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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE ISSNN0436-0222

AnnoNLXIIINFasc.N1N-N2018

RemoNCaponi

CERTEZZA E PREVEDIBILITÀ
DELLA DISCIPLINA DEL
PROCESSO: IL PRINCIPIO
TEMPUS REGIT PROCESSUM
FA INGRESSO NELLA
GIURISPRUDENZA
COSTITUZIONALE

Estratto

MilanoN•NGiuffrèNEditore
182 Corte costituzionale

finanza pubblica (26), la Corte replica che «i costi del contenzioso» — sia in
atto che futuro — «non risultano tali da incidere in modo significativo sulla
sostenibilità del sistema previdenziale e sugli equilibri della finanza pub-
blica» (27).
Con ciò, oltre a fraintendere il «reale significato che i motivi imperativi
di interesse generale rivestono nell’argomentare della Corte EDU» (28), la
Corte sembra accreditare ancora una volta il peso decisivo dell’art. 81 Cost.
all’interno del sindacato su leggi retroattive in materia civile e di come, in
suo nome, il legislatore possa operare ora per allora sacrificando ogni altra
considerazione contraria di spessore costituzionale (29). A “conti fatti”, non
è allora da escludersi che le preoccupazioni circa l’impatto economico e
finanziario delle proprie decisioni possano, domani, mandare assolto anche
un intervento legislativo gemello siamese di quello oggi censurato.
Se così sarà, l’importanza della sent. n. 12/2018 ne uscirà fortemente
ridimensionata: da prototipo di un più efficace test per prendere le misure
costituzionali all’operare della legge nel tempo, si rivelerà un precedente
sgonfiato, come certi orologi flosci disegnati da Magritte o Dalì.

ANDREA PUGIOTTO

(26) «La disposizione censurata è stata adottata al fine di escludere effetti


onerosi, di entità molto rilevante, tali da compromettere gli equilibri di finanza
pubblica e gli impegni assunti dall’Italia con l’Unione europea in materia di conte-
nimento della spesa pensionistica» (§ 4.2 del ritenuto in fatto).
(27) Cfr. § 3.3 del considerato in diritto. Ivi, la Corte ha cura anche di precisare
che la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo «ha escluso che una misura di
carattere finanziario possa integrare un motivo imperativo di interesse generale
quando il suo impatto sia di scarsa entità» (il riferimento è alla sentenza 11 aprile
2006, Cabourdin c. Francia, §§ 37 e 38).
(28) Così M. BIGNAMI, La Corte EDU e le leggi retroattive, cit., 65 ed ivi — 66-71
— la dimostrazione della tesi secondo cui a Strasburgo tale clausola viene evocata
fuori da ogni tecnica di bilanciamento. Diversamente — secondo la giurisprudenza
costituzionale — spetta innanzitutto al legislatore nazionale e alla stessa Consulta
valutare la sussistenza di «motivi imperativi di interesse generale», con riferimento a
principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, nell’ambito del margine di apprezza-
mento riconosciuto ai singoli ordinamenti statali dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo: cfr., ex multis, le sentt. nn. 257/2011, 15 e 78/2012.
(29) Da ultimo, critiche severe sull’uso dell’art. 81 Cost. quale asso pigliatutto
nella più recente giurisprudenza costituzionale sono sviluppate da G. AZZARITI, La
crisi economica come parametro nei giudizi di costituzionalità, in R. ROMBOLI (a cura
di), Ricordando Alessandro Pizzorusso, cit., 387 ss.

SENTENZA (6 dicembre 2017) 30 gennaio 2018 n. 13 — Pres. Grossi — Red.


Prosperetti — F.I. s.r.l. — Unicredit s.p.a. — Pres. Cons. ministri.

[1552/420] Compromesso e arbitrato - Lodo - Impugnazione per nullità - Impugnazione per


violazione delle regole di diritto solo se espressamente disposta dalle parti o dalla legge -
Inapplicabilità del nuovo regime, secondo il diritto vivente, ai giudizi promossi dopo
Decisioni della Corte - n. 13 183

l’entrata in vigore del d.lgs. n. 40 del 2006 se azionati in forza di clausola compromissoria
stipulata anteriormente - Asserita violazione del principio di uguaglianza - Asserita
violazione del principio tempus regit processum - Asserita violazione del principio dell’au-
tonomia privata e della libertà contrattuale - Insussistenza dei vizi denunciati - Non
fondatezza della questione.
(Cost., artt. 3 e 41; c.p.c., art. 829, comma 3, come sostituito dall’art. 24 d.lgs. 2 febbraio
2006, n. 40).

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 829, comma


3, c.p.c., come sostituito dall’art. 24 d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, in combinato
disposto con l’art. 27, comma 4, del medesimo d.lgs., censurato, per violazione
degli artt. 3 e 41 Cost., nella parte in cui preclude la sindacabilità del lodo
arbitrale per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia,
in assenza di una espressa previsione delle parti o della legge, e dispone che,
secondo l’interpretazione costituente “diritto vivente”, il mutato regime di im-
pugnabilità del lodo non sia applicabile ai giudizi arbitrali promossi dopo il 2
marzo 2006, se azionati in forza di convenzioni di arbitrato stipulate prima della
riforma. Insussistente è la violazione del principio di uguaglianza in quanto
alla diversità di disciplina corrispondono situazioni non assimilabili: coloro che
hanno stipulato una clausola compromissoria nella vigenza del vecchio testo
dell’articolo impugnato — che prevedeva l’impugnabilità del lodo per violazione
delle regole di diritto, salvo che le parti non avessero autorizzato gli arbitri a
decidere secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile — sono in
una situazione obiettivamente diversa rispetto ai contraenti che, dopo il 2 marzo
2006, vigente la nuova regola, debbono esprimere una specifica volontà per
realizzare il medesimo obiettivo dell’impugnazione del lodo per violazione delle
regole di diritto. Il punto di riferimento ai fini della valutazione sulla identità
delle fattispecie non può, infatti, essere individuato solo nella data di proposi-
zione dell’arbitrato, in quanto così facendo si astrarrebbe la domanda dal suo
contesto, trascurando il quadro normativo in cui la volontà delle parti si è
formata e il ruolo che questa assume nell’arbitrato, come suo indefettibile
fondamento. Va, poi, riconosciuta la natura sostanziale e non meramente
processuale della regola posta dall’impugnato novellato articolo, a nulla rile-
vando che all’arbitrato sia attribuita natura giurisdizionale, poiché la natura
processuale dell’attività degli arbitri non esclude che sia pur sempre la conven-
zione di arbitrato a determinare i limiti di impugnabilità dei lodi. Insussistente
è poi la violazione del principio tempus regit processum, considerato che la
presenza di un’esplicita disciplina transitoria priva di rilevanza esclusiva il
riferimento alla natura processuale degli atti per risolvere le questioni di diritto
intertemporale. Insussistente è infine la violazione dell’art. 41 Cost., atteso che,
anche nel regime precedente alla riforma del 2006, l’autonomia negoziale si
poneva come momento fondamentale della disciplina dell’arbitrato, in quanto la
legge consentiva l’impugnazione del lodo, per violazione delle regole di diritto,
salva diversa volontà delle parti. Il mutamento di disciplina, che restringe i
motivi di impugnazione del lodo arbitrale non può, quindi, essere considerato
come fondato sulla scelta di attribuire un maggiore rilievo all’autonomia delle
stesse parti, visto che essa era pienamente salvaguardata anche nel vigore della
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precedente normativa (sentt. nn. 91, 340 del 2004, 108 del 2006, 117 del 2012,
155 del 2014) (1).

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 829, terzo comma, del codice
di procedura civile, come sostituito dall’art. 24 del decreto legislativo 2 febbraio 2006,
n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in
funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della L. 14
maggio 2005, n. 80), in combinato disposto con l’art. 27, comma 4, del medesimo
decreto legislativo, promosso dalla Corte di appello di Milano nel procedimento
vertente tra la Ferri Immobiliare srl e l’Unicredit spa, con ordinanza del 16 dicembre
2016, iscritta al n. 61 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 dicembre 2017 il Giudice relatore Giulio
Prosperetti.
RITENUTO IN FATTO. — 1. La Corte di appello di Milano, con ordinanza del 16
dicembre 2016, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 829, terzo comma, del codice di
procedura civile, come sostituito dall’art. 24 del decreto legislativo 2 febbraio 2006,
n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in
funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della L. 14
maggio 2005, n. 80), in combinato disposto con l’art. 27, comma 4, del medesimo
decreto legislativo, nell’interpretazione, che ritiene costituire «diritto vivente», enun-
ciata dalle sentenze della Corte di cassazione, sezioni unite, n. 9341, 9285 e 9284 del
9 maggio 2016.
L’art. 829, terzo comma, cod. proc. civ., nel testo attualmente vigente, sosti-
tuito al precedente dall’art. 24 del d.lgs. n. 40 del 2006, entrato in vigore il 2 marzo
2006, stabilisce che «[l]’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al
merito della controversia è ammessa se espressamente disposta dalle parti o dalla
legge. È ammessa in ogni caso l’impugnazione delle decisioni per contrarietà all’or-
dine pubblico», precludendo con ciò la sindacabilità del lodo arbitrale per violazione
delle regole di diritto relative al merito della controversia, in assenza di una espressa
previsione delle parti o della legge. Prima della riforma del 2006, la norma stabiliva,
invece, che l’impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto era sempre
ammessa, salvo che le parti avessero autorizzato gli arbitri a decidere secondo equità
o avessero dichiarato il lodo non impugnabile.
L’art. 27, comma 4, del d.lgs. n. 40 del 2006, recante la disciplina transitoria,
stabilisce che «[l]e disposizioni degli articoli 21, 22, 23, 24 e 25 si applicano ai
procedimenti arbitrali, nei quali la domanda di arbitrato è stata proposta successi-
vamente alla data di entrata in vigore del presente decreto».
Osserva il rimettente che, alla stregua dell’interpretazione indicata dalle men-
zionate sentenze gemelle delle sezioni unite, il mutato regime di impugnabilità del
lodo non sarebbe applicabile ai giudizi arbitrali promossi dopo il 2 marzo 2006, se
azionati in forza di convenzioni di arbitrato stipulate prima della riforma.
Ad avviso del rimettente sarebbe da escludere la possibilità di una diversa
interpretazione, costituzionalmente orientata, della norma censurata, in quanto le
citate sentenze delle sezioni unite «hanno i requisiti per essere qualificate “diritto
vivente”, come tale non suscettibile di diversa interpretazione, fatto salvo il sinda-
cato di costituzionalità».
Decisioni della Corte - n. 13 185

Dopo aver motivato in punto di rilevanza della questione, in ordine alla non
manifesta infondatezza, il rimettente evidenzia che la norma risultante dall’inter-
pretazione delle sezioni unite si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., per violazione
del principio di uguaglianza, comportando una disparità di trattamento tra situa-
zioni analoghe.
E ciò perché, a coloro che hanno, comunque, proposto domanda di arbitrato
dopo la data di entrata in vigore del d.lgs. n. 40 del 2006, verrebbe applicato un
diverso regime processuale, a seconda che la clausola compromissoria sia stata
stipulata prima o dopo di tale data, nonostante la nuova disciplina assuma rilievo
solo sul piano processuale, non incidendo in alcun modo sulla validità e sul contenuto
della clausola compromissoria su cui la domanda di arbitrato è fondata.
In altri termini, ad avviso del rimettente, il riferimento alla data di stipula della
clausola compromissoria non potrebbe, in alcun modo, giustificare l’applicazione di
un diverso regime a soggetti che hanno, comunque, proposto domanda di arbitrato
dopo il 2 marzo 2006.
La norma che scaturisce dall’intervento delle sezioni unite violerebbe, pertanto,
il principio tempus regit processum e il principio di uguaglianza, ponendo in compa-
razione due entità, nella sostanza, eterogenee: la clausola compromissoria (atto di
natura sostanziale) e l’atto d’impugnazione del lodo (atto di natura processuale).
La Corte di appello di Milano ritiene, inoltre, che la norma che scaturisce
dall’intervento delle sezioni unite, consentendo l’impugnazione del lodo per viola-
zione delle regole di diritto anche nel caso in cui le parti non hanno previsto
espressamente tale possibilità successivamente all’entrata in vigore del nuovo testo
dell’art. 829, terzo comma, cod. proc. civ., violi il principio dell’autonomia privata e
della libertà contrattuale stabilito dall’art. 41 Cost.

2. Con memoria depositata in data 23 maggio 2017, è intervenuto in giudizio


il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia
dichiarata non fondata.
L’interveniente osserva che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo,
l’orientamento espresso dalle sezioni unite della Corte di cassazione offre un’inter-
pretazione costituzionalmente orientata delle norme impugnate, consentendo alle
parti che, alla luce del precedente regime, non avevano inserito nella convenzione di
arbitrato alcuna specifica clausola per consentire l’impugnazione del lodo per viola-
zione delle regole di diritto, di non essere sottratte a tale facoltà in conseguenza delle
modifiche della normativa intervenute nel 2006.
Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, la diversa interpretazione
sostenuta dal rimettente, si porrebbe, anzi, in aperto contrasto con gli artt. 3 e 24
Cost.
Sotto il primo profilo, infatti, tale interpretazione determinerebbe una irragio-
nevole disparità di trattamento tra quanti hanno stipulato la clausola arbitrale dopo
la riforma, nella consapevolezza del significato del loro silenzio nel nuovo contesto
normativo, e quanti l’hanno, invece, sottoscritta prima, quando al silenzio era
attribuito dalla legge un opposto significato.
Sotto il secondo profilo, detta interpretazione violerebbe il diritto di difesa delle
parti che abbiano stipulato la convenzione di arbitrato prima del 2 marzo 2006, in
quanto le priverebbe della facoltà di impugnare il lodo per errores juris in iudicando
che esse, pur con il loro silenzio, avevano voluto riconoscersi alla luce della prece-
dente disciplina contenuta nell’art. 829, terzo comma, cod. proc. civ.
Per queste ragioni, la questione di costituzionalità, ad avviso del Presidente del
Consiglio dei ministri, dovrebbe, quindi, essere dichiarata non fondata.
186 Corte costituzionale

* * *

CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. La Corte di appello di Milano dubita della legit-


timità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, dell’art. 829,
terzo comma, del codice di procedura civile, come sostituito dall’art. 24 del decreto
legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia
di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’arti-
colo 1, comma 2, della L. 14 maggio 2005, n. 80), in combinato disposto con l’art. 27,
comma 4, del medesimo decreto legislativo, nell’interpretazione, che ritiene costituire
«diritto vivente», enunciata dalle sentenze della Corte di cassazione, sezioni unite, n.
9341, 9285 e 9284 del 9 maggio 2016.
Il problema interpretativo origina dalla disposizione transitoria contenuta nel
citato art. 27, secondo cui «[l]e disposizioni degli articoli 21, 22, 23, 24 e 25 si
applicano ai procedimenti arbitrali, nei quali la domanda di arbitrato è stata
proposta successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto».
Osserva il rimettente che, alla stregua dell’interpretazione indicata dalle men-
zionate sentenze gemelle delle sezioni unite, il mutato regime di impugnabilità del
lodo non sarebbe applicabile ai giudizi arbitrali promossi dopo il 2 marzo 2006, se
azionati in forza di convenzione di arbitrato stipulata prima della riforma.
Ad avviso del rimettente sarebbe da escludere la possibilità di una diversa
interpretazione, costituzionalmente orientata, della norma censurata in quanto le
citate sentenze delle sezioni unite «hanno i requisiti per essere qualificate “diritto
vivente”, come tale non suscettibile di diversa interpretazione, fatto salvo il sinda-
cato di costituzionalità».
Ad avviso del rimettente, la norma che scaturisce dall’intervento delle sezioni
unite violerebbe il principio tempus regit processum e il principio di uguaglianza, in
quanto a coloro che hanno, comunque, proposto domanda di arbitrato dopo l’entrata
in vigore del d.lgs. n. 40 del 2006 verrebbe applicato un diverso regime processuale,
a seconda che la clausola compromissoria sia stata stipulata prima o dopo di tale
data, nonostante la circostanza che la nuova disciplina non incida, in alcun modo,
sulla validità e sul contenuto della clausola compromissoria su cui l’arbitrato risulta
fondato.
Secondo il giudice a quo, infatti, alla nuova disciplina posta dall’art. 24 del d.lgs.
n. 40 del 2006, che ha novellato l’art. 829, terzo comma, cod. proc. civ., dovrebbe
riconoscersi un rilievo esclusivamente processuale e, quindi, darle immediata appli-
cazione ai sensi del principio tempus regit processum.
La Corte di appello di Milano ritiene, inoltre, che la norma che scaturisce
dall’intervento delle sezioni unite, consentendo l’impugnazione del lodo per viola-
zione delle regole di diritto anche nei casi in cui le parti non hanno previsto
espressamente tale possibilità, successivamente all’entrata in vigore del nuovo testo
dell’art. 829, terzo comma, cod. proc. civ., violi il principio dell’autonomia privata e
della libertà contrattuale di cui all’art. 41 Cost.

2. La questione non è fondata.

2.1. Preliminarmente, va osservato che il giudice a quo ritiene ostativa ad


un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata l’esi-
stenza di un “diritto vivente”, di cui sarebbero espressione le richiamate sentenze
delle sezioni unite della Corte di cassazione.
L’interpretazione, della cui legittimità dubita il rimettente, corrisponde a un
orientamento delle sezioni unite della Corte di cassazione, espresso con tre sentenze,
per cui, nel caso in questione, può ritenersi che ricorra un’ipotesi di “diritto vivente”,
Decisioni della Corte - n. 13 187

a cui il giudice a quo può uniformarsi o meno (ex plurimis, sentenze n. 117 del 2012
e n. 91 del 2004), restando però libero, nel secondo caso, di assumere il “diritto
vivente” ad oggetto delle proprie censure.

2.2. Secondo il costante orientamento di questa Corte, la violazione del prin-


cipio di uguaglianza sussiste solo qualora situazioni sostanzialmente identiche siano
disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non, invece, quando alla diversità
di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili (ex plurimis, sentenze n. 155
del 2014, n. 108 del 2006 e n. 340 del 2004).
Tali non risultano, nel caso in esame, le fattispecie poste a confronto, contra-
riamente all’avviso del giudice rimettente.
Ed, invero, coloro che hanno stipulato una clausola compromissoria nella
vigenza del vecchio testo dell’art. 829, terzo comma, cod. proc. civ., che prevedeva
l’impugnabilità del lodo per violazione delle regole di diritto, salvo che le parti non
avessero autorizzato gli arbitri a decidere secondo equità o avessero dichiarato il lodo
non impugnabile, sono in una situazione obiettivamente diversa rispetto ai con-
traenti che, dopo il 2 marzo del 2006, vigente la nuova regola posta dall’art. 24 del
d.lgs. 40 del 2006, debbono esprimere una specifica volontà per realizzare il medesimo
obiettivo dell’impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto.
Il punto di riferimento ai fini della valutazione sulla identità delle fattispecie
non può, infatti, essere individuato solo nella data di proposizione dell’arbitrato, in
quanto così facendo si astrarrebbe la domanda dal suo contesto, trascurando il
quadro normativo in cui la volontà delle parti si è formata e il ruolo che questa
assume nell’arbitrato, come suo indefettibile fondamento.
Va, poi, riconosciuta la natura sostanziale e non meramente processuale della
regola posta dal novellato art. 829, terzo comma, cod. proc. civ., a nulla rilevando che
all’arbitrato sia attribuita natura giurisdizionale, poiché, come rilevato dalle sezioni
unite della Corte di cassazione nelle richiamate sentenze, «la natura processuale
dell’attività degli arbitri non esclude che sia pur sempre la convenzione di arbitrato
a determinare i limiti di impugnabilità dei lodi» (Corte di cassazione, sezioni unite, 9
maggio 2016, n. 9341, 9285 e 9284).
Quanto, poi, alla ritenuta violazione del principio tempus regit processum, la
censura deve, pure, ritenersi infondata, considerato che, come rilevato dalle sezioni
unite, «la presenza di un’esplicita disciplina transitoria priva di rilevanza esclusiva il
riferimento alla natura processuale degli atti per risolvere le questioni di diritto
intertemporale» (Corte di cassazione, sezioni unite, 9 maggio 2016, n. 9341, 9285 e
9284) e che, quindi, l’interpretazione offerta dalle citate pronunce della Corte di
cassazione appare pienamente conforme alla disciplina transitoria, regolata dall’art.
27, comma 4, del d.lgs. n. 40 del 2006.

2.3. Con riferimento all’asserita violazione dell’art. 41 Cost., la questione deve,


pure, ritenersi non fondata.
Anche nel regime precedente alla riforma del 2006, l’autonomia negoziale si
poneva come momento fondamentale della disciplina dell’arbitrato, in quanto la
legge consentiva l’impugnazione del lodo, per violazione delle regole di diritto, salva
diversa volontà delle parti.
Il mutamento di disciplina, che restringe i motivi di impugnazione del lodo
arbitrale non può, quindi, essere considerato come fondato sulla scelta di attribuire
un maggiore rilievo all’autonomia delle stesse parti, visto che essa era pienamente
salvaguardata anche nel vigore della precedente normativa.
188 Corte costituzionale

Si deve, anzi, ritenere che l’interpretazione avanzata, a fronte del nuovo regime
di impugnazione del lodo, dalle sezioni unite della Corte di cassazione tuteli, proprio,
quell’autonomia delle parti che, invece, il giudice rimettente ritiene violata.

3. Pertanto, la questione di legittimità costituzionale, sollevata dall’ordinanza


di rimessione indicata in epigrafe, deve essere dichiarata non fondata.

P.Q.M. LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 829, terzo


comma, del codice di procedura civile, come sostituito dall’art. 24 del decreto legislativo 2
febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di
cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2,
della L. 14 maggio 2005, n. 80), in combinato disposto con l’art. 27, comma 4, del
medesimo decreto legislativo, sollevata dalla Corte di appello di Milano, in riferimento
agli artt. 3 e 41 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

L’ordinanza che ha sollevato la questione è pubblicato in G.U. n. 18 del 3


maggio 2017, 1ª serie spec.

(1) Sulla libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost., cfr. nota
redazionale alla sent. n. 210 del 2015. Poi, cfr. sentt. nn. 203 e 267 del 2016; 69
e 242 del 2017.
Circa il controllo di eguaglianza, anche con riferimento ai profili del tertium
comparationis e della disparità di trattamento, cfr. i richiami contenuti nella
nota alla sent. n. 11 del 2018.
Sui problemi relativi al c.d. diritto vivente, cfr. nota alla sent. n. 220 del
2015. Poi, cfr. sentt. nn. 179, 200 e 220 del 2016; 84, 122 e 255 del 2017.

A commento della presente sentenza pubblichiamo un’osservazione del


prof. Remo Caponi.

Certezza e prevedibilità della disciplina del processo: il principio tempus regit


processum fa ingresso nella giurisprudenza costituzionale.
1. In un saggio del 2006 si era argomentata l’esistenza del principio
secondo il quale non si cambiano le regole del processo quando esso è in
corso. Inoltre, si era coniata una formula per denotarlo: tempus regit proces-
sum (1). Questa scelta terminologica era parsa opportuna in considerazione

(1) Cfr. R. CAPONI, Tempus regit processum - Un appunto sull’efficacia delle


norme processuali nel tempo, in Riv. dir. proc. 2006, 449-462. Per una versione
anteriore, quasi identica, v. ID., L’efficacia della legge processuale nel tempo in Italia,
in Estudos de direito processual civil, Homenagem ao Professor Egas Dirceu Moniz de
Aragão, São Paulo 2005, 67-77. Avevo già presentato la versione originaria all’Incon-
tro di studi del CSM su Diritti, processo, tempo, Frascati, 6-18 novembre 2000. Più
recentemente sono ritornato su questo principio in ID., Tempus regit processum
ovvero autonomia e certezza del diritto processuale civile, in Giur. it. 2007, 689, nonché
in ID., Irretroattività del mutamento di giurisprudenza sull’interpretazione di norme
Decisioni della Corte - n. 13 189

dell’ambito di applicazione saliente, ancorché non esclusivo, del principio: il


diritto intertemporale. La variazione rispetto alla formula tradizionale tem-
pus regit actum non è casuale, ma connota piuttosto una contrapposizione.
Nell’ordinamento italiano, il principio tempus regit processum può tro-
vare il suo fondamento costituzionale, in relazione ai processi dinanzi ai
giudici statali, nell’art. 111, comma 1 Cost. (2), nel suo corollario diretto ad
assicurare la determinazione previa delle regole processuali. Un equivalente
principio, sulla base del principio dell’autonomia e libertà contrattuale (art.
41 Cost.), è da estendere ai processi dinanzi agli arbitri (3), poiché i valori che
richiedono di essere protetti dalla Costituzione, in base alla garanzia del
giusto processo (statale o arbitrale), sono la certezza e prevedibilità delle
regole processuali, indipendentemente dal fatto che queste ultime rinven-
gano la loro fonte nella legge o nell’autonomia privata (4).
La certezza e prevedibilità della disciplina processuale vale in relazione
all’intero processo (o meglio, in relazione agli interi gradi di esso), perché, se
vale solo in relazione ai singoli atti processuali, è garantita in modo insuffi-
ciente. Il processo è attività unitaria, cui poco si addice la frammentazione
conseguente all’avvicendarsi di modifiche normative. Perciò conta tempus
regit processum, non tanto tempus regit actum.
Nella giustizia arbitrale è chiamato a valere un principio equivalente,
ma non identico, poiché il momento del tempo cui si deve ancorare in linea
di principio la disciplina processuale non è l’inizio del processo, ma il
momento in cui le parti hanno concordato la scelta della via arbitrale, in
funzione di tutela della stabilità della disciplina tenuta presente da costoro,
quindi in funzione di tutela dell’autonomia e libertà contrattuale (art. 41
Cost.). Sono peraltro salve diverse determinazioni delle parti o ragioni di
efficienza, ad esempio di istituzioni che amministrano l’arbitrato (5), che
suggeriscano alla legge, comunque vigente al tempo della scelta della via
arbitrale, di adottare la soluzione opposta, come accade con l’art. 832,
comma 3 c.p.c. (6).

processuali e retroattività delle pronunce di accoglimento della Corte costituzionale:


appunti in margine a una pretesa contrapposizione, in questa Rivista 2017, 1779-1784.
(2) «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge».
(3) Per una recente ampia rimeditazione, v. G. RUFFINI, L’arbitrato come
equivalente della giurisdizione statuale: linee evolutive, in Riv. dir. proc. 2018, 1 ss. Sul
punto specifico di cui al testo, v. in particolare p. 51, ove si sostiene che la
predeterminazione e prevedibilità delle regole del processo arbitrale rinviene il
proprio fondamento costituzionale nell’art. 24 Cost.
(4) Pertanto la prassi che riconosce agli arbitri il potere di fissare le norme
processuali non solo all’inizio, ma in tutto il corso del processo, è fonte di perplessità,
già fatte proprie da E. FAZZALARI, L’arbitrato, Torino 1997, 56, ove si suggerisce che,
in caso di assenza o lacunosità delle determinazioni iniziali delle parti e degli arbitri,
debbano applicarsi in via analogica le regole del codice di procedura civile italiano
compatibili con l’arbitrato.
(5) Cfr. R. CAPONI, L’arbitrato amministrato dalle camere di commercio in Italia,
in Riv. arbitr. 2000, 663-697.
(6) «Se le parti non hanno diversamente convenuto, si applica il regolamento
in vigore al momento in cui il procedimento arbitrale ha inizio».
190 Corte costituzionale

Con Corte cost. n. 13 del 2018 (7), il principio tempus regit processum
entra per la prima volta nella giurisprudenza costituzionale. Per valutare il
senso di questa operazione, occorre ricostruire la linea di sviluppo del
principio, a partire dall’ambito in cui esso è nato.
2. Il nodo centrale del diritto intertemporale è il trattamento da
riservare alle situazioni pendenti al momento dell’entrata in vigore del
nuovo diritto. Tradizionalmente, si possono enucleare essenzialmente due
orientamenti contrapposti (8).
Il primo, prevalente nel secolo XIX e oggi minoritario, guarda con
particolare favore alla conservazione dei valori giuridici e identifica il prin-
cipio di irretroattività con il rispetto dei diritti quesiti. Da tale concezione
discende tendenzialmente che: (a) una situazione di fatto che evolve verso
il perfezionamento di una fattispecie prevista dalla norma anteriore può
essere riqualificata da una norma posteriore; mentre, viceversa: (b) un
effetto giuridico astratto (una regola di condotta), sorto alla stregua della
norma anteriore, deve concretizzarsi così come prefigurato da questa anche
dopo l’entrata in vigore della norma posteriore; nonché (c) un effetto
giuridico concreto (un contegno umano conforme alla regola di condotta
posta dalla norma anteriore), che ha iniziato a svolgersi prima dell’entrata in
vigore della norma posteriore, deve dispiegarsi anche in futuro così come
prefigurato dalla norma anteriore. Era il mondo di ieri, immortalato nelle
pagine di Stefan Zweig: «Se tento di trovare una formula comoda per definire
quel tempo che precedette la Prima guerra mondiale, il tempo in cui sono
cresciuto, credo di essere il più conciso possibile dicendo: fu l’età d’oro della
sicurezza» (9).
Il secondo orientamento, maturato successivamente, guarda con più
favore al mutamento e identifica il principio di irretroattività con il semplice
rispetto dei fatti compiuti (per usare l’etichetta con cui esso è maggiormente
conosciuto, soprattutto grazie alla cultura giuridica francese) (10). Tale
orientamento rivolge al primo la seguente critica: il rispetto dei diritti
acquisiti implica un differimento di efficacia della nuova disciplina, poiché le
vecchie norme sopravviverebbero non solo per valutare i contegni passati,
ma altresì per regolare i contegni futuri con riferimento alle situazioni

(7) Per un ampio commento, v. E. CURRAO, La Corte costituzionale e il tempus


regit ... A proposito di lodi arbitrali e regole di impugnazione, in Forum di Quaderni
Costituzionali.
(8) Per i riferimenti, v. R. CAPONI, La nozione di retroattività della legge, in
questa Rivista 1990, 1332-1368.
(9) Cfr. S. ZWEIG, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, trad. it. di L.
Mazzucchetti, citato dall’edizione digitale.
(10) Un contributo importante all’elaborazione della teoria del fatto compiuto
risale a G. VAREILLES-SOMMIÈRES, Une théorie nouvelle sur la rétroactivité des lois, in
Revue critique de législation et de jurisprudence 1893, 444 ss., ma nel testo la formula
non deve essere riferita in particolare alla teoria del Vareilles-Sommières, ma più
genericamente alle teorie che si contrappongono al principio del rispetto dei diritti
acquisiti. Un punto di riferimento in Italia è N. COVIELLO, Manuale di diritto civile
italiano, II ed., Milano-Roma-Napoli 1915, 108 ss.
Decisioni della Corte - n. 13 191

giuridiche già sorte al momento dell’entrata in vigore delle nuove norme. Ciò
non sarebbe conciliabile con l’efficacia immediata di queste ultime, che
invece sono chiamate a disciplinare integralmente le situazioni pendenti.
L’intento di questo secondo orientamento è di estendere l’incidenza delle
norme posteriori sulle situazioni pendenti, pervenendo a un risultato ten-
denzialmente opposto a quello cui aspira il rispetto dei diritti acquisiti in
relazione alle situazioni sub (b) e (c), in precedenza enucleate, sebbene il
criterio del fatto compiuto dischiuda indagini con sviluppi ed esiti prevedi-
bili e uniformi solo nei casi più semplici.
3. Rispetto al momento dell’entrata in vigore di una nuova disciplina
processuale, le tipiche situazioni pendenti sono evidentemente i processi in
corso. Il processo è una specie di procedimento, cioè una sequenza di norme
giuridiche (o di fattispecie o di effetti giuridici) coordinate alla produzione di
un atto finale e di un correlativo effetto giuridico finale. La nota minima
della sequenza procedimentale, comune alle principali descrizioni circolanti
in dottrina, è il riferimento allo schema secondo cui la fattispecie prevista
dalla norma successiva della sequenza è integrata dagli effetti prodotti
dall’attuazione della norma precedente. In altri termini: l’effetto giuridico
previsto dalla norma successiva della serie vede sempre la sua fattispecie
costitutiva integrata dalla componente di fatto dell’effetto giuridico previsto
dalla norma precedente e così via fino al perfezionamento di una fattispecie
che mette capo all’effetto finale del procedimento.
Data questa struttura, dal punto di vista del diritto intertemporale, il
possibile trattamento del processo non sfugge a un’alternativa equivalente a
quella tra rispetto dei diritti acquisiti e rispetto dei fatti compiuti. L’impo-
stazione tradizionale muove da quest’ultimo, che viene concretizzato nel
canone tempus regit actum. Secondo la classica formulazione di Sandulli, ciò
comporta che ciascun atto della sequenza procedimentale «sia per ciò che
riguarda il regime della sua essenza, della sua struttura e dei suoi requisiti,
sia per ciò che riguarda il regime delle sue conseguenze, [debba essere] di
massima sottoposto alla legge del tempo in cui venne posto in vita» (11). Ciò
si concilia con l’efficacia immediata delle nuove norme processuali.
Il canone tempus regit processum guarda invece con rinnovato interesse
al principio del rispetto dei diritti quesiti, prospettando che l’instaurazione
del processo generi una specie di diritto processuale acquisito al manteni-
mento intatto delle regole processuali vigenti al momento della proposizione
della domanda, generalizzando così in parte qua la disposizione sulla perpe-
tuatiojurisdictionis (art. 5 c.p.c.) (12).
Da un punto di vista storico, si tratta indubbiamente di un’operazione
di restaurazione.

(11) Così, A.M. SANDULLI, Il procedimento amministrativo (1940), rist., Milano


1964, 31.
(12) «La giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge
vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda
e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato
medesimo».
192 Corte costituzionale

Quando oggi si parla di efficacia delle norme nel tempo, la prospettiva


si incentra sulla norma giuridica. Si muove dall’ambito di efficacia di
quest’ultima, per individuare poi le situazioni della vita che vi ricadono.
Questa impostazione non è l’unica possibile. Savigny sottolineava che lo
studio della successione delle norme nel tempo può essere svolto da due punti
di vista differenti: o, appunto, si muove dall’ambito di efficacia delle norme
per individuare poi le situazioni che vi ricadono; oppure, viceversa, ci si
rappresenta dapprima la situazione da disciplinare per cercare poi la regola
di diritto da applicare (13).
Si parla frequentemente di efficacia della legge processuale nel tempo;
ma si può parlare anche, quindi, del tempo del processo e della sua disciplina.
Seguendo la seconda prospettiva, nell’affrontare i problemi di diritto
intertemporale non conviene porsi tanto dall’angolo visuale di un’astratta
distinzione tra retroattività e irretroattività (e delle varianti cui essa ha dato
luogo), quanto da quello, più concreto, degli interessi protetti dalla norma
anteriore che, di volta in volta, sono toccati o lasciati intatti dalla norma
posteriore (14). Con ciò si restituisce profondità storica all’indagine, che si
tende spesso a limitare all’epoca moderna. La limitazione è in un certo senso
insita nell’impostazione che fa perno sull’efficacia temporale della legge, in
quanto atto di volontà dei detentori del potere politico nello Stato moderno.
Si tratta di uno dei tanti frutti della svolta che la storia giuridica dell’Europa
continentale ha conosciuto alla fine del Settecento con lo snaturamento della
dimensione giuridica e la puntigliosa realizzazione di un monopolio del
diritto da parte dello Stato (15).
Se ci si rappresenta dapprima la situazione da disciplinare e poi si
ricerca la regola di diritto da applicare, viene in considerazione prima il
processo. Il processo civile viene in considerazione prima della legge non solo
nel discorso del giurista, ma anche nella storia delle istituzioni giuridiche. Il
processo come strumento istituzionale di risoluzione di composizione delle
controversie nasce evidentemente molto prima dello Stato moderno. Il
legame tra Stato moderno e funzione di rendere giustizia è infatti la perpe-
tuazione di un preciso disegno, maturato in quel profondo mutamento della
temperie culturale e politica che, fra il secolo XVII e il secolo XVIII, segna
il progressivo affermarsi nell’Europa continentale dei moderni ordinamenti
processuali. Quel momento di svolta, se da un lato fu animato dalla tensione
a rimediare alla degenerazione del processo romano-canonico e ad apprestare
certezza alla disciplina del processo, dall’altro relegò al margine un’idea

(13) F.C. VON SAVIGNY, System des heutigen römischen Rechts, vol. VIII, Berlin
1849, 1 ss.
(14) Per approfondimenti si rinvia a R. CAPONI, La nozione di retroattività della
legge, cit., passim, nonché ID., L’efficacia del giudicato civile nel tempo, Milano 1991,
178.
(15) Cfr. P. GROSSI, Scienza giuridica e legislazione nella esperienza attuale del
diritto, in Riv. dir. civ. 1997, 175 ss. Si tratta di un tema ricorrente, ma continua-
mente arricchito di nuovi scorci, nella ricerca di Paolo Grossi, che ha recentemente
parlato di un “ritorno al diritto” come manifestazione della crisi dello statalismo e
legalismo moderni: cfr. ID., Ritorno al diritto, Bari 2015; ID., Il giudice civile: un
interprete?, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2016, 1135 ss.
Decisioni della Corte - n. 13 193

feconda di giustizia astatuale, resa in un processo — l’ordo iudiciarius


medievale — i cui principi non provenivano dalla volontà del legislatore, ma
dalle regole della retorica e dell’etica (16). Tali regole non erano imposte da
un’autorità superiore ed esterna, ma erano proprie della stessa comunità cui
appartenevano i protagonisti della vicenda processuale. Il disegno politico
dello Stato moderno fu animato invece dal disegno di affidare la disciplina
del processo a un’autorità superiore ed esterna rispetto ai soggetti della
vicenda processuale. Con le parole di Nicola Picardi: «fino all’età moderna la
procedura era considerata manifestazione di una ragione pratica e sociale,
che si era realizzata nel tempo attraverso la collaborazione della prassi dei
tribunali e della dottrina [...]. Con la formazione degli Stati moderni, pur fra
notevoli resistenze, si andò invece affermando l’opposto principio della
statualità del processo: il sovrano rivendicò il monopolio della legislazione in
materia processuale» (17).
Certamente, fra quelle regole di etica processuale anteriori all’età mo-
derna ve n’era una secondo la quale non si cambiano le regole del processo
quando esso è in corso. Le regole del contraddittorio dovevano essere
previamente conoscibili dalle parti ed essere poste al riparo dall’alea di
modificazioni sopravvenute.
Lo stesso risultato merita di essere accreditato al giorno d’oggi. Non si
può ammettere infatti che questa delicata operazione che si compie nel
processo («la vera e sola ricerca del tempo perduto che fa l’esperienza pratica:
il tempo che si ripresenta, il fiume che risale verso la sorgente, la vita che si
coglie nella sua lacerazione e si reintegra nella sua unità» per richiamare le
celebri parole di Giuseppe Capograssi) (18) possa essere compiuta oggi sotto
l’incubo di nuove regole del procedere immediatamente applicabili. L’intrin-
seca ragionevolezza del principio secondo cui non si cambiano le regole del
processo quando esso è in corso è stata schiacciata dalla statualizzazione
della procedura, nonché da ultimo, specialmente nell’ordinamento italiano,
dall’interventismo di un legislatore, al quale solo in casi eccezionali si può
riconoscere ormai una sufficiente attenzione verso la certezza e prevedibilità
della disciplina del processo (19).
Quella ragionevolezza merita di essere recuperata, ritenendo che essa
permei di sé l’interpretazione dell’art. 11 delle Preleggi con riferimento alle
leggi processuali: se la legge non dispone che per l’avvenire, la legge proces-

(16) Cfr. A. GIULIANI, Ordine isonomico ed ordine asimmetrico: “nuova retorica”


e teoria del processo, in Sociologia del diritto, 1986, 81 ss.; ID., L’ordo judiciarius
medioevale (riflessioni su un modello puro di ordine isonomico), in Riv. dir. proc. 1988,
598 ss., 613. Sulle ricerche di Giuliani e di Nicola Picardi, v. le osservazioni di K. W.
NÖRR, Alcuni momenti della storiografia del diritto processuale, in Riv. dir. proc. 2004,
1 ss.
(17) Così, N. PICARDI, voce Processo (dir. moderno), in Enc. dir., vol. XXXVI,
Milano 1987, 101 ss., specie 114 ss., con ampia indicazione delle fonti.
(18) G. CAPOGRASSI, Giudizio processo scienza verità, in Riv. dir. proc. 1950, 1 ss.,
5.
(19) Per una riflessione su aspetti collegati a quelli trattati nel testo, v. R.
CAPONI, In tema di autonomia e certezza nella disciplina del processo civile, in Foro it.
2006, I, 136.
194 Corte costituzionale

suale non dispone che per i processi futuri (o meglio: per i futuri gradi di
giudizio).
A questa stregua si può profilare una netta distinzione, per quanto
riguarda i principi di diritto intertemporale, tra intervento di nuove norme
sostanziali da applicare alla fattispecie dedotta nel giudizio (civile) e inter-
vento di nuove norme processuali. Per quanto attiene alle norme sostanziali,
vale per esse ciò che vale per i fatti sopravvenuti. Poiché il processo culmina
in un giudizio in cui si applica la norma al fatto, l’economia dei giudizi
impone che il materiale dell’accertamento sia il più recente possibile, per
evitare di mettere in circolazione una decisione nata già vecchia, foriera di
nuove dispute anziché della risoluzione della controversia.
Per quanto riguarda le norme processuali, la stessa economia dei giudizi
gioca in senso opposto: nel senso che l’assetto predisposto in considerazione
di un certo modus procedendi tendenzialmente non debba essere sconvolto da
norme sopravvenute, che rimettono inevitabilmente in discussione l’unità e
la coerenza dell’intera attività processuale, cioè l’unità e la coerenza dell’at-
tività processuale già svolta con quella futura.
4. Come si è già anticipato, il principio di diritto intertemporale tempus
regit processum rinviene il proprio fondamento costituzionale nella garanzia
del giusto processo.
Un notevole sostegno a questa soluzione deriva dalla giurisprudenza del
Tribunale costituzionale federale tedesco, che impiega in modo calibrato una
garanzia costituzionale più comprensiva, quella della certezza del diritto,
sotto il risvolto di una circostanziata tutela del legittimo affidamento nel
perdurare della vecchia disciplina processuale (20).
Questa impostazione merita di essere segnalata con favore anche al di là
del diritto intertemporale. La certezza del diritto può e deve essere perse-
guita al massimo grado nella disciplina processuale, proprio in considera-
zione del carattere strumentale del processo civile nei confronti del diritto
sostanziale. In altri termini, il rischio che l’errore processuale cagioni al
titolare la perdita del diritto sostanziale dedotto in giudizio deve essere
confinato entro il minimo indispensabile (auspicabilmente esso dovrebbe
essere del tutto eliminato) (21). La certezza della disciplina processuale deve
essere perseguita al massimo grado specialmente al giorno d’oggi: quanto più
è inevitabile che le regole di condotta sul piano sostanziale diventino
mutevoli, difficili e complicate da individuarsi, tanto più queste difficoltà
devono essere controbilanciate, in caso di controversia, da una disciplina
processuale che aspiri ad essere semplice e certa. La fisiologica incertezza del
diritto sostanziale deve essere compensata dalla certezza del diritto proces-

(20) In questa direzione, v. la valutazione della giurisprudenza del Bundesge-


richtshof compiuta da W. LÜKE, Tempus regit actum. Anmerkungen zur zeitlichen
Geltung von Verfahrensrecht, in Festschrift für G. Lüke, München 1997, 391 ss., specie
400 ss.
(21) Cfr. BAUR, Richtermacht und Formalismus im Verfahrensrecht, in Sum-
mum ius summa iniuria, Tübingen 1963, 97 ss.
Decisioni della Corte - n. 13 195

suale, in funzione di garanzia dei poteri e doveri delle parti (22). Perciò deve
essere evitata la moltiplicazione legislativa dei riti processuali non sorretta
da adeguate giustificazioni attinenti alla tipologia delle controversie. Perciò
l’opportunità di mutare giurisprudenza in materia di interpretazione delle
norme processuali, a situazione legislativa immutata, deve essere valutata
con particolare rigore. In sintesi, nella diversità dei loro rispettivi ruoli
processuali, avvocati e giudici devono poter riservare le loro energie alla
tutela giurisdizionale degli interessi protetti dalle norme del diritto sostan-
ziale ed evitare di trascorrere buona parte del loro tempo di lavoro a
interrogarsi sul possibile contenuto di una norma processuale, nonché a
risolvere i problemi sollevati da una difficile attuazione di quest’ultima.
5. Ritornando a riflettere sul principio tempus regit processum, si può
comprendere che crei talvolta inconvenienti un principio di diritto intertem-
porale così impegnativo, sia per il suo contenuto di conservazione dei valori
giuridico-processuali (i gradi di giudizio in corso al tempo dell’entrata in
vigore di nuove norme processuali non sono soggetti all’impero di queste
ultime), sia per la resistenza che gli deriva dal suo fondamento costituzio-
nale.
Certamente il principio tempus regit processum, come ogni principio, può
incontrare delle limitazioni, in favore dell’applicazione immediata di nuove
norme processuali, ma ciò accade unicamente quando tali limitazioni si
aggancino a garanzie costituzionali che possano delimitare, in via di bilan-
ciamento, il valore costituzionale sotteso al principio tempus regit processum.
Ciò accade per esempio con riferimento alla cosiddetta efficacia retroattiva
delle pronunce di accoglimento della Corte costituzionale (in materia pro-
cessuale) (23), mentre ostacoli dovrebbero invece frapporsi — di nuovo in
coerenza con il principio — all’efficacia retroattiva del mutamento di giuri-
sprudenza sull’interpretazione di norme processuali (24).
In linea generale, esigenze di ordine pubblico processuale, ancorate alla
garanzia costituzionale di efficienza del processo (argomentabile sulla base
del principio della ragionevole durata: art. 111, comma 2 Cost.) possono
imporre di applicare le nuove norme ai processi in corso. In tal caso soccorre
la ponderata adozione di norme di diritto transitorio.

(22) In questo senso, con riferimento al processo minorile, A. PROTO PISANI,


Per un nuovo modello di processo minorile, in Foro it. 1998, V, 124 ss.
(23) Peraltro, nella prospettiva delineata nel testo si possono discutere e
apprezzare, in relazione alla materia processuale, i nuovi scorci scaturenti da Corte
cost. n. 10 del 2015.
(24) Cfr. A. PROTO PISANI, Un nuovo principio generale del processo, in Foro it.
2011, I, 117: «sembra che dal combinato disposto: a) dell’art. 111 Cost. in tema di
predeterminazione delle regole processuali, b) degli artt. 153 c.p.c. in tema di
rimessione in termini e 37 nuovo cod. proc. amm. in tema di errore scusabile, c) e del
principio dell’affidamento sia agevole ma anche doveroso desumere il seguente
principio generale: il compimento di un atto processuale secondo le forme e i termini
previsti dal “diritto vivente” al momento in cui l’atto è compiuto, comporta la
validità dell’atto stesso in caso di successivo mutamento giurisprudenziale in tema di
quelle forme e di quei termini».
196 Corte costituzionale

La distinzione tra norme di diritto intertemporale, inteso come quel


complesso di principi e regole che disciplinano la successione delle norme nel
tempo, e norme di diritto transitorio, inteso come insieme di prescrizioni
dettate di volta in volta per regolare gli accadimenti compresi nel periodo in
cui si verifica un mutamento legislativo, rivela qui tutta la sua utilità.
Non solo: il passaggio al principio tempus regit processum come canone
fondamentale di diritto intertemporale responsabilizza molto di più il legi-
slatore nell’adozione di una calibrata disciplina transitoria in vista dell’ap-
plicazione delle nuove norme ai processi pendenti (ove ne ravveda la
necessità costituzionale), di quanto non faccia attualmente il principio
tempus regit actum riferito al singolo atto della sequenza processuale, che
assicura automaticamente al legislatore il risultato per lui più interessante —
l’applicabilità delle nuove norme ai processi in corso — talché, quanto ai
dettagli del passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina, troppo spesso il
legislatore si permette di dire a giudici e avvocati di risolvere il problema da
soli.
6. Il principio tempus regit processum ha ricevuto nel complesso una
notevole attenzione, pur nella diversità di valutazioni (25). Esso ha orientato
l’adozione di importanti norme transitorie (26), nonché soluzioni giurispru-
denziali (27), che non si sono arrestate dinanzi alle obiezioni talvolta mani-

(25) Secondo il dozzinale metodo di ricerca dei tempi contemporanei, il


motore di ricerca Google, la ricerca per espressione esatta “tempus regit processum”
registra 477 documenti sul web, provenienti da diversi ordinamenti (ultimo accesso:
25 aprile 2018). La stessa ricerca svolta sugli archivi del Foro italiano on line ha
raggiunto i 30 risultati, tra cui oltre una decina sono le sentenze della Corte di
cassazione (ultimo accesso: 25 aprile 2018).
(26) Mi riferisco in particolare a quella adottata nel contesto della maggiore
riforma del processo civile dell’ultimo decennio: l’art. 58, comma 1 l. n. 69 del 2009:
«Fatto salvo quanto previsto dai commi successivi, le disposizioni della presente legge
che modificano il codice di procedura civile e le disposizioni per l’attuazione del
codice di procedura civile si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua
entrata in vigore».
(27) Cfr. Cass., sez. un., 9 giugno 2016, n. 11844, in Foro it., Rep. 2016, voce
Rinvio civile n. 3, testo integrale ne Il Foro italiano Alfa — Le banche dati del Foro
italiano: «L’alternativa che viene, conseguentemente, proposta, da un lato, evoca il
principio tempus regit actum, in ragione del quale la norma deve essere osservata nel
contesto dinamico del processo, con conseguente applicabilità del regime di impu-
gnazione vigente al momento della pubblicazione della sentenza impugnata (deri-
vandone, in tale prospettiva, l’appellabilità della sentenza all’esame in base al testo
dell’articolo 616 c.p.c., quale emendato dalla l. n. 69 del 2009), dall’altro lato, profila
la possibile insensibilità del giudizio di rinvio allo ius superveniens, secondo schemi
che alludono, piuttosto, al canone, patrocinato talora in dottrina, del tempus regit
processum. [...] Invero, allorché disposizioni particolari di diritto transitorio non
siano in concreto state previste, il sistema di norme di diritto intertemporale va
ricostruito, avendo riguardo, da un lato, ai principi costituzionali sulla tutela dei
diritti (e, in primo luogo, al principio di affidamento in materia processuale) e,
dall’altro, ai principi stabiliti nelle preleggi sull’efficacia della legge nel tempo;
derivandone il corollario che l’immediata applicabilità dello ius superveniens in
materia processuale [...] non può essere riferito al procedimento in generale, già
Decisioni della Corte - n. 13 197

festate dalla dottrina (28). È il segno che esso risponde a esigenze teoriche e
pratiche reali.
Con Corte cost. n. 13 del 2018, il principio tempus regit processum
approda nella giurisprudenza costituzionale. Peraltro, la mancata messa
fuoco del contesto sistematico nel quale esso si colloca aveva condotto il
giudice a quo a considerare la soluzione accolta da tre sentenze delle Sezioni
unite della Corte di cassazione del maggio 2016 come contrastante con il
principio, mentre invece essa ne costituisce una fedele applicazione. Il
rigetto della questione di costituzionalità ha sgomberato il terreno dall’equi-
voco.
Per spiegarsi si devono ripercorrere i termini fondamentali della que-
stione. L’art. 829, comma 3 c.p.c., nel testo corrente, modificato dall’art. 24
d.lgs. n. 40 del 2006, stabilisce che «l’impugnazione per violazione delle
regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa se espres-
samente disposta dalle parti o dalla legge. È ammessa in ogni caso l’impu-
gnazione delle decisioni per contrarietà all’ordine pubblico». Prima della
riforma del 2006, la norma stabiliva, invece, che l’impugnazione del lodo per
violazione delle regole di diritto fosse sempre ammessa, salvo che le parti
avessero autorizzato gli arbitri a decidere secondo equità o avessero dichia-
rato il lodo non impugnabile. L’art. 27, comma 4 d.lgs. n. 40 del 2006, in sede
di disciplina transitoria, stabilisce che la nuova disciplina si applichi ai
procedimenti arbitrali, nei quali la domanda di arbitrato sia stata proposta
successivamente all’entrata in vigore della modifica legislativa.
La Corte di cassazione, in tre pronunce delle Sezioni Unite del 9 maggio
2016, n. 9341, 9285 e 9284, con inventiva notevole (29), ma saldamente
orientata ai valori costituzionali sottesi all’applicazione del principio tempus
regit processum al processo arbitrale (30), aveva escluso che la norma
sopravvenuta potesse ascrivere al silenzio delle parti un significato conven-
zionale che le vincoli per il futuro in termini diversi da quelli definiti dalla
legge vigente al momento della conclusione della convenzione arbitrale,
evitando così che la sopravvenuta limitazione del potere di impugnare il lodo
arbitrale per violazione delle norme di diritto relative al merito della con-
troversia potesse colpire le parti di giudizi arbitrali pur promossi dopo

introdotto secondo regole diverse, sia perché ne potrebbe derivare un indebito


pregiudizio ai diritti e alle facoltà delle parti [...], sia perché l’applicazione indiscri-
minata di un nuovo rito ad un procedimento già iniziato, in difetto di norme
transitorie che ciò autorizzino, si tradurrebbe — comportando una sostituzione
dell’insieme delle regole sistematicamente organizzate in vista della statuizione finale
— in una indebita applicazione retroattiva del nuovo ‘insieme’, vietata dal principio
di irretroattività della legge».
(28) Cfr. B. CAPPONI, La legge e il tempo del processo civile, ora in Otto studi sul
processo civile, Milano 2017, 39 ss., specie 45 ss.
(29) Per un approfondimento sul punto, si rinvia a C. CONSOLO, V. BERTOLDI,
La piena sindacabilità del lodo per errori di diritto negli arbitrati basati su convenzioni
ante 2006: si applica la nuova norma che tuttavia in tal caso ingloba l’antica, in Giur.
it. 2016, 1452 ss.
(30) Così come anticipata nel penultimo capoverso del primo paragrafo della
presente nota.
198 Corte costituzionale

l’entrata in vigore della modifica legislativa, ma in forza di convenzioni di


arbitrato stipulate prima della riforma. L’interpretazione della disciplina
transitoria era stata correttamente orientata a difesa dei valori costituzionali
della certezza e prevedibilità della disciplina processuale, intendendosi che il
rinvio alla legge compiuto dall’art. 829, comma 3 c.p.c. sia fatto alla legge
vigente al tempo della stipula della convenzione arbitrale.
Pertanto sono state correttamente dichiarate infondate dalla Corte
costituzionale le questioni di legittimità che, sulla base dell’interpretazione
delle Sezioni Unite, erano state formulate dalla Corte di appello di Milano,
prospettando inesistenti violazioni del principio di eguaglianza, nonché
(paradossalmente) dello stesso principio dell’autonomia privata e della li-
bertà contrattuale.

REMO CAPONI

SENTENZA (9 gennaio 2018) 30 gennaio 2018 n. 14 — Pres. Lattanzi —


Red. Morelli — S. s.p.a. — Regione Puglia.

[6388/12] Puglia - In genere - Energia - Impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili


- Obbligo del soggetto autorizzato alla costruzione dell’impianto di prestare, entro 180
giorni dalla comunicazione di inizio dei lavori, una fideiussione di importo non inferiore a
50 euro per ogni kW di potenza elettrica rilasciata - Denunciata violazione del Protocollo
di Kyoto alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici -
Genericità della censura - Inammissibilità della questione.
(Cost., art. 117, comma 1; Protocollo di Kyoto alla Convenzione quadro delle Nazioni
Unite; l. reg. Puglia 21 ottobre 2008, n. 31, art. 4, comma 2, lett. c).
[6388/12] Puglia - In genere - Energia - Impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili
- Obbligo del soggetto autorizzato alla costruzione dell’impianto di prestare, entro 180
giorni dalla comunicazione di inizio dei lavori, una fideiussione di importo non inferiore a
50 euro per ogni kW di potenza elettrica rilasciata - Asserito difetto di competenza della
Regione - Asserita violazione della libertà di iniziativa economica - Asserita disparità di
trattamento rispetto al titolare dell’autorizzazione unica alla costruzione di impianti
produttivi di energia di fonti rinnovabili - Insussistenza dei vizi denunciati - Non fondatezza
della questione.
(Cost., artt. 3, 41, 117, commi 2, lett. m, e 3; l. reg. Puglia 21 ottobre 2008, n. 31, art. 4,
comma 2, lett. c).

È inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma


2, lett. c), l. reg. Puglia 21 ottobre 2008, n. 31, censurato per violazione dell’art.
117, comma 1, Cost., in relazione alla normativa internazionale, e, in partico-
lare, al Protocollo di Kyoto alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui
cambiamenti climatici, nella parte in cui stabilisce che entro centottanta giorni
dalla presentazione della comunicazione di inizio lavori (dall’avvenuto rilascio
dell’autorizzazione, nel testo precedente), il soggetto autorizzato alla realizza-
zione di un impianto di produzione di energia da fonti rinnovabili deve
depositare presso la Regione Puglia-Assessorato allo sviluppo economico e
innovazione tecnologica fideiussione a prima richiesta rilasciata a garanzia
della realizzazione dell’impianto, di importo non inferiore a euro 50,00, per ogni

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