Sei sulla pagina 1di 67

lOMoARcPSD|9720306

Geografia delle comunicazioni e del commercio


internazionale – Prof
Geografia delle comunicazioni e del commercio internazionale   (Università degli Studi di
Verona)

StuDocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo.


Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)
lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

Geografia delle comunicazioni e del commercio internazionale – Prof.ssa Savi

Manuali richiesti:
− Vanolo A., Geografia economica del sistema-mondo. Territori e reti nello scenario
globale, UTET, Torino, 2010 (capitoli 4-5-6-7-8).


− Dematteis G., Lanza C., Nano F., Vanolo A., Geografia dell’economia mondiale, UTET,
Torino, 2010 (capitoli 2,3,8).

Modalità d’esame: 6 domande aperte, da svolgersi nell’arco di un’ora, che richiedono una
risposta puntuale.

Il ricevimento avverrà il lunedì dalle ore 10:30 alle ore 12:30.

Lezione 1: cosa studia la geografia economica?

le relazioni prese in
considerazione sono di tipo
commerciale:
scambi IMPORT/EXPORT,
beni intermedi, di servizi, di
beni immateriali e di flussi
turistici. Lo spazio geo-
economico è il contesto in cui
si collocano le relazioni di tipo
economico. Le relazioni
verticali collegano l’oggetto
geografico con il contesto in
cui si colloca. Esempio:
l’impresa ed il mercato del
lavoro locale, le infrastrutture
e le risorse naturali (substrato
fisico o antropico = culturale)

studia l’oggetto nelle sue relazioni con


altri oggetti/contesti. Lo spazio geografico
è il contesto in cui si muovono gli oggetti
Gli oggetti possono essere:
− CITTÀ, legate da rapporti territoriali
− IMPRESE, legate da relazioni interne
− FAMIGLIE.
Le relazioni orizzontali sono di studio della geografia,
e riguardano gli oggetti posti in luoghi diversi, anche
distanti fra loro

Parole chiave:
1

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

− TERRITORIO ➛ ha valenze/fattezze concrete e fa riferimento a relazioni verticali


anch’esse concrete. I distretti territoriali sono un esempio: racchiudono relazioni orizzontali
tra territorio ed impresa, ma anche relazioni verticali di tipo economico tra le singole realtà
aziendali (scambi commerciali).
− SPAZIO ➛ ha valenze/fattezze astratte e fa riferimento a relazioni di tipo commerciale.
− ORGANIZZAZIONE TERRITORIALE ➛ forma, presente, che assumono le relazioni
verticali ed orizzontali.

La globalizzazione economica

1. DIFFUSIONE di prodotti e servizi su scala globale, alla velocità con cui i prodotti vengono
posti sul mercato e alla velocità con la quale si riesce a comunicare nel mondo. I prodotti
diffusi sono di due tipi:
➝ di uso COMUNE (maglie senza marchio, bigiotteria), provenienti da varie parti del
mondo ed a poco prezzo dovuto alla riduzione del costo del trasporto;
➝ delle MULTINAZIONALI, su modello nord-americano ma anche da paesi che non
godono dell’immagine multinazionale. Le origini del fenomeno risalgono all’impresa fordista
del primo Novecento.
2. VELOCITÀ, RAPIDITÀ (mezzi di trasporto e tecnologie);
3. OMOGENEIZZAZIONE dei gusti e delle culture; FORMAZIONE DEI “non-luoghi”: luoghi
della grande distribuzione in cui le persone non sono in rapporto tra di loro.
4. FENOMENI GLOBALI: crisi economiche, disoccupazione, cambiamenti climatici.

Le definizioni di globalizzazione (anteriormente definita internazionalismo) nascono intorno alla


fine degli anni Sessanta, la prima da parte di McLuhan nel 1969 e la seconda, di T. Levin, nel
1983:

1. La globalizzazione come metafora del Villaggio Globale: la diffusione di prodotti e modelli


di vita tutti uguali (globalizzazione alimentare).
2. La globalizzazione come processo esclusivamente economico: integrazione economica
su scala globale.

Altre tre definizioni rendono in maniera ancora più chiara il significato di globalizzazione
economica:

3. «Ampliamento, intensificazione e accelerazione delle relazioni tra soggetti localizzati in


differenti aree del pianeta, che coinvolge più dimensioni (economica, ambientale,
culturale…) e che deriva da un percorso storico» (Dematteis et al., 2010).
4. «Aumento delle interdipendenze territoriali in cui giocano un ruolo rilevante la scala globale
e quella locale» (Veltz, 1998);
5. «Il fenomeno della globalizzazione può essere interpretato come un’esperienza sociale:
compressione spazio-temporale» (Harvey, 1989).
Dagli anni Ottanta ad oggi si è assistito ad un’intensificazione, velocizzazione ed ampliamento
delle relazioni tra soggetti diversi in luoghi lontani. La distanza fisica, ovvero quella chilometrica,
differisce da quella funzionale dal momento che quest’ultima, legata al contesto in cui un individuo
vive, si misura in termini di tempo di percorrenza e si è progressivamente ridotta durante la
globalizzazione, grazie all’evoluzione delle tecnologie dei trasporti. Anche la funzione produzione
muta: attraverso la scomposizione del prodotto vediamo svilupparsi la nuova divisione del lavoro,
diffusa su scala globale.

La globalizzazione economica consiste nell’aumento dei flussi che collegano i vari punti e va
misurata tramite gli indicatori. Gli argomenti trattati a lezione sono:
2

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

• investimenti diretti esteri;


• i flussi finanziari e la loro evoluzione;
• la divisione internazionale del lavoro;
• le cause della globalizzazione economica;
• il commercio estero.

Tre sono i fenomeni analizzati: gli scambi commerciali, gli investimenti diretti esteri ed i flussi
finanziari. Gli scambi commerciali aumentano perché in ogni paese viene prodotta una parte del
prodotto finale (DIVISIONE INTERNAZIONALE del LAVORO) = grazie ad un’evoluzione dei
trasporti e della tecnologia e alla nascita delle politiche di liberalizzazione ➝ nascita e
sviluppo dell’organizzazione internazionale del commercio, World Trade Organization, che ha così
eliminato i dazi.
Dietro a questi fenomeni, oltre all’innovazione, troviamo dei soggetti, ovvero le imprese
multinazionali, che aumentano la frammentazione dei cicli produttivi, ma anche le piccole e
medie imprese, che fungono anche da fornitori. Dietro le politiche di liberalizzazione, invece, vi
sono le organizzazioni sovranazionali.
La crescita dei tre fenomeni (vedi slides)
La crescita, su scala globale, del commercio internazionale è sempre stata presente, dalla
Rivoluzione Industriale, all’apertura del Mediterraneo, all’applicazione del motore a vapore alla
navigazione per giungere, infine, alla grande rivoluzione dei trasporti. La determinazione della
crescita del commercio internazionale è data dallo studio dei dati statistici, presi dalla WTO la
quale, a sua volta, li recepisce dai vari Istituti statistici dei differenti paesi (es: ISTAT; ICE = Istituto
Commercio Estero; EUROSTAT = import/export dell’Unione Europea). La crescita si registra
soprattutto tra gli anni 80-90, quindi con l’affermarsi della globalizzazione.

L’esportazione di merci dal secondo dopoguerra ad oggi: i BENI

Tipologia 1950 2008 2015


Prodotti agricoli 47 8,5 10
(Agricultural
products)
Carburanti e 15 22,5 18
prodotti minerari
(Fuels and mining
products)
Prodotti 38 66,5 70
manifatturieri
1
(Manufactures)

I prodotti manifatturieri possono essere venduti come prodotto finito oppure come pezzo singolo:

1Composizione delle esportazioni di merci 1950, 2008, 2015 (valori percentuali): diminuzione della quota dei prodotti agricoli;
aumento della quota dei prodotti manifatturieri, mentre la quota dei carburanti oscilla, essendo essa dipendente dal prezzo del petrolio.
3

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

I servizi possono essere:


• turistici (25% dei servizi su scala internazionale),
• trasporti (25%),
• informatici e
• finanziari.

2 Andamento del commercio mondiale di beni (2003-2015) miliardi di $: fino al 2008 esso cresce, poi subentra la crisi economica
mondiale che ne causa la battuta di arresto e una conseguente diminuzione di tutto il commercio; poi ripresa ed assestamento tra il
2013-2014. Tra il 2014 ed il 2015 il valore diminuisce, dovuto alla caduta del prezzo del petrolio, al cambio del costo del denaro, ad un
rallentamento dell’economia cinese e ad un recesso dell’economia brasiliana. Questa tendenza sarà a lungo periodo, ma bisogna
attendere i dati dei prossimi anni.

3Grafico comparato con le merci: rispecchia l’andamento dei servizi, che sono aumentati e rallentati nel 2008, con un declino
nell’ultimo anno. Ciò si lega al costo del petrolio tramite i trasporti, che sono legati al commercio di beni. Una differenza è la lunghezza
delle barre (4000 per i servizi e 18000 per i beni): i servizi sono legati al locale, mentre i beni possono essere chiesti anche da lontano.
4

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

AREE 2014 2007 2003


Unione europea 32,3 38,6 41,7 Chiara Zecchini
Asia Orientale 30,7 27,0 25,9
America settentrionale 11,4 11,4 13,2
Europa non UE 6,2 6,3 5,3
America 6,0 5,5 5,1
centromeridionale
Medio Oriente 6,4 5,1 3,7
Africa 2,7 2,9 2,2
4
Asia centrale 2,5 1,8 1,4
Oceania e altri territori 1,6 1,3 1,2

Gli investimenti diretti esteri sono flussi di investimenti che un soggetto, investitore, realizza
in un paese straniero, dove non è presente una sede; essi sono finalizzati all’acquisizione di
una partecipazione durevole in un’impresa straniera o all’acquisizione di una filiale.
La partecipazione durevole consiste in un interesse durevole dell’investitore all’interno
dell’impresa, nella quale investe le quote (interessato alle strategie, etc.). Deve acquisire almeno il
10% delle azioni ordinarie o una quota equivalente al diritto di voto.
Gli investimenti possono essere di vari tipi:
− brown field: investimento su qualcosa di già esistente, come un’impresa già presente;
− green field: creazione di una filiale;
− orizzontale: acquisto una quota o creo una filiale per entrare nel mercato locale con i
miei prodotti (sostituisce il flusso commerciale);
− verticale: acquisto quote o creo una filiale per acquisire materie prime o risparmiare sui
costi di produzione (aumenta il commercio internazionale).

Il commercio internazionale è controllato da una triade, formata da UE, Asia Centrale e


America Settentrionale, la quale costituisce un 75%. Tuttavia, UE e America Settentrionale
perdono, mentre Asia Centrale, governata dalla Cina, aumenta. L’Europa non UE è invece
governata dalla Russia.

PAESI 2003 2014


Cina 5,8 12,7
Stati Uniti 9,6 8,8
Germania 9,9 7,7
Giappone 6,2 3,7
Paesi Bassi 3,9 3,6
Francia 5,2 3,1
Corea del Sud 2,6 3,1
Russia 1,8 2,6
Italia 3,9 2,8
5
Hong Kong 3,0 2,6

4Quote di mercato sulle esportazioni mondiali di merci per area geografica: bilancia commerciale passiva. Nel Nord-America vi è
una preferenza all’importazione più che all’esportazione; il Medio-Oriente scambia petrolio con l’Asia che è alimentata da questo
passaggio (la Cina è un paese ENERGIVORO, che ha bisogno di grandi quantitativi di energia per alimentare il suo processo
produttivo). Il Sud-America scambia col Nord-America mentre l’Africa con l’Europa.

5 I primi 10 esportatori mondiali di merci (quote di mercato): la Cina ha portato avanti uno sviluppo proprio, oltre alla presenza di
investimenti diretti esteri. Dopo la distruzione nella II GM, tra gli anni 80-90 il Giappone ha avuto un forte sviluppo, più della Cina e le
sue dinamiche sono simili ai paesi di vecchia industrializzazione, quelli occidentali. L’Italia ha una struttura produttiva forte ed esporta
molto, anche le piccole e medie imprese.
5

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

6Direzione dei flussi commerciali di merci (miliardi di dollari): rappresenta l’import/export da ciascuna area geografica. Lo
spessore del flusso è dato in $ ➝ più è spesso, più il flusso è consistente. Per i flussi > 40 mld $ di dollari è presente la triade =
COMMERCIO TRIPOLARE

7 Andamento degli investimenti diretti esteri 2003-2015 (valori in miliardi di dollari): a cavallo degli anni 2000 vi è una flessione
con conseguente ripercussione sugli investimenti esteri a causa delle attività delle multinazionali e dei flussi finanziari, della bolla
tecnologica, eventi geo-politici (come gli atti di terrorismo) e alla crisi economica mondiale. Oscilla quindi tra flessioni e rialzi. Nell’ultimo
anno si ha un’intensificazione dei rapporti, delle acquisizioni e degli ampliamenti delle multinazionali. UNCTAD (United Nation
Conference on Trade and Development) = ha report internazionale.

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

8Investimenti diretti esteri in entrata per area 2003 e 2015 (miliardi di dollari): riguarda l’import, ovvero ricevuti da una determinata
area geografica; presenza della Triade (Ue-Usa-Africa Orientale), le cui capacità si equivalgono ma con prevalenza dell’Asia Orientale,
soprattutto nel 2015. Al di fuori della Triade, troviamo America centro-meridionale (PAESI EMERGENTI).

9Investimenti diretti esteri in entrata al 2015 - Quote per macro-aree geografiche: la Triade, ancora presente, detiene la
maggioranza degli investimenti.
7

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

10

11

12

10 Investimenti diretti esteri in uscita per area 2003 e 2015 (miliardi di dollari): ancora a guidare sono le imprese della Triade, con il
rilancio dell’Europa; la Cina, rispetto a qualche decennio fa (emergente), ora invece riceve investimenti esteri occidentali ma vede la
creazione di imprese (ancora statali) a l’acquisizione di imprese occidentali.

11 Investimenti diretti esteri in uscita 2015 (Quote per area): la parte del “leone” la fa l’Europa.

12Maggiori paesi per volume degli investimenti in ingresso (2008): USA ricevono il maggior volume di investimenti esteri, Cina ed
Hong Kong sono emergenti, ed uniti, raggiungono il livello degli Stati Uniti; il Regno Unito deve la sua terza posizione alla nascita
dell’internazionalizzazione; ritroviamo poi paesi europei come il Belgio e Svizzera e al penultimo posto ritroviamo l’India, paese
emergente come la Cina, ma della quale non possiede il protagonismo nel settore.
8

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

13

14

15

13 Maggiori paesi per volume degli investimenti in ingresso al 2015 (investimenti superiori ai 40 miliardi di dollari): si rafforzano
ulteriormente i paesi leader, con la comparsa di paesi in via di sviluppo, come Brasile e Singapore, ma anche Paesi Europei già
precedentemente affermati. Come novità troviamo l’Irlanda, paese in cui le nazioni occidentali tendono ad investire per via degli
incentivi fiscali.

14Maggiori paesi per volume degli investimenti in uscita al 2008 (investimenti superiori ai 50 miliardi di dollari): protagonismo
degli USA nei mercati internazionali, con presenza di paesi europei (Germania, Francia) ma anche del Giappone (paese di vecchia
industrializzazione ma compreso nelle macro-aree geografiche dell’Asia Orientale); la Cina risulta essere all’ultimo posto.

15 Maggiori paesi per volume degli investimenti in uscita al 2015 (investimenti superiori ai 50 miliardi di dollari): ciò che salta
all’occhio è la Cina, la quale, scalando la classifica, si è portata al 3° posto dopo il Giappone. Il suo atteggiamento passa dall’essere
meramente passivo (infrastrutture ed incentivi fiscali per attrarre investimenti diretti esteri) ad attivo, attraverso la crescita delle imprese
a ruolo di investitore.

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

I trasporti ed il territorio

I trasporti, oggetto di studio ed argomento sia della geografia economica che dell’economia,
riguardano la dimensione fisica e materiale della comunicazione; sono un settore trasversale
dell’economia che permette il funzionamento di tutti gli altri settori. Tra i trasporti ed il territorio si
instaurano relazioni che riguardano: i flussi immateriali (le tele-comunicazioni), gli scambi
commerciali (presenti anche su scala globale) ed i trasporti fisici.

La grande (ma non la sola) rivoluzione dei trasporti iniziò negli anni 50-60 e tuttora continua,
sviluppandosi in concomitanza con la grande rivoluzione tecnologica e telematica (delle
comunicazioni). La filiera dei trasporti è compresa quindi sia nel settore terziario che nel settore
delle imprese industriali, quindi il secondario. Essa riguarda, non solamente la
commercializzazione e spostamento del prodotto finito (logistica) o l’erogazione di un servizio alla
persona, ma comprende anche attività proprie dell’industria manifatturiera, quali:
• COSTRUZIONE DEI MEZZI DI TRASPORTO;
• COSTRUZIONI DI RETI (ferrovie, strade, autostrade, etc) e di INFRASTRUTTURE
(strutture per gestire i flussi di traffico provenienti dalle reti, come porti, aeroporti ed
interporti);
• ATTIVITÀ DI MANUTENZIONE DEI MEZZI.

Le innovazioni tecnologiche dei trasporti e delle comunicazioni sono direttamente collegati


all’organizzazione e sviluppo del territorio, quindi lo sviluppo economico crea una nuova
domanda dei trasporti (relazione circolare). Ad influire sull’organizzazione territoriale sono anche le
politiche dei trasporti, riferite alle diverse scale geografiche e portate avanti dall’ente più vicino al
territorio locale. Un esempio è l’infrastruttura dei trasporti per l’impresa, un’economia esterna
ad essa ma interna al territorio di operatività della stessa. Ciò consente un aumento dell’efficienza
ed una conseguente riduzione dei costi di produzione, un vantaggio pagato indirettamente
attraverso il mercato dei suoli: le politiche dei trasporti consentono di sfruttare le economie esterne
(utilizzate per attrarre l’impresa), fornendo incentivi, un sistema di infrastrutture e l’accessibilità che
esse necessitano.
Inoltre le innovazioni dei trasporti hanno condotto all’intensificazione delle relazioni spaziali su
scala globale (per quanto riguarda trasporto di beni e persone) e della globalizzazione. Vi è anche
una convergenza spazio-temporale, ovvero un avvicinamento delle diverse aree/luoghi in
relazione alla distanza funzionale (diminuzione dei tempi di percorrenza). Infine, hanno contribuito,
in maniera negativa, all’aumento sia dei divari spaziali su scala globale, non consentendo la
risoluzione dei problemi di collegamento tra aree economicamente stabili ed alcune più arretrate
(es: collegare centro Europa - asse centrale - con la zona meridionale, Portogallo e Spagna) sia
all’impatto ambientale (consumo di anidride carbonica da parte delle industrie e del trasporto con
aumento delle emissioni atmosferiche e inquinamento acustico; + trasporto su gomma - ferrovie e
trasporto navale).

PAROLE CHIAVE:

− RETE ➛ tramiti che permettono lo spostamento dei flussi;


− NODI ➛ punti di confluenza delle reti di trasporto / organizzazione del traffico dei flussi =
inter-porto, aeroporto e porto ;
− ASSI ➛ singole vie di comunicazione;
− CORRIDOI (direttrici) ➛ principali assi che collegano le aree di sviluppo economico, poste
in posizioni strategiche/centrali

10

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

Le singole modalità di trasporto hanno registrato un aumento di velocità, anche se le rispettive


differenze sono rimaste (es= le navi sono diventate più veloci ma rimangono comunque il metodo
più lento). Inoltre, si è visto un aumento della dimensione dei mezzi, in relazione anche alla
capacità di carico, sia per quanto riguarda il trasporto delle merci che delle persone, diminuendo i
costi di trasporto grazie allo sfruttamento di economie di scala (diminuzione dei cmp al crescere
della cp).

Inter-modalità e la containerizzazione

Innovazioni tecnologiche: ne fa parte l’invenzione di sistemi standardizzati per immagazzinare


merce (es. container, anni 50), ovvero un unico contenitore con diverse funzioni e che possiede
dimensioni standard fissate da International Organization for Standardization (fa parte dell’Onu).
L’intermodalità si definisce come l’utilizzo integrato dei singoli sistemi di trasporto per un uso
ottimale degli stessi, sfruttandone le singole caratteristiche (tempo - volume merce - normative -
caratteristiche fisiche del territorio).
L’importanza del container può essere paragonata a quella della catena di montaggio all’interno
della fabbrica. Essa ha infatti permesso:
1. unificazione dei carichi = si raggruppa in dimensione fondamentali standard. Tale sistema
è poi trasferita in vari mezzi (nave, treno, autoarticolato);
2. velocizzazione di operazioni carico/scarico = in realtà, non si carica né si carica ma si
trasferisce l’unità di carico (container) da un mezzo all’altro ➝ quest’operazione viene
definita TRASBORDO, può riguardare sia il singolo container che l’intero mezzo
(autoarticolato su treno, definita autostrada viaggiante);
3. vengono eliminate alcune fasi, come l’immagazzinaggio.

L’inter-modalità consiste, invece, nel pensare nel pensare al trasporto come un ciclo integrato che
consente un uso ottimale di varie modalità di trasporto, quindi di sfruttare al meglio ogni cosa (essa
viene permessa dall’invenzione dei container). Essa è più libera, di tipo organizzativo ed
economico.
Le caratteristiche del trasporto inter-modale sono definite dall’UE, la quale afferma che esso deve:
• avvenire mediante unità di carico standardizzate (container - refrigeratori o air container,
piccoli aerei e casse mobili - meno rigida del container e più capiente, con gambe-sostegni,
non può essere impilata) che non devono venire aperte fino alla destinazione finale, se non
per ispezioni doganali (NO FREIGHT HANDLING);
• l’unità di carico deve essere trasferita, almeno 1 volta durante il suo percorso, da una
modalità ad un’altra;
Il trasporto combinato inter-modale è definito tale se quella che è la tratta principale (quella più
lunga), vien effettuata in modo marittimo, fluviale, ferroviario, mentre la partenza/arrivo può essere
per strada; esso dà indicazioni più precise ed è il metodo più utilizzato in Ue (ferro - gomma o
strada - ferrovia).
Il trasporto inter-modale si può suddividere in varie fasi: la prima, è la partenza della merce dalla
fabbrica o dal magazzino spedizioniere; la seconda vede il trasporto del container via strada, fino a
raggiungere l’interporto ed infine la fase principale, per mare, fiume o ferrovia, se il trasporto è
combinato, fino a raggiungere un secondo terminal di trasbordo ➝ da questa fase il container può
essere ritrasferito su strada ed arrivare a destinazione; può invece intraprendere un’altra fase (es.
via mare, a seconda delle esigenze).
Questi tramiti consentono la circolazione dei semi-lavorati lungo le reti di divisione del lavoro.
I vantaggi di questo tipo di trasporto sono molteplici, tra questi troviamo una
• riduzione dei costi di trasporto grazie allo sfruttamento delle economie di scala,
consentendo l’utilizzo ottimale di singole modalità;
• una riduzione dei tempi-lunghezza del percorso e degli sprechi;
• minori costi di investimento nei mezzi di trasporto;

11

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

• minore transit-time, ovvero i tempi di trasporto, eliminando le fasi di carico/scarico ed un


uso ottimale delle singole modalità; minore rischio di danneggiare le merci, dal
momento che i container vengono aperti solamente a destinazione;
• maggiore sostenibilità ambientale dei trasporti inter-modali, poiché si sposta il traffico
dalla strada, diminuendo le emissioni, la congestione stradale e gli incidenti (UE insiste nel
combinato anche per tali motivo);
L’inter-modale ha effetti anche su scala territoriale più piccola e locale (infrastrutture che
gestiscono il traffico inter-modale).
UE ➝ le grandi direttrici catalizzano tutti gli investimenti del settore dei trasporti: CORRIDOI
PLURI-MODALI;
➝ investimenti per aumentarne la coesione e la convergenza spazio-tempo;
➝ assetto dei nodi è stato rivoluzionato, facendo nascere nuovi nodi (inter-porti per gestire
l’inter-modalità) cambiando la struttura di quelli già esistenti (porto diventa un terminal di
trasbordo). ↓
- scomparsa delle mansioni
dequalificate di carico e scarico
(manodopera);
- cambio del rapporto porto-città, in quanto
esso non offre più molti posti di lavoro
- nascita di nuovi posti di lavoro ed imprese
per le nuove modalità di trasporto

Il trasporto è una delle funzioni che permette la logistica16 all’interno delle imprese e, solitamente,
essa viene gestita da società esterne.
Il cosiddetto just-in-time (= appena in tempo): gli input produttivi che l’azienda necessita arrivano
nel momento stesso in cui servono per il ciclo produttivo. Inoltre, si elimina la fase di stoccaggio
del magazzino (fu usata per la prima volta dalla Toyota = flessibilità d’impresa). Aumenta le
relazioni tra le aree (relazioni orizzontali).

Gli interporti

In termini geografici, l’interporto è una sorta di città delle merci poiché, oltre a terminal per il
trasbordo, è anche un’area che catalizza molte funzioni legate al trasporto, anche tradizionali
come l’immagazzinaggio: un complesso organico di strutture e servizi integrati e finalizzati allo
scambio di merci tra le diverse modalità di trasporto.
L’interporto deve contenere uno scalo ferroviario in collegamento con altri nodi (porti o
aeroporti) e deve consentire l’accesso a grandi reti di trasporto. Dal 2011, tale legge è in revisione
- dovrebbe riordinare la questione (sono nate anche altre strutture, piattaforme logistiche) e
definire le funzioni di entrambe. Esso consente un aumento dell’efficienza dei servizi che
include, in quante sono collocati tutti nello stesso luogo, creando le cosiddette economie di
agglomerazione, per le quali ciascuno trae vantaggio dalla rispettiva vicinanza; serve a ridurre la
congestione del traffico merci nei centri urbani in quanto lo convogliano verso di sé; si trovano,
normalmente, vicino a grandi città in posizioni nodali (= intersecano i principali assi di
trasporto), dovuto al bisogno di grandi spazi fisici per ospitare le grandi strutture.

Gli interporti in Italia - nati come risposta alla richiesta delle imprese prima di un intervento
legislativo - sono, per la maggior parte, situati al Nord, da cui partono le direttrici per il commercio
europeo e si ha la maggior richiesta; al Sud si sviluppano invece lungo le direttrici Adriatica e
Tirrenica. In Lombardia non troviamo alcun interporto (strano) dal momento che le politiche
regionali puntano molto sulle piccole piattaforme logistiche presenti sul territorio (più vicine agli
operatori, ma aumentano traffico ed emissioni).

16 Insieme delle attività che, nell’azienda, riguardano l’organizzazione, la gestione e il controllo dei flussi di materiali e delle relative
informazioni dalle origini presso i fornitori fino alla consegna dei prodotti finiti ai clienti e al servizio post-vendita.
12

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

I corridoi europei si diramano da N-S (Helsinki - Sud Italia) a E-W (Lisbona - Kiev). Questi due
maggiori corridoi europei si incrociano nella zona di Verona, il cui interporto Quadrante Europa ha
un’importanza rilevante: si presenta come una sorta di quadrilatero nelle prossimità di Verona
(zona Sud-Ovest). Occasione per razionalizzare lo spazio urbano (comprende magazzini generali
e mercato ortofrutticolo).
Le piattaforme logistiche o aree di interscambio, dette anche Urban City Distribution Centre,
sono simili agli interporti e sono collocate nell’area urbana o nell’immediata periferia con elevata
accessibilità rispetto a reti stradali di lunga percorrenza, ferrovie; dispongono di infrastrutture
adeguate per servizi di trasporto e logistici e sono aperte 24 ore su 24. Esse, inoltre, sono gestite
da parte di un unico operatore o una cooperativa, dotate di sistemi informatici e telematici efficienti
e di mezzi per la distribuzione urbana elettrici o meno inquinanti, con possibilità di essere utilizzati
nel centro storico. Se è presente un interporto, esse sono collocate all’interno dello stesso.

Il trasporto marittimo ed aereo

1. Il trasporto marittimo non viene più analizzato come gli altri tipi di trasporto: ne vanno, dunque,
comprese le trasformazioni e le strutture ad esso connesse.
Le innovazioni tecnologiche ad esso connesse sono legate alla grande rivoluzione dei trasporti,
quindi un aumento della dimensione e della capacità di carico delle navi, che assumono forma
di terminal, sia per merci che per passeggeri (il fenomeno del gigantismo navale) e un aumento
della velocità - ciò è considerato in termini relativi, dal momento che il trasporto marittimo è il più
lento metodo di trasporto ed il più conveniente per merci pesanti, voluminose e con data di
consegna da presumersi in tempi lunghi.
Per quanto riguardo le innovazioni organizzative, si vede l’entrata del trasporto marittimo nel
circuito dell’inter-modalità, ovvero i container entrano prima sul trasporto navale e poi investono
le altre modalità di trasporto.

Le strutture del trasporto navale, ovvero i porti, hanno subito varie trasformazioni, legate a:
• la costruzione di spazi e strutture sempre più artificiali : alcuni porti hanno condizioni
naturali che non sono in grado di accogliere grandi navi; per questo motivo si è optato per
un riempimento con la costruzione di terminal off-shore, con il molo che arriva nel mare.
Questi terminal sono sempre più simili a quelli degli interporti per la sosta od il trasporto dei
container, ma spesso non sono situati nell’aerea del vecchio porto ma vicino ad esso, dove
è presente spazio;
• le trasformazioni delle funzioni del porto ed il rapporto che esso ha con la città: esso è da
sempre stato legato con l’economia della città cui apparteneva, per le attività portuali ed
industriali, come la cantieristica, ad esso connesse e che creavano posti di lavoro.
Tuttavia, con l’avvento dell’inter-modalità e di trasformazioni artificiali, l’economia della città
si trasforma, causando la de-industrializzazione delle zone, la quasi scomparsa del
lavoro manuale e la chiusura delle industrie per la cantieristica;
• la dismissione di ampi spazi: essi vengono riutilizzati per nuove funzioni, le vecchie
strutture abbandonate, i grandi magazzini e le vecchie infrastrutture ripensate ed
ammodernate;
• la selezione di porti polivalenti o poli-funzionali;
• la nascita di porti specializzati per prodotto, come i porti petroliferi o di trasbordo, come il
passaggio delle navi da un porto più grande ad uno più piccolo (nel Mediterraneo, il primo
porto per transhipment è il porto di Gioia Tauro, in Calabria).
Il porto è, a sua volta, costituito da 3 grandi strutture: il retroterra, il porto e l’avanmare. Il primo
può essere raffigurato come una linea continua che unisce i punti con uguale tempo di percorrenza
da e verso il porto, delinea l’area di gravitazione della domanda del porto e si delimita grazie a
ragioni sia di ordine fisico/geografico che economico. Il secondo è caratterizzato da efficienza delle
strutture (velocità delle operazioni di trasporto e della burocrazia); servizi ausiliari (servizi per
movimentazioni delle navi, la pulitura dei fondali, servizi ambientali, amministrativi e alla persona);
vie di comunicazione (collegamenti con altre modalità di trasporto, altri nodi) ed infine per le
13

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

politiche tariffarie, per le quali tariffe diverse incidono sul costo finale del servizio ai mezzi o alla
persona. Infine, la terza struttura rappresenta le relazioni che il porto intrattiene dal punto di vista
marittimo.

1° Hong Kong 1° Shangai


2° Singapore 2° Singapore
3° Shangai 3° Shenzen
4° Shenzen 4° Hong Kong
5° Busan 5° Ningbo
6° Kaohsiung 6° Busan
7° Rotterdam 7° Guangzhou
8° Los Angeles 8° Qingdao
17 9° Amburgo 9°Dubai
10° Dubai 10° Tianjin

1° Rotterdam (11) Gioia Tauro (51)


2° Hamburg (15) Genova (71)
3° Antwerp (16) La Spezia (98)
4° Bremen (21)
5° Felixstone (37)
6° Duisburg (51)
7° St. Petersburg (56)
8° Le Havre (60)
9° Zeebrugge (70)
10° Southampton (87)

18

17Primi 10 porti container nel mondo (2004 e 2014): nel 2004 vediamo ancora presenti, tra i primi 10, due porti occidentali, in
particolar modo, due porti europei, Amburgo e Rotterdam: i porti europei hanno terminal specializzati nel trasporto/traffico di passeggeri
per il flusso turistico. Per questo motivo, per la mobilitazione delle merci e per via del grande sviluppo economico del continente Asiatico
(Orientale), nel 2014 vediamo sparire i porti europei, ma ritroviamo, nei primi 10 posti, i porti cinesi ed i porti sud-coreani, tra i quali si
crea una competitività.

18 Principali porti container europei e italiani (2014) e il controllo del traffico container: unità di misura, che una volta era usata
per creare statistiche riguardanti i flussi portuali erano le merci alla rinfusa, ovvero quelle che non erano stipate nei container. Ora, per
misurare il traffico container, si usa l’unità di misura TEU (twenty-foot equivalent unit), equivalente a 20 piedi, che è la misura standard
di un container, ovvero la sua lunghezza - ne esisto anche da 40 piedi. Essa è usata per la misurazione dei porti che effettuano attività
di trasbordo.
14

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

2. Il trasporto aereo è una modalità relativamente nuova In Europa, per quanto riguarda il
trasporto commerciale: gli aerei erano utilizzati, in particolar modo durante le Guerre Mondiali, a
scopo puramente militare. Al contrario, negli Stati Uniti, l’utilizzo dell’aereo come mezzo per il
trasporto e gli scambi commerciali, era già sviluppato e diffuso da prima della Seconda Guerra
Mondiale; anche in Australia ed America Latina (ovvero paesi a bassa densità di popolazione),
questa modalità di trasporto è da sempre utilizzata anche per il trasporto di bestiame in aerei detti
cargo.
Grazie allo sviluppo tecnologico, che riguardava soprattutto la sicurezza dei mezzi, all’aumento
delle dimensioni e della capacità degli stessi, il trasporto aereo vede un primo sviluppo, lento,
nel primo dopoguerra - in particolare negli anni 50, per poi protendersi fino agli anni 80 del secolo
scorso. Tuttavia, esso era comunque poco utilizzato e limitato a merci poco ingombranti, di
valore e che dovessero essere consegnate ai mercati in tempi relativamente brevi. L’esplosione di
questa modalità per il trasporto passeggeri avviene dagli anni 90, mantenendo quindi costi e
vincoli legati alla dimensione delle merci. Ad oggi, viaggiano primizie dell’agricoltura, la posta, le
componenti dei computer ed, in alcuni casi, anche gli air-container: merci di piccola dimensione ad
alto valore aggiunto (Valore del prodotto - costo dei fattori di produzione utilizzati).

L’evoluzione del trasporto aereo parte dall’aumento della mobilità delle persone, le quali iniziano
a viaggiare, sia per affari, che per piacere - viaggi turistici. Il crescente numero della domanda
genere un abbassamento delle tariffe dei biglietti, le quali portano a trasformazioni
nell’organizzazione e nella produzione.
Alla base dell’abbassamento del prezzo del biglietto vi sono 4 fenomeni:
− deregulation = detta anche liberalizzazione, riguarda l’abbattimento delle barriere
della concorrenza ed il controllo sulle tariffe imposte ai viaggiatori, che vedono una
moltiplicazione dei vettori sul campo, un abbassamento conseguente dei prezzi e, da
qui, la moltiplicazioni dei voli aerei. In Europa, questo fenomeno si verifica tra il 1988 ed
il 1993 nei primi paesi componenti, per poi allargarsi alle altre nazioni non comunitarie.
Si sviluppa solamente dopo la crisi delle compagnie di bandiera e l’avvenuta adesione di
tutti i paesi dell’Unione al Trattato di Schengen (1985), il quale stabilisce il libero
spostamento dei cittadini e delle merci all’interno dei confini. Nascono quindi nuove
compagnie private e nuovi vettori sul campo, che creano il moltiplicarsi dei voli aerei;
− low-cost companies = esse effettuano il servizio di trasporto alle persone con tagli del
50% sul prezzo standard (quello delle compagnie di bandiera) del biglietto grazie
all’eliminazione del servizio a bordo, all’utilizzo di un solo aeromobile (risparmio su
acquisti, pezzi di ricambio e addestramento del personale di bordo), a collegamenti
esclusivamente point-to-point, all’utilizzo di scali aeroportuali minori, alla vendita dei
biglietti attraverso internet o call-centre e alla riduzione al minimo dei tempi morti tra
atterraggio e decollo (point to point comporta aumento costo del prezzo del biglietto).
− riorganizzazione dei sistemi aeroportuali = il nuovo modello post-deregulation è definito
hub and spokes, formato quindi da un perno centrale e da raggi che si diramano da
esso. Attraverso questa riorganizzazione, i flussi di traffico aereo vengono orientati, da
destinazioni secondarie, su un aeroporto principale (hub), il quale funge da nodo di
connessione per viaggi di lungo-medio raggio verso altri aeroporti (spokes). Questo
modello permette lo sfruttamento delle economie di scala, grazie alle quali si possono
concentrare tutte le operazioni in una quantità limitata di aeroporti, utilizzare aerei più
grandi e quindi, aumentando il coefficiente di carico (= il numero dei passeggeri); l’unico
svantaggio potrebbe essere un allungamento del tempo di viaggio del passeggero,
causato da ritardi a catena. Differisce dal modello point-to-point in quanto, quest’ultimo,
prevede un collegamento diretto tra due aeroporti, con la copertura di pochi posti a
sedere e il conseguente elevato costo del biglietto.
− alleanze tra compagnie aeree = vengono istituite tra una compagnia aerea principale e
una regionale o minore, al fine di unire i costi di gestione, evitando diseconomie di scala
e rendendo il servizio hub and spokes più efficiente (es: Lufthansa + Air Dolomiti).
15

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

Queste compagnie condividono il codice di volo (code sharing): una sola delle due
compagnie effettua il volo e vende il biglietto per entrambe, con una condivisione delle
risorse e un conseguente vantaggio per i passeggeri.

Gli aeroporti hub: caratteristiche


Essi devono essere accessibili, con una posizione bari-centrica, che sia favorevole e quindi vicina
ai bacini di utenza; inoltre, deve essere integrata con reti di trasporto terrestri. Devono essere
collocati in prossimità di aree metropolitane, avere elevata capacità di traffico per rispondere ai
picchi di domanda caratterizzanti determinate fasce orarie e deve disporre di efficienti sistemi di
decollo e di atterraggio. Infine, le aerostazioni devono essere concepite per agevolare il
trasferimento dei passeggeri da un terminal o da un aereo all’altro. I principali aeroporti europei,
che possono essere definiti hub, sono: l’aeroporto di Francoforte, Flughafen Frankfurt am Main, il
più grande della Germania, la quale dispone di un doppio hub (con la presenza dell’aeroporto di
Monaco); Madrid Adolfo Suárez, Madrid-Barajas; Londra Heathrow ed infine l’aeroporto di Parigi,
Paris-Charles-De-Gaulle. In Italia, il principale aeroporto hub è situato a Roma, Fiumicino; ve ne è
un secondo di eguale importanza, ed è l’aeroporto di Milano Malpensa.
L’aeroporto come “impresa” ed il rapporto col territorio
L’aeroporto non offre solamente servizi di trasporto, ma contribuisce a catalizzare investimenti e
offrire posti di lavoro sul territorio in cui esso è collocato. I benefici che esso può portare, si
manifestano come effetti “a catena”, i quali si riversano sul territorio circostante dell’aeroporto, dal
centro alla periferia: attività on-site.
Inoltre esso ha un effetto che si può definire spin-off (utile secondario) sull’economia locale:
− funge da gateway internazionale, ovvero da tramite di connessione tra i nodi e le grandi
reti globali, i grandi flussi;
− consente una promozione dell’immagine del territorio, attraverso scelte strategiche di
accessibilità alla città;
− consente la promozione del settore turistico, attraverso l’esercizio di un servizio
tradizionale ma con modalità innovative.;
− funge da catalizzatore di nuove imprese e industrie: high-tech, centri logistici,
infrastrutturali, alberghi e parcheggi.

2006 2015
1. Atlanta 84,8 1. Atlanta 96.2
2. Chicago 77,0 2. Pechino 84,0
3. London- H 67,5 3. London- H 73,3
4. Tokyo 65,8 4. Tokyo 71,6
5. Los Angeles 61,0 5. Los Angeles 70,6
6. Dallas 60,2 6. Dubai 70,4
7. Parigi-De Gaulle 56,8 7. Chicago 70,0
8. Francoforte 52,8 8. Parigi-De Gaulle 63,8
9. Pechino 48,6 9. Francoforte 63,5
19
10. Denver 47,3 10. Hong Kong 63,4

19Principali aeroporti per traffico passeggeri (milioni): l’aeroporto di Atlanta resta sempre al I posto, seppur si denota la forte
presenza cinese che scala le classifiche dal 2006 al 2015. Restano poi i paesi di vecchia industrializzazione, i cui aeroporti hub
sono inseriti in altri sistemi aeroportuali.
16

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

% 2013/2014 Chiara Zecchini


1. Hong Kong, HK + 6,0
2. Memphis TN, US + 2,9
3. Shanghai, CN + 8,6
4. Incheon, KR + 3,8
5. Anchorage AK, US + 3,0
6. Dubai, AE - 3,1
7. Louisville KY, US + 3,5
8. Tokyo, JP + 5,6
9. Frankfurt, DE + 1,8
20
10. Taipei, TW + 6,2

Information and Communication Technology ed il territorio

L’ICT vede l’inizio del suo sviluppo a partire dagli anni settanta (in concomitanza con lo sviluppo
della globalizzazione), il boom a partire dagli anni novanta; essa consiste nel trasferimento di
informazioni, denaro, pacchetti finanziari e comunicazioni di tipo immateriale. Informatica e
telematica hanno quindi contribuito ad aumentare il flusso delle comunicazioni immateriali e le
potenzialità dell’ICT.

Information and communication technology contribuisce a vari fattori:


− la nascita e sviluppo dell’e-commerce;
− l’organizzazione della produzione ➝ dietro alla divisione internazionale del lavoro
troviamo, non solo le multinazionali, ma anche la tecnologia e l’informazione, le quali
permettono il collegamento tra varie sedi produttive e le innovazioni tecnologiche;
− i trasporti e la logistica ➝ la possibilità di gestire attraverso ICT i collegamenti
immateriali e l’inter-modalità;
− l’economia e la finanza ➝ finanziarizzazione dell’economia con flussi di capitali e
collegamenti immateriali tra le borse.
Inoltre, essa contribuisce al miglioramento del sistema sanitario, con la possibilità di disporre di
cartelle cliniche trasferibili attraverso sistemi informatici, la telemedicina e la formazione dei medici
a distanza; dell’istruzione, con la possibilità di seguire lezioni anche a distanza dalla scuola o di
utilizzare i metodi telematici (al posto della costruzione di edifici, come scuole) per l’insegnamento
in paesi a bassa densità abitativa (es: Australia); dell’ambiente, con la creazione di database per
le crisi ambientali; infine alla cultura e alla ricerca.

Le telecomunicazioni e lo spazio: il digital divide


Le telecomunicazioni permettono l’aumento dei collegamenti tra le diverse aree del pianeta,
aumentando quindi la convergenza spazio-temporale. Tuttavia, questo aumento porta alla nascita
del digital divide, fenomeno per il quale si crea una disuguaglianza nell’utilizzo e accesso a
queste nuove tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni da parte di individui, famiglie ed
imprese localizzate in diverse aree del pianeta.
Per la misurazione del digital divide, si fa riferimento a diversi indicatori:
1. indice di tele-densità ➝ rapporto tra il numero di abbonamenti telefonici (mobili e fissi) e
gli abitanti;
2. utilizzo dei pc ➝ numero di computers presenti ogni 100 abitanti;
3. diffusione di internet ➝ il numero di utenze internet presenti ogni 100 abitanti.

20Principali aeroporti per traffico merci - 2014: l’aeroporto di Hong Kong si trova al I posto, seguito da vari aeroporti asiatici, in
particolare modo aeroporti cinesi.
17

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

Aree geografiche % Popolazione Variazione %


che usa internet 2000-2016
(giugno 2016)
Africa 28,7% 7.449%
Asia 44,5% 1.476%
Europa 73,9% 485%
Medio Oriente 57,4% 4.207%
Nord America 89,0% 196%
America latina 61,5% 2.049%
21 Oceania/Australia 73,3% 261%
MONDO 49,5% 906%

22

21 Diffusione di internet per aree geografiche e variazione % (Fonte: Internet World Stats).

22 Evoluzione degli abbonamenti telefonici in Africa.


18

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

23

Indicatore Peso percentuale


Sub-indice ICT access
Abbonamenti telefonia fissa/100 ab.
Abbonamenti telefonia mobile/100 ab.
Ampiezza media della banda nelle connessioni 40
internet/abitante
Percentuale famiglie con pc
Perecentuale famiglie con connessione internet
Sub-indice ICT use
Utenti internet/100 ab. 20
Abbonamenti fissi banda larga/100 ab.
Abbonamenti mobili banda larga/100 ab.
Sub-indice ICT skills
Alfabetizzazione adulta 20
Quota di partecipazione scolastica secondaria
Quota di partecipazione scolastica di terzo livello
24

PAESE RANK 2015 RANK 2010


Corea del Sud 1 1
Danimarca 2 4
Islanda 3 3
Regno Unito 4 10
Svezia 5 2
Lussemburgo 6 8
Svizzera 7 12
Paesi Bassi 8 7
25 Hong Kong 9 13
Norvegia 10 5

23 Three stages in the evolution towards an information society : impatto delle ICT dipende dall’accesso e dalla dotazione di
infrastrutture e dall’utilizzo e dalla capacità di queste.

24Composizione dell’ICT Development Index: diversi e più precisi metodi di analisi, con diverse percentuali di importanza,
dell’impatto del digital divide.

25 IDI 2015 e 2010 (Fonte: ITU, 2015).


19

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

Il commercio online o e-commerce

L’e-commerce è una modalità di commercio internazionale che poggia sul commercio fisico, in
quanto si esegue l’ordine su internet, ma la merce viene consegnata attraverso le classiche
modalità di trasporto; tuttavia, ciò non avviene per i contenuti digitali, che non sono fisici, ma
scaricabili e non comprendono uno spostamento fisico.
Altre definizioni sono:

«Vendita o acquisto di beni e servizi, effettuati da un’impresa, un


individuo, un’amministrazione o qualsiasi altra entità pubblica o
privata, attraverso l’impiego di una rete internet » (OCSE, 1999 e
UNCTAD)

«Svolgimento di attività commerciali e di transazioni per via elettronica


comprendenti attività diverse quali la commercializzazione di beni e
servizi per via elettronica, la distribuzione online di contenuti digitali,
l’effettuazione per via elettronica di operazioni finanziarie in borsa, gli
appalti pubblici per via elettronica e altre procedure di tipo transattivo
della Pubblica Amministrazione» (Commissione Europea, 1997)


Esistono varie tipologie di commercio online:
A. il business to business - B2B ➝ riguarda la relazione tra due imprese;
B. il business to consumer - B2C ➝ il consumatore acquista online e riceve la merce senza
spostarsi, è vantaggioso sia per l’impresa, la quale ha a disposizione un più ampio
mercato di consumatori, sia per il consumatore, il quale ha a disposizione più opzioni di
acquisto (Amazon, Alì Babà);
C. il consumer to consumer - C2C ➝ i consumatori trattano ed entrano in relazione tra di loro
(subito.it, eBay)
D. il business to government - B2G ➝ riguarda le relazioni commerciali che si instaurano tra
le imprese e i vari settori che hanno un rapporto con il governo;
E. il consumer to business - C2B ➝ il consumatore fa una proposta d’acquisto ad
un’impresa, il vantaggio è per il consumatore ma anche per l’impresa (priceline.com)

AREA % TOTALE CRESCITA


GLOBALE % 2013-
2018
Asia e Oceania 42,6 70
Europa occidentale 16,9 15
Nord America 16,0 18
Medio Oriente e Africa 8,7 82
America Latina 7,8 64
Europa centrale e 8,0 36
orientale
26
Mondo 100 50

26 Acquirenti online per macroarea (Fonte UNCTAD, 2015).


20

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

27

28

29

27 Persone (%) che hanno effettuato acquisti online - Anni 2007-2015 (Fonte: Eurostat).

28 Persone che hanno effettuato acquisti online ultimi 12 mesi - Anno 2015, valori percentuali (Fonte: Eurostat).

29 Acquisti online per tipologia merceologica ed età UE 28 – Anno 2015 (Fonte: Eurostat).
21

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

30

31

32

30 Imprese che vendono online per dimensione e area geografica- Anno 2015, valori percentuali (Fonte: Eurostat).

31Imprese 10-249 addetti che hanno venduto online nell’anno precedente per un valore almeno pari all’1% del fatturato - Anno
2015, valori percentuali (Fonte: Eurostat).

Imprese 10-249 addetti che hanno acquistato online nell’anno precedente per un valore almeno pari all’1% del fatturato -
32

Anno 2015, valori percentuali (Fonte: Eurostat).


22

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

33

34

35

33 Ragioni per cui non si acquista online – Anno 2015: la risposta principale riguarda l’esperienza di acquisto che, per la maggior
parte degli acquirenti, deve avvenire personalmente all’interno dei negozi. Inoltre, ritroviamo come motivazioni la fidelizzazione della
clientela e l’abitudine.

34 Imprese che vendono online per dimensione e area geografica - Anno 2015 (valori percentuali): l’andamento dipende dall’uso
di tecnologie informatiche, le quali sono in relazione alla dimensione di impresa (quelle grandi tendono ad utilizzare molto di più le ICT).
Rimane il problema di diffusione di queste tecnologie nelle piccole e medie imprese.

35Imprese 10-249 addetti che hanno venduto online nell’anno precedente per un valore almeno pari all’1% del fatturato -Anno
2015 (valori percentuali): Italia si trova ancora tra i 10 paesi con il fatturato peggiore per quanto riguarda la vendita attraverso internet
(nella parte sinistra del grafico). Nella parte destra, ritroviamo i paesi del Nord Europa, con il Portogallo, paese dell’Europa meridionale,
come eccezione. Il digital divide separa il nucleo forte dell’Unione Europea dall’Europa meridionale, con alcune eccezioni.
23

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

36

La logistica distributiva dell’e-commerce business to consumer


Il settore della logistica è stato rivoluzionato, seppur con diverse implicazioni tra il commercio
online e il commercio tradizionale:

• le dimensioni dei lotti vengono ridotte, rispetto a quelle tradizionali dei grossisti;
• la consegna al consumatore è considerata una dei più importanti fattori da valutare nella
decisione di acquisto. Essa può essere di varie modalità: a domicilio, con l’istituzione di
punti di riferimento organizzati dall’operatore logistico, nel caso in cui il consumatore non si
trovi a casa (punti di consegna); in negozio, con ordine online e consegna nel punto
vendita (modalità mista); reti dette anche drop point, strutture pre-esistenti nel territorio, alle
quali si affida la consegna o punti di consegna; negli uffici postali ed infine attraverso i
locker, collaborazioni tra società TNT e IN-POST, i quali mettono a disposizione un codice
per accedere agli armadietti, nei quali però non possono essere inseriti tutti i tipi di merci
(valido sia per reso che per consegna).

Le multinazionali e la divisione internazionale del lavoro

Non esiste un’unica definizione, né una di tipo giuridico per la multinazionale. Di norma, essa è
classificata in base alla sua dimensione e all’estensione geografica delle filiali sui vari territori; ciò
non è sempre vero, dal momento che esistono multinazionali che non sono sempre di grandi
dimensioni.
La multinazionale ha 3 caratteristiche imprescindibili che la contraddistinguono:

1. Coordinamento e controllo di varie fasi della catena di produzione localizzate in diversi paesi;
2. Capacità di trarre vantaggio dalle differenze geografiche nella distribuzione dei fattori di produzione e
nelle politiche nazionali;
3. Potenziale flessibilità: capacità di mutare o inter-cambiare forniture e operazioni tra le varie località
geografiche, su scala globale.

Le imprese multinazionali nel mondo, secondo l’UNCTAD, sono 82.000, le quali dispongono di
circa 807.000 filiali straniere e contano 77 milioni di occupati. Per essere considerata
multinazionale, un’impresa deve avere almeno una filiale all’estero o controllarne almeno il
10% del capitale. Tra queste rientrano quindi anche le micro multinazionali, dette anche
multinazionali tascabili: esse dispongono, per esempio, di una sola filiale estera, ma con
delocalizzazione nell’ultimo periodo, sfruttando la globalizzazione.
Al contrario, secondo MEDIO-BANCA, le multinazionali nel mondo sono 401 e contano circa 32,7
milioni di occupati. Le imprese aventi questa denominazione sono in numero inferiore rispetto
all’elenco steso dall’UNCTAD e questo perché i caratteri di classificazione sono più rigidi:

36Imprese 10-249 addetti che hanno acquistato online nell’anno precedente per un valore almeno pari all’1% del fatturato -
Anno 2015 (valori percentuali): ritroviamo le piccole e medie imprese italiane in posizione migliore rispetto alle vendite, ma ancora
non nei primi 10. Essa è l’unica anomalia poiché gli altri stati hanno sempre la stessa tendenza. Il digital divide separa il nucleo forte
dell’Unione Europea dall’Europa meridionale, con alcune eccezioni.
24

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

− il fatturato deve superare i 3 miliardi di euro;


− il fatturato prodotto all’estero deve costituire, come minimo, il 10% del totale;
− attività di produzione dell’impresa deve essere localizzata in almeno un paese estero;
− la produzione deve rientrare in determinati settori: manifattura, l’energia, le
telecomunicazioni, le utilities e i software.

FATTURATO PROFITTO
WALMART INDUS.&COMM. BANK OF CHINA
SINOPEC GROUP APPLE
ROYAL DUTCH SHELL CHINA CONTRUCTION BANK
CHINA NATIONAL PETROLEUM EXXON

EXXON AGRICULTURAL BANK OF CHINA


BP BANK OF CHINA
STADE GRID WELLS FARGO
37 VOLKSWAGEN MICROSOFT
TOYOTA SAMSUNG
GLENCORE JP MORGAN CHASE

PAESE MLD EURO


APPLE US 535,0
EXXON MOBIL US 321,0
JOHNSON & JOHNSON US 241,9
PETROCHINA CN 233,2
GENERAL ELECTRIC US 209,7
NOVARTIS CH 207,9
PROCTER & GAMBLE US 203,3
NESTLE’ CH 195,7
38 ROYAL DUTCH SHELL UK 178,3

TOYOTA MOTOR JP 178,1

39

37Le principali multinazionali per fatturato e profitto 2014: al primo posto per fatturato troviamo l’impresa Walmart, una catena
specializzata nella vendita al dettaglio; è l’unica eccezione all’interno dell’elenco poiché le altre sono tutte multinazionali appartenenti a
settori tradizionali (petrolchimica, automobilistica, etc.). Per quanto riguarda il profitto, troviamo invece banche ed imprese cinesi.

38 Le top ten per valore di borsa - 2014: all’interno di questa classifica, ritroviamo Nestlé, che risulta essere l’unico caso qui presente
di multinazionale alimentare. Tuttavia, non è la sola di nazionalità Svizzera, essendo questo uno stato con forte presenza di
multinazionali.

39Le multinazionali nel mondo: numero di sedi centrali per paese e le imprese multinazionali in Europa: numero di sedi
centrali per paese.
25

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

40

Le fasi della multinazionalizzazione


Il processo di multinazionalizzazione può essere suddiviso in 3 grandi fasi:

1. il periodo coloniale, risalente alle fine del 1800, così chiamato per via della creazione di
filiali nelle colonie, per ottenere il controllo di materie prime e di risorse energetico-
mineriarie;
2. il periodo che va dagli anni cinquanta agli anni ottanta del Novecento, che corrisponde
ad un nuovo boom economico nel secondo dopoguerra. Nella prima parte, vediamo il
diffondersi di investimenti orizzontali guidati dal mercato (sostituiscono le esportazioni),
mentre nel secondo periodo, a partire dagli anni 70, si impongono gli investimenti verticali
sui fattori di costo, come produzione e lavoro;
3. il periodo della globalizzazione, dagli anni ottanta del Novecento, in cui si assiste alla
comparsa dell’impresa transnazionale globale. Assistiamo all’esplosione di fenomeni come
gli investimenti diretti esteri e la sub-fornitura, ossia l’affidamento della produzione a sub-
fornitori.

Il modello di produzione fordista


Il modello che sta alla base della produzione e del boom economico che vede la nascita delle
prime multinazionali tra gli anni cinquanta e settanta del Novecento, è il modello introdotto da
Henry Ford nella sua industria automobilistica intorno agli anni dieci del Novecento, il modello
fordista.
Questo tipo di produzione consisteva nella divisione scientifica del lavoro, il quale era incentrato
totalmente sulla catena di montaggio. L’introduzione di quest’ultima ha condotto alla produzione
di beni standardizzati, indirizzati ad una clientela di massa. Le mansioni svolte dagli operai erano
relativamente semplici e ripetitive, il che rendeva il lavoro dequalificato e caratterizzato da una
suddivisione rigida delle mansioni. Tuttavia, i lavoratori godevano di sindacati attivi che fornivano
protezione e di un buon salario.
Il modello fordista vede una larga diffusione soprattutto in Europa, per un sistema di relazioni
che legano impresa e lavoratore in modo corporativo, attraverso le figure dei sindacati da un lato e
degli imprenditori dall’altro, con la presenza dello Stato, che funge da sorta di cuscinetto,
attraverso il Welfare State, o “stato di benessere”. Ciò ha consentito una crescita ed uso illimitati di
risorse non rinnovabili (come carbone e petrolio), che hanno portato, da un lato, al gigantismo
industriale e alla multinazionalizzazione e dall’altro alle agglomerazioni urbano-industriali, ovvero
città che sembrano regioni e che si espandono all’esterno dei loro confini municipali (es: il triangolo
industriale TO-MI-GE)

Dal fordismo al post-fordismo


Il modello di produzione di tipo fordista entra in crisi nella prima metà degli anni settanta del
Novecento, con un conseguente arresto della crescita delle multinazionali. Ciò è dovuto a:

40Le multinazionali nel mondo: numero di filiali estere per paese e le multinazionali in Europa: numero di filiali estere per
paese: nel mondo, le filiali delle multinazionali sono localizzate, in particolar modo, in Messico ma anche in Asia Orientale, in paesi
come la Cina, in cui sono state aperte delle sedi in periodo recente.
26

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

• la crisi petrolifera e aumento dei costi da sostenere per produzione, materie prime, lavoro
(manodopera) e trasporti;
• la saturazione del mercato, causata da un eccesso di produzione di beni standardizzati;
• un cambiamento della domanda per necessità di personalizzazione, per prodotti che siano
più sensibili alla moda;
• le diseconomie di agglomerazione;
• le innovazioni nel campo tecnologico ed informatico che rivoluzionano il modo di
produrre.
Le conseguenze di questa crisi si sono riversate, in particolar modo, nei paesi economicamente
avanzati. Tra queste, ritroviamo la de-industrializzazione, per la quale le città perdono la loro
base economica e posti di lavoro e il declino urbano che causa perdite di popolazione nelle
grandi città con il conseguente trasferimento in centri esterni e più piccoli.
Nonostante queste crisi, le imprese decidono di riorganizzare in modo più flessibile la loro
produzione, attraverso l’esternalizzazione (decentramento o delocalizzazione), con conseguente
diminuzione/abbattimento dei costi. Inoltre, vediamo l’emergere di sistemi di produzione
specializzati, formati da piccole e medie imprese: i distretti industriali, collocati di norma in città di
piccole dimensioni, o in regioni periferiche. Infine, la terziarizzazione delle economie occidentali
ha visto il massimo sviluppo in città che poggiano molto sui servizi. Ora ci collochiamo in una fase
di transizione e di economia detta globalizzata.

Delocalizzazione ≠ Decentramento
↓ ↓
impresa si colloca in un l’impresa affida un processo o fase
paese estero della produzione a terzi

L’impresa transnazionale globale: le condizioni


Essa si afferma sul mercato grazie alla scomposizione del ciclo produttivo, modalità di
organizzazione della produzione tipica dell’impresa post-fordista; ai miglioramenti tecnologici
che hanno consentito la riduzione dei costi di trasporto e comunicazione e alla nascita di politiche
di liberalizzazione che hanno ridotto le barriere tariffarie e potenziato il commercio estero.

“Vecchia” divisione del lavoro “Nuova” divisione del lavoro

La divisione e gli scambi commerciali Frammentazione del ciclo produttivo


avvenivano tra Paesi produttori di dei beni industriali tra tanti paesi
materie prime (sud del mondo) e che si specializzano, non nella
Paesi produttori di beni industriali produzione di specifici beni, ma nella
(nord) del pianeta. fornitura di componenti e nello
svolgimento di un ruolo specifico
all’interno di grandi catene di
produzione globali.

La frammentazione del ciclo produttivo è rappresentata dalle global commodity chains, che
possono configurarsi come:
• catene guidate dal produttore: la produzione di beni è determinata dalla continua
innovazione di prodotto e di processo — sono relativamente concentrate nelle mani di
grandi produttori;
• catene guidate dal consumatore, le quali si dividono in: reti estere di delocalizzazione/
esternalizzazione, diffuse soprattutto nei settori maturi dove la multinazionale o l’impresa
che organizza le reti, organizza alcune fasi ed esternalizza la produzione e in imprese
senza stabilimento, le quali non hanno nulla a che fare con la produzione di bene, ma
delegano la produzione a sub-fornitori (ree-book, benetton, nike).
27

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

Frammentazione spaziale della produzione: esempi ➝ vedi slides.

La divisione internazionale del lavoro ed i nuovi spazi produttivi

41

Il Sud-Est Asiatico
I fattori alla base dello sviluppo di quest’area sono:
1. Industrializzazione e inserimento nelle reti di divisione internazionale del lavoro: in
precedenza, quest’area risultava come povera, ma dagli anni sessanta il PIL (indicatore
della ricchezza di un Paese) inizia a crescere in maniera esponenziale, così da
permettere l’inserimento della zona nelle reti di divisione del lavoro e di attirare
investimenti esteri, Americani, Europei e Giapponesi grazie agli incentivi nei costi;

2. Passaggio graduale da una produzione caratterizzata da lavoro intensivo e ripetitivo


(tessile-abbigliamento) a una a più alto valore aggiunto (elettronica), con processi di
decentramento produttivo interni all’area: grazie alle politiche di alfabetizzazione ed
istruzione, il livello della qualità della vita si alza, consentendo anche un passaggio di
settore. Difatti, dal settore tessile e dell’abbigliamento si passa ad uno a più alto valore
aggiunto, quello dell’elettronica e della tecnologia, con filtraggio del primo verso paesi
come Indonesia e Filippine (decentramento produttivo nel sud-est asiatico);

3. Presenza di forza lavoro a basso costo e poco socialmente protetta ma scolarizzata;

4. Presenza di governi molto attivi nell’attrazione degli investimenti stranieri (creazione


di «Zone Economiche Speciali»).

La Cina
Il Paese attuò una politica di apertura, «politica della porta aperta», dopo la morte di Mao nel 1978.
Essa consisté in un’apertura graduale agli investimenti stranieri, inizialmente limitata a poche aree
e pochi settori, poi ampliata al resto del paese, ma sempre sotto la guida dello stato (l’economia

41Le nuove economie industrializzate del Sud-Est asiatico: troviamo le quattro tigri asiatiche come Paesi in cui si concentra la
produzione e gli investimenti esteri. Sono Taiwan, Singapore ed Hong Kong (città stato) e la Corea del Sud. Intorno agli anni novanta
del secolo scorso, a questi si sono aggiunti paesi sviluppatesi in un periodo successivo, come Indonesia, Malesia e Filippine.
28

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

cinese può essere definita come “socialismo di mercato”, dovuto alla situazione dittatoriale che
affligge la politica).
Aderisce alla WTO ed inizia ad attirare imprese ed investitori esteri, grazie:
− al basso costo del lavoro < rispetto agli altri paesi del SE asiatico;
− alla presenza di materie prime;
− alle normative elastiche e permissive, nei confronti di lavoratori ed ambiente (dal 2008
è presente un codice del lavoro per la tutela del lavoratore);
− alla presenza di «Zone Economiche Speciali» nelle quali è possibile notare un’alta
concentrazione di investimenti stranieri dovuti alle condizioni privilegiate di cui godono
queste aree. Difatti, in queste zone assistiamo alla presenza di legislazioni diverse
rispetto al resto del paese: esenzione dalla tassazione e dai dazi doganali e la deroga sui
contratti di lavoro, la fornitura di energia, immobili e terreni a prezzi agevolati e la
dotazione di infrastrutture di buon livello;
− il potenziale di mercato di grande estensione, dovuto alla grandezza del territorio e al
gran numero di persone che lo abitano e costituisce un’opportunità per vendere i propri
prodotti;
− la forte popolarità degli investimenti in Cina, attraverso lo sfruttamento di economie di
agglomerazione di strategie imitative. Insieme alle strutture di appoggio come Camera di
Commercio ed Ufficio per il Commercio Estero, è stato il fattore di traino dei primi
imprenditori.

Le maquiladoras messicane
Le maquiladoras messicane sono impianti di tipo manifatturiero situate tra Messico - nella
parte centrale - e Stati Uniti. Vengono utilizzate per importare materiali o semilavorati, con
esenzione da dazi doganali, per poi lavorarli ed esportarli.
Questi impianti vedono una forte espansione tra il 1994 e il 2000, grazie anche ad un accordo
commerciale stipulato tra USA, Canada e Mex nel 1994, con la conseguente creazione della
NAFTA — North America Free Trade Agreement. Esse consentono il calo della disoccupazione
messicana grazie all’impiego di ingente manodopera, favorita da un basso costo del lavoro e dei
trasporti. Inoltre, vi è una presenza consistente di forza lavoro femminile, purtroppo
sottopagata; i settori in cui si concentrano gli impianti richiedono una bassa qualifica
professionale e sono l’elettronica (assemblaggio), l’informatica e l’abbigliamento.
Oggi il Messico è tornato competitivo rispetto alla Cina, sia per la possibilità di contenere costi di
logistica e trasporto negli USA, sia per la mancanza di una differenza salariale (presente fino al
2007-2008).

I sistemi di produzione locale

L’origine di questo sistema di produzione deriva dall’emergere di sistemi di produzione flessibile


dovuti alla crisi del modello fordista e alla nascita e allo sviluppo di formazioni territoriali di imprese,
chiamati anche distretti industriali (in riferimento al settore casa, abbigliamento ed elettronica -
assemblaggio) o cluster (distretti con una specializzazione particolare: high-tech, informatica).

I caratteri dei distretti industriali riguardano:


• l’ambito geograficamente ristretto ed il territorio circoscritto = area sub-provinciale, la
quale ricopre un’area dai 10 ai 15 piccoli comuni, non sono situati all’interno di una città;
• la vocazione settoriale delle formazioni territoriali, relativamente ad un settore o ad una
filiera produttiva;
• la presenza di piccole e medie imprese indipendenti e specializzate per fase, le quali
partecipano di un processo di divisione del lavoro interno all’area;
• la forte cultura ed identità (adesso meno presente), ovvero un’identificazione con il
territorio di appartenenza;
• la presenza di istituzioni o soggetti collettivi che partecipano allo sviluppo ed al
funzionamento dei distretti industriali, come enti locali, comuni, università, camera di
29

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

commercio o agenzie legate ad essa, associazioni di categoria o banche (soprattutto nella


prima parte dello sviluppo);
• la compenetrazione tra vita sociale e vita economica.
I primi due economisti a riconoscere l’esistenza e a dare definizioni riguardo queste formazioni
industriali furono Becattini, economista toscano e Marshall, economista inglese dell’ottocento.
↓ ↓
è considerato il padre si accorse che le economie locali inglesi
dei distretti industriali: sopravvivevano mentre il paese
fu il primo ad accorgersi andava verso la grande dimensione.
della presenza di queste Definì i distretti industriali come “fabbriche
economie locali, la cui senza mura”: la fabbrica diventa
produzione ed esportazione il territorio, vediamo un frazionamento
differiva da quella della grande e la co-partecipazione nella produzione.
imprese. Così diede il nome
ai distretti.

Definizioni di distretto industriale fornite dai due economisti:

• Comunità di persone che incorporano un sistema di


valori omogeneo e le cui esperienze giornaliere di
lavoro e di vita si incrociano regolarmente nello
stesso luogo.
• Popolazione di piccole e medie imprese industriali
specializzate nella produzione di uno o pochi beni e
tra loro interagenti attraverso forme di divisione del
lavoro.

La divisione del lavoro all’interno del distretto industriale


All’interno di questo sistema locale di produzione, troviamo 3 differenti tipi di imprese:
1. le imprese dirette al mercato finale, che possono operare a monte del processo
produttivo, quindi attraverso l’ideazione del prodotto, oppure a valle del processo
produttivo, quindi occuparsi dell’esportazione;
2. le imprese mono-fase, ovvero specializzate in una sola fase del processo produttivo o
in poche; solitamente sono riconducibili ad una fase intermedia della produzione,
rivolgendosi ad un solo committente o a più e non sono circoscritte solamente al distretto
ma anche a committenti esteri;
3. le imprese sussidiarie o complementari, le quali non sono dirette al settore produttivo,
ma relative alla filiera (es: la produzione di macchinari o le imprese di servizio).

Le origini dei distretti industriali


Le origini e la formazione di queste formazioni di imprese locali risale alla nascita “spontanea” su
di un sub-strato artigianale, mantenendo un radicamento sul territorio. In seguito, queste imprese
vedono un salto dall’artigianalità alla produzione di tipi industriale, con il passaggio ad un
processo di decentramento produttivo; esse nascono anche da una ristrutturazione di grandi
imprese e possono essere dirette da ex dipendenti che mantengono un collegamento con la
grande impresa. Importante è anche la presenza di risorse naturali e la capacità
imprenditoriale (l’abitudine a dirigere l’impresa) diffusa.
Inoltre, entrano in gioco anche i fattori che ne hanno consentito lo sviluppo e il funzionamento,
come la congiuntura economica favorevole nel II dopoguerra, che ha portato alla richiesta di
30

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

beni standardizzati di ogni genere. Tuttavia, verso gli anni settanta, il carattere artigianale delle
piccole imprese è stato essenziale per soddisfare i bisogni sempre più specifici (la flessibilità ha
consentito la risposta efficace alla richiesta di beni non più standardizzati, ma diversificati).
Le imprese hanno incontrato basse barriere all’entrata per i loro prodotti tradizionali, entrando
meglio nel mercato senza l’impiego di grandi capitali ed investimenti; l’innovazione era richiesta
per il prodotto ma non per il processo produttivo — un esempio è il settore della moda, che
richiede velocità nella risposta alla domanda e nell’innovazione, per entrare in modo efficace in un
mercato ormai saturo e sempre più diversificato (le collezioni hanno una durata piuttosto breve).
Le economie di localizzazione, facenti parte delle economie di agglomerazione insieme alle
economie di urbanizzazione (= nelle grandi città), hanno portato grandi vantaggi: la filiera o
insieme di imprese collocate in vicinanza tra di loro, la specializzazione del mercato del lavoro
o dei servizi all’impresa, la possibilità di una collaborazione (divisione del lavoro) e delle
presenza di sub-fornitori collocati vicino all’impresa stessa.
Il ruolo della famiglia risulta fondamentale e rappresenta un’insieme di micro-soggetti dotati di
imprenditorialità, i quali formano la manodopera e provvedono all’autofinanziamento. Infine, il
finanziamento ed il sostegno alle iniziative territoriali e alle imprese distrettuali, deriva anche da
banche ed istituzioni locali.
I distretti industriali sono specializzati in diversi settori, come la moda (abbigliamento, calzature ed
accessori), il sistema casa (mobili, oggettistica e arredamento), la meccanica, il turismo e la
cultura. Le specializzazioni dei distretti sono tipiche del made in Italy, alcuni sono piuttosto
tecnologici (settore bio-medicale), mentre altri meno e rimangono più tradizionali. Per quanto
riguarda il settore turistico e culturale, la divisione del lavoro non è finalizzata alla produzione di un
bene materiale, ma per la collaborazione e progettazione al fine di fornire servizi più consistenti ed
efficaci.

42

Il ciclo di vita del distretto industriale

I modelli ciclici vengono criticati dagli esperti per via della loro semplificazione e rigidità. Gli esperti
dividono il ciclo di vita in 3 fasi principali: le prime due sono ben delineate e le caratteristiche ben
definite, mentre la terza i cambiamenti e le strategie non sono uniformi.
1. la specializzazione di fase riguarda la formazione del distretto senza l’emersione, poiché
prevale ancora la grande impresa. Tra gli anni sessanta e settanta si formano dei nuclei

42 Queste mappe cambiano in relazione agli indicatori statistici utilizzati per individuare i distretti. Vediamo un addensamento di
distretti industriali in Nord-Est e nel Centro, dovuta alla maggiore diffusione di caratteristiche o fattori che hanno portato alla nascita
dei distretti; tuttavia anche nel Nord-Ovest per il settore alimentare. Il Veneto è sempre presente sulla mappe, qualunque indicatore si
prenda in considerazione, dal momento che sono più e varie specializzazioni; fino agli anni cinquanta, l’economia veneta era basata
all’agricoltura ed era relativamente povera, con fenomeni di emigrazione. In seguito, negli anni sessanta e settanta, da regione
periferica a regione centrale per lo sviluppo nazionale (industriale e esportazioni).
31

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

distrettuali, o nuclei artigiani (dispongono di bassi capitali, produzione di prodotti


tradizionali) che si stanno spostando verso la produzione industriale. Vediamo anche
grandi imprese che esternalizzano fasi della produzione e creano un tessuto di piccole
imprese ➝ divisione del lavoro;
2. l’area sistema integrata riguarda la fase di sviluppo del distretto, con crescita del numero
di imprese e dell’occupazione, aumento della produzione, l’inizio delle prime esportazioni e
la complessificazione del processo produttivo. Dalla metà degli anni settanta agli anni
ottanta, la grande impresa fordista entra in crisi e la piccola impresa, organizzata in
maniera industriale e dotata di flessibilità, riesce ad emergere. Inoltre cambia
l’organizzazione: vede la fine della gerarchia e si generano più livelli di sub-fornitura.
Infine, vediamo distretti non più industriali ma nascono anche servizi all’impresa, a monte
oppure a valle e attività collaterali, come la pubblicità ed il marketing (soggetto poli-
settoriale o filiera);
3. la fase della maturità la quale riguarda il cambiamento del tessuto economico, industriale
e tecnologico: i distretti si confrontano con imprese di altri Paesi che producono gli stessi
prodotti a prezzi più bassi = competizione (nel 2008 la crisi economica globale introduce
nuovi processi e anche momenti di crisi). La grande impresa supera la crisi e inizia a
flessibilizzarsi, abbassando i costi e liberandosi della fase di produzione stessa. Infine si
pone il problema dell’innovazione, non basta più innovare l’apparato produttivo ma è
necessario anche un cambiamento nell’imprenditorialità, adeguandosi ai cambiamenti.

Strategie attuate dai distretti industriali per superare il momento di crisi


− la delocalizzazione produttiva con trasferimento all’estero di filiere produttive, al fine di
abbassare i costi e riposizionamento nella nuova divisione internazionale del lavoro. Dal
punto di vista del distretto è produttiva ma, dal punto di vista territoriale, vediamo un alto
tasso di mortalità e un basso tasso di natalità dei distretti, con l’avanzamento della
disoccupazione;
− concentrazione e gerarchizzazione: le imprese di media dimensione hanno acquisito
piccole imprese con l’internazionalizzazione della produzione, soprattutto quelle che
producono prodotti di qualità elevata;
− strategie di diversificazione produttiva e di nicchia - innovazione: le imprese entrano in
mercati in cui ancora non hanno competitors, ampliando i settori produttivi in cui operare.
I distretti devono innovare i processi di produzione, rendendoli più tecnologici e
ottenendo prodotti di maggiore qualità ed a più alto valore aggiunto;
− i cambiamenti sociali, come la realizzazione di fenomeni migratori, a causa dell’offerta di
manodopera non locale o appartenente al territorio del distretto (esempio dei lavoratori
cinesi nella provincia di Prato) ed il cambiamento dei valori imprenditoriali, legati anche
al cambio generazionale (in particolare nelle imprese familiari).

Le normativa nazionale - Legge 317/1991


Essa interviene dopo che il fenomeno del distretto industriale è nato, sviluppato, evoluto e si
trovava sulla soglia della crisi. Questo decreto fissa i criteri che le Regioni utilizzano per
individuare i distretti e afferma la co-partecipazione della Regione nel finanziamento del distretto
industriale.

Definizione di distretto industriale: “aree territoriali locali


caratterizzate da elevata concentrazione di piccole imprese,
con particolare riferimento al rapporto tra la presenza delle
imprese e la popolazione residente nonché alla
specializzazione produttiva dell’insieme delle imprese”.

32

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

Le normative nazionali - Legge 140/1999

• 1. Si definiscono sistemi produttivi locali i contesti


produttivi omogenei, caratterizzati da una elevata
concentrazione di imprese, prevalentemente di piccole e
medie dimensioni, e da una peculiare organizzazione
interna.
• 2. Si definiscono distretti industriali i sistemi produttivi
locali di cui al comma 1, caratterizzati da una elevata
concentrazione di imprese industriali nonché dalla
specializzazione produttiva di sistemi di imprese.
• 3. Ai sensi.. del D. Lgs n.112/1998, le Regioni …
provvedono alla individuazione dei sistemi produttivi
locali nonché al finanziamento dei progetti innovativi e di
sviluppo dei sistemi produttivi locali, predisposti da
soggetti pubblici o privati.

Essa rappresenta il primo passo verso l’autonomia delle Regioni: con la Riforma
Costituzionale del 2001, si apre all’autonomia delle Regioni per quanto riguarda i criteri di
individuazione dei distretti. Tuttavia, la Regione Veneto non impone questi criteri ai distretti, ma dà
la possibilità di presentarsi come tali davanti alla regione.

Un case study: i distretti industriali in Veneto

I distretti industriali in Veneto hanno visto diversi decreti e leggi regionali, a partire dal 2003,
passando per il 2006, per giungere infine al 2014: questo passaggio è considerato fondamentale
dagli studiosi di queste formazioni territoriali.

➡ Al passaggio dalla riforma costituzionale del 2001 alla legge 8/2003, il cambiamento non è
stato rilevante, se non per quanto concerne il riconoscimento del distretto attraverso un
passaggio dal basso e non più dall’alto. Con la legge 8/2003 viene stabilito, per enti/soggetti
locali ed imprese, che i distretti industriali possono auto-riconoscersi come distretto,
attraverso la presentazione di un patto di sviluppo di durata di 3 anni, delineando il percorso di
sviluppo del distretto nell’arco di questi tre anni. Dopo la stesura del patto, esso va presentato in
Regione per averne l’approvazione, che avviene nel caso di presenza di coerenza e fattibilità
economica; l’istituzione provvederà ad erogare dei bandi di sviluppo ai quali le imprese
concorreranno. Infine, se il patto ottiene l’approvazione, la Regione stanzia un rimborso (pari al
40% delle spese per il patto) attraverso un contributo a fondo perduto, il quale non dovrà essere
restituito. Tra il 2003 e il 2005, dal punto di vista quantitativo, l’impiego di questa modalità ha
portato al riconoscimento di 46 distretti, i quali contano 8.136 imprese e 203.118 addetti; i
progetti finanziati risultano 356, con un investimento di 54 milioni di euro e un investimento
complessivo di 173 milioni/€.

Sul territorio Veneto, si trovano ancora distretti storici; la legge numero 8/2003 ha anche aspetti
criticati, come la mancanza di criteri definiti per individuare i distretti. Infatti, le imprese,
appartenenti ad uno stesso spazio geografico, si univano per creare un patto di sviluppo e ciò
dovuto alla presenza di finanziamenti da parte della Regione.

33

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

➡ Con il passaggio dalla legge numero 8/2003 alla legge numero 5/2006, vengono trattenuti i
patti di sviluppo ma vengono anche introdotti elementi di innovazione, come:
• il principio di auto-organizzazione e la progettualità, ovvero la possibilità di organizzarsi;
• il superamento del principio della contiguità geografica e la conseguente nascita del
meta-distretto, ovvero un distretto che vede la presenza di imprese che stipulano il patto di
sviluppo anche se non si trovano in territori contigui;
• i distretti che possono essere riconosciuti non sono più di tipo esclusivamente
industriale-manifatturiero;
• la reversibilità dei programmi e degli accordi: non vi sono vincoli giuridici per la
coalizione e per la conseguente realizzazione dei progetti;
• non genera la nascita di nuove strutture ed organizzazioni.
Nonostante questi elementi positivi di innovazione, la Regione Veneto e gli imprenditori riscontrano
l’emergere di alcuni problemi:
• dal punto di vista regionale, la cultura individualista degli imprenditori e la loro difficoltà
a collaborare e superare le barriere e la mancanza di fiducia nella pubblica
amministrazione, sebbene la Regione rappresenti il soggetto più vicino al territorio;
• dal punto di vista degli imprenditori, rileva la difficoltà a comunicare con le istituzioni e
la mancanza di interazione stretta, che è causa della diffidenza verso la pubblica
amministrazione; la complessità delle procedure amministrative, in particolare nella
rendicontazione dei progetti — alcune imprese non vengono accettate o rimangono senza
finanziamento per via della mancata compilazione della burocrazia;
• per i problemi dovuti alla burocrazia, le imprese si rivolgono a società esterne di
consulenza, le quali vengono pagate con il finanziamento ottenuto (al posto di essere
utilizzato per coprire le spese del progetto);
• secondo entrambi, vi sono troppi distretti e troppi patti riconosciuti — cit. “finanziamenti
come se piovesse”.
➡ Con il passaggio dalla legge numero 5/2006 alla legge numero 13/2014, la progettualità
precedente decade (a partire dal 2012) e viene operato un cambiamento rilevante: la
soppressione dei finanziamenti per i nuovi progetti, tornando ad un approccio dall’alto con
l’introduzione di nuovi parametri, per definire i distretti industriali.

• Distretto industriale: “sistema produttivo locale, all’interno di una


parte definita del territorio regionale, caratterizzato da un’elevata
concentrazione di imprese manifatturiere industriali e artigianali, con
prevalenza di piccole e medie imprese, operanti su specifiche filiere
produttive o in filiere a queste correlate rilevanti per l’economia
regionale”.
• Rete innovativa regionale: sistema di imprese e soggetti pubblici e
privati, presenti in ambito regionale ma non necessariamente
territorialmente contigui, che operano anche in settori diversi e sono in
grado di sviluppare un insieme coerente di iniziative e progetti
rilevanti per l’economia regionale
• Aggregazione di imprese: insieme di almeno 3 imprese che si
riuniscono al fine di sviluppare un progetto strategico comune, nelle
forme di cui all’art.5.

34

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

I criteri di individuazione dei distretti industriali (legge 13/2014 - art.3)


I criteri utilizzati dalla regione Veneto sono stati individuati dalla stessa in collaborazione con
l’Università di Padova e, per quanto concerne i parametri quantitativi, essi sono piuttosto rigidi.
Un distretto industriale, per essere definito tale, deve:
− presentare una concentrazione di imprese manifatturiere;
− presentare una storicità, ovvero l’esistenza e la perdurata nel tempo sul territorio
regionale. Essa deve essere testimoniata attraverso centri di documentazione (i
musei di imprese, contenenti archivi e macchinari a testimoniare l’effettività del processo
produttivo), attraverso la letteratura scientifica, quindi studi o ricerche condotti sul
distretto oppure attraverso i rapporti di società di consulenza;
− essere un sistema dotato di competitività in ambito di innovazione ed
internazionalizzazione, caratteristica tipica di grandi imprese leader nel settore, o
imprese dedite all’esportazione.
Inoltre, vi sono altri due criteri che possono rafforzare l’individuazione del distretto, senza tuttavia
modificarne lo stato: la presenza di un marchio collettivo del distretto, piuttosto raro, e la presenza
di istituzioni formative (come le Università) o centri di ricerca ➝ attraverso l’individuazione di
questi parametri, la Regione Veneto è voluta tornare ad un’idea di distretto basato sulla tradizione
e sulla forte specializzazione settoriale o di fase.

I criteri di individuazione della rete innovativa regionale (legge 13/2014 - art.4)


La rete di distretti deve avere una rete estesa sul territorio regionale, con la presenza di
un’imprenditorialità nuova ed innovativa, che non sia legata esclusivamente al territorio di
appartenenza ed operatività: valorizzazione di imprese dinamiche o leader che partecipano a
progetti europei, in cui perviene la possibilità di confrontarsi con altre reti regionali. Tuttavia, ove
la partecipazione non fosse possibile, è importante l’individuazione di nuovi settori in cui
operare o l’impiego ed utilizzo di nuove tecnologie all’interno del processo produttivo.
I distretti o le reti regionali devono avere un rappresentante (legge 13/2014 - art.6) che ne faccia
le veci, ovvero un soggetto che intrattiene i rapporti con la regione e gli enti locali.

• Le imprese aderenti a ciascun distretto industriale e i soggetti


aderenti a ciascuna rete innovativa regionale individuano, in una
delle forme previste dal codice civile, il soggetto giuridico
preposto a rappresentare il distretto o la rete innovativa
regionale nei rapporti con la Regione e le altre amministrazioni
pubbliche;

• Il soggetto di cui al comma 1, debitamente riconosciuto dalla


Giunta regionale, raccoglie le istanze delle imprese aderenti a
ciascun distretto industriale e dei soggetti aderenti a ciascuna
rete innovativa regionale e presenta i progetti di intervento alla
Regione ai sensi dell’articolo 7.

I progetti di intervento considerati finanziabili dalla Regione Veneto


I progetti che la Regione ha deciso di finanziare sono molteplici e riguardano i settori o aree più
diverse:
a. la ricerca e l’innovazione, sia di prodotto che di processo;
b. l’internazionalizzazione del distretto, sostenendo la partecipazione delle imprese alle
fiere internazionali del settore di appartenenza: è particolarmente importante per le
piccole e medie imprese;
c. le infrastrutture, come quelle ambientali, logistiche o dei servizi all’impresa;
d. lo sviluppo sostenibile e la salvaguardia ambientale, quindi il risparmio energetico dei
cicli di produzione, il minore impatto ambientale del processo produttivo e la produzione di
prodotti detti green;

35

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

e. la difesa dell’occupazione e lo sviluppo di nuovi posti di lavoro, incentivando quelle


imprese che hanno delocalizzato la produzione all’esterno, a rientrare nel territorio
regionale (alcune regioni, come il Piemonte, hanno optato per la realizzazione di progetti
specifici al fine di ridurre, o addirittura eliminare, questo problema);
f. lo sviluppo di imprenditorialità innovativa e di nuova o rinnovata imprenditorialità;
g. la partecipazione a progetti promossi dall’Unione Europea, anche in materia di
cluster;
h. una linea aperta, ovvero ogni iniziativa che possa rafforzare la competitività
dell’impresa.

Un case study: il distretto dello sportsystem di Montebelluna

Il distretto dello sportsystem di Montebelluna è uno dei distretti Veneti più dinamici e sviluppati.
Esso è specializzato nella produzione di calzature, sebbene non sia l’unico distretto nella
Regione che si occupa di scarpe. Infatti, i distretti calzaturieri sono 3:
1. il distretto di Montebelluna, il quale produce calzature sportive (o sportsystem);
2. il distretto della Riviera del Brenta (tra PD e VE), il quale è specializzato nella
produzione di scarpe da donna alla moda, di qualità medio-alta, fornitore di grandi marchi
del settore moda;
3. il distretto di Verona, che produce calzature di livello medio, un tempo medio-basso, ed è
il più colpito dal fenomeno della delocalizzazione produttiva, causando moria di imprese e
posti di lavoro.
I primi due distretti sono accumunati da uno sviluppo abbastanza simile: nati da un’incubazione
artigianale nella zona veneziana di terraferma tra il 1800 e il 1890, si sono poi trasformati in
sistema fabbrica tra il 1890 e il 1940-50. Al contrario, il distretto di Verona vede uno sviluppo
diverso: nasce come un’organizzazione territoriale di produzione locale con la presenza della
divisione del lavoro, ma vede la mancanza del sub-strato artigianale (= zona distrettuale
giovane). Difatti, le imprese veronesi erano terziste di altre imprese tedesche e hanno visto la
loro prima espansione negli anni cinquanta del novecento.

43

43Calzatura tecnica ed articoli sportivi (sportsystem) di Asolo e Montebelluna: la Legge regionale 13/2014 ha stabilito che i
comuni facenti parte del distretto calzaturiero della provincia di Treviso sono 16; Montebelluna si trova nella parte nord-orientale della
provincia di TV.
36

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

L’individuazione di questi 16 comuni, facenti parte del distretto di Asolo e Montebelluna, è stata
possibile grazie all’utilizzo di 5 criteri o parametri quantitativi:

Indice Soglia Montebelluna


Specializzazione calcolata sulle unità 1,30 3,48
locali
Specializzazione calcolata sugli addetti 1,60 5,26

Rilevanza (*) calcolata sulle unità locali 10,0 11,0

Rilevanza (*) calcolata sugli addetti 10,0 16,7


Consistenza delle unità locali 220 282

Consistenza degli addetti 1.600 4.970

44
Documentazione Ampia

I primi due parametri sono identificati come indici di specializzazione: essi rappresentano il
« rapporto tra la quota di specializzazione di un determinato settore nell’area presa a oggetto di
studio e la quota calcolata per un’area più ampia di riferimento » .

QL = (a/a₁) / (A/A₁) QL>1 ➝ è


significativo quando il
risultato >1 e quindi
c’è concentrazione settoriale

I fattori all’origine della localizzazione del distretto di Montebelluna


Il distretto calzaturiero di Montebelluna è nato inizialmente come una specializzazione artigianale,
conservandola poi come sub-strato. All’origine dello sviluppo del distretto ritroviamo vari fattori:
• la vicinanza a risorse naturali e materie prime, come le pelli del distretto di Arzignano
oppure il legno che arrivava dai boschi del Montello;
• la presenza di una domanda locale, in particolare da parte dei montanari che
necessitavano calzature adatte alle condizioni ambientali in cui vivevano e/o operavano;
• la presenza di mercati di commercializzazione di prodotti di tradizione secolare;
• la presenza della tradizione dei Maestri calzaturieri della Repubblica Veneta, risalente
alle prime corporazioni;
• la capacità imprenditoriale diffusa.

Le fasi che hanno caratterizzato l’evoluzione e lo sviluppo del distretto di Montebelluna


Nelle prime fasi di incubazione (1800-1900), nella zona di Montebelluna ritroviamo pochi
laboratori artigianali, attigui alla bottega del calzolaio, il quale utilizza pochi strumenti semplici
(non macchinari tecnologici) e produce una gamma relativamente semplice e ridotta di calzature.
In seguito, tra il 1900 ed il 1950, il sistema artigianale subisce un’evoluzione ed inizia la fase di
transizione verso il sistema fabbrica, grazie alla presenza di fattori esterni, come:
• la prima GM, vista come l’occasione per diventare fornitori dell’esercito con un salto di
scala. Tuttavia, fu colta solo in parte da poche imprese (che poi diventeranno le imprese
leader nel settore), le quali si occuperanno della fornitura ai comandi locali;

44 Distretto di Montebelluna - identificazione ai sensi della L.R 13/2014: notiamo la presenza di diversi criteri, tra i quali i primi due
risultano essere i più restrittivi (avendo la Regione stabilito delle soglie minime), con particolare focus sul secondo, presente da tempo
nella letteratura scientifica.
37

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

• la prima diffusione dell’alpinismo e di alcuni sport invernali, come lo sci, negli anni
Trenta del novecento. Tuttavia, queste discipline erano ancora praticate da una clientela
d’élite e non di massa.
Questa seconda fase di prima espansione fu possibile, non solo grazie a condizioni esterne
favorevoli, ma anche ad un tessuto interno al sistema di produzione locale caratterizzato da:
• la presenza di imprese considerate storiche nel distretto;
• una forte creatività e spinta all’evoluzione del settore produttivo, con l’introduzione di
macchinari specifici;
• il passaggio da sistema artigianale a sistema di fabbrica;
• la prima diversificazione produttiva, arrivando per prima nella realizzazione di questo
prodotto e spiazzando la concorrenza: introduzione di scarponi da sci monouso. Questo
tipo di innovazione ha conferito la specializzazione e l’orientamento del distretto,
passando da uno scarpone da lavoro verso una calzatura sportiva.

I due periodi centrali nella storia del distretto di Montebelluna sono la fase che va dal 1950 al
1969, con la formazione del modello distrettuale e la fase che va dal 1969 al 1980, con la
riorganizzazione e la crescita del distretto, con il passaggio ad area sistema integrata.
La prima (1950-1969) delle due fasi chiave ha luogo grazie a fattori esterni, come:
• l’aumento della domanda per le attrezzature sciistiche;
• l’effetto trainante di alcuni eventi sportivi, come la scalata e conquista del K22 e le
Olimpiadi Invernali della vicina Cortina;
Internamente al distretto, possiamo ritrovare diverse condizioni:
• introduzione di macchinari complessi;
• fenomeni di spin-off, ovvero ex dipendenti delle grandi imprese che decidono di mettersi in
proprio, sfruttando le conoscenze apprese ➝ nuova imprenditorialità;
• la presenza di divisione del lavoro su fasi anche per le imprese spin-off, conferendo
un’organizzazione distrettuale;
• la presenza del learning by doing, ovvero la diffusione e l’apprendimento di nuove
conoscenze in maniera spontanea, attraverso il proprio lavoro;
• innovazione, per quanto riguarda lo scarpone… da sci, di carattere incrementale di
prodotto e processo e la produzione di altre calzature sportive.
La seconda fase chiave inizia proprio nel 1969, con un evento estremamente importante per il
distretto di Montebelluna, ovvero con l’introduzione di un’innovazione che ne ha cambiato
radicalmente le sorti: la plastica. Infatti, lo scarpone da sci è sempre stato realizzato in pelle fino a
che un tecnico statunitense decise di introdurre questo materiale nella produzione della calzatura
sportiva ➝ INNOVAZIONE RADICALE. Tuttavia, furono le imprese del distretto trevigiano a
mettere in atto un processo produttivo meno costoso ed egualmente efficiente ➝ innovazione
incrementale: introducono il metodo dell’iniezione del materiale plastico all’interno dello stampo, al
posto della colata. Inoltre, in questo periodo vi è un aumento della domanda di articoli sportivi
(essendo le discipline invernali diventate di massa) che lancia lo sviluppo del distretto, unitamente
alla sponsorizzazione sportiva. L’organizzazione del distretto cambia e si fa più strutturata: inizia
la produzione di doposcì, l’adozione del modello di “decentramento a cascata”, l’avvento del
distretto pluri-specializzato, in cui si vede la nascita della filiera e una forte vocazione per l’export.

L’ultima fase riguardante il distretto di Montebelluna, quella della maturità, inizia negli anni ottanta
e continua fino ad oggi. È una fase di crisi, seguita da strategie di risposta messe in atto dalle
imprese del distretto.
I fattori esterni che hanno scatenato la crisi furono:
• la saturazione del mercato, dovuto ad un calo della domanda dei prodotti;
• l’aumento di costo del lavoro e delle materie prime, quest’ultima causata dalla seconda
crisi petrolifera;
• l’inizio di una competizione internazionale, indetta da Paesi Asiatici, che si sono imposti
grazie alle prime delocalizzazioni.

38

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

Nonostante il periodo difficile (due crisi tra il 1980-82 e nel 1987), le imprese mettono in atto
diverse strategie, tra le quali:
• la delocalizzazione produttiva, strategia difensiva per la quale le imprese del distretto
incentrano la produzione in paesi Asiatici, ma soprattutto nell’Est Europa;
• le innovazioni e diversificazioni produttive in settori contigui alla calzatura sportiva, tra
le quali ritroviamo la scarpa da città (“fenomeno Geox”), il pattino in linea, l’abbigliamento
sportivo, che fa di Montebelluna il distretto dello sportsystem;
• l’entrata di multinazionali con processi di concentrazione aziendale: Benetton, Nike e
Adidas entrano nel distretto, le ultime due istituiscono basi di ricerca nello stesso.
Oggi il distretto continua nella produzione della calzatura da montagna e dello scarpone da sci,
ma ha integrato la produzione attraverso la scarpa tecnica per sport, la scarpa comfort da città e
casual, accessori come rotelle, bacchette da sci e caschi ed infine l’abbigliamento casual sportivo,
ovvero la produzione più importante e che genera gran parte del fatturato del distretto.
Inoltre, sono rilevanti anche altri settori che sono collegati o di supporto alle imprese del
distretto: produzione di materie plastiche, servizi all’impresa, logistica, produzione di stampi e
componenti e macchinari.

45

46

45 Evoluzione del numero di aziende 1997-2006 (fonte OSEM - Osservatorio socio-economico di Montebelluna): tra la metà degli
anni settanta e la metà degli anni 2000, vediamo una fase in cui più incide la delocalizzazione produttiva. Ancora presenti 600 imprese
alla fine degli anni Novanta, difatti il distretto era al top delle sue possibilità; nel decennio che va dal 1993 fino al 2005, si vede un
andamento negativo, con la chiusura di piccole imprese e con fenomeni di delocalizzazione.

46Evoluzione del numero di addetti 1997-2006 (fonte OSEM): alla fine degli anni Settanta, il numero degli addetti era ancora al top.
Con l’avvento degli anni duemila, la perdita di occupazione si fa sentire ed è in linea con l’andamento negativo del numero di imprese
presenti nel distretto.
39

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

Negli anni successivi alla crisi, avvengono vari processi di fusione tra le imprese del distretto e
le multinazionali e si assiste ad una forte moria di piccole imprese. Tuttavia, nonostante la
scomparsa di queste imprese, la struttura del distretto rimane prettamente formata da micro
imprese (42%), individuali (22%) e le piccole imprese (26%); le grandi imprese sono ancora un
sostegno presente per l’occupazione distrettuale.

Alcuni progetti realizzati con i Patti (L.R. 8/2003 e 5/2006)


Prima della crisi economica, il distretto di Montebelluna non ha dimostrato un’intensa progettualità,
dal momento che problemi legati alla sopravvivenza delle imprese non ve ne erano. Tuttavia, con
l’avanzare della crisi, le imprese hanno optato per la stipulazione di patti di sviluppo con i quali
hanno creato diversi progetti, come:
− la creazione di osservatori (District Vision Lab), banche dati e centri di studio per
orientarsi nell’ambito delle tendenze della moda calzaturiera;
− progetti di ricerca e trasferimento tecnologico;
− portale di distretto;
− partecipazione a fiere nazionali e internazionali, molto importanti per la piccola e media
impresa.
Il Patto del 2009 ha visto protagoniste 111 imprese private con oltre 5200 addetti, 12 comuni
e altri enti, quali: associazioni di categoria, Fondazione Museo dello Scarpone, Università di
Padova, le agenzie camera di commercio ed i centri di formazione.

L’Associazione e Fondazione del Museo dello Scarpone e dello Sportsystem


L’associazione del museo si occupa di promozione della cultura e del territorio e di eventi, ma
anche di fornitura e servizi alle imprese; la fondazione si occupa, invece, di gestione del
patrimonio. Il Museo nasce nella metà degli anni Ottanta, grazie all’idea di un professore di Lettere
originario di Montebelluna e appassionato di storia locale.
Lo parte museale è aperta a visite, anche guidate, in cui è possibile ammirare scarponi e scarpe
appartenenti a diverse generazioni produttive, ma anche archivi di brevetti e documenti
storici che attestano l’attività del distretto. Inoltre, esso si presenta anche come centro
professionale di ricerca e formazione per addetti, di cui il distretto ha sempre bisogno, ma
anche come organizzatore di incontri di aggiornamento e formazione per imprenditori.
Infine, da ricordare sono 3 progetti particolarmente importanti e voluti dall’associazione:
1. il progetto per la creazione di un Osservatorio, quello che poi diventerà OSEM, ovvero
l’Osservatorio Socio-Economico di Montebelluna;
2. il progetto “Portland”, che consiste nella creazione di rapporti e collaborazioni con la città
americana di Portland, il massimo centro di design calzaturiero;
3. il progetto “Montello sport outdoor”, per la promozione turistica del territorio, il quale non si
riconosce solamente come area industriale; è favorito da risorse naturali ed
enogastronomiche.

40

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

Punti di forza del distretto Punti di debolezza del distretto

Organizzazione del lavoro interna e Conseguenze delocalizzazione produttiva sul


la divisione del lavoro: hanno territorio, con perdita di posti di lavoro e
consentito la trasmissione di competenze
conoscenze e l’abbassamento dei
costi Difficoltà a reperire figure specializzate e
tecniche, con discrasia tra domanda e offerta
Capacità di innovare e diversificare di lavoro
la produzione
Limitata dimensione aziendale, con predominio
Internazionalizzazione e apertura di piccole e medie imprese
all’export: le grandi imprese si sono
salvate per la loro capacità di Difficoltà ad ottenere finanziamenti poiché gli
rispondere a domande estere imprenditori sono restii dinanzi alle innovazioni
all’uso di nuove tecnologie e a fare rete,
Know-how degli imprenditori locali, superando l’individualismo
dei modellisti e dei creativi, i quali
hanno attirato grandi multinazionali

I cluster dell’high-tech: il case study della Silicon Valley

47

I cluster industriali vengono ricondotti al nome dell’economista aziendale Porter, il quale, negli
anni novanta, li ha definiti come « concentrazione geografica di imprese, fornitori di beni e
servizi specializzati e istituzioni, fortemente interconnessi, che competono ma anche
collaborano tra loro in un particolare settore »
Questi distretti specializzati si presentano come una categoria più ampia rispetto al distretto
industriale, poiché non comprendono solamente piccole e medie imprese; inoltre risulta
fondamentale la collaborazione con le istituzioni, in particolare delle università, soprattutto
nei cluster dell’high-tech ≠ distretti industriali, in cui la collaborazione non è necessaria né
fondamentale, ma sta diventando sempre più una prassi comune. Infine, si possono
manifestare a più scale geografiche, da imprese spazialmente concentrate fino a cluster
estesi a regioni o addirittura stati (vedi distretto Silicon Valley).

47Cluster di imprese specializzate negli Stati Uniti: saltano all’occhio alcuni dei più importanti centri, come Detroit, le aree del sud
nate recentemente (California) e la zona delle megalopoli dell’Atlantico, da Boston a Washington. In generale, i cluster degli States sono
specializzati in vari settori: la produzione di elicotteri e aeromobili (Seattle), editoria, il giornalismo e la finanza (New York) ed il
settore dell’high-tech (California).
41

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

Le caratteristiche dell’industria dell’high-tech


Le caratteristiche principali dei cluster specializzati nell’alta tecnologia sono:
− l’intensità di ricerca e sviluppo, difatti una quota considerevole di investimenti destinata
alla ricerca e sviluppo;
− l’impiego di forza lavoro qualificata come: ricercatori, tecnici, ingegneri;
− gli investimenti, i quali sono consistenti, a redditività differita nel tempo e ad alto rischio
(venture capital);
− i diversi settori: aerospaziale, robotica, biotecnologie, nanotecnologie, elettronica,
informatica, telecomunicazioni, farmaceutica.
I cluster negli Stati Uniti si concentrano nell’area della Silicon Valley, in California, nella zona
della Route 128, Boston e nell’area di Baltimora e Washington; anche in Europa troviamo due
cluster: uno nella zona di Grenoble, la Città della Scienza Parigi Sud e uno nel Regno Unito, a
Cambridge. Infine, in India troviamo il cluster più famoso e conosciuto, quello di Bangalore.

Le caratteristiche comuni dei cluster dell’alta tecnologia


Questi distretti sono accumunati da diversi fattori, come:
− l’elevato numero di imprese tecnologiche e di laboratori di ricerca e sviluppo di
grandi imprese;
− la presenza di università e centri di ricerca di livello internazionale (uno dei più famosi
l’Università di Stanford, il quale ha promosso e sostenuto lo sviluppo del cluster della
Silicon Valley)
− la presenza di servizi avanzati, in particolare venture capital;
− le infrastrutture di rango elevato;
− la buona attrattiva del luogo (solitamente i cluster sorgono in zone in cui la qualità di vita
è piuttosto alta);
− la presenza di centri di ricerca e sperimentazione militari, i quali precedono la nascita del
cluster;
− le politiche territoriali = le Istituzioni entrano ed intervengono nei cluster con politiche per
lo sviluppo dello stesso.
I cluster high-tech sono nati con forza autonoma, poi viene creato un parco tecnologico ≠ poli o
parchi tecnologici, più “artificiali”, costituiti da Università o istituzioni locali, sono però esempi
fallimentari, utilizzati come economie esterne per attrarre le imprese.

I fattori di localizzazione primari dei cluster dell’high-tech


I fattori che permettono di localizzare questi distretti specializzati vedono, innanzitutto, la presenza
di università e centri di ricerca, i quali consentono la formazione di personale altamente
qualificato, da indirizzare direttamente all’interno del cluster, ma anche la creazione di start-up,
finanziando i progetti creativi dei giovani laureati; consentono la produzione e diffusione di
conoscenza e forniscono la potenzialità di attrarre o creare nuove imprese.
Strettamente connessa, è la presenza del venture capital (= il capitale di rischio), derivante da ex
imprenditori aventi fatto fortuna e diventati poi finanziatori: essi finanziano progetti innovativi,
permettendo la diffusione di cultura industriale orientata a questo tipo di finanziamento.
Infine, la dotazione di infrastrutture di rango elevato, come aeroporti internazionali, consente la
velocità dei collegamenti e l’apertura dei cluster all’esterno.

Il cluster high-tech della Silicon Valley


Il cluster è localizzato nella San Francesco Bay (solitamente i distretti sono localizzati nelle
periferie di grandi aree metropolitane) e ne sfrutta tutti i vantaggi, senza subire gli svantaggi della
centralità. L’area metropolitana di riferimento conta dai 7,5 agli 8 milioni di abitanti, di cui solo
2,9 sono localizzati nella zona di Santa Clara, in cui si trova la Silicon Valley, generando circa 1,5
milioni di posti di lavoro.
Il nome del cluster venne coniato da un giornalista negli anni Settanta del Novecento, il quale
studiò il cosiddetto fenomeno “Silicon Valley”.

42

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

Le precondizioni dello sviluppo del cluster della Silicon Valley


Come i nostri distretti, la SV presenta delle precondizioni con percorso pluridecennale alla base
della sua evoluzione.
I due più importanti fattori grazie ai quali il cluster ha avuto la possibilità di svilupparsi sono:

1. la presenza di Università celebri a livello internazionale, le quali puntano su ricerca e


sviluppo, finanziando progetti di studenti o laureati. L’Università più importante della valle è
Stanford, la quale supportò con fondi quella che diventò l’azienda simbolo della zona:
HP - Hewlett-Packard. Il progetto nasce nel 1937 dall’idea di due ex-studenti laureati, il cui
relatore, l’ingegner Therman, voleva fortemente commercializzare il prodotto della tesi,
ovvero l’oscillatore radio. Il docente prestò dei soldi agli studenti, poi si rivolse a banche
per trovare dei finanziamenti all’operazione: da un garage crearono un’impresa ed ebbero,
stranamente, un forte successo. Inizialmente, l’oscillatore radio fu acquistato da un privato,
Walter Disney, che lo usò all’interno della sua industria cinematografica e, solo in un
secondo momento, fu acquistato anche dal Ministero della Difesa per le applicazioni
possibili in campo bellico;
2. la presenza di una concentrazione militare (base della marina), stabilizzatasi in quel
luogo all’inizio degli anni Trenta del Novecento grazie alle iniziative del Ministero della
Difesa US. Il centro militare funzionò da catalizzatore per le industrie dell’elettronica,
sebbene non ebbe la forza di influenzare l’economia della valle. Questa era caratterizzata
principalmente da un’economia basata sull’agricoltura di noci ed albicocche, con la
presenza di industrie alimentari specializzate. Tuttavia, con l’avvento della II GM, la Marina
Militare iniziò ad investire nella valle con richieste di commesse da utilizzare per
tecnologie belliche o in campo militare.

Dall’esempio di HP nacquero altre imprese, le quali, in principio, erano legate ancora alle
commesse belliche della Seconda Guerra Mondiale. Venne poi creato un “parco industriale”, il
quale offre terreni, edifici, strumenti con i quali gli ex-studenti si misero, e tuttora si mettono, alla
prova. Infine, l’Università finanzia direttamente i progetti, dando vita ad industrie ed
imprenditorialità.
Concentrazione Università, ricerca
+
spesa militare e sviluppo

Base marina militare


Nasce Hewlett-Packard (1937)
Centro di R&S per la
tecnologia militare
Nascita imprese elettronica per
Localizzazione grandi effetto del volano bellico
imprese elettronica

Stanford Industrial Park


43

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

Silicon Valley: la transizione verso il moderno cluster


Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, i contratti Federali vengono incanalati sempre di più verso la
valle. Tuttavia, intorno agli anni Sessanta, inizia l’abbandono delle commesse militari a favore
di quelle civili ed il cluster inizia a camminare « con le proprio gambe » quando il settore militare
comincia a lasciare la Silicon Valley (auto-sostentamento). Si denota, però, che le commesse
statali assorbono ancora il 50% della domanda dei semi-conduttori, prodotto di spicco del distretto.
Negli anni Settanta, la percentuale si riduce del 10% e la base della Marina viene spostata
definitivamente (processo già iniziato alla fine della II GM), per cui il passaggio alle commesse
civili garantisce la sopravvivenza delle imprese.
Il cluster ha vissuto il passaggio da una fase ad un’altra, che ha portato alla specializzazione dello
stesso:
− 1° fase, che va dal 1950 al 1970 e vede la produzione di semi-conduttori al silicio.
Protagonista di questo passaggio è la “Fairchild semi-conductor”, la quale anch’essa fu
fondata da ex-studenti di Stanford. Tuttavia, 8 ingegneri decidono di lasciare l’impresa e
vanno a costituire altre imprese: rapido spin-off industriale, tipico della SV. Tra le
imprese che sono nate a seguito di questo spin-off, va ricordata la Intel.
− 2° fase, dal 1970 al 1990 e vede protagonista la stessa Intel, con il suo prodotto di punta,
ovvero il primo microprocessore che andrà ad essere inserito all’interno di un altro
prodotto nato durante questo ventennio: il personal computer.
− 3° ed ultima fase è quella che inizia negli anni Novanta e si protende fino ai giorni
nostri, caratterizzata dall’avvento dei software e dei servizi informatici, dallo sviluppo di
Internet (fondamentale per la nascita delle imprese per il commercio elettronico, com
eBay, situata nella SV) fino alla nascita dei social network (Facebook, Instagram) negli
ultimi anni.
La zona della Silicon Valley e le imprese che la costituiscono subirono una prima fase di
interruzione dello sviluppo all’inizio degli anni 2000 a causa della “bolla tecnologica” (o “bolla
speculativa”): il mercato dell’high-tech crolla, dopo aver speculato ed investito, trascinando con sé
alcune imprese del settore tecnologico, le quali chiudono i battenti, causando a loro volta una
diminuzione di posti di lavoro. La seconda fase di interruzione dello sviluppo avvenne nel 2008 a
causa della crisi economica globale (indirettamente responsabile è anche il venture capital), ma
attualmente parte dell’economia pare essersi ripresa ed aver migliorato, con un conseguente
recupero dei posti di lavoro persi (sono ancora 1.500.000).

I fattori di successo del cluster della Silicon Valley


Tra gli elementi che hanno favorito lo sviluppo della Silicon Valley rientrano:
− gli investimenti, risultati come input, da parte del settore militare;
− la presenza di Università che creano forza lavoro specializzata e qualificata (tecnici,
ingegneri, ricercatori) e finanziamenti per iniziative imprenditoriali;
− il dinamismo dell’area ed il fenomeno di spin-off a partire da un’impresa esistente;
− la scomposizione dei cicli produttivi e la divisione del lavoro attraverso la
collaborazione tra imprese;
− la presenza di venture capital fornito da società specializzate nei finanziamenti del
settore high-tech;
− l’ambiente molto dinamico ed informale, senza l’imposizione di gerarchie, con tassi di
natalità e mortalità molto alti e la creazione di nuove imprese - il fallimento non è visto
come marchio dell’imprenditore.
− la forte mobilità dei lavoratori tra le varie imprese, che consente il passaggio di
conoscenze e competenze;
− il contesto multi-etnico, che vede una parità tra i bianchi (36%) e gli asiatici (32%) con
presenza considerevole di ispanici e latini (20%). Questa diversificazione di etnie è
dovuta alla forte attrazione che generano le università della Valle: i lavoratori
provengono da tutto il mondo, in particolare dall’India (soprattutto ingegneri). Quella
che è definita una negativa “fuga di cervelli”, è invece vista anche positivamente dal

44

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

momento che molti ingegneri tornano nel loro paese creando nuove imprese e
garantendo posti di lavoro grazie alle conoscenze acquisite.

Le zone d’ombra del cluster della Silicon Valley


Tra le zone d’ombra della valle rientrano:
− la delocalizzazione produttiva, che vede la produzione in loco di prodotti ad alto valore
aggiunto (manodopera qualificata) mentre l’assemblaggio viene affidato ad altri paesi,
necessitando di forza lavoro non qualificata;
− la polarizzazione sociale, da una parte classi sociali ad alto reddito in cui rientrano
lavoratori specializzati e qualificati che vivono in determinate aree, dall’altra classi sociali
a basso reddito costituire da lavoratori dequalificati;
− la crescita patologica ed esponenziale del mercato immobiliare della Silicon Valley
che risulta essere elemento di esclusione di parte della popolazione ↔ dalla società allo
spazio, ovvero segregazione spaziale.
Vi sono alcuni elementi di preoccupazione per la nuova presidenza Trump da parte degli
imprenditori, tra questi ritroviamo l’imposizione di dazi doganali e la chiusura verso l’estero (le
imprese operano in contesti internazionali), i blocchi all’immigrazione che causerebbero un
impoverimento della SV. Tuttavia, considerano positiva la possibilità di rientrare senza un condono
dei capitali trasportati in banche estere ➝ evasione fiscale.

Altri attori della globalizzazione: le città globali e le megacittà

Lo sviluppo delle città globali e delle megacittà è dovuto alla crescita del settore terziario, avvenuta
attraverso varie fasi di sviluppo.
Una prima fase caratterizza il ventennio dal 1960 al 1980, in cui non si nota ancora una
terziarizzazione ma un forte sviluppo del settore dei servizi al quale si affianca uno sviluppo
dell’industria e una riduzione del settore agricolo. Durante questa fase risalta uno sviluppo della
società dei consumi, con la crescita del reddito per famiglie: aumento del benessere e nascita
di imprese legate al settore terziario che organizzano la distribuzione di prodotti di massa. In
questo periodo, grazie allo sviluppo del tempo libero, nasce anche il turismo di massa ed i servizi
legati al turista; l’amministrazione si modifica introducendo servizi al cittadino, come trasporti,
infrastrutture, sanità, istruzione e pubblica amministrazione ed infine, questa prima fase è
caratterizzata dalla crisi del fordismo con la prima de-industrializzazione delle economie
occidentali.
La seconda fase rientra nel periodo che va dagli anni Ottanta fino ai giorni nostri, con
protagonista il fenomeno della terziarizzazione. È caratterizzata dal fenomeno della
globalizzazione e della nuova divisione internazionale del lavoro; dalla nascita di filiere di
produzione con una conseguente crescita dei servizi per una complessificazione
dell’impresa(marketing, contabilità, consulenza); dalla crescita del settore turistico, legata alla
mobilità, alla diminuzione dei costi dei trasporti su lunghe distanze (occupa un 15% dei servizi su
scala globale ed ha subito una riduzione nel 2008 con successiva crescita esponenziale); dalla
crescente importanza del settore finanziario, con servizi legati alle banche, alle assicurazioni,
alle attività della finanza ed infine dalla domanda e dal consumo di servizi basati sulla
conoscenza e sull’informazione. « Effetto statistico »: bisogna riflettere su come vengono
calcolati i dati poiché l’occupazione terziaria è sempre stata sottostimata. Difatti, i dipendenti
del settore terziario che si trovano anche nelle industrie, facenti parte invece del settore
secondario, venivano contati nelle statistiche occupazionali del settore secondario. Attualmente,
l’occupazione del terziario inizia a crescere poiché gli addetti vengono contabilizzati correttamente.

I caratteri delle società post-industriali


L’economia delle società post-industriali è costituita da:
• una base economica caratterizzata dalla prevalenza del settore dei servizi (il terziario);
• la prevalenza dei colletti bianchi nella forza lavoro: nel Regno Unito l’economia è basata
sul settore terziario per una scelta di politica economica che ha voluto puntare tutto sui
45

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

servizi, senza sostenere il settore secondario, quindi le industrie. Al contrario, in Italia


l’occupazione terziaria occupa un 67% dell’economia e non risulta essere ai livelli di US e
UK. Tuttavia, l’occupazione industriale è maggiore rispetto a questi paesi. Infine,
l’economia cinese vede un bilanciamento tra addetti inseriti nel secondario e terziario
(entrambi 30% del totale) e una prevalenza degli occupati nel settore agricolo (40%) il
quale risulta anche importante per la società;
• la presenza di infrastrutture fortemente basate sull’information and communication
technology, ovvero basate sul digitale ed immateriale;
• un’economia basata sulla conoscenza.

I principali criteri di classificazione delle funzioni terziarie


Le funzioni rientranti nel settore terziario vengono classificate in base a diversi criteri:
− attraverso il tipo di attività svolta, con il rilevamento di unità produttive e del numero
degli addetti ivi occupati. Questo tipo di classificazione viene detto anche merceologico,
ovvero l’articolazione in classi e sottoclassi in base al genere di produzione od al
servizio offerto. Tra questi è possibile ritrovare il settore dei trasporti, del commercio, del
credito e delle assicurazioni ed infine i servizi all’impresa;
− attraverso l’individuazione della portata, ovvero il raggio di azione territoriale della
funzione di un servizio appartenente al settore terziario, definita come la distanza fino
alla quale quel servizio attrae consumatori (servizio privato) ed utenti (servizio
pubblico).
Esempio: confronto la portata dell’Università della Silicon Valley con quella dell’Università di
Vicenza.
Entrambe le località dispongono del servizio “istruzione” poiché dotate di un’Università, quindi, a
primo impatto, potremmo dire che le due città hanno la stessa importanza. Tuttavia, la portata
dell’Università della Silicon Valley è di attrarre studenti o utenti da ogni parte, se non del mondo,
della nazione US. Al contrario, la portata dell’Università di Vicenza è sovra-provinciale e attrae
studenti o utenti da un bacino circoscritto intorno al centro e alla provincia della città in cui è
collocata. Da ciò si può dedurre il seguente schema:
individuazione della funzione ➝ importanza della portata della funzione terziaria (rango) ➝
l’importanza della città in cui è localizzata la funzione ➝ posizione in una “classifica” di tipo
gerarchico.
Da qui possiamo individuare degli ordini di scala della portata delle funzioni urbane:
• micro-regionale: dal quartiere al sistema territoriale locale;
• meso-regionale: dall’area metropolitana, alla regione o alla macro-regione;
• macro-regionale: dallo Stato fino a un insieme regionale di stati;
• globale: funzioni estese all’intero pianeta.

Le città globali: perché sono nate


Le città globali sono inserite tra i nodi più forti ed importanti gerarchicamente. La portata delle città
globali non è né definibile né delimitabile, poiché estendono la loro area di influenza su tutto il
pianeta ed in tutti i settori dell’economia e non. Esse intrattengono poche relazioni con il territorio
circostante ma sono organizzate a rete tra di loro.
La loro crescita si deve:
− ai processi di sviluppo delle multinazionali, le quali hanno uno sviluppo verso l’estero,
ma con sedi situate in poche e grandi città;
− alla crescente importanza del settore dei servizi professionali avanzati, anch’essi,
come le sedi di multinazionali, concentrati in poche e grandi città;
− allo sviluppo delle tecnologie informatiche e delle telecomunicazioni che permettono
un contatto tra le varie città globali, collocate anche a grandi distanze tra loro. Questi
consentono, inoltre, la distribuzione delle funzioni avanzate a livello globale.
Il fenomeno inizia ad essere studiato a partire dagli anni Ottanta, grazia al contributo di due
geografi americani, Hall e Friedmann, che diedero il primo nome alla città globali, definendole
come «World Cities ». Tuttavia, il contributo più importante alla definizione ed individuazione delle
46

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

città globali, ci viene dato dal sociologo Castell ed, in particolare, dalla sociologa olandese Saskia
Sassen: i due cambiano il nome delle World Cities in « Global Cities », quello attualmente usato
nella letteratura della geografia economica.
La Sassen individua vari indicatori per definire le città globali (la cui caratteristica più peculiare è
la multiculturalità):

• Sedi decisionali superiori della pubblica amministrazione, del


governo politico, del potere militare (ONU, Banca Mondiale …)
• Principali istituzioni finanziarie e di mercato (banche centrali,
borse..)
• Sedi centrali di grandi imprese e principali istituti di credito
• Centri di ricerca e produzione di conoscenza (grandi università,
centri privati …)
• Presenza di un importante aeroporto internazionale
• Offerta di servizi professionali avanzati
• Livello di infrastrutturazione tecnologica
• Presenza di forza lavoro qualificata, mobile e multiculturale
• Presenza di un’offerta culturale di alto livello (grandi musei,
biblioteche …)
• Interazioni con altre città globali

Non basta possedere una sola tipologia tra le precedenti per essere considerata come città
globale, ma bisogna presentare tutti gli indicatori. Tra le città che la Sassen individua come
globali (sono poche), troviamo NY, Londra e Tokyo. Altri autori, hanno elaborato delle gerarchie in
cui compaiono, non solo le tre precedentemente citate, ma anche altre città che possiedono
alcune, ma non tutte, le caratteristiche elaborate dalla sociologa e che quindi possono essere
considerate come GC meno importanti.

I problemi delle città globali


Tra i problemi delle città globali riscontriamo:
− la forte polarizzazione economica e sociale, in cui si nota una struttura a piramide: al
vertice troviamo le professioni qualificate e ben retribuite. Queste professioni poggiano su
una base di lavoro manuale e de-qualificato, poco retribuito e spesso precario ma
raggruppa i servizi che servono alle città globali per vivere e svilupparsi;
− le GC sono spesso centro o luogo di conflitto sociale, soprattutto nel momento in cui i
quartieri abitati da popolazione e basso reddito vengono espropriati e riqualificati per
l’introduzione di popolazione ad alto reddito;
− dunque, chi sono « i padroni » delle città globali? Possiamo identificare come padroni delle
città globali, le grandi imprese immobiliari, le quali decidono di investire in queste città, le
quali avevano sempre attratto numerosi e ingenti investimenti. Nonostante ciò, negli ultimi
anni il mercato immobiliare ha subito un forte crollo, il cui centro sono stati gli Stati Uniti.

47

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

La dimensione globale delle città


La stesura di questa tabella è a cura della società di consulenza aziendale, la quale si interessa al
fenomeno, analizzandone lo sviluppo, stilando classifiche ed indicatori.

ATTIVITA’ DI BUSINESS Sedi imprese multinazionali e


società di servizi, volume traffico
merci, n° congressi internazionali
CAPITALE UMANO N° stranieri presenti, qualità delle
università, n° scuole e studenti
internazionali, % popolazione
laureata
CIRCOLAZIONE INFORMAZIONE Principali canali televisivi,
presenza e diffusione internet, n°
agenzie stampa estere
ESPERIENZA CULTURALE N° di musei, attrazioni e luoghi di
spettacolo, ristoranti, eventi
48 sportivi, visitatori internazionali
COINVOLGIMENTO POLITICO Presenza ambasciate e consolati,
organizzazioni internazionali

City 2016 Rank 2014 Rank


Londra 1 2
New York 2 1
Parigi 3 3
Tokyo 4 4
Hong Kong 5 5
Los Angeles 6 6
Chicago 7 7
Singapore 8 9
Pechino 9 8
49 Washington 10 10
D.C.

50

48Dimensione globale della città: la società introduce come indicatori il traffico merci, il capitale umano, la direzione della ricerca ed il
numero di congressi, citando inoltre varie attività che siano in grado di attrarre popolazione su scala globale (punto centrale).

49 Global cities index: nella tabella stilata sempre dalla società A.T. Kerney, vediamo, tra il 2016 e il 2014 l’introdursi di città asiatiche,
le quali modificano la classifica in cui erano solitamente presenti solo città occidentali (ad eccezione di Tokyo)

50 La popolazione nelle grandi città (1950-2030): l’immagine mostra la crescita della popolazione all’interno delle GB. Nel 2009 si è
realizzato il sorpasso, ovvero la popolazione urbana ha superato la popolazione rurale. Inoltre, vediamo dinamiche diversi tra i paesi
avanzati ed i PVS: nel 1950 erano USA, UE e Japan le aree più urbanizzate; a partire dalla metà degli anni Settanta, lo sviluppo inizia a
rallentare, mentre la popolazione nei PVS cresce in modo più rapido ed elevato.
48

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

Il fenomeno delle « megacittà »


Le megacittà possono coincidere, come no, con le GC e, per essere definite “megacittà”, esse
devono superare i 10 milioni di abitanti e non hanno nessuna implicazione con l’importanza
economica né con una loro posizione di controllo.
Esse non detengono l’importanza economica delle Global Cities, le quali possiedono un ruolo
strategico e di controllo di vari settori, come dell’economia e della finanza; molti studiosi si
chiedono se riusciranno a diventare così importanti.

1975 2010 2025


Tokyo 26,6 Tokyo 36,6 Tokyo 37,1
New York 15,9 Delhi 22,1 Delhi 28,6
Città del Messico 10,7 San Paolo 20,2 Mumbai 25,8
Mumbai 20,0 San Paolo 21,6
Città del Messico 19,5 Dhaka 20,9
New York 19,4 Città del Messico 20,7
Shanghai 16,6 New York 20,6
Calcutta 15,5 Calcutta 20,1
51 Dhaka 14,6 Shanghai 20,0
Karachi 13,1 Karachi 18,7

La liberalizzazione del commercio internazionale ed il multilateralismo

La liberalizzazione economica avviene attraverso due distinti fenomeni: il multilateralismo ed il


regionalismo. Il primo, si può descrivere come il fenomeno di progressiva riduzione ed
abbattimento delle barriere di trasferimento di beni e servizi su scala globale; ruolo centrale ha la
WTO (World Trade Organization). Il secondo fenomeno, invece, è caratterizzato da accordi
stipulati tra due o più paesi per abbattere o ridurre tra loro le barriere al commercio;
dall’abbattimento e/o riduzioni sono esclusi i Paesi che non partecipano di questi accordi. La forma
più evoluta di regionalismo è l’Unione Europea.
Le barriere economiche che si sono possono riconoscere e che ostacolano il commercio estero
sono:
− le barriere tariffarie, le quali modificano direttamente i prezzi dei prodotti che vengono
introdotti attraverso la creazione di un’imposta (il dazio doganale);
− le barriere non tariffarie, le quali influenzano indirettamente i prezzi ed impongono
limitazioni al commercio internazionale. Tra questi ritroviamo: i contingentamenti
(limitazioni alle importazioni ed alle esportazioni), le barriere tecniche e di standard
(condizionate da norme igienico-sanitarie), i sussidi e l’embargo (limitazione, di ragione
politica, imposta ad un paese che non dispone più della possibilità di commerciare con un
altro Paese estero. Il commercio può non essere interrotto definitivamente aggirandolo
tramite le triangolazioni).

Il multilateralismo
Prima della conclusione della II GM, gli Stati Uniti indissero una conferenza, chiamata Bretton-
Woods (1944) al fine di decidere l’assetto dell’economia mondiale alla fine del conflitto. Gli scopi
principali, di quelli che poi diventeranno gli Accordi di Bretton-Woods, erano la liberalizzazione
del commercio e dei movimenti di capitale al fine di creare armonia, sviluppo e benessere
all’interno e tra gli Stati che presero parte alla conferenza (tra le potenze più importanti del

51Le megacittà nei paesi avanzati (milioni di abitanti): nel 1975, si nota la presenza solamente di tre megacittà, ovvero Tokyo, NY e
Città del Messico. Negli ultimi anni, il numero delle megacittà sta crescendo sebbene, nei paesi avanzati, si stia assistendo ad un
progressivo rallentamento della crescita e sviluppo della popolazione. Al contrario, nei PVS la popolazione continua ad aumentare
rapidamente.
49

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

panorama di quel tempo furono escluse Germania e alleate). 



Alla conclusione della conferenza, vengono create tre organizzazioni internazionali: il Fondo
Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’International Trade Organization (quella che poi
diventerà la WTO).
1. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) fu istituito tramite accordi nel dicembre del
1945, ma divenne operativo a partire da maggio del 1946. Inizialmente, nacque per
risolvere problemi di natura monetaria internazionale (regolare e gestire i cambi monetari
internazionali, i quali erano agganciati ad un tasso fisso del dollaro); tuttavia, questa
funzione fu abolita negli anni Settanta iniziando a focalizzarsi su aiuti e finanziamenti per
Paesi con squilibri sulla bilancia di pagamenti. Attualmente, ne fanno parte 189 paesi;
è considerato un organismo non democratico dal momento che il diritto di voto è
ponderato, ovvero dipende dalla quota versata al Fondo Monetario. Questa modalità di
votazione viene spesso criticata dal momento che i paesi più ricchi, contributori della
maggioranza delle quote e detentori, quindi, di più voti, possono influenzare la
maggioranza nel momento delle decisioni; inoltre, esso interviene nei paesi più poveri
attraverso “piani di aggiustamento strutturale”, i quali provvedono ad un cambio drastico
del sistema economico del paese interessato, operando pesanti tagli ai settori sociali
(sanità ed istruzione), con ripercussioni sulla parte più debole della popolazione - i paesi
non hanno più la possibilità di pagare né i debiti né gli interessi sui debiti.
2. La Banca Mondiale fu creata nel dicembre del 1945 (come il FMI) con il nome di Banca
Mondiale per la ricostruzione e lo sviluppo, il cui obiettivo era quello di aiutare la
ricostruzione delle economie dei Paesi coinvolti nel conflitto mondiale. A partire dagli
anni Sessanta, quando le varie nazioni si sono riprese, decise di rivolgere l’attenzione ai
paesi più poveri, attraverso il finanziamento di infrastrutture (inizialmente quelle più
grandi) e progetti. I vantaggi erano quelli di poter usufruire di finanziamenti con tassi di
interesse inferiori a quelli privati e con la possibilità di dilazionare i prestiti per periodi di
tempo anche piuttosto lunghi; inoltre essa sembra un’istituzione più democratica del FMI
poiché una quota dei voti è distribuita equamente tra i paesi, ma un’altra va in base al
contributo versato all’organizzazione. Tuttavia, all’istituzione sono state rivolte critiche
simili a quelle rivolte al FMI (per via delle politiche di aggiustamento dell’economia) e
per i danni ambientali che sono stati causati dai finanziamenti alle grandi infrastrutture
(per esempio, le dighe in India e Pakistan). Attualmente, la BM si sta concentrando sulla
crescita economica dei paesi e su progetti che vengono finanziati per ridurre la povertà
mantenendo, però, uno sviluppo sostenibile e garantendo istruzione, alfabetizzazione
ed sostegno per le piccole imprese.
3. La World Trade Organization (WTO) era inizialmente chiamata International Trade
Organization, della quale fu creato lo statuto ma che, in realtà, non divenne mai operativo.
Al contrario, divenne operativo un accordo: il GATT (General Agreement on Tariffs and
Trade), stabilito nel 1947 ma divenuto effettivo dal 1948. Una prima fase della
liberalizzazione vide il progressivo abbattimento delle barriere tariffarie (i dazi doganali),
mentre una seconda fase fu testimone della riduzione delle barriere non tariffarie. Inoltre,
tra il 1948 e il 1995, anno di creazione della WTO, vi furono 8 cicli di negoziati (i rounds) in
cui i paesi si incontrarono periodicamente per stipulare accordi sull’abbattimento delle
barriere. Il più importante di questi 8 cicli fu l’Uruguay round del 1986, poiché, alla sua
conclusione, nasce la WTO. Dopo la nascita della WTO, si apre una nuova fase dei
negoziati: il Doha round (2001) fu un momento particolarmente importante e difficile,
poiché i vari paesi non riuscivano a mettersi d’accordo. Il negoziato si concluse nel 2013,
al momento della conferenza di Bali.

L’accordo GATT e la WTO: un confronto


Il General Agreement on Tariffs and Trade è un effettivo accordo tra due o più contraenti per la
regolazione degli scambi di beni; al contrario, la World Trade Organization, proprio come dice il
nome, è una vera e propria organizzazione internazionale, con una struttura propria, una sede
a Ginevra, un budget di 130 milioni di dollari (dati 2015) e un proprio staff composto da circa 600
50

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

persone; essa non solo regola gli scambi di beni e servizi, ma si occupa anche dei diritti e della
protezione della proprietà intellettuale.
Inoltre, il GATT regolava l’abbattimento delle sole barriere tariffarie, quindi dei soli dazi
doganali; al contrario, la WTO, oltre ad occuparsi di barriere tariffarie e non, si occupa di problemi
ambientali, di appalti pubblici, di trasparenza delle regole, del rispetto delle condizioni di
lavoro dei dipendenti. Essa regola anche i conflitti tra i paesi membri dell’organizzazione,
attraverso l’operato del Dispute Settlement Body, istituito a favore della risoluzione di controversie
internazionali. Infine, il GATT includeva 117 paesi, mentre la WTO possiede un’organizzazione
geografica più estesa, contando di 164 paesi con l’aggiunta di 20 paesi definiti “osservatori”,
ovvero in attesa di entrare nell’organizzazione (entro 5 anni contati dal momento in cui uno Stato
diventa osservatore, devono iniziare le negoziazioni ai fini dell’adesione di tale stato al WTO;
eccezione a tale regola è la Santa Sede).
Per i paesi aderenti alla WTO vedere mappa GC-13: tutto il commercio internazionale avviene
all’interno delle dinamiche e regole della WTO.

L’obiettivo principale della WTO è « la progressiva liberalizzazione del commercio internazionale,


da realizzarsi con lo strumento della negoziazione di accordi commerciali tra i governi dei Paesi
membri ».
Le principali funzioni dell’organizzazione sono:
1. l’istituzione di un forum negoziale per la discussione della normativa del commercio
internazionale, attraverso il metodo del consenso, ovvero il modo in cui vengono prese le
decisioni. Questa modalità è stata criticata dal momento che tutti i Paesi devono essere
d’accordo e ciò può comportare tempi molto lunghi per prendere una decisione. Tuttavia,
se ciò non avviene, si utilizza il voto pro-capite, ovvero ogni Paese dispone di un voto.
2. la stesura di un sistema di regole condivise che disciplinano il commercio internazionale
al fine di liberalizzare gli scambi in ambito globale, sistema di regole che i Paesi membri
devono impegnarsi a rispettare;
3. l’essere organismo per la risoluzione delle dispute internazionali sul commercio: non
ha potere diretto di infliggere sanzioni, ma, tramite il Dispute Settlement Body, può
autorizzare il paese ricorrente (danneggiato) ad imporre sanzioni al paese danneggiante.
I principi fondamentali alla base della WTO sono due: il primo è il principio di « non
discriminazione » per il quale i paesi non possono discriminare tra i loro partner commerciali.
Contenuto in questo principio, ritroviamo anche la clausola della nazione più favorita52 (a questa
sono esclusi gli accordi regionali) e il trattamento nazionale53 . Il secondo principio è quello della
« liberalizzazione » del commercio, la quale deve avvenire in modo graduale ed attraverso
negoziati multilaterali, finalizzati a incoraggiare gli scambi e ridurre gli ostacoli al commercio
internazionale.
Altri principi alla base del funzionamento della WTO sono: la « stabilità del commercio », per la
quale i Paesi aderenti si impegnano a creare un ambiente favorevole per lo sviluppo del
commercio, che sia stabile e non volatile, a favore di imprese, investitori e Paesi stessi, affinché vi
sia la certezza che le regole non cambino; la « promozione di una leale competizione »,
cercando di eliminare sussidi, che distorcano il meccanismo del commercio internazionale, ed
operando politiche anti-dumping54 . Infine, l’Organizzazione si impegna a « favorire lo sviluppo e
le riforme economiche nei Paesi membri »: punto piuttosto discusso dal momento che non è
facile dimostrare che la liberalizzazione favorisce lo sviluppo di tutti i Paesi, come affermano

52Clausola della nazione più favorita: ciascun paese ha l’obbligo di estendere a tutti gli altri membri della WTO le migliori
condizioni che concede a uno di essi.

53 Trattamento nazionale: non devono esistere politiche diverse tra prodotti nazionali ed extra-nazionali, ovvero deve svilupparsi una
libera circolazione di beni e servizi.

Il dumping: la vendita di un prodotto su mercato estero ad un prezzo che è inferiore rispetto al prezzo di origine del prodotto sul
54

mercato di origine.
51

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

invece le teorie economiche; alcuni economisti, ma soprattutto i rappresentanti dei PVS, obiettano
poiché questo principio non sempre funziona, se non nel caso dei paesi avanzati.

La base del sistema WTO: gli accordi generali ratificati alla conclusione dell’Uruguay round
(1986-1994)
Tre sono gli accordi che vennero ratificati, modificati, aggiornati ed introdotti alla conclusione
dell’Uruguay round nel 1994, il quale vide anche la nascita della stessa WTO, operativa dal 1995:
− il General Agreement on Trade and Tariffs (1994) rappresenta la versione aggiornata
dell’accordo GATT del 1947, in materia di impegni industriali e, all’interno del quale, si
erano svolte tutte le trattative sul commercio internazionale. Esso disciplina le regole del
commercio per quanto riguarda i beni;
− il General Agreement on Trade in Services (GATS) il quale disciplina le regole del
commercio internazionale in materia di servizi, che stanno diventando sempre più
importanti nell’ambito dello stesso. Difatti, il commercio dei beni differisce da quello dei
servizi, i quali vengono commerciati in maniera differente e, per questo motivo,
necessitano di normative;
− il Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights (TRIPS) il quale disciplina i diritti
legati alla proprietà intellettuale, poiché le idee e la conoscenza sono parte del
commercio stesso (beni il cui valore è costituito dai idee, innovazioni, design e
conoscenza). I Paesi che hanno sottoscritto l’accordo si impegnano al rispetto di uno
standard minimo di riconoscimento dei diritti legali della proprietà intellettuale nei
confronti degli altri Paesi membri. Vi sono differenti sistemi di protezione della proprietà
intellettuale, come: i copyright, trademark, i brevetti e le indicazioni geografiche (relative a
prodotti agroalimentari, i quali sono espressione di un dato territorio e vanno, quindi,
protetti ciascuno con regole speciali conformi alla propria natura).
Alla base della WTO ritroviamo anche accordi definiti aggiuntivi, o annessi, poiché riferiti a
specifici settori o tematiche:
− agricoltura, tema piuttosto controverso per il quale si dibattono paesi avanzati tra loro,
ma anche PVS. I Paesi comunitari (UE) pongoNO dei sussidi oppure introducono
politiche a sostegno della stessa che possono distorcere il commercio internazionale;
− gli standard igienico-sanitari dei prodotti, a tutela, sia della salute del consumatore, che
dell’ambiente che la WTO dichiara di difendere, includendoli nei propri obiettivi, quindi
barriere non tariffarie giustificate (tuttavia, l’organizzazione non sempre è attiva in tale
scopo);
− le misure anti-dumping, l’abbattimento dei sussidi e la tutela delle indicazioni
geografiche;
− gli standard tecnici dei prodotti, i servizi finanziari, delle telecomunicazioni e del
trasporto aereo.
Inoltre, rientrano nei documenti della WTO anche gli elenchi degli impegni assunti dai singoli
Paesi, i quali fissano dei paletti (cit.) precisi una volta presi in carico gli impegni ed il rispetto degli
stessi (si impegnano a mantenere le proprie politiche all’interno di tali paletti); le procedure per
comporre le dispute, che riguardano l’interpretazione di accordi e regole; infine, il monitoraggio
periodico delle politiche commerciali dei Paesi membri, funzione prettamente di controllo.

I vantaggi della WTO (a favore)


Compresi nei documenti della WTO, ritroviamo quelli che sono considerati i vantaggi e le
argomentazioni a favore della stessa:
• comprendendo anche il GATT, l’organizzazione ha contribuito all’abbassamento delle
barriere al commercio internazionale: guardando la tariffa media per i beni industriali,
dagli anni ’50 al 2000 è passata dal 25% al 3% ma, tra paesi sviluppati e quelli in via di
sviluppo, le tariffe scendono più velocemente in quelli avanzati;
• agganciandosi di nuovo alla teoria economica, si ha un aumento dell’occupazione e
della crescita economica globale. Questi vengono ritenuti risultati controversi poiché non
si può affermare con certezza che la liberalizzazione commerciale ed il multilateralismo
52

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

abbiano effettivamente comportato l’aumento dei posti di lavoro, in quanto ci sono talmente
tanti fattori a concorrere all’aumento occupazionale che non si è dunque certi che questo
abbia influito efficacemente (teoricamente la risposta è positiva, poiché al commercio
internazionale sono legati molti posti di lavoro, comprendenti anche il commercio al
dettaglio ed i servizi all’impresa);
• ha portato vari vantaggi per i consumatori in termini di abbassamento dei prezzi, ma
anche di standard di vita, ovvero la possibilità di avere a disposizione più prodotti. In linea
generale, possiamo affermare che ciò sia vero, in quanto se sono diminuiti i costi della
materie prime, questo ha avuto effetti sui costi di produzione e di commercio dei beni;
• ha favorito la distensione politica internazionale, operando come deterrente contro le
guerre e le tensioni internazionali. Difatti, grazie alla presenza di economie interagenti ed
integrate, i Paesi rivali godono di una stabilità politica altrimenti inesistente (es: le tensioni
che intercorrono tra Cina e Taiwan non conducono ad una guerra dal momento che i due
Paesi intrattengono relazioni commerciali interne molto forti per quanto riguarda la
produzione di prodotti elettronici).

Le critiche mosse contro la WTO


A sfavore dell’organizzazione internazionale si sono posti vari movimenti no-global e
l’economista statunitense, nonché premio Nobel, Joseph Stiglitz. Questi contestano
all’istituzione vari elementi:
• in primis, il suo assetto a struttura istituzionale ed il processo decisionale che comprende
il « meccanismo del consenso ». Esso dovrebbe essere, in via teorica, un processo
decisionale democratico, ma vi sono forti meccanismi di pressione per cui le decisioni
sono prese anticipatamente dai Paesi più forti (UE e USA) all’interno dei cosiddetti « salotti
verdi ». In seguito, quando i Paesi si riuniscono, quelli più forti ed economicamente
avanzati “spingono” per far approvare le decisioni prese tra loro in precedenza;
• in secundis, la poca trasparenza dei documenti e delle informazioni che, a detta di
coloro che muovono le critiche, è voluta;
• i mancati rapporti con la società civile, poiché i cittadini hanno poca o nulla capacità di
intervento nelle decisioni prese all’interno della WTO (le decisioni, come avviene molto
spesso, “passano sopra la testa dei cittadini”);
• lo scarso peso dei Paesi in via di sviluppo nel processo decisionale dell’organizzazione.
Tuttavia, nei rounds più recenti, le decisioni sono state bloccate poiché questi Paesi,
economicamente meno avanzati, si sono riuniti (costituendo delle coalizioni) ed hanno fatto
opposizione, prendendosi la facoltà di bloccare le decisioni;
• l’organizzazione vuole imporre degli standard comuni per la tutela dell’ambiente, della
salute e del diritto dei lavoratori, al di là di quelle che sono le sue dichiarazioni in merito.

La liberalizzazione del commercio internazionale: gli accordi regionali

Il fenomeno del regionalismo nasce a partire dal secondo dopoguerra ed esso si pone come una
delle due modalità di liberalizzazione del commercio internazionale. Esso consiste nella
stipulazione di uno o più accordi tra due o più Paesi, i quali cercano di abbattere, o almeno
ridurre, le barriere al commercio presenti tra loro; da questi accordi sono esclusi i Paesi che non
vi hanno preso parte.
Nel Dicembre 2015, sono stati notificati alla WTO ben 266 accordi regionali e ciò significa che
tutti i Paesi facenti parte dell’organizzazione hanno stipulato al meno un accordo, fino ad un
massimo di 30 accordi (ne è esclusa la Mongolia, la quale sta però trattando per stipularne uno). Il
regionalismo è un fenomeno in contrasto con i principi dell’istituzione, in particolare con quello di
non discriminazione e con la clausola della Nazione più favorita; nonostante ciò, essi sono
ammessi come eccezione dall’articolo 24 dello Statuto, presente sia nel GATT che nella WTO
stessa.
La domanda che ci si pone è perché gli accordi regionali siano ancora vigenti: la risposta sta nel
fatto che, nel 1995 (anno dell’inizio dell’operatività della WTO), gli accordi regionali erano già molti,
53

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

quindi un’abolizione era considerata sia improponibile che improbabile; si è optato piuttosto per
un inserimento dell’accordo nello statuto. Inoltre, il fenomeno viene ritenuto complementare al
multilateralismo, ovvero si presenta come una tappa intermedia che vede l’abbattimento delle
barriere commerciali tra pochi Paesi: abbattimento che viene poi esteso all’esterno. Ancora, il
regionalismo è dettato da motivazioni politiche più forti di quelle che legano il multilateralismo,
dal momento che si tratta di un aggregato (o territorio) più limitato. Un esempio, è l’UE, la cui
antenata è la Comunità Economica Europea (o CEE), nata per diffondere benessere, pace ed
armonia tra i vari Paesi dopo al fine della II GM e per creare un’unione economica abbastanza
forte da contrastare l’URSS e l’avanzamento del comunismo. Infine, gli accordi regionali possono
essere una risposta efficace ai lunghi e complessi negoziati che caratterizzano il processo
decisionale della WTO: essendo i Paesi coinvolti in numero inferiore, una soluzione viene
raggiunta più in fretta.

Tipologie di accordi regionali in vigore


In base al grado di integrazione economica di un paese, vengono individuate quattro diverse
tipologie di accordi regionali (più l’economia è forte, più l’accordo risulterà complesso):
1. la prima tipologia, definibile come la più semplice, è quella che comprende le aree di
libero scambio, attraverso le quali i paesi abbattono barriere commerciali tra di loro,
ma non hanno politica commerciale comune verso l’esterno, né tariffa comune verso i
paesi esterni. Il rischio è che si possono verificare forme di elusione dei dazi, perché un
paese esterno all’accordo, che vuole entrare nell’area di libero scambio, sfrutta i dazi più
bassi per risparmiare: il NAFTA, North America Free Trade Agreement, sfruttato per
produrre in Messico (zona considerata duty free per materie prime, componenti, prodotti
finiti, esportazioni; passaggio attraverso le maquiladoras messicane per entrare negli
USA) ed AFTA, Asian Free Trade Area, tra quasi tutti i paesi del sudest asiatico;
2. la seconda tipologia, ovvero le unioni doganali, oltre all’abbattimento delle barriere agli
scambi, sono caratterizzate da una politica commerciale comune nei confronti dei Paesi
esteri (con un’unica tariffa doganale comune). I problemi che si possono riscontrare
riguardano i proventi del dazio, che, in un’area con tariffe comuni, non vanno a nessuno
degli stati coinvolti in particolare, ma pesano su di un bilancio comune a favore di tutti gli
stati partecipanti: un esempio è la tariffa unica europea, calcolata, all’epoca della CEE,
con media delle varie tariffe dei singoli paesi. Esempi di unioni doganali sono il Patto
andino e la CEE, a suo tempo (inizialmente era considerata solamente come un’unione
economica);
3. al terzo livello ritroviamo i mercati comuni, i quali, oltre ad avere le caratteristiche delle
aree di libero scambio e delle unioni doganali, consentono la libera circolazione dei
fattori produttivi. Un esempio, è l’accordo MERCOSUR, che unisce Uruguay, Paraguay,
Argentina, Brasile a cui si è aggiunto il Venezuela, che però sembra che non stia
rispettando gli accordi presi e potrebbe essere estromesso; le normative e tematiche in
continua evoluzione, in quanto lo scenario cambia continuamente (come, per esempio,
l’istituzione di una nuova presidenza);
4. l’ultimo livello, il più complesso, riunisce, alle caratteristiche dei tre accordi precedenti,
anche l’armonizzazione delle politiche economiche, ma di più ampio respiro delle
precedenti: si tratta delle unioni economiche, il cui esempio più lampante è l’Unione
Europea. Essa interviene in vari aspetti delle politiche economiche dei vari paesi, come
nell’agricoltura (attraverso la PAC, Politica Agricola Comune) che copre il 40% del bilancio
europeo), nel settore dei trasporti (soprattutto nelle grandi direttrici, effetto della politica
comune dei trasporti a cui i vari paesi si adeguano), nell’industria, nella politica monetaria
(euro come moneta comune) e nel controllo del deficit dei Paesi membri. Interviene in
molti aspetti, eccezion fatta per la politica economica comune, la quale non è comune
poiché l’Unione non è uno stato federale (come USA).

Gli accordi regionali: evoluzioni e cambiamenti



Gli accordi regionali hanno subito variazioni, evoluzioni e modifiche nel corso di due distinte fasi:
54

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

• la prima fase, che va dagli anni sessanta agli anni settanta, in cui gli accordi erano
definiti di prima generazione. Questo periodo è caratterizzato da un regionalismo
orizzontale con accordi tra paesi con livello di sviluppo simile (accordi Nord-Nord,
che accorparono paesi del nord del mondo, come la CEE, oppure Sud-Sud, che
legarono paesi del sud del mondo, o paesi in via di sviluppo, come quelli dell’America
latina o dell’Africa, con un distinzione netta fatta per diverse ragioni). Le motivazioni degli
accordi Nord-Nord era quella di creare un ampio mercato, ma alla base si ritrovano
anche motivazioni politiche (un esempio è sempre la CEE). Al contrario, gli accordi
Sud-Sud furono istituiti tra paesi che volevano portare avanti una strategia di
sostituzione delle importazioni: all’epoca si riteneva che, abbattendo le barriere
commerciali tra di loro e innalzandole all’esterno, si sarebbe riusciti ad attivare uno
sviluppo dell’economia all’interno e una crescita che avrebbe portato alla riduzione della
dipendenza dai paesi industrializzati, facilitando un circuito commerciale interno, per
acquistare maggiore forza e potere contrattuale sul panorama economico mondiale.
Le ragioni erano di ordine nazionalista o di tipo anti colonialista. L’abbattimento delle
barriere tariffarie ha avuto risultati positivi per quanto riguarda gli accordi Nord-Nord
(creazione della futura UE), ma negativi nell’ambito Sud-Sud, in quanto questi paesi in
via di sviluppo non erano complementari riguardo le specializzazione, e commerciavano
gli stessi prodotti;
• la seconda fase inizia negli anni novanta e continua fino ai giorni nostri. Essa è
caratterizzata sempre da un regionalismo orizzontale, ma subentra anche
regionalismo verticale, che unisce paesi del Nord del mondo con paesi del Sul globale:
è il caso emblematico dell’accordo NAFTA.
Ultimamente, si riscontrano nuovi accordi, nati dopo gli anni 2000, ancora in essere:
sono prevalentemente bilaterali chiamati hub and spokes (che richiama la struttura
degli aeroporti), per i quali un grande paese o gruppo di paesi, che già fanno parte di un
accordo regionale, stipulano una serie di accordi bilaterali con altri paesi esterni non tra
di loro collegati; un esempio è il Partenariato Euro-mediterraneo, stipulato tra l’UE nel
suo insieme ed i singoli paesi del Nord Africa, con patti bilaterali per abbattere le barriere
commerciali e collaborare in materia di investimenti; negli anni successivi, l ’UE inizia a
stipularli anche con paesi africani, caraibici, asiatici. Essa ne ha stipulato uno anche con
grandi blocchi economici, in questo caso gli USA, il quale però resta ancora in fase di
stallo: è il caso del Transatlantic Trade and Investment Partenership (TTIP).

Il Transatlantic Trade and Investment Partenership (TTIP)


Esso è un trattato di liberalizzazione commerciale per abbattere le barriere al commercio tra
UE e USA; la posta in gioco è molto importante, poiché riguarda un territorio abitato da 820 milioni
di cittadini complessivamente, ossia tutti potenziali clienti e un PIL complessivo che rappresenta il
45% del PIL mondiale.
L’accordo è partito ufficialmente nel 2013, ma i contatti che hanno portato all’apertura dei
negoziati sono partiti all’inizio degli anni 2000. I negoziati sono ancora in corso e hanno visto molte
situazioni di stallo:
• nel 2015 è stata approvata la risoluzione sul trattato: UE ha dichiarato le sue richieste
per la ratifica del trattato, in quanto non è disposta ad abbassare le barriere non tariffarie
a tutela di salute e benessere dei consumatori a tal punto da compromettere gli standard di
qualità dei propri prodotti;
• entro il 2016 si prevedeva la conclusione dei trattati, ma non è stato ancora sottoscritto; la
nuova presidenza americana Trump ha dichiarato di non voler sottoscrivere il trattato a
meno che l’Europa non elimini le barriere tariffarie, quindi, per ora, tutto è compromesso.
È un trattato piuttosto controverso e in continuo stallo; sono nate diverse proteste cittadine e di
istituzioni, ma anche di tanti governi europei, i quali non si dicono convinti (uno dei più restii è il
governo tedesco).
Gli obiettivi del TTIP riguardano l’apertura di un’area di libero scambio tra Europa e USA, che
riguarda merci, servizi, investimenti e appalti pubblici (se il trattato venisse firmato, le imprese
americane potrebbero partecipare a gare d’appalto in Europa e viceversa); l’uniformazione e la
55

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

semplificazione delle normative tra le due aree, soprattutto riguardo alle barriere non tariffarie,
punto più contestato, in quanto ci sono normative molto diverse, specialmente riguardo agli
standard di qualità dei prodotti, del lavoro, dell’uso di pesticidi (i cui residui rimangono nei prodotti
agricoli) e sul consumo di OGM; l’Europa si affida al principio di precauzione (nel dubbio, non si
ammettono questi prodotti, mentre negli USA si ammettono, e se fanno danni si aprono cause
contro le multinazionali); infine, il miglioramento delle normative sui rapporti commerciali.
UE sostiene il trattato per la possibilità di una crescita economica ed un aumento dei posti di
lavoro; chi si oppone sostiene, invece, che ciò non è dimostrato e che non si deve essere disposti
a rinunciare alla qualità che garantisce i prodotti Europei.

L’Unione Europea ha stipulato altri accordi con altre aree del pianeta. Un esempio è il grande
trattato con il Canada (CETA - Comprehensive Economic and Trade Agreement), con più o meno
gli stessi contenuti del TTIP, senza ricevere però grandi attenzioni o scontri.
Gli USA sono impegnati con un altro accordo (TPP - TransPacific Partnership), tra i paesi facenti
parte del NAFTA e altri paesi del Sud America, Sud-Est asiatico e Australi: è già stato firmato a
febbraio 2016, ma non ancora ratificato dai vari governi (sotto osservazione).
In Africa (di cui si parla molto poco), ci sono dei grandi accordi regionali, in cui si negozia un
nuovo accordo tra tre blocchi (vedi mappa), per creare una tripartizione di area commerciale
liberalizzata.
Ancora in corso di negoziazione è l’accordo tra due paesi ormai emersi, Cina e India, che
legherebbe queste potenze con tutti i grandi paesi del Sud-Est asiatico (tranne Corea del Nord) e
con Australia e Nuova Zelanda.

Lectio Magistralis del Prof. Franco Farinelli: “La mappa, la sfera, la terra: natura della
globalizzazione”

La geografia viene definita come la scienza che fornisce i modelli per tentare di capire come
funziona il mondo.
Strabone, geografo e storico greco antico, definisce i filosofi presocratici (ovvero quei pensatori
presenti prima della nascita della filosofia) come i primi geografi: Anassimandro fu il primo a
pensare un modello geografico del mondo e a pretendere che quello fosse il mondo. Con l’avvento
dello stato moderno centralizzato vi è un’inversione dei termini: la mappa non è più la copia del
territorio, ma è il territorio ad essere la copia della mappa. La struttura dello stato moderno difatti è
geometrica ed il territorio deve avere tre proprietà:
1. esso deve essere continuo, ovvero non può essere composto di frammenti sparsi;
2. deve essere omogeneo — l’omogeneità si riferisce alla nazione si fonda sul presupposto
per il quale i suoi abitanti condividono tutti lo stesso linguaggio, la stessa religione, la
stessa cultura (natura). In realtà, mai è così;
3. l’ultima caratteristica è l’isotopia, ovvero tutte le parti di cui il territorio si compone devono
essere voltate alla stessa direzione (a ciò serve la capitale, difatti essa si trova
tendenzialmente al centro per segnare il punto verso il quale tutte le parti dello stato
devono essere orientate).
Questo modello di stato moderno definisce una costruzione geometrica poiché queste tre proprietà
(continuità, omogeneità e isotopia) nella geometria classica euclidea specificano la natura
geometrica di un’estensione.
• Nell’estate del 1969 avveniva lo sbarco sulla luna, ed in quegli stessi giorni nasceva la
rete, cioè il funzionamento del mondo iniziava a mutare natura dal momento che la
distanza fisica comincia a non contare più come prima per il funzionamento della terra. Con
la rete nasceva la globalizzazione: lo spazio si ritira, ovvero non gestisce più il
funzionamento del mondo.
• La modernità e il funzionamento del mondo che siamo in grado di comprendere e, in
qualche modo, controllare si basano sulla riduzione della terra ad una mappa, ad una
tavola bidimensionale al cui interno, la relazione decisiva per il funzionamento del mondo,
è la distanza lineare tra due punti. Il primo ad aver dato inizio a quest’operazione fu
Tolomeo (Alessandria, 200 d.C) , il quale scrisse un manuale per progettare le mappe.
56

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

Nacque, quindi, la prospettiva moderna o lineare, che si basa sulla distanza lineare e lo
spazio diventa il codice con il quale organizzare il mondo moderno (Cristoforo Colombo è il
primo viaggiatore moderno: a lui, a differenza di Marco Polo, non importa di conoscere ciò
che ha di fronte perché ha con sé le mappe, sa già cosa troverà e la realtà per Colombo o
si adegua al modello o non esiste). Organizzazione territoriale moderna: fino alle fine del
1600, le strade non erano dritte, bensì curve e non erano disegnate sulle mappe, ma
sulle carte antiche; nel 1800 vengono introdotte le prime ferrovie, con lo spianamento di
terre per il posizionamento dei binari; la prima metà del 1900 è conosciuta come l’epoca
delle prime autostrade (autobahnen → “ferrovie per le macchine”). Differentemente
dall’epoca moderna, al tempo dell’antica Roma, lo spazio era importante solo ai fini della
guerra e della gestione dell’Impero.
• Nell’anno 1969, Nixon si vede costretto ad abolire la convertibilità del dollaro con l’oro,
abolendo così l’ideologia della stabilità monetaria, segno che il nuovo funzionamento del
mondo, a qualche mese, di distanza aveva già provocato delle conseguenze proprio in
funzione del cambiamento di regime del funzionamento del mondo. Differenza tra luogo e
spazio: lo spazio è qualcosa di tecnicamente molto preciso, dal greco στάδιον cioè lo
stadio, la misura metrica lineare standard che presuppone che ci sia una superficie, che
questa superficie sia ridotta ad un insieme di punti geometrici e che la relazione
fondamentale sia quella della distanza fra i punti stessi. Le parti di cui lo spazio si
compone sono perfettamente equivalenti. Il luogo invece (Aristotele) è esattamente il
contrario, è quella parte della superficie terrestre che si assume dotata di qualità
irriducibili a quelle di qualsiasi altro, dunque che non si possono scambiare. In questo
senso, la globalizzazione altro non fa che tornare a far rivivere, in qualche maniera,
esattamente la diversità dei luoghi che sono sopravvissuti al modo con cui la modernità ha
organizzato il proprio funzionamento (riducendo lo spazio a mappa, quindi a punti
indistinti).
• Al giorno d’oggi la merce più importante che si possa vendere sul mercato è la cultura
(che il professore definisce come « capacità di manipolazione simbolica »), che ha un
nesso imprescindibile con i luoghi. Da Tolomeo in poi sappiamo che il globo, la sfera
terreste e il modello della mappa sono l’un l’altra irriducibili, non è possibile trasformare
completamente una sfera in una tavola. La sfera è una struttura chiusa e allo stesso
tempo illimitata, non se ne possono delimitare i confini. La tavola invece si compone di
linee limitate e aperte. Perché allora siamo costretti a pensare in termini di sfera? Perché
per la prima volta, e in questo consiste la globalizzazione, l’economia mondiale funziona
all’unisono come un tutt’uno. Oggi i flussi finanziari non hanno bisogno né di tempo ne
di spazio come venivano intesi prima, e questo accade proprio perché, per la prima volta,
il funzionamento stesso del mondo ci costringe a pensarlo come una sfera.

La globalizzazione ambientale: problemi ed azioni

Il problema ambientale riguarda principalmente il cambiamento climatico, il quale contiene al suo


interno il problema del surriscaldamento globale, anche conosciuto come global warming.
Una prima ed iniziale presa di coscienza riguardo il problema dell’impatto dell’attività dell’uomo
sull’ambiente deriva dall’economista statunitense Boulding, il quale, nel 1966, elabora la metafora
dell’ « economia del cowboy e della navicella spaziale », mettendo in evidenza due importanti
termini del problema ambientale: il limite delle risorse disponibili e la forte pressione a cui è
sottoposto l’ambiente a causa dell’attività dell’uomo.
− La figura del cowboy lo vede aggirarsi nelle praterie sterminate con il suo cavallo; egli
pensa di avere a disposizione una quantità infinita di risorse disponibili e di poter
abbandonare i rifiuti da lui prodotti nell’ambiente, senza porsi problemi riguardo le
possibili ripercussioni (il sistema-terra riesce a riequilibrare le sue naturali funzioni e
riciclare i materiali di scarto). Questa concezione lineare del sistema economico vede
quindi un’illimitata disponibilità di risorse legata ad un abbandono continuo, ed anch’esso
illimitato, di rifiuti, essendo la terra in grado di “sistemare” l’inquinamento attraverso i
57

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

propri processi. Questo è anche il modello economico e di sviluppo dominante, che si


protende dall’inizio della Rivoluzione Industriale fino al raggiungimento del culmine
nel modello di produzione fordista: cambia il modo, dell’uomo, di trasformare le
risorse ambientali per via del progressivo aumento dell’urbanizzazione (agglomerati
urbani che sorgono per via delle migrazioni da aree rurali ad urbane),
dell’industrializzazione, dello sviluppo di infrastrutture e dell’esportazioni (in riferimento a
Paesi che disponevano di colonie). Tuttavia, allo sfruttamento delle risorse va
aggiungendosi anche una presa di coscienza del problema ambientale che inizia a
svilupparsi. Esso è dovuto ad uno sfasamento tra il sistema-terra e la società umana: i
tempi dell’uomo sono molto rapidi, mentre la Terra ha un tempo di rigenerazione piuttosto
lungo. Un esempio sono gli effetti dell’inquinamento, che si riversano inizialmente a livello
locale, ma si distribuiscono a livello globale per via di una discontinuità spaziale e
temporale. In seguito all’incidente nucleare di Chernobyl, per il funzionamento
dell’atmosfera, le particelle atomiche inquinanti sono state trasportate a chilometri di
distanza, con effetti che sono stati registrati a distanza di decenni (come le mutazioni
genetiche che hanno afflitto gli esseri viventi).
− L’immagine della navicella spaziale riflette una concezione più realistica di pensare il
sistema-terra e l’economia: i passeggeri di una navicella spaziale dispongono di una
quantità finita di risorse e possono trasportare una quantità limitata di rifiuti. Secondo
Boulding, il sistema economico dovrebbe funzionare esattamente come il sistema-terra,
nel quale nulla si crea né si distrugge, ma tutto si trasforma. Ecco allora che l’output
del processo produttivo può essere trasformato in input per un altro tipo di processo,
anche differente. Può essere considerato un modello di sviluppo sostenibile che può, e
deve, sostituirsi al modello di concezione economica del cowboy: utilizzo di un numero
inferiore di risorse, principalmente rinnovabili con riciclaggio e riutilizzo delle stesse.

Principali emergenze ambientali a scala globale


Tra le principali emergenze a scala che riguardano l’ambiente, bisogna ricordare:
• il global warming, ovvero il surriscaldamento globale, legato all’effetto serra, il quale è un
fenomeno naturale per il quale i raggi del sole, che arrivano sulla Terra sotto forma di UV,
a contatto con la superficie terrestre generano calore, trasformandosi in infrarossi: di
questi, alcuni fuoriescono dall’atmosfera, altri invece vengono trattenuti dai gas serra, al
fine di mantenere costante la temperatura terrestre. Tuttavia, partendo dalla
Rivoluzione Industriale e dagli anni Sessanta in avanti, è stata registrata una
concentrazione anomala di gas nell’atmosfera; difatti, il fenomeno del contenimento del
calore ha subito un aumento, causando un innalzamento della temperatura e di qui il
problema del surriscaldamento globale. I principali gas che causano l’innalzamento della
temperatura sono: l’anidride carbonica (CO₂) derivante da processi industriali, trasporti,
produzione di energia elettrica e riscaldamento domestico; il metano, dovuto a perdite nel
trasporto ma anche ad agricoltura (le risaie) ed allevamento di bovini ed ovini (dai loro
processi digestivi); infine, i CFC, ovvero i clorofluorocarburi. Gli effetti del surriscaldamento
globale sono visibili nei grandi ghiacciai che si ritirano, causando un innalzamento
delle acque, che potrebbe portare alla scomparsa di interi Paesi, nei fenomeni estremi,
come le alluvioni e nelle migrazioni ambientali, ovvero popolazioni che lasciano le loro
terre per via di un’incompatibilità con la vita e le attività economiche.

58

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

55 56

• la deforestazione, ovvero la perdita del grande patrimonio forestale globale, che affligge
soprattutto la Foresta Amazzonica e le foreste dell’Asia. Questo fenomeno deriva dal
cambiamento del ritmo nelle trasformazioni dell’ambiente naturale da parte dell’uomo; ne
sono causa svariate attività, come l’allevamento del bestiame, in particolare di bovini,
oppure le coltivazioni, di mais o olio di palma (poi utilizzati dalle grandi imprese
multinazionali), la crescita della popolazione e la costruzione delle infrastrutture. Gli
effetti della deforestazione si riscontrano: nell’avanzamento del surriscaldamento
globale, dal momento che le foreste hanno effetto contenitivo per quanto riguarda l’effetto
serra — sono i grandi polmoni del pianeta, trattengono CO₂ e rilasciano ossigeno; nella
cessazione del processo di mitigazione delle piogge (le alte fronde trattengono la
pioggia ed evitano il dilavamento della superficie terrestre); nella scomparsa della
biodiversità, dalla quale l’industria farmaceutica è in buona parte composta, (i farmaci
sono composti prevalentemente da prodotti naturali) causata dall’avanzamento della
desertificazione. Alcuni scienziati stimano che, negli ultimi 25 anni, sia stato perso circa il
10% del patrimonio forestale globale, del quale buona parte riguarda la foresta
Amazzonica, la più colpita;
• recentemente, si sta assistendo al fenomeno della spazzatura elettronica, generata dalle
nuove tecnologie e industrie, che, per produrre beni, necessitano di grandi quantitativi di
acqua e rocce, le cui cave non vengono mai ripristinate, ed energie: i prodotti vengono
scartati nel giro di pochissimi anni e quindi questi materiali vengono rilasciati ed
abbandonati nell’ambiente.

Il percorso dello sviluppo sostenibile


Come detto in precedenza, una prima percezione e presa di coscienza riguardo il problema
ambientale, avvenne negli anni sessanta: fu elitaria e riguardò alcuni ecologisti ed economisti,
come Boulding, ma anche una biologa, Rachel Carson, che nel 1962 pubblicò il suo libro
Primavera silenziosa. La studiosa fu la prima ad occuparsi degli effetti che il DDT, pesticida
utilizzato negli Stati Uniti, produceva sull’ambiente e sulla vita; si accorse che, dalle primavere
americane, era ormai sparito il canto degli uccelli che lei legò all’uso di questi pesticidi chimici. Nel
giro di una decina di anni, questo composto fu bandito dagli Stati Uniti appena si venne a
conoscenza delle possibili cause dello stesso sulla popolazione.
Un secondo passo in avanti avvenne dieci anni dopo, nel 1972, con la prima vera presa d’atto a
livello globale, con l’idea che il problema vada risolto a livello globale, non di singoli paesi. Si tratta
della 1° Conferenza ONU, tenutasi a Stoccolma, per affrontare il problema ambientale, con

55 Temperature globali e annuali della superficie terrestre (Fonte: Intergovernmental Panel on Climate Change - ICPP): dal 1960
al 2010 si è registrato un aumento della temperatura di circa 1°C (da 13,8 a 14,6°C) e ciò viene ritenuto sufficiente per scatenare i
fenomeni sopra citati. Alcuni scienziati sostengono sia dovuto a fasi naturali della Terra, che ha visto momenti sia di glaciazioni che di
riscaldamento (processo naturale) mentre altri sostengono invece sia un fenomeno patologico, poiché nella fase attuale non si sono mai
registrati cambiamenti così rilevanti in un lasso di tempo così breve.

56Principali 20 paesi per emissioni CO₂ nel 2010: dal 1995 al 2010 vediamo in testa alla classifica Stati Uniti e Cina, i quali sono
responsabili del 40% delle emissioni globali di anidride carbonica, scambiandosi anche di posizione. Vediamo inoltre una diminuzione
delle emissioni nei paesi occidentali, mentre nei PVS aumenta, dovuto al consumo di energia per alimentare i processi di sviluppo in
corso (es: utilizzo e consumo di petrolio):
59

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

l’analisi dell’inquinamento, con i possibili effetti di contenimento del fenomeno. Nonostante ciò,
non viene messo in discussione il modello “cowboy” e vengono presi impegni generici, non
giuridicamente vincolanti. 

Nello stesso anno, sempre 1972, viene pubblicato un libro, intitolato The limits to growth (legato al
limite delle risorse disponibili) dal Club di Roma. Quest’ultimo commissionò al Massachusetts
Institute of Technology (MIT) l’elaborazione di un modello matematico che prevedesse il momento
del collasso, ovvero della fine delle risorse energetiche a disposizione. Come limite, fu calcolato
l’anno 2000, l’avvento del nuovo millennio; i risultati dello studio non ebbero riscontro, ma fu la
prima volta che ci si pose il problema del “quando” in termini matematici.
Qualche anno dopo, nel 1987, sempre in sede di conferenza ONU, venne esposto il rapporto
Bruntland, dal quale emerse il concetto di sviluppo sostenibile, cioè uno sviluppo che « soddisfi i
bisogni del presente senza compromettere le capacità delle generazioni future di poter soddisfare i
propri », cercando quindi di lasciare qualcosa (in termini di ambiente e risorse) a chi verrà; il
problema fu quello di rendere operativo questo concetto di sviluppo sostenibile, modificando il
modello di sviluppo dominante, passando dal modello “cowboy” al modello “navicella spaziale”.
Vent’anni dopo la Conferenza di Stoccolma, nel 1992, le Nazioni Unite si riunirono a Rio, la cui
conferenza venne chiamata Vertice della Terra (l’obiettivo era quella di far uscire, al termine della
conferenza, una sorta di “manuale dello sviluppo sostenibile”) e nella quale venne discusso il
problema del cambiamento climatico con la sottoscrizione di una dichiarazione che non ebbe
vincoli di carattere giuridico. Fu solo un avvicinamento verso la messa in atto dell’applicazione
di norme ben precise, in quanto non si vincolano i paesi giuridicamente con un patto: venne solo
stabilito l’aumento della temperatura senza definire obblighi.

Il primo vero passo verso l’imposizione di vincoli in materia di cambiamento climatico, avvenne nel
1997, con la stesura del Protocollo di Kyoto, un vero e proprio trattato internazionale in materia di
cambiamento climatico, facente parte di una serie di azioni per contrastare il problema ambientale,
in particolare il surriscaldamento globale e l’effetto serra.. Esso entra in vigore solo molto più
tardi, nel 2005, perché una delle clausole del trattato prevedeva che, per diventare effettivamente
operativo, esso fosse ratificato (dai parlamenti dei vari stati membri) da almeno 55 paesi che
l’avevano firmato, e che tali paesi fossero responsabili di almeno il 55% delle emissioni globali
di CO₂. Nel 2004 esso fu ratificato dalla Russia entrando in vigore (gli USA non l’hanno ratificato,
ed era venuta a mancare una grande fetta delle emissioni). Per la prima volta si fissa un obiettivo
vincolante per la riduzione dei gas serra: entro il 2012 si sarebbe dovuta verificare una riduzione
del 5,2% (dato globale), rispetto al valore di riferimento del 1990; ad ogni paese venne poi
assegnata una quota di riduzione in riferimento alle proprie emissioni e possibilità (Italia=6,5%).
I risultati raggiunti dalla maggior parte dei paesi dell’UE sono positivi, ma a livello globale non si
è raggiunto l’obiettivo poiché nel protocollo non sono stati inclusi paesi come la Cina, che si è
sviluppata incredibilmente attraverso l’uso di energie non rinnovabili, contribuendo
all’inquinamento atmosferico.
• Il protocollo prevede tre allegati, uno per i paesi sviluppati (obiettivo 5,2% con quote
individuali); uno per i paesi in transizione, cioè che transitano verso una stabilizzazione
economica (che hanno solo obblighi di stabilizzazione, per non peggiorare la
situazione); infine un terzo elenco di paesi in via di sviluppo senza obblighi di riduzione o
di stabilizzazione (hanno deboli processi di sviluppo): qui vengono incluse potenze come
Cina e India, in quanto si temeva che imporre obblighi di riduzione avrebbe potuto bloccare
i loro processi di sviluppo economico. Per quanto riguarda gli USA, dopo la firma, vennero
inseriti nel primo gruppo, ma si sottrassero poi ai propri impegni non ratificando il
protocollo (sostenendo che avrebbe potuto peggiorare l’economia americana - in realtà a
causa di interessi economici).
• I risultati raggiunti, seppur modesti, hanno segnato l’assegnazione di obblighi precisi in
ambito ambientale, includendo anche altri paesi, per allargare l’area di coinvolgimento. Nel
2012 ci si rese conto che gli obiettivi fissati da Kyoto sono nulla in confronto a ciò che si
deve fare per risolvere il problema del cambiamento climatico (che sarebbe un 40% di
riduzione delle emissioni).
60

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

A seguito del protocollo di Kyoto ci fu un periodo di impasse, senza sapere come andare avanti,
difatti, per qualche anno, si prolungò il protocollo senza prendere decisioni ulteriori.
Il punto di svolta si presentò nel 2016, a novembre, con la ratifica di un nuovo accordo, Accordo
di Parigi (Conferenza di Parigi, fatta nel 2015) con il quale ci si pose ancora il problema del
limite massimo dell’aumento di temperatura per non aggravare la situazione (limite fu ritrovato
in 2°C, con l’imposizione di non far aumentare la temperatura oltre questa soglia entro la fine del
secolo). Già quando si configurò questo accordo, molti scienziati ritenevano che questa soglia non
fosse sufficiente per salvare il pianeta: sì stare entro i due gradi, ma fare in modo di sforzarsi per
non oltrepassare gli 1,5. Un altro ambizioso obiettivo che gli stati si sono posti fu quello di
arrivare a 0 emissioni di CO₂ entro il 2050; la Cina, inoltre, è stato uno dei paesi protagonisti,
insieme agli USA.
Verso la fine del mese di novembre ci fu anche la Conferenza di Marrakech (COP22): fu poco
concludente e si stabilì che in un anno si dovesse mettere a punto un programma operativo, in
vista della conferenza di Aprile 2018 (sfida fortissima, anche perché tra le clausole c’è quella di
dotare i paesi in via di sviluppo, per il 2020, di 100 miliardi di $ all’anno, per farli progredire e non
farli cadere negli stessi errori in cui sono caduti i paesi occidentali: il problema è trovare i fondi).
Nel frattempo, però, è cambiata la presidenza degli USA: l’ex presidente Obama aveva spinto
per l’adesione degli all’accordo di Parigi, mentre ora la presenza di questo stato è messa in
discussione dalle affermazioni di Trump, che considera il surriscaldamento globale una mera
invenzione.

La green economy
L'economia sta però cambiando da sola, introducendo negli ultimi anni il concetto di green
economy, al fine di rendere operativo il modello di sviluppo sostenibile sotto il punto di vista
economico (e non politico), per non compromettere le possibilità di crescita delle generazioni
future.

«Un modello economico finalizzato a migliorare il benessere


umano e l’equità sociale, riducendo allo stesso tempo i rischi
ambientali e la scarsità di risorse»
(United Nations Environment Programme, 2011)
«Una economia che genera crescita, crea lavoro e sradica la
povertà investendo e salvaguardando le risorse del capitale
naturale da cui dipende la sopravvivenza del nostro pianeta»
(Commissione Europea, 2011)

Le due definizioni sono simili, ma la seconda si concentra sul fatto che nella green economy si
legano gli aspetti della salvaguardia ambientale (limite risorse) e il fatto che, riconvertendo le
economie, si creano nuovi posti di lavoro e si può uscire dalla fase di crisi economica in cui
sono precipitati i paesi occidentali.
Tra i pilastri di un’economia sostenibile ritroviamo:
• l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili (solare, geotermica, da biomasse) abbandonando
quelle non rinnovabili, alla base del modello economico lineare (petrolio, carbone), garantendo
sia la salvaguardia del pianeta, che la creazione di posti di lavoro nel settore della sostenibilità
ambientale;
• il risparmio energetico, riducendo la domanda di energia ed ottimizzandola in tutte le
componenti della vita umana (industriale, domestica);
• il riciclaggio, quindi imitare il funzionamento del sistema terra (nulla si crea, nulla si distrugge,
ma tutto si trasforma);

61

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

• la creazione di nuova imprenditorialità, conseguenza dell’utilizzo di queste nuove energie e


filosofie economiche, introducendo nuove materie prime e prodotti eco-sostenibili;
• non solo produzione industriale, ma anche tutte le attività legate alla tutela dei beni
ambientali, culturali, artistici e architettonici del territorio;
• le leve, le quali comprendono le nuove tecnologie usate per produrre con minori consumi, le
misure economiche, ma anche l’educazione ambientale, per modificare i micro-
comportamenti, la cui somma provoca effetti molto grandi (se tutti cambiassero e si
comportassero meglio, si riuscirebbe a risolvere il problema).
Nonostante ciò, si può constatare un uso generalizzato del termine green, in particolare con il
green washing, ossia la pubblicità di comportamenti o prodotti green senza effettivamente
rispettare tali “procedure” (darsi una patina di verde quando invece non c’è nulla a che fare con
esso).
Infine, l’economia green ha anche alcuni effetti collaterali: per esempio, i pannelli solari e
biocarburanti hanno gravi problemi di smaltimento oppure le coltivazioni green tolgono spazio a
quelle destinate alla popolazione.

Riflessioni conclusive

1. Riflettere sul concetto di distanza: ha ancora senso parlare di distanza nell’era della
globalizzazione? Fare riferimento alla Lectio del Professor Farinelli riguardo l’« annullamento57
», o meglio riduzione, di tempo e spazio, con la nascita di una convergenza spazio-temporale (la
nascita della rete internet, il primo uomo sulla Luna). Se guardiamo a fenomeni di carattere
immateriale, lo scambio avviene in tempo reale; tuttavia, gran parte della nostra economia è
formata da scambi materiali, in particolari di merci. Per questi scambi commerciali, si è ridotta la
convergenza spazio-tempo in termini di costo del trasporto e una riduzione della distanza
funzionale. Inoltre, alcuni Paesi sono poco connessi, o quasi nulla, connessi nel contesto della
globalizzazione.

2. Riflettere sulla differenziazione spaziale nell’era della globalizzazione, riferendoci a vari fattori,
per esempio al costo del lavoro, alla qualità dello stesso e al livello di sviluppo. Inoltre, anche la
scelta del territorio in cui produrre, o alla localizzazione di imprese che sopravvivono ancora al
fenomeno globalizzazione (come i distretti industriali ed i cluster industriali): per questi due
fattori non si vede una particolare differenziazione dei luoghi. La diversità delle varie aree
geografiche, dal punto di vista turistico, si vede nella presenza di un patrimonio culturale ed
artistico che differisce in base al Paese in cui ci si trova; al contrario, la grande distribuzione e le
grandi marche risultano standardizzate e non differiscono in base alla zona.

3. Riflettere sulle diverse velocità della globalizzazione, che vede un’accelerazione per quanto
riguarda le mode, i flussi finanziari e gli scambi commerciali. Meno rapida è nei confronti della
diffusione dei diritti umani e dei lavoratori, sulla tutela dell’ambiente: si vedano le difficoltà che la
comunità internazionale incontra nel trovare una soluzione per quanto riguarda il cambiamento
climatico. Inoltre, non è poi così veloce anche per quanto concerne lo sviluppo di alcuni Paesi i
quali rimangono al di fuori di questi vantaggi offerti dalla globalizzazione.

4. La globalizzazione non significa « assenza di regole », difatti il 95% del commercio


internazionale si svolge sotto il controllo della WTO, organizzazione sovranazionale che regola
gli scambi commerciali. Al contrario, gli Stati che una volta avevano un controllo per quanto
riguarda l’economia e la politica stanno perdendo nei confronti di quelle organizzazioni sovra
nazionali.

57Utilizzare il termine annullamento rende in modo troppo forte la diminuzione della distanza funzionale ed, inoltre, esso è legato alle
percezioni di ogni individuo, in base al contesto in cui vive.
62

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

5. Riflettere sul concetto della « cittadinanza e mancanza di controllo sull’operato degli attori
economici »: il singolo individuo che potere ha oggi di contrastare tutte le decisioni che
passano sopra la propria testa e che avvengono a livello di organizzazioni sovranazionali?

«Reindustrializzazione? Rinascita dell’industria? Nuove tendenze in atto nei paesi avanzati»


Sono in atto nuove tendenze, non si parla ancora di re-industrializzazione ma le imprese tornano
ad una sede domestica, ovvero le industrie vengono riportate nel Paese di origine (re-shoring).
Proprio quei Paesi che hanno spinto all’industria, decidono di far tornare in patria le loro imprese
localizzate in paese estero.
Queste nuove tendenze riguardano l’applicazione di internet alla produzione industriale, e non
più solo allo scambio di informazioni e di commercio online: Industria 4.0, il cui prodotto più
evidente è la stampante in 3D che utilizza una tecnica di sovrapposizione di diversi materiali; il
fenomeno del re-shoring ed infine lo sviluppo di sistemi produttivi sostenibili legati alla green
economy.

Il fenomeno del re-shoring/back-shoring per il quale si riportano in sede domestica produzioni


che precedentemente erano state localizzate in Paese straniero. Il Professor Frattocchi la
definisce come « una strategia di impresa deliberata e volontaria, orientata alla rilocalizzazione
domestica (parziale o totale) di attività svolte all’estero, direttamente o presso fornitori (riferimento
alle due modalità di delocalizzazione produttiva: tramite impianto di proprietà dell’impresa o
affidata a fornitori stranieri) ». Si può far rientrare la produzione o internalizzandola o affidando la
stessa a fornitori nazionali; il near-shoring, « ovvero fenomeno con cui si trasferiscono in paesi
vicini produzioni manifatturiere precedentemente delocalizzate in paesi esteri molto lontani Si
considerano sia i casi di produzioni svolte all’interno dell’azienda sia i casi di produzioni
esternalizzate ».
Il primo ad accorgersi del fenomeno è stata la stampa Americana notando che alcune
imprese, come Walmart (decide di fornire i propri negozi da fornitori Americani) Ford, Apple e
General Electric si impegnano a contenere i propri processi produttivi in suolo Americano; altre
aziende, al posto di riportare la propria produzione nel proprio Paese, la rilocalizzazione in un
Paese più vicino e che comunque procura maggiori vantaggi (US - Mex; UE - Est UE o Nord
Africa).
I fattori all’origine del re-shoring:
− la diminuzione del differenziale del costo del lavoro su scala globale (in particolare
Paesi Asiatici e Cina, che erano i Paesi di riferimento per la delocalizzazione da parte di
Europa e Stati Uniti). Dalla seconda metà degli anni 2000, è aumentato il costo del lavoro
in Cina per la crescita dei salari e per i bonus offerti ai lavoratori; inoltre, dal 2008 viene
introdotto un codice del lavoro che tutela i lavoratori, riducendo il vantaggio di
delocalizzazione delle imprese; l’aumento del costo del trasporto e della logistica (il
primo legato ad un aumento del costo del petrolio);
− le limitate competenze della forza lavoro locale e dei fornitori; difficoltà a controllare
la qualità in Paesi lontani; la scarsa tutela della proprietà intellettuale. Nel momento in
cui aumenta il costo del lavoro, ma non aumenta la produttività, risulta meno conveniente
produrre nel Paese estero;
− l’effetto « made-in », ovvero tutto ciò che è incorporato nel prodotto in termini di design,
qualità e sicurezza del prodotto e l’effetto « time-to-market », ovvero la risposta
efficiente, ed in tempi brevissimi, al cambio della domanda sul mercato (Italia); incentivi,
per esempio fiscali, alla rilocalizzazione e rientro delle imprese in patria, premiando quelle
che andavano a delocalizzarsi in Paesi ad alta disoccupazione (Stati Uniti e Regno
Unito). In Italia, questo fenomeno è avvenuto per mano di alcune Regioni, come il
Piemonte e la Lombardia; i minori costi di energia, come il « shale gas e oil », con
l’estrazione di petrolio dalle rocce, che garantisce l’autosufficienza;
− i nuovi modelli di consumo nei paesi emergenti, che richiedono per esempio un vero
Made in Italy, che sia prodotto in Italia e non in Cina; le innovazioni tecnologiche per la

63

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

produzione industriale, come l’automazione (robot avanzati che garantiscono risparmi nel
costo del lavoro) e la fabbricazione digitale; la correzione di errori di valutazione.

58

59

60

58 Evoluzione temporale del fenomeno su scala globale: non ci sono dati certi, di conseguenza gli esperti cercano di creare dei
grafici, cercando i dati da molte fonti diverse. Trend su scala globale e sul nostro Paese. Fenomeno si concentra dal 2009 in avanti, fino
al 2013. Nel 2014 c’è una flessione.

59Distribuzione percentuale dei casi di rientro per paese di origine: Stati Uniti oltre il 46%, l’Italia oltre il 20% nonostante sia un
paese più piccolo degli US, poi troviamo il Regno Unito e la Germania.

60 Paesi da cui si rientra: si rientra prevalentemente da Cina e da altri Paesi asiatici e dell’Est Europa.
64

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

61

Oggi come oggi è presente una pluralità di strategie di impresa che rompono il commercio
internazionale, sia il re-shoring che la delocalizzazione produttiva.

Esempio di domande d’esame: 6 domande in un’ora. Importante è gestire il tempo


1. Come descriveresti la globalizzazione da un punto di vista geografico? Definizione di
De Matteis, ovvero l’accellerazione ed intensificazione delle relazione tra soggetti collocati
in diverse aree; poi la definizione di Veltz, ovvero aumento delle interdipendenze territoriali
e poi la definizione di Harvey, che vede la globalizzazione come la convergenza spazio-
temporale.
2. Definizione di glocalizzazione: la globalizzazione deriva dall’intreccio di due differenti
dimensioni, quella locale e quella globale.

61Evoluzione del fenomeno in Italia: nel nostro Paese vediamo un picco di rientro nel 2009, una flessione tra il 2010 ed il 2011, un
aumento nel 2012 e 2013.
65

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)


lOMoARcPSD|9720306

Chiara Zecchini

3. Perché il commercio internazionale è dominato da una Triade? Ue, USA e Asia, in


particolare Cina e le quattro tigri Asiatiche, poiché la maggior parte dei flussi commerciali
avvengono tra questi tre poli.
4. I fattori che spiegano la crescita sostenuta del commercio internazionale nella fase
della globalizzazione: i trasporti (il costo del trasporto e il tempo di percorrenza) e
nuove tecnologie, i costi del lavoro (le strategie delle imprese) e la divisione del lavoro
(multinazionali), la liberazione commerciale.
5. Quali sono i fattori che spiegano la crescita sostenuta degli investimenti diretti esteri
nella fase di globalizzazione? Le strategie delle multinazionali (poi trasporti, costo del
lavoro, liberalizzazione).
6. I principali attori che governano lo scenario della globalizzazione economica:
riferimento alle grandi organizzazioni sovranazionali, come la WTO, in Fondo Monetario, la
Banca Mondiale (istituzioni di Bretton Woods) e le grandi multinazionali.
7. Che cosa si intende per convergenza spazio-temporale? Avvicinamento, in termini di
tempi di percorrenza e di costi, tra le diverse aree del pianeta (in riferimento alla distanza
funzionale), prodotto dalle innovazioni in ambito di trasporti e nuove tecnologie.
8. La grande rivoluzione dei trasporti: periodo del secondo dopoguerra, con innovazioni di
tipo tecnologico ed organizzativo che si sono succedute dagli anni 50 e 60.
9. Le innovazioni organizzative: l’intermodalità, ovvero l’integrazione di più modalità di
trasporto e la logistica.
10. La definizione di interporto, l’interporto di Verona e gli interporti in Italia;
11. Gli effetti della deregulation.
12. Differenza modello poin-to-point e hub & spokes.
13. Come si può definire una multinazionale e se ne esiste una definizione giuridica: no
definizione giuridica, ma si configura in base ai 3 criteri elencati (capacità di coordinare le
catene del valore su scala globale).
14. Che cosa si intende per nuova divisione internazionale del lavoro e in che modo si
contrappone alla vecchia divisione internazionale del lavoro? Non più specializzazione per
prodotto, ma specializzazione in una parte del ciclo produttivo (una o poche componenti);
15. Caratteristiche modello fordista o modello post-fordista (i cambiamenti): grande
impresa verticalmente integrata (fordismo) vs modello di produzione flessibile (i distretti)
16. Le Zone Economiche Speciali.
17. I distretti industriali (definizione): presenza di imprese di piccole e media dimensione,
specializzazione in una determinata filiera produttiva e divisione del lavoro;
18. Esperienza normativa del Veneto: perché innovativa? In una prima fase, vi è
l’individuazione del distretto dal basso,
19. Contenuti Legge Regionale 13/2014.
20. Montebelluna, spiegare una fase o punto di discontinuità (1969, la plastica).
21. Strategie del distretto di Montebelluna nel momento di maturità.
22. Caratteristiche cluster industriale.
23. Fattori all’origine del cluster della Silicon Valley.
24. Definizione di portata di una funzione urbana e spiegazione delle città globali.
25. Attraverso quali forme si è realizzata la liberalizzazione commerciale (multilaterlismo e
regionalismo).
26. Principi alla base del funzionamento della WTO (con definizione).
27. Funzioni della WTO.
28. Differenze barriere tariffarie e non.
29. Globalizzazione ambientale.
30. Metafora di Boulding.
31. Relazione effetto-serra e surriscaldamento globale.
32. Vantaggi e limiti del Protocollo di Kyoto.
33. Contenuti Accordo di Parigi.

66

Scaricato da silvia franzoni (silviafranzoni01@gmail.com)

Potrebbero piacerti anche