovai molto più che lottatori mascherati e bendati.
La vecchia dello stand teneva nell'ombra una cesta, che faceva dondolare con
un piede. Vidi la coperta attraverso l'intreccio della cesta; lei s'accorse che stavo
guardando e si parò davanti alla cesta.
— Muchacho? — domandai, perché non avevo nient'altro da dire.
— Muchacha.
Come se me ne fregasse qualcosa se era un bambino o una bambina. Un
neonato è un neonato, no? Tanto assomigliano tutti ad Alfred Hitchcock.
Poi la bambina cominciò a piangere, questo strano suono simile a un vagito.
Lanciai uno sguardo furtivo da sopra la rivista Santo. Il pianto si fece più forte,
ma la vecchia non si muoveva. Continuava a guardarmi come se ce l'avesse con
me o che cosa. Non posso farne a meno; io osservo le cose. Tutte le volte.
Suppongo di essere un ficcanaso... ma mostratemi un regista che non sia un
voyeur e io vi mostrerò un manovale della TV.
Lo gnaulìo della bambina, simile a quello di un gatto, dopo un po' era di-
ventato un vero e proprio grido primitivo, e anche la vecchia non poteva più fare
finta di niente. Si prende in braccio la bambina e solleva la camicia, liberando
una tetta che subito cade giù fino all'altezza dell'ombelico. Solleva delicatamente
il bordo della coperta e ficca un capezzolo gocciolante incredibilmente lungo in
quell'avida bocca.
Si volta a guardarmi mentre la osservo, e i nostri sguardi si intrecciano. Non
riesco a distogliere gli occhi e lei mi sfida con la sua faccia sgradevole.
Finalmente la bambina ha fatto il pieno e si stacca dal seno. Quel verme
gocciolante del suo capezzolo torna su e viene subito nascosto sotto la camicia,
schizzando gocce di lattosio sul viso della bambina.
Mentre lei le asciugava il viso, la vidi per la prima volta.
Quella non era una umana. Non sapevo cosa fosse, ma era niente che avessi
mai visto prima. Aveva un aspetto viscido, era completamente senza capelli, la
pelle scura e gommosa. Era più simile a un essere umano di qualsiasi altro
animale, ma solo di poco. Era come se fosse stata bruciata o simili, salvo che la
sua pelle era umida, untuosa. Le labbra erano simili a quelle di un pesce, grosse
e spalancate, che aspiravano come un grasso riccone che tira un Avana molle e
bagnato.
Tentai di guardarla meglio, ma la vecchia la riparava continuamente dal mio
sguardo, coprendola con la coperta e impedendomene la vista con la sua
circonferenza. Cercai di assumere l'aria il più possibile premurosa, una maschera
tutta tenerezza e apprensione. Dovevo vedere questa bambina più da vicino.
Era inutile parlare, quella non sapeva l'inglese, e lo spagnolo per me è
ostrogoto. Ma mi avvicinai con mani caritatevoli per toccare la bambina. Sulle
prime la vecchia era esitante e sulla difensiva, ma quando vide che non avevo
intenzione di fare del male o prendermi gioco della cosa, mi lasciò sollevare la
coperta, tenendomi gli occhi fissi in volto.
Da vicino, con tutto il tempo per osservarla, quel mostro di bambina era
incredibile. Mi resi subito conto che ero tornato in pista. E se la si giudicava
come un neonato vero, quella era una bambina. Nel portafogli avevo i soldi per
l'affitto di Rebecca e li diedi alla donna. Non so bene perché, suppongo che
volessi solo toccarla. Quella cosa avrebbe prodotto la storia più incredibile che si
fosse mai vista; tutto mi attraversò la mente nel breve spazio di tempo che ci
vuole ai fasci di luce per lampeggiare tutt'attomo al tendone del Million Dollar
Theatre: tutte quelle parole che mi erano state cacciate in gola dai critici e nelle
riunioni sui progetti di sviluppo.
Sentimento, Storia. Personaggio. Tutte quelle stronzate.
Volevo solo prendere in braccio quella cosa, toccarne con mano l'autenticità.
Ma non me ne fregava niente di fare un'altra storia di una vita di lattice. Mondi
senza voci mi aveva raffreddato sugli effetti speciali. Questa cosa qui era vera, e
quello era ciò che dovevo mostrare al mondo. Nessun effetto speciale prodotto
dall'arte di Rob Bottin avrebbe potuto competere con il battito di un cuore,
l'autenticità del sangue che scorre in quella creatura viscida, dal colore degli
occhi cangiante, che si contorceva nella coperta tra le mie braccia.
Questo neonato era il mio prossimo film.
Non riuscivo a immaginare quanto avesse; come si fa a dire l'età di un
qualcosa che non si è mai visto prima? Non poteva avere più di due mesi.
Quando si accorse che un'altra persona la stava tenendo in braccio, i suoi occhi si
fissarono sui miei ed entrambi restammo paralizzati. Gli occhi fangosi
sembravano sobbollire come vasche per l'idromassaggio, schiarendosi e
mutandosi in azzurro, poi diventarono così chiari che giuro che si poteva vedere
il cervello di dietro. Sentivo il battito del cuore far increspare la pelle sotto le
mie dita mentre ne fissavo la corteccia, ascoltandone in lontananza lo gnaulìo e
vedendovi musica. Non come note musicali, ma come musica tout court. Non so
come altrimenti spiegarlo, a meno di non paragonarlo ai viaggi con l'LSD di cui
il mio patrigno mi parla in continuazione.
Questa sorta di contatto con gli occhi sembrò sfinire la bambina, e i suoi
grandi occhi si riempirono nuovamente del color fango e poi, lentamente, si
chiusero. Quando sollevai di nuovo lo sguardo, Mamacita se l'era battuta.
Non che mi importasse. Aveva avuto l'opportunità di scaricare il mostro e
l'aveva colta al volo. Se avessi dovuto vendere quelle riviste sui lottatori agli
angoli delle strade ai contadini probabilmente avrei fatto altrettanto.
Ma io avevo avuto fortuna. Avevo tra le braccia questo tesoro incredibile: mi
era stata data una seconda opportunità per stupire il mondo intero. E l'affitto di
un mese per la camera ammobiliata di Rebecca a West Hollywood sarebbe
servito per pagare il letto della vecchia per almeno cinque anni. Soltanto più
tardi mi resi conto che era stata lei a fare l'affare migliore.
Rebecca rimase scioccata, ma anche affascinata dalla lumachina nella cesta di
vimini in cucina. Decisi di lasciare i dettagli della storia a più tardi...
specialmente la parte riguardante il denaro per l'affitto. Ne avrei parlato quando
l'arabo si fosse fatto vivo per riscuoterlo.
— Dicevi di aver sempre desiderato un bambino — le dissi. Lei non sembrò
divertita. Ma sapevo come prenderla. Non avrebbe avuto nessun problema ad
avere a che fare con il mostro sapendo che ci sarebbe stata una parte per lei da
più di diecimila dollari al giorno. Presto scoprimmo quanto fosse semplice
prendersi cura e dare da mangiare al piccolo mostro; succhiava da tutto e
qualsiasi cosa che gli veniva infilata tra quelle disgustose piccole labbra. Una
volta Rebecca si era chinata sopra di lei per vederla meglio e quella piccola
ciucciona andò subito a cercarle il seno sotto la camicetta. La incitai per scherzo
ad allattarla, ma il suo senso dell'humour aveva dei limiti.
La chiamai Asta.
Diedi il benservito a mammina e presi a bussare a tutte le porte. Mi feci largo
tirando al rialzo, infastidendo, pagando bustarelle, infilandomi in tutte le
riunioni, da quelle della inconsistente Troma, alla più muscolare Paramount.
Dapprima era sempre con funzionari di serie C, come prima; gli studios vanno
cauti. Accedere alle riunioni è relativamente facile; non vogliono chiudere la
porta a qualcuno che potrebbe fare un grande film per un altro, e poi non essere
in grado di farlo tornare indietro. Il tizio che alla Warners può fare un flop con
THX 1138 potrebbe andare alla Fox a fare Guerre stellari. La porta è chiusa, ma
non a chiave.
A ogni modo, ho avuto appuntamenti coi figli di questi magnati fatti da sé
negli altri studios e si parla sempre di "Sentimento", "Storia", "Carattere" e si
proiettano cagate di successo e poi io tiro fuori L'idea. Ed è sempre la stessa
reazione: — Sì, ma è già stato fatto. Il bambino sfortunato in realtà è più un
Film-della-settimana, non le pare? Ma sarei felice di metterla in contatto con i
nostri responsabili della TV — e con questo di solito s'intende finita la riunione.
Ma io non mollo. Di nuovo ci mettiamo a discutere di Elephant Man e Mask
ed E.T., e tutte quelle altre stronzate mutanti strappalacrime, e i miei occhi si
inumidiscono di compassione e tenerezza. Quelli cominciano a sentirsi a disagio.
Gli spiego come L'idea potrebbe essere realizzata con poca spesa, e quanto abbia
imparato dall'ultima esperienza. Poi alzo le spalle come se fosse evidente che
non c'è niente da fare, dico grazie ed esco fuori come uno che è distrutto. Ma
loro non possono vedere che ho il sorriso sulle labbra.
Prima che la porta si richiuda faccio finta di accorgermi della scatola che
avevo lasciato nella sala d'attesa, come se me ne fossi dimenticato. E prima che
il foruncoloso dottor Tale dei Tali fletta il bicipite per la telefonata successiva, la
raccolgo e mi giro verso di lui con Asta tra le braccia sotto la copertina da
neonato. — Oh, a proposito... lo vuole vedere?
Naturalmente lui è troppo occupato, e non si rende assolutamente conto che
ciò di cui sto parlando è reale, e non vede l'ora che me ne vada fuori dai coglioni.
Questi appuntamenti inutili non finiscono mai. Ma io non gli do la possibilità di
rispondermi. Gli piombo addosso, gli metto la cosa sotto il naso, e tiro via la
coperta.
Il tipo si bagna i pantaloni. Vuole sapere se l'ha fatta quello di Nightmare a
Elm Street parte terza, e devo ripetere centomila volte che no, questa è vera.
Quelli non mi credono. Gliela metto più vicina, così vicina che possono
sentire l'acre puzzo di urina che emana dalla sua pelle, e li invito a toccarla. Tutti
quelli cui ho chiesto hanno sempre declinato l'invito.
È incredibile quanto rapidamente abbia accesso ai superiori. M'incontro con il
capo del figlio, poi la sua capa, poi il capo di lei e infine approdo all'atmosfera
rarefatta dell'ufficio all'ultimo piano di Paparino in persona.
A questo punto Rosen mi chiama di nuovo; ha sentito la storia del bambino
con la pelle come il tabacco, e vorrebbe fargliela vedere a qualcuno delle major.
Non ce l'ho con lui per avermi scaricato; dopo tutto io ero veleno. E a Rosen non
frega assolutamente nulla dei buoni rapporti o di essere mio amico. È un uomo
d'affari. Giusto. Lui mi mena l'uccello e io gli stringo il suo e tutti e due veniamo
spandendo dollari. Lui sa che io so che lui può fare un sacco di soldi con me e
quindi gli do carta bianca. È la vecchia storia, e lui fa in modo che gli studios
s'accapiglino per aggiudicarsi la storia della bambina.
Grazie al cielo.
Ci mettiamo d'accordo a Culver City. Sono scrittore, produttore e regista;
nessun credito, ma non mi lamento. Vogliamo tenere il budget basso, girare in
qualche stato del sud che vada bene per lavorarci e finalmente posso inserire nel
cast i miei attori sconosciuti, ma in gamba e così getto a Rebecca un bell'osso,
tre volte il suo compenso abituale. Ora che sono anche produttore, mi rendo
conto di quanto sia saggio tenere i costi bassi, così è più difficile per le case di
produzione nascondere i profitti, se il film va bene. Tengo comunque i cachet al
di sotto della media e quasi tutto quello che avanza è per me.
Avevo già deciso che non avrei fatto vedere la bambina agli attori e alla troupe
prima di girare la scena della nascita. Sapevo che la spontaneità delle loro
reazioni ne avrebbe fatto un piccolo capolavoro. Non vedevo l'ora.
Il testo piaceva a tutti, anche a quelli che la menavano con il Sentimento, la
Storia e il Personaggio. Ma aspetta che vedano il mostriciattolo. Temevo che nei
tre o quattro mesi di preproduzione Asta crescendo potesse diventare una
bambina normale. Poteva essere che il suo aspetto di mostro fosse solo una fase
della crescita. Ogni mattina andavo a controllarla sotto la sua copertina col fiato
sospeso. Ma la cosa non cambiava.
Comunque avevo davvero imparato un sacco di cose dalla mia ultima
esperienza con la Warners. Questa volta ero preparato: mi ero fatto amico di tutti
gli attori e della troupe, lasciavo che dessero suggerimenti e facevo finta di
prenderli in considerazione prima di rifiutarli e fare a modo mio. A loro piace
molto.
Tutto va per il meglio. Abbiamo un giorno o due di ritarda sulla tabella di
marcia, ma stiamo sotto il budget, così i soliti account in tiro sono contenti. Sono
entusiasti della stampa e del battage e di quello che loro chiamano Il look dello
spettacolo.
Non potrei essere più euforico. Nelle pause mi sbatto Cindy, la stella che io ho
lanciato, nella mia roulotte mordicchiandole i seni di gomma e siringandola con
il mio liquido seminale. Ma l'eccitazione maggiore è per la scena della nascita in
programma per il lunedì della quarta settimana.
Tutti chiedono di vedere il pupazzo, chi l'ha fatto, quando si può vedere il
povero pupazzetto. Ma io mi limito a sorridere sornione.
B day.
L'appuntamento è per le sette, ma io arrivo sul set un'ora prima. Asta ha fatto
un po' i capricci, ma adesso è tranquilla. Sta bene e ha mangiato abbastanza; la
tengo in una cesta che una volta conteneva i biscotti Snookie.
Tutti sono eccitati per la grande scena. Riprenderemo Asta per tre settimane,
ma questo è il suo debutto. Ho intenzione di riprendere il mostriciattolo in
continuazione per paura che possa cambiare durante la lavorazione. Le scene che
le fanno da sfondo non sono molte, quindi è relativamente facile girare le scene
una dietro l'altra.
Dunque abbiamo imbottito il ventre di Cindy Starlet quasi quanto il suo
chirurgo plastico ha fatto con le tette; sta sdraiata sulla schiena con un grande
rigonfiamento. Per maggior realismo ha preso lezioni sul metodo Lamaze alla
clinica. Qualunque che possa funzionare.
Rebecca è in un angolo e sta studiando la linea. E molto sexy nella divisa da
infermiera. Non sospetta niente di me e di Cindy. Non che avesse qualche
importanza se lo sapesse; ora mi posso permettere un appartamento.
Wilmos ha appena finito di mettere a posto le luci. Mi precipito fuori e torno
con la cesta, e la tengo riparata dagli sguardi mentre raggiungo la mia
postazione. Anch'io compaio nella scena nelle vesti del ginecologo che fa
nascere la cosa, per cui ho tutto sotto controllo. Mi sono persino concesso un
significativo primo-piano.
Sono leggermente sorpreso che Cindy non indossi nulla sotto la camicia
dell'ospedale. Mi fa l'occhiolino, ben sapendo che io sono l'unico nella posizione
da poterlo sapere, e io le do una tiratina al suo ciuffetto. Lei cerca di far finta di
niente di fronte agli altri.
Poi metto Asta sul tavolo, ancora sotto la copertina. Nessuno, all'infuori di me,
l'ha vista, e mi sento il cuore battere forte attraverso lo stetoscopio che mi pende
dalle orecchie.
Sistemo la bambina tra le gambe di Cindy (mi piace infilarle cose tra le
gambe). Sono l'unico che può vedere Asta, e mi diverto a vederla trascinarsi
viscidamente verso le parti intime di Cindy. Cindy cerca di non reagire alla
pressione umidiccia e palpitante. Poi le labbra della piccola mendicante
sembrano aver scovato qualcosa che assomiglia a un capezzolo là sotto, e
comincia a ciucciare.
— Silenzio! Si gira! — Cindy riesce a mala pena a respirare... ma non manda
all'aria la ripresa.
— Velocità — non posso credere a quello che solo io vedo, ma riesco a
trattenere il riso, e provo a staccarla dal bottoncino felice di Cindy.
— Registrala.
— A posto! Okay, Cindy... azione!
E la macchina da presa si avvicina lentamente e inesorabilmente al tavolo.
Cindy e io abbiamo del sudore spruzzato sulla fronte e le sopracciglia; m'accorgo
che Rebecca mi ha visto infilare la mano sotto le lenzuola di Cindy. Ma quando
la macchina da presa è in funzione non fa storie. È perfetto. Dramma, tensione,
Cindy mi fa davvero credere che sta avendo un parto difficile. Forse quelle
stronzate del metodo non sono poi così male; probabilmente là sotto stava
davvero dilatandosi.
La macchina da presa adesso è proprio sopra di noi, lei sta spasimando dal
dolore e io lotto eroicamente per salvare il bambino. Gli effetti speciali fanno
uscire fiotti di fluido dalle pompe sistemate sotto il lettino, e io sollevo Asta
dalle gambe di Cindy direttamente in faccia alla macchina da presa.
Asta si era comportata magnificamente, lasciandosi andare a quel lungo e
debole tremolio, e ammutolendo tutti quelli che si trovavano sulla scena. Feci
girare per due minuti in più, e quando finalmente gridai — Taglia! — gli attori e
la troupe insieme scoppiarono in un fragoroso applauso spontaneo. Mi inchinai,
tenendo in braccio la cosa di fronte a loro, e Hollywood salutò il mio ritorno con
un tripudio.
Quando fui sicuro che non c'erano stati movimenti di cinepresa né problemi
coi suoni, non c'era alcuna ragione per sfidare il destino. La presa era stata
perfetta, e non ne avremmo fatta una seconda per prudenza.
Feci sgomberare gli imbambolati e mi preparai a fare i primi piani. Asta non
dava alcun problema sotto le luci. Se ne stava là, quasi in attesa di istruzioni.
Vilmos mi chiese se intendevo usare un pupazzo sotto le luci mentre lui le
preparava, e da suprema testa di cazzo io gli risposi di no. Nessun pupazzo
avrebbe avuto la stessa qualità riflettente della strana pelle della bambina. E in
più sembrava che non le desse fastidio.
Bene, non so come si fosse sparsa la voce così in fretta, ma quelli dell'as-
sistenza sociale erano sul set prima ancora che finissimo di girare i primi piani.
Erano furiosi e gridavano all'abuso di minore. Pare ci sia qualche norma che
proibisca di far stare i bambini per più di trenta secondi sotto le luci, inoltre sul
set devono essere presenti in ogni momento un assistente sociale, un'infermiera e
un insegnante, o qualche altra stronzata del genere.
Io gli dico che non c'è nessun bambino, che sono effetti speciali. O uno stunt.
Quelli vogliono vedere dov'è lo stunt. Sì, certo, un mostro stuntman... A quel
punto urliamo tutti, e allora l'assistente di regia chiama una pausa e tutti quanti
sono ben felici di svignarsela..
Quando sto per venire a pugni con quella stronza dell'assistente sociale, il
secondo assistente di regia mi batte leggermente sulla spalla. Quello che mi
sussurra rende vano ogni litigio. Dopo avergli staccato a morsi la testa per
essersi intromesso, lo spingo da parte e mi precipito al lettino del parto, ora al
buio, dove si trova Asta. Cerco di mettermi tra lei e la troia col vestito grigio, ma
quella mi è subito dietro, in attesa di verde.
Glielo concedo.
Perché il mostriciattolo non si muoveva, né respirava, né mangiava o mandava
odore, né viveva.
In testa avevo i fuochi d'artificio: suicidio, spari e cacofonia. Ma me ne stavo
là immobile, la faccia come un muro vuoto e svaporato di "te l'avevo detto".
Mentre la donna tentava di interpretare quel piccolo troncone che si andava
rapidamente plastificando, mi voltai lentamente per guardarla negli occhi, e con
tutta la mia forza dissi con un fil di voce. — Dunque questo è davvero qualcosa
di sua competenza?
Entrambi ci voltammo a guardare: evidentemente no, uno stupido pupazzo con
la pelle di gomma. Ricordo di essere rimasto impressionato da come sembrava
finto quando le luci erano spente; privo della vita sembrava uno scarto di
Ghoulies o roba del genere.
— Ecco il vostro bambino — gongolai e quella s'allontanò tutta incazzata,
persino delusa.
Dichiarai conclusa la giornata e mentre tutti si preparavano al secondo giorno
di riprese, io presi il piccolo corpo e mi ritirai nella mia roulotte. Cindy mi stava
aspettando, tutta sorridente e maliziosa per il servizietto sotto le lenzuola. La
cacciai fuori. E lei mise su un'aria tutta seccata e ferita, ma che vada a farsi
fottere. Questa era la fine della mia carriera.
Chiusi a chiave la porta e misi il mostriciattolo sul tavolo per esaminarlo. La
cosa adesso sembrava ridicolmente finta, la pelle che si seccava e che
assomigliava al rivestimento interno di un tubo di gomma, c'era persino la
polvere bianca del borotalco.
Gli occhi non vedevano, non avevano anima, semplici finestre di vetro di una
stanza buia.
Prima che me ne rendessi conto Rebecca stava bussando alla porta, ma io
semplicemente la ignorai. Lei smise presto, non doveva essere così incazzata
come m'immaginavo.
Presi a gridare contro quel piccolo sacco di merda sul tavolo scaraventandolo
a terra. Adesso mi dispiace, ma dovete pensare allo stress cui ero sottoposto.
Quel piccolo pezzo di merda era la chiave a tutto quello per cui avevo lavorato
per così tanto tempo e duro, e ora andava tutto in fumo. Cazzo!
Il suicidio era sempre una valida alternativa, ma sono troppo codardo per
tirare un grilletto, e non abbastanza codardo per non cercare di fare in fretta. Ma
mentre fissavo quei piccolo mucchietto schifoso, mi venne in mente
un'alternativa più semplice. Avevamo già la ripresa più importante. La ripresa
fondamentale era già là. Potevo usare tutto quel che avevamo girato. Eravamo
già approdati a una buona scena, stringata, e il pubblico non se ne poteva
accorgere. Se si girava con cura, forse uno di questi maghi degli effetti speciali
avrebbe potuto aiutarmi a cavare fuori il resto del film. A guardare la cosa ora
che la fiamma vitale s'era estinta, la differenza tra un essere vivente e il lattice
era evidente, ma non c'era altra soluzione.
Chiudemmo la produzione per alcune settimane e nel frattempo mandavamo
telegrammi d'emergenza a Stan Wiston e Chris Walas e altri senza tessera
sindacale. Quando il giorno dopo gli mostrai la bambina, tutti erano del parere
che fosse bella, ma un po' semplicistica nel disegno. Tutti volevano sapere chi
l'aveva fatta, e perché non avevo interpellato loro. Spiegai loro che l'avevo fatta
io stesso sulla base di un sogno che avevo avuto, ma mi occorreva qualcuno che
l'articolasse e manipolasse meglio di quanto avrei potuto fare io. Doveva avere
esattamente lo stesso aspetto, solo con più vita.
Dopo i maghi, ci rivolgemmo a un tipo del posto, texano, che ci costava un
terzo dei grandi e che era disponibile a lavorare trenta ore al giorno per la gloria.
In sala di proiezione, mentre attendevo di vedere la scena della nascita,
trattenevo il respiro. C'erano tutti i grandi papaveri per i giornali; sapevano che
era il momento più importante del film. Fino a quel momento l'avevo solo visto
alla moviola. Ma era perfetto. Tutto perfettamente a fuoco, nessun errore, e la
bambina era fantastica. Incredibile. Quando gli account rimasero tutti a bocca
aperta per la sorpresa, io cominciai a respirare normalmente. A quel punto tutti
ormai credevano che la cosa fosse un effetto speciale, ed erano quasi contenti di
chiudere la produzione per un paio di settimane per mantenere lo stesso livello
qualitativo.
Tutto quel che dovevamo fare era agganciarli con lo spezzone con la bambina
vera, e quelli si sarebbero bevuti il surrogato di gomma.
Alla sera tornai a casa sentendomi quasi rilassato. Appartamento nuovo,
mancavano ancora i mobili: solo il letto, un impianto hi-fi VCR, e un televisore
per le proiezioni. E una cesta di vimini con dentro Asta. Una volta che il clone di
lattice fosse terminato, mi ero ripromesso di dare alla cosa una sepoltura decente
nel retro... ma solo se il pupazzo di gomma era perfetto.
Il giorno seguente non dovevo girare, e così mi feci la mia maratonina di film:
It's Alive, Rosemary's Baby, e Tabù IV, che mi fece addormentare, ma con una
selvaggia erezione.
Era un'eccitazione che non passava con il sonno, al contrario pulsava con il
mio battito cardiaco, fino a quando a tarda ora si aprì la porta. Aprii gli occhi.
Inaspettate e deliziose Rebecca e Cindy entrarono con un fascio di luce che
attraversava le sottili, diafane camicie da notte che indossavano. Per quanto poco
probabile, sembravano essere amiche del cuore e diventarono anche più
amichevoli quando si unirono a me nel letto.
Le nostre acrobazie assomigliavano a una lettera a Penthouse, e com-
prendevano tutte le combinazioni erotiche che vi sareste mai potuti imma-
ginare... e sei o sette altre. Era un sollievo che non avevo più avvertito dai giorni
della preproduzione. Avevo una bocca davanti e una dietro, e le due messe
assieme mi portarono al più devastante orgasmo stringi-sfintere della mia vita.
Ma alla seconda dose mi risvegliai, il mio migliore amico che pompava come
un matto e gli occhi rovesciati all'indietro in un rapimento estatico.
Mentre le vampate dell'orgasmo si placavano, riacquistai gradatamente
coscienza. Riaprii gli occhi alla realtà... e per poco non vomitai. Quella larva
schifosa di una bambina era arrivata dalla cesta di vimini fino in mezzo alle mie
gambe, impalata con la bocca sulla mia verga divina talmente a fondo che
dovevo averle fertilizzato direttamente lo stomaco. La cosa succhiava
voracemente il mio fluido fino a ridurmi completamente a secco. La sua pelle era
di nuovo viscida, unta e viva, e la sentivo strisciare affamata sulla mia carne.
A inala pena cosciente alle quattro del mattino, e inebriato dalla forza
dell'orgasmo, mi riusciva solo di fissare quella mostruosità che mi stava di-
vorando attraverso gli occhi gonfi e incollati. Quel formidabile risucchio
s'allentò non appena si rese conto che non c'era più linfa, allora io tentai
debolmente di allontanarla. Ma quella non si mosse neanche; disgustato raccolsi
tutta la mia forza e la scagliai violentemente contro il muro spiaccicando quel
pezzo di merda che colò giù appiccicoso e senza vita.
Mi alzai in piedi, la testa che pulsava a ogni battito del cuore, e attraversai
intontito la stanza seguendo il mio membro ancora sollevato, fino a trovarmi
proprio sopra Asta. C'era un traccia di sangue sul muro, quasi a indicare il
mucchietto viscoso che giaceva a terra. Senso di colpa, disgusto e orrore mi
traboccarono dallo stomaco e fuoriuscirono dalla bocca sopra il mucchietto
morto.
Prima con le luci del set e ora, letteralmente, con le mie mani avevo di nuovo
ucciso quella cosa.
Mi infilai le mutande, raccolsi quell'orrendo mucchietto in un sacchetto di
plastica e lo portai fuori in cortile. La luna non c'era, il che mi stava bene, e così
presi quello schifio e lo seppellii in profondità dietro al grill per il barbecue. Con
le bolle sulle mani mi precipitai nella casa spoglia.
Rimasi a letto tutto il giorno seguente, a pensare solo al mostriciattolo. Non
c'era alcuna innocenza. Quella non era una bambina, un infante. Nei mesi in cui
l'avevo tenuta non c'era stato alcun segno di crescita o maturità o cambiamento.
La cosa è quella che è, non quella che deve diventare. Quello che è non lo so, ma
presto avrei fatto una supposizione colta.
Tutto quel che so è che quel giorno mi sentivo più abbattuto di quanto non lo
fossi mai stato... la mia estasi era stata legata a filo doppio con un'enorme
revulsione. Ero stato fottuto dal fantasma di un bambino-mostro. Niente di
raccomandabile. E poi ci si è messo anche quel cesso fottuto. So che potrebbe
apparire prosaico da questo punto di vista, ma c'entra e come. Quando ho cercato
di tirare l'acqua, ci fu solo un gorgoglio e io mi resi conto immediatamente che
quel dannato arnese stava giocando con la sua roba. Abbassai il coperchio e
chiamai l'idraulico.
Me ne dimenticai fino a quando non dovetti andarci di nuovo quel po-
meriggio. Pronto per scaricarmi, alzai il coperchio, solo per vedere quella fottuta
di Asta contorcersi nella tazza del cesso e sganasciarsi il suo pasto. Tentai di
tirare l'acqua e spedirla ai leggendari alligatori delle fogne, ma la piena tornò
indietro spandendo acqua lurida sul pavimento del bagno.
Di nuovo in preda a rabbia, umiliazione e disgusto le feci uscire le budella,
disfai quel piccolo corpo contorto, e lo ammazzai per la terza volta. Che grande,
fottuta impresa! Sarebbe ritornata... non importa quante volte, o a che distanza o
a che profondità seppellissi la cosa.
La vecchia messicana aveva saputo fin dall'inizio che ero la sua salvezza. Me
ne sono reso conto adesso. A tutt'oggi devo avere annientato il piccolo mostro
due dozzine di volte, ma quello continuerà a tornare. Per nutrirsi.
Mi chiedo solo per quanto tempo la sua ultima ospite abbia nutrito e allattato il
piccolo parassita che si era impossessato di lei e la controllava. E come dare a un
gatto randagio una ciotola di latte, non ce lo si scolla più di dosso, quel bastardo.
La mia lussuria nel possederla era stata la cosa più vicina all'amore che avesse
mai avuto e ora le nostre sorti erano intrecciate. Accoppiati. Per tutta la vita.
Ritorna tutti i giorni dopo che io l'ho uccisa, per nutrirsi dei miei rifiuti
corporali, le mie cellule, la mia essenza. Mi deruba della mia saliva, si nutre dei
miei escrementi, risorge con i miei spermatozoi.
Che dio mi assista se non mi succhia pure il sangue.
Nei mesi trascorsi da quando abbiamo girato la scena della nascita il sonno è
stato solo una lontana vaghezza che mi coglie di sfuggita. Il telefono squillava
prima che lo staccassi e molta gente è venuta fino alla mia porta prima di
rinunciare a cercarmi. Ogni volta che allento le difese quella torna a
saccheggiarmi. Esausto, mi assopisco un attimo e so che mi risveglierò per
trovarla che mi divora, il mio sesso sprofondato nella sua zona femminile,
un'altra appendice viscida dietro e dentro di me, che prende senza mai sprecare
nulla, neppure le lacrime.
Questa cosa vivrà finché io vivrò. Forse di più.
Dovevo impossessarmi del piccolo stronzo per sfruttarlo. Fu l'emozione più
grande che abbia provato, e ora la sto pagando. Conosco un solo modo per porre
fine al tormento. Non so perché abbia rimandato così a lungo. Asta può anche
essere indistruttibile, ma io no. Ho solo un rimpianto.
So che non farò mai più un altro film.
MENO DI ZOMBI
Douglas E. Winter
Douglas E. Winter è un tipo elegante, con gli occhi che brillano ogni volta che
si nomina Dario Argento. Non estranea ai mondi dell'orrore e dello splatter, la
narrativa di Winter, le sue interviste e le critiche sono apparse in riviste come
Harper's Bazaar e Saturday Review e quotidiani come il Washington Post e il
Philadelphia Inquirer.
Winter si fece notare come il primo vero critico di Stephen King, e il suo
studio critico-bibliografico Stephen King: The Art of Darkness è da tutti
considerato il testo più autorevole sul soggetto. Doug è anche l'autore di una più
ampia antologia critica dell'orrore, Faces of Fear, un denso racconto intitolato
"Splatter: a Cautionary Tale" che mescola censura, politica e film truculenti, e il
curatore dell'eccellente antologia dell'orrore In principio era il male.
La professione ufficiale attiene alla giurisprudenza (è un avvocato dello studio
Bryan, Cave, McPheeters e McRoberts), ma non fatevi trarre in inganno da
questa apparente contraddizione. Corre voce che Winter abbia trattato in
tribunale cause relative a disastri aerei, e si sa bene a che cosa corrisponda il
grado zero in quelle tragedie. A ogni modo Douglas E. Winter negli ambienti
convenzionali è uno stimato professionista che coltiva un ostinato interesse per i
film splatter (da cui il suo amore per Dario Argento; ogni tanto ci scambiamo le
cassette dei nostri film "succosi" favoriti) e si oppone tenacemente all'idea che lo
splatterpunk sia un genere o un movimento. — Per quanto mi riguarda — dice
Doug — neanche l'orrore è un genere. L'orrore è un'emozione.
Similmente Doug non vuole essere annoverato tra gli esponenti dello
splatterpunk. Infatti, come mi ha scritto in una lettera, "'Meno di zombi' è stato
scritto come un racconto anti-splatterpunk, non in senso negativo, ma nel senso
in cui ho usato il concetto di 'anti-orrore', cioè una critica dell'orrore, che
prosegue il dibattito su quale strada debba imboccare l'orrore... piuttosto che
definirne le origini".
Winter usa l'intrigante termine "anti-orrore" per ricordarci che la parola orrore
è di per sé restrittiva; l'anti-orrore, infatti, prende in esame e contesta proprio
quelle convenzioni alle quali il racconto dell'orrore si è piegato.
In un racconto come "Meno di zombi" si ha a che fare con anti-orrore a tutta
forza. Al di là dell'evidente parodia di "Meno di zero" di Bret Easton Ellis (molto
ben riuscita, con la diabolica ed eccitante riproduzione dello stile di Ellis),
"Meno di zombi" è una triste conferma della fondamentale mancanza di umanità
dell'umanità. I giovani protagonisti di questo inquietante morality tale di Dou-
glas Winter illustrano uno dei fondamenti dello splatterpunk: che i vecchi orrori
sono consunti, irrilevanti. I vecchi mostri non sono più poi così importanti.
I veri mostri siamo noi.
La gente ha paura di vivere nelle strade di Los Angeles. È l'ultima cosa che
dico prima di risalire in macchina. Non so perché continuo a ripetere questo. Ho
incominciato, e adesso non riesco più a smettere. Non m'importa più di niente.
Non che non ho più diciott'anni e che l'estate è finita, e sta piovendo e i
tergicristalli vanno avanti e indietro, avanti e indietro, e Skip e DJ e Deb tra poco
si siederanno di nuovo con me. Non del sangue caldo e appiccicoso schizzato sui
miei jeans mentre me ne stavo in piedi nel vicolo a osservare. Non della macchia
sul maglione spiegazzato e umido che indosso, un maglione che solo ieri sera era
tutto bello e pulito. Tutto questo sembra non aver senso in confronto a
quell'unica frase.
Pare sia più facile sentire che la gente ha paura di vivere che Skip dire: —
Tutto questo è autentico — o quella canzone che continuano a mandare per
radio. Nient'altro sembra importare al di fuori di quelle dieci, anzi undici parole.
Non la pioggia o il vento freddo, che sembravano sospingere l'auto sulla strada
fino a quel vicolo, o l'odore di marijuana e sesso che ancora ristagnano
nell'abitacolo. La conclusione di tutto ciò è che i vivi sono morti e i morti vivi,
ma quella gente, viva o morta, ha ancora una fifa boia.
Estate. Non c'è molto da ricordare dell'estate scorsa. Notti in posti come il
Darklands, Sleepless, Cloud Zero, La fine. Svegliarsi a mezzogiorno e guardare
Videomusic. Una Lamborghini bianca parcheggiata davati alla Tower Records. Il
concerto degli Swans, DJ che piscia nello spazio tra due file di poltrone al Roxi,
nel bel mezzo di Children of God. Una prostituta con il braccio rotto che mi fa
cenno sul Santa Monica e mi chiede se mi voglio divertire.
Colazione da Gaylords, Mimosas con Perrier-Jouet. Pranzo con mia madre al
Beverly Wilshire e poi subito all'aeroporto per prendere il diretto per Boston.
Cena con Deb e i suoi genitori da R.T., corifena annerita, insalata di Cobb, acqua
Evian, e io che palpo Deb sotto il tavolo mentre suo padre parla dei Dodgers. Il
nuovo album degli S.P.K. A Palm Springs con Skip per il ponte della festa del
lavoro, completamente fatto a osservare una lucertola sul tronco di una palma
per tutto il pomeriggio. Jane che abortisce. Enormi cartelloni di Mick Jagger che
sorride sull'Hollywood Boulevard come il teschio di un cadavere in
decomposizione. Clive che viene incastrato, guida senza patente e possesso di
droga, e suo padre che lo tira fuori e gli compra una nuova Mercedes 380 SL.
Ascoltare i leggendari Pink Dots a Radio AM. e, sì, certo, quella cosa con gli
zombi.
Guido io, fino alla casa di Jane. Non c'è nessuno. Jane si è dimenticata il
codice di sicurezza e Skip le suggerisce di provare con l'anno, di solito è l'anno,
e lei compone uno nove otto nove sul telecomando e la lucina rossa diventa
verde e il cancello si apre e noi possiamo entrare. Attraversiamo la sala buia per
raggiungere la cucina e c'è un messaggio sul tavolo con il numero di telefono di
un albergo dove sua madre e suo padre, o sua madre con l'amante, sono in
vacanza. C'è una pila di giornali non letti e una lattina di Diet-Coke e una scatola
vuota di crackers e poi le tre videocassette.
"Vediamo" dice Skip, e prende le videocassette e va in sala dove attacca con la
vodka e cerca di accendere la TV. Io siedo sul pavimento con DJ e Jane, e i suoi
genitori hanno uno di quegli apparecchi con lo schermo enorme, quarantacinque
pollici forse, con almeno due videoregistratori in cima, e Skip trova i tasti giusti
e il primo nastro comincia a scorrere. Io penso che sia stato DJ a procurarsi i
nastri, o forse Jane; per un po' era stata a Claremont e aveva un amico che
conosceva un tizio che aveva il fratello che lavorava in un negozio di
videocassette, uno studente in storia del cinema, e questo le metteva da parte le
cassette non appena ne usciva una nuova, e Jane probabilmente se l'era scopato e
così aveva avuto le cassette, e quindi noi ce le stavamo guardando tutte e tre di
seguito, distesi sul pavimento di quella sala dal soffitto alto con mobili antichi e
una riproduzione di Lucien Freud e Jane continua a dirci che lei ha già visto quei
tre film, anche se non è vero. Skip siede col telecomando in mano e non dice una
parola, continua a schiacciare il tasto di svolgimento per saltare subito alle scene
migliori, e il primo si chiama L'alba dei morti viventi e proprio all'inizio la testa
di questo zombi viene fatta saltare in aria da uno sparo di fucile e a quest'altro
zombi viene mozzata la testa e l'altro film si chiama semplicemente Zombi e
l'ultimo non me lo ricordo molto bene eccetto la scena dove il dottore fa fuori la
ragazzina, uno zombi pure lei, e le appoggia la pistola proprio contro la testa e il
sangue, con brandelli di carne e di cervello, schizza dappertutto nella cabina di
un ascensore e per un attimo si vede il vuoto dove prima si trovava il cervello, e
subito dopo questa scena io mi giro verso Jane, ma lei non mi guarda, lei guarda
Skip e DJ e credo che sappia bene quello che vuole. Non lo sappiamo forse tutti?
Scorre un altro video. Un altro. E poi un altro ancora. Love and Rockets non
ha nessuna storia nuova da raccontare quando Deb arriva. Indossa una camicetta
di seta e una gonna di pelle marrone che ha comprato da Magnin alla Century
City. "Ti amo" dice a tutti e a nessuno. Bacia DJ sulla guancia e fa la lingua a
Skip e Skip fa finta di non vederla e continua a scoparsi Jane. Mi fa ciao e io le
rispondo ciao e lei si prova i miei occhiali da sole. Attraversa la stanza e
comincia a rovistare in un raccoglitore di CD. Prende un vecchio album di Brian
Ferry, lo mette giù, ne prende un altro di This Mortal Coil. Dice: — Posso
mettere questo? — e siccome nessuno le risponde lo infila nel lettore e preme
alcuni tasti e alza il volume dello stereo. DJ guarda MTV e anche Skip guarda
MTV mentre si scopa Jane e Jane continua a guardare il soffitto e io cerco di non
guardare Deb. Lei canta con Elizabeth Fraser, dondolandosi avanti e indietro in
una specie di danza. — Ho sognato — canta — che tu mi sognavi — poi si siede
di fronte al caminetto e sfila una canna da una tasca della gonna e mi toglie gli
occhiali da sole e mi fa l'occhiolino e guarda a lungo la canna prima di
accenderla. È la volta di Canto della sirena e c'è un momento di silenzio e Skip
si stacca da Jane con un suono che è caldo e umido.
"Il prossimo" dice, e guarda prima Deb e poi me.
Sogno, ma sogno di me. Mi vedo passeggiare per le strade del centro di Los
Angeles e la giornata è nuvolosa e il sole va via e comincia a piovere e io mi
metto a correre e mi vedo cominciare a correre. Nel mio sogno sono io che
inseguo me stesso, supero il grande Sheraton, il Bonaventura, l'Arco Tower e per
un minuto penso che sto per prendermi, ma le strade sono scivolose, e io cado
una volta, due, e quando mi rialzo non vedo nessun'altro all'infuori di questo
ragazzino sul lato opposto dell'incrocio e quando guardo di nuovo mi accorgo
che sono io, più giovane a ogni passo, più giovane, a circa quindici anni. Si volta
e riprende a correre e ora ha tredici anni e corre e io lo rincorro e adesso ha
undici anni e diventa più giovane a ogni passo, più giovane e più piccolo, e ora
ha nove anni e ha otto anni e ha sette anni e l'ho quasi acciuffato e lui ha sei anni
e s'infila in quel vicolo e io gli sono proprio dietro e lui ha quattro anni ed è un
vicolo cieco e lui ha tre anni e riesce appena a stare in piedi e io lo raggiungo e
lui ha due anni e lo sollevo tra le braccia e sono al fondo del vicolo e lui ha un
anno e io sono sul balcone di casa, la casa dove sono cresciuto a Riverside, e lui
ha sei mesi e io busso alla porta e sento dei passi all'interno e mia madre viene
alla porta e io non vedo l'ora di vederla e lui è solo un neonato e diventa sempre
più piccolo e sta scomparendo e la porta si apre e mia madre si affaccia e lui è
sparito e io pure sono sparito e poi non c'è più nulla. Niente di niente.
Skip mi batte sulla spalla e siamo quasi arrivati all'uscita della superstarda e
lui si è appena messo qualcosa in bocca che manda giù con l'ultima sorsata di
Freixenet. Fa cadere la bottiglia nera sul pavimento e apre il palmo verso di me
come per dire: — Ne vuoi? — e io guardo le pilloline gialle e mi domando se
possa prendere del Valium. La musica si alza col suono delle chitarre, sembrano
i Cult, e Skip batte il tempo delle chitarre elettriche percuotendo con sempre
maggior forza il vetro del finestrino, e sul vetro si formano come delle tele di
ragno e lui colpisce ancora una volta il finestrino e quello va in pezzi e lui mi
mostra la mano. Ha le nocche coperte di taglietti, ma non sanguina, e la canzone
finisce e parte la pubblicità e lui torna ad abbassare il volume. Andiamo in un
posto dove fanno il chili, il Lone Star di Hidden Hills, e ci sediamo per un caffè
e aspettiamo un po' perché è presto e poi torniamo all'automobile.
La Valle alle due del mattino. Il Van Nuys Boulevard che si estende molto di
più di quanto sapessi. La luna è curva e luccicante e io mi fermo in un
parcheggio e per qualche ragione Skip pare nervoso e per due volte passiamo
davanti al teatro vuoto e io gli chiedo perché e lui continua a chiedermi se
davvero mi va di fare questo e io continuo a rispondergli di sì. Jane sta cercando
di pescare qualcosa nella borsetta e Deb sta dicendo: — Voglio vedere — e DJ
cerca di ridere e non appena esco dall'auto e guardo la fila nell'oscurità glielo
dico di nuovo.
Il centro commerciale non è una Galleria, non è neanche un centro com-
merciale, è semplicemente un ferro di cavallo concavo, una curva di negozietti,
il cinema, una drogheria, una pizzeria, un club di karate e un sacco di vetrine
vuote con dei segni di vernice bianca e vecchi giornali e cartelli stampati con
sopra scritto: SPAZIO COMMERCIALE. C'è un bambino paffuto seduto su una
chaise longue di fronte al cinema, con un paio di Vuarnet che legge The Face e
che prende 10 dollari da tutti quelli che vogliono entrare. DJ lo paga e Deb mi
prende la mano ed entriamo e la hall è piena di poster spiegazzati e vetri in pezzi
e vernice versata e Skip mi fa cenno e mi indica una scritta a mano che dice:
CLUB DEI MORTI.
Il ridotto assomiglia a un attico ed è buio e ingombro di mobili. Qualcuno nel
retro, forse il gestore, sta trattando a suon di dollari con due poliziotti. Fa un
cenno a Skip e Skip a me e ci fa entrare e questa ragazza nell'angolo mi fa
l'occhiolino e abbozza un sorriso, rossetto bianco e lingua che spunta fuori
leccando tutt'attorno, e lei conosce Skip e dice qualcosa che non riesco a sentire
e Skip le fa il gesto dell'ombrello.
Nella sala le luci sono accecanti e mi ci vuole un po' per abituarmici. Il posto è
affollato, ma troviamo ugualmente un tavolo e cinque sedie e DJ ordina un giro,
quattro birre Corona e un Jack Daniels, liscio, per Deb. Stanno suonando Black
light trap e il bar è pieno di ragazzi che si sforzano di sembrare interessati a tutto
fuorché a quel che sta per succedere: nessuno guarda Jane, che non è un granché.
Qualcuno guarda Deb e altri ancora guardano queste altre ragazze che fumano
sigarette al garofano in piedi o sedute a piccoli gruppi. Skip indica il suo amico
Philip che sta in piedi verso il fondo con gli occhiali da sole e una maglietta nera
della Bauhaus.
Mi alzo dal tavolo e vado al bancone del bar e poi fuori con Philip e sta
piovendo e sento Shriekback che canta che tutti facciamo i nostri errori e mi
libero di Philip e poi vado al bagno e chiudo a chiave la porta e mi fisso allo
specchio. Qualcuno bussa alla porta e io ci metto un piede contro e dico: —
Arrangiati — e tiro fuori tre piste e me le faccio e bevo dal rubinetto e decido
che devo tagliarmi i capelli.
Dentro al teatro fa caldo e io tengo la bottiglia di Corona sulla faccia, ap-
poggiata alla fronte. C'è un uomo seduto al tavolo accanto al nostro che tiene gli
occhi chiusi talmente forte che gli lacrimano. La ragazza che siede con lui si tira
il cavallo dei jeans Guess e beve un California Cooler. Avrà quattordici anni.
Quando l'uomo riapre gli occhi si guarda il Rolex e guarda il palco e guarda la
ragazza e per qualche oscuro motivo mi sento risollevato.
Questo è quando parte la musica e le luci s'abbassano e qualcuno, qua e là,
applaude e la musica riprende forte, qualcosa di Skinny Puppy, e alla fine
finalmente è il momento dello spettaccolo. C'è una serie di teleschermi allineati
sul palcoscenico e guardo su e stanno proiettando su uno schermo dopo l'altro ed
è solo un videoclip, di sessanta secondi o giù di lì, da uno dei film che abbiamo
visto, una brutta copia di una copia di una copia pirata con i sottotitoli in qualche
lingua straniera, spagnolo forse, e ci sono zombi in libertà in un centro
commerciale e Skinny Puppy ci sta dando dentro e la voce del cantante sta
latrando e lo spezzone del film salta e ora è la volta di un porto in Oriente, lo si
riconosce dagli alberi, e questo filmato è tratto dalla televisione, da un
telegiornale dell'estate scorsa, prima che smettessero di parlarne, prima che
venissero fuori le liste, e questi soldati stanno passando al setaccio un paese e gli
edifici sono in fiamme e l'aria è satura di fumo e stanno andando di casa in casa
e fanno saltare le porte e sparano all'interno e ora c'è una catasta di morti ed è in
fuoco e ora viene quella pubblicità, quell'annuncio per il servizio di volontariato,
una delle due cose, e il ministro della Sanità sta dicendo che i morti sono vivi,
stanno tornando in vita, ma noi li uccidiamo di nuovo, va bene così, è okay e
qualcuno mi ha detto che lui è morto, tutta quella gente è morta e ora il nastro
salta di nuovo e i colori continuano a susseguirsi fino a che l'immagine non si
fissa e c'è un modello di test. Skip dice: — È tutto — e compare una nuova
immagine e poi quella musica, davvero metallica, più simile a muzak, ed è un
video, un homevideo, qualcosa girato con una videocamera portatile forse, e la
scena si svolge in un garage, o una cantina, solo muri spogli, di cemento grigio
delle ombre cominciano a muoversi sul muro e poi esce il primo sul
palcoscenico.
La musica è cessata e non c'è altro che silenzio e una specie di fischio, il
nastro fischia e l'immagine sembra sfuocarsi, sparisce, e poi torna a fuoco e lei
fissa l'obiettivo. È giovane, bionda, alta e abbastanza carina, e porta una felpa di
Benetton e jeans 501 stinti ed è difficile credere che sia morta.
— Questo è autentico — mi dice Skip, e si volta verso DJ e Deh, e Jane dice:
— Roba vera. — C'è silenzio nel club, eccetto che per il sibilo del nastro, e sul
nastro la ragazza fissa a lungo l'obiettivo, senza che niente succeda. Il pavimento
dietro di lei è ricoperto di sacchetti dell'immondizia e qualcosa che assomiglia a
carta di giornale e c'è una brandina di legno e c'è un tavolo da lavoro e mi chiedo
come mai c'è una sega elettrica sul tavolo e sembra proprio calda e io avvicino la
mia Corona, ma la bottiglia è vuota e allora mi guardo attorno in cerca della
cameriera, ma tutti guardano gli schermi e allora faccio lo stesso anch'io.
Compare questo tizio con un rotolo di corda e ha un cappuccio nero e lei lo vede
o lo sente e comincia a girarsi verso di lui e inciampa, e le gambe sono
intrappolate, ha delle catene alle caviglie, e ora c'è un altro tizio con un paio di
occhiali da sci e le si sta avvicinando da dietro e ha una catena e qualcosa che
assomiglia a una imbracatura di cuoio, e io guardo Deb e Deb mi guarda e ora
stanno colpendo la ragazza con la catena e lei cade a terra e quelli la colpiscono
ancora e ancora e ora la corda è attorno al collo e l'imbracatura è sulla sua faccia
e io guardo Deb e Deb si sta toccando e torno a guardare il video e le stanno ta-
gliando i vestiti e ora la feriscono e io guardo Deb e Deb mi guarda e si allunga
per toccarmi e ora le avvolgono la corda intorno al collo e la mano di Deb si sta
muovendo sulla mia gamba e ora il primo tizio è scomparso e la mano di Deb si
muove e ora è ricomparso e Deb me lo stringe e ha un martello e lo ruota una
volta, lo ruota una seconda volta e Deb stringe più forte e adesso la corda viene
fissata in alto e qualcuno fra gli spettatori dice: — Sì, proprio così — e Skip
mette il braccio attorno a Jane e se la avvicina a sé e dice: — Tutta roba vera —
e ora stanno strattonando la corda e il nodo scorsoio si stringe e i piedi sono
staccati da terra e la mano di Deb si muove e stringe e io le dico di rallentare e
lei smette e mi dice di tenere un momento e io ci provo e torno a guardare lo
schermo e ora hanno una serie di ganci e la mano di Deb si muove più veloce e
ora hanno un pene finto e più veloce e gli stanno infilando dei chiodi e più
veloce, più veloce, più veloce e ora hanno un ragazzo, più veloce, un ragazzino
nudo, più veloce, hanno una torcia elettrica, più veloce, ora hanno un martello
pneumatico, e più veloce, e ora hanno e ora hanno e ora hanno e ora hanno e ora
hanno e ora l'immagine è scomparsa e la mia patta è tutta bagnata e Deb mi si
avvicina per darmi un tovagliolo.
Sono le quattro e si sta facendo freddo; siamo ancora seduti nel club e Skip ha
tirato su un filino dal mio pullover dicendomi che se ne vuole andare. I Clan of
Xymox sfuma nei Block ed è una vita meravigliosa, canta la voce del gruppo, è
una vita meravigliosa, me-ra-vi-glio-sa. Jane sta vomitando nell'angolo e le luci
sono basse e rosse e per un momento penso che sembrano sangue. DJ sta girato a
osservare due ragazzi che si baciano in bocca nella penombra, al di là del palco,
dando gran sorsate a un'altra Corona. Deb si è appartata per farsi con questo tizio
dell'USC, biondo coi colpi di sole e abbronzato, e con un pullover Armani
bianco. Skip mi dice che dovremmo andarcene subito adesso. La musica finisce
ed è fumo, risate, vetri rotti, il rumore di Jane che sputacchia e poi il complesso
dal vivo gironzola sul palco e si chiamano Tre, ma sono in quattro. Il bassista ha
la mano destra rotta e Skip dice: — Il bassista ha la mano destra rotta — e si
sfila una sigaretta al garofano dal taschino. Il complesso di quattro elementi di
nome Tre comincia a suonare una versione metal veloce di "I Am the Walrus"e
Deb è ora di fronte a me e mi bacia e dice a Skip che è pronta e Skip dice che
dobbiamo andare e DJ tira Jane per il braccio e Jane è ancora piegata in due e mi
chiedo se sia il caso che le chieda se si sente bene e i miei occhi incontrano
quelli di Skip e lui mi fa un cenno verso l'uscita e quello che viene dopo è che
siamo fuori.
Skip dice che Jimmy ha una videocamera e allora io guido fino da Jimmy, ma
Jimmy, qualcuno ricorda, o è morto o è alle Bermuda, così andiamo da Toby e
viene alla porta questo ragazzotto negro con su solo le mutande bianche e una
erezione. Una lampada di lava gorgoglia rossa nel soggiorno dietro di lui. —
Toby ha da fare — dice il negro e chiude la porta. Imbocco la Hollywood
Freeway per Western Avenue, ma non va bene e finisco in centro ed esco,
un'uscita qualsiasi e vedo lo Sheraton Grande e vedo il Bonaventure e vedo la
Arco Tower e penso che sia l'ora di correre. Skip mi dice di fermarmi, ma non va
ancora bene e volto l'angolo e ora va bene e così mi fermo e Skip scaraventa
Jane fuori della porta e lei va a finire a faccia in giù nella ghiaia e fa rumori
come se stesse per vomitare ancora.
— Potevi anche non farlo — dice qualcuno, ma non so chi. DJ si siede sul
sedile posteriore e ritira il braccio da attorno a Deb e si stringe nelle spalle e
guarda in basso verso Jane. Skip comincia a ridere ed è come se soffocasse e
alza il volume della radio ed è il single dei New Order e Jane si sta trascinando
lontano dalla macchina. Skip sta tirando fuori qualcosa da sotto la giacca e il suo
sportello sbatte e io controllo lo specchietto retrovisore. Per un momento guardo
il riflesso degli occhi di Deb e non dico altro.
L'auto è ferma nel mezzo della strada, all'imboccatura del vicolo, e ora mi
rendo conto che è il vicolo del mio sogno, un posto nascosto, perfetto, e Jane si
trascina lontano dall'auto e Skip le si avvicina, con calma, e c'è qualcosa nella
sua mano, qualcosa di lungo e tagliente che luccica al bagliore dei fari e la sua
ombra striscia sul muro di mattoni del vicolo e a me sembra di avere appena
visto tutto questo.
Skip le è sopra e vedo Jane che comincia a dirgli qualcosa e Skip scuote la
testa come per dire no e poi si china verso di lei e lei se ne sta a guardare e lui la
accoltella una volta, e poi di nuovo, e lei rotola sulla schiena e lui le colpisce il
viso e lei non batte ciglio, non si muove, e ora lo sportello posteriore sbatte e DJ
e Deb sono scesi dall'auto e percorrono il vicolo e quando arriviamo là Skip ci fa
vedere il coltello, un grosso arnese militare, e Jane sanguina dalle braccia e dalle
mani e un po' anche dal collo e DJ dice: — Fai come nel film — e Skip: —
Questo è il film. — Guarda DJ e Deb e me e poi Jane e infila il coltello nel suo
stomaco e il suono è delicato e lei a inala pena si muove e non c'è per niente
tanto sangue e allora lui le infila ancora il coltello nello stomaco, e poi nella
spalla e questa volta lei si scuote tutta e inarca la schiena e a me sembra che stia
gemendo e il sangue gorgoglia, ma non è molto rosso, non è per niente rosso.
Deb dice: — Oh — e Skip getta via il coltello e Jane rotola sullo stomaco e a me
sembra che stia cominciando a piangere, solo un po', e si guarda attorno nel
vicolo, ma non c'è niente, bidoni dell'immondizia e carta straccia e la carcassa
bruciata di una RX-7 e trova un mattone e glielo getta contro e lei si raggomitola
come un bambino e DJ raccoglie il mattone e glielo getta addosso e Deb
raccoglie il mattone e lo getta pure lei e poi viene il mio turno e io raccolgo il
mattone e lo getto e la colpisco alla testa.
Per un po' la prendiamo a calci e poi lei comincia a strisciare e non c'è ancora
molto sangue e comunque non è del colore giusto, quasi nero suppongo, e non
luccica molto ed è come se gocciolasse anziché sprizzare tutt'attorno, ed è quasi
al fondo del vicolo e la strada finisce e c'è il cordolo del marciapiedi, un
marciapiedi e un muro e c'è una luce da qualche parte che illumina verso il basso
e lei si trascina ancora per un po'. La testa è nel rigagnolo sotto il marciapiedi e
Skip guarda e dice: — Questo è autentico — e tira Jane per i capelli e la testa si
piega all'indietro e la bocca è aperta e lui la trascina in avanti e poi le spinge la
faccia contro il cordolo del marciapiedi e l'arcata superiore dei denti va a
mordere il cordolo, le labbra tirate in un sorriso, e sembra il sorriso
dell'istantanea, Jane a otto anni, e la testa è appesa là per quei denti di sopra e io
guardo Skip e DJ e Deb e Deb guarda in basso e anche lei sta sorridendo e Skip
dice: — Autentico — e appoggia lo stivale sulla nuca di Jane e spinge una volta,
due e quel sorriso s'ingrossa in un bacio, un bacio totale al cemento, e alla fine ci
sale sopra con tutto il suo peso e il suono è come qualcosa che non ho mai udito.
Il suono viene dalla radio. Ascolto la radio, riecheggia per tutto il vicolo,
pezzo dopo pezzo. Siedo sul cordolo del marciapiedi con Skip e DJ e Deb e DJ
si fuma l'ennesima sigaretta e i mozziconi si moltiplicano fra i suoi piedi e ce ne
sono almeno sette o otto e siamo qui da un'ora e ormai è quasi giorno e siamo
stati ad aspettare, ma ora è tempo di andare. — Okay, Jane — dice Deb e si alza
in piedi e col piede spinge Jane dicendo: — Dobbiamo andare. — Skip è in piedi
e DJ è in piedi e Deb guarda il suo Swatch e dice: — Alzati — e poi: — Ti puoi
alzare adesso. — Continua a sollecitare Jane col piede e Jane non si muove e
Skip sta asciugando il coltello e guarda Jane e allora mi pare di sapere. No, lo so
davvero. Sono sicuro di sapere.
— Torna anche lei, no? — dice Deb e guarda Skip e DJ e poi me. — Bret? —
mi domanda, e incrocia le braccia e ora è seria. — Lei torna con noi o no? —
dice Deb. — Voglio dire, torniamo tutti, no? — Skip si rimette in tasca il coltello
e DJ finisce le sigarette e io mi alzo e lei ripete: — No?
— La gente ha paura delle strade di Los Angeles. — È l'ultima cosa che dico
quando mi allontano da Skip e DJ e Deb e torno alla macchina. Non so perché
continuo a dire questa cosa. È qualcosa che ho iniziato e che adesso non riesco a
frenare. Nient'altro mi sembra che importi. Siedo davanti al volante
dell'automobile e osservo i tergicristalli muoversi avanti e indietro, avanti e
indietro, avanti e indietro e la città si confonde, sfuocata, sotto le sottili righe
nere.
Voglio dire che la gente ha paura di qualcosa e non riesco a ricordare che cosa
e può darsi che non sia nulla, può darsi che non sia un sogno e io sto correndo
dietro a qualcosa e nel mio sogno sto correndo e la radio è accesa e cerco di
ascoltare, ma stanno suonando la canzone che io non conosco. Il tergicristallo va
avanti e indietro. Gli sportelli si aprono e si richiudono e poi io metto in moto e
mi allontano.
TRANSITI VELOCI
Wayne Allen Sallee
Karl Edward Wagner, celebre curatore della serie I migliori racconti di horror
dell'anno della DAW Books, una volta scrisse: "Wayne Allen Sallee non è un
altro clone di King/Barker/Jason/Freddie. È uno scrittore originale, che intinge la
penna nel dolore. Non si può fare a meno di chiedersi fin dove potrà arrivare".
Fino a ora, molto lontano. Collaboratore estremamente prolifico di riviste di
horror (Grue, New Blood, 2 A.M.), Sallee ha scritto più di 700 poesie e una
valanga di racconti (d'accordo, in realtà sono una settantina circa, sta bene?). E
Wagner ha perfettamente ragione di sottolineare che la penna di Sallee è intinta
nel dolore; il dolore è il tema ricorrente, la giustificazione logica fondamentale
della maggior parte dei racconti di Sallee. Non mi credete? Va bene, eccovi due
titoli di altrettante opere di Sallee: Il dettaglio del dolore e Sorriso di dolore. E
che dire del fatto che Sallee porta un orologio con le parole: SCONFIGGE IL
DOLORE sul quadrante? Forse dovrei anche ricordare che Sallee ha avuto
esperienza diretta della sofferenza; Wayne poco tempo fa è stato investito da
un'auto (come dice lui: "Il braccio con cui scrivo sembrava una sacca di pelle
piena di pezzetti e frammenti").
Ora ci credete?
Wayne Allen Sallee vive a Chicago e spesso usa questa enorme città ventosa
cresciuta a dismisura come sfondo della sua narrativa. Analogamente ai migliori
esponenti dello splatterpunk, lui tende a mettere a fuoco gli orrori del mondo
reale. I suoi personaggi sono padri, compagni di stanza, ragazzi comuni. Ma
quando questa gente comune è messa a confronto con situazioni autentiche,
sconvolgenti, ed è avvolta in un'atmosfera inquietante, le soluzioni di Sallee
tendono a saltare alla stratosfera. Sallee ha scritto una certa quantità di racconti
simili allo splatterpunk comprendente "Threshold" su bambini mutanti e
"Lullaby and Goodnight". Ma "Transiti veloci" pare proprio il genere di racconto
che gli aficionados di Sallee s'attendevano da lui. Parte della Trilogia di Dennis
Cassady (che si conclude con "Prendi il treno A" e "Sanguinare tra le linee"),
"Transiti veloci" tratta degli effetti che improvvisi scoppi di violenza urbana
possono avere su un testimone innocente. E in questo scandagliare le profondità
più riposte delle patologie umane Sallee dimostra di conoscere a fondo il
potenziale di follia insita in ciascuno di noi. A proposito, Sallee mi dice che
quello che lui pratica è "orrore psicologico". Ma gli sta anche bene che lo si
chiami splatterpunk.
Grazie, Wayne!
Grazie!
Edward Bryant non è uno scrittore splatterpunk, il suo primo racconto apparve
nel secondo volume dell'antologia di fantascienza, Dangerous Visions, curata da
Harlan Ellison, e in seguito scrisse parecchia fantascienza. Negli ultimi tempi,
però, questo taciturno capellone di Denver, Colorado, si è definitivamente
convertito all'orrore.
Tra i nove libri e le centinaia di racconti scritti da Edward Bryant c'è la
narrativa apparsa nelle raccolte prodromiche dell'orrore Cutting Edge, Dark
Forces, e Book of the Dead comprendente il decantato racconto A Sad Last Love
at the Diner of the Damned. Bryant inoltre è specializzato nel recensire narrativa
dell'orrore per riviste come Locus e Mile High Futures, un lavoro questo che,
come dice lui stesso "alle volte può essere irritante". Bryant ha anche lavorato
nel cinema e in televisione (come attore in The Laughing Dead, I morti ridenti,
del regista S. P. Somtow, e come sceneggiatore per l'ultimo Twilight Zone).
"Mentre lei era fuori" proviene chiaramente da questo settore dei media. Qui,
infatti, abbiamo il capovolgimento satirico di uno stereotipo particolarmente
offensivo, che continua ad alimentare innumerevoli film splatter e truculenti.
Curiosamente "Mentre lei era fuori" si basa anche su un episodio realmente
accaduto, come ci racconta lo stesso Bryant:
In "Mentre lei era fuori" viene trattato un altro aspetto della vita vera, e si
tratta di un aspetto particolarmente inquietante: il ruolo della donna nei film
dell'orrore. Nonostante alcune recenti eccezioni, come il film del 1990, Blue
Steel, dove una recluta della polizia, Jamie Lee Curtis, la forte e complessa
protagonista, è invischiata in una inquietante relazione con un mostro
pluriomicida, i film dell'orrore solitamente ritraggono la donna nei termini più
smaccatamente superficiali. Vittime, oggetti sessuali, odiose
rompiscatole/streghe ammaliatrici, da Frankenstein a Ghostbusters 2 questo
stereotipo femminile viene riproposto con un'insistenza deprimente.
Ecco perché "Mentre lei era fuori" è così divertente; qui abbiamo un esempio
di splatterpunk usato come accusa anti-sessista. Con il suo panorama domestico
fin troppo scontato e il suo epilogo di morti ammazzati, "Mentre lei era fuori" e
il suo autore hanno completamente rovesciato i cliché del film dell'orrore.
Proprio nei suoi orientamenti più maschilisti.
Donne, questa storia è per voi.
Veniva giù nevischio, che cominciava a gelare sulle strade. Della era contenta
di aver preso la Subaru. Dall'inizio dell'inverno non aveva ancora avuto
occasione di usare l'auto con la trazione integrale, ma in una sera come quella si
sentiva rassicurata dall'averla.
La Southeast Plaza era una baraonda. Così sotto al Natale il parcheggio, di
solito semivuoto, era strapieno. Della volle fare un tentativo e fece un giro nelle
file più vicine alle entrate del centro commerciale. Se era fortunata avrebbe
potuto reagire con prontezza alle luci di retromarcia di qualcuno, e aggiudicarsi
il posto cinque secondi dopo. Ma ciò non avvenne. Passò in rassegna la seconda
fila, la terza. Poi... là! Si mosse senza neanche pensare, avendo visto un posto
vuoto subito dietro a un furgoncino azzurro metallizzato. Sterzò a sinistra la
Subaru.
E dovette pestare forte sui freni.
Qualche imbecille aveva parcheggiato una chiatta enorme, una vecchia
Plymouth, in diagonale in modo da occupare due posti.
La Subaru scivolò e si fermò col muso a mezzo centimetro dal paraurti da
dinosauro della Plymouth. In preda a choc e rabbia improvvisa, Della notò che la
cromatura era butterata di ruggine. Le luci di posizione della Subaru la
illuminavano di riflesso.
Le sfuggì un'imprecazione, il genere di linguaggio che di solito pensava
soltanto, in silenzio. Poi in retromarcia si tolse dallo spazio tagliato a metà e
riprese la ricerca di un posto. Alla fine quel che Della riuscì a rimediare fu un
posto nel perimetro più esterno del parcheggio. Era rassegnata a scarpinare per
mezzo chilometro nella poltiglia di neve sciolta. Non si era messa gli stivali.
L'acqua ghiacciata s'infiltrò nei mocassini e le inzuppò i piedi.
— Merda — esclamò. — Merda merda e merda!
Il percorso più breve per attraversare il parcheggio l'aveva portata vicino alla
Plymouth che monopolizzava i due posti. Della si fermò un attimo a osservare il
vecchio pachiderma. Era di color oro sporco con i resti di una capote che veniva
via a pezzi come le squame di uno scalpo scabbioso. Al bagliore del lampione
notò che le portiere erano tempestate di buchi di ruggine. Strano. Nell'aria secca
del Colorado una simile corrosione era improbabile. Incuriosita, diede
un'occhiata alla targa. Era ricoperta di neve sporca.
Fissò la vecchia auto enorme e s'accorse della rabbia che montava in lei. Non
era soltanto irritata. Un'autentica, genuina, profonda irritazione. Che razza di
imbecille può occupare due spazi in una serata infame come questa ad appena
due settimane da Natale?
Qualcuno che guidava una Plymouth dei vecchi tempi, non molto ben tenuta,
ovviamente.
Senza neanche pensarci su, Della tirò fuori dalla borsa il suo block-notes a
spirale. Lo sfogliò fino ad arrivare a una pagina vuota, dopo la lista della spesa
per il giorno dopo, e tolse il cappuccio al pennarello dalla punta fine (che
avrebbe dovuto scrivere dappertutto, e con una neve così sarebbe stato meglio
per lui) e scarabocchiò un messaggio:
UN AMICO PREOCCUPATO
Della piegò il pezzo di carta più che poté, per proteggerlo dal bagnato, e poi lo
infilò sotto il tergicristallo dalla parte del guidatore.
Non avrebbe ottenuto nulla — sicuramente quello era il tipo di automobilista
che di solito parcheggia abusivamente nei posti riservati ai portatori di
handicap... ma la fece sentire meglio. Della proseguì verso l'entrata del centro
commerciale e s'accorse che stava sorridendo.
Comperò alcuni rotoli di carta metallizzata per i regali degli adulti — dando
per scontato che alla fine avrebbe regalato a Kenneth quel che gli aveva
comperato — e un bel po' di carta decorata con la torta alle fragole per i regali
delle bambine. Della decise di non badare a spese — si era resa conto di essere
stanca — e scelse un pacco di nastri già infiocchettati anziché il solo rotolo di
nastro. Comprò anche una confezione di assorbenti interni.
Della gironzolò ancora un po' per il centro commerciale, dando un'occhiata ai
negozi di calzature se per caso avessero qualcosa di blu in saldo, un paio di
scarpe da indossare alla festa per collaboratori e consorti dell'ufficio di Kenneth.
In realtà quel che desiderava erano degli stivali nuovi. Ma per quelli c'era ancora
tempo, fino a dopo le feste quando i prezzi sarebbero calati. Comunque non c'era
niente che le piacesse. Sapeva che avrebbe dovuto comprare un regalo per la
famiglia di Kenneth in Nebraska. Non poteva aspettare ancora molto per spedire
il pacco.
Al diavolo. Capì che stava semplicemente perdendo tempo per non tornare a
casa. Forse aveva davvero bisogno di una terapia di gruppo, pensò. Non c'era
alcun gusto al pensiero di trascorrere un'altra notte dormendo accanto a Kenneth,
ad ascoltare il suo russare interrotto solo dallo sfregamento dei denti. Pensò che
il suono delle mascelle di Kenneth che sfregavano l'una contro l'altra era come
sentire la registrazione della deriva dei continenti a velocità aumentata.
Guardò l'orologio. Le nove passate da poco. Inutile aspettare ancora.
S'abbottonò il bavero del cappotto e s'unì ai fiotti di clienti che uscivano fuori
nella neve.
Della vide, mentre passava accanto alla vecchia Plymouth, che qualcosa non
era più uguale a prima. Che c'è che non va in questo quadro? Era il bigliettino.
Non c'era più. Probabilmente era scivolato via da sotto il tergicristallo con il
vento e l'acqua. Forse la carta sottile del block-notes semplicemente si era
sciolta.
Non aveva più voglia di scrivere un altro messaggio. Dimenticò quell'irritante
chiatta pronta per lo sfasciacarrozze e proseguì verso la sua automobile.
Della fece scaldare la Subaru per trenta secondi (al corso di meccanica
dell'automobile avevano detto di non lasciare scaldare il motore per molto
tempo, come lei una volta riteneva necessario) e poi innescò la retromarcia.
L'abitacolo fu inondato dalla luce.
Diede un'occhiata allo specchietto retrovisore e distolse immediamente lo
sguardo. Un occhio chiaro, abbagliante le rispose. Un altro tremolava nello
specchietto laterale.
— Santo cielo — mormorò trattenendo il respiro. — Sono tutti fuori i pazzi
stasera. — Pigiò il pedale della frizione con un piede, il freno con l'altro e attese
che l'auto dietro di lei si togliesse. Non accadde nulla. Gli abbaglianti sullo
specchio aumentarono di intensità. — Dannazione. — Della lasciò la Subaru in
folle e scese dall'auto.
Si riparò gli occhi e li tenne socchiusi. Il muso dell'auto dietro di lei aveva
qualcosa di familiare. Era la Plymouth color oro.
Due sportelli che non aveva visto scattarono, si aprirono e poi si richiusero
sbattendo.
Le luci si spensero all'improvviso e Della sbatté le palpebre, tentando di
riabituarsi alla debole illuminazione al vapore di mercurio del lampione, a un
paio di lunghezze d'auto.
Avvertì un brivido di inquietudine nel ventre e si voltò verso l'auto.
— Ho una pistola — disse una voce. — Davvero. — Sembrava una voce
maschile e giovane. — Punto prima alla tua fica.
Qualcun'altro ridacchiò, con voce sottile e stridula.
Della rabbrividì. Non poteva capitarle una cosa del genere. Non era possibile,
nel modo più assoluto.
Gli occhi si stavano riabituando, le ombre abbacinanti scorrevano ai limiti
della sua visione periferica e svanivano. Di fronte a lei vide tre figure, poi una
quarta. Non vide alcuna pistola.
— Che diavolo credete di fare? — li apostrofò.
— Non stiamo facendo niente, per il momento. — Quello, vide, era il nero. Si
trovava alla sinistra del ragazzino bianco che aveva sostenuto di avere una
pistola. I due erano affiancati da un altro ragazzo, che pareva cinese o
vietnamita, da una parte, e da un giovane dai bei lineamenti scuri, latini,
dall'altra. Tutti e quattro dovevano essere sui diciotto o vent'anni appena
compiuti. Quattro ragazzi. Che rappresentavano quattro gruppi etnici. Della
cacciò indietro un risolino che pensò fosse il primo passo verso l'isteria.
— E allora, ragazzi? Vi volete meritare un'attestazione in tolleranza? Magari
vendendo abbonamenti alle riviste? — Della si pentì subito di averlo detto. Suo
marito la prendeva sempre in giro per quel suo vizio di fare la saputella.
— Che donnina divertente — commentò il latino. — Semplicemente andiamo
d'accordo. — Diede un'occhiata alla sua sinistra. — Stai ridendo Huey?
Il nero scosse la testa. — Fa troppo freddo. Sto gelando qua fuori. Non sono
abbastanza vestito.
— A quello si rimedia facilmente — gli rispose il bianco. E a Della disse: —
Vinh, Tomas, Huey e io abbiamo tutti gli stessi interessi, non è vero?
— Ascolta... — Della cominciò a dire.
— Chuckie — disse il nero che ora Della presupponeva fosse Huey —
andiamo a sbatterci via di qui, okay?
— Chuckie? — fece Della.
— Zitta! — le intimò Chuckie. E rivolto a Huey: — Sentite, siamo venuti qua
per una vacanza, giusto? La parola d'ordine è divertirci. — Poi proseguì con
Della: — Senti, ci stavamo divertendo, finché ti abbiamo vista infilare quel
bigliettino sotto il tergicristallo. — Gli occhi gli scintillavano al bagliore della
lampada a vapore. — Non mi va di prendermi osservazioni da una zoccola
perbene solo perché ci ha le mestruazioni.
— Ma, per la miseria — sibilò Della disgustata. Decise che la pistola non ce
l'aveva sul serio. — Fottiti! — Il fumo emesso dalla Subaru l'avvolgeva tutta. —
Me ne vado, ragazzi.
— Qualcosa che non va qui, signorina? — domandò una nuova voce. Tutti si
voltarono. Era una delle guardie di sorveglianza ingaggiate dal centro
commerciale, corpulenta per la giacca imbottita di pelliccia e il cappello simile a
un colbacco. La mano era appoggiata casualmente sulla fondina non slacciata al
suo fianco.
— No, se questi teppistelli spostano la loro chiatta e mi lasciano uscire —
rispose Della.
— E allora, che ne direste, ragazzi? — disse la guardia.
Ma ora c'era davvero un fucile, una pistola scura, nelle mani di Chuckie, e la
puntava sulla faccia della guardia di sorveglianza. — Adesso — cominciò
Chuckie — questa doveva essere una vacanza, ma che cazzo. Niente testimoni,
mi pare.
— Per l'amor di Dio — fece la guardia, cominciando a indietreggiare. Chuckie
sorrise e lanciò uno sguardo ai suoi amici. — Ricordate quella guardia del centro
commerciale di Tucson? — Rivolto verso Della, aggiunse: — Quasi tutte queste
società di ingaggia-maiali non gli danno nessun arnese. Norme sulla
responsabilità e cazzate del genere. Peccato. — Sollevò il fucile di proposito.
La guardia cercò lo stesso la sua pistola. Chuckie gli sparò in faccia. Dalla
nuca schizzò fuori della poltiglia rossa che andò a macchiare il nevischio mentre
il corpo dell'uomo ondeggiava avanti e indietro, fra gli spasmi.
— Per la miseria — fece Chuckie esasperato. — Ne abbiamo già abbastanza.
Rilassati. — Si chinò sulla sua vittima e deliberatamente puntò e sparò, puntò e
sparò. Il secondo colpo colpì l'occhio sinistro della guardia. Il terzo gli fracassò i
denti.
Gli occhi di Della riprendevano ogni cosa come se fossero una cinepresa.
Tutto avveniva al rallentatore e lei si sentiva intorpidita. Tentò di aumentare la
velocità delle cose. Senza pensarci, si girò e s'avviò verso lo sportello dell'auto.
Sapeva di non avere speranza.
— Chuckie!
— E allora? Dove credi che possa andare? L'abbiamo bloccata. Ne piazzo uno
tra i suoi tergicristalli e ce ne possiamo andare a prendere un paio di cestelli di
birra, e magari ce la facciamo anche per l'ultimo spettacolo in qualche altro
centro commerciale.
Della lo udì sparare ancora una volta. Niente perforò la sua nuca. Stava ancora
disfacendo la testa di quella guardia.
S'infilò nel posto di guida della Subaru sbattendo lo sportello e pigiò con forza
il bottone della chiusura automatica delle porte, per quel che poteva servire.
Della inserì la trazione integrale. A quello Chuckie non aveva pensato. Ingranò
la prima, diede gas, e lasciò andare la frizione. La Subaru protestò appena
mentre i pneumatici anteriori artigliavano e rimbalzavano al di là della barriera
di cemento di circa quindici centimetri. La barriera stridette lungo tutta la parte
inferiore del telaio. Poi anche le ruote posteriori superarono la barriera e la
Subaru scodinzolò per qualche istante.
Non sterzare troppo, pensò. Ma era una preghiera.
La Subaru si raddrizzò e Della accelerò lungo la via di servizio nel perimetro
esterno del centro commerciale, facendo schizzare la poltiglia di neve in
entrambi i lati. E adesso? pensava. Devono aver sentito gli spari. Il parcheggio
doveva brulicare di poliziotti.
Ma nel frattempo...
I fari, chiari e accecanti, colpirono i suoi specchietti.
Della pigiò l'acceleratore a tavoletta.
Tutto ciò era folle! Quelle cose non capitano alle persone... le persone
normali. Il sangue della guardia giurata del centro commerciale sulla neve era
sufficientemente reale.
Nel retrovisore ci fu un lampo poco al di sopra del faro sinistro, poi un altro.
Era uno sparo, realizzò Della. Le stavano sparando. Era proprio come in TV. Si
sentì prudere lo scalpo della nuca. Avrebbe sentito qualcosa quando la pallottola
le perforava la testa?
Le gemelle! Kenneth. Li voleva vedere tutti, essere al sicuro con loro. In
qualsiasi posto tranne che lì!
Della girò violentemente il volante, ignorando il segnale di stop e rendendosi
subito conto che la strada d'accesso era senza uscita. Poteva andare a destra o a
sinistra, e allora andò a destra. Pensava che fosse la direzione di casa. Non fu
una buona scelta. Le luci erano tutte dietro di lei ora; davanti a sé non c'era
nient'altro che oscurità. Tentò di ricordarsi che cosa ci fosse dietro al centro
commerciale in quel lato. C'erano delle case in costruzione, finite e non.
Ci doveva pur essere un supermercato 7-Eleven, una stazione di servizio,
qualcosa. Ma non c'era, e poi il selciato finì. Dapprima la strada si fece
improvvisamente più accidentata, con le buche che si spalancavano più
profonde. Poi l'asfalto striato di fanghiglia finì. La Subaru rimbalzò sulla ghiaia;
una trentina di metri più in là, la ghiaia diventando sporcizia mal livellata. Più
propriamente la superficie di sporcizia poteva essere definita fango.
Davanti a lei comparve una barriera di legno, le strisce catarinfrangenti e la
neve luccicavano alla luce dei fari.
Era proprio come in TV, pensò Della. Diede gas al motore e si piegò di lato,
anche con il cruscotto, quando la Subaru investì la barriera. Udì un tremendo
crack e i vetri in frantumi dei finestrini schizzarono tutt'attorno a lei. Sentì l'auto
virare. Tentò di mettersi a sedere diritta, ma l'auto girava su se stessa troppo
velocemente
La Subaru fece un ultimo giro e andò a sbattere definitivamente contro un
basso boschetto di giovani pini. Il motore tossì e si bloccò. Della premette il
tasto della luce. Sentiva la fragranza penetrante degli aghi di pino schiacciati
invadere con la neve l'abitacolo attraverso lo spazio dove c'era stato il finestrino.
Il motore bofonchiò quando lei girò la chiave d'accensione, ma non partì.
Della s'arrischiò a dare un'occhiata in giro. I fari della Plymouth erano visibili,
ma l'auto era più lontana di quanto lei non avesse osato sperare. La dimensione
dei fari non aumentava e continuavano a puntare in alto facendo un angolo
acuto. Probabilmente la pesante Plymouth aveva slittato nella fanghiglia, era
uscita di strada e s'era impantanata per il meglio.
Provò ancora con la chiave, e di nuovo il motore non rispose. Udì
qualcos'altro... voci che si avvicinavano. Della estrasse la chiave d'accensione e
lanciò uno sguardo attorno all'abitacolo al buio. C'era qualcosa che poteva usare?
anche solo qualcosa? Non nel vano portaguanti. Sapeva che là dentro non c'era
nient'altro che il libretto d'istruzioni e un pacco grande di gomme da masticare
senza zucchero alla menta.
Le voci s'avvicinavano.
Della tastò sotto il cruscotto e tirò la levetta d'apertura del cofano. Poi abbassò
il finestrino e strisciò fuori nell'oscurità. Non era così sconvolta da dimenticarsi
che le luci si sarebbero spente se avesse aperto lo sportello.
Almeno uno dei ragazzi aveva una torcia elettrica. Il fascio di luce tremolava e
danzava sulla neve mentre quello avanzava.
Della raggiuse incespicando il bagagliaio della Subaru. A tastoni trovò la
cassetta degli arnesi. Con l'altra mano trovò la chiave a croce. Poi s'allontanò
dall'auto.
Avrebbe voluto avere un fucile. Avrebbe voluto sapere usare un fucile. Era
una cosa programmata per un vago futuro una volta terminato il corso di
meccanica dell'auto e quello di autodifesa e quando avesse avuto di nuovo il
tempo di seguire qualche altro corso serale. Non era che, aveva ricordato a se
stessa, fosse diventata paranoide. Semplicemente voleva essere meglio attrezzata
per vivere in città. I sobborghi non erano la città per Kenneth, ma per una
ragazza del Montana rurale sì.
Lei non se l'aspettata questo.
Si piegò. Il naso le diceva che il nascondiglio che aveva trovato era un ri-
goglioso cespuglio di salvia. Si trovava forse a una ventina d metri dalla Subaru.
I ragazzi non facevano nessun tentativo di rubare. Li sentiva parlare fra di loro
mentre il fascio della torcia saltellava tutt'attorno alla sua auto in panne.
— Dunque lei è là dentro col cervello tutto versato sul volante? — diceva
Tomas, il ragazzo latino.
— Sei un ottimista? — gli rispose Chuckie. Sghignazzò, un riso stridulo. —
No, non è qui, razza di stronzo. Questa qua è una tosta. — Poi aggiunse: — Ehi,
guardate là!
— Che stai facendo? — Intervenne Huey. — Non ci abbiamo tempo per
quello.
— Non essere troppo sicuro. Magari lo possiamo usare.
Che cosa aveva trovato? si domandava Della.
— Ora fare che cosa? — chiese Vinh. Aveva un po' di accento.
— Poni che questo è l'Ovest — disse Huey. — Supponi che noi siamo uomini
delle montagne, proprio come nei film.
— Giusto — fece Chuckie. — Scovatela. C'è fango. C'è neve. Quanto lontano
può andare?
— Ci sono delle tracce — esclamò Tomas. — Punta là la torcia. Deve essere
piuttosto vicina.
Della si voltò. Abbracciò la cassetta degli attrezzi, attenta a non farla tin-
tinnare o sbattere, e fuggì nella notte.
— Dove diavolo sei stata? — le chiese Kenneth non appena ebbe chiuso la
porta di ingresso dietro di sé. — Sei stata via per quasi tre ore.
La osservò più da vicino. — Della, cara, ti senti bene?
— Non chiamarmi in quel modo — rispose lei — per cortesia. — Aveva
sperato di avere un aspetto migliore, più normale. Non tutto arruffato. Dopo aver
parcheggiato la Subaru nella rampa accanto alla casa, per diversi minuti aveva
tentato con lo sputo e i Kleenex di aggiustarsi il mascara. Il trucco che aveva con
sé era rimasto nella borsetta e non aveva idea di dove quella fosse.
Probabilmente l'aveva trovata la polizia; tre volanti con le sirene spiegate le
erano passate accanto puntando nella direzione opposta, mentre lei risaliva dalla
Southeast Plaza.
— I vestiti — Kenneth gesticolò. Non si mosse da dove si trovava. Della si
guardò in basso. Aveva cercato di eliminare il fango con la neve e uno straccio
del bagagliaio. C'era anche del sangue, un po' di Chuckie e il resto degli altri
due, Tomas e Vinh.
— Cara, c'è stato un incidente?
Rientrata a casa, aveva osservato per un po' il lato guida della Subaru.
Perlomeno l'auto funzionava ancora; prima doveva essersi solo ingolfata. Ma
l'assicurazione non sarebbe stata contenta. Tutta la fiancata doveva essere
ridipinta.
— Una specie.
— Sei ferita?
Come tocco finale, si era sentita una lenta vischiosità tra le gambe mentre
risaliva il vialetto di accesso. Fantastico. Non vedeva l'ora che i crampi si
facessero più forti.
— Ferita? — Scosse la testa. No. — Come stanno le bambine?
— Ah, sono a letto. Sono andato a vederle mezz'ora fa. Stavano dormendo.
— Bene. — Della udì delle sirene in lontananza, che si facevano sempre più
forti avvicinandosi al vicinato. Probabilmente la polizia aveva trovato la sua
patente nella tasca di Chuckie. Di quella si era dimenticata.
— Bene — fece Kenneth. Era evidente che non sapeva bene a quel punto se
essere arrabbiato, premuroso o strafottente. — Che cosa mi hai portato dal
negozio?
Della teneva la mano destra nella tasca della sua giacca. Avvertì il corpo
solido, il manico freddo della pistola.
Fuori il volume delle sirene aumentava.
Toccò il grilletto. Ritrasse la mano dalla tasca e puntò la pistola contro
Kenneth. Lui le rispose con uno sguardo stranito.
Le sirene passarono oltre. Dalla finestra Della intravide un'ambulanza
sfrecciare a tutta velocità. L'intensità del suono diminuì fino a raggiungere un
silenzio tanto distante quanto il sogno che le era folgorato nella mente.
Della tirò il grilletto e il clic parve riecheggiare in tutta la casa.
Scioccato Kenneth continuò a fissare il tamburo della pistola e poi gli occhi di
lei.
Era tutto sotto controllo. Aveva contato le pallottole. Proprio come nei film.
— Credo — disse Della a suo marito — che dovremmo parlare un po'.
In qualche altro punto di questo libro troverete il mio saggio Fuorilegge, che
postula la nozione che lo splatterpunk sia sempre esistito (anche se sotto nome
diversi, naturalmente). Un degno esempio di tale teoria sono gli scritti del 1960
di Harlan Ellison, che nei racconti proto-splat "Un ragazzo e il suo cane" e "Non
ho bocca e devo urlare" mostrano chiaramente le attitudini e la crudezza che in
seguito saranno tipiche della fiction splatterpunk.
Ma lo splatterpunk è infinitamente flessibile, e potrebbe essere rintracciato
persino nella science fiction degli anni Settanta.
George R.R.Martin è, secondo me, uno dei migliori e più validi scrittori del
momento (anche se, ancora una volta, si tratta di uno che vuole che vi dica che
non è assolutamente uno splatterpunk. La produzione di Martin apparve per la
prima volta verso la metà degli anni Settanta, e da allora egli si è guadagnato un
gran numero di credenziali decisamente degne di nota. Nel campo della carta
stampata, i suoi lavori comprendono alcuni storici romanzi di vampiri (il
premiato Fevre Dream, una canzone d'amore sui vecchi battelli fluviali
alimentati a vapore), antologie di materiale di prim'ordine (Songs the Dead Men
Sing), classici racconti brevi ("Sandkings", vincitore del premio Nebula) e
bizzarre serie antologiche (Wild Cards, i libri sull'universo alternativo).
Il romanzo di George Nightflyers è stato anche adattato in un film (e per la
verità... pessimo). E poi la televisione; i suoi copioni sono apparsi nella nuova
serie di Ai confini della realtà, come in The hitchhiker di HBO, anche se egli
deve la massima notorietà televisiva al cult-show "La bella e la bestia" (con
Linda Hamilton e Ron Perlman; George finì per fare il supervisore di produzione
dello show).
Per quanto riguarda "L'uomo della Casa della carne", va detto che si tratta di
un lavoro profondamente sentito, nonché di uno dei racconti più tenebrosi della
raccolta. Martin lo propose originariamente a Harlan Ellison, perché lo
includesse in Dangerous Visions volume secondo; questi lo rifiutò, ma in seguito
mi disse di essersene pentito. Comunque siano andate le cose, "L'uomo della
Casa della carne" si muove su diversi livelli. Da un lato è uno scomodo
quadretto sulla rapacità dell'essere umano nel campo dello sfruttamento
economico; dall'altro, uno stanco e prostrato addio ai concetti infantili di
innocenza e amore romantico. "L'uomo della Casa della carne" merita di
emergere dalla relativa oscurità in cui si è trovato sinora. Si tratta di una valida
lezione di storia, di un esempio lampante di come non tutto lo splatterpunk
valido debba necessariamente essere stato scritto dopo la pubblicazione dei Libri
di sangue.
Spero vi piacerà: sono certo che non lo dimenticherete.
La prima volta arrivarono dritti dai campi minerari, Trager e gli altri, i ragazzi
più adulti, i quasi uomini che facevano lavorare i corpi accanto al suo. Cox era il
più grande del gruppo, quello che aveva visto più cose, e disse che Trager
sarebbe dovuto venire anche se non ne aveva voglia. Poi uno degli altri si mise a
ridere e disse che Trager non avrebbe neppure saputo che cosa fare, ma Cox-il-
capo lo spintonò finché non si zittì. E quando arrivò il giorno di paga, Trager
seguì gli altri verso la Casa della carne, intimorito ma anche impaziente, e dati i
soldi a un uomo al piano terra prese la chiave di una stanza.
Entrò nella penombra della camera, tremante e nervoso. Gli altri erano andati
in altre stanze, lo avevano lasciato da solo con lei (no: quella; non "lei", ma
"quella" si ricordò, e lo dimenticò subito dopo). In una misera stanzetta
grigiastra con un'unica luce smorta.
Trager puzzava di sudore e di zolfo, come tutti quelli che camminavano per le
strade di Skrakky, ma era inevitabile. Sarebbe stato meglio fare prima un bagno,
ma in camera non c'era. Solo un lavandino, un letto matrimoniale con dei
lenzuoli dall'aspetto sporco anche in quella luce fioca, e un corpo.
Se ne stava là nuda, fissando nel vuoto, respirando piano. Le gambe erano
spalancate: pronte. Era sempre così, si chiese Trager, oppure era stato l'uomo di
prima a lasciarla a quel modo? Non sapeva dirlo. Sapeva come farlo (sì, lo
sapeva, aveva letto i libri che gli aveva dato Cox, ed era possibile vedere dei
film e cose simili) ma non sapeva un granché di tutto il resto. Forse, solo, come
comandare i corpi. In quello era bravo, il più giovane gestore di Skrakky, ma non
poteva essere che così. Lo avevano costretto a entrare nella scuola per gestori di
corpi quando era morta sua madre e lo avevano fatto imparare, e lui lo aveva
fatto. Ma questo, questo no, non l'aveva mai fatto (ma sapeva come farlo: sì, sì,
lo sapeva); era la sua prima volta.
Raggiunse lentamente il letto e si sedette accompagnato da un coro di molle
scricchiolanti. La toccò, e la carne era calda. Chiaro. Non era un vero e proprio
cadavere, no davvero; il corpo era abbastanza vivo, sotto quei pesanti seni
biancastri batteva un cuore, e poi respirava. Solo il cervello era andato, strappato
via e rimpiazzato con un synthabrain per morti. Adesso era carne, un altro corpo
comandato da un gestore, come il gruppo in cui lavorava Trager, tutti i giorni
sotto quel cielo color zolfo. Non era una donna. Quindi non importava che
Trager fosse solo un ragazzino con la faccia di rospo e la mascella forte, che
puzzava di Skrakky. A lei (no: a quella, okay?) non sarebbe importato, non
poteva importarle.
Fattosi più baldanzoso, eccitato e deciso, il ragazzo si tolse la tuta da gestore
di corpi ed entrò nel letto con quella carne femminile. Era molto eccitato; le
mani gli tremavano mentre l'accarezzava, studiandola. La pelle era molto bianca,
i capelli neri e lunghi, ma neppure quell'adolescente avrebbe potuto dire che era
bella. La faccia era troppo piatta e larga, la bocca spalancata, le braccia molli e
piene di grasso.
Sui seni enormi, tutto attorno ai grassi capezzoli scuri, l'ultimo cliente aveva
lasciato l'impronta dei denti, dove l'aveva morsa. Trager toccò più volte incerto
quei segni, seguendone il contorno con un dito. Poi, vergognandosi delle proprie
esitazioni, afferrò un seno, lo strizzò forte, e pizzicò il capezzolo finché,
immaginò, una donna vera avrebbe urlato di dolore. Il corpo non si mosse.
Ancora strizzando, le montò sopra e prese l'altro seno in bocca.
E il corpo rispose.
Si tirò su verso di lui, rigido, e le sue braccia carnose si avvinghiarono alla
schiena foruncolosa di Trager per tirarlo a sé. Lui emise un gemito e allungò la
mano in mezzo alle cosce. Era calda, bagnata, eccitata. Fu preso da un tremito.
Come facevano a farglielo fare? Riusciva realmente a eccitarsi anche senza
mente, oppure le avevano messo dentro dei sistemi di lubrificazione, o cos'altro?
Poi non gli importò più. Annaspò e trovò il pene, lo mise dentro, spinse. Il
corpo lo avvinghiò con le gambe sulla schiena e tirò a sé. Non era male, per
niente, anzi meglio di quanto Trager avesse mai fatto da solo, e per qualche
oscura ragione si sentiva orgoglioso che fosse così bagnata ed eccitata.
Bastarono pochi altri colpi; era troppo nuovo a una cosa simile, troppo
giovane, troppo bramoso per durare a lungo. Pochi colpi furono sufficienti... ma
anche per lei. Vennero assieme, con un rossore che le attraversava la pelle
mentre si incurvava contro di lui e si dibatteva muta.
Subito dopo rimase nuovamente immobile come un cadavere.
Trager era svuotato e soddisfatto, ma gli era rimasto un po' di tempo, ed era
deciso a metterlo a frutto. La esplorò completamente, infilando le dita ovunque
entrassero, toccandola dappertutto, mettendola bocconi, guardando tutto. Il corpo
si muoveva come carne morta.
La lasciò come l'aveva trovata, nel letto a faccia in su e con le gambe
spalancate. In omaggio alla Casa della carne.
Ma pochi giorni dopo Cox gli rise in faccia, e Trager dovette seguirli. Sentiva
che in qualche modo avrebbe provato qualcosa.
Stavolta, una camera e un corpo diversi. Grasso e nero, con i capelli lucidi e
arancioni, meno attraente del primo, se possibile. Ma Trager era pronto e
voglioso, e stavolta durò più a lungo. E anche stavolta la performance fu
stupenda. Il ritmo del corpo era identico al suo, colpo su colpo, vennero assieme
e gli sembrò che conoscesse esattamente i suoi desideri.
Altre visite; due, tre, sei. Ormai era un habitué della Casa, come gli altri, e
aveva smesso di preoccuparsene. Cox e gli altri lo accettavano in un modo
strano, quasi con compassione, ma almeno il suo disprezzo verso di loro era
aumentato. Lui era meglio di loro, pensava. Poteva farsi valere nella Casa,
guidare i suoi corpi e l'automacina bene quanto loro, e continuava a pensare e
sognare. Al momento opportuno se li sarebbe lasciati tutti dietro, avrebbe
abbandonato Skrakky, sarebbe divenuto qualcuno. Loro sarebbero rimasti clienti
di Case per tutta la vita, ma Trager sapeva di poter fare di meglio. Lo sapeva.
Avrebbe trovato l'amore.
Non ne trovò nella Casa, ma il sesso migliorò sempre più, finché fu perfetto
come inizio. A letto con i corpi, Trager non rimaneva mai deluso; faceva tutto
ciò di cui aveva letto, sentito parlare, sognato. I corpi indovinavano i suoi
pensieri prima che lui li formulasse. Quando lo voleva lento, erano lenti. Quando
invece, forte, veloce e brutale, lo aveva così: in modo perfetto. Usava ogni loro
orifizio; loro sapevano sempre quale offrirgli.
La sua ammirazione per il gestore della Casa crebbe mese dopo mese, finché
divenne quasi adorazione. Forse esisteva un modo per incontrarla, pensò infine.
Ancora ragazzo, ancora inguaribilmente naïf, era certo che l'avrebbe amata. Poi
l'avrebbe portata via dalla Casa, su un mondo pulito e privo di corpi, dove
avrebbero potuto essere felici assieme.
Un giorno, in un momento di debolezza, lo disse a Cox e agli altri. Cox lo
guardò, scosse la testa e fece una smorfia. Qualcuno ridacchiò, poi tutti insieme
iniziarono a sghignazzare. — Che idiota che sei Trager! — disse infine Cox. —
Questo gestore di merda non esiste! Non dirmi che non hai mai sentito parlare di
un circuito di feed-back?!
Gli spiegò tutto, in mezzo alle risate; come ogni corpo fosse collegato a un
controller posto nel letto, come fosse ciascun gestore che vi andava a comandare
la propria carne, e perché i non-gestori trovassero le donne delle Case gelide e
immobili. E il ragazzo capì improvvisamente perché il sesso fosse sempre stato
così perfetto. Trager era un miglior gestore di quanto avesse mai pensato.
La notte, da solo in camera e immerso in quella luce bianca e torrida, si diede
un sguardo dentro. E si voltò da parte, schifato. Era bravo nel suo lavoro, e ne
era orgoglioso, ma per il resto...
Era colpa della Casa, si disse. Là dentro c'era una trappola, una trappola che
poteva rovinarlo, distruggere vita, sogni e speranze. Non ci sarebbe più tornato;
era troppo facile. L'avrebbe fatta vedere a Cox, a tutti loro. Avrebbe scelto la via
difficile, corso i rischi, provato dolore se ce n'era bisogno. E forse la gioia, forse
l'amore. Si era spinto anche troppo oltre, nell'altra.
Trager non tornò alla Casa della carne. Forte, risoluto e superiore, se ne tornò
nella sua stanza, Là, mentre gli anni scorrevano, lesse e sognò, aspettando che la
vita iniziasse.
Josie fu la prima.
Era bella, lo era sempre stata, sapeva di esserlo; e saperlo l'aveva formata,
l'aveva resa ciò che era. Era uno spirito libero. Era aggressiva, sicura di sé, una
vincente. Come Trager, aveva solo vent'anni quando s'incontrarono, ma aveva
vissuto più di lui, e sembrava conoscere tutte le risposte. Lui se ne innamorò
subito.
E Trager? Quel Trager prima di Josie, di anni prima nella Casa della carne?
Adesso era più alto, con le spalle larghe, con muscoli e grasso, spesso triste,
silenzioso e riservato. Comandava una squadra di sei corpi nei campi minerari,
più di Cox, più di tutti loro. La notte leggeva; a volte in camera sua, altre
nell'ingresso. Si era dimenticato da molto tempo di esserci andato per incontrare
qualcuno. Equilibrato, serio, tutto d'un pezzo; così era Trager. Non sfiorava
nessuno e nessuno sfiorava lui. Persino le torture erano terminate, anche se
dentro rimanevano le ferite. Trager quasi non lo sapeva; non vi badava mai.
Aveva trovato il suo equilibrio. Con i suoi corpi.
Ma... non completamente. Dentro di lui, il sogno. Qualcosa che continuava a
credere, che si faceva sentire, che premeva. Era ancora abbastanza forte per
tenerlo lontano dalla Casa, dalla vita vegetale scelta da tutti gli altri. E a volte,
nelle tristi notti solitarie, diveniva ancora più forte. Allora Trager si alzava dal
letto vuoto, si vestiva, e camminava per ore nei corridoi con le mani infilate a
fondo nelle tasche, mentre nelle viscere qualcosa si agitava, graffiava e si
lamentava. Ogni volta, prima che le passeggiate terminassero, decideva di fare
qualcosa, di dare una svolta alla propria vita il giorno seguente.
Ma quando il domani arrivava, i corridoi grigi e silenziosi erano per metà
dimenticati, i demoni spariti, e c'erano sei automacine roboanti e ondeggianti da
dover guidare nel pozzo. Veniva inghiottito dalla ruotine, e sarebbero passati
mesi prima di provare ancora quelle sensazioni.
E poi Josie. Si incontrarono così:
Era un campo nuovo, ricco e non ancora scavato, una vasta distesa di roccia
rotta e detriti che ricoprivano la pianura. C'erano delle collinette fino a qualche
settimana prima, ma la lance della Compagnia avevano livellato
sistematicamente l'area con mine nucleari, e adesso era giunto il turno delle
automacine. La squadra di Trager era stata la prima, e all'inizio la novità lo
aveva reso euforico. Il vecchio pozzo ormai era quasi esaurito; ma qui c'era un
nuovo terreno con cui misurarsi, massi e frammenti di rocce spezzettate, pezzi
grossi come guantoni da baseball che ti arrivavano addosso sibilando, in mezzo a
quel vento polveroso. Aveva l'aria di essere divertente, e pericoloso. Trager, che
indossava un giacchetto in pelle, maschera, occhiali e cuffie, guidava le sue sei
macchine e i corpi con grande orgoglio, riducendo in polvere i massi, aprendo la
strada per le altre macchine, lottando metro dopo metro per ottenere più minerale
possibile.
E un giorno, improvvisamente, qualcosa nella coda dell'occhio attirò la sua
attenzione. Su un'automacina guidata da un corpo si accese una luce rossa.
Trager allungò la mano, si concentrò, poi altri cinque corpi lo fecero. Sei
macchine si fermarono, ma un'altra luce divenne rossa. Poi un'altra, e un'altra
ancora. Poi l'intero cruscotto, poi tutti e dodici. Una delle macchine era in panne.
Bestemmiando, guardò sul campo in direzione della macchina in questione,
adoperando un corpo per tentare di farla ripartire. Le luci rimasero rosse. Lanciò
il segnale di richiesta di un tecnico.
Quando il tecnico arrivò — su una lancia monoposto che sembrava una goccia
di metallo nero butterato — Trager si era liberato dalle cinture, era sceso dai
pioli metallici sul lato dell'automacina, e aveva attraversato le rocce per
raggiungere quella in panne. Stava per iniziare a salire quando arrivò Josie; si
incontrarono ai piedi di quel mostro in metallo giallo, all'ombra dei suoi cingoli.
Era una veterana dei campi, capì subito Trager. Indossava una tuta da gestore,
cuffie, grossi occhiali, e il viso era ricoperto di grasso per evitare l'abrasione
della polvere. Ma era comunque molto bella. Aveva i capelli color castano chiaro
e corti, con una frangia scarruffata dal vento. I suoi occhi, quando alzò gli
occhiali, erano verde chiaro. Prese immediatamente il comando della situazione.
Con fare indaffarato, si presentò, fece alcune domande, quindi aprì un vano
per le riparazioni ed entrò, nelle viscere del motore, nell'odore del campo
minerario e del carburante. Non gli ci volle molto; dieci minuti, forse, e poi fu di
nuovo fuori.
— Non entrare — gli disse, spostando i capelli dagli occhiali con un mo-
vimento della testa. — Hai un problema alla valvola. I reattori si stanno
spegnendo.
— Ah — disse Trager. La mente era tutt'altro che rivolta alla macchina, ma
doveva impressionarla, dire qualcosa d'intelligente. — Scoppierà? — chiese, e
non appena lo ebbe detto seppe di non essere stato affatto intelligente. Certo che
non sarebbe scoppiato; i reattori nucleari in panne non lo fanno, e lui lo sapeva.
Ma Josie sembrò meravigliata. Sorrise — fu la prima volta che vide quel suo
sorriso così singolare — e sembrò vederlo, vedere lui, Trager, non solo un
gestore di corpi. — No — disse. — Si fonderà. Qua fuori non diventerà
nemmeno caldo, visto che ci sono degli schermi montati nelle paratie. Basta non
entrare.
— Bene. — Silenzio. Che dire adesso? — Che devo fare?
— Far lavorare il resto della squadra, credo. Questa qui dovrà essere
smantellata. Avrebbe dovuto essere tirata a nuovo molto tempo fa. Da quel che
ho visto, hanno già fatto un sacco di riparazioni. È stupido. Si rompe una volta,
due, tre... e continuano a mandarla fuori. Dovrebbero capire che c'è qualcosa che
non va. Dopo così tanti fallimenti, è un'illusione bella e buona pensare che la
prossima volta funzionerà.
— Direi — disse Trager. Josie gli sorrise nuovamente, chiuse il coperchio e
iniziò a voltarsi.
— Aspetta — disse lui. Gli uscì di bocca prima che potesse fermarlo, quasi
contro la sua volontà. Josie si voltò, inclinò le testa e lo fissò con aria
interrogativa. E Trager attinse una forza improvvisa da quell'acciaio, dalle pietre
e dal vento; sotto quel cielo sulfureo i suoi sogni sembravano meno impossibili.
Forse ci siamo, pensò, forse.
— Uh... mi chiamo Greg Trager. Ci vediamo stasera?
Josie sorrise. — Certo. Passa a trovarmi. — Gli diede l'indirizzo.
Trager tornò nell'automacina dopo che lei se ne fu andata, esultando in tutti i
sei corpi, adesso vispi e pieni di vita, ingoiando roccia e con una sensazione
molto vicina alla gioia. Il bagliore rosso scuro sull'orizzonte sembrava quasi
un'alba.
Quando arrivò a casa di Josie vi trovò altre quattro persone, suoi amici. Era un
party come tanti. Josie ne dava un sacco e Trager — da quella sera in poi — non
ne perse uno. Josie gli parlava, ridevano assieme, lo apprezzava, e
improvvisamente la sua vita non fu più la stessa.
Con lei, vide parti di Skrakky mai viste prima, fece cosa mai fatte: rimase in
mezzo ai gruppi di persone che si radunano nelle strade la notte, nel vento
polveroso e in quella orribile luce gialla tra i palazzi in cemento privi di finestre,
se ne rimase lì a scherzare e ridere fino a perdere la voce, mentre dei meccanici
sporchi di grasso sfrecciavano accanto a rumorose motrici gialle, avanti e
indietro, su e giù.
Percorsero a piedi assieme, gli Uffici sotterranei, stranamente silenziosi,
bianchi e puliti, i corridoi ad aria pressurizzata e condizionata, dove abitavano e
trascorrevano tutta la vita i dipendenti della Compagnia, i reclusi dal mondo e gli
scribacchini.
Girarono assieme per i rec-mall, quelle grosse e tozze costruzioni così simili a
un magazzino da fuori, ma pieni di luci colorate, sale giochi, posti di ristoro,
negozi di nastri, e bar infiniti dove si ritrovavano a bere i gestori di corpi.
Andarono alle palestre dei dormitori, dove videro gestori meno esperti di lui
far scagliare l'uno contro l'altro corpi dai pugni goffi.
Rimase seduto con lei e i suoi amici, e svegliarono taverne buie e calme con le
loro chiacchiere e risate, e una volta Trager vide qualcuno che assomigliava
molto a Cox fissarlo dall'altra parte della sala, e lui sorrise e si fece più vicino a
Josie.
Notava a malapena gli altri, le persone di cui si circondava Josie quando
uscivano per una delle loro passeggiate; sei, otto, a volte dieci. Trager si diceva
che erano lui e Josie a uscire, e che gli altri erano venuti con loro.
Molto, molto di rado, le cose si mettevano in modo tale che rimanevano soli, a
casa di lui o di lei. Allora iniziavano a parlare. Di mondi distanti, di politica, di
corpi e della vita su Skrakky, dei libri che entrambi leggevano, di sport, giochi o
amici comuni. Il loro era un bel rapporto. Trager parlò molto con Josie. E non le
disse mai niente.
L'amava, naturalmente. Lo sospettò fin dal primo mese, e presto ne fu certo.
L'amava. Sì, era questo che aveva aspettato per tanto tempo, ed era arrivato,
proprio come lui si aspettava.
Ma assieme all'amore... l'agonia. Non riusciva a dirglielo. Ci aveva provato
una dozzina di volte; ma le parole non erano mai uscite. E se lei non lo avesse
ricambiato?
Le sue notti erano sempre solitarie, nella piccola stanza con le luci bianche, i
libri e il suo dolore. Adesso era più solo che mai; la pace della sua ruotine, della
sua vita-a-metà con i corpi era ormai andata, cancellata. Di giorno guidava le
grandi automacine e i corpi, faceva a pezzi la pietra e fondeva il minerale,
mentre ripassava mentalmente le parole che avrebbe detto a Josie. E sognava
quelle che lei gli avrebbe detto. Anche lei era in difficoltà, pensava. Aveva avuto
altri uomini, certo, ma non li aveva amati: amava lui. Ma neanche lei riusciva a
dirglielo. Quando lui ce l'avrebbe fatta, trovato le parole e il coraggio di dirle,
allora tutto sarebbe andato per il verso giusto. Ogni giorno se lo diceva, e
scavava in fretta e a fondo il suolo.
Ma tornato a casa, quella sicurezza spariva. Allora, preso dal terrore, capiva
che si stava ingannando. Era solo un amico, tutto qui, non ci sarebbe mai stato
niente di più. Perché raccontarsi bugie? Aveva già avuto abbastanza avvisaglie.
Non erano stati amanti, e non lo sarebbero stati mai; le poche volte che aveva
trovato il coraggio di toccarla, lei gli aveva sorriso e si era allontanata con un
pretesto, e Trager non era mai stato certo del tutto che lo avesse rifiutato. Ma ne
aveva l'impressione, e durante la notte lo rodeva dentro le viscere. Adesso
camminava nei corridoi ogni settimana, accigliato, disperato, desideroso di poter
parlare con qualcuno ma senza sapere come. E tutte le vecchie ferite si
riaprivano e riprendevano a sanguinare.
Fino al giorno seguente. Quando se ne tornava alle macchine e alla speranza.
Doveva credere in se stesso, lo sapeva, se lo diceva a voce alta. Doveva smettere
di compiangere la propria sorte. Doveva fare qualcosa. Lo avrebbe fatto.
E lei lo avrebbe amato, urlava il giorno.
E lei si sarebbe messa a ridere, rispondeva la notte.
Trager le stette dietro per un anno, un anno di dolore e speranza, il primo
veramente vissuto. Su questo le paure notturne e le voci diurne concordavano;
adesso era vivo. Non avrebbe mai più fatto ritorno alla vita vuota di prima
d'incontrare Josie; non sarebbe mai tornato nella Casa. In questo, per lo meno,
c'era riuscito. Poteva cambiare, e un giorno sarebbe stato abbastanza forte da
dirglielo.
Josie e due amici passarono a trovarlo quella sera, ma i due dovettero an-
darsene presto. Per un'ora o due rimasero soli, parlando di niente in particolare.
Alla fine arrivò il momento di andarsene. Trager disse che l'avrebbe
accompagnata a casa.
Lungo i corridoi le tenne il braccio attorno alla schiena e la guardò in volto,
osservando i giochi di luce sulle sue guance mentre passavano dalla luce al buio.
— Josie — iniziò a dire. Si sentiva bene, convinto, affettuoso, e le parole
uscirono. — Ti amo.
E lei si fermò, si allontanò e fece un passo indietro. La bocca le si aprì appena,
e nei suoi occhi balenò qualcosa. — Oh, Greg — disse. Piano. Con tristezza. —
No, Greg, no, non farlo, no. — E scosse la testa.
Tremando leggermente e balbettando parole silenziose, Trager le porse la
mano. Josie non la prese. Le toccò dolcemente la guancia, e senza dire una
parola lei si allontanò.
Poi, per la prima volta in vita sua, Trager iniziò a tremare. E le lacrime fecero
la loro comparsa.
Josie lo portò in camera sua. Seduti sul pavimento, uno di fronte all'altra,
iniziarono a parlare, senza mai sfiorarsi.
Trager fece ritorno al campo nella foresta, e i suoi corpi fecero volare i
buzztruck come se fossero usciti di senno. Ma fu stranamente silenzioso davanti
al fuoco, e la notte non parlò con Donelly. Finché, offeso e confuso, Donelly lo
seguì nella foresta. E lo trovò accanto a un languido torrente, nero come la
morte, seduto sulla riva e con davanti ai piedi una pila di pietre da scagliare.
T: ...sono entrato... dopo tutto quello che avevo detto, tutte le promesse... sono
entrato...
D: ...non prendertela... ricorda che cosa mi hai detto... continuare a credere...
T: ...ci credevo, CI CREDEVO... non era difficile... Josie...
D: ...dici che io non dovrei mollare, e nemmeno tu... ripeti a te stesso tutto
quel che mi hai detto, le parole che ti disse Josie... tutti trovano qualcuno... se
continuano a cercare... se smetti, sei finito... quel che ci vuole... essere aperti...
avere il coraggio di cercare... smetti di compiangerti... me lo hai detto centinaia
di volte...
T: ...cazzo, è molto più facile dirlo a te che a me stesso...
D: ...Greg... non sei un uomo da Case della carne... un sognatore... meglio di
loro...
T: (sospirando) ...sì... è dura, però... perché faccio questo a me stesso?...
D: ...meglio essere com'eri?... niente dolore, niente vita?... come me?...
T: ...no... no... hai ragione...
Si chiamava Laurel. Non era per niente simile a Josie, salvo in una cosa.
Trager l'amava.
Bella? Trager non ne era convinto, almeno all'inizio. Era troppo alta, diversi
centimetri più di lui, un po' troppo piazzata, e ancora di più goffa. I capelli erano
la cosa migliore; rosso-castani d'inverno e dai riflessi biondi durante l'estate, lisci
e lunghi oltre le spalle e che giocavano col vento. Ma non era bella, non come lo
era stata Josie. Però, stranamente, lo divenne di più col passare del tempo, forse
perché stava dimagrendo, forse perché Trager se ne stava innamorando e la
vedeva con occhi diversi; o forse ancora perché lui le disse che lo era, e dirglielo
l'aveva fatta diventare tale. Proprio come Laurel che gli disse che era saggio, e
tale convinzione diede a Trager la saggezza. Qualunque fosse il motivo, Laurel
divenne davvero molto bella quando Trager la conobbe un po' meglio.
Aveva sei anni meno di lui, era acqua e sapone, innocente, e timida laddove
Josie era stata aggressiva. Era intelligente, romantica, un'idealista; era
meravigliosamente fresca e bramosa; dolorosamente insicura e piena di bisogni
impellenti.
Era nuova di Gydion, appena arrivata dall'entroterra di Vendalia, una
studentessa in silvicoltura. Trager, in ferie ancora una volta, stava visitando il
college della scuola forestale, per salutare un insegnante con cui un tempo aveva
lavorato. Si incontrarono nel suo ufficio. Trager aveva davanti a sé due settimane
in una città di sconosciuti e Case della carne; Laurel era sola. Lui le mostrò la
luccicante decadenza di Gydion, sentendosi tranquillo e sofisticato, e di
conseguenza lei ne rimase impressionata.
Due settimane passarono in fretta. Arrivò l'ultima sera. Trager, improv-
visamente impaurito, la portò nel parco accanto al fiume che attraversava
Gydion, e si sedettero sulla piccola banchina in roccia che lo fiancheggiava.
Vicini, senza toccarsi.
— Il tempo passa troppo in fretta — disse lui. Aveva un sasso in mano. Lo
scagliò sull'acqua, di piatto e con forza. Pensieroso, Trager l'osservò rimbalzare e
affondare. Poi la guardò. — Sono nervoso — disse, ridendo. — Io... Laurel, non
mi va di partire.
La sua faccia era impescrutabile (diffidente, forse?). — Eh sì, è una bella città
— disse Laurel.
Trager scosse violentemente la testa. — No, no! Non la città, tu. Laurel, io
credo che... oh be'...
Laurel sorrise per lui. Gli occhi le brillavano ed erano molto felici. — Ho
capito — disse.
Trager non riusciva a crederci. Allungò una mano e le toccò una guancia. Lei
girò la testa e gliela baciò. Si sorrisero.
Trager tornò al campo nella foresta per licenziarsi. — Don, Don, devi cono-
scerla — urlò. — Visto? È possibile... ce l'ho fatta; basta continuare ad avere
fede, continuare a provare; mi sento bene in modo osceno!
Donelly, freddo e logico, gli regalò un sorriso, lo stesso per una morte come
per un'esplosione di gioia. — E adesso che farai? — chiese un po' goffamente.
— L'arena?
Trager rise. — Non proprio; lo sai che cosa ne penso. Ma qualcosa del genere.
C'è un teatro vicino all'astroporto, che mette in scena delle pantomime con dei
corpi come attori. Mi hanno assunto. La paga è pessima, ma almeno starò vicino
a Laurel. È l'unica cosa che conta.
— Greg — disse Laurel una notte a letto. — Credo che Don... mi stia die-
tro...capisci cosa intendo.
Trager si voltò e si appoggiò con la testa sul gomito. — Oh mio Dio — disse.
Sembrava preoccupato.
— Non so cosa fare.
— Devi fare attenzione — disse Trager. — È molto vulnerabile, e pro-
babilmente sei la prima donna che gli sia mai interessata. Non essere troppo dura
con lui. Non deve passare quello che ho passato io, capisci?
Il sesso non fu mai all'altezza di quello nella Casa della carne. E dopo un po'
Laurel iniziò a chiudersi. Adesso erano sempre di più le volte che, dopo aver
fatto l'amore, lei si metteva a dormire. Le notti in cui parlavano fino all'alba
erano ormai sparite. Forse non gli era rimasto più molto da dirsi. Trager notò che
Laurel aveva la tendenza a finire per lui le sue storie. Era quasi impossibile
tirarne fuori una che non le aveva ancora raccontato.
— Ha detto così? — Trager scese dal letto, accese una luce e si sedette, ac-
cigliato. Laurel tirò su il lenzuolo fino al mento.
— Be', e tu che cosa gli hai detto?
Lei esitò. — Non posso dirtelo. È una cosa tra me e Don. Mi ha detto che non
è leale che io ti dica tutto quel che succede tra noi due. E ha ragione.
— Ragione! Ma io ti dico tutto. Non ti ricordi cosa...
— Sì, ma...
Trager scosse la testa. La voce perse parte della rabbia. — Che succede
Laurel, eh? All'improvviso mi è venuta paura. Io ti amo, ricordi? Com'è possibile
che tutto cambi così in fretta?
Il viso di Laurel si raddolcì. Si sedette e allungò le braccia; le coperte le
caddero dai seni morbidi e pieni. — Oh Greg — disse. — Non preoccuparti. Io ti
amo e lo farò sempre. È solo che... credo di amare anche lui. Mi capisci?
Trager, calmatosi, si gettò nelle sue braccia e la baciò con trasporto. Poi,
d'improvviso, si staccò. — Ehi — disse, con un finto tono di biasimo per
nascondere la voce tremante — e chi ami di più?
— Te, naturalmente: te.
Sorridendo lui tornò a baciarla.
5 Divagazioni
Cercò di continuare al teatro; era un lavoro che gli piaceva e aveva degli
amici. Ma era impossibile. Donelly era lì ogni giorno, sorridente e amichevole, a
volte Laurel veniva a trovarlo dopo lo spettacolo e se ne andavano assieme, a
braccetto. Trager restava a guardare, cercando di non badarci. Mentre quella cosa
nelle sue viscere urlava e lo dilaniava.
Si licenziò. Non li avrebbe più rivisti. Avrebbe conservato il proprio orgoglio.
Il cielo era pieno delle luci di Gydion e di risate, ma scuro e calmo nel parco.
Trager era in piedi accanto a un albero, gli occhi fissi sul fiume, le braccia
conserte. Era una statua. Sembrava che non respirasse nemmeno. Anche gli
occhi erano immobili.
Piegandosi vicino al muretto, uno dei corpi iniziò a battere finché la pietra non
si ricoprì di sangue e le mani divennero due masse informi di carne maciullata. Il
rumore dei colpi era monotono e sordo, a parte l'osso che ogni tanto grattava
sulla pietra.
Lo fecero pagare prima, prima ancora di entrare nella cabina. Poi rimase
seduto lì per un'ora mentre la cercavano e si mettevano in contatto. Alla fine,
però, finalmente: — Josie...
— Greg — disse lei, con il suo inconfondibile sorriso. — Avrei dovuto
immaginarlo. Chi altri avrebbe potuto chiamarmi da Vendalia? Come stai?
Le raccontò tutto.
Il suo sorriso svanì. — Oh, Greg — disse. — Mi dispiace. Ma non farti
abbattere. Continua a tener duro. La prossima volta andrà meglio. È sempre così.
Quelle parole non gli bastavano. — Josie — disse — coma vanno le cose lì?
Ti manco?
— Oh, certo. Va tutto abbastanza bene. È il solito vecchio Skrakky. Resta
dove sei, che stai meglio. — Allontanò lo sguardo dallo schermo, poi tornò. —
Devo andare, prima che la tua bolletta diventi enorme. Sono contenta che mi hai
chiamata: tante cose.
— Josie... — iniziò a dire Trager. Ma lo schermo era già nero.
A volte, di notte, non ce la faceva proprio. Allora andava allo schermo di casa
e chiamava Laurel. E, invariabilmente, gli occhi di lei divenivano più stretti ogni
volta che vedeva chi era. E poi riattaccava.
E Trager sedeva nella stanza buia a ricordare come un tempo il suono della sua
voce l'avesse resa molto, molto felice.
Le strade di Gydion non sono il posto ideale per passeggiare da soli di notte.
Sono molto illuminate, anche nelle ore più tarde, e piene di uomini e corpi. E ci
sono Case della carne, lungo tutte le strade e i marciapiedi in ironspike. Le
parole di Josie avevano perso il loro potere. Nelle Case, Trager abbandonò i
sogni e trovò una facile consolazione. Le serate sensuali con Laurel e il sesso
inesperto del periodo adolescenziale erano ormai cose di ieri; Trager prendeva le
sue compagne nelle Case con forza e in fretta, quasi brutalmente, fottendole con
una forza muta e selvaggia, fino all'inevitabile orgasmo perfetto. A volte,
ricordando il teatro, le faceva recitare delle scenette erotiche per entrare
nell'umore giusto.
Notte. Agonia.
Era nuovamente nei corridoi, i bassi e bui corridoi dei dormitoli per gestori su
Skrakky; ma adesso essi erano contorti e tortuosi, e Trager aveva da tempo perso
la strada. L'aria era piena di una putrida nebbia grigia, che andava facendosi più
spessa. Presto, temeva, avrebbe quasi reso impossibile vedere.
Continuava a camminare, avanti e indietro, su e giù, ma c'erano sempre
corridoi, e tutti non portavano in nessun luogo. Le porte erano dei lugubri
rettangoli neri, senza pomelli, chiuse in eterno per lui, alla maggior parte delle
quali passava accanto senza pensare. Una volta o due però, si fermava, davanti a
quelle da cui filtrava della luce. Ascoltava, e dentro c'erano suoni, e allora
iniziava a bussare selvaggiamente, ma nessuno rispondeva.
Allora se ne andava, in mezzo alla nebbia che si faceva più fitta e scura e che
sembrava bruciargli la pelle, porta dopo porta e dopo porta ancora, finché non
iniziava a piangere e i piedi erano stanchi e insanguinati. E allora, là in fondo,
giù per un corridoio senza fine davanti ai suoi occhi, scorgeva una porta aperta.
Da essa usciva una luce così calda e viva che bruciava gli occhi, una musica
allegra e il suono di gente gioiosa. Allora Trager si metteva a correre, anche se i
piedi erano in preda al dolore e i polmoni bruciavano della nebbia che respirava.
Correva, correva finché raggiungeva la stanza con la porta aperta.
Solo che quando la raggiungeva, era la sua, ed era vuota.
Una volta, durante il breve periodo passato assieme, erano andati nel bosco e
avevano fatto l'amore sotto le stelle. Dopo lei gli si era rannicchiata accanto, e lui
l'aveva carezzata con dolcezza. — A che pensi? — le aveva chiesto.
— A noi due — disse Laurel. Fu attraversata da un brivido. Il vento era teso e
freddo. — A volte ho paura, Greg. Ho tanta paura che ci accada qualcosa,
qualcosa che rovini tutto. Voglio che tu non mi lasci mai. — Non preoccuparti
— le aveva detto lui. — Non lo farò.
Adesso, ogni notte prima che sopraggiungesse il sonno, si torturava con quelle
parole. I bei ricordi lo lasciavano a mani vuote e in preda alle lacrime, quelli
cattivi con una rabbia silenziosa.
Dormiva con al fianco un fantasma, una bellissima presenza sovrannaturale,
l'involucro di un sogno morto. Da cui si risvegliava ogni mattina.
6 Il sogno di Duvalier
Il suo nome non ha importanza, e nemmeno il suo aspetto, Quel che importa è
che lei esistette, che Trager provò ancora una volta, e che si forzò di farlo, di
crederci e di non mollare. Ci provò.
Ma mancava qualcosa. Di magico?
Le parole erano le medesime.
Quante volte si può dirle, si chiese Trager, dirle credendoci, come la prima
volta in cui si sono pronunciate? Una volta, due, tre forse? Oppure un centi-
naio? E quelli che le dicono cento volte, sono davvero più bravi ad amare?
Oppure solo a mentire a se stessi? Non sono piuttosto persone che hanno ri-
nunciato molto tempo prima al sogno, che ne usano il nome per qualcos'altro?
Disse le parole, tenendola stretta, cullandola e baciandola. Disse le parole con
esperienza, maggiore e più incisiva, e più morta di ogni convinzione. Disse le
parole e tentò, ma ormai non riusciva più a dar loro un significato.
E lei le disse a lui, e Trager si rese conto che non avevano più alcun si-
gnificato. Si dissero un'infinità di volte le cose che ciascuno dei due voleva
sentirsi dire, ed entrambi seppero che stavano fingendo.
Ci provarono veramente. Ma quando lui allungò la mano, come un attore
prigioniero del proprio ruolo e destinato a recitare in eterno la stessa parte,
quando allungò la mano e le toccò la guancia... la pelle era liscia, dolce e
piacevole. E bagnata di lacrime.
7 Echi
Il corpo del nemico è grosso e nero, il torso pieno di muscoli, prodotto di mesi
d'allenamento, la cosa più enorme che Trager si sia mai trovato innanzi. Avanza
sulla segatura in modo lento e goffo, in una mano ha una grossa spada
luccicante. Trager lo osserva avvicinarsi, standosene seduto in cima a una sedia
su un bordo dell'arena di combattimento. L'altro gestore di corpi è guardingo,
cauto.
Il corpo comandato da Trager, un biondo robusto, è in piedi e attende, le palle
chiodate appoggiate nella segatura zuppa di sangue. Trager lo muoverà con la
giusta velocità e perizia al momento giusto. Il nemico lo sa, e anche il pubblico.
Il corpo nero alza improvvisamente la spada e si lancia di corsa in avanti,
sperando di sfruttare la velocità per raggiungere la preda. Ma il corpo di Trager
non è più lì, quando il colpo sferrato dal nemico fende l'aria.
Seduto comodamente sopra all'arena, i piedi sporchi di sangue e segatura —
Trager/il corpo — impartisce il comando/ruota le palle chiodate, e le grosse sfere
s'innalzano lentamente, quasi con grazia. Poi si abbattono sulla nuca del nemico,
mentre cerca di riprendersi e voltarsi. Un fiotto di sangue e cervella schizza fuori
improvviso, e il pubblico esulta.
Trager fa uscire il corpo dall'arena, poi si alza per ricevere gli applausi. È la
sua decima uccisione. Presto il campionato sarà suo. Sta stabilendo un tale
record che ormai nessuno può negargli un match.
Nancy A. Collins è nata nelle campagne dell'Arkansas nel 1959. A casa non
c'era molto da fare eccetto leggere, guardare la televisione, farsi mettere incinta
o diventare un'adolescente alcolizzata. Lei ha optato per la lettura. Nel 1982 si è
trasferita a New Orleans dopo aver trascorso un anno a Memphis, nel
Tennessee. Il suo primo romanzo, Sunglasses After Dark, è stato pubblicato
dalla Onyx Books della NAL nel 1989. Sunglasses è stato candidato per il
premio Bram Stoker per gli Scrittori di Horror Americani e ha fatto guadagnare
a Nancy un posto nel ballottaggio del Premio John W. Campbell nel 1989. Il suo
secondo romanzo, Tempter, è stato pubblicato dalla Onyx nell'autunno del 1990.
Attualmente sta lavorando alla continuazione di Sunglasses, intitolata
provvisoriamente In the Blood. Ha adattato "Il baraccone degli orrori" in un
atto unico per le produzioni teatrali di Off-Broadway Screamplay, presentato a
New York alla fine del 1990. Vive con suo marito, Dan, il loro gatto, Funky Butt
eccetera eccetera.
Preferisce ancora leggere.
Dopo aver lasciato il caravan di Fallon feci un salto da Rand. Vado sempre a
trovare Rand Holstrum quando posso. Non so mai quando potrei avere un'altra
occasione per fotografarlo. Rand non è più giovane come una volta, e il suo male
è instabile. Gli hanno detto che potrebbe morire senza alcun preavviso.
Nonostante le prognosi dei dottori, lui rimane gioviale e amante della vita come
sempre.
Ho decine di fotografie di Rand. Per me hanno un fascino speciale. Guar-
dandole in sequenza, posso tracciare la furia della sua malattia. È come se Rand
fosse una tela vivente, la quintessenza di un lavoro ancora in corso.
Rand era nel baraccone degli orrori, a prepararsi per lo spettacolo della sera.
Aveva ancora la giacca dello smoking, un regalo di sua figlia. Con lui c'era la
moglie, Sally.
Rand stese una mano per salutarmi. Era un gesto puramente simbolico.
L'acromegalia si era diffusa anche lì, contorcendogli i polsi fino a trasformargli
le mani in poco più di manopole da presa di carne e sangue.
— Ti ricordi di mia moglie, vero? — ansimò lui.
Sally Holstrum era di aspetto decente, come di solito le donne del luna park.
Mi fece un cenno con la testa mentre montava con un martello lo schermo di rete
metallica che proteggeva Rand dalla folla mentre era in mostra. I polli a volte
diventano fastidiosi, e una bottiglia di birra ben piazzata poteva rivelarsi fatale
per suo marito.
Rand pescò il portafoglio, tirandone fuori un paio di foto piene di impronte da
farmi vedere. Randy, il figlio degli Holstrum, era vestito con toga e cappello, con
un diploma stretto in mano. June, la preferita di Rand, era vicino a suo marito,
con un marmocchio in braccio. — Adesso Randy fa il dentista... Ha anche un
praticante... Sheboygan... La piccola Dee Dee riesce a dire... l'alfabeto... —
impastò Rand.
— Il tempo vola — feci eco io. — Oh, mi è capitato di incrociare un tizio
oggi, un certo Hany Cabrini...
Sally fermò il lavoro che stava facendo e si voltò a guardarmi. — Cabrini è
qui?
— Era qui. Fallon lo ha buttato fuori dal suo ufficio. Non so se è ancora in
giro o no...
— Farebbe meglio a non esserci! — sputò lei, roteando enfaticamente il
martello. — Se trovo quella palla di merda a girare di nuovo intorno a questa
tenda, gli faccio vedere dove mettono le noci di cocco le scimmie...
— Dài, Sally...
— Non dirmi "dài Sally", Rand Holstrum! Il tuo problema è che sei troppo
buono! Anche con la gente che non merita più di quello che daresti a un cane per
la strada!
Rand rimase in silenzio. Sapeva fare di meglio che discutere con Sally.
— Lo sai cosa ho pescato a fare quel pazzo bastardo? — Ricominciò ad
agitare con vigore il martello. — Ritornavo da Burger King e ho trovato quel
folle che prendeva le misure della faccia di Rand!
— Non era niente... sono stato misurato altre volte, Sal...
— Si, da dottori. Che affari deve fare una carogna come Harry Cabrini per
fare una cazzata del genere?
Rand ammiccò con l'occhio buono nella mia direzione. In quel momento uno
dei facchini entrò nella tenda con una confezione di cibo pronto presa da uno di
quegli schifosi fast-food locali. Il grasso del cibo aveva già reso semilucida la
busta di carta. — Ecco la roba per lei, signor Holstrum. — Rand pagò il facchino
mentre Sally tirava fuori il frullatore.
— Vai a cambiarti i vestiti, amore. Non vuoi che quello bello smoking che ti
ha regalato June si sporchi, vero? — fece Sally mentre faceva cadere gli
hamburger uno per uno nel cestello del frullatore. Rant brontolò, acconsentendo,
e marciò via per cambiarsi.
La malformazione della mascella e la perdita dei denti ha fatto sì che per Rand
la masticazione sia un ricordo del passato. Tutto quello che mangia deve essere
liquefatto.
— Ci vediamo più tardi, Sal...
— Certo amore. Fammi sapere se vedi Cabrini che continua ad aggirarsi nei
dintorni.
— Sta tranquilla.
Me ne andai proprio mentre le lame rotanti di acciaio inossidabile co-
minciavano a prendere vita, tritando la mezza dozzina di hamburger in una
zuppa di proteine.
Avevo mentito a Sally. Non intendevo farlo, ma alla fine era stato proprio così.
Nel luna park cadde il crepuscolo, e, con esso, cominciò la vita. Quando il
cielo si oscurò da cobalto a blu notte e vennero accesi i neon, le giostre da
quattro soldi e le attrazioni sul viale acquistarono un alone di magia. Gli zoticoni
arrivarono per guardare e staccarsi dai contanti guadagnati tanto duramente.
L'aria era impregnata dell'odore di zucchero filato, pannocchie di granturco, coni
di zucchero, scarichi diesel e vomito. La musica registrata urlava dagli impianti
di diffusione, residuati bellici della seconda guerra mondiale. I motori che
facevano girare le giostre col giro della morte ruggivano come animali in
cattività che fanno tremare le loro catene, pronti a liberarsi.
Le risate urlate della gente sulle giostre echeggiavano in ogni gola. Le
immagini, i suoni e gli odori del luna park innescavano un'ondata di nostalgia
per giorni che sembravano più semplici, se paragonati alla vita che vivevo in
quei giorni.
Sorpassai una scolaresca raggruppata accanto all'ottovolante. Cercavano tra la
segatura gli spiccioli caduti dalle tasche dei frequentatori della giostra, anche se
rischiavano di buscarle dalle mani dei facchini e di farsi vomitare addosso dalla
gente sull'ottovolante. Io sorrisi, ricordandomi di come andassi io stesso a
cercare centini e monetine nella segatura.
E allora lo vidi.
Sgusciava dentro e fuori dalla folla come un uccello che si apre un varco alla
ricerca di pesciolini. Aveva le mani calcate nelle tasche. Il parrucchino gli
scivolava sulla testa come un uovo fritto nel piatto. Il vestito era di una taglia di
troppo, e tutto ciò che impediva ai pantaloni di cadere era una vistosa e spessa
cintura di pelle bianca. Aveva i mocassini intonati.
Esitai un momento, incerto su cosa avrei dovuto fare. Si dirigeva verso il
parcheggio. Io esitai. L'immagine del bambino-mostro contorto mi si presentò
davanti agli occhi e lo seguii.
Cabrini entrò in un camion chiuso di seconda mano che una volta era ap-
partenuto a una catena di prodotti da forno: sul fianco del camion si vedeva
ancora il profilo sbiadito di una bambinetta con le gote rosse e i boccoli biondi
intenta a divorare una fetta di pane bianco spalmato di burro. Fu facile seguire
Cabrini dal campo del luna park fino a un parcheggio per roulotte decrepito a
venti miglia di distanza.
Abitava in una casa mobile abbastanza spaziosa in uno spiazzo pieno di
erbacce e giornali in decomposizione. Incerto su ciò che avrei dovuto fare, optai
per un approccio diretto. Bussai al telaio della porta.
All'interno ci fu un trambusto, poi il suono di qualcosa che veniva buttato a
terra.
— Chi cazzo è?
— Signor Cabrini? Signor Harry Cabrini?
— Si, sono Cabrini... E tu chi sei?
— Signor Cabrini, mi chiamo Kevin Malone. Un certo signor Fallon mi ha
detto che lei aveva qualcosa... qualcosa che mi interessa. — Silenzio. — Signor
Cabrini?
La porta si aprì per quanto permetteva la catenella di sicurezza. La faccia di
Cabrini, in primo piano, sembrava quella di una cicogna, come i suoi movimenti.
Il naso era un grosso becco proteso che gli oscurava la bocca dalle labbra sottili
e le ossa piatte degli zigomi. Il parrucchino dei grandi magazzini era sparito,
rivelando un cranio liscio macchiato color verdastro e dei ciuffi grigi a livello
delle orecchie. Cabrini studiò me, poi la macchina fotografica che tenevo appesa
al collo. Brontolò, più a beneficio suo che mio, poi chiuse la porta. Un momento
dopo lo udii armeggiare con la catenella e la porta si aprì di scatto. Aveva di
nuovo il parrucchino — sempre leggermente fuori posto — e mi fece cenno di
entrare.
— Andiamo, accidenti. Non c'è ragione di far entrare con te tutte le
dannatissime zanzare di questo paese.
L'interno del caravan non era certo come me lo aspettavo. La sezione frontale,
normalmente riservata alla sala da pranzo e all'angolo cottura era stata privata di
tutti i mobili a eccezione del frigorifero e della dispensa. Erano spariti il mobile
con bar incorporato, il divisorio delle stanze di truciolato, i pannelli di finta
quercia, e la moquette smorta. Al loro posto c'era un tavolinetto di formica, un
paio di sedie da cucina stile Esercito della Salvezza e uno dei tavoli da lavoro
meglio equipaggiati che io abbia mai visto. Il resto era un labirinto di legno, da
tavole nuove di due per quattro a montagne di segatura. In un angolo, accanto a
un mucchio di vestiti di poliestere, notai una spartana branda militare.
— Tu sei il tizio che fa le foto ai mostri — disse incolore. — Filippo, l'Uomo
Foca, mi ha parlato di te.
— E Fallon mi ha parlato di te.
La schiena di Cabrini si irrigidì. — Sì? Be', che vuoi? Non ho mica tutta la
notte...
Io presi la giacca e ne tirai fuori la polaroid che aveva lasciato nel caravan di
Fallon. — Una foto. Solo una. Ti pago. — Parlare con lui mi dava la nausea,
nonostante ciò mi trovai a dirgli quelle parole. Dal momento in cui avevo visto
quella foto avevo saputo che dovevo aggiungerla alla mia collezione.
Lui mi guardò negli occhi, e fu come essere squadrato da un serpente. Poi
sorrise, e fu tutto ciò che riuscii a fare anch'io per trattenermi dal ridurre il suo
viso in poltiglia.
— Okay. Cento sacchi. Altrimenti, tela.
A quel colpo il mio conto in banca tremò, ma pescai due da cinquanta dal
portafogli. Cabrini li intascò con la facilità di un congiurato e mi fece cenno di
seguirlo nello stretto corridoio che portava al retro del caravan.
Dal corridoio si diramavano due camere da letto e un bagno. Buttai uno
sguardo in quella che doveva essere la camera più grande e vidi quattro o cinque
contenitori ammucchiati nel buio. Cabrini chiuse rapidamente la porta, indicando
che la seconda, quella più piccola, era la camera che cercavo.
La stanza odorava di feci umane stantìe e cibo andato a male. Feci uno sforzo
per trattenermi dal vomitare per la puzza. Cabrini scosse le spalle. — Che ci
posso fare? Sono idioti. Proprio come animali. Non puliscono mica dietro di
loro. Non parlano. Cagano dove e quando gli gira.
Ce n'erano tre. Due bambine e un maschietto. Erano seduti, stretti insieme su
un materasso nudo e macchiato sul pavimento sporco. Le loro deformità erano
sorprendentemente simili: schiene gobbe, braccia contorte, gambe piegate, casse
toraciche distorte posate sopra le pelvi. Le dita piegate su loro stesse, come
quelle di primati. Erano pallidi, con gli occhi così rientrati nelle orbite da
sembrare creature cieche, abitanti in una caverna. Le loro sembianze erano
quelle di una bambola di cera tenuta troppo vicina a una fiamma libera. Avevano
i capelli unti e sporchi delle loro stesse feci.
La cosa strana era che le loro membra, benché contorte in angoli innaturali,
erano di proporzioni normali. Quei bambini contorti sembravano piccoli nativi di
un qualche bizzarro pianeta di gravità elevata, con i dorsi compressi in metà
dello spazio necessrio per una crescita normale.
Ma ciò che veramente mi sconvolse fu lo sguardo di paura animale sui loro
volti rovinati. Mi ricordai di Slotzi, Testa di Spillo; nonostante la sua seria
deficienza, le piaceva cantare e ballare ed era affezionata e curiosa in una
maniera infantile e disarmante. Era bloccata in un'eterna infanzia, e il suo
sviluppo mentale era fermo tra i tre e i cinque anni di età. Paragonata al trio di
mostri di Cabrini, Slotzi era materiale da Premio Nobel. Una cosa era certa: quei
bambini mostruosamente contorti non avevano mai riso, né avevano mai
conosciuto gioia o amore nelle loro brevi vite. Senza pensare a fondo cosa stessi
facendo, regolai la messa a fuoco e controllai il flash. E feci la mia fotografia.
Cabrini chiuse la porta, spingendomi di nuovo nella sala. Lo fissai, cercando
di dare un senso a ciò che avevo visto.
— Quei bambini... sono parenti?
Cabrini scosse la testa, mandandosi quasi il parrucchino sul viso. — Droga.
— Droga?
La voce di Cabrini prese il tono di una cantilena di presentazione. — LSD.
Marijuana. Eroina. Crack. Chi lo sa? O forse una medicina sperimentale come
quel talidomide negli anni Sessanta. Sono nati tutti nello stesso anno. Sono finiti
in una casa di cura. Fino a che non li ho trovati.
Eravamo di nuovo nella sala centrale, tra il legno e la segatura. Cabrini mi
guardava con un sorriso spiacevole che gli contorceva le labbra. Distogliendo lo
sguardo, mi trovai a fissare un mucchio di carte sparpagliate sul tavolo da
lavoro. In mezzo c'erano diversi abbozzi dettagliati del viso di Rand Holstrum.
Cabrini portò una caraffa di plastica da latte piena di liquoraccio fatto in casa e
poggiò due bicchieri Dixie sul tavolo da lavoro.
— Non ricevo molte visite da queste parti. Ma credo che ti meriti qualcosa da
bere gratis, per i tuoi cento sacchi. — Un lampo bianco scivolò nelle tazze e
sulla panca. Mi aspettavo quasi di vederlo mangiare il legno, sibilando come
acido.
Per quanto disprezzassi Cabrini e ciò che rappresentava, lo trovavo per-
versamente inquietante. Per quindici anni avevo attivamente cercato di co-
noscere le vite segrete dei fenomeni da baraccone. Avevo ascoltato storie
raccontate da uomini con troppi arti, donne con la barba, creature deambulanti
negli sfocati confini tra i due sessi. Avevo parlato del più e del meno con gente
che si guadagnava da vivere mostrando le proprie differenze ai curiosi per un
dollaro a testa. Mi rendevo conto che entro la fine del secolo il loro stile di vita
sarebbe scomparso e nessuno avrebbe conosciuto le loro storie. Harry Cabrini —
venditore di bambini/mostri — comprendeva una parte importante, anche se
sgradevole, di questa storia.
— Sai, ho incontrato un bel po' di tipi come te in questo mestiere. Gente che fa
le foto.
— Davvero? — Sorseggiai il liquido chiaro e mistificante del bicchiere di
plastica. Mentre lo mandavo giù mi bruciava la gola.
— Sì. Alcuni erano dottori o gente dei giornali. Altri erano artisti. —
Sogghignò. — Erano come te. Pensavano che io sono sporco, però mi pagavano
per l'onore di vedere i miei bambini! Mi trattate tutti come se non fossi
nient'altro di una specie di tenutario di un bordello. Ma cos'è che attira te, signor
Artista? — Gettò indietro la testa ridendo, quasi scaraventando via il
parrucchino.
— Dove li hai trovati quei bambini?
Smise di ridere, con gli occhi acuti e pericolosi. — Non sono cazzi tuoi. Tutto
quello che vuoi sono le foto dei mostri. Perché vuoi sapere da dove vengono?
Vengono da gente normale, timorata di Dio. Come tutti. Proprio come me e te.
— Si versò una seconda dose di liquido. Mi domandai in che condizioni fossero
le budella di Cabrini. — Il giro di mostri sta finendo, sai. Sta morendo dai tempi
della guerra. — La voce di Cabrini si fece nostalgica. — La gente ne sa di più su
come i mostri diventano mostri. Prima pensavano che fossero i peccati dei
genitori fatti carne, e che per questo non avevano anima. Che non erano come
gente vera. Cavolo, proprio adesso che March di Dimes si è liberato di quelli che
attraevano di più i polli. Non mi fraintendere. Ci sarà sempre gente che vuole
guardare: io penso che li fa sentire bene. Non fa niente che le cose vadano
veramente male, almeno puoi camminare per strada senza che la gente si senta
male, no? Ma chi vuole pagare per vedere i nani? Lillipuziani? Donne cannone?
Uomini puntaspilli? Certo, sono ripugnanti, ma si vedono gratis a Wal-Mart ogni
giorno della settimana! No, bisogna avere qualcosa che gli faccia veramente pau-
ra! Li sorprenda! Gli faccia schifo! Qualcosa che li faccia dimenticare che stanno
guardando un altro essere umano! Roba grossa, capisci?
— Ehm, sì.
— Una volta mi è capitato di leggere di quei tizi in Europa. Durante quella che
chiamavano l'Età Buia. Questi tizi si chiamavano Maestri dei Mostri. Suona
bene, eh? Comunque, questi Maestri dei Mostri, quando i tempi si facevano duri
e non c'erano dei buoni mostri in giro, loro rapivano i bambini...
Qualcosa dentro di me si gelò. Cabrini era in piedi proprio accanto a me, ma
io mi sentivo anni luce di distanza.
— ...e li mettevano in queste gabbie speciali, così crescevano tutti storti. E gli
facevano mettere queste maschere speciali così le facce crescevano in un certo
modo, perché la carne dei bambini è tenera, sai...
Davanti ai miei occhi sfrecciarono immagini di bambini contorti nella tortura,
forme astratte come bonsai umani. Riconobbi la bolla che cresceva nella mia
gabbia toracica per paura. L'adrenalina mi montava, e il suo messaggio
principale era di uscire di lì, subito. Lo sguardo mi si posò sul mucchio posato
sul tavolo da lavoro. Per quanto folle, Cabrini era un genio quando si trattava di
lavori manuali. Vidi la maschera di cuoio parzialmente completa annidata tra
schizzi e diagrammi; era un duplicato quasi perfetto del volto di Rand Holstrum.
Ma era così piccola. Troppo piccola perché potesse portarla un adulto...
— ...gli davano da mangiare farina d'avena e non gli parlavano mai, così
crescevano come danneggiati di cervello, quelli che non morivano. Ma ai re e ai
papi e merda del genere non gliene fregava niente. Compravano mostri a
quintali! Mostriciattoli! — Cabrini rise di nuovo. Ora beveva direttamente dalla
caraffa. — Allora non avevano luna park. Ma non importa. Ci sarà sempre il
baraccone degli orrori. Ce li porteremo con noi dovunque andremo. — Si batté
una tempia con un dito malfermo. Il parrucchino cadde e atterrò sul pavimento,
rimanendo lì tra la segatura e gli scarti di cuoio come una tarantola morta.
E in quel momento si sporse, fendendo l'aria con uno dei suoi attrezzi per
tagliare il cuoio che aveva afferrato dal bancone. Nei suoi occhi, nei denti
ingialliti che mostrava, c'era qualcosa di selvaggio. Il re Cicogna era diventato
un cane selvaggio. Tentennai all'indietro, sbucciandomi gli stinchi contro un
mucchio di assi di legno. Ero appena sfuggito a un colpo della lama ricurva nel
petto.
Imprecando incoerentemente, Cabrini mi seguì. Il coltello mi sfrecciò a pochi
millimetri dal naso. Udii le grida angosciose e soffocate dei bambini idioti che
provenivano dall'altra stanza mentre gettavo il liquido del mio bicchiere in faccia
a Cabrini. Lui urlò e lasciò andare il coltello, nascondendosi gli occhi. Cabrini
roteò all'indietro, cadendo, nella sua traiettoria cieca, sul tavolo della cucina. Io
mi diressi verso la porta, senza osare guardare indietro.
Anche dopo aver preso la fuga da un po', riuscivo ancora a sentire Cabrini che
urlava. — Accidenti a te! Accidenti a te, maledetto, sporco mostro!
Ray Garton non può essere definito un vero splatterpunk, e come Joe R.
Lansdale resiste attivamente a tale etichetta. È un atteggiamento con il quale mi
trovo d'accordo: entrambi gli scrittori sono così prolifici in così tanti altri settori
che dovrebbero rifiutare di essere imprigionati in un singolo subgenere (come
testimonia ampiamente l'ultimo romanzo di sesso e suspense di Garton, Trade
Secrets).
È facile però capire come inizialmente Garton fosse associato al resto del
Branco Splat: i suoi due temi preferiti erano insistere sull'erotico (Un argomento
che continua a esplorare) e distruggere gli Avventisti del Settimo Giorno (anche
se ora Ray dice di aver lasciato la "fase avventista" dietro di sé). Queste sono
delle ossessioni gemelle in cui Garton è particolarmente abile in maniera
divertente e sorprendente a un tempo, come dimostra nel racconto breve
"Sinema" del 1988 (che descrive l'inesorabile relazione tra un insegnante della
Scuola del Sabato, un assassino pedofilo, e un ragazzino di nove anni
particolarmente immorale).
Recentemente Garton è diventato un romanziere d'effetto crescente; uno dei
suoi libri più conosciuti è il popolare Ragazze vive (1987), in cui un redattore di
una casa editrice di Manhattan sì sente attratto da un vampiro che lavora in uno
spettacolo di spogliarello a Times Square. Ma, a mio avviso, Crucifax Autumn
rimane il suo lavoro più maturo.
Crucifax Autumn venne pubblicato in edizione ridotta a copertina rigida dalla
Dark Harvest, nel 1988. Esaminando nei dettagli l'influenza di uno strano,
carismatico tipo di nome Mace, simile a Charles Manson Pied Piper, che tiene
sotto controllo un gruppo di adolescenti molto contemporanei e molto sbandati,
Crucifax Autumn miscela il sovrannaturale con un pungente commento sociale.
La morale del romanzo è che non la musica rock, non la droga, o la TV, ma i
genitori stessi sono responsabili delle azioni dei loro figli. Forse una lezione
semplicistica, ma sempre necessaria. Sfortunatamente, quando Crucifax Autumn
venne distribuito in formato tascabile per il mercato di massa dalla Pocket Books
(sempre nel 1988), non solo la parola Autumn era scomparsa dalla copertina
(lasciando che il libro si intitolasse semplicemente Crucifax) ma l'editore tagliò
— cioè, censurò — anche numerose sequenze cruciali. Qui, finalmente ripresa, è
una di tali omissioni. Credo che sottolinei pienamente le capacità insolitamente
potenti di Garton nel miscelare l'orrido e il sensuale. E non è un caso che questo
capitolo soppresso ritragga anche il primo aborto splatterpunk... mediante
cunnilingus.
Jeff e Lily hanno unito le loro forze per trovare la loro amica, Nikki, che si è
impelagata con una pericolosa setta capeggiata da un uomo misterioso di nome
Mace. Nikki è giovane, incinta, e nei pasticci. Percorrono le fogne — la sola via
che conoscano per raggiungere la roccaforte di Mace — mentre Mace riporta al
suo covo un ospite molto speciale...
La mano spinse bruscamente indietro la testa di Jeff mentre una voce roca
gridava: — Lasciateci soli! Lasciateci soli! — Jeff vide il pipistrello alzarsi sul
suo viso, lo vide arrestarsi in aria prima di scendere, e levò di colpo il braccio,
scacciandolo con la mano; sentì Lily afferrarsi al suo cappotto mentre
schizzavano fuori dall'apertura, evitando per pochi centimetri il pipistrello
mentre scendevano lungo la passerella in una corsa esitante e vacillante, con le
mani che schiaffeggiavano i muri, i piedi che strusciavano sul cemento sporco.
— Andate via! — gridò la voce mentre il pipistrello sbatteva contro il muro
una volta, una seconda, e ancora. I passi li seguirono per qualche metro, poi si
arrestarono.
Non si guardarono indietro, e continuarono a correre, oltrepassando un'altra
sezione e un'altra ancora, mentre i loro ansimi riecheggiavano nell'oscurità. La
passerella sulle acque della fogna curvò a sinistra, poi a destra, mentre i loro
piedi risuonavano con un clangore sordo su un'altra asse di metallo.
— Aspetta, aspetta! — ansimò Lily, tirando il cappotto di Jeff. Quando Jeff si
voltò e le illuminò il volto con la torcia vide le sue lacrime. Lily gli si accucciò
tra le braccia.
— Che... che cos'era quello? — chiese.
— Non lo so. Un barbone, credo. Ho sentito che qui sotto ce ne vivono tanti.
— Ma cos'era quell'apertura nel...
— Shh!
Nel silenzio l'acqua picchiettava gocciolando e gli scarichi della fogna
defluivano. E da qualche parte, nell'oscurità, si sentiva della musica.
— Cosa? — chiese Lily.
— Hai sentito?
Lei ascoltò per un momento. — Da dove viene?
Jeff guardò il muro di fronte a sé e rimase ad ascoltare. Confuse con la musica
c'erano delle voci indistinte, delle risa, venivano dalla sua destra, dalla direzione
verso cui erano diretti.
— Andiamo — disse lui, prendendola per mano e conducendola lungo la
passerella, con la torcia che risplendeva davanti a sé. In alto vide due topi, che
però si allontanarono rapidamente dalla vista prima che Lily potesse individuarli.
Mentre si avvicinavano la musica si faceva più forte, le voci e le risate più
distinte, anche se erano ancora deboli come ombre.
— Sembra una festa — sussurrò Jeff.
Più si avvicinavano, più le voci si facevano chiare e forti; la musica era stata
sostituita da una voce acuta e veloce che Jeff riconobbe come quella di un disc
jockey radiofonico. Qualcuno che ascoltava la radio.
— Vieni qui prima che...
— Ah ahhhhh...
— ...mi un altro di quei...
La musica riattaccò: Robert Palmer.
Più si facevano forti, più era difficile dire esattamente da dove venissero le
voci e la musica.
Fino a che non trovarono l'apertura.
Si capiva che il buco era stato scavato nel muro abbastanza di recente perché
c'era ancora qualche mattone e dei detriti sparpagliati lungo la passerella.
— Qui dentro — sussurrò Jeff, facendo luce con la torcia nell'apertura dai
contorni irregolari.
— Che cos'è?
La luce illuminò muri bagnati, scuri, pile di scatoloni, tubature contorte
collegate con fili volanti, e una rampa di scale di metallo. In cima ai gradini
brillava una luce debole, opaca.
Jeff si avvicinò all'orecchio di Lily e sussurrò: — Fai molto piano.
Si spinse con cautela nell'apertura, poi angolò la luce perché Lily vedesse
dove metteva i piedi. Con Jeff davanti di un passo, salirono lentamente e
silenziosamente per la rampa, e Jeff spense la torcia; il chiarore sovrastante era
sufficiente per vedere. Mentre salivano con attenzione le scale, cercando di non
far rumore con i piedi sui gradini di metallo, le voci si cristallizzarono,
diventando chiare e distinte.
Una voce maschile: — Hai sentito?
Una voce femminile: — Si, veniva da lassù.
Un'altra voce maschile: — La porta? C'è Mace?
Arrivati alla fine della rampa si accucciarono e dal pavimento vicino qualcosa
sbatté rumorosamente: passi su un'altra rampa metallica.
— Sono tornato! — La voce era forte, profonda, esplosiva: era Mace.
Gli rispose un coro di saluti e Jeff fu sorpreso dal numero di voci che udì.
Salì gli ultimi gradini mani e piedi, sbirciando dalla fine della rampa. Una
volta lì c'era stata una porta, ma ora erano rimasti solo i cardini. La stanza che si
vedeva era spaziosa; si capiva che originariamente era stata divisa in due: la
parte restante del muro si proiettava fino a tre quarti dal centro della stanza, poi
terminava in un'estremità irregolare e spaccata, dove era stato buttato giù. Il
pavimento era costellato di mattoni e pezzi di intonaco rotto. Nel muro spaccato
c'erano tre aperture, oltre le quali brillavano barre di luce soffice, che tagliavano
l'oscurità fumosa e polverosa.
Oltre il muro, nella luce fioca, Jeff riuscì a distinguere qualche movimento.
Vide un paio di lanterne a cherosene sopra alcuni scatoloni di legno. Le voci
mormoranti erano spezzate di tanto in tanto da uno scoppio di risa o da uno
strillo acuto.
Il Reverendo Bainbridge scendeva da una scala a chiocciola; Mace era a un
passo dietro di lui, con in mano una lanterna.
— E ho una visita — disse Mace.
Una volta scesi dalla scala, Mace rimase accanto al reverendo e alzò la
lanterna, illuminando il volto dell'ometto.
— Questo è il Reverendo James Bainbridge — disse Mace. — Qualcuno di
voi forse già lo conosce. Vieni dentro, Reverendo.
Bainbridge sembrava terrorizzato e si mosse come un uccellino mentre
seguiva Mace verso il centro della stanza, sparendo oltre il muro.
Dalla scala a chiocciola arrivò un rumore soffocato e, quando i suoi occhi si
voltarono verso quel suono, Jeff chiuse la bocca contro il gemito terrorizzato che
gli sfociava dal petto.
Le creature che lo avevano inseguito dalla palestra abbandonata si aggiravano
attorno alla base della rampa di scale, annusando il pavimento, gli occhi
scintillanti al chiarore della lanterna.
Improvvisamente Jeff si sentì la gola impastata d'ovatta e, di riflesso, poggiò
la mano su quella di Lily, provando il bisogno di toccare qualcuno, per
rassicurarsi di non essere solo.
— Togliti il cappotto, Reverendo — disse amabilmente Mace. — Mettiti a tuo
agio. Qui siamo molto informali.
Erano fuori dalla vista, nascosti dal muro, eppure Jeff riusciva a sentire i loro
movimenti sopra la musica e le voci soffocate.
— Nikki! — gemette Bainbridge, come soffrendo. — Dio mio, Nikki... — poi,
rabbioso: — che cosa le avete fatto?
Lily strinse la mano di Jeff.
— Io non le ho fatto niente — disse Mace.
Jeff sentì Lily irrigidirsi accanto a lui, e la vide fissare intensamente il muro a
tre metri di distanza.
Mace disse: — Sei qui perché lo vuoi, vero Nikki?
Debolmente: — Si.
— L'avete drogata! — abbaiò il Reverendo.
— Ah, sarà su di giri, ma ti assicuro che non è stata drogata, Reverendo. Qui
nessuno è stato drogato e nessuno è qui contro la sua volontà. Nikki... perché
non esci dalla piscina?
— Io me la porto via — disse il reverendo, con la voce tremante.
— Non credo che voglia andarsene.
— Chiamo la polizia.
— Reverendo, vorrei che conoscessi tre miei ottimi amici. Gli agenti Peter
Wyatt, Jake Margolin e Harvey Towne. — Delle profonde voci maschili, confuse
e malsicure, salutarono il reverendo. Uno di loro rise. — Ora sono fuori servizio,
ma se pensi di aver bisogno di un poliziotto, sono sicuro che uno di loro sarebbe
più che lieto di aiutarti.
Dopo una lunga pausa, il reverendo sussurrò: — Avevo ragione. — Sembrava
che la sua voce avesse perduto qualcosa — il senno, la speranza, forse entrambi
— lasciando dietro di sé un suono vuoto e disperato. — Tu... tu sei... malvagio.
Mace rise e disse — Vieni, Nikki.
Il reverendo scongiurò: — Nikki, Nikki, ma cosa ci fai qui?
— Diglielo, Nikki. Perché sei venuta?
— Perché Mace mi... aiuterà con il mio... problema.
— Digli quale problema.
— Il mio... il mio bambino.
— Oh Dio, Dio caro, non farlo, Nikki. — Bainbridge sembrava prossimo alle
lacrime.
Lily si poggiò una mano sulla bocca e si strinse forte a Jeff.
— Nikki — continuò il Reverendo, e ora la sua voce era un sibilo disperato,
— pensaci, pensa a quello che stai per fare.
— Non posso tenerlo. Io... non posso. Io... non ho finito la scuola, mia... mia
madre mi... mia madre...
— Ma è... Nikki, è un... un... — ingoiò un singhiozzo — un peccato, un
peccato orribile, un crimine morale!
— Nikki — disse Mace, — il reverendo ti ha mai menzionato che quello che
faceva a te era peccato?
— Mmmm. Diceva che Dio avrebbe — ridacchiò — capito. E perdonato.
— Ma questo è un omicidio!
— Sì. E qual è il termine per quello che hai fatto tu, Reverendo? — Rumore di
passi, movimenti affrettati. — Adulterio? — La voce di Mace si fece dolce. —
Fornicazione? — Ancora più dolce. — Forse... stupro?
Jeff e Lily si voltarono l'uno verso l'altra. Lui vide negli occhi di lei la
consapevolezza che provava anche lui: il Reverendo Bainbridge era il padre del
bambino di Nikki. Lily nascose il viso tra le mani e scosse lentamente la testa.
— È questo che hai fatto, Reverendo? — sussurrò Mace. — L'hai toccata
così...? Così?
Nikki mugolò, sospirò.
— L'hai toccata — no, no, stai giù Nikki — l'hai toccata qui, Reverendo?
Gli occhi di Lily bruciavano per la paura per la sua amica; sembrava pronta a
sfrecciare nella stanza, oltre il muro.
— No! — gridò Bainbridge. — Fermati! Fermati immediatamente!
Mace rise.
Nikki sussultò estasiata.
Il Reverendo singhiozzò.
Le voci sembravano più quiete, più attente a ciò che stava accadendo dall'altra
parte del muro.
— È questo che hai fatto? — sibilò Mace, con la voce untuosa, le labbra che
schioccavano. — È stato così?
— Io me ne vado! — urlò Bainbridge, strusciando i piedi sul pavimento. —
Nikki, se tu solo volessi... — Qualcosa sibilò annaspante e rauco e Bainbridge
ingoiò quanto stava dicendo con un singulto.
Jeff riconobbe quel suono...
Lily fece per alzarsi, ma Jeff le mise una mano sulla spalla e la tenne fer-
mamente giù.
Alla loro estremità della stanza non c'erano lanterne; dall'altra parte, a
eccezione di qualche figura che si muoveva nell'oscurità fumosa, tutti erano
dietro al muro. Se avesse fatto piano, Jeff pensò che la mancanza di luce dalla
loro parte avrebbe potuto nasconderlo a sufficienza fino a farlo arrivare accanto
al muro per poter guardare attraverso una di quelle aperture.
Jeff si voltò verso Lily, si portò un dito alla bocca e le sussurrò all'orecchio: —
Rimani qui.
Lei gli rivolse un'occhiataccia, e inclinò la testa.
Jeff avanzò nella stanza, muovendosi carponi, con i piedi che scricchiolavano
appena sul pavimento, troppo piano per essere udito sopra la musica e il lieve
brusìo delle voci.
Mentre si avvicinava al muro, Jeff udì i leggeri mormoni di piacere di Nikki
che si facevano regolarmente più forti, più intensi, udì Mace sussurrare e
sghignazzare. Tra le voci si udivano schiocchi e lappate.
Parlando con tono deliberatamente malevolo, Mace sussurrò: — È questo...
che hai fatto... prima di piantare... il tuo seme in lei... Reverendo?
Avvicinandosi al muro, Jeff sentiva come una cinghia di ferro che gli rendeva
ogni respiro più difficile, stringendogli il cuore nella cassa toracica. Aveva la
nuca madida di sudore.
Quando raggiunse il muro, Jeff sbirciò cautamente oltre il bordo dell'apertura
alla sua destra, afferrando immediatamente con un'occhiata i dettagli di ciò che
stava avvenendo dall'altra parte.
Sulla destra c'erano due chitarre appoggiate al muro, e tra alcuni amplificatori
c'erano delle percussioni, una tastiera, e quattro delle oscure creature si
arrampicavano sugli strumenti, annusandoli con curiosità. Oltre agli strumenti, in
un angolo sudicio, Jeff vide ciò che sembrava un generatore. A circa due metri
dagli strumenti c'era in effetti una piscina in cui si muovevano delle figure
nell'oscurità. Alla sinistra di Jeff, Mace era in piedi nella parte bassa della
piscina, di fronte al muro, con la sua figura alta e magra che si ergeva
dall'oscurità sottostante. Distesa davanti a lui su due materassini dall'aspetto
morbido, c'era Nikki, con le gambe aperte, nuda, a eccezione di una camicia blu
aperta sul davanti. Ai suoi lati brillavano due lanterne, che facevano sembrare
pallida la sua pelle. Aveva i capezzoli scuri ed eretti, e tra i seni c'era una croce
nera di forma curiosa, attaccata a un cordino che le girava attorno al collo. Sul
seno e sullo stomaco le brillavano delle scie di saliva.
Il reverendo era in piedi accanto al suo viso, e alcune delle creature erano
rannicchiate tra lui e Nikki: due di loro erano in piedi sulle zampe anteriori come
guardie, con i denti scoperti e gli occhi minacciosi.
Mace sorrise a Bainbridge, con le labbra e il mento bagnati; passò le mani sul
corpo di Nikki, carezzandole e spremendole delicatamente i suoi seni pieni,
facendole scivolare poi le dita tra le gambe.
— Hai fatto questo, Reverendo? — sussurrò Mace, chiudendo le labbra su un
dito bagnato e leccando gli umori. — O eri troppo ansioso di scopartela?
Mace si fece avanti e lentamente, con lussuria, fece scivolare la lingua tra le
labbra carnose della vagina di Nikki, muovendo la testa su e giù, su e giù,
leccandola poi verso l'alto fino alla pancia, ai seni, succhiando rumorosamente. Il
respiro di Nikki era ansimante per i mugolii di piacere.
— No! — Il reverendo scattò, ma aveva la voce debole. — Smettila, smettila
immediatamente!
Mace alzò la testa e ronzò: — Ti ricorda qualcosa, Reverendo? — poi
premette a fondo il viso nella massa di pelo scuro tra le gambe di Nikki. Il corpo
di lei si irrigidì, la testa le si piegò all'indietro, circondata dai capelli castani e
brillanti, con la bocca che si apriva, si chiudeva, poi si apriva di nuovo mentre
guardava in alto verso il Reverendo e sorrideva lentamente, mormorando —
...E... così... bello...
Bainbridge borbottò freneticamente delle preghiere a fior di labbra.
Il movimento nella piscina si placò.
La musica continuava.
L'acqua attorno a loro oscillava mentre Bainbridge si lamentava.
Improvvisamente Nikki arcuò la schiena, e strinse le mani ai bordi dei
materassini sotto di lei; emise uno strano gorgoglìo dalla gola e il piacere sul suo
viso divenne improvvisamente confusione e paura.
Le mani di Mace le scivolarono sul corpo, sullo stomaco; le sue lunghe dita le
tennero i seni a coppa, pizzicarono i capezzoli mentre Nikki risucchiava aria in
un lungo, disperato respiro.
Jeff si rese conto che stava trattenendo il fiato, digrignando i denti fino a
provare dolore alla mascella, e lentamente rilasciò il respiro.
C'era qualcosa di sbagliato, di assolutamente sbagliato...
Nikki sollevò i glutei dal materassino, premendosi su Mace mentre la testa di
lui si contorceva e si girava, si piegava, sussultava, con i capelli che gli
ricadevano sulle spalle sfregando le cosce di lei. La lingua di Nikki si protese
rigidamente fuori dalla bocca nel tossire.
Qualcosa scricchiolò dietro a Jeff e lui si voltò di scatto per vedere Lily che gli
si avvicinava rapidamente. Pensando che lei non avrebbe dovuto vedere ciò che
stava accadendo dietro al muro, lui agitò la mano perché tornasse indietro, ma lei
continuò ad avvicinarsi, con occhi e bocca spalancati per la paura mentre si
accovacciava dietro di lui e sbirciava oltre le sue spalle, con la mani aggrappate
ai fianchi appena sopra la vita.
Il corpo di Nikki si contorse, la testa sussultò avanti e indietro mentre la testa
di Mace continuava a muoversi tra le gambe. Mace emise un profondo lamento
dal petto mentre lei continuava a tossire, con il pugno destro che affondava nel
materassino.
Lily si strinse saldamente ai fianchi di Jeff e lui la udì ansimare.
Lo stomaco di Nikki si mosse.
Jeff sbatté gli occhi diverse volte, incerto su quanto aveva visto.
Si mosse di nuovo, si scurì, si inarcò poi si appiattì di nuovo.
Il Reverendo alzò la voce: — Benché io cammini nella valle all'ombra della
morte...
L'intero corpo di Nikki si scosse.
— Non avrò paura perché tu sei con me...
Lei tossì di nuovo e gli sputi schizzarono dalla bocca finendo su di lei mentre
lo stomaco le si alzava, si abbassava, si rialzava e lei apriva e chiudeva i pugni.
— Il tuo bastone, la tua verga mi danno conforto...
Gli occhi di Mace rotearono per fissare il Reverendo, poi allontanò il viso da
Nikki, sghignazzando...
— Tu imbandisci davanti a me una tavola alla presenza dei miei nemici...
...ma dalla sua bocca alla vagina di Nikki c'era qualcosa che filava...
— Tu mi ungi il capo con l'olio...
...qualcosa di lungo, spesso e bagnato, con strisce scure di materia viscosa che
filavano mentre si allungava sempre di più...
— Il mio calice si riempie di b... bontà e m... misericordia...
C'erano dei pezzi scuri attaccati mentre la cosa fuoriusciva da Nikki, rivestiti
da una sottile membrana che filava, filava, filava...
Il reverendo indietreggiò incerto, uscendo dalla visuale di Jeff, sbattendo
contro il muro, balbettando: — Vade retro, Satana! Vade retro, Satana, vade
retro!
Nikki emise un rutto orribile mentre si sedeva sul materassino, poi ricadeva di
nuovo. Con un rumore di carne martoriata, la lingua di Mace uscì da Nikki,
arricciandosi verso l'alto come un serpente. Dalla punta pendeva un tocco
viscido color rosso e nero, che gocciava, gelatinoso, avvolto attorno a un involto
poggiato all'estremità della lingua di Mace.
— Oh, Dio — balbettò il reverendo — Gesù caro, Padre Misericordioso che
sei nei Cieli!
Nel guardare Jeff si sentiva stordito, con la testa leggera, come se in qualche
modo fosse scivolato negli incubi di qualcun altro. Spinse indietro Lily, cercando
di tenerla lontana dal muro, ma lei si sporse di nuovo in avanti.
Improvvisamente il grumo scuro di materia viscosa, che si avvicinava alla
bocca spalancata di Mace, cadde nel buio e toccò terra con un tonfo umido,
lasciandosi dietro l'ammasso della grandezza di una noce che Mace succhiò
sorridendo, tenendolo tra i denti mentre faceva una smorfia in direzione del
Reverendo Bainbridge. Sollevò una delle lanterne e la tenne all'altezza della
testa, illuminandosi il viso e il piccolo oggetto pallido che aveva in bocca.
I suoi piccoli occhi, leggermente bombati...
Le braccine minuscole...
Quando si rese conto di cosa fosse quel grumo, lo stomaco di Jeff si contorse.
La gola si tese e cercò di spingere indietro Lily, pensando Gesù Cristo questo
non sta acccadendo veramente, non sta, non sta accadendo!
— Nikki? — sussurrò Lily.
Jeff si girò verso di lei e scosse rabbiosamente la testa, cercando di dirle di
stare zitta.
— Nikki? — ora la voce era più forte, roca e secca, e Jeff le premette le palme
contro la bocca, allungando il collo per guardare Mace.
Sogghignando, Mace chiuse i denti con uno scricchiolìo molle sul piccolo
cranio a forma di bolla del feto, e dal mento gli colò un fluido scuro mentre
cominciava a masticare rumorosamente, ridendo, carezzando le cosce tremanti di
Nikki.
Poi accaddero molte cose contemporaneamente:
Jeff udì il corpo del Reverendo che scivolava sul muro e cadeva a terra con un
gemito sommesso.
Nikki girò la testa da un lato e vomitò.
Lily si staccò da Jeff gridando Nikkiiiii!
Nella piscina ci fu un mormorio sorpreso di voci e Mace sollevò gli occhi,
scrutando oltre l'apertura del muro e posando lo sguardo direttamente verso Jeff,
con il mento bagnato, le mascelle ancora in funzione.
Jeff si staccò dal muro così rapidamente che quasi cadde. Si voltò e spinse
Lily, annaspando un: — Corri! — mentre sentiva lo stridore e il raspare dei
piccoli artigli sul pavimento di cemento che si avvicinavano al muro. — Corri,
corri!
— Ma Nikki...
— Vattene, accidenti! — Le afferrò il braccio e la tirò via, inciampando su un
pezzo di intonaco.
Mentre rotolavano giù per le scale nella cantina, Jeff udì il rumore vizioso di
denti in movimento dietro di loro, girò la torcia, fece un passo falso e per un
istante rimase in aria, mani e piedi scomposti; poi toccò il pavimento con un
grugnito, e un dolore pungente lungo la spalla.
Sopra, delle grida.
Dei passi frettolosi.
Un altro urlo acuto di Nikki, che ora suonava diverso, vuoto, rassegnato.
— Tirati su — gridò Lily, afferrandogli un braccio. — Tirati su, Gesù Cristo,
tirati su!
Jeff ruotò sulla schiena, il raggio della torcia puntò verso l'alto, riflettendosi in
una dozzina di occhi dorati che brillavano ai piedi della scala.
Lily tirò, annaspando. — Subito, subito, subito! — e Jeff fece forza su mani e
ginocchia, quasi strisciando, passando attraverso l'apertura nel muro,
afferrandone i bordi, issandosi in piedi mentre anche Lily passava strisciando.
Gli artigli raspavano sul cemento dietro di loro, i denti scattavano, e gli squittii
gutturali emessi dalle creature gli mandavano nelle vene frammenti di ghiaccio
mentre lui cadeva nel buco, quasi rotolando oltre il bordo della passerella, nel
flusso veloce dell'oscurità sottostante.
Davanti a lui c'era Lily, che gli tirava le maniche, balbettando: — Tirati su, dai
Jeff per favore adesso tirati su...
Lily girò gli occhi verso l'apertura alle sue spalle, si spalancarono e lei gridò
indietreggiando, e sopra le sue urla, sopra i rumori della fogna, Jeff li sentì
avvicinarsi dall'apertura e cominciò a strisciare, con la torcia che tagliava
l'oscurità, lasciandoseli alle calcagna.
Scalciando, sperando di colpirli, Jeff riuscì ad alzarsi, facendo scivolare la
mano sinistra sul muro bagnato alla ricerca di qualcosa a cui afferrarsi. Mentre
correva verso Lily vide il viso di lei contorto in una maschera d'orrore mentre
agitava le braccia, gridando: — Gesù, oh Dio, ti sono proprio dietro...
Jeff si voltò di scatto e scalciò contro il cemento, buttandone giù tre dalla
passerella, poi scalciò di nuovo per colpire gli altri che gli si avvicinavano
correndo.
Una delle bestie si alzò sulle zampe posteriori, sibilò e si gettò in aria verso di
lui con le zampe divaricate. Jeff cercò di saltare indietro ma perdette l'equilibrio,
frustò l'aria con le braccia e cadde, sprofondando nella corrente delle acque della
fogna.
Lily gettò un urlo acuto.
Jeff si dimenò nel liquame, boccheggiando, ancorò i piedi al fondo e si
aggrappò al bordo della passerella, cercando di tenere la torcia al sicuro sopra la
testa.
— Esci da qui, Lily! — urlò. — Trova un tombino ed esci!
— No, accidenti, dammi...
— Vai! Io vengo subito! — Mise le braccia sulla passerella e fece per tirarsi su
mentre i passi di Lily si allontanavano.
Il liquame gli arrivava alla vita, intorno a lui si muovevano grumi scuri che gli
si appiccicavano alla giacca, e l'odore rancido gli riempiva le narici e la gola.
Qualcosa lo afferrò per la giacca e lui guardò in basso, accorgendosi che una
delle creature gli si era aggrappata con i denti, le narici piatte che soffiavano, gli
incisivi che gli strappavano la stoffa. Jeff non poté trattenere un grido che gli
sconquassò il petto mentre, oscillando precariamente per la forte corrente,
abbassava di colpo il manico della torcia, colpendo la creatura tra gli occhi.
L'animale cadde giù.
Jeff cercò di nuovo di tirarsi su, e davanti a lui apparvero improvvisamente un
paio di stivali neri.
— Aiuto! — esclamò senza guardare verso l'alto. — Aiuto, per favore!
Una grande mano gli afferrò il braccio e lo tirò fuori dal liquame senza sforzo,
poggiandolo sui piedi.
— Sei il benvenuto, se resti — disse gentilmente Mace.
Jeff sussultò e fece un passo indietro. Il mento di Mace era ancora scuro e
gocciolante; tra i denti aveva pezzetti carnosi. Jeff gli puntò contro la torcia
come se fosse un fucile.
— È morta? — gracchiò Jeff. — L'hai ammazzata?
— Nikki? No, certo che no. Sta bene. Ho fatto solo quello che lei voleva.
Un altro passo indietro.
Dietro a Mace tre delle creature annusavano l'aria intorno; una di loro si
strofinò contro la sua caviglia come un gattino.
— Se rimani — continuò Mace — forse c'è qualcosa che vuoi, qualcosa che io
posso...
Jeff si allontanò di parecchi passi. — Che cosa sei?
Il sorriso di Mace era impregnato di tanto calore che per un momento Jeff si
sentì confuso, pensando che forse scappar via non era la cosa giusta da fare, che
forse Mace dopotutto non era così cattivo, perché sembrava sincero, leale...
Ma sui denti, sulle labbra, aveva ancora avanzi sanguinolenti e scuri, e Jeff
ricordò immmediatamente quello che aveva visto dentro, quello che Mace aveva
fatto. Jeff non capiva ancora, ma ricordava...
— Che cosa sono io? — Ripeté pensoso Mace, asciugandosi il mento con il
dorso della mano. — Io sono... un amico. È tutto. Solo un amico.
Jeff si girò e si incamminò in direzione di Lily.
— Ricordatelo — chiamò Mace mentre Jeff trovava il tombino aperto e
vedeva il viso di Lily che scrutava dalla strada piovosa sovrastante. Afferrò le
maniglie e cominciò a salire.
— Ricordatelo, perché presto avrai bisogno di un amico. Avrai bisogno di un
amico. — Con un ridacchiare fesso, echeggiante, Mace aggiunse: — Fratellone.
Titolo originale: Crucifax Autumn: Chapter 18. The Censored Chapter (1988)
ESCRESCENZE
Richard Christian Matheson
Cosa?? Un altro racconto di R.C. Matheson? Be', dato che "Rosso" è di sole
650 parole circa, ho pensato che fosse più prudente offrire a Richard una
seconda opportunità, per fargli dimostrare cosa è capace di fare quando si
dilunga un po'. E poi, "Rosso" è fondamentahnente un tentativo serio di farvi
scappar via. "Escrescenze" è tutto al contrario.
Su Rolling Stone ci hanno visto giusto definendo Richard Christian Matheson
"uno dei pochi autori pieni di risorse, di vera paura, che aiutano a creare una
nuova sensibilità nella fiction dell'orrore, coraggiosa, paurosa e impietosa come
il mondo moderno stesso." Ciò che apparentemente non sapevano era che R.C. è
conosciuto sia per le sue commedie sia per i suoi horror. Con le sue
sceneggiature e i suoi lavori di produzione, Matheson ha lavorato con giganti
della comicità come Mel Brooks e Goldie Hawn, esercitando una piega
ironicamente nera che R. C. descrive come "uno humor dell'aberrazione dei
personaggi, un horror psicologico che diverte piuttosto che inorridire."
Comunque sia, io definirei "Escrescenze" come una corsa sulle montagne
russe, con un pizzico di satira. E ora, reggetevi forte.
E non abbiate paura. I racconti dell'orrore non vi possono fare realmente del
male.
O si?
...e così fu in quella serata folle, illuminata dalla luna. La fetida creatura
scomparve inesplicabilmente così come era stata generata. E nonostante il si-
gnor Edworthy non avrebbe mai detto alla buona gente di Frankshire che
oscena angoscia avesse sofferto, non avrebbe mai dimenticato.
Perché in quella sperduta frazione, all'estremità della costa scozzese, il male
era entrato non solo nel corpo di un uomo, ma nella sua anima. Il Male che,
grazie a Dio, era finalmente scomparso.
O almeno questo è ciò che credeva Edworthy.
Fino a che improvvisamente non sentì quel rosicchiare orrido e affamato.
Quello che aveva imparato a temere.
E i compaesani impauriti sentivano le sue urla torturate mentre accendevano
le torce e si incamminavano sulla strada bianca che portava alla fattoria di
Edworthy.
Ma non parlarono mai più di ciò che trovarono.
Dimenticarono in fretta, come si fa con gli incubi.
Marla fece scorrere le dita sulla piega della vestaglia di ciniglia e la aprì
anteriormente, poi si piegò sul letto dove giaceva il corpo, immobile,
assolutamente morto.
Si fece scivolare la vestaglia dalle spalle. Cadendo sul pavimento, questa fece
un suono soffocato, come quello di un'ala di cigno che sbatte nell'aria. Lei
guardò in basso il suo seno, poi guardò la forma che ingrigiva lentamente.
Afferrandosi un capezzolo, con l'altra mano toccò il corpo e la stupenda erezione
che si ergeva oltre la spessa fascia elastica. Strinse con la mano quell'asta mentre
manipolava il capezzolo fino a farlo rizzare. Il respiro divenne un ansito, mentre
saltava sul cazzo duro come un sasso modellandosi, toccandosi, eccitandosi. Le
sue dita scesero fino alla vagina, divisero le labbra, trovarono la punta carnosa.
Da toccare. Da stuzzicare. Vibrante per l'impazienza. Sentì il suo corpo che
sprofondava verso l'orgasmo.
— No, no — sussurrò. — Non in questo modo.
Lo lasciò, e si tirò su, ritirando la mente dai luoghi che aveva visitato. Si
obbligò a pensare all'esterno, alla fermata dell'autobus dove altra gente stava
aspettando che la vita ricominciasse, scambiandosi bugie e occhiate caute.
Ascoltò le loro voci distanti. Rumori di motori. Udì il suo orologio da polso. La
radio che suonava piano nella stanza di fronte. Musica. Che suonava. Lontano.
Calmante.
Un grido. Il bambino. Il bambino della signora Lopez.
Maria sorrise.
Così perfetto.
Così nuovo.
Così... ma no.
Afferrò più saldamente l'erezione. Lussuriosa. Riusciva solo a volere. Lo
montò. Spinse l'asta color bietola verso l'apertura del suo calore e vi si tuffò
sopra. Orgasmo. Ancora e ancora. Cavalcandolo. Un ghiacciolo implacabile nel
suo gelo contro il suo tepore vivente.
Improvvisamente il tanfo acido di urina la colpì. Ormai non si poteva ignorare.
I ricordi dei gabinetti pubblici nei parchi, in città, sulle passeggiate delle navi,
alla stazione degli autobus. Fetido. Freddo. Muri grigi e scuri con rotoli bianchi
di carta igienica appesi, disegni fecali come il tentativo di un artista folle di
lasciare un segno. Perché lì? Perché aveva sempre voluto farlo lì?
Lì. Allora. I giorni migliori. Quella volta che l'aveva portata alle corse. Era
caldo, c'era il sole. Lei aveva il vestito estivo nuovo che le aveva comprato lui.
Rosa. Attillato. Lui aveva vinto per lei un peluche a forma di piovra, le aveva
comprato lo zucchero filato, era salito sulle montagne russe con lei. Quando si
erano imbattuti in due uomini con cui lavorava, lui l'aveva presentata come "la
mia donna". Loro le avevano sorriso e gli avevano detto che era magnifica. Una
doccia fredda. Quel giorno lui l'aveva guardata. Guardata veramente. Come se la
vedesse per la prima volta. Le aveva fatto sperare che le cose potessero
cambiare. Forse. Un giorno.
Si rivide com'era allora, fece una smorfia, si guardò in quel momento, in quel
posto, impalata sul suo cazzo senza vita, estatica. Una volta tanto, faceva le cose
a modo suo.
Il bussare alla porta la fece saltare.
Lei si gelò. Le venne un crampo a un piede. Non riusciva a sentire voci,
nessun suono se non il suo respiro stravolto. Come un colpo di pistola, un altro
bussare. Non poteva essere una cosa importante. Non c'era nessuno. Il panico la
consumava. Lei strinse i denti. Poi, in silenzio, i passi segnarono la ritirata dello
sconosciuto, chiunque fosse.
Maria sospirò, rilassandosi.
Dal profondo di lei salì un'angoscia sottile, quasi un dolore leggero, che
spezzò quella fame lussuriosa, serpeggiandole su fino alla gola, fino a che tra le
labbra non le passò un grido sottile. Le sue amiche. Dov'erano adesso? Una volta
lui le aveva accolte, aveva goduto delle loro risa, della loro calda compagnia.
Poi, una per una, gliele aveva proibite. Lei non aveva mai visto gli amici di lui.
Erano una parte del suo mondo, un mondo che, come diceva lui, era meglio che
lei non conoscesse. Un mondo di cui lei non si permetteva mai di essere curiosa.
Dopotutto, lei aveva qualcuno che l'amava, qualcuno che la proteggeva. Le sue
amiche no. Lei aveva lasciato che lui divenisse il suo mondo, e si era lasciata
essere quella parte del mondo di lui che poteva essere.
Poi era venuto il giorno in cui aveva capito che lui l'aveva protetta troppo
bene.
Si staccò da lui e si alzò. Camminò attorno al letto, rimettendosi la vestaglia,
guardandolo. Il volto era ancora bello, anche nella morte. Gli occhi azzurri che la
fissavano spalancati. Le narici aperte. Il naso aquilino. Le labbra piene,
socchiuse. Invitanti. Lei mise il viso vicino al suo. Riusciva a sentire l'odore
familiare dell'alcol. Pungente. Coprì le labbra con le sue. La sua lingua cercò gli
angoli caldi, familiari. Lui assorbì il calore di lei, ma non lo trattenne.
Lei lo carezzò e sentì il ruvido della barba che gli cresceva sulle guance
fredde.
La luce ambrata e ambigua delle antiche ombre giallastre dava alla stanza
un'atmosfera da sogno. Sola ora, accanto a lui, lei aveva il suo sogno. Il sogno
che aveva sempre avuto troppa paura di riconoscere, anche a se stessa, per così
tanto tempo. Il sogno di poter scegliere. Un altro uomo, uno qualsiasi, ma non
lui.
Lei non sapeva quando era scattato il suo amore, la sua lussuria, il suo bisogno
di lui. Quando il suo arrivo l'aveva fatta sussultare. Quando l'odore di lui l'aveva
fatta allontanare. Quando il suo tocco l'aveva nauseata. Ma quando tutto ciò era
cambiato, era cambiata anche lei. Lentamente. Inesorabilmente. E, alla fine,
irrimediabilmente, completamente. Ciò che c'era fra di loro non sembrava più
dolceamaro, elettrico. Lei si era resa conto che lui combatteva una battaglia, e lei
era il suo inconsapevole nemico. Era stato lui, vittorioso, sabotatore, astuto,
brutale, incessante. Un esercito formato da una sola persona, in una guerra senza
causa politica, senza provocazioni, senza ragione. Un giorno era giocherellone,
amichevole. Il giorno dopo era crudele. E per tutti i giorni successivi, fino a che
qualcosa in lei aveva trasformato la sua devozione in un seme d'odio. Il seme si
era moltiplicato in una manciata, un secchio, un barile, fino a che niente aveva
potuto più contenerlo. Fino a quel giorno.
Lui le aveva lasciato i suoi soldi, i suoi possedimenti, ma ora non erano
importanti per lei. Voleva qualcun altro. Un qualsiasi uomo che l'amasse te-
neramente, apertamente, con gentilezza. Un uomo lo avrebbe fatto. Adesso
poteva scegliere. Si lasciava dietro le catene. La sua morte era il permesso finale.
Le lasciava la sua vita. Che lei avrebbe adorato.
Lo guardò, dura. In lei fluì un nuovo potere.
— Non mi dirai più che nessun altro può avermi. E non ti sentirò mai dir
bugie: che nessun altro, se non te, mi può far venire.
Rimase in ginocchio accanto al suo viso, lasciando che la vestaglia si aprisse.
Le sue dita andarono allo spacco tra le gambe, dividendo le labbra tumide,
toccandosi la carne rigonfia all'interno. Le dita si muovevano veloci, affamate.
L'altra mano sollevò un seno fino alla bocca. La lingua serpeggiò sul capezzolo,
stuzzicandolo fino a farlo diventare rosso e duro.
— Guardami... — La sua voce era un sussurro gutturale. Lei si cullò sulle dita,
mugolando.
Cadendo all'indietro sul letto, esausta, annaspò, strozzandosi. L'aveva
rovinata. Rimase qualche minuto fino a far rallentare il respiro.
Poi si tirò su sopra un cuscino e raggiunse il pacchetto di sigarette sul
comodino. Ne accese una. Soffiò il fumo sul viso di lui. Mentre aspirava vo-
luttuosamente, giocò con le piccole cicatrici che aveva sullo stomaco e sul petto.
Girando il mozzicone tra le dita, premette la parte accesa nella carne che
ricadeva rugosa e umida dalla mascella di lui. La sigaretta si spense con un
suono profondo.
In quell'istante si ricordò di una sera dopo una lunga giornata sulla spiaggia.
Lei si era scottata di brutto, aveva le vesciche. Lui era così preoccupato. Le
aveva passato dell'olio, delle compresse fredde. Tutta la notte, fino a che
finalmente si era addormentata, le aveva tenuto un cubetto di ghiaccio tra le
labbra gonfie, sussurrandole parole dolci per calmarla. La mattina successiva,
prima che fosse completamente sveglia, era su di lei, a prendere quello che,
come diceva, gli era dovuto. Il dolore...
— È bello? Tu mi dicevi che il dolore e il piacere sono così vicini. Così vicini.
Fa lo stesso effetto anche a te? Bastardo! Cosa ne sapevi? Tu volevi solo
marchiarmi a vita, così che nessun altro mi avrebbe voluta. Volevi esserne
sicuro, vero? Tu mi amavi. Facendomi male. Sapendo che avrei dovuto mentire a
tutti quelli che le scoprivano. Sapendo che le bugie sarebbero state inutili perché
chiunque avrebbe potuto dire cos'erano. Sapendo che nessuno avrebbe sospettato
di te. No. Solo Maria, la strana, poteva far questo a se stessa. Ah!
Si accese un'altra sigaretta.
L'impianto dell'aria condizionata ansimò, poi sbuffò una volta prima di
ronzare di nuovo. La sua scura mole rugginosa nella finestra faceva filtrare
all'interno i rumori della strada. Lei aveva spesso immaginato che fosse
un'immensa radio che trasmetteva la musica della città. Il battere sordo. I gemiti.
Il fischio del vento. Il ruggito dei motori. Lo scrosciare della pioggia. Le sirene.
L'unica musica che riusciva a capire. Lui l'aveva chiamata strana, stupida. Non
aveva mai capito niente. Lei gli bruciò una guancia. I peli friggevano. E
puzzavano.
Riusciva a sentire l'autobus che si fermava. I freni strillarono. Tutti i bugiardi,
gli stupratori, gli imbroglioni, le carogne, i maniaci al telefono, gli importuni, gli
accomodanti, i veri pazzi là fuori. Impacchettati per viaggiare verso i loro inferni
personali. E presto altri ne sarebbero arrivati. In piedi nella loro rabbia senza
fine, a nascondere la loro delusione, celando false speranze dietro ai sorrisi della
TV. Dopotutto, cos'altro c'era nel mondo? Che cosa?
A una a una, lei fece delle piccole bruciature sul petto di lui fino a che
cominciò a prendere forma un cuore. La ferita, come il soffiare di un gatto
lontano, la calmava. Richiudendosi la vestaglia, lei guardò giù alla forma di
cuore tatuata tanto tempo prima sul suo stomaco. Non sorrise. Non era bello, per
lei. Né lo sarebbe stato per qualsiasi altro. Lui lo sapeva. Gli spense la sigaretta
sull'ombelico.
Cominciava a puzzare. Come merda. Come verdura in scatola andata a male.
Come muffa e piscio e sudore e vomito e nausea. Aveva i conati di vomito.
Accese la fiamma dell'accendino per farla bruciare come una torcia. Con la
punta della fiamma gli toccò un occhio. Si aspettava quasi che si chiudesse, per
riflesso. Invece si gonfiò e scoppiò. Trattenne il fiato. La fiamma bruciò
lentamente tutto l'occhio, lasciando un pozzo nero profondo e fumoso. Cominciò
con l'altro occhio. In preda ai conati di vomito, lasciò perdere.
Era giunto il momento. Andò in cucina e trovò un grosso coltello da ma-
cellaio, una scatola di candele profumate, e sei resistenti buste per l'immondizia.
Accese prima le candele, sistemandole per tutta la stanza. L'odore di lui
sembrò attenuarsi. Poi si mise attentamente a smembrare il cadavere. Cercò di
fare un lavoro pulito. Era molto più difficile di quanto avesse creduto. Per
arrivare fino all'osso doveva poggiarsi sul coltello con tutto il suo peso.
Riempì le sei buste con il corpo, ora più facile da portare, le lenzuola del letto,
e la sua vestaglia. Annodò le estremità. In cucina lavò il coltello e lo rimise dove
l'aveva trovato. Poi si fece una lunga doccia bollente, si asciugò, si vestì, riempì
tre valigie e cominciò a sistemare.
Passò di stanza in stanza, ricordando. Erano piene di memorie, molto belle. Le
tendine che le aveva portato, proprio quelle che voleva. Il divano e la poltroncina
che aveva visto nel catalogo Sears che lui voleva tanto. Sul lavandino c'era la sua
spazzola, ancora piena dei suoi morbidi capelli castani, tendenti al grigio. Il paio
di occhiali da lettura che lui portava per leggere la Guida TV. Lei adorava
guardare la TV insieme a lui.
Andò al telefono e chiamò un taxi.
Si maledì per essere troppo giovane per guidare. Fra pochi mesi avrebbe avuto
sedici anni. Allora sarebbe tornata per prendere la macchina di lui. Fino ad
allora, avrebbe dovuto pazientare.
Finalmente trascinò le sei sacche, una per una, alla porta di servizio. Aprì la
porta é le sistemò sul vicolo. Chiuse a chiave la porta, fissando in basso le sei
sacche nere e brillanti, legate accuratamente.
Si allontanò pensosamente.
Davanti casa risuonò il clacson del taxi.
— Be', credo che sia proprio ora di dirci addio, paparino. Grazie di tutto. —
Scosse le spalle. — Grazie per niente.
Lasciò che il taxista le prendesse le valigie. Rimase davanti alla porta di casa
cercando di ricordare com'era stato amarlo. Non provò nulla.
Chiuse a chiave la porta e si incamminò verso il mondo che l'aspettava.
A TUTTO GAS
Philip Nutman
Mentre mettevo insieme questo libro, ho richiesto agli scrittori che vi hanno
contribuito delle informazioni bibliografiche per poter tratteggiare queste
introduzioni. Una delle migliori è arrivata da Philip Nutman, di cui cito la
risposta (completa):
Philip Nutman ha una certa intensità laconica (se è possibile una simile
contraddizione) che mi ricorda alternativamente una nobiltà inglese o un
mandarino cinese; forse quest'ultima impressione è dovuta ai suoi capelli, lunghi
e fini, pettinati all'indietro. Mi ricordo abbastanza chiaramente il nostro primo
incontro nel 1986 per la Convention Mondiale di Fantasy a Providence, nel
Rhode Island. Ci eravamo addentrati in conversazione al bar dell'albergo, e le
ore erano volate via mentre chiacchieravamo di musica, film, degli articoli di
Phil su Fangoria (il primo suo lavoro che aveva attratto la mia attenzione) e la
mia allora brillante carriera di giornalista cinematografico. Da allora siamo
rimasti amici.
Una delle poche gioie dell'invecchiare è vedere i talenti più giovani che
crescono e si fanno più forti. Phil sta decisamente crescendo. Mentre le
credenziali di Nutman come giornalista vanno al di là di ogni critica — detto per
inciso, potrebbe anche essere un buon attore caratterista, una vocazione che Phil
ha già soddisfatto interpretando parti in film di basso costo come Death
Collector — io prevedo per lui cose più grandi e migliori nel campo della fiction.
"A tutto gas" dovrebbe convincere anche voi. "A tutto gas" è un esame serio e
approfondito della gioventù bruciata inglese. Per estensione, le figure dei
personaggi di Rivers e Hurst inquadrano anche un'area molto specifica di anomia
adolescenziale senza scopo: io so di avere vissuto notti così. E, curiosamente,
Phil afferma che l'esperienza psichica qui descritta è effettivamente
autobiografica.
Sono contento che tu sia ancora in giro per scriverci su, amico.
Il viaggio non è tanto per una destinazione specifica quanto un certo status
mentale. (Henry Miller)
— Sedici.
— Inflazione — disse Alex — o furto alla luce del sole?
Staff si sedette accanto a lui sulla panchina, con una evidente smorfia di
disinteresse sul viso stravolto.
— È un furto a quel prezzo — replicò Dawson. — Domanda e offerta. Sapete
quanta gente hanno pizzicato questo mese? Non ce n'è molta in giro. Ma se non
volete...
— Che ne pensi? — Alex si voltò verso Staff. Rivers brontolò e si accese una
Marlboro. Ne sapeva anche troppo sull'essere pizzicati.
— Pagalo.
Alex tirò fuori una manciata di banconote sgualcite. Dawson prese i soldi
rimanendo in piedi.
— È roba buona.
Alex afferrò la busta tesa, e nel farlo si guardò intorno. Era quasi buio, e gli
ultimi bagliori del tramonto si fermavano sull'orizzonte con le loro dita. Un
uomo che portava a spasso il cane stava dall'altra parte del parco giochi, e quello
che aveva detto Dawson era vero: ne avevano pizzicati troppi. Meglio stare in
guardia.
— Ci vediamo la prossima settimana — disse Dawson mentre si allontanava
verso la macchina, una Mini Morris verde.
— Lunedì. Esame di storia. — Alex non riusciva a resistere alla tentazione di
indagare; mancava un mese al primo esame trimestrale dell'ultimo anno, e la
maturità di Dawson scivolava via. L'altro adolescente fece un sorrisetto cattivo,
schioccandogli le dita.
— Dilettante — disse Staff, allungando la mano mentre espirava il fumo. Alex
tirò fuori un pacchetto di Rizla dalla giacca di pelle.
— Chi ci andava da Tully?
— Dei cazzoni di King Edwards. E qualche puttanella delle superiori... —
rispose Staff, prendendo le cartine. — Chi se ne frega? Voglio solo vedere che
faccia fa quando arriviamo.
Alex ridacchiò.
— Probabilmente tempo che arriviamo si sarà bevuto anche il cervello.
— Bene — ruttò Staff. — Forse cadrà da quelle fottute scale.
Finì di pulire lo spinello, lo passò ad Alex. La fiamma del suo Zippo spu-
tacchiava nel vento nonostante la protezione a coppa delle mani. Aspirò
profondamente.
A Staff Tully non era mai piaciuto. Nessun motivo particolare, solo una
crudeltà verso certi ragazzi con cui era andato a scuola — o con cui andava a
scuola, nel caso di Alex — e l'accento e le spiritosaggini da collegiale di Tully
erano sufficienti per catalogarlo come stronzo numero uno nella classifica di
Staff. In genere i pregiudizi dell'amico erano infondati, una casualità che Alex
trovava divertente. Ma, se Alex doveva essere onesto, c'era un sacco di gente che
non gli piaceva senza una ragione apparente, anche se ce n'era altra che odiava
per il modo in cui lo trattava.
Tossì mentre passava lo spinello a Staff. — È buona. — La droga gli
sguazzava nelle arterie, facendolo pensare in fretta. Sorrise, contento. Fumare da
solo non risolveva molto, ma farsi una canna con un amico rimetteva tutta quella
merda noiosa nella giusta prospettiva. Guardò in alto sulla collina verso la
Scuola Secondaria Ralph Taylor, i suoi esterni in stile vittoriano che si ergevano
immobili contro l'oscurità mentre l'ultimo spicchio di sole si perdeva
all'orizzonte. In quel momento di pensieri, con la droga che gli roteava nel
cervello, sentì il tempo comprimersi, contrarsi, piegarsi all'indietro su se stesso.
Sì, la Scuola Secondaria Ralph Taylor, quella tristezza gotica, era stata il
crogiolo in cui avevano forgiato la loro amicizia.
Il primo giorno di scuola alla Ralph Taylor, una scuola secondaria esclusi-
vamente maschile con mille e duecento allievi divisi in due sedi, Alex trovò
Stafford Rivers intimidente, come la maggior parte delle altre cose. Non era per
il modo violento con cui Staff calciava il pallone sul campo o per il suo
vocabolario pieno di parolacce: era la sua capacità di saltare addosso a uno
stronzo e di far sputare merda a quel piantagrane che aveva fatto mettere da parte
Alex, tutto il suo ossuto metro e quarantacinque. Ma pochi minuti dopo aver
messo gli occhi addosso a Rivers, così fluidamente controllato e rassicurante
mentre calciava in aria il pallone Webley, Alex aveva scoperto di avere altri di
cui preoccuparsi. Preoccuparsi veramente.
Come Marc Hougan.
Se c'era un metodo per misurare gli psicopatici in erba, allora Hougan ot-
teneva punteggio otto. All'età di undici anni, quel ragazzino dai capelli neri con
gli occhi crudeli come quelli di un dobermann bastonato, era alto uno e
sessantatré, aveva spalle larghe e una propensione alla lotta. Hougan significava
guai con la g maiuscola. Alex conosceva la storia, avendo passato la maggior
parte dei sei anni precedenti cercando di evitare il carattere violento dell'altro
ragazzino mentre erano alla Scuola Primaria Newbridge.
Ma in quel luminoso e assolato giorno di settembre, l'ombra di Hougan gettò
un'improvvisa nuvola nera sulle sue speranze di un domani migliore. Neanche la
reputazione di Alex alla Newbridge era stata buona; timoroso di alcuni
insegnanti e cauto con gli altri bambini, alla maggior parte dei quali non piaceva,
era spesso assente. Si comportava così in parte per non dover affrontare il terrore
delle lezioni di matematica della signora Bergen, in parte a causa delle continue
risse con i bambini della proprietà Weston. Avendo a suo credito almeno una
rissa ogni quindici giorni, era considerato un reietto, e ciò rendeva più facile a
Hougan tormentare proprio lui. Le madri che riaccompagnavano i figli a casa
evitavano quel ragazzino iroso, infelice, in ultima analisi incompreso che
cercava di dare un senso alla morte di suo padre, avvenuta quando aveva cinque
anni, e all'ingiustizia del rifiuto dei suoi compagni più grandi. Ma tutto quello
che Alex voleva era essere accettato; tutto quello che sua madre, che aveva
lungamente sofferto, voleva era che lui fosse come suo fratello, Julian, di tredici
anni più grande, il ritratto di una pietà docile e studiosa, o quel santarellino di
suo fratello minore, Janie, che non piangeva mai, popolare sia tra gli insegnanti
sia tra i bambini. La settimana prima che Alex cominciasse la scuola secondaria,
si era quasi prostrata in gionocchio, scongiurandolo di non fare ritardi, di evitare
i guai, e comportarsi bene. Alex, stanco di fare a pugni, aveva acconsentito,
desideroso di essere popolare come quel mocciosetto, Jamie, ma desideroso
soprattutto di compiacere sua madre. Eppure Hougan, una maledizione vivente
forgiata da un padre brutale, sembrava essere un'ombra costante alle sue
calcagna.
Quella mattina Alex era in piedi nel campo giochi, e guardava Rivers e il suo
amico Evans che calciavano la palla tra di loro, pensando a Newbridge e come
era in passato. Poi Evans gli aveva passato la palla. Sorpreso l'aveva stoppata,
mandandogliela indietro con un movimento rapido del piede...
...solo per trovarsi a faccia in giù sull'erba sintetica con le mani sbucciate, un
ginocchio contuso, e una gamba dei pantaloni strappata. Aveva guardato in alto,
stupito.
"Hurst". Hougan aveva pronunciato il suo nome con una smorfia, poi gli
aveva sputato vicino alla testa. Evans e gli altri ridevano. Eccetto Rivers, che
guardava freddamente tutti e due, con gli occhi che si rimpicciolivano
lentamente.
"Dammi la palla." Hougan si era avvicinato ad Alex, che aveva ancora le mani
dolenti per la caduta, e il ginocchio che sanguinava. "La palla."
"No" aveva detto piano Rivers. Hougan aveva ghignato, sardonico, poi lo
aveva caricato.
La rissa era durata trenta secondi, e i due ragazzi si erano picchiati a tutta
forza, pugni, piedi e ginocchia che si pestavano in movimenti confusi prima che
il signor Palmer, l'insegnante pazzo di musica la cui magrezza celava la forza,
era apparso a separarli, prendendo Hougan per l'orecchio quando non si era
fermato. Rivers aveva il naso sanguinante, ma Hougan aveva il labbro superiore
tagliato.
"Nomi" aveva chiesto Palmer.
"Stafford Rivers."
"Stafford Rivers, signore!"
Rivers si era rifiutato di ripetere il suo nome.
"Tu?"
Hougan restava in silenzio.
"Nome, ragazzo."
"Marc Hougan" fece lui, puntualizzando con un bolo di sangue sputato verso i
piedi dell'insegnante.
"Il famigerato Hougan, eh? Ci avevano avvertito su di te." Palmer aveva
rivolto la sua attenzione a Hurst.
"Tirati su, ragazzino."
Due minuti più tardi, a pochi secondi dall'inizio ufficiale della giornata, Alex
era in piedi fuori dell'ufficio del preside, e ai suoi lati c'erano Hougan e Rivers.
Nessuno parlava o guardava gli altri. In quel momento aveva capito che non
sarebbe cambiato niente. Era lo stesso, come era sempre stato, e sembrava
mettersi solo molto peggio. Se doveva sopravvivere per i cinque anni successivi,
avrebbe avuto bisogno di un alleato. In piedi nel corridoio grigio che puzzava di
disinfettante, con lo stomaco contratto dal nervosismo, decise che Rivers sarebbe
stato quell'alleato — non importava quanto gli sarebbe costato tirarlo dalla sua
parte — inconsapevole del fatto che il legame fra di loro si stava già formando in
virtù del Fato.
Dopo aver rollato un paio di grossi spinelli, Staff era calmo. Seduto sulla
poltrona consunta, maciullava una lattina vuota di birra, mentre Alex era disteso
sul letto con una bottiglia di Guinness in una mano, uno spinello nell'altra. Sì,
Ralph Taylor. Che strano e lungo viaggio era stato. Clint Eastwood, nei panni di
Dirty Harry, lo guardava dal muro. Dai, muoviti, teppista, che sto a posto per
tutto il giorno! Forse per tutta la notte, pensò. Staff era perduto nei suoi pensieri,
con il viso come una maschera di sabbia, la sua espressione mutevole mentre il
vento di quei pensieri gli forgiava gli angoli dei suoi zigomi alti, della bocca
grande. Alex gettò la cenere sul linoleum crepato. I Pink Floyd suonavano di
nuovo, questa volta il motivo di Dark Side of the Moon. Sì, la notte. Staff non
parlava da quasi un'ora.
Cominciò "Money" e Alex cominciò a giocherellare con le chiavi, esami-
nandole con fascino languido e fisso. L'anello era un contenitore di plastica con
dentro due foto. Da una parte c'era una piccola fotografia di una veduta notturna
di New York, con l'Empire State Building che sembrava incompleto senza King
Kong a cavalcioni; l'altra raffigurava un cranio con delle ossa incrociate, sotto il
quale si leggeva l'iscrizione: VIVI IN FRETTA, MUORI GIOVANE. Avrebbe
voluto vivere a New York, un giorno, gustare tutto ciò che prometteva. Le grandi
città della Gran Bretagna al confronto sembravano insignificanti; anche a Londra
mancava qualcosa se paragonata alla Grande Mela di cui aveva tanto letto. Ma
poi qualsiasi posto era meglio di Bath, credeva, provando nient'altro che disgusto
per la cittadina del West Country in cui aveva trascorso tutta la vita; New York
gli appariva come un'immensa Disneyland per adulti. Okay, Bath aveva più di
duemila anni di storia e di cultura, ma questo non significava niente se si
avevano diciassette anni, e si era senza soldi, e quando il futuro sembrava
promettente come una vecchia foto in bianco e nero tenuta nella tasca posteriore;
sbiadita e spiegazzata.
Staff gli mise paura alzandosi improvvisamente in piedi, dirigendosi alla
porta. Riapparve un attimo dopo, lanciando un casco nero ad Alex, che si versò
la Guinness su una gamba dei Levi's. Staff rise: — Ce ne andiamo. — Alzò il
mazzo di chiavi che aveva in una mano, il casco rosso nell'altra.
— Sulla moto di Brian? Sei pazzo scocciato. Ti farà sputare merda quando ti
trova.
Staff rise, questa volta asciutto. — Non lo saprà mai. La vecchia è sbronza
fino al midollo e non ci sentirà mettere in moto la Belva. Andiamo. Andare a
cento all'ora per la strada ti snebbierà il cervello.
Era sparito prima che Alex potesse obiettare. Merda, e perché no? Erano già le
otto meno un quarto, ora di fare qualcosa. Se Staff voleva rischiare una
scazzottata con suo fratello, bene, non era un problema suo. Sì, la Belva, cioè la
moto di Brian Rivers. Una Kawasaki Z1000 rossa; adesso si ragiona. Mille cc
pulsanti, quattro cilindri rombanti, a quattro tempi. Sempre meglio che prendere
l'autobus fino da Tully.
Staff riavviò la Z1000 e la Belva tornò in vita rombando, con tutti i suoi 1000
cc di massima ingegneria giapponese. Alex salì a cavalcioni sulla grande moto,
tenendosi ben saldo alla sbarra del sellino. Staff si voltò. — Andiamo! — gridò,
mandando su di giri il motore.
Staff abbassò la visiera e la Belva perfetta partì per Landsdown View. Non
appena raggiunsero l'inizio della strada, Staff premette con forza sul clacson, e il
rimbombo echeggiò dai muri di mattoni mentre si infilavano nel tunnel sotto la
ferrovia e Staff frenava all'ultimo momento raggiungendo l'innesto con la Lower
Bristol Road, con i freni che stridevano a mo' di protesta. Di fronte a loro c'erano
gli edifici della Hermann Muller, con le luci ancora accese mentre gli addetti alle
pulizie lavoravano negli uffici.
C'erano entrati per farsi due risate qualche settimana prima, dopo aver bevuto
fino a tardi, e avevano rubato un paio di sedie dalla sala del consiglio
d'amministrazione, gettandole nel fiume Avon che scorreva dietro all'industria.
Staff sapeva sempre cosa fare quando la serata era fiacca. Sì erano proprio
divertiti a sfondare la finestra dei bagni degli uomini, arrampicarsi, e sbattere nel
buio fino a che non avevano trovato gli uffici. Staff aveva scansato la sedia di
una segretaria e aveva pisciato in un cassetto della scrivania, infradiciando un
mucchio di pratiche del personale. Si, quella bravata aveva salvato bene una
notte noiosa. In quella serata invece si profilava una rissa, con la Kawasaki che
rotolava via come un eccitante sogno meccanizzato.
Passò un'ondata di traffico, gli ultimi pendolari che tornavano a casa per il
weekend. Quando anche l'ultima macchina sparì, Staff mise in marcia la moto,
accelerando con lo stile di un motociclista in autostrada. In pochi istanti si
accodarono alle macchine. La strada curvava a destra e la visibilità era limitata.
Questo non gli impedì di sorpassare, scalare di marcia, aumentare il ruggito del
motore mentre continuava a far salire il tachimetro, scalando poi in quarta
mentre scivolava oltre la Hillman Avenger. Alex guardò l'automobilista
allarmato, un tipo grasso, stile uomo d'affari, che tirò fuori le dita mentre loro
sparivano. Sì, sarebbe stata una bella notte. Lo sentiva giù per le palle fino alla
punta dei capelli, col corpo che gli vibrava all'unisono con la potente
motocicletta. Guardò sopra la spalla di Staff: il tachimetro segnava settanta, ed
erano in una zona con il limite di cinquanta miglia orarie. Roba grossa. Staff
continuava ad accelerare, spingendo la moto a superare altre macchine. Più
avanti sulla destra le case lasciavano il posto alle industrie, mentre sulla sinistra
cominciava il muro di pietra che sosteneva le rotaie della linea ferroviaria della
British Rail, che raggiungeva Londra a est e Bristol a ovest, la direzione verso la
quale erano diretti. Lì il limite di velocità era sessanta. E loro erano a ottanta.
Guidala questa Belva!
Se avesse potuto vedere il viso di Staff si sarebbe accorto che il suo amico
stava sorridendo, un sorriso mesto, irritante, carico di aggressività. Staff portò la
moto a novanta, tentato di mandarla a tutto gas, con le macchine dietro di loro
che recedevano rapidamente. Non c'era traffico contrario mentre raggiungevano
l'entrata della città. I lampioni terminarono, tuffandoli in una striscia di oscurità,
la linea ferroviaria che spariva in un lungo tunnel, le industrie sostituite sulla
destra dalla massa scura, silenziosa e lenta del fiume Avon. Il motore della moto
ronzava con soddisfazione quasi sensuale mentre tagliava l'oscurità, un diavolo
tuonante e selvaggio venuto dall'inferno.
Ubriaco di droga e di velocità, tutta quella perfezione per la testa che lavorava
e i movimenti oliati, Alex non aveva timori sulle capacità di Staff di controllare
la moto. Guidava motociclette da quando aveva tredici anni, al di sotto del limite
legale d'età, ma allora la legalità non spiccava nella visione del mondo di Staff:
un po' di traffico di droga qui, qualche scasso là — erano solo bazzecole di
violazione della legge, ma lui credeva che se si vuole qualcosa, bisogna
prendersela; se bisognava fare soldi, occorreva trovarli in qualsiasi maniera; se
c'era una moto abbastanza invitante da essere guidata, allora bisognava spingerla
al massimo, portarla fino alla linea rossa, e oltre. Al diavolo le leggi e le regole.
Alex sentì il suo amico piegarsi nel vento e si abbassò il più possibile. Non c'era
né passato né futuro (Dio salvi i Sex Pistols!), solo il presente — e quello era un
urlo immenso e palpitante di velocità e di buio.
Si avvicinarono al semaforo nel punto dove la Upper e la Lower Bristol Road
convergevano e allungarono per un miglio di carreggiata dritta a doppia corsia. Il
semaforo era verde, e la Belva schizzò via a cento miglia all'ora. Alex tossì nel
casco. Sì, così era. Corriamo. Veloce, furiosa, esilarante corsa. Tutti i pensieri
sull'esame dell'ultimo anno, sui saggi, gli insegnanti, la casa e la noia, erano
scomparsi. C'era solo quella sensazione di velocità.
Alle nove meno dieci di sera Harry Bledsoe era incazzato. Il viaggio da Bath
gli aveva preso quasi un'ora a causa del traffico intenso, aumentato da un
tamponamento a tre fuori Keynsham. Ma ora era a Kingswood e finalmente, in
dieci minuti circa, avrebbe raggiunto il magazzino Forbes.
Si domandò come stava il piccolo Markie. Quando Harry era uscito, la
mattina, quel povero ragazzino sembrava essere in punto di morte, con la
varicella al massimo. Avrebbe chiamato Kath appena arrivato nel cortile, per
sapere come stava quel ragazzino di quattro anni che sembrava tutto sua madre.
Sposare Kath era stata la migliore mossa che lui avesse fatto e in quel momento,
seduto nel camioncino davanti a un semaforo di Kingswood, tutto ciò che
desiderava era essere a casa con la sua donna, seduto di fronte alla TV con i
bambini a letto a dormire, felice sapendo che il piccolo Markie stava bene.
L'autobus dietro di lui suonò il clacson e lui ingranò la marcia del camioncino,
muovendosi lentamente perché la strada era stretta, il traffico ancora pesante.
— Vengo a casa presto, amore — disse, sorridendo.
Dopo un'ora di guida intorno alla città, verso le nove arrivarono alla Sion Lane
e videro una macchina della polizia davanti alla casa di Tully. Staff abbassò il
motore della Belva, esitando, poi lo spense.
La musica alta rotolava nell'aria fresca della notte mentre Alex sollevava la
visiera del casco, scrutando la strada alla ricerca dei Ragazzi in Blu. Staff
sganciò il cavalletto della moto, si tolse il casco e si voltò verso Alex con
espressione scontenta. Aveva avuto anche troppi incontri spiacevoli con quei
porci.
— Vado a vedere che succede.
Alex smontò, poggiando il casco sul sellino. Staff brontolò.
Mentre Alex si avvicinava alla casa la musica cessò, con Solsbury Hìll di
Gabriel interrotto a metà coro, e un fievole suono di voci indignate seguito da un
momento di silenzio. Fece una pausa, poi continuò verso la casa isolata, con i
tacchi degli stivali che rimbombavano sul selciato. Quando fu a circa duecento
metri dalla casa vide arrivare una seconda macchina della polizia dall'altra parte
della strada a ferro di cavallo. Si nascose nei cespugli di fronte alla casa più
vicina, osservando i due poliziotti scendere dalla macchina e dirigersi con i loro
piedi piatti verso i colleghi, che uscivano in quel momento dal giardino con tre
adolescenti tra di loro. Uno dei ragazzi era Alan Birch, di King Edwards, uno
spacciatore che nel giro della droga faceva apparire Dawson il dilettante che era.
Guardò di nuovo verso la strada. Staff non era in vista.
I due poliziotti fecero avanzare i due ragazzi, che Alex non riconobbe, a passo
di ranocchia verso la macchina. Tully e un piccolo gruppo di ragazzi, tra cui
Philippa, apparvero al cancello del giardino e parlarono con il poliziotto più
anziano, ma non riuscì a sentire cosa dicessero. Continuarono a parlare. Tully
sembrava seccato. Il poliziotto scosse la testa, posando una mano pesante sulla
spalla del basso adolescente, gesticolando verso l'altra macchina. Philippa fece
per protestare, un uccellino biondo e delicato che improvvisamente si ritrova con
le ali tarpate. Tully si voltò, le prese la mano, disse qualcosa, e si avviarono con
il poliziotto, con gli altri ragazzi in piedi con in viso espressioni perdute e
confuse.
Saltò dietro al bordo del ligustro mentre le macchine di pattuglia si al-
lontanavano e si avviavano per la collina, oltre la moto. Una volta in cima,
arrischiò un'altra occhiata verso la casa, ma Philippa e la folla erano scomparsi.
Staff non si vedeva e lui corse di nuovo verso la Belva.
— Ehi — sibilò.
Staff apparve da dietro un alto muro di un giardino che limitava una grande
casa moderna.
— Sembra come se...
— Ho visto. — Il viso di Staff era una maschera di frustrazione. Mentre si
avvicinava a una Metro verde parcheggiata lì vicino gettò una sigaretta in un
tombino. Con un balzo afferrò un ramo basso, tirandolo giù con tutto il suo peso.
Questo si ruppe con uno schiocco sordo e lui lo scagliò verso il parabrezza della
macchina.
Ancora.
E ancora.
Quando il ramo fece poco di più che rompere un tergicristalli, lui lo gettò da
una parte, riprendendo l'assalto, sferrando calci alla carrozzeria.
Nella casa si accese una luce.
— Andiamo.
Staff era sulla Belva prima che le parole gli fossero uscite di bocca, con il
piede che scalciava sulla messa in moto con un forte movimento verso il basso.
La motocicletta riprese vita, e mentre Staff sgassava il casco di Alex finì nel
rigagnolo. Partì prima che Alex si fosse piazzato bene, e l'amico quasi cadde
indietro per la rapida accelerazione.
Non si fermò alla fine della strada e Alex quasi lo perdette di nuovo, riuscendo
a rimanere in sella solo aggrappandosi alle spalle di Staff mentre voltavano
bruscamente a destra. Staff ingranò la quarta mentre la Cavendish Road
scendeva rapidamente accanto al campo da golf, e Alex si reggeva stretto mentre
la Belva affrontava la discesa.
Si dirigevano verso il pub Hat & Feather sulla Walcott Street; Alex intuì la
loro meta quando attraversarono la Landsdown Road, quasi arrotando un pedone
mentre rombavano giù per il pendio verso la fine della Paragon, con la sua fila di
case stile georgiano coperte di nero per il monossido che essudavano tutto il
fascino bombardato di Dresden.
Staff rimase in silenzio mentre parcheggiavano la Belva fuori del Ristorante
Hong Kong Garden, con gli occhi azzurri che sprizzavano rabbia mal contenuta
mentre si toglieva il casco. Alex abbozzò una smorfia ma Staff distolse lo
sguardo, avviandosi verso le porte doppie a battuta del pub.
L'Hat era un bar mal gestito, pieno di chiazze e di segatura, in una zona della
città che i padri sembravano aver dimenticato. A solo un minuto a piedi dalle
vetrine eleganti di Broad Street, Walcot era un angolo oscuro di povertà, droga, e
prostitute occasionali. L'Hat era un posto di merda, un luogo di ritrovo per i
perduti, gli emarginati, i dimenticati, quelli che non entravano nell'immagine
ordinata di Bath di impiegati statali, segretarie, commesse di negozi, e
benestanti. In una notte qualsiasi si potevano trovare un paio di spacciatori, una
banda di motociclisti, gruppi di hippy che bevevano pinte di birra, agivano
liberamente, parlavano dei loro sogni consumati come gli sgabelli del bar che
scricchiolavano sotto il peso di quegli ubriaconi professionisti.
Staff spinse le porte per aprirle e scomparve. L'Hat era la loro seconda casa. Lì
venivano accettati con il resto di quella gioventù disillusa che sorbiva birra e
ascoltava il juke-box. Gli Stranglers, i Pistols, Iggy, gli Slits — nel jukebox
c'erano tutti. Il pub però non era un paradiso nichilistico, era un nesso tra
generazioni, un rifugio dell'ultima erba mobile hippy spazzati via dal vento del
'67, quelli che avevano professato di avere le risposte, e la generazione neutra il
cui credo era a me non importa. Ad Alex piaceva quel posto e sentì allentare un
po' della sua frustrazione mentre entrava nel baccano di 1969 degli Stooges.
Staff si fece largo tra la massa dei giocatori verso il bar. L'odore della Flower
Best Bitter, una chiara da poco prezzo, e dei superalcolici stagnava tra gli
habitué come una nuvola di alitosi. Staff ordinò una pinta di Skol e una Guinness
mentre Alex svicolava verso l'angolo più lontano verso Joe il Fumoso, un
habitué dell'Hat, attento a non urtare il gruppo di skinhead accanto alla finestra.
Il bar era quel tipo di posto in cui una mossa sbagliata poteva fruttarti un
cazzotto in bocca.
Staff lo raggiunse. Vedendo che aveva gli occhi ancora scintillanti di rabbia,
Alex si concentrò sulla Guinness. Meglio non parlare fino a che Staff non si
fosse raffreddato.
Rivers sospirò dopo aver mandato giù metà della sua pinta. — E adesso?
Alex si accese una sigaretta. — Andiamo a vedere l'ultimo spettacolo.
— Andiamo! Me ne frego di vedere quel film del cavolo. Ci sono altre cose.
— Non so. — Era vero, non aveva affatto idee oltre a quella di farsi di brutto
guardando violenza in celluloide.
Staff brontolò. — Abbiamo la Belva. Pensa a qualche posto dove andare.
— Bristol?
— Naah.
— L'autostrada?
— No — disse di nuovo Staff. — Che puttana!
— E piantala — disse Alex, infastidito. — Dacci un taglio.
— 'Fanculo, non era mica la tua ragazza.
— Va bene, però...
— Senti, sono incazzato, va bene?
— Lo so — disse Alex dopo un attimo, battendogli sulla spalla. — Scordati di
Tully. Ci scommetto che sta alla polizia a convincere quei porci che non ne
sapeva niente della droga di Birch.
Staff annuì, guardando gli skinhead.
Alex mise giù il bicchiere. — Devo fare un goccio d'acqua.
Il bagno degli uomini era sul retro, dalla parte opposta. Iniziò a farsi strada
attraverso la calca, evitando i corpi per quanto poteva, particolarmente
oltrepassando un gruppo di punk rapati a zero che bevevano con un paio di
ragazzi della banda dei Bristol Angels. Improvvisamente, a pochi metri dalla
porta del bagno, si arrestò. In piedi proprio di fronte a lui c'era una figura che
riconobbe immediatamente, anche se vedeva quel tizio solo di schiena. Quella
figura gli aveva tormentato i sogni per troppi anni.
Hougan.
Tutto il suo metro e ottantacinque di statura gli bloccava l'entrata al bagno, e il
piantagrane dai capelli neri stava parlando con un paio di ragazzine minorenni.
Merda!
Alex si gelò. Non c'era modo di raggiungere il bagno senza toccarlo, dato che
in quell'angolo i giocatori erano ben stretti. Anche se erano due anni che non
incontrava il suo nemico, più di dieci anni di guai gli avevano instillato una
risposta pavloviana: Hougan significava guai, Hougan significava dolore.
Inconsciamente si portò le dita alla mascella, toccandosi la cicatrice di cinque
centimetri sotto il mento, un regalino di Hougan sul campo da rugby della Ralph
Taylor. L'ansia lo prese alle gambe, e perse lo stimolo di pisciare.
— Hai fatto presto — disse Staff mentre tornava. Alex scosse le spalle. — Ho
un'idea — Staff sorrise mestamente. — Facciamo una scappata al Circolo,
vediamo cosa cucinano. Forse lì c'è Alison. — Alex scosse di nuovo le spalle,
prendendo la sua pinta. L'idea non lo attraeva, e per quanto riguardava Alison...
Per due anni avevano passato la maggior parte dei venerdì sera al Circolo, il
Club della Gioventù Cristiana di S. Stephen, in parrocchia, un incubo vittoriano
di palazzo nella terra di nessuno di Walcot. Ci erano andati dietro invito di Adam
Gibson, il figlio del reverendo, e dopo una settimana o poco più era diventato un
punto fisso della loro vita. Quando sei minorenne e hai problemi a farti servire
nei pub, cosa si può fare se non divertirsi da sé? E il Circolo era diventato quel
divertimento.
Una volta esaurite le possibilità della sala principale — skateboard, calcio,
fare l'altalena dai balconi — avevano scoperto gli angoletti bui dell'edificio,
luoghi dove poter giocare altri giochi, come fumare erba nell'appartamento vuoto
del custode, gettare gavettoni dal tetto alla gente di sotto, infilare le dita tra le
cosce umide e vogliose delle ragazze del coro, coperti dall'oscurità della cantina.
Per la gente con la mente distorta il Circolo era un festino di tentazioni
adolescenziali.
Allora era divertente, ma ora Alex sentiva di essere cresciuto ben oltre i
confini del Circolo, di essersi laureato al mondo reale di sesso, droga e
rock'n'roll. Passare al Circolo avrebbe voluto dire dissotterrare un vecchio amico
per cercare tra le sue ossa alla ricerca di nuove idee. Ma Staff mise giù il
bicchiere vuoto e si diresse verso la porta prima che Alex potesse obiettare.
Era a duecento metri circa sulla Walcot Street quando Alex finì la birra e si
fece largo a forza attraverso i giocatori, felice di mettere strada tra lui e lo spettro
di Hougan. Dato che il Circolo non era lontano dal pub, Staff ovviamente non si
sarebbe disturbato a prendere la moto. Alex gli corse dietro.
La tazza di tè era rimasta intatta sul tavolo mentre Jamie era seduto con la
testa tra le mani.
A differenza della tazza, la sua mente era vuota. Non aveva idea di quanto
tempo avesse trascorso seduto lì sulla sedia con il telefono in mano come una
corda di salvataggio gettata a un uomo in acque agitate, ma alla fine aveva
trovato la forza di arrivare in cucina dove si era fatto una tazza di tè, pensando
che una bevanda calda lo avrebbe risvegliato dal suo stupore. Lo fece, e poi
perse l'interesse.
Il terrore gli attanagliava lo stomaco, come frutta candita digerita male. Si
sentiva perduto.
Alex.
Una vaga immagine del fratello, teso, accigliato, gli arrivò nello spazio bianco
dei suoi non-pensieri.
C'era qualcosa che non andava.
Mentre si allungava per afferrare la visione, per sentirla, l'immagine si dissipò,
danzò intangibilmente a distanza.
Era andata.
Si svegliò di scatto quando il braccio gli scivolò dal tavolo e si rese conto di
essersi appisolato. L'orologio sul camino segnava la 10.05; era rimasto
addormentato per quaranta minuti. No, non addormentato, da qualche parte tra i
due stati di coscienza, come quel tipo nel libro di King, La zona morta. Lui era
stato nella zona morta, uno stato di niente, nuotando su correnti fuori da lui.
Si era sentito così già una volta, da bambino. Non si ricordava con chiarezza,
ma mentre si sforzava, si riattivò un circuito perduto, un circuito che aveva
riposato a lungo, bruciato da un sovraccarico di input.
Alex.
Àlex era la chiave.
Alex si era arrampicato sul tetto della capanna del giardino, per atteggiarsi.
Jamie era stato intontito tutto il giorno; poi, quando Alex aveva cominciato a
salire sui rami dell'albero, aveva saputo che il fratello sarebbe caduto molto
prima che il metallo ondulato cedesse, gettando Alex nel letto di fiori sottostante.
Lui lo aveva saputo.
Come?
Non ne aveva idea. Perché non si era ricordato di cosa era successo quel
giorno? Ricordava il resto: Alex portato all'ospedale da un vicino di casa; la
madre arrabbiata e depressa — arrabbiata con Alex perché si era arrampicato,
depressa per non avere una macchina e dover dipendere dal vicino — Alex con
la gamba ingessata per sei settimane, Jamie geloso perché suo fratello non
sarebbe dovuto andare a scuola.
Invece di sollevarlo dall'ansia, quel ricordo inaspettato gli rinfocolò la
tensione, con il terrore come frutta candita che diventava cocci di vetro per
l'apprensione — tagliente, penetrante — che gli rivoltava lo stomaco.
Quell'impressione, una ragnatela sottilissima di conoscenza a priori, lo
raggiunse di nuovo come una catena di sensazioni; odori, tocchi, suoni, tutti
sconosciuti eppure terribilmente familiari.
Buio.
Polvere.
Pietra fredda.
Eco. Voci in una cantina.
La voce di una ragazza. Ridacchiante. Ubriaca.
(noia, noia, noia)
(puttana)
Cercò di amplificare le sensazioni.
(...non mi piaci...)
Cercò di vedere.
(Gibson... sgualdrina...)
Ma tutto ciò che riusciva a percepire erano frustrazione, tracce di sensazioni,
brandelli di pensieri.
(...nnata perdita... tempo... venerdì...)
L'input sensoriale saltò, sostituito da un'oscurità schiacciante, freddo e dolore
travolgenti.
(DOLORE DOLORE DOLORE)
Il mondo volava in pezzi.
Erano ormai le dieci e quaranta e si sentiva male di nuovo. Ebbe i conati di
vomito fino a che la gola non gli fece male, forzandosi di bere il tè freddo per
alleviare il dolore.
C'era qualcosa che non andava con Alex. E stava per succedere qualcosa di
peggio.
(Cosa?)
Ma come poteva trovare suo fratello prima che
(Cosa?)
fosse troppo tardi?
Alex svitò il tappo della bottiglia di sidro, ne bevve una lunga sorsata, poi la
passò a Staff. Alison Gibson, la sorella di Adam, ridacchiava mentre si sedeva
nella vecchia sedia a rotelle in mezzo alla cantina cullandosi in grembo una
bottiglia di Bacardi da mezza pinta quasi vuota. Lui aggricciò il naso dal
disgusto. La ragazza era quasi fuori di sé dal bere.
— Mi annoio — disse lei.
— Benvenuta tra noi — rispose Staff.
Alex riusciva a vedergli solo il viso nell'oscurità della cantina, dato che l'unica
luce proveniva dalle finestrelle lungo il muro lontano, accanto al soffitto, luce
arancione dei lampioni sulla strada. Non era sufficiente per vederci, ma era scura
abbastanza per i segreti degli adolescenti; e Alison ne aveva molti. Alcuni lui li
conosceva: aveva perso la verginità a tredici anni e a sedici aveva già avuto tre
storie con uomini sposati (tra cui un membro anziano della chiesa) e rubava
regolarmente i cosmetici dal supermercato. Lei gli aveva raccontato un bel po' di
cose la mattina che lui si era infilato nella parecchia per scoparsi quella stupida
proprio sotto il naso del reverendo Gibson. Lei gli aveva fatto anche il suo primo
bocchino sul tetto della sala parrocchiale una notte d'estate. Dopo quell'episodio
erano usciti insieme per un po' — la madre di Alex era deliziata dal fatto che il
figlio uscisse con la figlia del reverendo — ma si era stancato presto
dell'infedeltà di lei. Alison era una sgualdrina, pura e semplice. Non ne aveva
mai abbastanza, e lui avrebbe voluto una relazione fissa e monogama, almeno
per un po'.
Staff bevve a lungo dalla bottiglia di Bulmers, poi gliela ripassò. Alison puntò
il dito alla bottiglia di rum. Per diverse sorsate nessuno parlò, e lui decise che era
ora di pisciare. Alex dette la bottiglia a Staff, ruttando mentre lasciava la stanza
dirigendosi verso il gabinetto oltre la porta accanto.
Mentre si svuotava la vescica, si sentì la testa leggera, come se si fosse fumato
un altro spinello, e pensò di rollarne uno appena raggiunto Staff. Ma mentre
entrava, già prima che i suoi occhi si abituassero all'oscurità, i grugniti eccitati di
Alison gli rivelarono una passione ubriaca. Avvicinandosi, vide che Staff aveva
alzato il vestito rosso della ragazza fino alla vita, e la mano destra lavorava sotto
le mutande mentre si baciavano con la lingua. Alison stava cercando di
slacciargli la cinta. Alex prese il sidro, ruttando. Alison mugolò.
— Non restartene lì da una parte — mormorò lei mentre Staff smetteva di
baciarla in bocca, raggiungendole il collo. Alex si fece più vicino. Lei si sporse
verso di lui, gli trovò la guancia, lo toccò delicatamente. — Baciami — disse,
poi si lamentò di nuovo mentre Staff le muoveva le dita dentro e fuori dal sesso.
Alex si avvicinò, e le due lingue si incrociarono. Pensieri del passato — Alison
che gli faceva un bocchino all'ultima fila del cinema, che gli apriva le gambe sul
pavimento della parrocchia — si misero a fuoco, un misto di disgusto ed
eccitazione che gli si scontravano dentro.
Le girò dietro e lei cercò di baciargli la bocca ma non riuscì a raggiungerlo.
Lui le passò la lingua su un orecchio, sentendola tremare mentre la circondava
con le braccia, le stringeva il seno con le mani e lei si appoggiava indietro contro
il suo petto. Staff le tolse le mutande, agitando ancora le dita dentro e fuori dal
suo corpo, più violentemente, più velocemente. Alison boccheggiò.
— Più piano.
Staff non se ne curò. Con la cinta slacciata, lei cercò di tirargli fuori il cazzo.
— No, lentamente — disse lei. Lui borbottò.
Le mani di Alex erano sotto il maglione di lei, e le massaggiavano i seni
larghi. Glieli strinse forte. Alison squittì come un maiale battuto.
— Non...
— Sshhh.
Vide che Staff prendeva la bottiglia di sidro, e poi lei gridò forte quando lui
sostituì le dita con il collo di vetro. Cominciò a divincolarsi tra le braccia di
Alex, ma le braccia di lui rimanevano immobili. Mesi di esercizi ai pesi gliele
avevano ingrossate e rafforzate; e lei non riusciva a sciogliersi dalla sua presa.
— No, no — mi fai male!
Staff le ficcò dentro la bottiglia.
Fuori.
Dentro.
Fuori.
Dentro.
Alison urlò di nuovo e Alex sentì le lacrime di lei che gli si spiaccicavano sul
dorso delle mani. Provò disgusto e frustrazione. E una scintilla di piacere.
Le toccava quello che si era meritato, quella troietta accalappia cazzi.
Si rese conto che a parlare era l'alcol e la droga, non il suo vero io. La sua
lucidità mentale guizzò, mentre una parte segreta e malata di lui si ergeva da un
luogo oscuro.
Alison piangeva copiosamente, mormorando: — nononononononononono —
senza fermarsi.
— La sedia a rotelle — disse Staff, togliendo la bottiglia.
Alex esitò.
Questo è sbagliato.
Ma la sua metà oscura contrattaccò quel pensiero, vomitando tutti gli anni in
cui era stato snobbato dalle ragazze: quelle di Newbridge che lo prendevano
perennemente in giro; quelle degli anni della sua prima adolescenza; un torrente
di rifiuti e umiliazioni. Frances Clarke, figlia dell'insegnante che aveva fatto dei
suoi giorni a Newbridge una tale miseria, facendo la spia perché lui aveva rubato
un libro della biblioteca, con il suo accento delle classi alte che gli risuonava
nelle orecchie.
Il libro l'ha preso Hurst.
Frances e la sua amica inseparabile Melanie, quel porcellino grasso, che lo
prendevano in giro, dicendogli che non sarebbe mai stato niente, che non valeva
niente, che nessuna ragazza avrebbe...
— La sedia a rotelle — disse con forza Staff.
Alex ubbidì.
Si sentiva come Alex il Balordo di Arancia Meccanica che stava per fare il
vecchio dentro-fuori-dentro-fuori.
Strattonò Alison fino alla sedia mentre Staff faceva strada.
— NO!
— Chiudi quella bocca, cazzo.
Alex barcollò fino a davanti, tenendole le mani mentre Staff si portava dietro
di lei. Alison aveva il culo proteso dallo schienale della sedia. Staff si tirò giù i
jeans, con il cazzo eretto, puntato nell'oscurità come un bastone da rabdomante,
alla ricerca cieca del buco.
La rabbia di Alex si allungò come un elastico al punto di rottura — poi scartò
indietro in un impeto di lucidità.
Questo è... sbagliato.
I pensieri si schiarirono. Non voleva fare parte di quella... brutalità. Si sentì
male dalla paura, mentre Staff afferrava la bottiglia del Bacardi.
— Staff, non...
— Tienila!
Impossibilitata a vedere, allarmata da quello scambio di battute, Alison si
divincolò con nuova lena. Staff si piegò su di lei, tappandole la bocca con una
mano, soffocando le sue grida.
— Staff, no, questo è...
— Cosa?
— Sbagliato.
Staff si fermò. — Stai diventando un bigotto?
— No, non è... non è giusto!
— Vaffanculo.
Staff abbassò la bottiglia, afferrando i fianchi di Alison, pronto a penetrarla.
La paura divenne una nuova creatura. Alex non poteva — non voleva —
aiutare il suo amico. Quella creatura si chiamava sfida e lui le lasciò andare le
mani. Lei si divincolò e Staff perse l'equilibrio. Quando alzò le mani per colpirla,
Alex balzò in avanti.
— Non farlo!
Afferrò le braccia di Staff, spingendo indietro l'amico. Lottarono per un breve
istante, poi Staff se lo scrollò di dosso.
— Va bene, va bene.
Alex gli prese un braccio.
— Ho detto va bene, accidenti a te!
Alison giaceva spompata accanto alla sedia, singhiozzando ad alta voce,
profondamente, tirandosi la gonna sulle gambe.
Alex guardò Staff, e il ragazzo, più alto, lo guardò di rimando, con le scarne
luci provenienti dalla finestra che gli illuminavano le linee di tensione attorno
alla bocca.
— Va bene — disse con inaspettata dolcezza, distendendo il braccio. — Hai
ragione. — Alex lo lasciò andare, non convinto dal cambiamento d'umore. Poi il
viso di Staff si aprì come un pavimento rotto, e la bocca si allargò in un gran
sorriso.
— Hai ragione. — Si tirò su i jeans, spingendo dentro con difficoltà la sua
erezione, il membro che puntava come un dito accusatore.
— Andiamo — disse.
Alison singhiozzava forte.
Quando la nausea lo travolse Jamie era alla fine della West Lea Road.
Barcollò fino a un muretto per sorreggersi mentre la sensazione gli correva dalla
bocca dello stomaco, trapassandolo. Non veniva su niente — non c'era niente da
tirare fuori.
(Alex... non...)
La sensazione svanì istantaneamente come era arrivata, ma aspettò fino a che
non fu certo di poter camminare diritto.
Doveva trovare Alex.
Alex era in pericolo.
(Dove?)
(...sbagliato...)
Jamie non ne aveva idea. Tutto ciò che sapeva era che doveva allontanarsi da
quella casa.
Con il passo lento di un sonnambulo continuò a camminare, dirigendosi verso
Newbridge Hill come se una forza gravitazionale lo spingesse verso il fiume. Era
irrazionale allontanarsi dalla strada che lo avrebbe portato a casa dei Rivers,
l'unico posto dove pensava di poter trovare Alex, ma niente sembrava razionale.
L'istinto gli prese la mano e lui affrettò il passo.
La Broad Street era deserta mentre si dirigevano verso la Paragon, calmi ora
dopo la lite. Staff non gli parlava da mezz'ora, apparentemente vergognandosi
del suo comportamento. Prima che lasciassero il Circolo Alex si era accertato
che Alison fosse abbastanza coerente da capire la sua minaccia.
Se dici qualcosa farò in modo che tuo padre riceva le foto.
Fottersi quanti più uomini poteva avere sottomano per Alison non era
abbastanza. Doveva conservare delle tracce visive, fotografandoli dopo l'or-
gasmo con una Polaroid. Ma anche questo non l'aveva soddisfatta. Stanca di
quella galleria di organi, aveva cominciato a usare l'autoscatto per conservare le
prove dei suoi rapporti dove lei era la star dello spettacolo. Ma, come un diario
segreto, scritto con la speranza perversa che qualcuno lo legga, un tale
confessionale diventava valido solo quando qualcuno lo leggeva. Lei aveva
commesso un errore quando aveva mostrato ad Alex i suoi lavori artistici, pensò.
Era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso; lui aveva smesso di uscirci
insieme la settimana successiva, non prima però di averle rubato diverse
fotografie da far girare per la scuola, inclusa una scattata clandestinamente al
signor Dixon, il guardiano della chiesa, mentre si masturbava sul divano della
parrocchia.
Convinto che lei non avrebbe detto nulla se ne andarono, con un silenzio
imbarazzato tra di loro. Quando uscirono dalla sala, Staff si mosse in direzione
dell'abbazia e del centro città, cercando di camminare per smaltire la rabbia, la
frustrazione e la colpa, ritornando in sé mentre l'ondata di droga e alcol si
dissolvevano.
Alex lo conosceva abbastanza bene da rendersi conto che Staff non era uno
stupratore. Si sentiva solidale con il suo amico, che camminava a testa bassa, le
spalle ingobbite come se portassero un peso tremendo. Erano legati da una noia
disperata e dalla tacita consapevolezza che il futuro aveva poco in serbo per loro.
Specialmente per Staff. Una madre alcolizzata, un padre distante. Qualifiche
senza valore. Ora poi era senza lavoro, con pochi soldi, e niente ragazza. Anche
se Alex stava studiando per la maturità e per poter iscriversi all'università, non
aveva nessun desiderio di andare in un'altra cittadina per studiare per altri tre
anni. E poi cosa? Una carriera? E come cosa? Ragioniere? Impiegato statale? Sì,
con una casa con tre camere da letto, un mutuo gravoso, una moglie e tre figli.
Grandioso. Si sarebbe svegliato una mattina per ritrovarsi cinquantenne, un
uomo d'affari sovrappeso, come tutti gli altri. Staff sarebbe vissuto in una casa
popolare con una moglie, dei figli e la fedina penale sporca. Questo se vivrai
abbastanza a lungo, pensò. Staff lo faceva pensare a "La mia generazione" —
spero di morire prima di invecchiare. Prigione, morte, o una casa popolare. C'era
differenza tra le tre cose?
Quando raggiunsero l'inizio della Broad Street Staff si voltò.
— Grazie. Ero fuori fase.
— Non pensarci. — Alex si accese una sigaretta.
Arrivarono al vicolo che tagliava la Paragon, con i suoi gradini ripidi che gli
ricordavano quelli dell'Esorcista, dove il prete muore lottando contro il demone
e la sua crisi mistica.
Alex non credeva in nulla. La sua vita era una lunga strada diritta, né mattoni
gialli né pavimentazioni d'oro, solo una distesa annebbiante di liscio asfalto nero
misurato in nascita, scuola, lavoro, morte. Bath era antica, sarebbe rimasta per
centinaia di anni. Ma lui sarebbe scomparso da un pezzo, morto a cinquant'anni
per un attacco cardiaco o crepato di noia molto prima di allora. Thackeray
poteva anche aver scritto "E per quanto riguarda Bath, tutta la storia è andata, si
è bagnata e ha bevuto lì", ma Alex provava la sensazione di essere sommerso da
quel peso culturale, una cultura in cui lui non trovava posto. Defoe aveva avuto
ragione quando aveva descritto la città come un luogo che portava a commettere
il peggiore di tutti gli assassinii — ammazzare il tempo.
Non c'è Dio, senza dubbio, pensò Alex mentre scendevano i gradini. Aggrottò
le ciglia mentre Staff si fermava sul selciato.
— Cosa...
Staff gli fece un cenno secco. — Guarda lì.
A cinquecento metri, quasi nascoste dalle ombre gettate dal forno ab-
bandonato, due figure si battevano dentro e fuori dalla luce dei lampioni come
ballerini ubriachi.
— Questo potrebbe essere interessante — disse Staff.
Si avvicinò, osservando attentamente.
Alex gli tenne dietro. I due erano mal assortiti — uno alto, grande, potente,
l'altro circa uno e sessanta, di costituzione delicata; e la scontava tutta. Il tizio
alto stava spingendo il bassetto, giocandoci, tenendoselo lontano con le braccia
più lunghe. Il piccoletto cercò di scalciare, attirandosi per tutta risposta un
pugno, che lo mandò a schiantarsi contro il forno.
Alex tirò un sospiro tra i denti stretti.
Hougan.
— Staff — disse.
Lui si voltò, annuendo. — Ho visto.
Alex sentì la rabbia montargli da dentro le viscere come una fiammata. La
stessa vecchia solfa, la stessa pantomima; un suono di pugni, una danza di
dolore. Hougan teneva il tizio più piccolo — era sempre un tizio più piccolo,
pensò — nel palmo della mano, intrappolato, arrabbiato, con la cautela gettata al
vento. Era sempre la stessa solfa: stuzzicava qualcuno fino a che questi
rispondeva, causava all'altro tanto dolore finché questi non perdeva il controllo,
poi scattava per uccidere. Hougan stava sbattendo il bassetto contro le porte, e il
rumore della testa di quel tizio che colpiva il legno era abbastanza forte perché
Alex lo sentisse.
Ricordi dolorosi che arrivavano a ogni colpo:
Hougan che lo pestava a sorpresa sul viso a Newbridge.
Hougan che gli tendeva un agguato in un giorno fradicio di pioggia mentre
tornava a casa.
Hougan sospeso per aver sbattuto la testa di un ragazzino più grande sul
campo da gioco.
Hougan che scattava su di lui sul campo da rugby, dandogli un calcio in
faccia, e simulando un incidente.
Alex portato all'ospedale: dieci punti e un'otturazione per il dente traballante.
Hougan portò un gancio alla testa dell'altro. Quando il pugno gli toccò il viso
ci fu uno schianto, e il piccoletto rimbalzò dal muro mentre il sangue gli colava
dal naso fatto in pezzi; un cazzotto allo stomaco e l'oppositore andò rapidamente
giù.
Alex guardò Staff, con l'espressione dura. — Facciamoci quel bastardo.
Staff annuì.
Hougan sovrastava il corpo caduto, pronto a scatenare i piedi. L'altro ragazzo,
appena cosciente, alzò inefficacemente una mano. Hougan tirò indietro il piede
con lentezza deliberata, assaporando ogni ruga di paura del viso del ragazzo,
inconsapevole del fatto che Alex e Staff lo avvicinavano dall'altra parte della
strada. Vedendo che stava per dare un calcio sulla testa al ragazzo, si
affrettarono.
Hougan si voltò mentre Staff si gettava su di lui, e caddero insieme quando il
suo pugno destro si scontrò con lo sterno di Hougan. Hougan strisciò verso le
gambe del ragazzo che aveva atterrato, portandosi dietro Staff ma senza essere in
grado di sgusciare via mentre tutto il peso di Staff gli atterrava sul corpo. Staff lo
colpì allo stomaco, ma Hougan si vendicò con il pugno sinistro, colpendo Staff
su un lato della testa. Staff vide le stelle, e il dolore gli corse giù per il collo.
Hougan gorgogliò con la furia di un orso arrabbiato, cercando di scrollarsi di
dosso Staff mentre arrivava Alex.
Alex esitò. Un errore. Hougan chiuse le gambe a forbice, incastrando Alex tra
le ginocchia, e mandandolo ad atterrare pesantemente sulla spalla sinistra, col
casco che volava. Lui urlò. Staff, nonostante le campane che gli suonavano in
testa, afferrò Hougan da dietro, attorno al viso. Hougan grugnì. Alex gridò —
Fattelo! — scalciando con il piede destro alle palle di Hougan. Lo mancò, e il
piede andò a sfregargli l'anca. Staff si alzò in piedi e calciò. Il piede colpì il petto
di Hougan, ricacciando indietro il ragazzo, mandandogli la testa a sbattere sul
selciato.
— È mio! — urlò Alex, tuffandosi mentre portava giù il pugno destro come un
pistone, spiaccicando il naso di Hougan per tutta la faccia.
Il dolore al braccio sinistro era intenso, ma non intenso come la rabbia
incontenibile che gli esplodeva nella mente. L'animale impaurito e ferito dentro
di lui emerse a denti scoperti, gli artigli sfoderati, mentre anni di paura e di
dolore gli fluivano fuori in un'ondata di adrenalina.
Lo colpì ancora.
Ancora.
E ancora.
Tutto si ammantò di una nebbia rossa e non sentì o si accorse che la mascella
di Hougan si rompeva, che i denti saltavano. Né sentì Staff gridargli di smettere.
Abbassò il pugno per la quinta volta, colpendo Hougan sulla guancia sinistra e
sbattendogli la testa in un angolo innaturale; il collo scrocchiò. Nel profondo di
Alex, in quel posto malato e segreto, una voce cominciò a ridere di isteria folle.
Urlò — Sei un fottuto bastardo, fottuto bastardo — mentre Staff lo
schiaffeggiava con forza, facendolo scendere dal petto di Hougan, su cui era a
cavalcioni.
Alex balzò in piedi, con la mente presa su una folle lunghezza d'onda,
brandendo il pugno.
— Ne vuoi un po'? Vieni, stronzo!
Staff, scuotendo la testa, guardò Alex come se lo vedesse per la prima volta.
Alex fece per scalciare Hougan ma Staff lo afferrò.
— È morto!
Schiaffeggiò Alex per la seconda volta. Alex si gelò d'improvviso, poi scosse
la testa.
— Cosa dici?
— È morto. Gli hai spezzato il collo. Gesù, Alex, è dannatamente morto.
Alex fissò in basso verso Hougan. Il viso sembrava fatto di diversi chili di
carne per cani.
— Dio... Dio, o Gesù, Dio... nonononono, Dio, no, Gesù...
Cominciò a dondolarsi avanti e indietro, e perse la voce.
Staff guardò verso la strada. Dall'estremità del Beaufort Hotel si avvicinava
una macchina.
— Andiamo — disse Staff. — Aiutami.
Cominciò a trascinare il corpo nel vicolo buio accanto al forno. Alex stava
ancora dondolando, con le braccia raccolte sul petto. Il ragazzo semisvenuto
mugolò.
— Andiamo!
Alex inciampò.
— Merda. — Staff tirò il corpo di Hougan oltre il campo di luce.
La macchina era più vicina.
— Alex!
Alex si scosse lentamente.
— Quell'altro!
Alex sembrava ebete.
Staff si avvicinò al ragazzo malmenato. — Vieni, stupido coglione!
La macchina era quasi su di loro.
Staff afferrò il ragazzo semicosciente, allontanandolo dalla porta. Alex ora
capiva, e il panico sostituiva lo shock. Si abbassò, prese le gambe del ragazzo e
aiutò il suo amico a portare il giovane intontito nel buio mentre la macchina li
oltrepassava.
Il ragazzo mugolò ancora.
— Cosa facciamo...
— Ce ne andiamo, cavolo — scattò Staff, prendendo Alex per un braccio
mentre si fermava per raccogliere i caschi. La macchina non si era fermata.
Alex esitò, mentre Staff gli dava il casco rosso. Guardò il vicolo con
l'espressione di un bambino confuso.
— Muoviti.
Prese il casco.
Jamie era giù per la Upper Bristol Road vicino al fiume quando il suo braccio
sinistro cominciò a formicolargli, spilli e aghi che gli correvano dalla spalla al
polso. Si fermò.
La strada lì era buia come la pece; l'unica luce proveniva dagli alti lampioni
color arancio dall'altra parte del fiume, dove la Lower Bristol Road diventava
strada statale. Una immobilità di tomba si addensava sui campi aperti e sul
cantiere navale, eppure Jamie sentiva l'aria danzare, elettrica. Si sedette sul
muretto, massaggiandosi il braccio.
(via di qui)
Aveva seguito una bussola interna con la fede cieca di un pellegrino non
vedente, la mente una tabula rasa, libero da direzioni conscie. Ora la bussola
girava vorticosamente, una spirale vertiginosa di confusione.
(muoviti)
Il pensiero era debole, gli arti di piombo. Sapeva che il suo viaggio era quasi
concluso. Qualsiasi strada non tracciata lui stesse percorrendo, la sua
destinazione era dall'altra parte del fiume, e non aveva controllo sugli av-
venimenti che stavano per accadere. Era un marinaio alla deriva in un mare
psichico con una barca senza timone, in quel momento sospeso in un
cambiamento di marea. Poi la bussola smise di vorticare e lui si incamminò.
Staff guidò la Belva giù fino alla Queen Square, osservando attentamente i
limiti di velocità. Ad Alex sembrava che si stessero muovendo a passo di
lumaca.
Hougan era morto.
Non sentiva niente.
Niente rimorso, panico, nessun residuo della nausea che aveva provato mentre
si avvicinavano alla moto, quando il suo stomaco aveva improvvisamente
eseguito una capriola in avanti, espellendo in un fiotto caldo Guinness e sidro sul
selciato.
Vuoto.
Aveva la testa innaturalmente leggera e chiara.
Lo aveva ucciso.
Alex rise silenziosamente mentre Staff si dirigeva verso la Lower Bristol
Road.
Alex alzò la visiera del casco e bussò sulle spalle di Staff. Lui andava ancora
piano e quel ritmo irritava Alex.
— Punta verso Bristol — gridò.
Staff annuì.
La casa di Staff aveva poca attrattiva per Alex, e la casa di sua madre
sembrava ad anni luce di distanza.
Non puoi tornare di nuovo a casa.
Aveva lasciato i confini sicuri e noiosi dei suburbi della classe media, con la
mente, se non con il corpo. Non era più Alex Hurst, era Alex il Balordo. Aveva
gustato la rara prelibatezza della vecchia ultra violenza ed era rinato. Hougan era
andato, e così le vecchie paure. Avvertiva un cambiamento anche in Staff. Erano
stati nel fuoco e ne erano emersi indenni.
Puntò il pugno davanti al viso di Staff, imitando il gesto di un'accelerata. Lui
annuì con entusiasmo.
A tutto gas.
Il legame tra di loro ora era più forte, inscindibile, due spiriti male accoppiati
per classe sociale eppure emozionalmente uniti, un paio di gemelli siamesi.
Staff portò la Belva a settantacinque e Alex sorrise.
Niente aveva importanza. Solo la velocità, gli uomini, e la macchina fusi in un
ménage a tre di movimento rombante e accelerato.
Le case lasciarono il posto alle industrie e presto le industrie avrebbero
lasciato il posto al lungo rettilineo nero prima della statale.
Si sentì euforico. Com'era quella battuta del film di James Cagney?
"In cima al mondo".
Sì, in cima al mondo, mamma.
Alex rise.
La coscienza di Jamie si fratturò non appena mise piede sul ponte a dosso.
Un attimo guardava avanti, quello successivo stava paradossalmente
guardando se stesso verso il basso da una grande altezza, un figuretta quasi
mangiata dal buio, osservando l'estremità del ponticello verso il semaforo.
Quella visione spaccata durò un secondo, un'eternità, poi si sentì cadere dal
cielo, scendere a velocità incredibile, con il corpo che gli si precipitava contro.
Udì il fruscio di enormi ali di cuoio che battevano nel cielo notturno, antiche e
innaturali ali mai toccate dal tempo.
Gridò mentre qualcosa gli sferzava il corpo, un lamento acuto che per un
istante gli perforò le orecchie.
Silenzio. Totale. Immobile. Carico di strane promesse.
La paura e l'ansia erano svanite, l'immobilità era una sensazione inim-
maginabile sino a un attimo prima, e gli toccava le estremità di tutti i nervi, di
ogni molecola.
Era quasi finito.
Harry sfregò una mano contro gli occhi stanchi mentre si immetteva sulla
statale a ottantacinque miglia all'ora.
Il sonno gli strisciava sulle spalle. Sbadigliò.
Mezzo miglio al secondo semaforo, poi la Lower Bristol Road. Il semaforo era
rosso. Frenò, sperando che scattasse il verde.
Jamie vide il camioncino Bedford arrivare dalla statale mentre udiva il potente
rombo di una motocicletta dietro di lui, molto distante, ma che si faceva più forte
a ogni secondo.
Il semaforo diventò verde e il camioncino accelerò.
Il rombo della motocicletta aumentò.
Harry vide la moto che si avvicinava a quella che sembrava Velocità Su-
personica Cinque. Un secondo prima il faro era una piccola orbita ciclopica
gialla; quello dopo, molto più grande.
Quel pazzo bastardo deve andare a cento, pensò, trattenendo uno sbadiglio.
La luce traballò improvvisamente. Una traccia di scintille volò come lucciole
impazzite. Il faro si piegò ad angolo verso il camioncino.
Prima di riuscire a urlare, Harry venne scagliato contro la cintura di sicurezza,
con la testa che frustava all'indietro mentre la moto urtava contro il motore del
camioncino.
Harry urlò.
Jamie spalancò gli occhi. La notte esplose con il rumore assordante di
centoventi chili di moto che si fondevano frontalmente con una tonnellata e
mezzo di camion.
Al momento dell'impatto la Belva andava a 113 miglia; il camioncino a 89;
uno scontro a una velocità totale di 202 miglia orarie.
L'alta velocità diventò una corsa al rallentatore e Jamie osservò con chiarezza
innaturale tutti i dettagli dello spappolamento dei corpi.
Il passeggero della moto si alzò sulla testa del conducente e si spiaccicò in uno
schizzo rosso, come un pomodoro troppo maturo scagliato contro un muro.
Brandelli di muscoli, frammenti di arti protesi all'infuori, l'impatto del corpo
frantumò il parabrezza. La moto si contrasse su se stessa mentre la griglia del
motore sembrò inghiottirla completamente, sorridendo con un gran ghigno da
lupo mentre uomo e macchina diventavano muscoli e metallo, budella e motore.
Il camioncino distorto continuò la corsa per duecento metri, correndo sul
marciapiede alla sinistra di Jamie e dirigendosi verso il muro mentre il metallo
raschiava l'asfalto, scavando dei solchi nella carne scura della terra prima di
arrestarsi a un solo metro dalla pietra, tracciando i suoi movimenti con le
scintille.
Il silenzio discese improvvisamente con la solennità finale di un sipario che
conclude l'ultimo atto.
19 settembre 1980
La notte prima c'era stata una brutta gelata e i fiori sulle tombe stavano
morendo.
Jamie si strinse di più la cinta del cappotto attorno alla vita, soffiandosi sulle
mani, desiderando di aver portato i guanti. Il cimitero era deserto, anche se era
mezzogiorno. Persino gli uccelli sugli alberi erano silenziosi; l'unico rumore era
un rombo sommesso di camion sulla Rush Hill.
— Be', Alex, come ci si sente?
Le sue parole fluttuarono nell'aria autunnale e si sentì cosciente. Se quello
fosse stato un film di Brian de Palma, pensò, Alex sarebbe apparso davanti a lui
uscendo dalla tomba.
Ma era impossibile.
Quando la polizia e gli addetti all'ambulanza erano arrivati sulla scena, non
c'erano corpi; Alex aveva cessato di esistere, e i suoi resti mortali erano stati
sparpagliati su una vasta area dalla forza dell'impatto. Se non fosse stato per il
fatto che Stafford Rivers era riconoscibile — anche se si era schiantato nel
blocco motore con tale forza che i medici avevano impiegato tre ore per estrarre
il corpo martoriato — la polizia avrebbe impiegato dei giorni per identificare il
passeggero della moto. Alex era stato l'incubo del patologo, una minuta segatura
umana. Niente combaciava. La parte più grande del suo corpo era una sezione
della gabbia toracica e della colonna vertebrale, ma a cosa poteva essere
attaccata? Non c'erano arti. Solo frammenti di ossa, lembi di pelle, tracce di
muscoli, una manciata di denti, e pezzi di cranio. Suo fratello si era vaporizzato.
Non c'era stato abbastanza da seppellire, e quel poco rimasto aveva riempito solo
due bustine di plastica. Alex non sarebbe diventato cibo per i vermi, nemmeno i
brandelli che ne restavano; era stato cremato, tutti e sette i chili. Ma la madre
aveva insistito per una lapide, e un'incisione, da elevare accanto al tumulo del
padre.
Jamie era sorpreso dalla propria reazione alla morte di Alex. Non aveva
provato niente allora e non provava niente adesso, fissando la tomba di cemento
grigio con su scritto il nome del fratello. Forse negli anni a venire ci sarebbe
riuscito, almeno questo era quello che diceva il dottore. Ma ne dubitava.
Nonostante avesse voluto bene ad Alex nella maniera tacita dei fratelli maschi,
aveva provato un gran sollievo dopo che il caos del funerale si era esaurito. Si
aspettava che dopo la cerimonia la casa fosse tetra; invece sembrava come se
l'appartamento di tre camere fosse stato ristrutturato.
Lui, Jamie Hurst, era rinato.
Alex, se ne rendeva conto, aveva gettato un'ombra sulle loro vite, e con il suo
trapasso le nuvole temporalesche si erano spaccate, fluttuando via mentre un
nuovo sole splendeva cocente. L'ombra, comunque, ammantava ancora la madre.
Jamie non pensava che se ne sarebbe mai andata. Lei si era abituata troppo a
portare il nero per cambiare il suo guardaroba. Un anno dopo quel giorno e lei
era ancora sotto tranquillanti, nonostante Julian fosse tornato a vivere con loro,
avendo lasciato il suo lavoro sulla piattaforma petrolifera del Mare del Nord.
Jamie, d'altro canto, era aumentato di forza. Aveva passato gli esami a gonfie
vele ed era sul punto di iscriversi ad Oxford. A gennaio aveva venduto il suo
primo racconto a una prestigiosa rivista letteraria ed era a metà strada della
bozza del suo primo romanzo, duecento pagine scritte nel calore bianco
dell'estate precedente.
Ora la vita aveva un senso. Jamie capiva come si doveva essere sentito Saul
sulla strada per Damasco; era cieco e ora riusciva a vedere, anche se non con gli
occhi di un diciassettenne. No, lui vedeva il mondo attraverso gli occhi di un
anziano toccato da una conoscenza arcana. Una volta si era sentito eclissato
nell'oscurità che il fratello attirava attorno a sé; ora si sentiva bagnato di luce,
battezzato in una grazia inimmaginabile prima dell'incidente, mai toccato dai
colpi e dagli strali dell'adolescenza.
Alex aveva vissuto il suo sogno oscuro — vivi in fretta, muori giovane — e
ora era la volta di Jamie. Là dove suo fratello aveva fallito — o dove era riuscito,
a seconda del punto di vista — lui sarebbe riuscito a modo suo.
Solo un dubbio lo assillava, una domanda che forse sarebbe stato meglio
lasciare senza risposta.
Cosa era successo quella notte, e perché?
Quando la moto aveva colpito il camioncino, era rimasto impalato per un
millennio — in realtà meno di un minuto — poi si era allontanato, senza provare
alcuna sensazione simile a quella che dovremmo provare nell'istante della morte
violenta: shock, orrore, perdita. Naturalmente, non avrebbe potuto sapere in
nessun modo che si trattava di Alex. Infatti, non lo aveva saputo, quella
consapevolezza terribile e liberatoria era arrivata successivamente. Eppure Jamie
aveva saputo a qualche livello profondo, a qualche livello primordiale, rettile di
coscienza.
Si era allontanato, inconsapevole del fatto che c'era un uomo cieco in-
trappolato nell'abitacolo che urlava silenziosamente in una muta agonia, con le
corde vocali recise dal parabrezza schiantato, e mentre Jamie traversava il fiume,
sentiva una parte di lui — forse l'innocenza — che svaniva su ali sovrannaturali,
aveva udito l'agitarsi di una membrana di pelle che si era levata verso il cielo
nero. La sola sensazione che gli attanagliava il cuore era una pace indescrivibile.
Una volta arrivato a casa, ancora in uno stato di sonnambulismo, era andato
direttamente a letto, cadendo in un sonno senza sogni, un quieto riposo di un
bambino non toccato dalle paure terrene e dai terrori della coscienza adulta. Si
era svegliato la mattina successiva con il suono del campanello e, alcuni secondi
più tardi, con l'urlo di sua madre.
Il mondo di Jamie era cambiato.
Alex era vissuto in una falsità bugiarda intessuta da coloro che erano im-
prigionati dal loro stesso timoroso isolamento. Finché il prato sarebbe stato
tagliato con cura, le tendine stampate a fiori attaccate diritte, finché gli assegni
non fossero ritornati protestati, non ci sarebbe stato nessun suicidio di
adolescenti, niente incesto, alcolismo, violenza, abuso di droga, carestia o
guerra, eccetto che nei giornali. La classe media era troppo intelligente e troppo
stupida per lasciare che tali mali la toccassero. Ma Jamie avrebbe esplorato la
menzogna, provando la sua maschera interpretando i ruoli della narrazione,
cercato la verità, per quanto brutta. E se ci fosse stato un prezzo da pagare,
arrivato il momento avrebbe spontaneamente dato al traghettatore i suoi soldi e
avrebbe traversato il fiume un'ultima volta, sicuro nella consapevolezza che
aveva percorso strade note solo a pochi eletti: i sognatori, i pazzi, gli impazienti.
Starnutì. Stava arrivando il suo solito raffreddore invernale e il fresco di
settembre non incoraggiava una permanenza al freddo.
— Arrivederci, Alex. — La voce di Jamie era forte contro la tranquillità del
cimitero.
Mentre si voltava notò una cornacchia che lo guardava dall'alto dei rami di
una vecchia quercia. L'uccello gracchiò, arruffando le piume.
Pagati completamente i suoi ultimi rispetti, Jamie si incamminò per l'erta
verso Rush Hill e la scuola. Quando non fu che un puntino nel paesaggio la
cornacchia volò, arcuandosi verso il cielo limpido, le ali come un'apostrofe nera
nella distesa vasta, impersonale, cerulea.
J. S. Russell non esiste. Vi stupisce, dunque, che abbia l'introduzione più corta
del libro?
In realtà, "J. S. Russell" è lo pseudonimo di un giovane sudcaliforniano che si
occupa professionalmente di saggistica, sotto altro nome. "La città degli angeli",
apparsa per la prima volta nel volume "Autunno 1990" di Midnight Graffiti, è la
sua prima uscita professionale di fiction.
Al momento, Russell ha un certo numero di altri racconti che circolano tra
varie pubblicazioni horror, quindi forse, quando questa raccolta Splatterpunk
verrà pubblicata, il suo nome vi sarà già familiare. Altrimenti, "La città degli
angeli" dovrebbe imprimervi bene in mente il nome d'arte di Russell.
Permanentemente.
Perché questo è un racconto che prende il più sfruttato dei cliché della
fantascienza — la storia del dopo-olocausto — e lo scompone nella più
disgustosa forma immaginabile.
A proposito, questo racconto mi ha fatto ridere. Ridere forte. Più di una volta.
D'altra parte, non dimenticatevi la sacchetta per il vomito. Se c'è un racconto
in Splatterpunk che focalizza questa controversia, è questo.
Infatti, è un'idea carina.
Sapete quella persona così ostinata nella vostra vita, quella assoluta testa dura
che rifiuta di convincersi che dallo splatterpunk uscirà mai qualcosa di buono?
Dategli "La città degli angeli". Spiegategli dolcemente che è un'escursione in
un argomento estremamente serio. Una volta che ha cominciato a leggere,
sorridete molto.
Poi sedetevi e aspettate il divertimento.
Il Dottoperaio ce lo aveva dato per certo ma io già lo sapevo che stava peggio.
Il viso di Porqy era tutto gonfio e rosso, e si spellava sulle guance e sulle braccia
con lunghe strisce brillanti. Si lamentava anche delle ginocchia, di come
scrocchiassero e scricchiolassero a ogni passo, e in effetti sembrava che lì dentro
avesse dei cocci di marmo che rimbalzavano l'uno sull'altro.
Viridiana ora trasudava da tutte le parti. Poi le pustole sul viso e sul collo
cominciarono a colare grigio e bianco e quella grossa macchia rossa in mezzo
alle gambe sembrava diventare un po' più grande e puzzare molto più di rancido
ogni giorno che passava. Alla fine, la vidi a un lato del campo con la camicia
arrotolata sopra il seno e lei si punzecchiava e si stuzzicava quelle sue grosse
poppe imprecando come un marinaio con lo scolo. La chiamai per nome e
quando si voltò vidi che si stava toccando un liquido denso e dall'aspetto
vischioso che le colava dai capezzoli. Non avevo mai visto niente di quel colore
uscire da un corpo umano prima di allora, ma a lei non dissi niente. Lei mi
guardò con quello sguardo triste, da cane bassotto e vidi che avrebbe avuto
voglia di piangere ma cercava sempre di far vedere come fosse più forte di tutti
noi. Non riuscivo a pensare a nient'altro da fare, così me ne andai.
Io stesso avevo cominciato a gocciolare in posti strani, e la verità era che era
più che spiacevole. Solo Demo sembrava ancora in forma, ma sapevo che faceva
male anche a lui, più che altro all'interno. Si comportava sempre più da
predatore, e diceva stupidaggini o si dimenticava i nostri nomi o anche come
chiamare l'erba o il cielo. Ogni tanto gli occhi gli si facevano più selvaggi e
cominciava a mangiare le cose morte e decomposte che si trovavano sempre
sotto i piedi. Ma poi tornava in sé ed era sempre lo stesso buffone che ci faceva
divertire così tanto.
Comunque, il Dottoperaio — neanche lui aveva un bell'aspetto, con quella
porcheria che gli colava dall'orbita vuota dell'occhio — usò quel suo scanner e ci
disse che probabilmente era solo questione di giorni ormai. Credo che anche gli
altri lo sapessero, ma il vecchio Porqy non voleva ammetterlo. Parlava ancora di
mangiarsi i culi quando afferrò il Dottoperaio e fece per mordere un pezzo dello
stomaco dell'uomo. Si prese solo un pezzetto di carne prima che lo tirassimo via,
e il Dot non fece resistenza.
— Noi angelini dobbiamo restare uniti — disse, saltellando verso il suo
carrellino da golf. — Questi sono tempi interessanti per tutti noi.
Viridiana era incazzata nera e disse che era ora di farsi Porqy, ma Demo e io la
dissuademmo. Ammettemmo solo che d'ora in poi avremmo dovuto prendere un
po' più alla lettera quello che diceva Porqy.
Avreste mai pensato che quell'idea del cavolo di palle di bambino sarebbe
stata la morte di Porqy?
Dalle ombre sul terreno capivamo di essere vicini al centro. Ne avevo sempre
sentito parlare, ma non ci avevo mai creduto prima. Erano dappertutto però, i
contorni anneriti di gente in piedi proprio al piano zero, con i corpi vaporizzati,
le ombre bruciate per sempre nel cemento spaccato.
Demo, scemo come sempre, tirò fuori il flash e fece delle ombre con le mani,
facendo sì che i contorni avessero cazzi e tette e parlassero come Topolino. Era
divertente, devo ammetterlo, ma nessuno rise troppo. La fine era troppo vicina e
ci sentivamo tutti veramente male. Mi pizzicava la pelle tanto che mi sembrava
che le formiche o gli scarafaggi si arrampicassero su ogni centimetro del mio
corpo, mordendo e pungendo durante la marcia. Anche alcune parti di me erano
diventate tipo funghi, e avevo paura di scoppiare come un vecchio pomodoro se
qualcuno premeva troppo forte.
Porqy correva come un cono gelato nel sole del deserto. La pelle del viso e
delle braccia era caduta tutta e i muscoli rosa e i tendini brillavano come fegato
nella vetrina di un macellaio. Aveva il respiro veramente ansimante e
camminava come un cane a tre zampe con un giradito, rantolando e delirando di
donne incinte.
Voltammo per quella che poteva essere stata una volta la Sunset Boulevard
quando Porqy la vide, distesa in terra in una pozza di Elvis-solo-sa-cosa. Sentivo
le ossa che gli schioccavano nelle gambe mentre correva verso di lei. Io feci per
fermarlo ma Viridiana mi trattenne e scosse la testa. Io rimasi a guardare mentre
Porqy rigirava quel cadavere e scavava nella pancia rigonfia con i suoi artigli
incrostati.
Ci fu un lieve rumore di rottura, come un enorme passaggio di vento, mentre
le sue dita rompevano la carne annerita liberando i gas gorgoglianti all'interno.
Un sottile spruzzo di color magenta scuro sprizzò dalla pelle decomposta
inondando le guance spellate di Porquah. Porqy non sembrò notarlo, però, e
pescò manciate di vischiosità dal dorso, setacciando il tessuto corrotto, credo,
alla ricerca di un qualche segno di un feto. Afferrò un oggetto piccolo e
tondeggiante — un rene devastato, forse — e se lo ficcò in bocca, masticando
felice.
— Palle — lo sentii dire attraverso una boccata di grigio — palle di bambino,
yum yum.
Improvvisamente spalancò gli occhi e cominciò a rigettare con un rumore che
sembrava il risucchio di una fogna. Poi smise e ricadde con il viso nel corpo
devastato. Quel corpo si spiaccicò come un cetriolo ammuffito non appena
Forqy ci cadde sopra, e sapemmo che il vecchio Porqy era assolutamente morto.
Immaginai di lasciarlo lì, col naso sepolto in quello che una volta avrebbe
potuto essere un dolce cespuglio, ma Viridiana, di tutti, ebbe una buona idea per
il funerale. Demo tagliò via le palle di Porqy e le bollimmo su un focherello. Io e
Demo ce ne dividemmo metà e lasciammo l'altra per Viridiana. Mangiammo in
quel silenzio innaturale e io pensai che, dovunque fosse, Porquah ne sarebbe
stato toccato.
Gli occhi erano pronti a scoppiarmi via dalla testa e avevo la lingua in bocca
come un ceppo di legno scheggiato. Trovammo un campo di fiori selvatici
mutanti e ci meravigliammo alla vista dei colori fluenti e surreali che
scintillavano nel sole calante. Le nubi sottili sembravano damasco contro il cielo
serico, color malva, e per un istante pensai di ricordare qualcosa su cosa fosse la
bellezza.
Demo era fuori di sé in uno dei suoi raptus folli, ma ora non importava.
Guardai Viridiana e non so cosa fu — forse la luce debole, forse solo il modo in
cui piegava la testa — ma per un attimo pensai di vedere come doveva essere
stata da piccola, tutta carina e brillante e piena di sogni.
Mi avvicinai a lei e le misi una mano sulle spalle, sentendo le ossa che si
frantumavano sotto il mio tocco. Per un secondo sembrò cauta, ma poi mi fissò
negli occhi e sembrò capire.
Ci togliemmo i vestiti, cercando di lasciare tutta la pelle che potevamo, e
giacemmo in quel letto dai colori soffici. Lei era un casino gocciolante e
gommosa e il mio aspetto non doveva certo essere un granché migliore, ma lei
aprì le gambe e io le montai sopra e la penetrai. Scivolai dentro un po' più di
quanto sembrasse normale o naturale e non mi preoccupai molto per i rumori di
risucchio che facevamo entrambi, ma fu bello e sembrava giusto, nel modo in
cui è sempre stato e sempre dovrebbe essere. Viridiana emetteva dei rumori
lamentosi e credo che fossero di felicità. Io sono sempre stato alquanto
silenzioso durante una scopata, ma piaceva anche a me.
Alla fine chiusi gli occhi e pensai a Janey e a cosa era stato e credo di non
essermi mai sentito così bene.
Rotolai via da lei proprio mentre Demo ci si avvicinava, con qualcosa di
ingombrante in mano. Rimase in piedi proprio sopra la testa di Viridiana,
squadrandola da capo a piedi con quel suo sorriso a trentadue denti, e le sparò
due chiodi proprio negli occhi con un qualche fucile pneumatico. Doveva andare
a batteria ed Elvis-solo-sa-dove l'aveva trovato.
Quando accadde Viridiana non emise un suono. Smise solo di respirare mentre
delle lacrime cremisi le fluivano dalle orbite correndole giù sulle guance.
Io guardai Demo, ma lui si limitò a sogghignare di più. Io mi alzai e gli battei
scherzosamente sulla nuca e lui sghignazzò, ma sentii che qualcosa gli si
muoveva nel cranio e non lo feci più.
— Credo che l'abbiamo inchiodata tutti e due, eh? — fece lui.
Io risi e ce ne andammo in direzione dell'oceano, verso il sole calante, in
decomposizione.
Quel Demo è un dritto, ve lo dico io.
FUORILEGGE
Paul M. Sammon
Paul M. Sammon è una rarità giornalistica: non solo è uno scrittore molto
pubblicato, ma è anche (e simultaneamente) un cineasta di professione. Come
giornalista, Sammon ha scritto centinaia di articoli sulla storia della
cinematografia, assieme a recensioni di film per diverse pubblicazioni come
Omni, il Los Angeles Times, l'American Cinematographer, Cahiers du Cinema,
e Cinefantastique. / suoi racconti difiction sono apparsi su Twilight Zone
Magazine, e in The Year's Best Horror Stories, XIV serie. Sammon ha anche in
serbo due libri di prossima pubblicazione: Blood and Rockets, una guida
definitiva ai migliori film di fantascienza, fantasy e horror disponibili in
videocassetta, e Splatterpunk, una raccolta di racconti dell'horror "estremo".
Come regista, Sammon ha scritto, prodotto, realizzato e diretto decine di film
promozionali, pubblicitari e documentari per la sua casa di produzione, la
Awesome Productions Inc.; tra i lavori a cui ha partecipato ci sono anche film
come Platoon, Dune e Robocop. Inoltre, Sammon ha lavorato come pubblicista
e/o consulente promozionale praticamente per tutti i maggiori studi di
Hollywood, girando il mondo per dare lezioni e per apparire pubblicamente in
produzioni come Velluto blu, F/X, Conan il barbaro. L'ultima fatica di Sammon
si realizza proprio a Houston; qui è supervisore alla grafica computerizzata e
pubblicistica di Robocop 2, e apparirà in un certo numero di scene in questa
produzione.
Paul Sammon funge anche da coproduttore americano della serie, prodotta
dalla televisione giapponese, "Hello! Movies", il programma di intrattenimento
più popolare di questo tipo in Giappone, giunto alla sua quarta stagione di
programmazione sull'Asahi Broadcasting Network. Infine, Sammon ha
recentemente co-scritto il copione per il cortometraggio Stereotypes. Girato a
Mosca, dove Sammon ha trascorso tre settimane per scrivere la sceneggiatura
assieme a un collaboratore russo, Stereotypes ha il primato storico di essere la
prima coproduzione russoamericana di un film animato.
1
GLI SPLATTERPUNK
Si dice che nel momento in cui si dà un nome a una cosa, la si uccide. Ecco
perché, a dispetto di tutto ciò che state per leggere, dovete tenere a mente una
cosa:
Quella che segue non è una definizione.
Un esame, sì. Una valutazione, senz'altro.
Ma non una cassa da morto.
Avendo stabilito questo, cominciamo con una dichiarazione:
Negli ultimi anni, è diventato chiaro che lo splatterpunk occupa una posizione
importante e preminente nel genere della fiction dell'orrore.
Splatterpunk? Cosa diavolo è lo splatterpunk?
Rimuoviamo innanzitutto i limiti che la società e il cosiddetto buon gusto
impongono alla fiction. Tutti i limiti. Aggiungete una salutare dose di shock e
l'influenza dei film shock o da pattumiera che dir si voglia, la TV della notte, e le
corde urlanti delle chitarre del più grande gruppo di heavy metal del mondo.
Infine, mescolate il tutto con una forte coscienza di cultura popolare. In-
saporite con un atteggiamento non testardo. Servite con qualcuno dei migliori
scritti attuali del settore.
E non tremate mai. Mai.
Gli scrittori che fanno parte dello splatterpunk non hanno semplicemente
rinnovato l'horror; hanno rinnovato la letteratura. Inserendovi le influenze di altri
mezzi di comunicazione, enfatizzando senza paura l'onestà, il coraggio e la
qualità, il buon splatterpunk non solo crea prosa immediata (fiction per il
momento), ma prosa che resiste (fiction per il domani).
Pensate a questo, allora, come a una specie di fermo immagine, che congela
un istante nel tempo. Un arresto splatter sull'orlo della voragine, se volete.
Creata perché chi guarda la corsa si possa fermare un momento a valutare i
progressi dei partecipanti sul terreno.
State per conoscere coloro che non rispettano le regole, gli innovativi im-
pegnati ad avanzare ben oltre le barriere.
Artisti soli ed emarginati, in un momento in cui la società scoraggia atti-
vamente qualsiasi cosa fuori dalla norma.
Questi non sono scrittori "accettabili".
Sono, in una parola
Fuorilegge.
2
SEMI DI RIVOLTA
Quando nel 1986, fu coniato il termine splatterpunk, per descrivere una certo
tipo di fiction aggressivamente esplicita, l'ambiente dell'horror era già in
tumulto. E lo splatterpunk, o almeno come esso si definisce attualmente, aveva
già più di dodici anni.
Già dall'apparizione, nel 1971, del romanzo di William Peter Blatty
L'esorcista (con la sua profanità, il vomito, e le ragazzine che si masturbavano
con i crocifissi) la fiction dell'orrore è cresciuta in misura esponenziale
nell'accettazione della critica e in popolarità. La pubblicazione nel 1974 di
Carrie, di Stephen King (e la sua seguente e straordinaria carriera) spinse
l'horror in overdrive; a quanto pareva, c'erano romanzi dell'orrore dappertutto
(per lo più robaccia). Nel campo correlato dei film dell'orrore, gli psicopatici, gli
zombi, i grossi tizi con maschere da hockey, macellavano tutti assieme la psiche
americana.
E alla natura sempre più visualmente esplicita dei film dell'orrore corri-
spondeva un analogo aprirsi della letteratura horror. Nel 1971 Casa infernale, di
Richard Matheson, narrava di una piccola banda di cacciafantasmi che cadeva
preda di un'orgia di espliciti desideri carnali. Nebbia, del 1975, scritto dal
brillante scrittore inglese James Herbert, dettagliava clinicamente le numerose
atrocità dovute alla fuga di un gas nervino, che conduceva la popolazione di una
cittadina inglese all'isteria omicida. Stephen King portò il legame racconto/film a
una maggior esplicitezza, includendo una scena in cui migliaia di scarafaggi
fuoriuscivano dalla bocca di un cattivo riccone nella sua sceneggiatura per il film
Creepshow, diretto da George Romero nel 1982.
Comunque, nonostante questi rombi minacciosi, gli ambienti horror tra-
dizionali (rappresentati dal romanziere/curatore Charles L. Grant, un moderato)
rifiutavano di riconoscere l'ovvio, e continuava a predicare la ponderatezza. La
buona letteratura dell'orrore, insistevano, doveva prendere da modello le fatiche
di Poe e Blackwood e Lovecraft, scrittori i cui segni di riconoscimento erano
l'ellitticismo e la suggestionabilità. Tutto il resto era immondizia
sensazionalistica, robaccia di infimo ordine.
Poi cominciarono ad apparire lavori come I libri di sangue di Clive Barker, del
1984, e il racconto del 1986 di Craig Spector Maledizione fatale; con loro arrivò
la rappresentazione dei peggiori incubi dell'horror tradizionale. Era fiction
dell'orrore implacabilmente di confronto; era viscerale fino all'estremo,
conteneva sesso e violenza espliciti, si accentrava su set grotteschi. Prendete
questo esempio dal racconto di Barker "Macelleria mobile di mezzanotte", che si
trova nel volume 1 dei Libri di sangue:
3
NON C'È UN MOVIMENTO: PROBLEMI PER QUESTO LIBRO
I commenti della Lannes esemplificano, in un certo senso, tutto ciò che viene
male interpretato sullo splatterpunk. Qui in sostanza s'innesca la diatriba allo
splatterpunk-come-parolaccia, che include osservazioni sortite tradizionalmente
da scuole di pensiero accademiche e conservatrici, enunciati che proclamano
pedissequamente che lo splatterpunk è immondizia gratuita e analfabeta.
Non capite male: la Lannes ha perfettamente diritto alle sue opinioni, anche se
la qualità complessiva degli scritti qui riuniti ovviamente nega la sua tesi. Ma la
risposta di Roberta è solo uno degli aspetti dei sentimenti evocati dalla parola
splatterpunk, che ci portano alla prima domanda nel nostro tentativo di capire.
Chi sono gli splatterpunk?
Be', dopo parecchie telefonate, mi è stato chiaro chi non lo è (a titolo di
cronaca, i soli quattro splatterpunk "ufficiali" sono Clive Barker — lui è un caso
marginale, John Skipp, Craìg Spector e David J. Schow; più avanti troverete
dettagli su questi quattro). Comunque, nonostante le loro proteste, c'è un
interessante equivoco celato sotto il disagio che molti scrittori hanno provato
nell'essere inclusi in questa antologia. A loro non interessava il fatto che molti
dei loro lavori più espliciti venissero etichettati come splatterpunk, a patto che
loro stessi non venissero definiti splatterpunk. In altre parole, si può scrivere un
racconto splatterpunk senza essere uno splatterpunk.
Perché hanno insistito su questa distinzione?
Perché l'emozione principale che lo splatterpunk fa sorgere per prima non è la
repulsione — come ci si potrebbe aspettare — ma la paura. Non solo l'antiquata
e affascinante paura di Il guardiano sulla soglia di Lovecraft. Stiamo parlando di
paure sociali, primarie ed essenziali. Paure che vi possono cacciare nei guai nel
mondo vero, proprio qui, in questo momento.
Paura di far male. Paura che ci facciano del male. Paura del linguaggio; paura
del sesso. Paura dei nostri corpi; paura della nostra morte.
Ovviamente, qualsiasi forma d'arte che riesca a suscitare tali emozioni porta in
sé una carica potente. E questo è il vero valore dello splatterpunk: è riuscito a
risensibilizzare il genere horror in modi che Lovecraft e Poe e King non si
sognavano nemmeno.
Oh, si: ho dimenticato di menzionare la paura gemella più associata a questa
sindrome di io-non-sono-splatterpunk: la paura di commettere una mossa
compromettente per la carriera.
Lo splatterpunk gode della reputazione di essere una letteratura per analfabeti,
uno scontro nauseante e offensivo di suono e furia senza significato. Questa è,
per essere moderati, una lettura scorretta del genere: peggio, suggerisce la stessa
attitudine riscontrata in coloro che non hanno avuto bisogno di vedere L'ultima
tentazione di Cristo per affermare che era un film blasfemo. Eppure una
valutazione ragionata di racconti brevi come "Gentlemen" di Skipp e Spector, o
"La notte che persero l'horror show" di Lansdale rivela presto la complessità, la
maturità, e la profonda moralità che caratterizzano queste opere.
Eppure il mito persiste: lo splatterpunk è immondizia da due soldi. Di
conseguenza, il disagio provato da molti scrittori presenti in questa antologia è,
perlomeno, comprensibile. Dopotutto, quale scrittore professionista
dovrebbe'desiderare di essere associato con il tipo di opera che rompe così tanti
tabù, che si suppone gratifichi i denominatori comuni più infimi, costellata di
parole come scopare e merda e che celebra positivamente i massacri e la
fornicazione?
Chi? Be', come attestano i contenuti di Splatterpunk, semplicemente i più
eccitanti tra gli scrittori che praticano la fiction oggigiorno (incidentalmente,
persino l'articolo di Gehr sul Village Voice alla fine ha trovato una descrizione
coi fiocchi dello splatterpunk: "Narrativa abietta"). Se ne deduce quindi che là
fuori c'è una manciata di scribacchini che si rendono conto che ciò che viene
liberamente definito come "splatterpunk" è molto più che scorreggiare a tavola.
Questi sono un gruppetto di individui con idee simili, con talento e visioni vere,
artisti cui nulla importa della censura e desiderosi di riflettere, attraverso l'oscuro
specchio della loro narrativa, quello che i loro personali radar psichici hanno
ritenuto essere la vera condizione umana: certo non un bello spettacolo. La
cosiddetta trasgressività dello splatterpunk ovviamente impallidisce di fronte a
ciò che ci facciamo l'un l'altro: per esempio, in politica a testimonianza citiamo
le atrocità commesse dai Khmer rossi.
Ma arriveremo più tardi a questi scrittori individuali. Come ho già detto, esiste
solo uno sparuto gruppo di splatterpunk: Clive Barker, John Skipp, Craig
Spector e David J. Schow. Gli altri solo a volte scrivono storie tipo splatterpunk.
Ciò che è importante è comprendere che non c'è un vero e proprio movimento
splatterpunk, che questo tipo di narrativa ha profondamente diviso l'ambiente
dell'horror, e che c'è ancora molta confusione quando si parla di:
4
COS'È
Craig Spector espone le sue idee sovversive molto più succintamente: "Voglio
che la gente rimanga sconvolta da quello che scrivo".
La linfa vitale dello splatterpunk è formata dai succhi che spreme, sia in
campo letterario sia fuori, e dal suo stimolo al dialogo. La cosa interessante è che
questa bestia letteraria, temeraria, quintessenziamente liberale, fiorisce durante il
mostruoso e menefreghistico conformismo degli anni di Nixon/Reagan. E le
cose rilevanti sono il suo coraggio, e la sua chiarezza.
Dichiarazioni altisonanti per una letteratura nota principalmente per la sua
mancanza di limiti. Ma il fatto puro e semplice è che lo splatterpunk è una delle
forme peggio interpretate della letteratura attuale, congniamente mal
rappresentata o mal compresa, generalmente da una corrente di critici o di
scrittori di horror tradizionale.
E c'è molto, molto di più su questo argomento.
Il richiamo dello splatterpunk nei confronti della sua platea più affezionata
opera a due diversi livelli. Ovviamente, gli eccessi sessuali e fisici dello splat
soddisfano i meno sofisticati, e la fame degli adolescenti per i frutti proibiti.
Questo è lo splatterpunk come lo vede la maggior parte della critica, nudo,
disadorno, che nutre il bambino — alcuni dicono l'animale — che è dentro tutti
noi. (Naturalmente, gli stessi critici non centrano il bersaglio. Lo splatterpunk
non parla di viscere e sesso; questi sono semplicemente due strumenti usati per
esprimere l'ideologia splatterpunk.)
Eppure persino a livello semplicistico e "grossolano", lo splatterpunk consente
la soddisfazione primaria di sfidare apertamente la figura e l'autorità dei genitori;
è l'archetipo che, per tradizione, ci avverte che il sesso è brutto, che dicendo
"scopare" si va all'inferno, che godere passivamente di scene di violenza (sia
stampate sia sullo schermo) ci fa stare "male". Nelle sue punte più alte, questo
primo livello di splatterpunk può essere catartico (o, per i più sofisticati,
semplicemente divertente). Al peggio, lo splat di primo livello può essere
contorto come nella mentalità malata che produce immondizia
monodimensionale del genere della serie di Venerdì 13, dove la sola logica di
ogni pellicola è quella di inventare omicidi sempre più spettacolari (che,
ultimamente, vengono talmente tagliati dalla censura della Motion Picture
Association of America che i registi potrebbero fare a meno di darsi tanto da
fare.)
Sfortunatamente, i Guardiani della Moralità che condannano il primo livello
splatterpunk, tutto teso a soddisfare le oscure fantasie dei suoi appassionati,
ignorano nel contempo le realtà quotidiane di questo tipo di pubblico. Perché è
ovvio che per la maggior parte della gente, la vita è perlopiù in diretta
contraddizione con le loro fantasie. Sappiamo per esperienza che guardare o
leggere di sesso in genere culmina con l'eccitazione, la masturbazione o l'atto
amoroso, non con la violenza o gli smembramenti; sappiamo che in genere
leggere o guardare violenza esplicita finisce per scatenare risa nervose o
semplice disgusto. Ovviamente la maggior parte di noi non reagisce a racconti
come "La notte che non andarono all'horror show" emulando nella vita reale le
azioni che ha letto. Dopotutto, quand'è stata l'ultima volta che avete violentato la
vicina di casa o tagliato la gola a qualcuno dopo aver letto un racconto horror?
Di conseguenza, la vera funzione del livello uno dello splatterpunk è quella di
incrudelire un po' l'immaginazione. Passato il momento, potete tranquillamente
posare il racconto e tornarvene alle vostre occupazioni (conoscendo gli
appassionati dell'horror, comunque, probabilmente loro vorranno far condividere
la loro stessa terribile esperienza a un amico raccomandandogli questo o quel
racconto).
Il secondo livello d'attrazione dello splatterpunk è di gran lunga più
complesso, e opera in profondi contesti sociali e filosofici. Al suo meglio, lo
splatterpunk è una letteratura di confronto, di rabbia e di disperazione, che a
volte strizza l'occhio al nichilismo ma è sempre cosciente di usare come materia
prima materiale preso dal mondo reale. In questa arena, lo splat diventa politico
e ammonitorio; e vi dice che ci sono degli orrori là fuori, dentro e fuori di voi,
che vi possono veramente fare del male. Perciò, accidenti, fate qualcosa!
Questo secondo livello di splatterpunk, secondo me, è il più grande pregio di
questo tipo di letteratura. Facendoci conoscere gli aspetti più sconfortanti del
mondo vero rispecchiandoli nelle strutture horror tradizionali, lo splatterpunk di
secondo livello sfida il lettore con una moltitudine di preoccupazioni molto
verosimili. Questa "qualità di coscienza" può apparire come una satira sociale
(come in "Jerry Kids Meet Wormboy" di David J. Schow, con il suo ministro alla
Jerry Falwell che comanda un vero e proprio esercito di zombi), come una
condanna dell'abuso sessuale (il racconto breve di John Skipp "Film alle
undici"), o come un profondo disgusto morale per l'ipocrisia religiosa ("Sinema"
di Ray Garton, in cui un insegnante dei corsi di recupero è in realtà un omicida
pedofilo).
Tanto meglio per gli appassionati dell'hard-core. Per coloro che sono appena
approdati allo splatterpunk, sappiate che esso offre immaginazione sconfinata,
energia, e un affascinante misto di cultura popolare; come pure filosofia, punti di
vista diversi eccessi e libertà, il tutto legato con sesso e violenza espliciti.
Ma, come ho già fatto notare, sarebbe un errore chiamare lo splat un mo-
vimento. Lo splatterpunk è un sottogenere, un mattone particolarmente temerario
e interessante infisso nel muro arcuato della fiction fantastica. Si potrebbe andare
oltre e avventurarsi a dire che gli splatterpunk sono una libera coalizione di
anarchici, spinti da una cultura popolare pervasiva, scrittori che si sono trovati
presi tutti insieme in una combustione letteraria spontanea.
Si potrebbe dire che...
Nooo.
Lasciamo che lo dica Clive Barker. L'ha spiegato meglio di tutti nella
pubblicità per Hellraiser, il suo primo film: "Non ci sono limiti".
5
COME È STATO CREATO IL NOME E COSA NE PENSA STEPHEN
KING
Be'... per avere il punto di vista contrario, ho intervistato anche Craig Spector,
leggendogli le osservazioni di Grant. La risposta di Spector?
6
ARTIFATTI E INFLUENZE
Negli anni Sessanta c'erano un bel po' di scrittori che sporcavano l'aula. In
racconti come "Non ho bocca e devo urlare", come pure "Un ragazzo e il suo
cane", Ellison riprende volontariamente l'intera eredità dell'horror e della
fantascienza e la getta, urlando e scalciando, nella "letteratura che conta" nei
Sessanta. Infatti Harlan Ellison, con la sua rabbia selvaggia e creativa, la
crudeltà della sua prosa, il coraggio, il suo insistente includere nell'emergente
fiction dell'orrido i temi culturali del momento, può veramente essere
considerato il padrino spirituale dello splatterpunk.
Poi arrivarono gli anni Settanta. Oltre a libri come L'esorcista e Nebbia,
c'erano omicidi di massa nella vita di tutti i giorni; vedi il caso di John Wayne
Gacy. O film come Taxi driver. Il reverendo Jim Jones. Fumetti underground
come Skull e Death Rattle. Il ritorno dei morti viventi (il secondo film di zombi
di Romero, e un innegabile capolavoro di desensibilizzazione). Non aprite quella
porta. David Cronenberg. Ecologia del delitto di Bava del 1971, il modello
originale da cui è stato tratto il serial di cui Venerdì 13 è un esempio). E sempre,
su tutto, l'ombra persistente di Stephen King (è sufficiente dire che King non
solo ha reso legittima la letteratura horror, ma l'ha resa popolare — e redditizia).
Negli anni Ottanta, l'esplosione della corrente horror come materia com-
merciale, il nuovo vigore del rock, la diffusa disponibilità — grazie al nuovo
mezzo della videocassetta — di film truculenti prima difficili da vedere,
l'opportunità mai avuta prima di provare e sintetizzare tutta la gamma dell'arte,
della storia e dell'esperienza umana, fanno dello splatterpunk un incidente
inevitabile che aspettava solo il momento di accadere.
Anche se, come abbiamo visto, in primo luogo c'è sempre stata una qualche
forma preesistente di mentalità splatterpunk.
7
CLIVE BARKER
Quanto sopra riportato non solo dimostra i doni poetici di Barker, ma mette a
tacere il cliché che lo splatterpunk sia solo un'eiaculazione giovanile senza
valore. Qui c'è all'opera un talento evocativo, di prima qualità, conscio delle
sfumature e delle sottigliezze; Barker sa scrivere. (Ammirevolmente, crea
costantemente forti personaggi femminili).
Ma, naturalmente, ci sono sempre dei lati negativi. I libri di sangue e le
successive fatiche di Barker, come Cabal, Hellraiser, Hellbound, Il mondo nel
tappeto, Nightbreed e Il grande spettacolo segreto mostrano di tanto in tanto
un'irritante inclinazione verso la creazione di personaggi di poco spessore. Forse
è una conseguenza del furioso ritmo creativo di Barker; infatti è un autore
eccezionalmente prolifico.
Eppure la sua fiction migliore mostra una tecnica sofisticata e un virtuosismo
che regge il confronto con l'opera di altri suoi compatrioti come John Le Carré e
Graham Greene. Densità, maturità, una moralità sapiente e complessa — sono
tutti marchi di fabbrica di Barker/Le Carré/Greene. Ci sono altri raffronti da fare,
meno evidenti. Per esempio, Graham Green ha sempre definito chiaramente il
suo lavoro come "di intrattenimento" o "romanzo", classificazioni che indicano
una narrativa da leggere per divertimento o per edificarsi. Barker stesso mi ha
detto una volta che lui applica questa distinzione nel suo lavoro: "Macelleria
mobile di mezzanotte", per esempio, è chiaramente di intrattenimento.
"Jacqueline Ess", altrettanto chiaramente, non lo è.
Di conseguenza, I libri di sangue hanno meritano il loro successo. Ma chi
avrebbe potuto prevedere le conseguenze? Rendersi conto che Barker è passato
nel giro di soli sei anni da una personalità cult alla celebrità internazionale la
dice lunga sulla rapidità dei mezzi di comunicazione esistenti attualmente al
mondo (che hanno segnato il destino dell'opera di Barker). La frase classica di
Stephen King, "Ho visto il futuro dell'horror, e il suo nome è Clive Barker" è
stato solo un'introduzione a una raffica di citazioni lusinghiere che ogni nuova
opera di Barker offre quando fa la sua comparsa in qualsiasi libreria/cinema/buca
delle lettere.
Non ci sbagliamo: Clive Barker è attualmente lo scrittore di maggior successo
commerciale che utilizza tecniche splatterpunk. Infatti, proprio come Stephen
King, è diventato un po' un personaggio a sé, e ogni romanzo o racconto o film
sorpassa quello precedente per fama e incassi.
Gioco dannato (1985) che seguì I libri di sangue, e che fu il primo romanzo di
Barker, è una storia faustiana dei tentativi di un ricco industriale di eludere un
cacciatore di anime. Eppure, nonostante i suoi encomiabili scopi, la sua
ambizione e lo stile fiorito, (incluso un prologo allucinante e denso d'atmosfera
ambientato nella Varsavia dopo la seconda guerra mondiale) l'effetto totale di
Gioco dannato fu minore della somma delle sue parti. Allora Barker fece
abbassare la guardia alla comunità dell'horror con Il mondo in un tappeto (1987),
un romanzo più lungo, più coerente e soddisfacente. Il mondo in un tappeto, che
narra di un intero mondo nascosto nelle trame di un banale tappetino,
(nonostante i suoi tocchi di grottesco), ricade però, più che nel romanzo horror
diretto, nel genere della fantasy epica reso popolare da J.R.R. Tolkien,
confondendo le aspettative di coloro che pregustavano un'altra esplorazione dei
divertenti e truculenti scenari tracciati dai Libri di sangue.
La popolarità di Barker continuò la sua ascesa con un parallelo ampliarsi verso
altri mezzi di comunicazione. A questo punto della sua carriera si spostò alla
cinematografia, scrivendo, producendo e/o dirigendo Hellraiser (1987),
Hellbound (1988) e Nightbreed (1990), progetti descritti come "I film violenti
incontrano il Marchese de Sade". Da allora Barker ha tenuto in esercizio la sua
vena letteraria, scrivendo il racconto "The Hellbound Heart" (1987) e il romanzo
Cabal (1988). Il suo più sostanzioso Il grande spettacolo segreto (1989) è una
favola fantasy/horror racconto/amore che tratta, come ha detto Barker, di
"Hollywood, sesso e Armageddon".
Nonostante la sua crescente notorietà e i segnali che potrebbero far supporre
un progressivo esaurimento del suo spessore letterario, Clive Barker rimane un
artista dalle risorse incredibili. In parole povere, è uno dei migliori scrittori di
horror a dare grazia al genere; informato, intelligente, tecnicamente superiore,
disciplinato e fantasioso. Per non dire infaticabile. E Barker era chiaramente il
passo logico successivo nella scala che sostiene anche Stephen King. Perché
mentre King è essenzialmente un conservatore letterario, che enfatizza la
famiglia nucleare e tutte le altre virtù della classe media americana (incluso un
amore quasi reazionario per cliché della narrativa horror come la casa infestata e
la maledizione gitana), Barker è un artista rivoluzionario, attirato dagli
emarginati (Il Boone, di Cabal), dalle figure marginali (Marty Strauss in Gioco
dannato) e dai fuorilegge (Ezra Garvey in Madonna). Sì, Stephen King potrà
portare il lettore fino al limite del pozzo dell'horror contemporaneo; Barker, con
un urlo, ce lo getta dentro.
Quindi ecco un autore che ha completato il percorso, e lo ha fatto con
intelligenza, stile, creatività. Non solo, ma nel farlo Barker è riuscito a diventare
schifosamente ricco.
Che combinazione irresistibile!
Ma altri talenti interessanti erano già in cammino.
8
JOHN SKIPP E CRAIG SPECTOR
Qualcosa del genere si legge anche negli scritti di Skipp e Spector; l'ap-
parizione di un demonio durante un concerto di heavy metal:
9
NON SONO GLI STESSI
Come per King, molto del successo di Skipp e Spector proviene dai per-
sonaggi di fiction che creano nel loro lavoro. Dalla vulnerabile vittima di un
abuso fisico, LeeAnn, di "Gentlemen", al confuso musicista rock Pete, in The
Scream, Skipp e Spector continuano a forgiare tra i personaggi più intessuti e
riconoscibilmente umani dello splatterpunk. Nonostante il persistente fascino
dell'idea che il male sia uno spirito trascendente e immortale, (una tematica che
comincia con Maledizione fatale e continua in linea retta fino all'aborto della
prima bozza della sceneggiatura per Nightmare 5) Skipp e Spector si identificano
chiaramente con i loro personaggi umani. E vogliono che anche i lettori vi si
identifichino.
Eppure, la linea di demarcazione più evidente tra Barker e Skipp e Spector è
politica.
Le fondamenta dei piani di Barker sembra essere la sessualità radicale, con il
ricorrere continuamente a pratiche omosessuali e sadomaso. Tali icone di
sadomasochismo o omosessuali come la fellatio, la pioggia dorata, defecazioni
pubbliche e bondage appaiono regolarmente in lavori come Gioco dannato,
"Sex, Death and Starshine", "Rawhead Rex" e The Hellbound Heart. La
cosiddetta attività eterosessuale normale certamente non è assente dal lavoro di
Barker (dopotutto, è la passione eterosessuale a fungere da combustibile per
Hellraiser) ma certamente non è il suo pensiero dominante; quando si fa del
sesso uomo-donna in un racconto di Clive Barker, molto spesso questo prende la
forma di qualcuno che si fa fare un lavoretto da un cadavere (ancora "Sex, Death
and Starshine").
È affascinante il fatto che queste tematiche "devianti" abbiano influenzato
anche il senso del design grafico di Barker. Per spiegarmi, mi riferisco al fatto
che Barker è un artista oltre che uno scrittore, con un particolare talento
nell'abbozzare, dipingere e disegnare (Barker stesso ha illustrato la copertina dei
Libri di sangue pubblicati in Gran Bretagna). E nell'intervista a Film Threat già
menzionata, Barker disse a Caldwell: "Le mie recensioni preferite di Hellraiser
sono state quelle apparse su riviste alternative. Ci sono state delle magnifiche
riviste di sadomaso che hanno scritto recensioni stupende... infatti... le
pubblicazioni specializzate... (cioè, quelle di sadomaso) hanno influito
moltissimo nella progettazione dei Cenobiti."
Le tematiche di Skipp e Spector a loro volta includono l'approvazione della
libera sessualità. Ma le loro politiche sono complesse, con una pianificazione
totale che rispecchia il liberalismo dei tardi anni Sessanta. I Ragazzi abbracciano
femminismo, droghe, armonia tra le razze e tolleranza sociale verso l'inconsueto,
l'eccentrico, il particolare. Fondamentalmente, quindi, e in contrasto con Barker,
il punto focale di Skipp e Spector sembra essere quello di un umanesimo
funzionale.
È interessante il fatto che spesso questo umanesimo venga enunciato con punti
di vista multipli. Nelle loro opere Skipp e Spector presentano un numero così
vasto di punti di vista disparati che l'effetto finale è quello di opzioni multiple. È
come se i Ragazzi dicessero: "Guarda, potrai aver capito come siamo noi ma
ricordati: là fuori ci sono un sacco di altre scelte".
The Scream è una chiara dimostrazione di questa tattica. Lo spunto del
romanzo potrà anche essere la storia di un complesso rock in grado di invocare i
demoni e far apparire tra il pubblico zombi senza occhi, ma la sua attenzione si
accentra sul vasto cast di personaggi umani (di tutto, da profughi disillusi del
Vietnam a un fanatico drogato che, nella tattica tipica di Skipp e Spector di
"adesso ti ribaltiamo tutti i tuoi preconcetti", viene salvato da un massacro
attraverso l'Intervento Divino di niente di meno che Gesù S.S. Cristo). Ogni
personaggio di The Scream riceve chiaramente quanto gli spetta, sia giusto che
sbagliato, sia buono che cattivo. Questa molteplicità di credenze non solo ricorda
il mondo reale (naturalmente), ma permette al lettore di compiere la propria
scelta di carattere morale. O, come scrive R. S. Hadji in "Extreme Measures":
Si potrebbe anche dire che i Ragazzi sono profondamente immersi nella vita,
mentre Barker è profondamente immerso nella morte.
Non che uno dei due diversi atteggiamenti sia migliore dell'altro, parti-
colarmente se si pensa all'infinita velocità di cambiamento e alla varietà dell'arte
contemporanea.
Ma ci sono forme radicalmente differenti di splatterpunk.
Proprio come ci sono tipi radicalmente differenti di scrittori splatterpunk.
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DAVID J. SCHOW
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I SOLITI SOSPETTI
MARK ARNOLD
J G. BALLARD
Scrittore britannico che si è associato alla New Wave della fantascienza nei
tardi anni Sessanta, J(ames) G(raham) Ballard è quindi allineato allo splattepunk
solo marginalmente. Ma i suoi scritti hanno in seguito sconfinato in una serie di
generi diversi (i più correnti horror, biografie, avanguardia); in seguito, la sua
ossessione per la follia e la realtà apparente (e il modo in cui la tecnologia e i
media hanno contorto queste percezioni) lo indica come uno spirito affiliato allo
splatterpunk. Se non un cugino di primo grado.
Il romanzo breve di Ballard The Assassination of John F. Kennedy Considered
as a Downhill Motor Race, del 1967, ruppe la disperazione nazionale in uno
sbarramento di fantasia apparentemente casuale. Il suo romanzo Crash! del 1973
rimane un cult; è la storia di una vittima di un incidente d'auto in via di
guarigione, che sviluppa un bizzarro feticcio sessuale per la geometria contorta
degli incidenti di macchina (ecco un libro che anela di diventare un film di
David Cronenberg).
Il lavoro più splatterpunkiano di Ballard è il romanzo Condominium (Hìgh
Rise) del 1975. Questa favola sociale di classi e privilegi illustra, passo dopo
passo, la discesa di un gruppo nell'estrema barbarie. La cosa snervante è che
questo regresso non viene mai spiegato; la cosa scioccante è che accade a
normalissimi inquilini di un monolocale in un lussuoso complesso residenziale
(parlando di Cronenberg, il suo film They Came From Within del 1975,
distribuito lo stesso anno come High Rise, presenta una trama molto simile).
Le memorie romanzate di Ballard sono poi diventate il film L'impero del sole
di Steven Spielberg.
Invece, leggetevi Condominium.
CHAS. BALUN
ROBERT BLOCH
EDWARD BRYANT
WILLIAM BURROUGHS
NANCY A. COLLINS
Con la pubblicazione, nel 1989, del suo primo romanzo Sunglasses after Dark,
Nancy A. Collins è balzata in prima linea tra le donne scrittrici di opere
splatterpunk.
Sunglasses, che parla di Sonja Blue, metà vampira e metà cacciatrice di
vampiri che rintraccia e distrugge coloro che l'hanno vampirizzata, mostra un
talento viscerale e fantasioso; questo primo romanzo è sensuale, eccitante,
perverso. La Collins condivide anche l'energia e l'immaginazione tipica della
migliore fiction splatter; si tuffa direttamente nel sudicio. Come ha scritto David
Kuehls in Fangoria, "Questo libro è maligno con la M maiuscola e selvaggio
con una S maiuscola a caratteri di sangue!" (Maggio 1990, pag. 57).
Secondo indiscrezioni la Collins strebbe scrivendo il seguito di Sunglasses,
intitolato In the Blood. Ha anche pubblicato un racconto sul numero primavera
1990 "Psycho" di Midnight Graffiti (si intitola "Rant" ed è un racconto in prima
persona di un folle che medita un parto cesareo con un coltello). E la Collins sarà
presente nel Book of the Dead vol. 2, con "Necrophiles": questo tratta di tizi con
l'ossessione della morte.
Tenete d'occhio questa scrittrice.
REGISTI
HARLAN ELLISON
RAY GARTON
Come Joe R. Lansdale, Ray Garton non può essere veramente definito uno
splatterpunk. Quello che inizialmente lo ha fatto entrare in questa categoria sono
stati libri come Ragazze vive (1987), con vampiri in uno spettacolo sexy di
Times Square, e Crucifax Autumn (1988), uno dei migliori esami della situazione
degli adolescenti di oggi che sia uscita nel campo dell'orrore.
In entrambi i romanzi la violenza è intensa e il sesso esplicito (un problema
ricorrente; Garton è uno dei pochi scrittori di horror attuali che capisce la
differenza tra esplicito ed erotico). E all'inizio della sua carriera Garton
intraprese una divertente e caustica crociata solitaria contro gli Avventisti del
Settimo Giorno, vendetta personale per certe azioni che secondo Ray gli
avventisti avevano diretto contro di lui nella sua città natale. (Per ulteriori
dettagli, leggete l'illuminante intervista di Garton nel numero autunno 1988 di
Midnight Graffiti.)
Due di queste storie di avventisti sono "Sinema" e "Punishments", dove la
satira raggiunge quasi livelli swiftiani (sono quasi rattristato dal dover dire che
recentemente Ray si è lasciato alle spalle questa crociata). E Garton è ben
consapevole dell'effetto che induce sui suoi lettori. Anche lui ha delle remore sul
fatto di essere etichettato come splatterpunk e sugli scherzi controproducenti da
superuomini che gli splatterpunk si giocano l'uno con l'altro. Nella rivista
Gauntlet Garton spiega:
JAMES HERBERT
Altra influenza creativa di splat: James Herbert surclassa solo Clive Barker
come scrittore di horror più popolare in Gran Bretagna. Il suo primo romanzo, I
topi (1974), usa il simbolo di topi mutanti che si riversano sull'East End
londinese per additare la negligenza e l'emarginazione di tutta una classe bassa
della società inglese. Ma con Nebbia (1975), non solo Herbert riecheggia
L'esorcista per la sua crudeltà esplicita, ma fissa uno standard per la moda
splatterpunk che avrebbe trovato chiari riflessi negli anni Ottanta e Novanta. Nel
suo lavoro veramente torcibudella, un gas nervino scivola lentamente
sull'Inghilterra, lasciando al suo passaggio morte, pazzia e carneficine selvagge.
Altri romanzi tipo splat di Herbert includono Il sopravvissuto (1976) in cui le
anime senza pace di un disastro aereo vagano per la campagna circostante, The
Spear (1978), The Dark (1980), The Jonah (1981) e Domain (1984), il seguito di
I topi, questa volta ambientato contro lo sfondo di un olocausto nucleare.
Come nel caso di Harlan Ellison, Herbert gode di molta considerazione tra i
media (almeno nella nativa Inghilterra); non si può fare a meno di stupirsi del
suo influsso su Clive Barker. E come Stephen King, Herbert culla la sua prosa in
lingua e situazioni di tutti i giorni, assicurandosi la più vasta platea possibile.
Un suo compatriota, il romanziere Ramsey Campbell, fa un'osservazione
interessante nel suo saggio su Herbert nella Penguin Encyclopedia of Horror and
the Supernatural. Secondo Campbell, Herbert condivide un dono unico con il
regista splatter Dario Argento: (Suspiria, Inferno, Opera): "Le sue immagini di
violenza sono potenti perché danno angoscia".
Se Harlan Ellison è stato il protosplatterpunk degli anni Sessanta, allora James
Herbert è stato il re dello splat degli anni Settanta.
ROBERTA LANNES
JOE R. LANSDALE
RICHARD LAYMON
Non mi piace la parte punk che c'è, perché voi dipingete gente
con i capelli all'insù e lame di rasoio nelle orecchie. Ora, se
volete chiamarlo "nuovo horror del rock'n'roll", potrei essere
d'accordo. Il mio vero problema con alcuni degli scrittori
splatterpunk è che i loro personaggi principali sembrano
essere spesso dei veri punk... Ma comunque non voglio essere
identificato con un gruppo. E specialmente non con questo.
(Maggio 1990.)
ROBERT R. McCAMMON
JOHN MCCARTY
E anche Bravo! Non accade tutti i giorni che un critico introduca un termine di
tanto impatto e richiamo. Riuscendo a offrire un commento coerente e valido
sulle influenze primarie dello splatterpunk e diventando nel contempo
corresponsabile delle primissime origini del termine, McCarty si è assicurato un
ruolo nella storia dello splatterpunk.
REX MILLER
La tradizione dei fuorilegge nell'arte, di cui lo splatterpunk è un sottoinsieme,
si è riversata anche nei generi della fiction poliziesca e del crimine. Scrittori
come James Ellroy (Il grande Hulli, Dalia nera), Jim Thompson (The Killer
Inside Me) e Andew Vachss (Oltraggio, Blue Belle) hanno capovolto i romanzi
del mistero accentrandosi impassibilmente sul brutto, il sordido e il patologico.
Rex Miller appartiene a questa categoria; è anche uno dei più inibiti del
gruppo. Il primo romanzo di Miller, Slob (1987), salutato con folle entusiasmo,
narrava degli "exploit" brutali del pluriassassino di duecentotrenta chili di peso e
amante dei bambini Daniel "Chaingang" Bunkowski. Rappresentazione
mostruosa dell'idiozia primordiale, Chaingang violenta, mutila e uccide con
abbandono terrificante, fino a che non viene fermato dal detective ex alcolizzato
Jack Eichord, di Chicago. E anche se Miller aveva fatto morire Chaingang nel
culmine di Slob, la popolarità del personaggio fu tale che Miller fu costretto a
farlo risorgere nel romanzo Slice del 1990, in racconti come "Sweet Pea" e "The
Luckiest Man in the World" e in una publicazione dalla tiratura limitata dei
fumetti di Chaingang della Northstar Productions.
Dopo Slob, Miller ha anche mantenuto le avventure di Jack Eichord,
specializzato in psicopatici; Eichord è apparso come eroe di una serie di ro-
manzi, come Frenzy e Stone Shadow.
Miller ha cominciato a scrivere tardi; fino agli anni Ottanta, si è guadagnato da
vivere principalmente come annunciatore radiofonico e come proprietario e
gestore della Rex Miller's Collectibles and Vintage Videos, una prospera ditta di
vendita per corrispondenza specializzata in articoli e oggetti da collezione di
personaggi famosi. Di per sé, la sua produzione horror è poca, anche se i libri su
Eichord contengono decisamente delle sfumature d'orrore. Nonostante ciò, gli
scrittori dell'horror hanno considerato Miller uno di loro.
Rex Miller scrive tipicamente prosa nuda e brutale, ovviamente influenzato da
Hemingway; e, ovviamente, si diverte a vedere cosa riesce a combinare,
specialmente nel settore sesso e violenza. "Una volta tanto", in cui Miller
racconta il disagio delle riunioni di ex liceali cacandoci sopra, è una fantasy di
voodoo comico; speriamo che abbia altre storie come questa nella sua penna.
PHILIP NUTMAN
Philip Nutman proviene principalmente dalla critica cinematografica e dalla
storia della cinematografia, dove l'entusiasmo per i film splatter è il suo tratto più
evidente. Anche se Nutman ha iniziato lavorando per la BBC, questo giovane
(ventisette anni) inglese ha inizialmente attirato l'attenzione su di sé con i suoi
numerosi articoli, interviste e reportage dai set in riviste come Fangoria e Shock
Xpress. Nutman sembra aver intervistato praticamente tutti. Dopo qualche anno
di questa attività e di altre del genere (incluse delle parti in film di basso costo
come Death Collector del 1990, disponibile presso la Raedon Video) Nutman è
passato alla fiction. Il suo primo romanzo breve, "Wet Work", apparso nel Book
of the Dead ritraeva una squadra d'attacco paramilitare che si rivela composta in
realtà da zombie intelligenti.
"A tutto gas" di Nutman è il suo primo racconto pubblicato, ma rappresenta un
notevole ampliamento del genere letterario. Ambientato nella cupa e indifferente
cittadina inglese di Bath, "A tutto gas" combina il paranormale con il banale,
mentre due fratelli provano un legame psichico che ne lascerà uno morto e l'altro
irrimediabilmente (e positivamente) alterato. Ciò che differenzia "A tutto gas" da
"Wet Work" è il fatto che l'elemento soprannaturale è debole (e l'evento
paranormale si basa su un'esperienza personale di Nutman). Inoltre, "A tutto gas"
è un quadro accurato, deprimente e rabbioso della disperazione di cui sono
vittima attualmente molti ragazzi inglesi.
Nel delineare con movimento l'angoscia e il senso di inutilità della vita
provato dagli adolescenti, "A tutto gas" continua un curioso filone inglese
iniziato con l'opera di John Osborne, il "giovane arrabbiato" dei tardi anni
Cinquanta, che è mutato negli atteggiamenti di rabbia e disperazione del rock
punk della fine del Settanta. Tra gli elementi specificamente splatterpunk di "A
tutto gas" c'è una scena di sesso a tre e uno stupro con una bottiglia dei
protagonisti ubriachi che è tanto più scioccante per la sua scomoda plausibilità;
chiunque abbia avuto una giovinezza selvaggia (incluso l'autore) sarà in grado di
individuare questo e altri momenti di "A tutto gas" come reminescenze
spiacevoli di quei momenti dei primi anni della nostra vita quando anche noi
saremmo potuti andare — o siamo andati — troppo oltre.
Nutman ha scritto anche la sceneggiatura del film noir Heatwave e sta at-
tualmente lavorando per espandere "Wet Work" in un romanzo.
J.K. POTTER
J. K. Potter è stato scambiato per uno splatterpunk a causa dei suoi prolifici
contributi artistici per copertine e illustrazioni interne di varie opere legate al
campo splatter. Queste includono riviste defunte come Night Cry (che aveva una
politica di porte aperte verso la fiction splat), la casa editrice Scream/Press
specializzata nel settore, e raccolte in volume di storie di Clive Barker e Joe R.
Lansdale.
In realtà, Jeff Potter è più un artista di grafica tradizionale, a cui è stato
commissionato, tra l'altro, un prodigioso numero di illustrazioni horror e
splatterpunk. Potter è uno dei migliori artisti del campo, ed è facile capire perché
è tuttora tanto richiesto.
La singolare tecnica di Potter di collage fotografico e aerografo e la sua ovvia
erudizione nella storia della fotografia (nel suo lavoro si notano tracce di Diane
Arbus), si uniscono a un'immaginazione veramente surreale. Potter ama
contorcere la forma umana, e una delle sue creazioni che preferisco mostra una
donna dalle lunghe gambe sormontate da una testa. Niente tronco né braccia...
solo una testa.
Non splatterpunk, ma abbondantemente culturale e gratificante.
J.S. RUSSELL
DOUGLAS E. WINTER
12
QUALCHE ESEMPIO DI SPLATTERPUNK
1 "Along the Scenic Route" di Harlan Ellison. In The Essential Ellison, a cura di
Terry Dowling (Omaha e Kansas City: Nemo Press, 1987).
2 "Best Friends" di Robert R. McCammon, in Night Visions 4 (Arlington
Heights, Illinois: Dark Harvest, 1987).
3 Book of the Dead a cura di John Skipp e Craig Spector (New York, Bantam
Books, 1989). Include "Wet Work" di Philip Nutman; "Mess Hall" di Ri-
chard Laymon; "On Going Too Far" di Skipp e Spector; "Eat Me" di Robert
McCammon; "Meno di Zombi" di Douglas E. Winter; "Jerry's Kids Meet
Wormboy" di David J. Schow, "Nel lontano deserto delle Cadillac con il
popolo dei morti" di Joe R. Lansdale, e "A Sad Last Love at the Diner of the
Damned" di Edward Bryant. (Wow!) Una delle antologie fondamentali dello
splatterpunk.
4 "Un ragazzo e il suo cane" di Harlan Ellison. In Storie del pianeta azzurro,
(Nord, Milano 1987).
5 By Bizarre Hands di Joe R. Lansdale (Shingletown, California: Mark V.
Ziesing, 1989). Comprende "La sera che non andarono all'horror show",
"Nel lontano deserto delle Cadillac con il popolo dei morti", "Tight Little
Stitches in a Dead Man's Back" e "Hell Through a Windshield" (un saggio
che ha costituito la base per il seguente romanzo di Lansdale: La notte del
drive-in.)
6 Cabal di Clive Barker (id., Bompiani, Milano 1991).
7 "Cannibal Cats Come Out Tonight", di Nancy Holder. In Women of Darkness,
a cura di Kathryn Ptacek (New York, Tor Books, 1988). Il padre violento di
un ragazzino gli dice che "qui fuori, figlio mio, nel mondo cane mangia
cane." Il ragazzo interpreta letteralmente, e crescendo diventa un
omosessuale represso e una rock star cannibale a cui piacciono
particolarmente le ragazze del coro. La storia è essenzialmente una
commedia nera con correnti sotterranee serie. Holder è apparso in antologie
di Charles Grant come Shadows 8, 9 e 10; speriamo che continui con la
vena dei "Cannibal Cats", perché è un racconto acuto, ben scritto, e
divertente.
8 Danza macabra di Dan Simmons (Interno giallo, Milano, 1992). Questo
massiccio secondo romanzo di Simmons (che segue il popolare Il canto di
Kali) delinea la guerra tra un gruppetto di vampiri psichici delle classi alte
(che lavorano come produttori cinematografici, politici e uomini d'affari) e
dei cacciatori di vampiri di classe media (poliziotti e fotografi ritrattisti). Il
legame che li unisce è un vecchio psichiatra ebreo sopravvissuto ai campi di
sterminio nazisti. Simmons bilancia argutamente gli orrori reali
dell'olocausto con le ironiche manipolazioni mentali dei suoi personaggi di
fiction; per esempio un vampiro (il produttore) usa il suo potere per
costringere bellissime donne a fare del sesso lascivo con lui, in particolare
quando sono incazzate. Splatterpunk marginale, ma i colpi di scena si
susseguono in direzioni potenti e assolutamente inaspettate. Lo raccomando.
9 Cemetery Dance (periodico) P.O. Box 858, Edgewood, Maryland 21040, USA.
Con la scomparsa del periodico The Horror Show, Cemetery Dance cerca di
colmare il vuoto della fanzina primaria per la fiction innovativa dell'orrore.
Il curatore, Richard Chizmar, ha già stampato lavori di autori del calibro di
Joe R. Lansdale, David J. Schow e Richard Christian Matheson; Cemetery
Dance sembra essere una pubblicazione, come Midnight Graffiti, dove lo
splatterpunk trova dimora. E accennando allo spirito di P. T. Barnum,
ricordatevi che Paul M. Sammon scrive regolarmene su Cemetery Dance
per una rubrica cinematografica.
10 "La città degli angeli" di J. S. Russell. In Midnight Graffiti, autunno 1990, e
in questa antologia.
11 "The Cleanup" di John Skipp e Craig Spector (New York, Bantam Books,
1986).
12 Clive Barker I libri di sangue come Ectoplasma, Infernalia, Voll. 1-3 e 4-6,
Sonzogno, Milano 1990-1993. Volumi assolutamente essenziali per una
biblioteca splatterpunk.
13 Connoisseur's Guide to the Contemporary Horror Film, di Chas. Balun
(Westminster, California: pubblicato in proprio nel 1983).
14 "Crucifax Autumn" di Ray Garton (Airlington Heights, Illinois: Dark
Harvest, 1988). Un capitolo in questa antologia.
15 Cutting Edge a cura di Dennis Etchison (New York: Doubleday, 1986). Oltre
a "Addio, oscuro amore" della Lannes, altri racconti splat di questa
eccezionale antologia includono "Muzak for Torso Murders", di Marc
Laidlaw, e "They're Coming for You" di Les Daniels.
16 Gioco dannato di Clive Barker (Sperling & Kupfer, Milano 1988).
17 Dead in the West di Joe R. Lansdale (New York, Space & Time, 1986).
18 Dead Lines, di John Skipp e Craig Spector (New York, Bantam Books, 1989).
19 The Deep Red Horror Handbook a cura di Chas. Balun (Albany, New York:
Fantaco Books, 1989).
20 "La notte del drive-in" di Joe R. Lansdale (Urania n. 1214, Mondadori,
Milano 1993).
21 "Il giorno dei dinosauri" di Joe R. Lansdale (New York: Bantam Books,
1989).
22 "Eat Me" di Robert R. McCammon. In Book of the Dead a cura di John Skipp
e Craig Spector (Urania n. 1224, Mondadori, Milano 1994).
23 "Emerald City Blues" di Steven R. Boyett. In Midnight Graffiti, autunno
1988, pagg. 16-24. Un pilota di F-18, che porta un carico di armi atomiche,
passa attraverso una torsione dimensionale e riappare davanti al Regno di
Oz. Ciao ciao, Uomo di latta. Una favola rabbiosa, cauta, eccezionalmente
ben ricercata sugli orrori di una guerra nucleare. Nelle mani di Boyett, la
distruzione di un simbolo infantile così intatto e innocente come il Regno di
Oz è un colpo da maestro. Lo raccomando caldamente: Boyett ha
contribuito anche al Book of the Dead con "Like Pavlov's Dogs" e a Silver
Scream con "The Answer Tree".
24 The Essential Ellison a cura di Terry Dowling (Omaha e Kansas City: Nemo
Press, 1987). Include: "Un ragazzo e il suo cane", "Along the Scenic
Route", "Non ho bocca e devo urlare", "L'ombra in caccia nella Città
sull'orlo del mondo" e "Il guaito dei cani battuti". Una panoramica storica
inestimabile del primo Ellison.
25 L'esorcista di William Peter Blatty (Mondadori, Milano 1975).
26 "Extreme Measures: The Fiction of John Skipp e Craig Spector" di R. S.
Hadji. Nella rivista The Horror Show, autunno 1988, pagg. 17-20.
27 Fangorìa (periodico), 475 Park Avenue South, New York, Stato di New York,
10016.
28 "Film alle undici" di John Skipp. In Silver Scream a cura di David J. Schow
(Tor Books, New York 1988). In questa antologia.
29 Film Threat (periodico), P.O. Box 951, Royal Oak, Michigan 48068.
30 Nebbia di James Herbert (Classici Urania n. 148, Mondadori, Milano 1989).
31 "Il baraccone degli orrori" di Nancy A. Collins. Nella rivista The Horror
Show, primavera 1990 e in questa antologia.
32 Gauntlet (periodico), Department GA2, 309 Powell Road, Springfield,
Pennsylvania 19064. La rivista ha iniziato le pubblicazioni nel 1990. Il
sottotitolo di Gauntlet è "esplorando i limiti della libera espressione", e
questa è esattamente la funzione di questo periodico, che raccomando. Nel
primo numero (annuale), con l'esplicito intento di difendere i diritti del
Primo Emendamento e manifestando nel contempo il tentativo di distrug-
gerli (certamente una delle prime tematiche dello splatterpunk), Gauntlet
include articoli, fiction e critiche di lunga portata di scrittori quali Ray
Bradbury ("More Than One Way to Burn a Book"), Harlan Ellison
("Nackles"), George Carlin ("The FCC Cracks Down on Filthy Words"),
Rex Miller ("Nasty Times") e Dan Simmons ("Determine Your Censorship
Quotient"). Unendo l'arte tradizionale e materiale generico, il primo numero
di Gauntlet includeva anche un'intervista con il fotografo Andres Serrano, il
cui "Piss Christ" (insieme a una mostra itinerante del collega fotografo
Robert Mapplethorpe) incensava tanto il senatore Jesse Helms che Helms ha
compiuto un enorme sforzo per indebolire il Contributo Nazionale per
l'Arte. Finora i miei articoli preferiti di Gauntlet però comprendono due
paurose dichiarazioni su Donald Wildmon, l'ultraconservatore politicamente
potente. La American Family Association di Wildmon è riuscita a far
pressioni sulla Pepsi Cola perché non distribuisse uno spot avente per
protagonista Madonna, a non far vendere Playboy ad alcuni grandi ma-
gazzini e a rendere in generale un inferno la vita di tutti gli abitanti di
Tupelo, nel Mississippi (dove ha sede) come osano contraddire le
convinzioni fondamentaliste di Wildmon. Mi è piaciuto molto anche Let the
Darkness In, di Steve Rasnic lem, che esamina in maniera convincente, tra
le altre cose, la schizzinosità americana sulle funzioni corporali. L'editore e
curatore di Gauntlet, Barry Hoffman, mi dà l'idea di un vero patriota
americano. Avremmo bisogno di più gente come lui.
33 "Gentlemen" di John Skipp e Craig Spector. In The Architecture of Fear, a
cura di Kathryn Cramer e Peter D. Pautz (William Morrow, New York,
1987); si trova anche in Dead Lines (Bantam Books, New York, 1989). A
mio modo di pensare, questo è il miglior pezzo di fiction breve di Skipp e
Spector. Racconto che si incentra sugli abusi fisici contro le donne,
"Gentlemen" si svolge principalmente in un sudicio bar di Manhattan (e
nella sua toilette per signori). L'atmosfera è fumosa, i personaggi complessi,
e l'imperativo morale mortalmente serio: coloro che accusano lo
splatterpunk di misoginia dovrebbero leggere a forza questo racconto, un
paragrafo alla volta. I Ragazzi hanno veramente qualcosa da dire qui. Nel
frattempo hanno prodotto la loro fatica più irosa e più compassionevole.
"Gentlemen" getta uno sguardo ravvicinato e brutale a un tratto testicolare
particolarmente repellente, che dovrebbe essere stato castrato molto tempo
fa. E la metafora centrale è furiosa, divertente e assolutamente brillante:
l'etica del macho concettualizzata letteralmente come un pezzo di merda.
34 "Addio, oscuro amore" di Roberta Lannes. In Cutting Edge, a cura di Dennis
Etchison (Doubleday, New York, 1986) e in questa antologia.
35 "The Gore Score" di Chas. Balun (pubblicato in proprio, 1985).
36 "Graffiti" di David J. Schow. In Midnight Graffiti, giugno 1988, pagg. 36-47;
si trova anche in Seeing Red (TOT Books, New York, 1990). Uno dei
migliori racconti di Schow. Un gruppo di punk senza meta di Hollywood si
trova perseguitato da un comune amico morto, il pazzo Jocko. Dettagliato,
tagliente e credibile: l'ambiente hollywoodiano è particolarmente ben
riprodotto. Ancora una volta, la parola Graffiti è solo un'approssimazione
visiva del titolo puramente grafico di Schow: nel titolo in realtà non viene
usato alcun vocabolo.
37 Hellbound: Hellraiser Il del 1988, diretto da Tony Randel, da un racconto di
Clive Barker. New World Pictures. Lo so, lo so: avevo detto che in questa
lista non ci sarebbero stati titoli di film! Fatemi causa. Nonostante i suoi
occasionali e divertenti lapsus e la trama frammentaria (risultato di tagli
dell'ultimo minuto negli studi), Hellbound contiene uno dei test splatter più
duri degli anni Ottanta. È la scena dove un patetico paziente affetto da
disturbi mentali si colpisce ripetutamente sul corpo con un rasoio. Se
riuscite a guardare questa scena, siete sopravvissuti a uno dei momenti
indelebili del cinema carnografico. Pensavo che vi interessasse saperlo.
38 "The Hellbound Heart" di Clive Barker. In Night Visions 3 (Darle Harvest,
Arlington Heights, Illinois, 1987).
39 Casa infernale di Richard Matheson (di prossima pubblicazione presso
Mondadori — Interno Giallo).
40 "Hooked on Buzzer" di Elizabeth Massie. In Women of Darkness, a cura di
Kathryn Ptaceck (Tor Books, New York, 19JJ8). Romanzo breve intenso
che fonde fanatismo religioso, orgasmo ed elettricità, "Hooked on Buzzer" è
uno di quei romanzi che in qualche modo è scivolato attraverso una fessura
della conoscenza del pubblico. Da raccomandare.
41 Horror Holocaust di Chas. Balun (Fantaco Enterprises, Albanv, New York,
1986).
42 Hot Blood a cura di Jeff Gelf e Lonn Friend (Pocket Books, New York,
1989). Questo volume contiene "Punishments" di Ray Garton, "Footsteps"
di Harlan Ellison e altri. Questa antologia di racconti horror a tema sessuale
è una specie di volume guida americanizzato tipo Scared Stiff di Ramsey
Campbell (con più autori). I colpi bassi di sesso variano da seduttivi a
espliciti; "Punishments" di Garton è il migliore.
43 "Non ho bocca e devo urlare" di Harlan Ellison. In I Premi Hugo 1955-1975
(di prossima pubblicazione nei Classici Urania, Mondadori).
44 Inside the New Horror di Philip Nutman. In The Twilight Zone Magatine,
agosto 1988. Il saggio di Nutman è una panoramica sull'emergere dei nuovi
atteggiamenti della fiction horror, esemplificato dallo splatterpunk; Inside è
stato anche tra i primi tentativi di splatterpunk a essere pubblicato da una
rivista horror professionale. È storicamente importante: cita Schow, Skipp e
Spector, Douglas Winter e altri. Nutman ha anche trovato una citazione
inestimabile di J. G. Ballard, che afferma che molti di noi rifiutano di
riconoscere "l'immensa presa che la violenza esercita sulla gente. Mi sembra
che non sia salutare. Bisognerebbe guardare in faccia la realtà della natura
umana: in questo modo si può fare qualcosa per migliorarla." Esatto.
45 Ti sputo in faccia: i film che mordono di Chas. Balun. In The Deep Red
Horror Handbook, a cura di Chas. Balun (Fantaco Books, Albany, New
York, 1989), contenuto in questa antologia.
46 Jacqueline Ess: testamento e volontà di Clive Barker. In Se mi tocchi ho un
brivido (Longanesi, Milano 1991).
47 John Skipp e Craig Spector in Skipp & Spectors Excellent Adventures,
intervista di John Martin e Angus MacKenzie. in Samhain, giugno-luglio
1989, pagg. 8-11.
48 Joy di Mick Garris. In Midnight Graffiti, primavera 1990. Narra i dettagli
della mente sconvolta ma generalmente benigna di un folle, che finisce la
giornata seppellendo un bambino... ancora vivo.
49 The Kill Riff, di David J. Schow (Tor Books, New York, 1988).
50 "Meno di zombi" di Douglas E. Winter. In Book of the Dead, a cura di John
Skipp e Craig Spector (Bantam Books, New York, 1989) e in questa
antologia.
51 A life in the cinema di Mick Garris. In Silver Scream, a cura di David J.
Schow (Tor Books, New York, 1988) e in questa antologia. Attualmente
Mick Garris è fondamentalmente uno sceneggiatore e regista: la sua fiction
è fenomeno piuttosto recente. Ha diretto Critters 2 e Psycho 4 (mi suona
come un gioco di splatterpunk) e ha scritto per la televisione e per altri film.
Basandosi su A Life in the Cinema e alla sua opera cinematografica — che
include La mosca 2 — Mick è ovviamente solidale con gli atteggiamenti
splatterpunk. Dovremo aspettare per vedere se questo si manifesterà in altri
scritti.
52 Maledizione fatale di John Skipp e Craig Spector in Horror n. 14
(Mondadori, Milano 1991).
53 Ragazze vive di Ray Garton in Horror n. 3, (Mondadori, Milano, 1990). La
migliore raccolta di racconti di Schow, a tema unificato "amore perduto
amore trovato". Include Brass, Red Light, Pamela's Get, The Falling Man e
Monster Movies. Orientate sui personaggi, intelligenti e accattivanti, queste
storie vengono rappresentate sullo sfondo di una Los Angeles corrosi-
vamente tagliata. Se Skipp e Spector sono i migliori osservatori
splatterpunk della scena di New York, nessuno descrive Los Angeles come
David J. Schow.
55 "L'uomo della casa della carne" di George R. R. Martin. In questa antologia.
56 Midnight Graffiti (periodico), 13101 Sudan Road, POway California 92064.
57 "Macelleria mobile di mezzanotte" di Clive Barker. In questa antologia.
58 Monster Movies di David J. Schow. In Lost Angels di David J. Schow (Onyx
Books, New York, 1990).
59 Mop Up di Richard Laymon. In Nigh Visions 7 (Dark Harvest, Arlington
Heights, Illinois, 1989).
60 More Gore: Splatterpunk Leaves Its Mark di Richard Gehr. In The Village
Voice, 6 febbraio 1990, pagg. 57-58.
61 The "New" Horror di J. N. Williamson. In Masques III, a cura di J. N.
Williamson (St. Martin's Press, New York, 1989). In questo breve saggio,
Williamson (antologista e socio fondatore della Scrittori Horror d'America)
traccia il suo pensiero sullo splatterpunk. "Al peggio" osserva Williamson
"il 'nuovo' horror può essere orribile, o pieno di una certa belligeranza; di
volgarità. Al meglio, è un uso meraviglioso della libertà americana di dire o
fare che, lo scrittore lo spera ardentemente, farà allontanare per sempre
dalle nostre vite tormentate gli incasinamenti sociali" (pag. 104).
Nonostante un apparente disagio con la profanità (la frase di Williamson "il
'nuovo' horror può essere... pieno di... volgarità" è un ovvio esempio) e l'uso
che lo splatter fa di droga, alcol e rapporti improbabili (lui obietta
all'inserimento gratuito di questi elementi — dove l'abbiamo già sentita?) il
minisaggio di Williamson arriva a una valutazione tollerante e alquanto
bilanciata dello splatterpunk. Lo fa su una base estetica e di libertà di scelta,
facendo del "The 'New' Horror" una delle critiche più imparziali dello
splatterpunk.
62 "Nightcrawlers" di Robert R. McCammon. In Blue World, di prossima
pubblicazione presso Mondadori.
63 The Nightrunners di Joe R. Lansdale (Dark Harvest, Arlington Heights,
Illinois, 1987)
64 "La sera che non andarono all'horror show" di Joe R. Lansdale. In Silver
Scream, a cura di David J. Schow (Dark Harvest, Arlington Heights,
Illinois, 1987), in By Bizarre Hands di Joe R. Lansdale (Mark v. Ziesing,
Shingletown, California, 1989) e in questa antologia.
65 Nova Express, P.O. Box 27231, Austin, Texas 78755.
66 The Official Splatter Movie Guide di John McCarty (St. Martin's Press, New
York, 1989).
67 "Nel lontano deserto delle Cadillac con il popolo dei morti" di Joe R.
Lansdale. In Book of the Dead a cura di John Skipp e Craig Spector in By
Bizarre Hands di Joe R. Lansdale e in "Il ritorno degli zombi", antologia
horror n. 3 Mondadori, Milano 1994. Un western di zombie dell'era
moderna, con cercatori di fortuna, evasi cattivi e suore vogliose. Veloce,
divertente ed evocativo. La scena con la donna cannibale che balla nuda in
uno squallido bar con ragazze in topless — con le mani tagliate e la bocca
chiusa da una museruola così che non morda i clienti — è una piccola
gemma. Nessuno se non Lansdale sarebbe mai riuscito a scriverla.
68 The Penguin Encyclopedia of Horror and the Supernatural a cura di Jack
Sullivan (Viking, New York, 1986). Il volume include "Writers of Today" di
Doug Winter.
69 "Pig Blood Blues" di Clive Barker. In Infernalia, Sonzogno, Milano 1991.
70 "Pilgrims to the Cathedral" di Mark Arnold. In Silver Scream, a cura di David
J. Schow (Dark Harvest, Arlington Heights, Illinois, 1987).
71 In principio era il male a cura di Douglas Winter. Mystbooks, Mondadori,
Milano 1990. Questa raccolta di storie horror perlopiù tradizionali contiene
un certo numero di testi splatterpunk "marginali". Uno è "The Night Flier"
di Stephen King, in cui un vampiro con la vescica piena va nel bagno degli
uomini e piscia sangue. Ma il migliore racconto splatter è "The Juniper
Tree" una ristrutturazione complessa, nostalgica e assolutamente orripilante
della famosa favola dei fratelli Grimm, in cui la dinamica centrale è
composta da matinée cinematografiche e molestie omosessuali su bambini.
Questa è veramente una delle fatiche più forti e più mature di Straub.
Raccomandatissimo.
72 "L'ombra in caccia nella Città sull'orlo del mondo" di Harlan Ellison. In The
Essential Ellison, a cura di Terry Dowling (Nemo Press, Omaha e Kansas
City, 1987) e in Dangerous Visions, Mondadori, Milano 1991.
73 Psycho di Robert Bloch (Mondadori, Milano 1985).
74 "Punishments" di Ray Garton. In Hot Blood a cura di Jeff Gelf e Lonn Friend
(Pocket Books, New York, 1989). Doloroso, patetico e carnale,
"Punishments" delinea in un calando a spirale la relazione sessuale di un
giovane innocente con una donna più anziana che si odia. Il personaggio
femminile, in particolare, lascia un segno melanconico e spettrale. Molto
forte, molto reale. Parte del canone anti-avventisti di Garton, e uno dei suoi
migliori lavori brevi.
75 "Rant" di Nancy A. Collins. In Midnight Graffiti, primavera 1990, pagg. 44-
48.
76 "Rapid Transit" di Wayne Allen Sallee. In questa antologia.
77 "Rawhead Rex" di Clive Barker. In Libro di sangue, Sonzogno, Milano 1993.
78 "Red Light" di David J. Schow. In Lost Angels di David J. Schow (Onyx
Books, New York, 1990).
79 Samhain (periodico) 19 Elm Grove Road, Topsham, Exeter, Devon EX3,
OEQ, Gran Bretagna.
80 Il sesso della morte di Ramsey Campbell Armenia editore, Milano 1992. Un
compendio della fiction horror-erotica di Ramsey Campbell, un genere per
cui non è molto conosciuto. Ramsey Campbell, uno degli scrittori horror tra
i più rispettati, è conosciuto per i suoi toni mutevoli ed ellittici e le sue
atmosfere pessimistiche; racconti come "Chez Lili" e "Il ritorno di
Loveman" uniscono i classici effetti di Campbell con scene hard-core. Poco
conosciuto dai fanatici dello splatterpunk, Il sesso della morte vale la pena
di essere cercato. L'introduzione è di Clive Barker, e si accentra sul classico
tema della morte e delle ragazze sole.
81 Sears di Richard Christian Matheson (Scream/Press, Los Angeles, 1987).
82 "Schow, David J. — Special Issue". In Weird Tales primavera 1990, pagg. 14-
25.
83 The Scream di John Skipp e Craig Spector (Bantam Books, New York, 1988).
84 Seeing Red di David J. Schow (Tor Books, New York, 1990).
85 Silver Scream a cura di David J. Schow (Tor Books, New York, 1988). Sono
inclusi "Una vita nel cinema", di Mick Garris; "Sinema" di Ray Garton;
"Son of Celluloid" di Clive Barker; "La sera che non andarono all'horror
show" di Joe Lansdale; "Sirens" di Richard Christian Matheson; "Splatter:
A Cautionary Tale" di Douglas E. Winter; "Film alle undici" di John Skipp;
e "Pilgrims to the Cathedral" di Mark Arnold. Come il Libro di sangue e
Book of the Dead, Silver Scream è un'altra raccolta fondamentale nella
storia dello splatter.
86 "Sinema" di Ray Garton. In Silver Scream a cura di David J. Schow (Tor
Books, New York, 1988).
87 Slice di Rex Miller (Onyx Books, New York, 1990). Chaingang ritorna in
questa diretta continuazione del popolare Slob di Miller. Questa volta il
killer da un quarto di tonnellata (che è sopravvissuto al tragico epilogo di
Slob e si è rimesso in salute nelle fogne di Chicago) insegue Jack Eichord, il
poliziotto che l'ha quasi ucciso. Più brutale del primo romanzo di
Chaingang, Slice regala però al pluriassassino di Miller una nuova qualità: il
cuore. Cosa verrà dopo: Chaingang innamorato?
88 Slob di Rex Miller (Signet Books, New York, 1987).
89 "Son of Celluloid" di Clive Barker. In Libro di sangue (Sonzogno, Milano
1993).
90 "The Splat Pack: Horror's Young Writers Spill Their Guts" di Jessie Horsting.
In Midnight Graffiti, giugno 1988, pagg. 30-35.
91 "Splatter: A Cautionary Tale" di Douglas E. Winter. In Silver Scream a cura di
David J. Schow (Tor Books, New York, 1988).
92 Splatter Movies: Breaking the Last Taboo of the Screen di John McCarty (St.
Martin's Press, New York, 1984).
93 "The Splatterpunk: The Young Turks at Horror's Cutting Edge" di Lawrence
Person. In Nova Express, estate 1988, pagg. 17-27.
94 Sunglasses After Dark di Nancy A. Collins (Onyx Books, New York, 1989).
95 "Take the A-Train" di Wayne Allen Sallee. In The Year's Best Horror Stories,
Series XV, a cura di Karl Edward Wagner (DAW Books, New York, 1987).
96 "Threshold" di Wayne Allen Sallee. In New Blood, secondo numero. Un
bambino mutante viene tenuto in una cantina dai genitori, che lo addestrano
per diventare un bizzarro gladiatore. Piuttosto simile al primo racconto di
Richard Matheson padre, "Born of Man and Woman", ma con una decisa
svolta splatterpunk.
97 "Waiting for the Barbarians" di Lucius Shepard. In Journal Wired, inverno
1989, pagg. 107-118. Shepard è stato etichettato come un "realista magico"
e viene in genere associato con gli ambienti fantascientifici. A qualunque
gruppo appartenga, opere come Life During Wartime e The Jaguar Hunter
segnalano Shepard come una presenza adulta, di rilievo nel genere della
fiction congetturale in genere socialmente ferma. (Infatti, tutto quello che
riesco a digerire oggigiorno nel genere fantascienza sono persone come
Shepard e William Gibson: Dio mi salvi dal diluvio di elfi, militaristi e varie
riproduzioni di "Star Trek" che dominano attualmente la fantascienza!)
"Waiting for the Barbarians" è un saggio che si incentra principalmente sul
cyberpunk; lungo il cammino, Shepard tocca lo splatterpunk. Nonostante la
sua brevità, è probabilmente l'occhiata più onestamente critica e chiara dello
splat in cui io mi sia mai imbattuto. Devo dire che lo raccomando? Eccone
un saggio: "Scrivere senza farlo diventare un atto di coscienza è essenziale
per diventare un complice nella tragedia del tardo Ventesimo Secolo" (pag.
117).
98 "Il guaito dei cani battuti" di Harlan Ellison. In Biblioteca di Fantasy n. 4,
Mondadori, Milano 1980.
99 Women of Darkness a cura di Kathryn Ptaceck (Tor Books, New York, 1988).
Questa raccolta comprende "Hooked on Buzzer" di Elizabeth Massie e
"Cannibal Cats Come Out Tonight" di Nancy Holder.
100 "The Yattering and Jack" di Clive Barker. In Clive Barker's Books of Blood
vol. 1 (Sphere Books, Londra 1984; Berkley Books, New York, 1986).
101 The Year's Best Horror Stories, Series XIV a cura di Karl Edward Wagner
(DAW Books, New York, 1986). In questo volume c'è anche "Rapid
Transit" di Wayne Allen Sallee.
102 The Year's Best Horror Stories, Series XV a cura di Karl Edward Wagner
(DAW Books, New York, 1987). Comprende "Take the A-Train", di Wayne
Allen Sallee.
13
È UNA COPERTURA
Lo splatterpunk ha aperto una nuova porta nella casa della fiction dell'orrore.
No, ce l'hanno sbattuta dentro.
E gli attuali proprietari di quella casa, i gentili "arrivati" che si sono ingrassati
e si sono fatti comodi e sicuri con i loro possedimenti, non ne sono molto
contenti.
Avrebbero dovuto saperlo.
Perché ci sono sempre stati — e ci saranno sempre — dei fuorilegge.
Los Angeles
Marzo-maggio 1990
Per Luis Bunuel
TI SPUTO IN FACCIA:
I FILM CHE MORDONO
Chas. Balun
Nel mio saggio Fuorilegge sottolineo l'impatto dei film splatter sullo
splatterpunk. Questo cinema "umido" e fecondo come Festa di sangue, La notte
dei morti viventi, Non aprite quella porta, Suspiria, e praticamente tutto del
regista italiano Lucio Fulci (Zombi II, Tu vivrai nel terrore!, L'aldilà, The Gates
of Hell) ha ovviamente, e irrimediabilmente, influenzato i parametri dei racconti
splatter. E allora i film che escono di questi tempi, montagne sanguinanti di
bobine che stanno insidiosamente corrompendo un'intera nuova razza di
protosplatterpunk?
Il film di horror spinto, ad alto impatto emotivo, è diventato genere a sé, con
una serie entusiastica di festival (il Weekend dell'Orrore di Fangoria),
pubblicazioni specializzate (Gorezone), e fanzine (Shock Xpress) che sostengono
avidamente questa folle subindustria evidentemente. Uno dei migliori giornalisti
di questo settore chiazzato di sangue è Chas. Balun, il Joe Bob Briggs dei film
splatter.
L'opera di Balun apparve per la prima volta in brevi fanzine e, più tardi, in
periodici di larga diffusione (Fangoria). Sin dall'inizio si distinse dagli altri. Era
una persona che non solo era versata nella materia ma che, ovviamente, amava
quel mestiere. E ancor di più, Balun apprezzava l'indecenza presente in ciascuna
di quelle atrocità cinematiche. Non parliamo nemmeno del sistema a Quattro
Stelle. Certo, Balun valutava il merito globale di un film. Ma in un attacco di
genio demente inventò anche il "Gorescore", che, come lo definì Balun stesso,
"non si occupa di altro che della quantità di sangue, cervella, viscere, bava,
muco, vomito e altri preziosi fluidi corporali assortiti versati, sparsi o gettati
durante il corso del film." Secondo il sistema di valutazione di Balun, piccole
gemme di depravazione come Doctor Butcher M.D. meritano un "dieci", mentre
Voglia di tenerezza si prenderebbe un bello "zero". A parte il sistema di voto
Gorescore (che è apparso in forma di libro pubblicato autonomamente e che
riaffiora di tanto in tanto come misurazione standard), Chas. Balun ha operato
come curatore sia per la fanzina di film splatter Deep Red sia per il libro
compagno, The Deep Red Horror Handbook. E l'autore di Horror Holocaust e
del recente romanzo splatter Ninth and Hell Streets.
Nonostante la materia, Chas. Balun è un critico informato, che combina
l'entusiasmo di un ammiratore con la ricerca di un accademico. "Ti sputo in
faccia" illustra nei dettagli l'ultima stirpe di film splatter da vedere, e come tale
funge da guida portatile per gente alla ricerca di emozioni forti — e dei loro
confratelli spirituali, gli appassionati di splatterpunk — ovunque essi siano.
Alcuni film non vengono concepiti per intrattenere una platea. Molti sono
concepiti per essere dei clisteri... per entrarti dentro, profondamente, nelle parti
morbide, e girarti sottosopra le viscere.
In molti casi, il regista non cerca nuovi seguaci o appassionati: dai suoi
spettatori vuole PAURA, REPULSIONE, RIBREZZO E REAZIONE. Non
chiede di piacervi o di farvi piacere il suo lavoro. Ma lancia una sfida, forse
persino un avvertimento, a qualsiasi spettatore potenziale: GUARDATE
QUESTO FILM A VOSTRO RISCHIO E PERICOLO!
Sono i film che rispecchiano maggiormente le caratteristiche di questo filone,
illustrando fino a che punto possa arrivare il pubblico prima di "abbandonare la
nave". Molte di queste opere sono deliberatamente volgari, offensive e
incredibilmente violente così da garantire quasi sempre la nascita di un culto.
Sono film troppo volgari e crudi per essere ignorati. Non sono bestioline
addomesticate, ammansite: sono selvaggi, pericolosi, e MORDONO!
La produzione di horror contemporaneo, abituata da lungo tempo a essere
classificata in categorie come "Delitti di bambini", "Conta i cadaveri",
"Avvicinati e colpisci", "Taglia e gioca", "Splatter" ecc. ha creato un'altra
genealogia bizzarra, spesso allarmante, che minaccia stupri cinematografici alla
Du Champ, — "La sposa spogliata (e sviscerata) dai suoi fidanzati". Questi film
dell'orrore, destinati a un pubblico d'elite disprezzati dalla critica ufficiale,
riescono quasi sempre a colpire nel segno. Non si scusano e non si aspettano
misericordia. Non vengono fatti prigionieri.
Il registra non segue alcuna regola. Le convenzioni cinematografiche in
genere vengono abbandonate a favore di un cinema-verità ridotto all'osso, che
rende la platea complice dell'azione. Questi lavori sono quasi sempre spogli,
minimalisti e da quattro soldi tanto da apparire degli anti-film; sono un grido
primitivo e rabbioso dei cineasti piuttosto che un prodotto cinematografico
certificabile da vendere sul mercato.
In molti casi, questi film non possono essere distribuiti per la pubblica visione
nelle sale. Alcuni sono semplicemente troppo esagerati, troppo oltraggiosi,
perché offrono una tale paurosa sfilata di depravazione, perversione e sado-
feticismo umano che nessuno, se non i più coraggiosi o i più folli, ne tentano la
difesa. Film come Last House on Dead End Street, che presenta sequenze
prolungate e disinibite di scudisciate, umiliazioni varie, torture e morti morbose,
possono attendersi poca solidarietà dagli spettatori alienati da innocui e sicuri
film splatter come Venerdì 13, Incubo a Elm Street o persino L'alba dei morti
viventi o La casa.
C'è una famigerata sequenza nel film Last House on Dead End Street che sfida
praticamente ogni forma di commento critico.
Una vittima, dopo essere stata dileggiata, ripetutamente umiliata e percossa, è
costretta a inginocchiarsi davanti a una donna seminuda che ha una zampa di
cervo che le esce dalla lampo dei jeans. Dietro di lei c'è un altro folle che le
immobilizza la testa tra un paio di corna di cervo, piazzate a mo' di corna di
diavolo. Questa sola scena è sufficiente per farvi strabuzzare gli occhi e
spalancare la bocca finché... il ragazzo non viene costretto a copulare oralmente
con lo zoccolo infernale in maniera particolarmente disgustosa. Ma il peggio
deve ancora venire.
Questi registi non sono certamente il genere di persona che viene invitata a
seminari di aspiranti talenti cinematografici e a cui viene chiesto di tenere una
conferenza su "la metafora della cocaina". Questa è gente pericolosa, amici.
Spesso però la reazione più immediata e universale del pubblico a questa
sfacciata franchezza, a questa deliberata provocazione, è: "Perché sto guardando
questa schifezza?" Infatti, molti di questi orrori nichilistici hanno costretto anche
gli appassionati più convinti a riesaminare il loro senso della moralità. Forse il
valore maggiore di film come I Spit on Your Grave, Maniac, I Hate Your Guts, o
Henry pioggia di sangue è che provocano un esame di coscienza e ti costringono
a tirar fuori una mano... per poi tagliartela. Questi film generano sempre una
risposta estremamente carica nel pubblico, sia che vengano attaccati con
veemenza, o difesi con riluttanza. Gli spettatori sono costretti a confrontarsi con
sensazioni estremamente violente, anche se spesso ambivalenti, nei confronti del
vero intento e dei propositi dei realizzatori di questo genere.
Dato che i film dell'orrore possono essere prodotti a buon mercato con minimi
mezzi, scantinati a poco prezzo come set, stelline senza nome e troupe
cinematografiche inesperte, i registi spesso hanno l'opportunità di fare qualsiasi
cosa vogliano, purché attraggano e mantengano l'attenzione della sala. Molti
vengono incoraggiati a caricare i loro film con un'infinità di sollecitazioni e
soggetti che incitano alla violenza per evitare il peggior crimine che ogni film di
cassetta possa commettere in una società controllata dai media: essere ignorati.
Siate blasfemi, perversi, violenti oltre misura, violate i tabù, ma, per l'amor di
Dio, NON SIATE NOIOSI.
Molti giovani registi ambiziosi, che più tardi sono riaffiorati come autori di
successi più ortodossi, hanno accettato la sfida e nei loro primi lavori ci hanno
presentato materiale rozzo, intransigente e penetrante destinato a essere
denigrato e criticato, innalzato e vilipeso, ma mai ignorato. Il pubblico, a dire il
vero, è rimasto sconvolto e disturbato da film come L'ultima casa sulla sinistra,
Non aprite quella porta e I Spit on Your Grave... ma non ha mai dimenticato il
film. Anche le critiche più rabbiosamente negative e virulente scritte su questi
film spesso agiscono come un boomerang, e alla fine servono solo ad aumentare
la curiosità e a informare il pubblico, stimolano le chiacchiere, alzano il profilo
del film e migliorano il suo potenziale di marketing. Non aprite quella porta, I
Spit on Your Grave e Basket Case hanno usufruito di revival in videocassetta
grazie ad alcune critiche particolarmente avvilenti, anche se molto quotate,
avanzate da vari critici giornalistici. Quando Rex Reed definì il film
meravigliosamente corrotto di Frank Henenlotter Basket Case come "il film più
disgustoso che io abbia mai visto" non intendeva certo gridarlo ai quattro venti,
una chiamata alle armi che sarebbe stata disseminata su tutte le videocassette e i
manifesti del film come un importante riferimento di vendita. I cecchini
superstar come Gene Siskel e Roger Ebert dovrebbero addirittura ricevere dei
compensi sulle vendite per la loro involontaria promozione di film quali L'ultima
casa a sinistra, I Spit on Your Grave e Venerdì 13. Ricordatevi le regole: NON
BISOGNA ESSERE IGNORATI.
In ogni caso, è stato forse un bene, dopotutto, che film come I Hate Your Guts,
Last house on Dead End Street, Roadkill: The Last Days of John Martin o
Nekromantik non siano mai caduti nelle mani sbagliate. C'è anche la possibilità,
anche se esigua, che i critici che si avventano sui film "splatter" possano
semplicemente avere un'idea sbagliata sul film, il genere e i suoi appassionati.
I film difficili come Henry pioggia di sangue, di John McNaughton (1986)
pongono un uguale dilemma morale sia ai critici sia agli appassionati che hanno
un atteggiamento impassibile e imparziale nei confronti della morte violenta.
L'omicidio viene presentato in termini alquanto prosaici e concreti: una specie di
lavoro part-time integrato perfettamente con il resto della vita. E il protagonista,
nonostante sia uno psicopatico pronto a scatenarsi e un killer spietato, è ritratto,
nonostante tutto, come l'eroe di fatto del film. Certo, tortura e uccide donne, ma
in realtà è un bravo ragazzo che ha sempre un momento per rivolgere un
complimento a una cameriera timida e offrire sia un'amichevole partita a carte
sia un orecchio solidale e attento ai meno fortunati di lui. È fieramente leale,
insolitamente generoso e veramente timido e di buone maniere; cioè, quando non
sta ammazzando qualcuno. Henry è in realtà quasi un'anomalia in questo sub-
genere tanto denigrato. È un film di grande effetto, pieno di scene girate
professionalmente con la telecamera in movimento, puntualizzato da un
montaggio intelligente e da effetti sonori e musica ossessivi, spronato da una
sceneggiatura accattivante e provocante. Gli attori sono insolitamente bravi, a
volte vulcanici, e la rappresentazione predominante e intrigante di Michael
Rooker è sorprendentemente credibile. Henry è, per molti versi, un esempio
cinematografico imbarazzante e pericoloso nel suo genere.
Nonostante molti film si avvicinino raramente all'elevato livello di maestria
presente in un'opera come Henry, pochi soffrono per la mancanza di esperienza
tecnica. Infatti, questo è un aspetto della produzione di un film che permette, e a
volte beneficia, di attitudini amatoriali, minimalistiche. La maggior parte dei
registi non ha bisogno di sentirsi dire di operare all'interno degli stretti confini
delle produzioni tradizionali, e molti vengono apertamente incoraggiati ad
"oltrepassare" deliberatamente le tradizioni tipiche del genere. Dato che la
maggior parte di questi film hanno budget molto al di sotto delle poche centinaia
di migliaia di dollari, il rischio è minimo; di conseguenza, molti produttori
permettono alle loro troupe di seguire i loro istinti, sperando segretamente che il
maniaco celato dietro alla telecamera possa sfornare un altro "classico" o un
"capolavoro della mezzanotte". Nonostante ciò, molti di questi sforzi
sembravano destinati a un fato molto più lontano, perduto in un qualche punto
della zona intermedia tra la distribuzione e il mercato. Molti cauti distributori
temono la reputazione che potrebbero guadagnarsi promuovendo attivamente un
film i cui punti chiave includono umiliazione delle donne, torture feticistiche,
mutilazioni ad animali, deviazioni sessuali e killer impuniti e sociopatici.
I buoni produttori e gli specialisti del marketing hanno agilmente evitato molti
degli elementi "di cattivo gusto" o inaccettabili della loro produzione montando
delle campagne pubblicitarie che sono intelligentemente fuorvianti, apertamente
illusone o schiettamente fasulle. La Jerry Gross e la Hallmark Productions sono
due società che hanno spesso trasformato le avversità in vantaggi. Quando
nessuno prestava attenzione a un polpettone indigeribile intitolato Day of the
Woman, la Gross gli cambiò il titolo in I Spit on Your Grave e lo celò dietro a
un'ingannevole campagna pubblicitaria che gridava alla "vendetta" e prometteva
che "CINQUE uomini" sarebbero stati smembrati, fatti a pezzi e bruciati fino a
diventare irriconoscibili. Non importava che fossero solo quattro e che nessuno
fosse mai "smembrato" o "bruciato", perché nessuno sembrò notarlo e la
versione video divenne un successo mostruoso. La Gross è responsabile anche di
altri furti del genere, inclusa l'accoppiata del sonnolento Voodoo Blood Bath
(1964), un comune bianco e nero, re-intitolato I Eat Your Skin con I Drink Your
Blood (1972), come: "DUE GRANDI HORROR DI SANGUE PER FARVI
CONTORCERE LE BUDELLA!" La Gross rimosse inoltre chirurgicamente
grossi spezzoni dell'ambizioso e premiato documentario di Jacopetti e Prosperi,
Africa addio (1967) trasformandolo nel summenzionato film. "Questa è la vera
Africa! Dove nero è bello! Nero è brutto! Nero è brutale".
La Hallmark promise anche di distribuire il materiale con diverse campagne
d'effetto che gridavano "Può un film andare TROPPO OLTRE?", "SICU-
RAMENTE IL PIÙ ORRIPILANTE MAI PRODOTTO" e "IL PRIMO FILM
CENSURATO CON UNA V PER LA SUA VIOLENZA." La Hallmark ha
guadagnato punti con la geniale trovata di fornire al pubblico di Mark of the
Devil un sacchetto per il vomito, un'esperienza cinematografica che, garantiva,
avrebbe "rivoltato lo stomaco".
Nonostante l'apparente sagacia di queste campagne, la Hallmark in realtà stava
solo riciclando diversi concetti che altri avevano già impiegato. Il film Color Me
Blood Red (1964) di Herschell Gordon Lewis avvertiva che occorreva "cercare
di ricordare a voi stessi che è solo un film." Apparentemente la Hallmark
pensava che avessero veramente raggiunto dei buoni risultati e quindi la frase
"per evitare di svenire....continuate a ripetervi....è solo un film..." apparve su due
dei suoi "house" film, L'ultima casa a sinistra (1972) e The House That Vanished
(1974), e poi di nuovo sulla locandina di Don't Open the Window sempre della
Hallmark, una riedizione americata di Let Sleeping Corpses Lie/Living Dead at
the Manchester Morgue di Jorge Grau. Bene, bravi. Sacchetti per il vomito,
avvertimenti per non svenire e per gli sforzi di stomaco, segnalazioni di "V" e
sfide al pubblico si sono rivelati d'effetto nel passato, ma oggi, con l'abbondanza
di brutture crude e dirette, sorge un problema promozionale più difficile. Come
si fa a vendere/ingraziare/attrarre il pubblico perché veda Nekromantik (1988) di
Jorg Buttgereit, un racconto contorto e mostruoso di sevizie su cadaveri,
assassinii di lolite degeneri che fa sembrare un sadico come Ed Gain un tipo
simpatico?
La maggior parte dei film più sconcertanti di oggi debbono almeno un breve
cenno alla pellicola L'ultima casa a sinistra la quale, a sua volta, deve almeno lo
stesso e forse molto di più al film di Ingmar Bergman La fontana della vergine
(1960), vincitore dell'Academy Award. L'ultima casa ha fornito poi sia il
modello che l'ispirazione per legioni di esperti dai budget inesistenti che hanno
ripreso pedissequamente lo scenario di umiliazione-sevizia-vendetta che aveva
funzionato così bene nel film di Craven.
Per i dieci anni che seguirono, nelle case della zona continuarono ad accadere
cose bruttissime.
L'ultima casa sulla sinistra II venne distribuito presto, ma con l'originale
aveva in comune solo il nome. Era in realtà una manovra non tanto intelligente
per mascherare l'abbondanza di morti di Twitch of the Death Nerve di Mario
Bava (1972, conosciuto anche come Carnage, Bay of Blood) per lo xenofobo
pubblico americano.
The New House on the Left (1977, anche The Night Train Murders), di nuovo
senza alcun riferimento all'originale, fu un rivisitazione tedesca che narrava di
uno stupratore assassino che tormentava e torturava le sue vittime a bordo di un
treno.
Non violentate Jennifer (1977), una produzione canadese, risultò essere un
film di cassetta diretto dal cavallo da soma del genere, William Fruet (Funeral
home, Spasms). Brenda Vaccaro (lei, dalla voce rauca come carta vetrata) caccia
uno sciatto gruppo di idioti sbavanti condotti dall'irreprensibile Don Stroud,
mentre il suo ragazzo frignante ed effemminato se la fa sotto dalla paura.
Una delle produzioni più terrificanti nell'ambito dei film sul tema "l'inferno in
casa" è senza dubbio Last House on Dead End Street (1977), un film
profondamente scioccante e selvaggiamente misantropo. Diretto da un giovane
studente di cinematografia di New York di nome Roger Watkins sotto la firma
pseudonima di "Victor Janos", questa Last House è veramente infernale.
Conosciuta anche più brevemente come Tunnel dell'orrore questo film è una
versione vigorosa del solito stupro compiuto da negri con furia virulenta e
rivoltante. Un aspro e rabbioso Terry Hawkins, fresco di un anno di galera per un
reato minore di droga, vuole diventare produttore. "Voglio fare dei film" dice,
"qualcosa di veramente particolare. Sono pronto per qualcosa che nessuno ha
mai sognato. Gliela farò vedere; gli farò vedere cosa sa fare Terry Hawkins." E
riesce bene a mantenere la sfida. Anche gli squallidi tipi del giro porno con cui
ha avuto a che fare sono pronti per qualcosa di nuovo. Sono stanchi delle noiose
cretinate contorte che dirige di solito, e chiedono "qualcosa di veramente
diverso." E Terry tira fuori "qualcosa di veramente diverso", un film duro: anche
se fa attenzione a camuffare le sue vere intenzioni sia alla troupe che al
potenziale omicida, parte della sua promessa di "far vedere loro qualcosa che
nessuno ha mai sognato." Ciò che segue è un'intensa, dettagliata cavalcata di
crudeltà che include frustate selvagge, strangolamenti, assassinii, sezionamenti,
trapanature e sesso simulato con zoccoli di animali. In una delle scene più atroci,
un vero pezzo cinematografico veramente terrificante, da incubo, una donna
viene legata a una sorta di tavolo operatorio e ripetutamente violentata da
un'intero gruppo di straccioni ridacchianti e mascherati che la colpiscono
ripetutamente sul viso con uno scalpello e le martorizzano le gambe con una
sega. Alla fine si accaniscono su di lei fino a sbudellarla, e le sue viscere lucide e
brillanti vengono sollevate perché tutti possano ammirarle e applaudirle.
Il film termina con prolungate umiliazioni, e infine la morte, del succhia-
zoccoli, che riceve, come colpo di grazia, una lobotomia con un Black & Decker.
Proprio con lo stesso tocco di oltraggio morale represso, alla fine una voce
fuori campo studiatamente cupa aggiunge questo commento: "Terence Hawkins
(e altri) sono stati in seguito arrestati e stanno scontando una condanna di 999
anni nel penitenziario di stato". Comunque, fino a quel momento, il film non
mostra assolutamente alcun senso di equilibrio morale.
Last House on Dead End Street si dimostra particolarmente irritante per il
modo in cui sfuoca i limiti tra la registrazione, l'incitamento e la partecipazione a
un atto di violenza. Altri film, come Snuff di Michael e Roberta Findlay, Effects
(1980) di Dusty Nelson, Special Effects di Larry Cohen e Videodrome (1983) di
David Cronenberg hanno affrontato la materia in modo simile, ma nessuno è
stato mai così pericolosamente diretto e preoccupante come Last House on Dead
End Street.
Non entrate in quella casa, del 1980, distribuito in un'ondata di film del
genere "non rispondete/guardate/aprite", si distingue per essere, forse, il
peggiore della serie. Il lavoro è insolitamente ben fatto, a volte addirittura
notevole, e diretto magistralmente da Joseph Ellison. Si sarebbe forse rivelato un
successo minore da "cult", se avesse evitato la sottocorrente sordida e fastidiosa
dell'abuso sui bambini, che scappa fuori in continuazione dalle scene. Una madre
malata punisce ripetutamene suo figlio tenendogli le braccia su un fornello
acceso, e sapete una cosa? Lui finisce per crescere malato e godere nel dare
fuoco alle ragazze nella sua camera da letto-forno crematorio rivestita d'acciaio.
Molte delle morti lente e tortuose vengono presentate con dettagli duraturi e
deliziosi; anche se questo nostro antieroe incendiario alla fine riceve la giusta
punizione (stile Maniac), il senso di giustizia biblica è effimero. La scena
conclusiva del film mostra un altro bambino maltrattato, che minaccia di
ricominciare lo stesso circolo vizioso. Nonostante il suo lustro tecnico, una
messa in scena agghiacciante e un trucco essenziale, è veramente troppo difficile
ammettere di aver apprezzato un film che trae la sua ispirazione cinica dal
cronico abuso sui bambini.
Davis Hess, certamente uno dei più memorabili criminali dello schermo, nella
serie delle Case evoca l'inferno in un ennesimo domicilio nel film La casa
sperduta nel parco di Ruggero Deodato. Qui Deodato merita un riconoscimento
per l'intuizione nella scelta del cast; la troupe dell'italiano King John Morghen
(detto il Cannibale), assieme a Hess, crea uno spaccato di patologia sociale a cui
è difficile resistere. Morghen questa volta è un ritardato farfugliante e Hess
continua a fare ciò che gli riesce meglio, rendendoci felici che sia soltanto un
film... soltanto un film.
A metà degli anni Ottanta diventò chiaro che tutte le cose più brutte che si
potessero fare in una casa erano state fatte, e il sub-genere ricevette l'avviso di
termine in forma di due sonnolenti, banali film presentati da Sean Cunningham,
l'originale La casa e il suo patetico sequel La casa di Helen.
Il celebre poeta mistico inglese William Blake disse che "la strada degli ec-
cessi conduce al palazzo della saggezza". Non possiamo certo biasimarlo, il
ragazzo. Fu quasi duecento anni prima che il regista tedesco Jorg Buttgereit
filmasse Nekromantik (1988). Forse il film che scorre e fa male risponde meglio
al gentile ammonimento di George Bernard Shaw, che diceva che: "È brutto sia
ottenere più di ciò che hai contrattato sia ottenere meno".
In entrambi i casi, Nekromantik potrebbe dimostrarsi il successore logico e
veramente post-modernista di schifezze tabù nichilistiche come L'ultima casa a
sinistra, Non aprite quella porta, la serie di Ilsa, la belva delle SS, e
Bloodsucking Freaks. Il problema con Nekromantik, però, è che è un film
talmente schifoso che una difesa appassionata potrebbe essere equivalente ad
avallare orge, smembramenti di cadaveri e battute suicide come elementi
integrali di questo genere catarsi in atto. Buttgereit ha lanciato la moda del film
assolutamente crudo e disperato: sono fauci nere spalancate che minacciano di
ingoiarvi tutti interi. Se qualche genio del nuovo genere blatera di voler
ripropone la famosa frase adulatoria detta da Stephen King su Clive Barker,
giudicato "il futuro dell'horror" e conclude con "si chiama Jorg Buttgereit"...
allora lascio perdere.
Apparentemente Nekromantik è costruito su un concetto dannatamente
semplice: scopati merce morta e ti ritroverai a essere un suicida qualsiasi, con un
coltello nelle viscere e il cazzo insanguinato e appiccicoso che spunta tra le
mutande.
In realtà, Buttgereit ha ritratto un tenero amore romantico tra due potenziali
necrofili che debbono accontentarsi della loro raccolta di parti umane racimolata
in vari incidenti stradali fino a che non arriva roba grossa. Ma allora, dopo aver
finalmente completato il tanto agognato ménage à trois pieno di vermi, il dolce
odore della putrescenza si fa sentire rapidamente e la ragazza lascia la città con il
signor Cibo per i Vermi e una doppietta. Il ragazzo, confuso dalla pena e
perseguitato dalla solitudine, cerca sesso con i viventi ma scopre di non esserne
più attratto. Per un po' l'omicidio diventa di rigore, fino all'epilogo
masturbatorio, lamentoso e autodistruttivo.
Molti degli elementi più untuosi del film sono tenuti relativamente sotto
controllo dal trucco Play-Doh, mentre altre sequenze spesso si risolvono in colpi
di scena risibili e offensivi, come dimostra la gratificante uccisione in scena e la
scuoiatura dettagliata di un coniglio, mostrata due volte (una volta al reverse) per
ottenere il massimo della repulsione.
Nonostante il tono malevolo e nero del film, Buttgereit mostra un'astuzia
calcolata che riesce a non far soccombere Nekromantik alla sua stessa volgarità.
Durante una scena ripresa in un cinema in cui si proietta un misogino spezzone
senza nome, il nostro piccolo eroe necrofilo è così abbattuto e schifato
dall'azione che esce rapidamente dal cinema disgustato. Il film è anche
considerevolmente illuminato e quasi redento da una chicca eccezionale alla
fine. Molto dopo che l'ultima stilla di sangue si è seccata e incrostata sul membro
morto, il nostro necrofilo non è ancora in grado di riposare in pace. Il film
termina con l'agghiacciante immagine della scarpa a tacco alto di una donna che
spinge una pala nella terra fresca della tomba, annunciando silenziosamente che,
davvero: "la morte non è che il principio".
Abbiamo paura di cosa potrebbe fare Buttgereit la prossima volta.
FINE