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Appunti Scaricati Geo Delle Comunicazioni
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Chiara Zecchini
Manuali richiesti:
− Vanolo A., Geografia economica del sistema-mondo. Territori e reti nello scenario
globale, UTET, Torino, 2010 (capitoli 4-5-6-7-8).
− Dematteis G., Lanza C., Nano F., Vanolo A., Geografia dell’economia mondiale, UTET,
Torino, 2010 (capitoli 2,3,8).
Modalità d’esame: 6 domande aperte, da svolgersi nell’arco di un’ora, che richiedono una
risposta puntuale.
le relazioni prese in
considerazione sono di tipo
commerciale:
scambi IMPORT/EXPORT,
beni intermedi, di servizi, di
beni immateriali e di flussi
turistici. Lo spazio geo-
economico è il contesto in cui
si collocano le relazioni di tipo
economico. Le relazioni
verticali collegano l’oggetto
geografico con il contesto in
cui si colloca. Esempio:
l’impresa ed il mercato del
lavoro locale, le infrastrutture
e le risorse naturali (substrato
fisico o antropico = culturale)
Parole chiave:
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La globalizzazione economica
1. DIFFUSIONE di prodotti e servizi su scala globale, alla velocità con cui i prodotti vengono
posti sul mercato e alla velocità con la quale si riesce a comunicare nel mondo. I prodotti
diffusi sono di due tipi:
➝ di uso COMUNE (maglie senza marchio, bigiotteria), provenienti da varie parti del
mondo ed a poco prezzo dovuto alla riduzione del costo del trasporto;
➝ delle MULTINAZIONALI, su modello nord-americano ma anche da paesi che non
godono dell’immagine multinazionale. Le origini del fenomeno risalgono all’impresa fordista
del primo Novecento.
2. VELOCITÀ, RAPIDITÀ (mezzi di trasporto e tecnologie);
3. OMOGENEIZZAZIONE dei gusti e delle culture; FORMAZIONE DEI “non-luoghi”: luoghi
della grande distribuzione in cui le persone non sono in rapporto tra di loro.
4. FENOMENI GLOBALI: crisi economiche, disoccupazione, cambiamenti climatici.
Altre tre definizioni rendono in maniera ancora più chiara il significato di globalizzazione
economica:
La globalizzazione economica consiste nell’aumento dei flussi che collegano i vari punti e va
misurata tramite gli indicatori. Gli argomenti trattati a lezione sono:
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Tre sono i fenomeni analizzati: gli scambi commerciali, gli investimenti diretti esteri ed i flussi
finanziari. Gli scambi commerciali aumentano perché in ogni paese viene prodotta una parte del
prodotto finale (DIVISIONE INTERNAZIONALE del LAVORO) = grazie ad un’evoluzione dei
trasporti e della tecnologia e alla nascita delle politiche di liberalizzazione ➝ nascita e
sviluppo dell’organizzazione internazionale del commercio, World Trade Organization, che ha così
eliminato i dazi.
Dietro a questi fenomeni, oltre all’innovazione, troviamo dei soggetti, ovvero le imprese
multinazionali, che aumentano la frammentazione dei cicli produttivi, ma anche le piccole e
medie imprese, che fungono anche da fornitori. Dietro le politiche di liberalizzazione, invece, vi
sono le organizzazioni sovranazionali.
La crescita dei tre fenomeni (vedi slides)
La crescita, su scala globale, del commercio internazionale è sempre stata presente, dalla
Rivoluzione Industriale, all’apertura del Mediterraneo, all’applicazione del motore a vapore alla
navigazione per giungere, infine, alla grande rivoluzione dei trasporti. La determinazione della
crescita del commercio internazionale è data dallo studio dei dati statistici, presi dalla WTO la
quale, a sua volta, li recepisce dai vari Istituti statistici dei differenti paesi (es: ISTAT; ICE = Istituto
Commercio Estero; EUROSTAT = import/export dell’Unione Europea). La crescita si registra
soprattutto tra gli anni 80-90, quindi con l’affermarsi della globalizzazione.
I prodotti manifatturieri possono essere venduti come prodotto finito oppure come pezzo singolo:
1Composizione delle esportazioni di merci 1950, 2008, 2015 (valori percentuali): diminuzione della quota dei prodotti agricoli;
aumento della quota dei prodotti manifatturieri, mentre la quota dei carburanti oscilla, essendo essa dipendente dal prezzo del petrolio.
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2 Andamento del commercio mondiale di beni (2003-2015) miliardi di $: fino al 2008 esso cresce, poi subentra la crisi economica
mondiale che ne causa la battuta di arresto e una conseguente diminuzione di tutto il commercio; poi ripresa ed assestamento tra il
2013-2014. Tra il 2014 ed il 2015 il valore diminuisce, dovuto alla caduta del prezzo del petrolio, al cambio del costo del denaro, ad un
rallentamento dell’economia cinese e ad un recesso dell’economia brasiliana. Questa tendenza sarà a lungo periodo, ma bisogna
attendere i dati dei prossimi anni.
3Grafico comparato con le merci: rispecchia l’andamento dei servizi, che sono aumentati e rallentati nel 2008, con un declino
nell’ultimo anno. Ciò si lega al costo del petrolio tramite i trasporti, che sono legati al commercio di beni. Una differenza è la lunghezza
delle barre (4000 per i servizi e 18000 per i beni): i servizi sono legati al locale, mentre i beni possono essere chiesti anche da lontano.
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Gli investimenti diretti esteri sono flussi di investimenti che un soggetto, investitore, realizza
in un paese straniero, dove non è presente una sede; essi sono finalizzati all’acquisizione di
una partecipazione durevole in un’impresa straniera o all’acquisizione di una filiale.
La partecipazione durevole consiste in un interesse durevole dell’investitore all’interno
dell’impresa, nella quale investe le quote (interessato alle strategie, etc.). Deve acquisire almeno il
10% delle azioni ordinarie o una quota equivalente al diritto di voto.
Gli investimenti possono essere di vari tipi:
− brown field: investimento su qualcosa di già esistente, come un’impresa già presente;
− green field: creazione di una filiale;
− orizzontale: acquisto una quota o creo una filiale per entrare nel mercato locale con i
miei prodotti (sostituisce il flusso commerciale);
− verticale: acquisto quote o creo una filiale per acquisire materie prime o risparmiare sui
costi di produzione (aumenta il commercio internazionale).
4Quote di mercato sulle esportazioni mondiali di merci per area geografica: bilancia commerciale passiva. Nel Nord-America vi è
una preferenza all’importazione più che all’esportazione; il Medio-Oriente scambia petrolio con l’Asia che è alimentata da questo
passaggio (la Cina è un paese ENERGIVORO, che ha bisogno di grandi quantitativi di energia per alimentare il suo processo
produttivo). Il Sud-America scambia col Nord-America mentre l’Africa con l’Europa.
5 I primi 10 esportatori mondiali di merci (quote di mercato): la Cina ha portato avanti uno sviluppo proprio, oltre alla presenza di
investimenti diretti esteri. Dopo la distruzione nella II GM, tra gli anni 80-90 il Giappone ha avuto un forte sviluppo, più della Cina e le
sue dinamiche sono simili ai paesi di vecchia industrializzazione, quelli occidentali. L’Italia ha una struttura produttiva forte ed esporta
molto, anche le piccole e medie imprese.
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6Direzione dei flussi commerciali di merci (miliardi di dollari): rappresenta l’import/export da ciascuna area geografica. Lo
spessore del flusso è dato in $ ➝ più è spesso, più il flusso è consistente. Per i flussi > 40 mld $ di dollari è presente la triade =
COMMERCIO TRIPOLARE
7 Andamento degli investimenti diretti esteri 2003-2015 (valori in miliardi di dollari): a cavallo degli anni 2000 vi è una flessione
con conseguente ripercussione sugli investimenti esteri a causa delle attività delle multinazionali e dei flussi finanziari, della bolla
tecnologica, eventi geo-politici (come gli atti di terrorismo) e alla crisi economica mondiale. Oscilla quindi tra flessioni e rialzi. Nell’ultimo
anno si ha un’intensificazione dei rapporti, delle acquisizioni e degli ampliamenti delle multinazionali. UNCTAD (United Nation
Conference on Trade and Development) = ha report internazionale.
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8Investimenti diretti esteri in entrata per area 2003 e 2015 (miliardi di dollari): riguarda l’import, ovvero ricevuti da una determinata
area geografica; presenza della Triade (Ue-Usa-Africa Orientale), le cui capacità si equivalgono ma con prevalenza dell’Asia Orientale,
soprattutto nel 2015. Al di fuori della Triade, troviamo America centro-meridionale (PAESI EMERGENTI).
9Investimenti diretti esteri in entrata al 2015 - Quote per macro-aree geografiche: la Triade, ancora presente, detiene la
maggioranza degli investimenti.
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10 Investimenti diretti esteri in uscita per area 2003 e 2015 (miliardi di dollari): ancora a guidare sono le imprese della Triade, con il
rilancio dell’Europa; la Cina, rispetto a qualche decennio fa (emergente), ora invece riceve investimenti esteri occidentali ma vede la
creazione di imprese (ancora statali) a l’acquisizione di imprese occidentali.
11 Investimenti diretti esteri in uscita 2015 (Quote per area): la parte del “leone” la fa l’Europa.
12Maggiori paesi per volume degli investimenti in ingresso (2008): USA ricevono il maggior volume di investimenti esteri, Cina ed
Hong Kong sono emergenti, ed uniti, raggiungono il livello degli Stati Uniti; il Regno Unito deve la sua terza posizione alla nascita
dell’internazionalizzazione; ritroviamo poi paesi europei come il Belgio e Svizzera e al penultimo posto ritroviamo l’India, paese
emergente come la Cina, ma della quale non possiede il protagonismo nel settore.
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13 Maggiori paesi per volume degli investimenti in ingresso al 2015 (investimenti superiori ai 40 miliardi di dollari): si rafforzano
ulteriormente i paesi leader, con la comparsa di paesi in via di sviluppo, come Brasile e Singapore, ma anche Paesi Europei già
precedentemente affermati. Come novità troviamo l’Irlanda, paese in cui le nazioni occidentali tendono ad investire per via degli
incentivi fiscali.
14Maggiori paesi per volume degli investimenti in uscita al 2008 (investimenti superiori ai 50 miliardi di dollari): protagonismo
degli USA nei mercati internazionali, con presenza di paesi europei (Germania, Francia) ma anche del Giappone (paese di vecchia
industrializzazione ma compreso nelle macro-aree geografiche dell’Asia Orientale); la Cina risulta essere all’ultimo posto.
15 Maggiori paesi per volume degli investimenti in uscita al 2015 (investimenti superiori ai 50 miliardi di dollari): ciò che salta
all’occhio è la Cina, la quale, scalando la classifica, si è portata al 3° posto dopo il Giappone. Il suo atteggiamento passa dall’essere
meramente passivo (infrastrutture ed incentivi fiscali per attrarre investimenti diretti esteri) ad attivo, attraverso la crescita delle imprese
a ruolo di investitore.
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I trasporti ed il territorio
I trasporti, oggetto di studio ed argomento sia della geografia economica che dell’economia,
riguardano la dimensione fisica e materiale della comunicazione; sono un settore trasversale
dell’economia che permette il funzionamento di tutti gli altri settori. Tra i trasporti ed il territorio si
instaurano relazioni che riguardano: i flussi immateriali (le tele-comunicazioni), gli scambi
commerciali (presenti anche su scala globale) ed i trasporti fisici.
La grande (ma non la sola) rivoluzione dei trasporti iniziò negli anni 50-60 e tuttora continua,
sviluppandosi in concomitanza con la grande rivoluzione tecnologica e telematica (delle
comunicazioni). La filiera dei trasporti è compresa quindi sia nel settore terziario che nel settore
delle imprese industriali, quindi il secondario. Essa riguarda, non solamente la
commercializzazione e spostamento del prodotto finito (logistica) o l’erogazione di un servizio alla
persona, ma comprende anche attività proprie dell’industria manifatturiera, quali:
• COSTRUZIONE DEI MEZZI DI TRASPORTO;
• COSTRUZIONI DI RETI (ferrovie, strade, autostrade, etc) e di INFRASTRUTTURE
(strutture per gestire i flussi di traffico provenienti dalle reti, come porti, aeroporti ed
interporti);
• ATTIVITÀ DI MANUTENZIONE DEI MEZZI.
PAROLE CHIAVE:
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Inter-modalità e la containerizzazione
L’inter-modalità consiste, invece, nel pensare nel pensare al trasporto come un ciclo integrato che
consente un uso ottimale di varie modalità di trasporto, quindi di sfruttare al meglio ogni cosa (essa
viene permessa dall’invenzione dei container). Essa è più libera, di tipo organizzativo ed
economico.
Le caratteristiche del trasporto inter-modale sono definite dall’UE, la quale afferma che esso deve:
• avvenire mediante unità di carico standardizzate (container - refrigeratori o air container,
piccoli aerei e casse mobili - meno rigida del container e più capiente, con gambe-sostegni,
non può essere impilata) che non devono venire aperte fino alla destinazione finale, se non
per ispezioni doganali (NO FREIGHT HANDLING);
• l’unità di carico deve essere trasferita, almeno 1 volta durante il suo percorso, da una
modalità ad un’altra;
Il trasporto combinato inter-modale è definito tale se quella che è la tratta principale (quella più
lunga), vien effettuata in modo marittimo, fluviale, ferroviario, mentre la partenza/arrivo può essere
per strada; esso dà indicazioni più precise ed è il metodo più utilizzato in Ue (ferro - gomma o
strada - ferrovia).
Il trasporto inter-modale si può suddividere in varie fasi: la prima, è la partenza della merce dalla
fabbrica o dal magazzino spedizioniere; la seconda vede il trasporto del container via strada, fino a
raggiungere l’interporto ed infine la fase principale, per mare, fiume o ferrovia, se il trasporto è
combinato, fino a raggiungere un secondo terminal di trasbordo ➝ da questa fase il container può
essere ritrasferito su strada ed arrivare a destinazione; può invece intraprendere un’altra fase (es.
via mare, a seconda delle esigenze).
Questi tramiti consentono la circolazione dei semi-lavorati lungo le reti di divisione del lavoro.
I vantaggi di questo tipo di trasporto sono molteplici, tra questi troviamo una
• riduzione dei costi di trasporto grazie allo sfruttamento delle economie di scala,
consentendo l’utilizzo ottimale di singole modalità;
• una riduzione dei tempi-lunghezza del percorso e degli sprechi;
• minori costi di investimento nei mezzi di trasporto;
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Il trasporto è una delle funzioni che permette la logistica16 all’interno delle imprese e, solitamente,
essa viene gestita da società esterne.
Il cosiddetto just-in-time (= appena in tempo): gli input produttivi che l’azienda necessita arrivano
nel momento stesso in cui servono per il ciclo produttivo. Inoltre, si elimina la fase di stoccaggio
del magazzino (fu usata per la prima volta dalla Toyota = flessibilità d’impresa). Aumenta le
relazioni tra le aree (relazioni orizzontali).
Gli interporti
In termini geografici, l’interporto è una sorta di città delle merci poiché, oltre a terminal per il
trasbordo, è anche un’area che catalizza molte funzioni legate al trasporto, anche tradizionali
come l’immagazzinaggio: un complesso organico di strutture e servizi integrati e finalizzati allo
scambio di merci tra le diverse modalità di trasporto.
L’interporto deve contenere uno scalo ferroviario in collegamento con altri nodi (porti o
aeroporti) e deve consentire l’accesso a grandi reti di trasporto. Dal 2011, tale legge è in revisione
- dovrebbe riordinare la questione (sono nate anche altre strutture, piattaforme logistiche) e
definire le funzioni di entrambe. Esso consente un aumento dell’efficienza dei servizi che
include, in quante sono collocati tutti nello stesso luogo, creando le cosiddette economie di
agglomerazione, per le quali ciascuno trae vantaggio dalla rispettiva vicinanza; serve a ridurre la
congestione del traffico merci nei centri urbani in quanto lo convogliano verso di sé; si trovano,
normalmente, vicino a grandi città in posizioni nodali (= intersecano i principali assi di
trasporto), dovuto al bisogno di grandi spazi fisici per ospitare le grandi strutture.
Gli interporti in Italia - nati come risposta alla richiesta delle imprese prima di un intervento
legislativo - sono, per la maggior parte, situati al Nord, da cui partono le direttrici per il commercio
europeo e si ha la maggior richiesta; al Sud si sviluppano invece lungo le direttrici Adriatica e
Tirrenica. In Lombardia non troviamo alcun interporto (strano) dal momento che le politiche
regionali puntano molto sulle piccole piattaforme logistiche presenti sul territorio (più vicine agli
operatori, ma aumentano traffico ed emissioni).
16 Insieme delle attività che, nell’azienda, riguardano l’organizzazione, la gestione e il controllo dei flussi di materiali e delle relative
informazioni dalle origini presso i fornitori fino alla consegna dei prodotti finiti ai clienti e al servizio post-vendita.
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I corridoi europei si diramano da N-S (Helsinki - Sud Italia) a E-W (Lisbona - Kiev). Questi due
maggiori corridoi europei si incrociano nella zona di Verona, il cui interporto Quadrante Europa ha
un’importanza rilevante: si presenta come una sorta di quadrilatero nelle prossimità di Verona
(zona Sud-Ovest). Occasione per razionalizzare lo spazio urbano (comprende magazzini generali
e mercato ortofrutticolo).
Le piattaforme logistiche o aree di interscambio, dette anche Urban City Distribution Centre,
sono simili agli interporti e sono collocate nell’area urbana o nell’immediata periferia con elevata
accessibilità rispetto a reti stradali di lunga percorrenza, ferrovie; dispongono di infrastrutture
adeguate per servizi di trasporto e logistici e sono aperte 24 ore su 24. Esse, inoltre, sono gestite
da parte di un unico operatore o una cooperativa, dotate di sistemi informatici e telematici efficienti
e di mezzi per la distribuzione urbana elettrici o meno inquinanti, con possibilità di essere utilizzati
nel centro storico. Se è presente un interporto, esse sono collocate all’interno dello stesso.
1. Il trasporto marittimo non viene più analizzato come gli altri tipi di trasporto: ne vanno, dunque,
comprese le trasformazioni e le strutture ad esso connesse.
Le innovazioni tecnologiche ad esso connesse sono legate alla grande rivoluzione dei trasporti,
quindi un aumento della dimensione e della capacità di carico delle navi, che assumono forma
di terminal, sia per merci che per passeggeri (il fenomeno del gigantismo navale) e un aumento
della velocità - ciò è considerato in termini relativi, dal momento che il trasporto marittimo è il più
lento metodo di trasporto ed il più conveniente per merci pesanti, voluminose e con data di
consegna da presumersi in tempi lunghi.
Per quanto riguardo le innovazioni organizzative, si vede l’entrata del trasporto marittimo nel
circuito dell’inter-modalità, ovvero i container entrano prima sul trasporto navale e poi investono
le altre modalità di trasporto.
Le strutture del trasporto navale, ovvero i porti, hanno subito varie trasformazioni, legate a:
• la costruzione di spazi e strutture sempre più artificiali : alcuni porti hanno condizioni
naturali che non sono in grado di accogliere grandi navi; per questo motivo si è optato per
un riempimento con la costruzione di terminal off-shore, con il molo che arriva nel mare.
Questi terminal sono sempre più simili a quelli degli interporti per la sosta od il trasporto dei
container, ma spesso non sono situati nell’aerea del vecchio porto ma vicino ad esso, dove
è presente spazio;
• le trasformazioni delle funzioni del porto ed il rapporto che esso ha con la città: esso è da
sempre stato legato con l’economia della città cui apparteneva, per le attività portuali ed
industriali, come la cantieristica, ad esso connesse e che creavano posti di lavoro.
Tuttavia, con l’avvento dell’inter-modalità e di trasformazioni artificiali, l’economia della città
si trasforma, causando la de-industrializzazione delle zone, la quasi scomparsa del
lavoro manuale e la chiusura delle industrie per la cantieristica;
• la dismissione di ampi spazi: essi vengono riutilizzati per nuove funzioni, le vecchie
strutture abbandonate, i grandi magazzini e le vecchie infrastrutture ripensate ed
ammodernate;
• la selezione di porti polivalenti o poli-funzionali;
• la nascita di porti specializzati per prodotto, come i porti petroliferi o di trasbordo, come il
passaggio delle navi da un porto più grande ad uno più piccolo (nel Mediterraneo, il primo
porto per transhipment è il porto di Gioia Tauro, in Calabria).
Il porto è, a sua volta, costituito da 3 grandi strutture: il retroterra, il porto e l’avanmare. Il primo
può essere raffigurato come una linea continua che unisce i punti con uguale tempo di percorrenza
da e verso il porto, delinea l’area di gravitazione della domanda del porto e si delimita grazie a
ragioni sia di ordine fisico/geografico che economico. Il secondo è caratterizzato da efficienza delle
strutture (velocità delle operazioni di trasporto e della burocrazia); servizi ausiliari (servizi per
movimentazioni delle navi, la pulitura dei fondali, servizi ambientali, amministrativi e alla persona);
vie di comunicazione (collegamenti con altre modalità di trasporto, altri nodi) ed infine per le
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politiche tariffarie, per le quali tariffe diverse incidono sul costo finale del servizio ai mezzi o alla
persona. Infine, la terza struttura rappresenta le relazioni che il porto intrattiene dal punto di vista
marittimo.
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17Primi 10 porti container nel mondo (2004 e 2014): nel 2004 vediamo ancora presenti, tra i primi 10, due porti occidentali, in
particolar modo, due porti europei, Amburgo e Rotterdam: i porti europei hanno terminal specializzati nel trasporto/traffico di passeggeri
per il flusso turistico. Per questo motivo, per la mobilitazione delle merci e per via del grande sviluppo economico del continente Asiatico
(Orientale), nel 2014 vediamo sparire i porti europei, ma ritroviamo, nei primi 10 posti, i porti cinesi ed i porti sud-coreani, tra i quali si
crea una competitività.
18 Principali porti container europei e italiani (2014) e il controllo del traffico container: unità di misura, che una volta era usata
per creare statistiche riguardanti i flussi portuali erano le merci alla rinfusa, ovvero quelle che non erano stipate nei container. Ora, per
misurare il traffico container, si usa l’unità di misura TEU (twenty-foot equivalent unit), equivalente a 20 piedi, che è la misura standard
di un container, ovvero la sua lunghezza - ne esisto anche da 40 piedi. Essa è usata per la misurazione dei porti che effettuano attività
di trasbordo.
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2. Il trasporto aereo è una modalità relativamente nuova In Europa, per quanto riguarda il
trasporto commerciale: gli aerei erano utilizzati, in particolar modo durante le Guerre Mondiali, a
scopo puramente militare. Al contrario, negli Stati Uniti, l’utilizzo dell’aereo come mezzo per il
trasporto e gli scambi commerciali, era già sviluppato e diffuso da prima della Seconda Guerra
Mondiale; anche in Australia ed America Latina (ovvero paesi a bassa densità di popolazione),
questa modalità di trasporto è da sempre utilizzata anche per il trasporto di bestiame in aerei detti
cargo.
Grazie allo sviluppo tecnologico, che riguardava soprattutto la sicurezza dei mezzi, all’aumento
delle dimensioni e della capacità degli stessi, il trasporto aereo vede un primo sviluppo, lento,
nel primo dopoguerra - in particolare negli anni 50, per poi protendersi fino agli anni 80 del secolo
scorso. Tuttavia, esso era comunque poco utilizzato e limitato a merci poco ingombranti, di
valore e che dovessero essere consegnate ai mercati in tempi relativamente brevi. L’esplosione di
questa modalità per il trasporto passeggeri avviene dagli anni 90, mantenendo quindi costi e
vincoli legati alla dimensione delle merci. Ad oggi, viaggiano primizie dell’agricoltura, la posta, le
componenti dei computer ed, in alcuni casi, anche gli air-container: merci di piccola dimensione ad
alto valore aggiunto (Valore del prodotto - costo dei fattori di produzione utilizzati).
L’evoluzione del trasporto aereo parte dall’aumento della mobilità delle persone, le quali iniziano
a viaggiare, sia per affari, che per piacere - viaggi turistici. Il crescente numero della domanda
genere un abbassamento delle tariffe dei biglietti, le quali portano a trasformazioni
nell’organizzazione e nella produzione.
Alla base dell’abbassamento del prezzo del biglietto vi sono 4 fenomeni:
− deregulation = detta anche liberalizzazione, riguarda l’abbattimento delle barriere
della concorrenza ed il controllo sulle tariffe imposte ai viaggiatori, che vedono una
moltiplicazione dei vettori sul campo, un abbassamento conseguente dei prezzi e, da
qui, la moltiplicazioni dei voli aerei. In Europa, questo fenomeno si verifica tra il 1988 ed
il 1993 nei primi paesi componenti, per poi allargarsi alle altre nazioni non comunitarie.
Si sviluppa solamente dopo la crisi delle compagnie di bandiera e l’avvenuta adesione di
tutti i paesi dell’Unione al Trattato di Schengen (1985), il quale stabilisce il libero
spostamento dei cittadini e delle merci all’interno dei confini. Nascono quindi nuove
compagnie private e nuovi vettori sul campo, che creano il moltiplicarsi dei voli aerei;
− low-cost companies = esse effettuano il servizio di trasporto alle persone con tagli del
50% sul prezzo standard (quello delle compagnie di bandiera) del biglietto grazie
all’eliminazione del servizio a bordo, all’utilizzo di un solo aeromobile (risparmio su
acquisti, pezzi di ricambio e addestramento del personale di bordo), a collegamenti
esclusivamente point-to-point, all’utilizzo di scali aeroportuali minori, alla vendita dei
biglietti attraverso internet o call-centre e alla riduzione al minimo dei tempi morti tra
atterraggio e decollo (point to point comporta aumento costo del prezzo del biglietto).
− riorganizzazione dei sistemi aeroportuali = il nuovo modello post-deregulation è definito
hub and spokes, formato quindi da un perno centrale e da raggi che si diramano da
esso. Attraverso questa riorganizzazione, i flussi di traffico aereo vengono orientati, da
destinazioni secondarie, su un aeroporto principale (hub), il quale funge da nodo di
connessione per viaggi di lungo-medio raggio verso altri aeroporti (spokes). Questo
modello permette lo sfruttamento delle economie di scala, grazie alle quali si possono
concentrare tutte le operazioni in una quantità limitata di aeroporti, utilizzare aerei più
grandi e quindi, aumentando il coefficiente di carico (= il numero dei passeggeri); l’unico
svantaggio potrebbe essere un allungamento del tempo di viaggio del passeggero,
causato da ritardi a catena. Differisce dal modello point-to-point in quanto, quest’ultimo,
prevede un collegamento diretto tra due aeroporti, con la copertura di pochi posti a
sedere e il conseguente elevato costo del biglietto.
− alleanze tra compagnie aeree = vengono istituite tra una compagnia aerea principale e
una regionale o minore, al fine di unire i costi di gestione, evitando diseconomie di scala
e rendendo il servizio hub and spokes più efficiente (es: Lufthansa + Air Dolomiti).
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Queste compagnie condividono il codice di volo (code sharing): una sola delle due
compagnie effettua il volo e vende il biglietto per entrambe, con una condivisione delle
risorse e un conseguente vantaggio per i passeggeri.
2006 2015
1. Atlanta 84,8 1. Atlanta 96.2
2. Chicago 77,0 2. Pechino 84,0
3. London- H 67,5 3. London- H 73,3
4. Tokyo 65,8 4. Tokyo 71,6
5. Los Angeles 61,0 5. Los Angeles 70,6
6. Dallas 60,2 6. Dubai 70,4
7. Parigi-De Gaulle 56,8 7. Chicago 70,0
8. Francoforte 52,8 8. Parigi-De Gaulle 63,8
9. Pechino 48,6 9. Francoforte 63,5
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10. Denver 47,3 10. Hong Kong 63,4
19Principali aeroporti per traffico passeggeri (milioni): l’aeroporto di Atlanta resta sempre al I posto, seppur si denota la forte
presenza cinese che scala le classifiche dal 2006 al 2015. Restano poi i paesi di vecchia industrializzazione, i cui aeroporti hub
sono inseriti in altri sistemi aeroportuali.
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L’ICT vede l’inizio del suo sviluppo a partire dagli anni settanta (in concomitanza con lo sviluppo
della globalizzazione), il boom a partire dagli anni novanta; essa consiste nel trasferimento di
informazioni, denaro, pacchetti finanziari e comunicazioni di tipo immateriale. Informatica e
telematica hanno quindi contribuito ad aumentare il flusso delle comunicazioni immateriali e le
potenzialità dell’ICT.
20Principali aeroporti per traffico merci - 2014: l’aeroporto di Hong Kong si trova al I posto, seguito da vari aeroporti asiatici, in
particolare modo aeroporti cinesi.
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21 Diffusione di internet per aree geografiche e variazione % (Fonte: Internet World Stats).
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23 Three stages in the evolution towards an information society : impatto delle ICT dipende dall’accesso e dalla dotazione di
infrastrutture e dall’utilizzo e dalla capacità di queste.
24Composizione dell’ICT Development Index: diversi e più precisi metodi di analisi, con diverse percentuali di importanza,
dell’impatto del digital divide.
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L’e-commerce è una modalità di commercio internazionale che poggia sul commercio fisico, in
quanto si esegue l’ordine su internet, ma la merce viene consegnata attraverso le classiche
modalità di trasporto; tuttavia, ciò non avviene per i contenuti digitali, che non sono fisici, ma
scaricabili e non comprendono uno spostamento fisico.
Altre definizioni sono:
Esistono varie tipologie di commercio online:
A. il business to business - B2B ➝ riguarda la relazione tra due imprese;
B. il business to consumer - B2C ➝ il consumatore acquista online e riceve la merce senza
spostarsi, è vantaggioso sia per l’impresa, la quale ha a disposizione un più ampio
mercato di consumatori, sia per il consumatore, il quale ha a disposizione più opzioni di
acquisto (Amazon, Alì Babà);
C. il consumer to consumer - C2C ➝ i consumatori trattano ed entrano in relazione tra di loro
(subito.it, eBay)
D. il business to government - B2G ➝ riguarda le relazioni commerciali che si instaurano tra
le imprese e i vari settori che hanno un rapporto con il governo;
E. il consumer to business - C2B ➝ il consumatore fa una proposta d’acquisto ad
un’impresa, il vantaggio è per il consumatore ma anche per l’impresa (priceline.com)
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27 Persone (%) che hanno effettuato acquisti online - Anni 2007-2015 (Fonte: Eurostat).
28 Persone che hanno effettuato acquisti online ultimi 12 mesi - Anno 2015, valori percentuali (Fonte: Eurostat).
29 Acquisti online per tipologia merceologica ed età UE 28 – Anno 2015 (Fonte: Eurostat).
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30 Imprese che vendono online per dimensione e area geografica- Anno 2015, valori percentuali (Fonte: Eurostat).
31Imprese 10-249 addetti che hanno venduto online nell’anno precedente per un valore almeno pari all’1% del fatturato - Anno
2015, valori percentuali (Fonte: Eurostat).
Imprese 10-249 addetti che hanno acquistato online nell’anno precedente per un valore almeno pari all’1% del fatturato -
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33 Ragioni per cui non si acquista online – Anno 2015: la risposta principale riguarda l’esperienza di acquisto che, per la maggior
parte degli acquirenti, deve avvenire personalmente all’interno dei negozi. Inoltre, ritroviamo come motivazioni la fidelizzazione della
clientela e l’abitudine.
34 Imprese che vendono online per dimensione e area geografica - Anno 2015 (valori percentuali): l’andamento dipende dall’uso
di tecnologie informatiche, le quali sono in relazione alla dimensione di impresa (quelle grandi tendono ad utilizzare molto di più le ICT).
Rimane il problema di diffusione di queste tecnologie nelle piccole e medie imprese.
35Imprese 10-249 addetti che hanno venduto online nell’anno precedente per un valore almeno pari all’1% del fatturato -Anno
2015 (valori percentuali): Italia si trova ancora tra i 10 paesi con il fatturato peggiore per quanto riguarda la vendita attraverso internet
(nella parte sinistra del grafico). Nella parte destra, ritroviamo i paesi del Nord Europa, con il Portogallo, paese dell’Europa meridionale,
come eccezione. Il digital divide separa il nucleo forte dell’Unione Europea dall’Europa meridionale, con alcune eccezioni.
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• le dimensioni dei lotti vengono ridotte, rispetto a quelle tradizionali dei grossisti;
• la consegna al consumatore è considerata una dei più importanti fattori da valutare nella
decisione di acquisto. Essa può essere di varie modalità: a domicilio, con l’istituzione di
punti di riferimento organizzati dall’operatore logistico, nel caso in cui il consumatore non si
trovi a casa (punti di consegna); in negozio, con ordine online e consegna nel punto
vendita (modalità mista); reti dette anche drop point, strutture pre-esistenti nel territorio, alle
quali si affida la consegna o punti di consegna; negli uffici postali ed infine attraverso i
locker, collaborazioni tra società TNT e IN-POST, i quali mettono a disposizione un codice
per accedere agli armadietti, nei quali però non possono essere inseriti tutti i tipi di merci
(valido sia per reso che per consegna).
Non esiste un’unica definizione, né una di tipo giuridico per la multinazionale. Di norma, essa è
classificata in base alla sua dimensione e all’estensione geografica delle filiali sui vari territori; ciò
non è sempre vero, dal momento che esistono multinazionali che non sono sempre di grandi
dimensioni.
La multinazionale ha 3 caratteristiche imprescindibili che la contraddistinguono:
1. Coordinamento e controllo di varie fasi della catena di produzione localizzate in diversi paesi;
2. Capacità di trarre vantaggio dalle differenze geografiche nella distribuzione dei fattori di produzione e
nelle politiche nazionali;
3. Potenziale flessibilità: capacità di mutare o inter-cambiare forniture e operazioni tra le varie località
geografiche, su scala globale.
Le imprese multinazionali nel mondo, secondo l’UNCTAD, sono 82.000, le quali dispongono di
circa 807.000 filiali straniere e contano 77 milioni di occupati. Per essere considerata
multinazionale, un’impresa deve avere almeno una filiale all’estero o controllarne almeno il
10% del capitale. Tra queste rientrano quindi anche le micro multinazionali, dette anche
multinazionali tascabili: esse dispongono, per esempio, di una sola filiale estera, ma con
delocalizzazione nell’ultimo periodo, sfruttando la globalizzazione.
Al contrario, secondo MEDIO-BANCA, le multinazionali nel mondo sono 401 e contano circa 32,7
milioni di occupati. Le imprese aventi questa denominazione sono in numero inferiore rispetto
all’elenco steso dall’UNCTAD e questo perché i caratteri di classificazione sono più rigidi:
36Imprese 10-249 addetti che hanno acquistato online nell’anno precedente per un valore almeno pari all’1% del fatturato -
Anno 2015 (valori percentuali): ritroviamo le piccole e medie imprese italiane in posizione migliore rispetto alle vendite, ma ancora
non nei primi 10. Essa è l’unica anomalia poiché gli altri stati hanno sempre la stessa tendenza. Il digital divide separa il nucleo forte
dell’Unione Europea dall’Europa meridionale, con alcune eccezioni.
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FATTURATO PROFITTO
WALMART INDUS.&COMM. BANK OF CHINA
SINOPEC GROUP APPLE
ROYAL DUTCH SHELL CHINA CONTRUCTION BANK
CHINA NATIONAL PETROLEUM EXXON
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37Le principali multinazionali per fatturato e profitto 2014: al primo posto per fatturato troviamo l’impresa Walmart, una catena
specializzata nella vendita al dettaglio; è l’unica eccezione all’interno dell’elenco poiché le altre sono tutte multinazionali appartenenti a
settori tradizionali (petrolchimica, automobilistica, etc.). Per quanto riguarda il profitto, troviamo invece banche ed imprese cinesi.
38 Le top ten per valore di borsa - 2014: all’interno di questa classifica, ritroviamo Nestlé, che risulta essere l’unico caso qui presente
di multinazionale alimentare. Tuttavia, non è la sola di nazionalità Svizzera, essendo questo uno stato con forte presenza di
multinazionali.
39Le multinazionali nel mondo: numero di sedi centrali per paese e le imprese multinazionali in Europa: numero di sedi
centrali per paese.
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1. il periodo coloniale, risalente alle fine del 1800, così chiamato per via della creazione di
filiali nelle colonie, per ottenere il controllo di materie prime e di risorse energetico-
mineriarie;
2. il periodo che va dagli anni cinquanta agli anni ottanta del Novecento, che corrisponde
ad un nuovo boom economico nel secondo dopoguerra. Nella prima parte, vediamo il
diffondersi di investimenti orizzontali guidati dal mercato (sostituiscono le esportazioni),
mentre nel secondo periodo, a partire dagli anni 70, si impongono gli investimenti verticali
sui fattori di costo, come produzione e lavoro;
3. il periodo della globalizzazione, dagli anni ottanta del Novecento, in cui si assiste alla
comparsa dell’impresa transnazionale globale. Assistiamo all’esplosione di fenomeni come
gli investimenti diretti esteri e la sub-fornitura, ossia l’affidamento della produzione a sub-
fornitori.
40Le multinazionali nel mondo: numero di filiali estere per paese e le multinazionali in Europa: numero di filiali estere per
paese: nel mondo, le filiali delle multinazionali sono localizzate, in particolar modo, in Messico ma anche in Asia Orientale, in paesi
come la Cina, in cui sono state aperte delle sedi in periodo recente.
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• la crisi petrolifera e aumento dei costi da sostenere per produzione, materie prime, lavoro
(manodopera) e trasporti;
• la saturazione del mercato, causata da un eccesso di produzione di beni standardizzati;
• un cambiamento della domanda per necessità di personalizzazione, per prodotti che siano
più sensibili alla moda;
• le diseconomie di agglomerazione;
• le innovazioni nel campo tecnologico ed informatico che rivoluzionano il modo di
produrre.
Le conseguenze di questa crisi si sono riversate, in particolar modo, nei paesi economicamente
avanzati. Tra queste, ritroviamo la de-industrializzazione, per la quale le città perdono la loro
base economica e posti di lavoro e il declino urbano che causa perdite di popolazione nelle
grandi città con il conseguente trasferimento in centri esterni e più piccoli.
Nonostante queste crisi, le imprese decidono di riorganizzare in modo più flessibile la loro
produzione, attraverso l’esternalizzazione (decentramento o delocalizzazione), con conseguente
diminuzione/abbattimento dei costi. Inoltre, vediamo l’emergere di sistemi di produzione
specializzati, formati da piccole e medie imprese: i distretti industriali, collocati di norma in città di
piccole dimensioni, o in regioni periferiche. Infine, la terziarizzazione delle economie occidentali
ha visto il massimo sviluppo in città che poggiano molto sui servizi. Ora ci collochiamo in una fase
di transizione e di economia detta globalizzata.
Delocalizzazione ≠ Decentramento
↓ ↓
impresa si colloca in un l’impresa affida un processo o fase
paese estero della produzione a terzi
La frammentazione del ciclo produttivo è rappresentata dalle global commodity chains, che
possono configurarsi come:
• catene guidate dal produttore: la produzione di beni è determinata dalla continua
innovazione di prodotto e di processo — sono relativamente concentrate nelle mani di
grandi produttori;
• catene guidate dal consumatore, le quali si dividono in: reti estere di delocalizzazione/
esternalizzazione, diffuse soprattutto nei settori maturi dove la multinazionale o l’impresa
che organizza le reti, organizza alcune fasi ed esternalizza la produzione e in imprese
senza stabilimento, le quali non hanno nulla a che fare con la produzione di bene, ma
delegano la produzione a sub-fornitori (ree-book, benetton, nike).
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Il Sud-Est Asiatico
I fattori alla base dello sviluppo di quest’area sono:
1. Industrializzazione e inserimento nelle reti di divisione internazionale del lavoro: in
precedenza, quest’area risultava come povera, ma dagli anni sessanta il PIL (indicatore
della ricchezza di un Paese) inizia a crescere in maniera esponenziale, così da
permettere l’inserimento della zona nelle reti di divisione del lavoro e di attirare
investimenti esteri, Americani, Europei e Giapponesi grazie agli incentivi nei costi;
La Cina
Il Paese attuò una politica di apertura, «politica della porta aperta», dopo la morte di Mao nel 1978.
Essa consisté in un’apertura graduale agli investimenti stranieri, inizialmente limitata a poche aree
e pochi settori, poi ampliata al resto del paese, ma sempre sotto la guida dello stato (l’economia
41Le nuove economie industrializzate del Sud-Est asiatico: troviamo le quattro tigri asiatiche come Paesi in cui si concentra la
produzione e gli investimenti esteri. Sono Taiwan, Singapore ed Hong Kong (città stato) e la Corea del Sud. Intorno agli anni novanta
del secolo scorso, a questi si sono aggiunti paesi sviluppatesi in un periodo successivo, come Indonesia, Malesia e Filippine.
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cinese può essere definita come “socialismo di mercato”, dovuto alla situazione dittatoriale che
affligge la politica).
Aderisce alla WTO ed inizia ad attirare imprese ed investitori esteri, grazie:
− al basso costo del lavoro < rispetto agli altri paesi del SE asiatico;
− alla presenza di materie prime;
− alle normative elastiche e permissive, nei confronti di lavoratori ed ambiente (dal 2008
è presente un codice del lavoro per la tutela del lavoratore);
− alla presenza di «Zone Economiche Speciali» nelle quali è possibile notare un’alta
concentrazione di investimenti stranieri dovuti alle condizioni privilegiate di cui godono
queste aree. Difatti, in queste zone assistiamo alla presenza di legislazioni diverse
rispetto al resto del paese: esenzione dalla tassazione e dai dazi doganali e la deroga sui
contratti di lavoro, la fornitura di energia, immobili e terreni a prezzi agevolati e la
dotazione di infrastrutture di buon livello;
− il potenziale di mercato di grande estensione, dovuto alla grandezza del territorio e al
gran numero di persone che lo abitano e costituisce un’opportunità per vendere i propri
prodotti;
− la forte popolarità degli investimenti in Cina, attraverso lo sfruttamento di economie di
agglomerazione di strategie imitative. Insieme alle strutture di appoggio come Camera di
Commercio ed Ufficio per il Commercio Estero, è stato il fattore di traino dei primi
imprenditori.
Le maquiladoras messicane
Le maquiladoras messicane sono impianti di tipo manifatturiero situate tra Messico - nella
parte centrale - e Stati Uniti. Vengono utilizzate per importare materiali o semilavorati, con
esenzione da dazi doganali, per poi lavorarli ed esportarli.
Questi impianti vedono una forte espansione tra il 1994 e il 2000, grazie anche ad un accordo
commerciale stipulato tra USA, Canada e Mex nel 1994, con la conseguente creazione della
NAFTA — North America Free Trade Agreement. Esse consentono il calo della disoccupazione
messicana grazie all’impiego di ingente manodopera, favorita da un basso costo del lavoro e dei
trasporti. Inoltre, vi è una presenza consistente di forza lavoro femminile, purtroppo
sottopagata; i settori in cui si concentrano gli impianti richiedono una bassa qualifica
professionale e sono l’elettronica (assemblaggio), l’informatica e l’abbigliamento.
Oggi il Messico è tornato competitivo rispetto alla Cina, sia per la possibilità di contenere costi di
logistica e trasporto negli USA, sia per la mancanza di una differenza salariale (presente fino al
2007-2008).
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beni standardizzati di ogni genere. Tuttavia, verso gli anni settanta, il carattere artigianale delle
piccole imprese è stato essenziale per soddisfare i bisogni sempre più specifici (la flessibilità ha
consentito la risposta efficace alla richiesta di beni non più standardizzati, ma diversificati).
Le imprese hanno incontrato basse barriere all’entrata per i loro prodotti tradizionali, entrando
meglio nel mercato senza l’impiego di grandi capitali ed investimenti; l’innovazione era richiesta
per il prodotto ma non per il processo produttivo — un esempio è il settore della moda, che
richiede velocità nella risposta alla domanda e nell’innovazione, per entrare in modo efficace in un
mercato ormai saturo e sempre più diversificato (le collezioni hanno una durata piuttosto breve).
Le economie di localizzazione, facenti parte delle economie di agglomerazione insieme alle
economie di urbanizzazione (= nelle grandi città), hanno portato grandi vantaggi: la filiera o
insieme di imprese collocate in vicinanza tra di loro, la specializzazione del mercato del lavoro
o dei servizi all’impresa, la possibilità di una collaborazione (divisione del lavoro) e delle
presenza di sub-fornitori collocati vicino all’impresa stessa.
Il ruolo della famiglia risulta fondamentale e rappresenta un’insieme di micro-soggetti dotati di
imprenditorialità, i quali formano la manodopera e provvedono all’autofinanziamento. Infine, il
finanziamento ed il sostegno alle iniziative territoriali e alle imprese distrettuali, deriva anche da
banche ed istituzioni locali.
I distretti industriali sono specializzati in diversi settori, come la moda (abbigliamento, calzature ed
accessori), il sistema casa (mobili, oggettistica e arredamento), la meccanica, il turismo e la
cultura. Le specializzazioni dei distretti sono tipiche del made in Italy, alcuni sono piuttosto
tecnologici (settore bio-medicale), mentre altri meno e rimangono più tradizionali. Per quanto
riguarda il settore turistico e culturale, la divisione del lavoro non è finalizzata alla produzione di un
bene materiale, ma per la collaborazione e progettazione al fine di fornire servizi più consistenti ed
efficaci.
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I modelli ciclici vengono criticati dagli esperti per via della loro semplificazione e rigidità. Gli esperti
dividono il ciclo di vita in 3 fasi principali: le prime due sono ben delineate e le caratteristiche ben
definite, mentre la terza i cambiamenti e le strategie non sono uniformi.
1. la specializzazione di fase riguarda la formazione del distretto senza l’emersione, poiché
prevale ancora la grande impresa. Tra gli anni sessanta e settanta si formano dei nuclei
42 Queste mappe cambiano in relazione agli indicatori statistici utilizzati per individuare i distretti. Vediamo un addensamento di
distretti industriali in Nord-Est e nel Centro, dovuta alla maggiore diffusione di caratteristiche o fattori che hanno portato alla nascita
dei distretti; tuttavia anche nel Nord-Ovest per il settore alimentare. Il Veneto è sempre presente sulla mappe, qualunque indicatore si
prenda in considerazione, dal momento che sono più e varie specializzazioni; fino agli anni cinquanta, l’economia veneta era basata
all’agricoltura ed era relativamente povera, con fenomeni di emigrazione. In seguito, negli anni sessanta e settanta, da regione
periferica a regione centrale per lo sviluppo nazionale (industriale e esportazioni).
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Essa rappresenta il primo passo verso l’autonomia delle Regioni: con la Riforma
Costituzionale del 2001, si apre all’autonomia delle Regioni per quanto riguarda i criteri di
individuazione dei distretti. Tuttavia, la Regione Veneto non impone questi criteri ai distretti, ma dà
la possibilità di presentarsi come tali davanti alla regione.
I distretti industriali in Veneto hanno visto diversi decreti e leggi regionali, a partire dal 2003,
passando per il 2006, per giungere infine al 2014: questo passaggio è considerato fondamentale
dagli studiosi di queste formazioni territoriali.
➡ Al passaggio dalla riforma costituzionale del 2001 alla legge 8/2003, il cambiamento non è
stato rilevante, se non per quanto concerne il riconoscimento del distretto attraverso un
passaggio dal basso e non più dall’alto. Con la legge 8/2003 viene stabilito, per enti/soggetti
locali ed imprese, che i distretti industriali possono auto-riconoscersi come distretto,
attraverso la presentazione di un patto di sviluppo di durata di 3 anni, delineando il percorso di
sviluppo del distretto nell’arco di questi tre anni. Dopo la stesura del patto, esso va presentato in
Regione per averne l’approvazione, che avviene nel caso di presenza di coerenza e fattibilità
economica; l’istituzione provvederà ad erogare dei bandi di sviluppo ai quali le imprese
concorreranno. Infine, se il patto ottiene l’approvazione, la Regione stanzia un rimborso (pari al
40% delle spese per il patto) attraverso un contributo a fondo perduto, il quale non dovrà essere
restituito. Tra il 2003 e il 2005, dal punto di vista quantitativo, l’impiego di questa modalità ha
portato al riconoscimento di 46 distretti, i quali contano 8.136 imprese e 203.118 addetti; i
progetti finanziati risultano 356, con un investimento di 54 milioni di euro e un investimento
complessivo di 173 milioni/€.
Sul territorio Veneto, si trovano ancora distretti storici; la legge numero 8/2003 ha anche aspetti
criticati, come la mancanza di criteri definiti per individuare i distretti. Infatti, le imprese,
appartenenti ad uno stesso spazio geografico, si univano per creare un patto di sviluppo e ciò
dovuto alla presenza di finanziamenti da parte della Regione.
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➡ Con il passaggio dalla legge numero 8/2003 alla legge numero 5/2006, vengono trattenuti i
patti di sviluppo ma vengono anche introdotti elementi di innovazione, come:
• il principio di auto-organizzazione e la progettualità, ovvero la possibilità di organizzarsi;
• il superamento del principio della contiguità geografica e la conseguente nascita del
meta-distretto, ovvero un distretto che vede la presenza di imprese che stipulano il patto di
sviluppo anche se non si trovano in territori contigui;
• i distretti che possono essere riconosciuti non sono più di tipo esclusivamente
industriale-manifatturiero;
• la reversibilità dei programmi e degli accordi: non vi sono vincoli giuridici per la
coalizione e per la conseguente realizzazione dei progetti;
• non genera la nascita di nuove strutture ed organizzazioni.
Nonostante questi elementi positivi di innovazione, la Regione Veneto e gli imprenditori riscontrano
l’emergere di alcuni problemi:
• dal punto di vista regionale, la cultura individualista degli imprenditori e la loro difficoltà
a collaborare e superare le barriere e la mancanza di fiducia nella pubblica
amministrazione, sebbene la Regione rappresenti il soggetto più vicino al territorio;
• dal punto di vista degli imprenditori, rileva la difficoltà a comunicare con le istituzioni e
la mancanza di interazione stretta, che è causa della diffidenza verso la pubblica
amministrazione; la complessità delle procedure amministrative, in particolare nella
rendicontazione dei progetti — alcune imprese non vengono accettate o rimangono senza
finanziamento per via della mancata compilazione della burocrazia;
• per i problemi dovuti alla burocrazia, le imprese si rivolgono a società esterne di
consulenza, le quali vengono pagate con il finanziamento ottenuto (al posto di essere
utilizzato per coprire le spese del progetto);
• secondo entrambi, vi sono troppi distretti e troppi patti riconosciuti — cit. “finanziamenti
come se piovesse”.
➡ Con il passaggio dalla legge numero 5/2006 alla legge numero 13/2014, la progettualità
precedente decade (a partire dal 2012) e viene operato un cambiamento rilevante: la
soppressione dei finanziamenti per i nuovi progetti, tornando ad un approccio dall’alto con
l’introduzione di nuovi parametri, per definire i distretti industriali.
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Il distretto dello sportsystem di Montebelluna è uno dei distretti Veneti più dinamici e sviluppati.
Esso è specializzato nella produzione di calzature, sebbene non sia l’unico distretto nella
Regione che si occupa di scarpe. Infatti, i distretti calzaturieri sono 3:
1. il distretto di Montebelluna, il quale produce calzature sportive (o sportsystem);
2. il distretto della Riviera del Brenta (tra PD e VE), il quale è specializzato nella
produzione di scarpe da donna alla moda, di qualità medio-alta, fornitore di grandi marchi
del settore moda;
3. il distretto di Verona, che produce calzature di livello medio, un tempo medio-basso, ed è
il più colpito dal fenomeno della delocalizzazione produttiva, causando moria di imprese e
posti di lavoro.
I primi due distretti sono accumunati da uno sviluppo abbastanza simile: nati da un’incubazione
artigianale nella zona veneziana di terraferma tra il 1800 e il 1890, si sono poi trasformati in
sistema fabbrica tra il 1890 e il 1940-50. Al contrario, il distretto di Verona vede uno sviluppo
diverso: nasce come un’organizzazione territoriale di produzione locale con la presenza della
divisione del lavoro, ma vede la mancanza del sub-strato artigianale (= zona distrettuale
giovane). Difatti, le imprese veronesi erano terziste di altre imprese tedesche e hanno visto la
loro prima espansione negli anni cinquanta del novecento.
43
43Calzatura tecnica ed articoli sportivi (sportsystem) di Asolo e Montebelluna: la Legge regionale 13/2014 ha stabilito che i
comuni facenti parte del distretto calzaturiero della provincia di Treviso sono 16; Montebelluna si trova nella parte nord-orientale della
provincia di TV.
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L’individuazione di questi 16 comuni, facenti parte del distretto di Asolo e Montebelluna, è stata
possibile grazie all’utilizzo di 5 criteri o parametri quantitativi:
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Documentazione Ampia
I primi due parametri sono identificati come indici di specializzazione: essi rappresentano il
« rapporto tra la quota di specializzazione di un determinato settore nell’area presa a oggetto di
studio e la quota calcolata per un’area più ampia di riferimento » .
44 Distretto di Montebelluna - identificazione ai sensi della L.R 13/2014: notiamo la presenza di diversi criteri, tra i quali i primi due
risultano essere i più restrittivi (avendo la Regione stabilito delle soglie minime), con particolare focus sul secondo, presente da tempo
nella letteratura scientifica.
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• la prima diffusione dell’alpinismo e di alcuni sport invernali, come lo sci, negli anni
Trenta del novecento. Tuttavia, queste discipline erano ancora praticate da una clientela
d’élite e non di massa.
Questa seconda fase di prima espansione fu possibile, non solo grazie a condizioni esterne
favorevoli, ma anche ad un tessuto interno al sistema di produzione locale caratterizzato da:
• la presenza di imprese considerate storiche nel distretto;
• una forte creatività e spinta all’evoluzione del settore produttivo, con l’introduzione di
macchinari specifici;
• il passaggio da sistema artigianale a sistema di fabbrica;
• la prima diversificazione produttiva, arrivando per prima nella realizzazione di questo
prodotto e spiazzando la concorrenza: introduzione di scarponi da sci monouso. Questo
tipo di innovazione ha conferito la specializzazione e l’orientamento del distretto,
passando da uno scarpone da lavoro verso una calzatura sportiva.
I due periodi centrali nella storia del distretto di Montebelluna sono la fase che va dal 1950 al
1969, con la formazione del modello distrettuale e la fase che va dal 1969 al 1980, con la
riorganizzazione e la crescita del distretto, con il passaggio ad area sistema integrata.
La prima (1950-1969) delle due fasi chiave ha luogo grazie a fattori esterni, come:
• l’aumento della domanda per le attrezzature sciistiche;
• l’effetto trainante di alcuni eventi sportivi, come la scalata e conquista del K22 e le
Olimpiadi Invernali della vicina Cortina;
Internamente al distretto, possiamo ritrovare diverse condizioni:
• introduzione di macchinari complessi;
• fenomeni di spin-off, ovvero ex dipendenti delle grandi imprese che decidono di mettersi in
proprio, sfruttando le conoscenze apprese ➝ nuova imprenditorialità;
• la presenza di divisione del lavoro su fasi anche per le imprese spin-off, conferendo
un’organizzazione distrettuale;
• la presenza del learning by doing, ovvero la diffusione e l’apprendimento di nuove
conoscenze in maniera spontanea, attraverso il proprio lavoro;
• innovazione, per quanto riguarda lo scarpone… da sci, di carattere incrementale di
prodotto e processo e la produzione di altre calzature sportive.
La seconda fase chiave inizia proprio nel 1969, con un evento estremamente importante per il
distretto di Montebelluna, ovvero con l’introduzione di un’innovazione che ne ha cambiato
radicalmente le sorti: la plastica. Infatti, lo scarpone da sci è sempre stato realizzato in pelle fino a
che un tecnico statunitense decise di introdurre questo materiale nella produzione della calzatura
sportiva ➝ INNOVAZIONE RADICALE. Tuttavia, furono le imprese del distretto trevigiano a
mettere in atto un processo produttivo meno costoso ed egualmente efficiente ➝ innovazione
incrementale: introducono il metodo dell’iniezione del materiale plastico all’interno dello stampo, al
posto della colata. Inoltre, in questo periodo vi è un aumento della domanda di articoli sportivi
(essendo le discipline invernali diventate di massa) che lancia lo sviluppo del distretto, unitamente
alla sponsorizzazione sportiva. L’organizzazione del distretto cambia e si fa più strutturata: inizia
la produzione di doposcì, l’adozione del modello di “decentramento a cascata”, l’avvento del
distretto pluri-specializzato, in cui si vede la nascita della filiera e una forte vocazione per l’export.
L’ultima fase riguardante il distretto di Montebelluna, quella della maturità, inizia negli anni ottanta
e continua fino ad oggi. È una fase di crisi, seguita da strategie di risposta messe in atto dalle
imprese del distretto.
I fattori esterni che hanno scatenato la crisi furono:
• la saturazione del mercato, dovuto ad un calo della domanda dei prodotti;
• l’aumento di costo del lavoro e delle materie prime, quest’ultima causata dalla seconda
crisi petrolifera;
• l’inizio di una competizione internazionale, indetta da Paesi Asiatici, che si sono imposti
grazie alle prime delocalizzazioni.
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Nonostante il periodo difficile (due crisi tra il 1980-82 e nel 1987), le imprese mettono in atto
diverse strategie, tra le quali:
• la delocalizzazione produttiva, strategia difensiva per la quale le imprese del distretto
incentrano la produzione in paesi Asiatici, ma soprattutto nell’Est Europa;
• le innovazioni e diversificazioni produttive in settori contigui alla calzatura sportiva, tra
le quali ritroviamo la scarpa da città (“fenomeno Geox”), il pattino in linea, l’abbigliamento
sportivo, che fa di Montebelluna il distretto dello sportsystem;
• l’entrata di multinazionali con processi di concentrazione aziendale: Benetton, Nike e
Adidas entrano nel distretto, le ultime due istituiscono basi di ricerca nello stesso.
Oggi il distretto continua nella produzione della calzatura da montagna e dello scarpone da sci,
ma ha integrato la produzione attraverso la scarpa tecnica per sport, la scarpa comfort da città e
casual, accessori come rotelle, bacchette da sci e caschi ed infine l’abbigliamento casual sportivo,
ovvero la produzione più importante e che genera gran parte del fatturato del distretto.
Inoltre, sono rilevanti anche altri settori che sono collegati o di supporto alle imprese del
distretto: produzione di materie plastiche, servizi all’impresa, logistica, produzione di stampi e
componenti e macchinari.
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45 Evoluzione del numero di aziende 1997-2006 (fonte OSEM - Osservatorio socio-economico di Montebelluna): tra la metà degli
anni settanta e la metà degli anni 2000, vediamo una fase in cui più incide la delocalizzazione produttiva. Ancora presenti 600 imprese
alla fine degli anni Novanta, difatti il distretto era al top delle sue possibilità; nel decennio che va dal 1993 fino al 2005, si vede un
andamento negativo, con la chiusura di piccole imprese e con fenomeni di delocalizzazione.
46Evoluzione del numero di addetti 1997-2006 (fonte OSEM): alla fine degli anni Settanta, il numero degli addetti era ancora al top.
Con l’avvento degli anni duemila, la perdita di occupazione si fa sentire ed è in linea con l’andamento negativo del numero di imprese
presenti nel distretto.
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Negli anni successivi alla crisi, avvengono vari processi di fusione tra le imprese del distretto e
le multinazionali e si assiste ad una forte moria di piccole imprese. Tuttavia, nonostante la
scomparsa di queste imprese, la struttura del distretto rimane prettamente formata da micro
imprese (42%), individuali (22%) e le piccole imprese (26%); le grandi imprese sono ancora un
sostegno presente per l’occupazione distrettuale.
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I cluster industriali vengono ricondotti al nome dell’economista aziendale Porter, il quale, negli
anni novanta, li ha definiti come « concentrazione geografica di imprese, fornitori di beni e
servizi specializzati e istituzioni, fortemente interconnessi, che competono ma anche
collaborano tra loro in un particolare settore »
Questi distretti specializzati si presentano come una categoria più ampia rispetto al distretto
industriale, poiché non comprendono solamente piccole e medie imprese; inoltre risulta
fondamentale la collaborazione con le istituzioni, in particolare delle università, soprattutto
nei cluster dell’high-tech ≠ distretti industriali, in cui la collaborazione non è necessaria né
fondamentale, ma sta diventando sempre più una prassi comune. Infine, si possono
manifestare a più scale geografiche, da imprese spazialmente concentrate fino a cluster
estesi a regioni o addirittura stati (vedi distretto Silicon Valley).
47Cluster di imprese specializzate negli Stati Uniti: saltano all’occhio alcuni dei più importanti centri, come Detroit, le aree del sud
nate recentemente (California) e la zona delle megalopoli dell’Atlantico, da Boston a Washington. In generale, i cluster degli States sono
specializzati in vari settori: la produzione di elicotteri e aeromobili (Seattle), editoria, il giornalismo e la finanza (New York) ed il
settore dell’high-tech (California).
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Dall’esempio di HP nacquero altre imprese, le quali, in principio, erano legate ancora alle
commesse belliche della Seconda Guerra Mondiale. Venne poi creato un “parco industriale”, il
quale offre terreni, edifici, strumenti con i quali gli ex-studenti si misero, e tuttora si mettono, alla
prova. Infine, l’Università finanzia direttamente i progetti, dando vita ad industrie ed
imprenditorialità.
Concentrazione Università, ricerca
+
spesa militare e sviluppo
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momento che molti ingegneri tornano nel loro paese creando nuove imprese e
garantendo posti di lavoro grazie alle conoscenze acquisite.
Lo sviluppo delle città globali e delle megacittà è dovuto alla crescita del settore terziario, avvenuta
attraverso varie fasi di sviluppo.
Una prima fase caratterizza il ventennio dal 1960 al 1980, in cui non si nota ancora una
terziarizzazione ma un forte sviluppo del settore dei servizi al quale si affianca uno sviluppo
dell’industria e una riduzione del settore agricolo. Durante questa fase risalta uno sviluppo della
società dei consumi, con la crescita del reddito per famiglie: aumento del benessere e nascita
di imprese legate al settore terziario che organizzano la distribuzione di prodotti di massa. In
questo periodo, grazie allo sviluppo del tempo libero, nasce anche il turismo di massa ed i servizi
legati al turista; l’amministrazione si modifica introducendo servizi al cittadino, come trasporti,
infrastrutture, sanità, istruzione e pubblica amministrazione ed infine, questa prima fase è
caratterizzata dalla crisi del fordismo con la prima de-industrializzazione delle economie
occidentali.
La seconda fase rientra nel periodo che va dagli anni Ottanta fino ai giorni nostri, con
protagonista il fenomeno della terziarizzazione. È caratterizzata dal fenomeno della
globalizzazione e della nuova divisione internazionale del lavoro; dalla nascita di filiere di
produzione con una conseguente crescita dei servizi per una complessificazione
dell’impresa(marketing, contabilità, consulenza); dalla crescita del settore turistico, legata alla
mobilità, alla diminuzione dei costi dei trasporti su lunghe distanze (occupa un 15% dei servizi su
scala globale ed ha subito una riduzione nel 2008 con successiva crescita esponenziale); dalla
crescente importanza del settore finanziario, con servizi legati alle banche, alle assicurazioni,
alle attività della finanza ed infine dalla domanda e dal consumo di servizi basati sulla
conoscenza e sull’informazione. « Effetto statistico »: bisogna riflettere su come vengono
calcolati i dati poiché l’occupazione terziaria è sempre stata sottostimata. Difatti, i dipendenti
del settore terziario che si trovano anche nelle industrie, facenti parte invece del settore
secondario, venivano contati nelle statistiche occupazionali del settore secondario. Attualmente,
l’occupazione del terziario inizia a crescere poiché gli addetti vengono contabilizzati correttamente.
Chiara Zecchini
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città globali, ci viene dato dal sociologo Castell ed, in particolare, dalla sociologa olandese Saskia
Sassen: i due cambiano il nome delle World Cities in « Global Cities », quello attualmente usato
nella letteratura della geografia economica.
La Sassen individua vari indicatori per definire le città globali (la cui caratteristica più peculiare è
la multiculturalità):
Non basta possedere una sola tipologia tra le precedenti per essere considerata come città
globale, ma bisogna presentare tutti gli indicatori. Tra le città che la Sassen individua come
globali (sono poche), troviamo NY, Londra e Tokyo. Altri autori, hanno elaborato delle gerarchie in
cui compaiono, non solo le tre precedentemente citate, ma anche altre città che possiedono
alcune, ma non tutte, le caratteristiche elaborate dalla sociologa e che quindi possono essere
considerate come GC meno importanti.
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48Dimensione globale della città: la società introduce come indicatori il traffico merci, il capitale umano, la direzione della ricerca ed il
numero di congressi, citando inoltre varie attività che siano in grado di attrarre popolazione su scala globale (punto centrale).
49 Global cities index: nella tabella stilata sempre dalla società A.T. Kerney, vediamo, tra il 2016 e il 2014 l’introdursi di città asiatiche,
le quali modificano la classifica in cui erano solitamente presenti solo città occidentali (ad eccezione di Tokyo)
50 La popolazione nelle grandi città (1950-2030): l’immagine mostra la crescita della popolazione all’interno delle GB. Nel 2009 si è
realizzato il sorpasso, ovvero la popolazione urbana ha superato la popolazione rurale. Inoltre, vediamo dinamiche diversi tra i paesi
avanzati ed i PVS: nel 1950 erano USA, UE e Japan le aree più urbanizzate; a partire dalla metà degli anni Settanta, lo sviluppo inizia a
rallentare, mentre la popolazione nei PVS cresce in modo più rapido ed elevato.
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Il multilateralismo
Prima della conclusione della II GM, gli Stati Uniti indissero una conferenza, chiamata Bretton-
Woods (1944) al fine di decidere l’assetto dell’economia mondiale alla fine del conflitto. Gli scopi
principali, di quelli che poi diventeranno gli Accordi di Bretton-Woods, erano la liberalizzazione
del commercio e dei movimenti di capitale al fine di creare armonia, sviluppo e benessere
all’interno e tra gli Stati che presero parte alla conferenza (tra le potenze più importanti del
51Le megacittà nei paesi avanzati (milioni di abitanti): nel 1975, si nota la presenza solamente di tre megacittà, ovvero Tokyo, NY e
Città del Messico. Negli ultimi anni, il numero delle megacittà sta crescendo sebbene, nei paesi avanzati, si stia assistendo ad un
progressivo rallentamento della crescita e sviluppo della popolazione. Al contrario, nei PVS la popolazione continua ad aumentare
rapidamente.
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persone; essa non solo regola gli scambi di beni e servizi, ma si occupa anche dei diritti e della
protezione della proprietà intellettuale.
Inoltre, il GATT regolava l’abbattimento delle sole barriere tariffarie, quindi dei soli dazi
doganali; al contrario, la WTO, oltre ad occuparsi di barriere tariffarie e non, si occupa di problemi
ambientali, di appalti pubblici, di trasparenza delle regole, del rispetto delle condizioni di
lavoro dei dipendenti. Essa regola anche i conflitti tra i paesi membri dell’organizzazione,
attraverso l’operato del Dispute Settlement Body, istituito a favore della risoluzione di controversie
internazionali. Infine, il GATT includeva 117 paesi, mentre la WTO possiede un’organizzazione
geografica più estesa, contando di 164 paesi con l’aggiunta di 20 paesi definiti “osservatori”,
ovvero in attesa di entrare nell’organizzazione (entro 5 anni contati dal momento in cui uno Stato
diventa osservatore, devono iniziare le negoziazioni ai fini dell’adesione di tale stato al WTO;
eccezione a tale regola è la Santa Sede).
Per i paesi aderenti alla WTO vedere mappa GC-13: tutto il commercio internazionale avviene
all’interno delle dinamiche e regole della WTO.
52Clausola della nazione più favorita: ciascun paese ha l’obbligo di estendere a tutti gli altri membri della WTO le migliori
condizioni che concede a uno di essi.
53 Trattamento nazionale: non devono esistere politiche diverse tra prodotti nazionali ed extra-nazionali, ovvero deve svilupparsi una
libera circolazione di beni e servizi.
Il dumping: la vendita di un prodotto su mercato estero ad un prezzo che è inferiore rispetto al prezzo di origine del prodotto sul
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mercato di origine.
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invece le teorie economiche; alcuni economisti, ma soprattutto i rappresentanti dei PVS, obiettano
poiché questo principio non sempre funziona, se non nel caso dei paesi avanzati.
La base del sistema WTO: gli accordi generali ratificati alla conclusione dell’Uruguay round
(1986-1994)
Tre sono gli accordi che vennero ratificati, modificati, aggiornati ed introdotti alla conclusione
dell’Uruguay round nel 1994, il quale vide anche la nascita della stessa WTO, operativa dal 1995:
− il General Agreement on Trade and Tariffs (1994) rappresenta la versione aggiornata
dell’accordo GATT del 1947, in materia di impegni industriali e, all’interno del quale, si
erano svolte tutte le trattative sul commercio internazionale. Esso disciplina le regole del
commercio per quanto riguarda i beni;
− il General Agreement on Trade in Services (GATS) il quale disciplina le regole del
commercio internazionale in materia di servizi, che stanno diventando sempre più
importanti nell’ambito dello stesso. Difatti, il commercio dei beni differisce da quello dei
servizi, i quali vengono commerciati in maniera differente e, per questo motivo,
necessitano di normative;
− il Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights (TRIPS) il quale disciplina i diritti
legati alla proprietà intellettuale, poiché le idee e la conoscenza sono parte del
commercio stesso (beni il cui valore è costituito dai idee, innovazioni, design e
conoscenza). I Paesi che hanno sottoscritto l’accordo si impegnano al rispetto di uno
standard minimo di riconoscimento dei diritti legali della proprietà intellettuale nei
confronti degli altri Paesi membri. Vi sono differenti sistemi di protezione della proprietà
intellettuale, come: i copyright, trademark, i brevetti e le indicazioni geografiche (relative a
prodotti agroalimentari, i quali sono espressione di un dato territorio e vanno, quindi,
protetti ciascuno con regole speciali conformi alla propria natura).
Alla base della WTO ritroviamo anche accordi definiti aggiuntivi, o annessi, poiché riferiti a
specifici settori o tematiche:
− agricoltura, tema piuttosto controverso per il quale si dibattono paesi avanzati tra loro,
ma anche PVS. I Paesi comunitari (UE) pongoNO dei sussidi oppure introducono
politiche a sostegno della stessa che possono distorcere il commercio internazionale;
− gli standard igienico-sanitari dei prodotti, a tutela, sia della salute del consumatore, che
dell’ambiente che la WTO dichiara di difendere, includendoli nei propri obiettivi, quindi
barriere non tariffarie giustificate (tuttavia, l’organizzazione non sempre è attiva in tale
scopo);
− le misure anti-dumping, l’abbattimento dei sussidi e la tutela delle indicazioni
geografiche;
− gli standard tecnici dei prodotti, i servizi finanziari, delle telecomunicazioni e del
trasporto aereo.
Inoltre, rientrano nei documenti della WTO anche gli elenchi degli impegni assunti dai singoli
Paesi, i quali fissano dei paletti (cit.) precisi una volta presi in carico gli impegni ed il rispetto degli
stessi (si impegnano a mantenere le proprie politiche all’interno di tali paletti); le procedure per
comporre le dispute, che riguardano l’interpretazione di accordi e regole; infine, il monitoraggio
periodico delle politiche commerciali dei Paesi membri, funzione prettamente di controllo.
Chiara Zecchini
abbiano effettivamente comportato l’aumento dei posti di lavoro, in quanto ci sono talmente
tanti fattori a concorrere all’aumento occupazionale che non si è dunque certi che questo
abbia influito efficacemente (teoricamente la risposta è positiva, poiché al commercio
internazionale sono legati molti posti di lavoro, comprendenti anche il commercio al
dettaglio ed i servizi all’impresa);
• ha portato vari vantaggi per i consumatori in termini di abbassamento dei prezzi, ma
anche di standard di vita, ovvero la possibilità di avere a disposizione più prodotti. In linea
generale, possiamo affermare che ciò sia vero, in quanto se sono diminuiti i costi della
materie prime, questo ha avuto effetti sui costi di produzione e di commercio dei beni;
• ha favorito la distensione politica internazionale, operando come deterrente contro le
guerre e le tensioni internazionali. Difatti, grazie alla presenza di economie interagenti ed
integrate, i Paesi rivali godono di una stabilità politica altrimenti inesistente (es: le tensioni
che intercorrono tra Cina e Taiwan non conducono ad una guerra dal momento che i due
Paesi intrattengono relazioni commerciali interne molto forti per quanto riguarda la
produzione di prodotti elettronici).
Il fenomeno del regionalismo nasce a partire dal secondo dopoguerra ed esso si pone come una
delle due modalità di liberalizzazione del commercio internazionale. Esso consiste nella
stipulazione di uno o più accordi tra due o più Paesi, i quali cercano di abbattere, o almeno
ridurre, le barriere al commercio presenti tra loro; da questi accordi sono esclusi i Paesi che non
vi hanno preso parte.
Nel Dicembre 2015, sono stati notificati alla WTO ben 266 accordi regionali e ciò significa che
tutti i Paesi facenti parte dell’organizzazione hanno stipulato al meno un accordo, fino ad un
massimo di 30 accordi (ne è esclusa la Mongolia, la quale sta però trattando per stipularne uno). Il
regionalismo è un fenomeno in contrasto con i principi dell’istituzione, in particolare con quello di
non discriminazione e con la clausola della Nazione più favorita; nonostante ciò, essi sono
ammessi come eccezione dall’articolo 24 dello Statuto, presente sia nel GATT che nella WTO
stessa.
La domanda che ci si pone è perché gli accordi regionali siano ancora vigenti: la risposta sta nel
fatto che, nel 1995 (anno dell’inizio dell’operatività della WTO), gli accordi regionali erano già molti,
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Chiara Zecchini
quindi un’abolizione era considerata sia improponibile che improbabile; si è optato piuttosto per
un inserimento dell’accordo nello statuto. Inoltre, il fenomeno viene ritenuto complementare al
multilateralismo, ovvero si presenta come una tappa intermedia che vede l’abbattimento delle
barriere commerciali tra pochi Paesi: abbattimento che viene poi esteso all’esterno. Ancora, il
regionalismo è dettato da motivazioni politiche più forti di quelle che legano il multilateralismo,
dal momento che si tratta di un aggregato (o territorio) più limitato. Un esempio, è l’UE, la cui
antenata è la Comunità Economica Europea (o CEE), nata per diffondere benessere, pace ed
armonia tra i vari Paesi dopo al fine della II GM e per creare un’unione economica abbastanza
forte da contrastare l’URSS e l’avanzamento del comunismo. Infine, gli accordi regionali possono
essere una risposta efficace ai lunghi e complessi negoziati che caratterizzano il processo
decisionale della WTO: essendo i Paesi coinvolti in numero inferiore, una soluzione viene
raggiunta più in fretta.
Chiara Zecchini
• la prima fase, che va dagli anni sessanta agli anni settanta, in cui gli accordi erano
definiti di prima generazione. Questo periodo è caratterizzato da un regionalismo
orizzontale con accordi tra paesi con livello di sviluppo simile (accordi Nord-Nord,
che accorparono paesi del nord del mondo, come la CEE, oppure Sud-Sud, che
legarono paesi del sud del mondo, o paesi in via di sviluppo, come quelli dell’America
latina o dell’Africa, con un distinzione netta fatta per diverse ragioni). Le motivazioni degli
accordi Nord-Nord era quella di creare un ampio mercato, ma alla base si ritrovano
anche motivazioni politiche (un esempio è sempre la CEE). Al contrario, gli accordi
Sud-Sud furono istituiti tra paesi che volevano portare avanti una strategia di
sostituzione delle importazioni: all’epoca si riteneva che, abbattendo le barriere
commerciali tra di loro e innalzandole all’esterno, si sarebbe riusciti ad attivare uno
sviluppo dell’economia all’interno e una crescita che avrebbe portato alla riduzione della
dipendenza dai paesi industrializzati, facilitando un circuito commerciale interno, per
acquistare maggiore forza e potere contrattuale sul panorama economico mondiale.
Le ragioni erano di ordine nazionalista o di tipo anti colonialista. L’abbattimento delle
barriere tariffarie ha avuto risultati positivi per quanto riguarda gli accordi Nord-Nord
(creazione della futura UE), ma negativi nell’ambito Sud-Sud, in quanto questi paesi in
via di sviluppo non erano complementari riguardo le specializzazione, e commerciavano
gli stessi prodotti;
• la seconda fase inizia negli anni novanta e continua fino ai giorni nostri. Essa è
caratterizzata sempre da un regionalismo orizzontale, ma subentra anche
regionalismo verticale, che unisce paesi del Nord del mondo con paesi del Sul globale:
è il caso emblematico dell’accordo NAFTA.
Ultimamente, si riscontrano nuovi accordi, nati dopo gli anni 2000, ancora in essere:
sono prevalentemente bilaterali chiamati hub and spokes (che richiama la struttura
degli aeroporti), per i quali un grande paese o gruppo di paesi, che già fanno parte di un
accordo regionale, stipulano una serie di accordi bilaterali con altri paesi esterni non tra
di loro collegati; un esempio è il Partenariato Euro-mediterraneo, stipulato tra l’UE nel
suo insieme ed i singoli paesi del Nord Africa, con patti bilaterali per abbattere le barriere
commerciali e collaborare in materia di investimenti; negli anni successivi, l ’UE inizia a
stipularli anche con paesi africani, caraibici, asiatici. Essa ne ha stipulato uno anche con
grandi blocchi economici, in questo caso gli USA, il quale però resta ancora in fase di
stallo: è il caso del Transatlantic Trade and Investment Partenership (TTIP).
Chiara Zecchini
semplificazione delle normative tra le due aree, soprattutto riguardo alle barriere non tariffarie,
punto più contestato, in quanto ci sono normative molto diverse, specialmente riguardo agli
standard di qualità dei prodotti, del lavoro, dell’uso di pesticidi (i cui residui rimangono nei prodotti
agricoli) e sul consumo di OGM; l’Europa si affida al principio di precauzione (nel dubbio, non si
ammettono questi prodotti, mentre negli USA si ammettono, e se fanno danni si aprono cause
contro le multinazionali); infine, il miglioramento delle normative sui rapporti commerciali.
UE sostiene il trattato per la possibilità di una crescita economica ed un aumento dei posti di
lavoro; chi si oppone sostiene, invece, che ciò non è dimostrato e che non si deve essere disposti
a rinunciare alla qualità che garantisce i prodotti Europei.
L’Unione Europea ha stipulato altri accordi con altre aree del pianeta. Un esempio è il grande
trattato con il Canada (CETA - Comprehensive Economic and Trade Agreement), con più o meno
gli stessi contenuti del TTIP, senza ricevere però grandi attenzioni o scontri.
Gli USA sono impegnati con un altro accordo (TPP - TransPacific Partnership), tra i paesi facenti
parte del NAFTA e altri paesi del Sud America, Sud-Est asiatico e Australi: è già stato firmato a
febbraio 2016, ma non ancora ratificato dai vari governi (sotto osservazione).
In Africa (di cui si parla molto poco), ci sono dei grandi accordi regionali, in cui si negozia un
nuovo accordo tra tre blocchi (vedi mappa), per creare una tripartizione di area commerciale
liberalizzata.
Ancora in corso di negoziazione è l’accordo tra due paesi ormai emersi, Cina e India, che
legherebbe queste potenze con tutti i grandi paesi del Sud-Est asiatico (tranne Corea del Nord) e
con Australia e Nuova Zelanda.
Lectio Magistralis del Prof. Franco Farinelli: “La mappa, la sfera, la terra: natura della
globalizzazione”
La geografia viene definita come la scienza che fornisce i modelli per tentare di capire come
funziona il mondo.
Strabone, geografo e storico greco antico, definisce i filosofi presocratici (ovvero quei pensatori
presenti prima della nascita della filosofia) come i primi geografi: Anassimandro fu il primo a
pensare un modello geografico del mondo e a pretendere che quello fosse il mondo. Con l’avvento
dello stato moderno centralizzato vi è un’inversione dei termini: la mappa non è più la copia del
territorio, ma è il territorio ad essere la copia della mappa. La struttura dello stato moderno difatti è
geometrica ed il territorio deve avere tre proprietà:
1. esso deve essere continuo, ovvero non può essere composto di frammenti sparsi;
2. deve essere omogeneo — l’omogeneità si riferisce alla nazione si fonda sul presupposto
per il quale i suoi abitanti condividono tutti lo stesso linguaggio, la stessa religione, la
stessa cultura (natura). In realtà, mai è così;
3. l’ultima caratteristica è l’isotopia, ovvero tutte le parti di cui il territorio si compone devono
essere voltate alla stessa direzione (a ciò serve la capitale, difatti essa si trova
tendenzialmente al centro per segnare il punto verso il quale tutte le parti dello stato
devono essere orientate).
Questo modello di stato moderno definisce una costruzione geometrica poiché queste tre proprietà
(continuità, omogeneità e isotopia) nella geometria classica euclidea specificano la natura
geometrica di un’estensione.
• Nell’estate del 1969 avveniva lo sbarco sulla luna, ed in quegli stessi giorni nasceva la
rete, cioè il funzionamento del mondo iniziava a mutare natura dal momento che la
distanza fisica comincia a non contare più come prima per il funzionamento della terra. Con
la rete nasceva la globalizzazione: lo spazio si ritira, ovvero non gestisce più il
funzionamento del mondo.
• La modernità e il funzionamento del mondo che siamo in grado di comprendere e, in
qualche modo, controllare si basano sulla riduzione della terra ad una mappa, ad una
tavola bidimensionale al cui interno, la relazione decisiva per il funzionamento del mondo,
è la distanza lineare tra due punti. Il primo ad aver dato inizio a quest’operazione fu
Tolomeo (Alessandria, 200 d.C) , il quale scrisse un manuale per progettare le mappe.
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Nacque, quindi, la prospettiva moderna o lineare, che si basa sulla distanza lineare e lo
spazio diventa il codice con il quale organizzare il mondo moderno (Cristoforo Colombo è il
primo viaggiatore moderno: a lui, a differenza di Marco Polo, non importa di conoscere ciò
che ha di fronte perché ha con sé le mappe, sa già cosa troverà e la realtà per Colombo o
si adegua al modello o non esiste). Organizzazione territoriale moderna: fino alle fine del
1600, le strade non erano dritte, bensì curve e non erano disegnate sulle mappe, ma
sulle carte antiche; nel 1800 vengono introdotte le prime ferrovie, con lo spianamento di
terre per il posizionamento dei binari; la prima metà del 1900 è conosciuta come l’epoca
delle prime autostrade (autobahnen → “ferrovie per le macchine”). Differentemente
dall’epoca moderna, al tempo dell’antica Roma, lo spazio era importante solo ai fini della
guerra e della gestione dell’Impero.
• Nell’anno 1969, Nixon si vede costretto ad abolire la convertibilità del dollaro con l’oro,
abolendo così l’ideologia della stabilità monetaria, segno che il nuovo funzionamento del
mondo, a qualche mese, di distanza aveva già provocato delle conseguenze proprio in
funzione del cambiamento di regime del funzionamento del mondo. Differenza tra luogo e
spazio: lo spazio è qualcosa di tecnicamente molto preciso, dal greco στάδιον cioè lo
stadio, la misura metrica lineare standard che presuppone che ci sia una superficie, che
questa superficie sia ridotta ad un insieme di punti geometrici e che la relazione
fondamentale sia quella della distanza fra i punti stessi. Le parti di cui lo spazio si
compone sono perfettamente equivalenti. Il luogo invece (Aristotele) è esattamente il
contrario, è quella parte della superficie terrestre che si assume dotata di qualità
irriducibili a quelle di qualsiasi altro, dunque che non si possono scambiare. In questo
senso, la globalizzazione altro non fa che tornare a far rivivere, in qualche maniera,
esattamente la diversità dei luoghi che sono sopravvissuti al modo con cui la modernità ha
organizzato il proprio funzionamento (riducendo lo spazio a mappa, quindi a punti
indistinti).
• Al giorno d’oggi la merce più importante che si possa vendere sul mercato è la cultura
(che il professore definisce come « capacità di manipolazione simbolica »), che ha un
nesso imprescindibile con i luoghi. Da Tolomeo in poi sappiamo che il globo, la sfera
terreste e il modello della mappa sono l’un l’altra irriducibili, non è possibile trasformare
completamente una sfera in una tavola. La sfera è una struttura chiusa e allo stesso
tempo illimitata, non se ne possono delimitare i confini. La tavola invece si compone di
linee limitate e aperte. Perché allora siamo costretti a pensare in termini di sfera? Perché
per la prima volta, e in questo consiste la globalizzazione, l’economia mondiale funziona
all’unisono come un tutt’uno. Oggi i flussi finanziari non hanno bisogno né di tempo ne
di spazio come venivano intesi prima, e questo accade proprio perché, per la prima volta,
il funzionamento stesso del mondo ci costringe a pensarlo come una sfera.
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• la deforestazione, ovvero la perdita del grande patrimonio forestale globale, che affligge
soprattutto la Foresta Amazzonica e le foreste dell’Asia. Questo fenomeno deriva dal
cambiamento del ritmo nelle trasformazioni dell’ambiente naturale da parte dell’uomo; ne
sono causa svariate attività, come l’allevamento del bestiame, in particolare di bovini,
oppure le coltivazioni, di mais o olio di palma (poi utilizzati dalle grandi imprese
multinazionali), la crescita della popolazione e la costruzione delle infrastrutture. Gli
effetti della deforestazione si riscontrano: nell’avanzamento del surriscaldamento
globale, dal momento che le foreste hanno effetto contenitivo per quanto riguarda l’effetto
serra — sono i grandi polmoni del pianeta, trattengono CO₂ e rilasciano ossigeno; nella
cessazione del processo di mitigazione delle piogge (le alte fronde trattengono la
pioggia ed evitano il dilavamento della superficie terrestre); nella scomparsa della
biodiversità, dalla quale l’industria farmaceutica è in buona parte composta, (i farmaci
sono composti prevalentemente da prodotti naturali) causata dall’avanzamento della
desertificazione. Alcuni scienziati stimano che, negli ultimi 25 anni, sia stato perso circa il
10% del patrimonio forestale globale, del quale buona parte riguarda la foresta
Amazzonica, la più colpita;
• recentemente, si sta assistendo al fenomeno della spazzatura elettronica, generata dalle
nuove tecnologie e industrie, che, per produrre beni, necessitano di grandi quantitativi di
acqua e rocce, le cui cave non vengono mai ripristinate, ed energie: i prodotti vengono
scartati nel giro di pochissimi anni e quindi questi materiali vengono rilasciati ed
abbandonati nell’ambiente.
55 Temperature globali e annuali della superficie terrestre (Fonte: Intergovernmental Panel on Climate Change - ICPP): dal 1960
al 2010 si è registrato un aumento della temperatura di circa 1°C (da 13,8 a 14,6°C) e ciò viene ritenuto sufficiente per scatenare i
fenomeni sopra citati. Alcuni scienziati sostengono sia dovuto a fasi naturali della Terra, che ha visto momenti sia di glaciazioni che di
riscaldamento (processo naturale) mentre altri sostengono invece sia un fenomeno patologico, poiché nella fase attuale non si sono mai
registrati cambiamenti così rilevanti in un lasso di tempo così breve.
56Principali 20 paesi per emissioni CO₂ nel 2010: dal 1995 al 2010 vediamo in testa alla classifica Stati Uniti e Cina, i quali sono
responsabili del 40% delle emissioni globali di anidride carbonica, scambiandosi anche di posizione. Vediamo inoltre una diminuzione
delle emissioni nei paesi occidentali, mentre nei PVS aumenta, dovuto al consumo di energia per alimentare i processi di sviluppo in
corso (es: utilizzo e consumo di petrolio):
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l’analisi dell’inquinamento, con i possibili effetti di contenimento del fenomeno. Nonostante ciò,
non viene messo in discussione il modello “cowboy” e vengono presi impegni generici, non
giuridicamente vincolanti.
Nello stesso anno, sempre 1972, viene pubblicato un libro, intitolato The limits to growth (legato al
limite delle risorse disponibili) dal Club di Roma. Quest’ultimo commissionò al Massachusetts
Institute of Technology (MIT) l’elaborazione di un modello matematico che prevedesse il momento
del collasso, ovvero della fine delle risorse energetiche a disposizione. Come limite, fu calcolato
l’anno 2000, l’avvento del nuovo millennio; i risultati dello studio non ebbero riscontro, ma fu la
prima volta che ci si pose il problema del “quando” in termini matematici.
Qualche anno dopo, nel 1987, sempre in sede di conferenza ONU, venne esposto il rapporto
Bruntland, dal quale emerse il concetto di sviluppo sostenibile, cioè uno sviluppo che « soddisfi i
bisogni del presente senza compromettere le capacità delle generazioni future di poter soddisfare i
propri », cercando quindi di lasciare qualcosa (in termini di ambiente e risorse) a chi verrà; il
problema fu quello di rendere operativo questo concetto di sviluppo sostenibile, modificando il
modello di sviluppo dominante, passando dal modello “cowboy” al modello “navicella spaziale”.
Vent’anni dopo la Conferenza di Stoccolma, nel 1992, le Nazioni Unite si riunirono a Rio, la cui
conferenza venne chiamata Vertice della Terra (l’obiettivo era quella di far uscire, al termine della
conferenza, una sorta di “manuale dello sviluppo sostenibile”) e nella quale venne discusso il
problema del cambiamento climatico con la sottoscrizione di una dichiarazione che non ebbe
vincoli di carattere giuridico. Fu solo un avvicinamento verso la messa in atto dell’applicazione
di norme ben precise, in quanto non si vincolano i paesi giuridicamente con un patto: venne solo
stabilito l’aumento della temperatura senza definire obblighi.
Il primo vero passo verso l’imposizione di vincoli in materia di cambiamento climatico, avvenne nel
1997, con la stesura del Protocollo di Kyoto, un vero e proprio trattato internazionale in materia di
cambiamento climatico, facente parte di una serie di azioni per contrastare il problema ambientale,
in particolare il surriscaldamento globale e l’effetto serra.. Esso entra in vigore solo molto più
tardi, nel 2005, perché una delle clausole del trattato prevedeva che, per diventare effettivamente
operativo, esso fosse ratificato (dai parlamenti dei vari stati membri) da almeno 55 paesi che
l’avevano firmato, e che tali paesi fossero responsabili di almeno il 55% delle emissioni globali
di CO₂. Nel 2004 esso fu ratificato dalla Russia entrando in vigore (gli USA non l’hanno ratificato,
ed era venuta a mancare una grande fetta delle emissioni). Per la prima volta si fissa un obiettivo
vincolante per la riduzione dei gas serra: entro il 2012 si sarebbe dovuta verificare una riduzione
del 5,2% (dato globale), rispetto al valore di riferimento del 1990; ad ogni paese venne poi
assegnata una quota di riduzione in riferimento alle proprie emissioni e possibilità (Italia=6,5%).
I risultati raggiunti dalla maggior parte dei paesi dell’UE sono positivi, ma a livello globale non si
è raggiunto l’obiettivo poiché nel protocollo non sono stati inclusi paesi come la Cina, che si è
sviluppata incredibilmente attraverso l’uso di energie non rinnovabili, contribuendo
all’inquinamento atmosferico.
• Il protocollo prevede tre allegati, uno per i paesi sviluppati (obiettivo 5,2% con quote
individuali); uno per i paesi in transizione, cioè che transitano verso una stabilizzazione
economica (che hanno solo obblighi di stabilizzazione, per non peggiorare la
situazione); infine un terzo elenco di paesi in via di sviluppo senza obblighi di riduzione o
di stabilizzazione (hanno deboli processi di sviluppo): qui vengono incluse potenze come
Cina e India, in quanto si temeva che imporre obblighi di riduzione avrebbe potuto bloccare
i loro processi di sviluppo economico. Per quanto riguarda gli USA, dopo la firma, vennero
inseriti nel primo gruppo, ma si sottrassero poi ai propri impegni non ratificando il
protocollo (sostenendo che avrebbe potuto peggiorare l’economia americana - in realtà a
causa di interessi economici).
• I risultati raggiunti, seppur modesti, hanno segnato l’assegnazione di obblighi precisi in
ambito ambientale, includendo anche altri paesi, per allargare l’area di coinvolgimento. Nel
2012 ci si rese conto che gli obiettivi fissati da Kyoto sono nulla in confronto a ciò che si
deve fare per risolvere il problema del cambiamento climatico (che sarebbe un 40% di
riduzione delle emissioni).
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A seguito del protocollo di Kyoto ci fu un periodo di impasse, senza sapere come andare avanti,
difatti, per qualche anno, si prolungò il protocollo senza prendere decisioni ulteriori.
Il punto di svolta si presentò nel 2016, a novembre, con la ratifica di un nuovo accordo, Accordo
di Parigi (Conferenza di Parigi, fatta nel 2015) con il quale ci si pose ancora il problema del
limite massimo dell’aumento di temperatura per non aggravare la situazione (limite fu ritrovato
in 2°C, con l’imposizione di non far aumentare la temperatura oltre questa soglia entro la fine del
secolo). Già quando si configurò questo accordo, molti scienziati ritenevano che questa soglia non
fosse sufficiente per salvare il pianeta: sì stare entro i due gradi, ma fare in modo di sforzarsi per
non oltrepassare gli 1,5. Un altro ambizioso obiettivo che gli stati si sono posti fu quello di
arrivare a 0 emissioni di CO₂ entro il 2050; la Cina, inoltre, è stato uno dei paesi protagonisti,
insieme agli USA.
Verso la fine del mese di novembre ci fu anche la Conferenza di Marrakech (COP22): fu poco
concludente e si stabilì che in un anno si dovesse mettere a punto un programma operativo, in
vista della conferenza di Aprile 2018 (sfida fortissima, anche perché tra le clausole c’è quella di
dotare i paesi in via di sviluppo, per il 2020, di 100 miliardi di $ all’anno, per farli progredire e non
farli cadere negli stessi errori in cui sono caduti i paesi occidentali: il problema è trovare i fondi).
Nel frattempo, però, è cambiata la presidenza degli USA: l’ex presidente Obama aveva spinto
per l’adesione degli all’accordo di Parigi, mentre ora la presenza di questo stato è messa in
discussione dalle affermazioni di Trump, che considera il surriscaldamento globale una mera
invenzione.
La green economy
L'economia sta però cambiando da sola, introducendo negli ultimi anni il concetto di green
economy, al fine di rendere operativo il modello di sviluppo sostenibile sotto il punto di vista
economico (e non politico), per non compromettere le possibilità di crescita delle generazioni
future.
Le due definizioni sono simili, ma la seconda si concentra sul fatto che nella green economy si
legano gli aspetti della salvaguardia ambientale (limite risorse) e il fatto che, riconvertendo le
economie, si creano nuovi posti di lavoro e si può uscire dalla fase di crisi economica in cui
sono precipitati i paesi occidentali.
Tra i pilastri di un’economia sostenibile ritroviamo:
• l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili (solare, geotermica, da biomasse) abbandonando
quelle non rinnovabili, alla base del modello economico lineare (petrolio, carbone), garantendo
sia la salvaguardia del pianeta, che la creazione di posti di lavoro nel settore della sostenibilità
ambientale;
• il risparmio energetico, riducendo la domanda di energia ed ottimizzandola in tutte le
componenti della vita umana (industriale, domestica);
• il riciclaggio, quindi imitare il funzionamento del sistema terra (nulla si crea, nulla si distrugge,
ma tutto si trasforma);
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Riflessioni conclusive
1. Riflettere sul concetto di distanza: ha ancora senso parlare di distanza nell’era della
globalizzazione? Fare riferimento alla Lectio del Professor Farinelli riguardo l’« annullamento57
», o meglio riduzione, di tempo e spazio, con la nascita di una convergenza spazio-temporale (la
nascita della rete internet, il primo uomo sulla Luna). Se guardiamo a fenomeni di carattere
immateriale, lo scambio avviene in tempo reale; tuttavia, gran parte della nostra economia è
formata da scambi materiali, in particolari di merci. Per questi scambi commerciali, si è ridotta la
convergenza spazio-tempo in termini di costo del trasporto e una riduzione della distanza
funzionale. Inoltre, alcuni Paesi sono poco connessi, o quasi nulla, connessi nel contesto della
globalizzazione.
2. Riflettere sulla differenziazione spaziale nell’era della globalizzazione, riferendoci a vari fattori,
per esempio al costo del lavoro, alla qualità dello stesso e al livello di sviluppo. Inoltre, anche la
scelta del territorio in cui produrre, o alla localizzazione di imprese che sopravvivono ancora al
fenomeno globalizzazione (come i distretti industriali ed i cluster industriali): per questi due
fattori non si vede una particolare differenziazione dei luoghi. La diversità delle varie aree
geografiche, dal punto di vista turistico, si vede nella presenza di un patrimonio culturale ed
artistico che differisce in base al Paese in cui ci si trova; al contrario, la grande distribuzione e le
grandi marche risultano standardizzate e non differiscono in base alla zona.
3. Riflettere sulle diverse velocità della globalizzazione, che vede un’accelerazione per quanto
riguarda le mode, i flussi finanziari e gli scambi commerciali. Meno rapida è nei confronti della
diffusione dei diritti umani e dei lavoratori, sulla tutela dell’ambiente: si vedano le difficoltà che la
comunità internazionale incontra nel trovare una soluzione per quanto riguarda il cambiamento
climatico. Inoltre, non è poi così veloce anche per quanto concerne lo sviluppo di alcuni Paesi i
quali rimangono al di fuori di questi vantaggi offerti dalla globalizzazione.
57Utilizzare il termine annullamento rende in modo troppo forte la diminuzione della distanza funzionale ed, inoltre, esso è legato alle
percezioni di ogni individuo, in base al contesto in cui vive.
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5. Riflettere sul concetto della « cittadinanza e mancanza di controllo sull’operato degli attori
economici »: il singolo individuo che potere ha oggi di contrastare tutte le decisioni che
passano sopra la propria testa e che avvengono a livello di organizzazioni sovranazionali?
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produzione industriale, come l’automazione (robot avanzati che garantiscono risparmi nel
costo del lavoro) e la fabbricazione digitale; la correzione di errori di valutazione.
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58 Evoluzione temporale del fenomeno su scala globale: non ci sono dati certi, di conseguenza gli esperti cercano di creare dei
grafici, cercando i dati da molte fonti diverse. Trend su scala globale e sul nostro Paese. Fenomeno si concentra dal 2009 in avanti, fino
al 2013. Nel 2014 c’è una flessione.
59Distribuzione percentuale dei casi di rientro per paese di origine: Stati Uniti oltre il 46%, l’Italia oltre il 20% nonostante sia un
paese più piccolo degli US, poi troviamo il Regno Unito e la Germania.
60 Paesi da cui si rientra: si rientra prevalentemente da Cina e da altri Paesi asiatici e dell’Est Europa.
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Oggi come oggi è presente una pluralità di strategie di impresa che rompono il commercio
internazionale, sia il re-shoring che la delocalizzazione produttiva.
61Evoluzione del fenomeno in Italia: nel nostro Paese vediamo un picco di rientro nel 2009, una flessione tra il 2010 ed il 2011, un
aumento nel 2012 e 2013.
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