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Camera etnografica riassunto 1

Antropologia culturale (Università degli Studi di Milano)

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Camera etnografica – Storie e teorie di antropologia visuale


1. Realtà delle immagini
1.1 Ocularcentrismo
Il vedere è sia metafora del conoscere che del comprendere.
Le invenzione della fotografia e del film hanno inaugurato una nuova epoca, quella della "civiltà
delle immagini". Ma a dire il vero l'umanità ha sempre vissuto in un mondo di immagini; pertanto,
piuttosto che cercare nel corso della storia epoche in cui un organo sensoriale sia stato
predominante rispetto ad altri, sarebbe più appropriato analizzare come l'esperienza si configuri e
venga trasmessa in diversi contesti culturali e comunicativi.
Nella civiltà delle immagini sembra che le icone dominino il mondo, ma in realtà non esiste
immagine del mediascape1 che non sia accompagnata da parole scritte e suoni. Per questo motivo la
definizione di “antropologia visuale” è per certi versi riduttiva; sarebbe più corretto definirla
“antropologia audiovisuale”.
L'avvento della fotografia (1839), con il realismo dell'immagine, sottrasse l'indigeno alla fantasia di
quei disegnatori che lo avevano ritratto all'interno di paradisi esotici dove viveva come “buon
selvaggio” nello “stato di natura”. La fotografia antropometrica2 divenne la fotografia scientifica per
eccellenza mentre la cultura materiale, la vita quotidiana e l'ambiente naturale vennero o rimossi
oppure inseriti in foto “artistiche”.
La vista e la geometria – intesa come la concettualizzazione grafico-spaziale attraverso l'utilizzo di
mappe, diagrammi ed elenchi – divennero il modo più “esatto” per visualizzare una cultura o una
società poiché permettevano di comprenderla evitando la soggettività dell'esperienza e l'illusorietà
dei sensi.
La tendenza ocularcentrica è in genere associata al positivismo, movimento filosofico che sosteneva
la necessità per la ricerca sociologica di utilizzare i metodi delle scienze naturali per descrivere
come accadono i fenomeni e non il perché. La descrizione del come necessita un'osservazione sul
campo, il che implica un contatto tra osservatore e fenomeno e quindi una contaminazione da parte
del soggetto osservante. Detta contaminazione può essere evitata frapponendo tra l'osservatore ed il
fenomeno una “distanza”; ciò è possibile con l'utilizzo di strumenti di osservazione come la
macchina fotografica.
Tuttavia, considerando che secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg l'atto di
osservare modifica i fenomeni osservati, il comportamento dell'osservato è sempre e
inevitabilmente modificato da quello dell'osservatore. A sostegno di questa tesi David MacDougall,
il quale ha affermato che “nessun film etnografico può essere solo una registrazione dei modi di vita
di una popolazione, ma invece è sempre la registrazione di un incontro tra due culture”. Quando un
etnografo osserva e filma un soggetto di studio viene a costituirsi un sistema relazionale in cui le
informazioni vengono ottenute attraverso il dialogo tra i due soggetti e che porta ad una reciproca
trasformazione e comprensione.
All'epoca del positivismo la fotografia permise agli antropologi di fare etnografia “a tavolino”
all'interno del proprio laboratorio, tuttavia il desiderio di conoscere attraverso i propri occhi tipico
dell'epoca non era soddisfatta. Per questo motivo il laboratorio venne spostato direttamente sul
campo, in modo che gli antropologi potessero vedere di persona come vivevano i popoli “esotici” e
“primitivi”. Da ciò scaturì un rilevante mutamento epistemologico: l'autorità del laboratorio e del

1 Con mediascape Arjun Appadurai ha definito il flusso di immagini provenienti dai media e circolanti in tutto il
mondo: i “mediorami” si riferiscono sia alla distribuzione delle capacità elettroniche di produrre e diffondere
informazioni (giornali,riviste, stazioni televisive e studi di produzione cinematografica) sia alle immagini del mondo
create da questi media.
2 L'antropometria è la scienza che si occupa di misurare il corpo umano nella sua totalità o nelle sue componenti, a fini
statistici e a supporto dell'antropologia, ad esempio nella ricostruzione della storia delle popolazioni.

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documento vennero messi da parte e sostituiti dall'autorità dell'esperienza diretta dell'etnografo che
osserva i propri soggetti di studio vivendovi a stretto contatto; il documento, sia pure prodotto
secondo il canone scientifico positivista, non fu più in grado, da solo, di garantire la veridicità e
l'autenticità di ciò che rappresentava.
Dopo l'iniziale interesse dei pionieri dell'antropologia la documentazione visiva delle culture venne
abbandonata e bisognerà attendere circa tre decenni – più o meno la fine degli anni '20 del 1900 –
perché fotografia e film ritrovino un ruolo nella ricerca antropologica come strumenti di
documentazione.
Più di recente l'orientamento visualista – il predominio dell'occhio e della percezione visiva come
strumento e processo di indagine e rappresentazione - è stato oggetto di critica da parte di studiosi
che hanno messo in rilievo il ruolo culturale degli altri sensi disponibili nel corpo umano. Il
visualismo ha origini antiche, tuttavia non è universale: esistono infatti culture basate su altri sensi.
L'antropologia dei sensi si propone di rigettare ogni modello universalistico, esaminando gli ordini
sensoriali propri di culture particolari senza incappare nell'errore di “naturalizzare” uno di questi
modelli.

1.2 Iconismo
Gli strumenti audiovisivi caratterizzati da un rapporto di somiglianza morfologica (isomorfismo) tra
l'immagine e il suo referente hanno rafforzato la concezione del documento come duplicazione della
realtà, peculiare del positivismo.
Da sempre c'è un dualismo in ogni dibattito sui problemi della rappresentazione scientifica, il quale
vede contrapporsi il realismo (conoscere attraverso le qualità essenziali dell'oggetto) e l'idealismo
(conoscere attraverso la propria attività interpretativa). La prima forma di conoscenza, quella
realistica, è sempre mediata dal rapporto dialogico tra soggetto che guarda ed oggetto che viene
guardato, per cui alla fine la rappresentazione risulta essere una costruzione dell'oggetto e non una
sua duplicazione. Tuttavia nei linguaggi visivi il realismo sembra un carattere “naturale” della
rappresentazione e il soggetto sembra non avere potere dato che la conoscenza sembra procedere in
tutto e per tutto dall'oggetto.
La fotografia non è da intendersi come un segno di tipo indicale, che abbia cioè una relazione di
compresenza con il referente. Il segno iconico non riproduce gli oggetti in sé, ma le loro proprietà.
I codici realistici utilizzati dall'autore di un film possono essere differenti da quelli circolanti nella
cultura della realtà filmata. Secondo l'autore il film è realistico non quando riproduce la forma degli
oggetti che mostra, ma quando presenta il significato che quegli oggetti possiedono nelle relazioni
sociali e culturali in cui sono incorporati. Il realismo sarebbe fondato dalle pratiche discorsive della
società che fanno sì che un determinato testo visivo sia recepito come realistico. Il realismo non
riguarda più dunque i testi visivi e il rapporto mimetico che essi instaurano con i referenti che
mostrano, come accadeva in epoca positivistica, ma concerne sia la rappresentazione delle relazioni
sociali (il contesto) in cui il referente è inserito sia la relazione che i testi visivi hanno con le
pratiche discorsive (culturali) in cui sono inclusi.
Ha senso, dunque, parlare di iconismo, ossia il fatto che i segni siano rassomiglianti all'entità che
rappresentano?

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Si è fatto spesso riferimento alla teoria peirciana3 del segno iconico per sostenere che la fotografia è
un segno di tipo sostanzialmente indicale, in quanto il soggetto ripreso era lì davanti all'obiettivo e
l'immagine è una traccia della sua presenza, o per sottolineare come, a seconda dei contesti d'uso,
essa diventi di volta in volta anche icona o simbolo.
Ma si prende un momento in considerazione questo esempio: se io vedo l'immagine di un cane
penso “naturalmente” ad un cane, mentre il fatto che io leggendo o sentendo la parola “cane” pensi
ad un cane è un processo convenzionale (non regolato da alcuna norma). Nel secondo caso il
legame tra le due azioni è di tipo culturale, perché quando scriviamo o pronunciamo la parola
“cane” le associazioni che si formano nella mente del produttore e del ricevente sono strettamente
connesse al repertorio culturale di ciascuno dei due.
La nozione di segno non riesce, dunque, a spiegare da sola la produzione del senso, perché in
qualunque pratica discorsiva il senso si forma sulla base della relazione fra almeno una sequenza di
segni e la competenza del ricevente.
Dire che la verosimiglianza non è una caratteristica ontologica dell'immagine significa affidare alla
cultura le ragioni per cui se una persona scorge un'analogia fra una produzione visiva e la realtà, ciò
è dovuto a codici culturali elaborati storicamente nella sua società.
Anche il contesto in cui l'immagine è inserita ha la sua importanza. Si pensi al diverso significato
attribuito alle immagini trasmesse in tv se durante un film o il tg: le si considerano finzione oppure
realistiche. I film non sono composti esclusivamente da immagini, ma includono e integrano anche
suoni, scrittura e grafie. Anche il significato di una singola fotografia non è riducibile a quello di un
segno di tipo linguistico.
Quindi utilizzare la concezione di segno in questo ambito risulta inutile.
Visto che un testo iconico non è leggibile in base ad un codice predeterminato ma lo costituisce,
ogni film istituisce il proprio codice realistico e lo propone allo spettatore con un'operazione
persuasiva che si conclude con l'accettazione o meno da parte dello spettatore della proposta
dell'autore; si conclude con un patto comunicativo.
Qualsiasi discorso di tipo realistico-documentario deve fare i conti con la realtà (anche inventata)
cui si riferisce, con la tradizione del genere del discorso (verbale, scrittuale, visuale) nel quale si
inserisce e con le attese dello spettatore derivanti dalla sua competenza testuale-culturale.

1.3 L'approccio semiotico


Negli anni '50 e '60 gli studi filologici si sono concentrati sull'individuazione degli elementi che
caratterizzavano il film in quanto linguaggio, comparando il linguaggio cinematografico a quello
verbale.
A metà anni 60 la semiotica sposta l'attenzione da “che cos'è il cinema” a come funziona il
linguaggio cinematografico.
In seguito gli studi di semiologia del cinema fecero propri i concetti chiave della teoria
dell'enunciazione elaborata da Ėmile Benveniste in ambito linguistico. La teoria dell'enunciazione

3 Secondo Peirce un segno è composto da significato (il concetto espressso) e significante (il supporto materiale che
lo esprime). Peirce suddivide i segni in icone, simboli ed indici. Si ha un'icona quando il segno assomiglia al
concetto rappresentato senza l'applicazione di alcuna convenzione (es. l'immagine di un rosa – il segno – assomiglia
al fiore che rappresenta – il suo significato/concetto). Si ha un simbolo quando il significante utilizzato è frutto di
una convenzione ma non assomiglia al concetto espresso nella realtà (es. nei quadri l'aureola di un santo – il
significante – per convenzione rappresenta la santità – il concetto – anche se effettivamente il santo non aveva
un'aureola sulla testa). Si ha un indice quando il segno è naturale, non è frutto di convenzione e non assomiglia al
concetto espresso che si intende rappresentare (es. del fumo – il segno – indica che c'è o potrebbe esserci un falò –
il concetto; tuttavia ciò non è frutto di un convenzione ed il fumo non assomiglia al falò). Può tuttavia capitare che, a
seconda del contesto, un indice possa divenire un simbolo (es. il fumo, che è normalmente un indice, può assumere
il valore di un simbolo veicolando per esempio l'idea di distruzione, di guerra, o nel caso dell'incenso, di sacralità).

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presuppone che un enunciatore (colui che comunica, come lo stesso autore del film o un
personaggio della storia raccontata nel film) costruisca l'enunciato prefigurando un enunciatario
(colui al quale il film si rivolge) che interagisca con le modalità enunciative presenti nell'enunciato.
Benveniste inoltre distingue storia e discorso come due modalità enunciative differenti. La storia
cancellerebbe le tracce del produttore della narrazione; “nessuno parla; gli avvenimenti sembrano
raccontarsi da soli”. Il discorso mostra invece inequivocabilmente i segni della presenza del
narratore.
Analizzare la situazione di enunciazione significa puntare l'attenzione su diversi elementi storici,
culturali, biografici; per comprendere un film o una fotografia è necessario tener conto del momento
in cui sono stati realizzati, in quale contesto culturale e da chi.
Alla base dell'enunciazione filmica ci sono tre livelli fondamentali di costruzione del discorso: il
livello del profilmico, dell'inquadratura e del montaggio. Il profilmico è ciò che la macchina da
presa filma, la “zona” di realtà che sta davanti all'obbiettivo. L'inquadratura è il livello in cui il
profilmico viene messo in quadro da un particolare punto di vista. Il montaggio mette in sequenza le
inquadrature costruendo sintagmi narrativi e significanti che acquistano senso dall'accostamento
delle inquadrature.
I concetti di testo, enunciazione, enunciato, enunciatore, enunciatario, profilmico, punto di vista,
inquadratura, montaggio sono il minimo repertorio concettuale necessario ad analizzare un film
etnografico, una sequenza etnografica o una singola fotografia.
Il pioniere della semiologia del cinema etnografico è stato l'antropologo Sol Worth. La sua prima
preoccupazione fu quella di definire la minima unità significativa del linguaggio cinematografico.
Individuò tre unità significative:
• il videma, corrispondente all'inquadratura;
• il cadema, corrispondente alla sequenza di fotogrammi compresa tra uno “start” e uno “stop”
della macchina da presa e di una durata variabile da pochi secondi a ore;
• l'edema, quella parte del cadema che viene concretamente utilizzata nel film.
Un autore che fa specifico riferimento alla semiotica è Keyan Tomaselli, il quale. basandosi sulla
semiotica di Peirce, propone una griglia basata sulla suddivisione dei segni visuali in icona, indice e
simbolo.
Tomaselli mutua da Peirce anche il concetto di fàneroscopia, l'indagine di tutto ciò che si presenta
alla coscienza in un determinato momento e secondo un determinato senso. Ogni incontro comporta
molteplici esperienze tra un interpretante e un evento o situazione. Il fànero corrisponde a tutto ciò
che è presente nella mente dell'interpretante. In ogni fànero si possono ritrovare le tre “categorie
pervasive” peirciane di icona, indice e simbolo poste su una scala a tre livelli gerarchici dal punto di
vista del rapporto con la realtà.
• 1° livello – icona e segno autoreferenziale – prevale il rapporto di somiglianza e dunque il
riconoscimento dell'oggetto in quanto oggetto attraverso una relazione tra il significante e il
significato (es. la foto di uno pneumatico rinvia all'automobile);
• 2° livello – quello dell'indice e del segno ricodificato o riarticolato – i segni acquistano
significato all'interno di un contesto culturale (es. lo pneumatico rinvia a libertà o virilità);
• 3° livello – il segno diventa uno degli elementi che compongono una cultura o un'ideologia
(es. lo pneumatico può far parte di un immaginario simbolico di una società industriale
senza radici, materiale ed individualista).

1.4 Realismo
Qual è il rapporto tra la rappresentazione e la realtà descritta? In quali termini una rappresentazione
etnografica si può definire “vera”? le categorie con le quali possiamo giudicare una
rappresentazione sono quelle di “verità”, “realtà”, “autenticità” o altre? Queste sono questioni

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chiave, di ordine epistemologico, su cui l'etnografo, anche quello visuale, deve riflettere.
L'etnografia è un genere letterario in cui la narrazione del testo è centrale. Il genere etnografico ha
le sue regole, tra cui ancora oggi resta fondamentale la presenza osservativa-partecipante dello
studioso sul campo.
La preoccupazione fondamentale dell'antropologo dovrebbe essere quella di descrivere in
profondità una cultura e alla base di questa prospettiva c'è la questione del realismo, della
concezione tra realtà e rappresentazione.
I concetti di realismo e oggettività sono variati nel tempo – abbiamo una prospettiva diversa da
quella di uno studioso positivista operante alla fine del XIX secolo. Dunque i film vanno compresi
all'interno del contesto storico e scientifico in cui sono stati prodotti, in relazione alla
consapevolezza che gli autori avevano nel loro tempo e non sulla base delle nostre attuali
conoscenze.
L'antropologia postmoderna nasce da una critica radicale all'oggettivismo positivista che conduce
implicitamente alla decostruzione del concetto di documento, un termine sul quale pesa una lunga
storia di realismo ingenuo. L'epistemologia positivista credeva nella possibilità della scienza di
riprodurre i fenomeni nei documenti e negli esperimenti di laboratorio, senza subire alcuna modifica
da parte dello scienziato. Misurazione e classificazione erano i metodi principali capaci di garantire
l'oggettività e quindi l'utilizzazione scientifica del documento. Conoscere significava convertire
qualità in quantità risolvendo il problema della relatività e fallibilità dei giudizi umani. Il modello di
produzione del documento proveniva dalle scienze naturali verso le quali le scienze umane
tradivano un “complesso di inferiorità” e una subordinazione metodologica che induceva l'utilizzo
di strumenti di misurazione capaci di tradurre l'osservazione del comportamento umano in numeri e
medie matematiche.
Il documento, nell'epistemologia oggettivista, è concepito come un dato o agglomerato estratto dalla
realtà da un o studioso il quale, per garantire la scientificità della sua operazione, ha escluso
dall'osservazione qualsiasi possibile interferenza soggettiva. Assenza di coinvolgimento con i
soggetti studiati, imperturbabilità, allontanamento di emozioni e sentimenti sono gli elementi chiave
di questa epistemologia della distanza attraverso la quale il documento si presenta come
un'emanazione diretta, un duplicato veritiero e attendibile. La forza analogia delle immagini
cinematografiche cancellava ogni possibile sospetto di soggettività introdotta dall'osservatore e si
presentava al fruitore come una prova provata di quanto accaduto davanti all'obiettivo. La
fotografia, rispetto al disegno precedente, lasciava, con la sua assenza di dettagli, maggiore libertà
di interpretazione al fruitore.
Se il disegno, prima dell'introduzione della fotografia veniva percepito come una rappresentazione
veritiera della realtà, allora si può dire che non esistono linguaggi più vicini alla realtà di altri, ma
che la verità, l'analogia iconica o la realtà di una rappresentazione sono il risultato di una
competenza visiva storicamente e culturalmente determinata. Tale competenza ci consente di
distinguere codici, generi e modalità comunicative diverse, di produrre o di interpretare
adeguatamente il significato di un discorso, di un film, di un testo. La competenza visiva, essendo
acquisita all'interno di una specifica cultura, è condizionata dalle ideologie dominanti, dal senso
comune, dall'esperienza personale, dal mediascape, dai discorsi prodotti sulle immagini. In
conclusione, il significato non è qualcosa che sta nascosto dietro il testo, ma un nucleo dinamico di
relazioni che, nel caso specifico del film, lo spettatore costruisce, in un primo momento nel corso
della fruizione audiovisiva e successivamente nelle occasioni formali ed informali di conversazione
con gli altri in cui si discute di quel film.
Siamo in grado di offrire una definizione esaustiva di realismo? No, perché qualsiasi tentativo di
definire la qualità realistica di un testo audiovisivo finirà per essere un'operazione storicamente e
culturalmente condizionata che finirebbe per assegnare al realismo le caratteristiche di una
particolare poetica del realismo; poetica che sarebbe normativa, indirizzata cioè a definire le regole
alle quali un testo si deve sottoporre per essere definito realistico e/o scientifico. Sarebbe quindi

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corretto parlare di più realismi.

2. Fotografia ed etnografia

2.1 Fotografie in transito


Per la creazione della macchina fotografica ottica due elementi sono stati rilevanti: la camera oscura
e la capacità di alcuni prodotti di reagire alla luce. E' facile pensare alla fotografia come una traccia
veritiera della realtà, dimenticandosi che la leggibilità della fotografia è il risultato di un processo di
manipolazione dei materiali.
La somiglianza tra l'oggetto fotografato e il suo referente reale non è un dato naturale, ma il
risultato di un lavoro materiale e semiotico che riguarda un oggetto, la fotografia, e il suo
significato.
Nella produzione di una fotografia sono presenti tutti e tre i tipi di segno iconico individuati da
Charles Sanders Peirce: indice - segno che deriva dal referente – (nel momento dell'impressione
della pellicola); icona – che riproduce del referente alcuni elementi morfologici che rinviano ad esso
– (nel momento della stampa); simbolo – segno totalmente culturale con la capacità di veicolare
significati – (nel corso delle interpretazioni e degli investimenti di significato attribuiti).
L'antropologa Beatrix Heintze propone una distinzione tra contesto di produzione, contesto di uso e
contesto di ricezione della fotografia, evidenziando come il primo sia una volta per tutte, mentre gli
ultimi due cambiano continuamente, rendendo la fotografia simile ad un camaleonte che muta
colore a seconda dell'ambiente in cui è collocata. Saper distinguere e cogliere i transiti di senso da
un contesto all'altro è di fondamentale importanza quando analizziamo documenti fotografici.
• Il contesto di produzione comprende tutte le informazioni che riguardano il fotografo e
l'ambiente culturale, storico e politico che nel loro insieme hanno condizionato il modo in
cui la fotografia è stata prodotta.
• Il contesto d'uso riguarda gli specifici frame nei quali la fotografia è inserita (es. una
pubblicazione, una mostra, la vetrina di un museo)
• Il contesto di ricezione riguarda i fruitori e l'occasione in cui il testo di/con fotografie viene
osservato.
L'etnograficità di una immagine non è una qualità essenziale ontologicamente posseduta dal
contenuto della fotografia, ma una caratteristica che essa assume all'interno di un discorso e di
determinate finalità scientifiche di tipo antropologico.

2.2 La fotografia nell'era del positivismo


Nella sua prima fase la fotografia venne utilizzata come indice, traccia veritiera della realtà.
In questa fase storica Charles Darwin, nel suo studio sulle emozioni, utilizzò le fotografie per
dimostrare la veridicità delle tesi esposte.
Oltre che per la fisionomica nell'epoca positivistica la fotografia veniva utilizzata anche per
l'antropometria, cioè per ottenere informazioni sulle caratteristiche fisiche e anatomiche dei soggetti
ritratti (altezza, lunghezza, forma della mano, capelli, ecc.); dati che servivano a collocare gli
individui entro determinate categorie razziali e stadi evolutivi.
Un terzo tipo, la fotografia etnologica, era impiegato per riportare le caratteristiche esotiche dei
popoli lontani (cultura materiale, rituali, ecc.).
Fino a che punto un determinato individuo può essere rappresentativo di un tipo razziale? Lo
psicologo Galton individuò un metodo conosciuto come “metodo Galton”: si costruiva un ritratto
sovrapponendo più fotografie scattate nello stesso modo, per esaltare i caratteri fisiognomici
comuni; in tal modo la fotografia avrebbe prodotto “da sé”, senza intervento umano, il tipo razziale.

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Ciò è chiarissimo esempio dell'approccio positivista nei confronti della scienza e di come la
fotografia si fosse perfettamente integrata nel paradigma oggettivista4 ottocentesco.
La fotografia divenne quindi un oggetto da conservare e catalogare, un oggetto da museo; sollecitò
la costituzione di archivi e circolò tra gli studiosi, le istituzioni museali e i centri di ricerca. Fu dalle
fotografie che Boas prese spunto per le sue ricostruzioni delle scene di vita quotidiana degli indiani
nordamericani note come life groups.

2.3 Malinowski e la fotografia


Tra il il 1914 e il 1918 scattò diverse fotografie durante la sua ricerca sul campo nell'arcipelago
delle isole Trobriand.
Con Malinowski la fotografia da mero strumento di riproduzione, qual era nella prospettiva
positivista, divenne strumento di osservazione capace di applicare un punto di vista e di mostrare la
realtà.

2.4 Mead, Bateson e la fotografia


Balinese Character (1942) di Margaret Mead e Gregory Bateson può essere considerato la prima
etnografia basata principalmente sullo studio di fotografie realizzate nel corso della ricerca sul
campo. I due autori utilizzarono allo stesso livello di interesse per l'elaborazione teorica le
fotografie, i film e le interviste. Il libro fu il risultato di una ricerca durata dal 1936 al 1939 a Bali,
durante la quale furono scattate 25000 fotografie, di cui solo 759 pubblicate.
L'idea teorica di base era il concetto di ethos: un sistema culturalmente standardizzato di
organizzazione degli istinti e delle emozioni degli individui. Essendo una nozione sfuggente i due
studiosi cercarono di visualizzare la loro idea dell'ethos balinese attraverso le fotografie.
Il libro è organizzato in due parti: la prima, un saggio introduttivo scritto da Mead, è strutturato
come un commento etnografico sugli argomenti trattati con il materiale fotografico; la seconda
parte del libro presenta le fotografie che Bateson ha scattato; ogni tavola a pagina intera è
accompagnata, nella pagina opposta, da una spiegazione del contesto delle fotografie e da didascalie
di ogni singola immagine.
È chiaro che sia le immagini che lo scritto sono ugualmente essenziali, ma sussiste tuttavia un certo
grado di autonomia per le immagini: mentre i testi sarebbero non significativi senza le immagini
corrispondenti, non è vero il contrario. Le fotografie permettono di osservare il modo in cui il
particolare elemento culturale che i due studiosi hanno focalizzato viene rappresentato in quel
particolare momento. Una delle principali modalità in cui questo si realizza è attraverso la stretta
prossimità delle immagini che sono state registrate in un tempo relativamente breve. È possibile,
quindi, osservare le sequenze di comportamento come se fossero prodotte in “tempo reale” e i modi
in cui ciascun gesto che interagisce trova risposta dall'altra parte. Furono i primi ad utilizzare i dati
visivi in questa modalità.

2.5 Immagini e parole: le didascalie


Ad eccezione di opere come Balinese Character, la maggior parte delle pubblicazioni etnografiche
limitano la didascalia a poche parole che in genere non superano la lunghezza di una riga.
Da un lato questa scelta sembra suggerire l'idea che le immagini parlino da sé; il che è vero, ma lo
fanno in modo ambiguo. Ecco quindi che la didascalia interviene sull'immagine per chiarirne il
significato ed aiutare l'osservatore a “scegliere il corretto livello di percezione”, evitando di cadere
in interpretazioni troppo individuali o fuori luogo.

4 Il paradigma oggettivista vede la realtà come verità universale ed indipendente che la mente razionale può
rispecchiare in modo oggettivo

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2.6 Fotografie in esposizione


Nelle esposizioni la fotografia non può fare a meno del linguaggio verbale.
Secondo la tradizione ci vuole un pannello introduttivo con notizie sul fotografo, le occasioni e i
temi della mostra e brevissimi titoli che accompagnano le fotografie.
Il curatore della mostra poi può integrare l'esposizione con rinvii intertestuali ai contesti di
produzione e di uso delle fotografie, ai contesti storici in cui le foto sono state prodotte, integrando
con oggetti e documenti, ecc.
Un esperimento riuscito, per quanto riguarda il rapporto tra didascalie e immagini, è quello della
mostra Ogiek Portraits. A Kenyan People Look at Themselves curata da Corinne Kratz, allestita in
Kenia e negli Stati Uniti tra il 1989 e il 1997, poi confluita in un libro che è una riflessione
sull'occasione che l'esposizione ha offerto come terreno di ricerca sui temi dello stereotipo, della
riflessività, delle relazioni sociali, dell'auto-rappresentazione culturale. Sono stati esposti ritratti di
individui ogiek – una popolazione originaria del Kenia – in sequenza seguendo il ciclo della vita –
da bambini a giovani ai riti di iniziazione agli adulti agli anziani -.
Le didascalie – in kiswahili, ogiek e in inglese - esprimevano punti di vista diversi. Il testo delle
didascalie era suddiviso in quattro “zone”: nella parte superiore i testi, redatti in Inglese e in
Kiswahili, descrivono le persone e ciò che stanno facendo. Nella parte inferiore, il dialogo in lingua
Ogiek è estratto dai commenti che i nativi facevano osservando le fotografie.
La mostra di Kratz ci dà l'occasione di affermare che, dal punto di vista dell'etnografo, le fonti
vanno considerate nella trama di relazioni intertestuali in cui sono sempre inserite. Sono infatti
collegate ad altre tipi di fonti (orali, scritte, sonore, visive, oggettuali) e, nel momento in cui per
comodità di analisi le separiamo, in realtà le rimuoviamo dal loro contesto e ne semplifichiamo il
significato. Rendere conto dell'intertestualità diventa un momento irrinunciabile per la coerenza e
per la ricchezza della rappresentazione.

2.7 Rapporti tra fotografia popolare e cultura visuale in India


Christopher Pinney, antropologo e maggiore studioso di fotografia indiana, sostiene che lo sfondo
nella fotografia indiana prodotta nella città di Nagda “è uno spazio di esplorazione […] spesso
geografica”.
Nonostante Pinney ritenga corretto considerare la fotografia come una “solennizzazione di un ruolo
sociale”, egli sostiene che nelle fotografie a Nagda le pose inventate che spesso si ritrovano
suggeriscono una intenzione parodica nei confronti dei ruoli sociali. “Lo studio fotografico diventa
un luogo non tanto per la solennizzazione del sociale, ma per l'esplorazione individuale di quello
che ancora non esiste nel mondo sociale” la fotografia, per gli indiani, diventa un mezzo per auto-
rappresentarsi al di là delle convenzioni. I due elementi più importanti nel gioco dell'auto-
rappresentazione sono i gesti, il costume e la scenografia”.

2.8. Ex-voto fotografici


All'interno degli ex-voto5 trovano posto anche gli ex-voto fotografici, costituiti essenzialmente da
una fotografia del devoto.
Spesso gli ex-voto sono polimaterici (prodotti utilizzando materiali di diversa natura) e sono
considerabili come forme di passaggio dall'ex-voto pittorico a quello fotografico.

2.9 Sulla materialità delle immagini


Le immagini vengono fatte circolare per trasmettere idee sulla società e sulla cultura che raffigurano
e talvolta intorno ad esse si svolgono lotte fra gruppi sociali sostenenti chiavi di lettura diverse di

5 Oggetto offerto in dono alla divinità per grazia ricevuta o in adempimento di una promessa.

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quanto rappresentato. È certamente la “mobilità” delle fotografie, il loro spostarsi in diversi contesti
di fruizione, a conferire alla fotografia la capacità di trasmettere dei significati.
Lo statuto ibrido delle fotografie – quello di essere contemporaneamente immagini e allo stesso
tempo oggetti – si rileva negli album di famiglia: la foto si muove fra ricordo visivo di persone care
e oggetto di famiglia da ereditare e trasmettere ai discendenti; le foto vengono fatte circolare,
spedite, collezionate, raccolte.

2.10 Fotografare
La fotografia viene utilizzata nelle ricerca etnografica come supporto: permette all'etnografo di
ricordare le sue prime impressioni sulla cultura oggetto di studio.
Quando, poi, il ricercatore è nel vivo della sua ricerca sul campo la macchina fotografica diventa un
importante strumento di mediazione: per esempio potrebbe capitare che siano gli stessi soggetti di
studio a suggerire postazioni da cui scattare le “migliori” fotografie e, mentre osservano il risultato
finale, è possibile aprire uno spazio per l'interazione con gli informatori, quindi una relazione più
stretta, che permette l'ampliarsi del cerchio delle conoscenze.
La fotografia può, inoltre, restituirci immagini del territorio attraverso punti di vista ampi che
coprono porzioni di paesaggio rilevanti, fino alle fotografie aeree; ci danno quindi informazioni
sulle interazioni uomo-ambiente, economia, sfruttamento del suolo, ecc.
In relazione all'ambiente domestico la fotografia offre informazioni sull'estetica delle decorazioni,
quali segni di ospitalità, quali attività degli abitanti; può inoltre essere utilizzata per stimolare gli
informatori a fornirci notizie del passato (photo-elicitation).
La presenza della macchina fotografica durante le interazioni fra l'etnografo e i nativi è un fattore da
non trascurare; essa modifica e dirige la relazione in una direzione precisa. Etnografi e etnofotografi
dovrebbero dunque essere consapevoli delle implicazioni prodotte dall'uso dell'apparecchiatura e
delle teorie che fondano la rappresentazione visiva; devono inoltre comprendere che la presenza
della macchina fotografica interviene nella relazione con l'informatore ed è auspicabile che
preventivamente conoscano la cultura visuale degli informatori e gli specifici significati che essi
attribuiscono alle fotografie.
È da evitare la nozione di “inconscio ottico”, secondo cui la fotografia sarebbe in grado di offrire
qualcosa al di là dell'immediato dato visibile, al di là della prima apparenza morfologica, qualcosa
che il fotografo non vede nel mirino quando scatta. La fotografia, infatti, è un “costrutto autoriale”:
le immagini che produce sono la concretizzazione dei modelli di rappresentazione della realtà del
fotografo.

2.11 La photo-elicitation
Con questo termine si intende l'uso delle fotografie come stimolo alla memoria e alla narrazione. La
pratica è stata descritta dai Collier (1986) con il nome di foto-intervista e consiste nell'utilizzare le
fotografie in quanto «strumenti con cui ottenere conoscenza oltre quella fornita dall'analisi diretta»
delle immagini.
Collier propone una sequenza di atti da compiere per realizzare una buona foto-intervista: «Il passo
preliminare all'intervista è cercare qualcuno che risponda alla tue domande, preferibilmente
qualcuno adeguato. Il secondo è farsi invitare a casa dell'informatore, e infine essere capace di
ritornare per interviste successive».
Nella foto intervista i ruoli si ribaltano: è l'informatore l'esperto, ed è più facile che egli racconti
spontaneamente: «i fatti sono nelle immagini; gli informatori non devono sentire che stanno
diffondendo delle confidenze», L'antropologo prenderà nota sul taccuino e sembrerà che stia
prendendo appunti riguardo alla fotografie, non alla vita dell'informatore.
Il metodo della photo-elicitation è utilizzato sopratutto nell'ambito della ricerca sociologica; è vero
però che anche gli antropologi talvolta lo usano, senza catalogarlo come tale.

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Capitolo 3. I soggetti del film


Negli anni settanta si fece strada un nuovo approccio al film: quello psicoanalitico. Si abbandonò
così l'approccio strutturalista, che vedeva il film come oggetto, come documento con una forma
autonoma e si cominciò a percepire il film – così come la fotografia – come luogo in cui avvengono
una serie di negoziazioni di significati.
Alcuni importanti autori tesero però a sottolineare come l'occultamento del processo di produzione
assegni illusoriamente allo spettatore il ruolo di regista del film.
Essi sostengono che, come il bambino davanti allo specchio fa conoscenza e si identifica con il suo
doppio, così lo spettatore costruisce il proprio io cinematografico.
Tuttavia sono necessarie alcune obiezioni: in primis, lo specchio, riflettendo, ripropone
un'immagine di se stessi, cosa che lo schermo non fa. Questo porta quindi lo spettatore ad
identificarsi necessariamente con qualcosa di diverso da se. Questo qualcosa è il suo sguardo che ad
altro non corrisponde se non alla macchina da presa, e che porta lo spettatore stesso a percepirsi
come soggetto privilegiato. Lo spettatore si illude di essere soggetto della rappresentazione.
All'inizio degli anni ottanta questa visione monolitica lasciò spazio ad un approccio contestualista
più attento alla capacità di interpretazione dello spettatore che mise quest'ultimo in primo piano
riconoscendogli un ruolo chiave nella produzione di senso. Infatti il destinatario di
film/foto/eventi/sentimenti, nell'atto di comprenderli, non può che modificarli secondo la propria
sensibilità svolgendo una funzione non semplicemente conoscitiva bensì generativa. La mente dello
spettatore produce continui spostamenti di significato, spostamenti che ne fanno uno spettatore-
protagonista.
L'immagine creata dall'autore viene riformulata nel momento in cui alla sua soggettività si aggiunge
quella del fruitore allontanando ogni pretesa di realistica oggettivazione. I due approcci giungono
così a due visioni opposte dello spettatore, in entrambi casi al centro dell'attenzione ma nel primo
caso quasi “intrappolato” dal film/testo mentre, nel secondo, libero di scegliere la propria posizione.
Si potrebbe quindi affermare che il film non potrebbe esistere senza uno spettatore, perché senza di
esso non ha significato; lo spettatore però non crea un “nuovo” significato, bensì chiude quello che
il film propone ma lascia aperto.
Ovviamente non bisogna dimenticare come ogni interpretazione in realtà non sia un'esperienza
individuale, ma al contrario sia condizionata dal contesto storico-culturale al quale il fruitore
appartiene.
Questa nuova attenzione al fruitore ed al contesto in cui il film/la fotografia viene prodotto/a ha
permesso all'antropologia di evitare il tradizionale approccio oggettivista secondo le culture
vengono percepite come società astoriche.
Negli ultimi anni sta prendendo piede la pratica di mostrare i lavori ai soggetti filmati, accordando a
questi ultimi la possibilità di valutare la correttezza delle rappresentazioni.
Un terzo soggetto, oltre ad autore e spettatore, può entrare così a far parte della costruzione di
significato del film; il soggetto del film. Il film etnografico riconosce ad ognuno di questi tre
soggetti una parte nel determinare i significati della rappresentazione. Così come spettatore ed
autore hanno i loro desideri, i soggetti ripresi perseguono i loro scopi, “lavorando” per
rappresentarsi adeguatamente davanti alla macchina da presa.
Ci si trova quindi di fronte ad una negoziazione fra desideri dell'osservatore e desideri dell'osservato
che produrranno un “documento contrattato”.
Visto che il film circolerà nella società di appartenenza dell'autore ma anche nella società dei
soggetti ripresi esso dovrà essere il più accurato possibile e dovrà guardare in due direzioni; solo
così si potrà produrre un cinema intertestuale.

Capitolo 4. Osservare e documentare

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Le origini del film etnografico si possono collocare alla fine del XIX secolo quando i primi
strumenti di registrazione vennero impiegati nell'ambito di attività scientifiche per documentare
alcune qualità culturali di popolazioni esotiche.
Felix-Louis Regnault, studioso francese, registrò nel 1895 alcune pratiche della tribù africana dei
Wolof. Girata proprio in quella occasione, la sequenza di una donna wolof che costruisce un vaso
viene generalmente identificata come il primo caso di film con valore etnografico.
Ma solo tre anni dopo, nel 1898, Alfred C. Haddon, durante la sua spedizione antropologica presso
lo stretto di Torres, si doterà di macchina fotografica e macchina da presa per impiegarle come
strumenti di studio. Da allora molti seguirono il suo esempio, tra questi l'austriaco Rudolf Poch
presso i Boscimani e l'inglese Baldwin Spencer nelle sue ricerche sul campo in Australia.
Questi studiosi - ci si muove in un quadro epistemologico di stampo positivistico -
avevano completa fiducia nelle capacità della tecnologia, pensavano di poter catturare gli eventi
senza mediazioni, perseguendo il loro scopo di rappresentare in modo scientifico la realtà.
L'intervento umano del filmmaker era considerato un elemento di disturbo, capace di “sporcare” il
materiale filmato, e andava quindi limitato per lasciare alla macchina da presa il compito di
riprendere in maniera “neutra”.
Il film non era inteso come una rappresentazione della realtà basata su procedimenti interpretativi,
ma come una finestra sul mondo, dove la presenza dei dati permettesse di sostituire la realtà vissuta
in prima persona dallo studioso. Il dato prodotto appariva ovvio ed indiscutibile.
Il lavoro di questi pionieri era inoltre guidato da quella che possiamo identificare come antropologia
di salvataggio; questa impostazione di ricerca ha portato alla raccolta di materiali riguardanti
diverse popolazioni indigene di cui si temeva la scomparsa a causa dell'avanzare del progresso.
Era necessario quindi un progetto per salvare delle tradizioni inevitabilmente destinate alla
scomparsa. Gli strumenti cinematografici e quelli fotografici apparvero efficaci per raggiungere uno
scopo di questo tipo.
Spesso si decideva anche di “ricostruire” le azioni dei nativi davanti alla cinepresa per favorire la
chiarezza visiva di ogni dettaglio e di ogni “attore”. In questo primo periodo quindi la macchina da
presa era usata come in laboratorio è usato un microscopio, per analizzare cioè la registrazione
filmica considerata assolutamente imparziale e per comparare dati oggettivi provenienti da
popolazioni diverse.
Nel primo ventennio del XX secolo furono registi con uno sguardo più artistico che scientifico
come Flaherty a cambiare il panorama inaugurando uno stile partecipativo. Egli riuscì a tradurre in
termini cinematografici il metodo dell' “osservazione partecipante”, teorizzato nel 1922 da
Malinowski. Come Malinowski nelle isole Trobriand, anche Flaherty visse per un lungo periodo tra
gli Inuit ai quali, prima delle riprese del suo film, Nanook of the North (1921), il filmmaker spiegò
quale fosse il suo progetto e dei quali ascoltò i suggerimenti. Nonostante questo riuscì a descrivere i
nativi come se fossero osservati a distanza.
Flaherty avviò una tradizione di filmmaking partecipativo che è poi continuata con i film di Jean
Rouch che come lui credeva nel potere che ha la macchina da presa di vedere, al di là delle
possibilità dell'occhio umano, le qualità degli esseri e delle cose.
Altro concetto chiave del pensiero di Flaherty è quello di “non-preconcezione”, cioè lo sforzo che
l'antropologo deve compiere per riuscire a non pre-interpretare ciò che osserva, tenendo sempre ben
presente come solo senza preconcetti si possa cominciare a fare un tipo di ricerca veritiera.
Questo atteggiamento di sospensione di giudizio personale e di distanza dall'oggetto, tra l'altro
condiviso da Malinowski, a mio avviso avvicina Flaherty al paradigma positivista del tempo.
I lavori di Malinowski e quelli di Flaherty sono aperti al punto di vista del nativo solo in apparenza
ma in realtà sono soprattutto una presentazione del punto di vista dell'antropologo: è come se gli
elementi del mondo reale, anche grazie alla ricostruzione di cui Flaherty faceva gran uso, vengano
usati, e considerati come materiali grezzi da manipolare.
Il primo progetto che riuscì a coniugare competenze antropologiche professionali con un utilizzo

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consapevole del mezzo cinematografico si deve a Margaret Mead e a Gregory Bateson che nel
corso degli anni '30 filmarono e fotografarono gli Iatmul a Bali durante la loro ricerca tesa a
mostrare, grazie all'ausilio delle immagini, i tratti fondamentali del carattere e dell'ethos dei
Balinesi.
Negli anni '50 importanti innovazioni tecnologiche influenzarono le metodologie di registrazione, le
macchine da presa diventate sempre più piccole e maneggevoli facilitarono l'avvicinamento tra
filmmaker e soggetti filmati e l'avvento del sonoro sincrono rese possibile la registrazione in presa
diretta dei suoni, dei dialoghi, delle musiche, aumentando l'effetto di realtà ottenuto dai film.
Si diffuse un approccio che aveva come scopo quello di catturare la realtà simulando l'assenza del
filmmaker e omettendo le relazioni, inevitabili, tra quest'ultimo ed i soggetti ripresi.
Il processo di osservazione era considerato centrale, si ricercava un'autenticità totale, si osservava
come se si fosse presenti ad un evento ma senza essere visti.
Questa modalità di ripresa portò ad una serie di questioni, come ad esempio: quanto di quello che si
vede sarebbe davvero successo se non ci fosse stato il regista? O ancora, cosa sarebbe cambiato se
la sua presenza fosse stata più accentuata? [“Vivere l'etnografia”, cap. 3, Leonardo Piasere].
Questo tipo di approccio, chiamato “cinema diretto”, si sviluppò anche in un altro modo: le
macchine da presa sempre più piccole non sono state usate per occultare la presenza del regista
bensì hanno permesso a quest'ultimo di diventare un tutt'uno con le apparecchiature e di filmare il
suo stesso punto di vista. Il filmmaker non finge di non esserci, tutt'altro, diventa una presenza
palpabile che provoca riconfigurazioni continue della realtà; la situazione è alterata dalla sua
presenza. A volte, addirittura, la presenza stessa della macchina sul campo viene utilizzata
dall'etnografo per stimolare reazioni e comportamenti; un esempio evidente di come gli stessi
sviluppi tecnologici possano portare a cambiamenti metodologici estremamente diversi.
A partire dagli anni '60 si sviluppò in nord America un tipo di documentario, conosciuto come
“cinema di osservazione”, che riprese modalità di rappresentazione usate dal cinema diretto, in
particolare nell'attenzione verso i dettagli, i gesti, la quotidianità dei soggetti ripresi.
Questo tipo di film ricorre a pratiche osservazionali, evitando l'intervento del regista/antropologo
che cerca di rimanere in una posizione defilata senza venire coinvolto nelle azioni da registrare.
L'idea al centro di tale approccio è la possibilità di realizzare un documentario evitando gerarchie
tradizionali che pongano l'autore in una posizione privilegiata per raccontare la realtà: il film
diventa appannaggio dei soggetti ripresi e dello spettatore. Viene lasciato spazio ai soggetti ripresi
rispettando i loro tempi e il regista seleziona gli eventi per lui importanti ma non guida più la
comprensione dello spettatore.
Nonostante i loro intenti in genere perseguano una rappresentazione oggettiva e neutra della realtà,
contrariamente alle aspettative, spesso accade che i film del cinema di osservazione siano tutt'altro
che freddi e distaccati. Alcuni sostengono che lo scopo di tali documentari sia riprendere il
“comportamento normale” delle persone nelle circostanze che comprendono anche la presenza della
cinepresa e gli effetti che questa può avere sugli eventi. Il tentativo del cinema di osservazione non
è quello di descrivere oggettivamente la realtà come se il regista fosse passato inosservato come una
“mosca sulla parete”, ma esso mira ad una rappresentazione più rispettosa degli eventi, dove siano
evitate la retorica e la cornice interpretativa adottate da molte forme filmiche tradizionali.
Su questo argomento interviene anche MacDougall il quale sostiene che sia necessario andare al di
là della mera osservazione, altrimenti si finirebbe per accettare di “vedere” solo ciò che i soggetti
mostrano in apparenza senza poter comprendere ciò che essi ritengono implicito nelle loro pratiche.
MacDougall ritiene che la presenza del regista con la macchina da presa inevitabilmente inneschi
dei comportamenti dei nativi influenzati da un evento stra-ordinario e che nessun film etnografico
quindi possa essere solo registrazione di modi di vita di una popolazione bensì sia invece sempre
una registrazione di un incontro tra due culture. Ciò che bisogna praticare è, allora, un cinema di
interazione.
E' importante definire questo, cinema di interazione e non di partecipazione, per non confonderlo

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con quello di autori come Jean Rouch. Scrive infatti MacDougall: «dando accesso nel film ai suoi
soggetti, il filmmaker riesce a raccogliere un numero di informazioni e di chiarimenti maggiori
sulla loro vita». Questa affermazione ci fa capire come in realtà MacDougall ritenga più importanti
le informazioni e le tesi che il regista vuole dimostrare rispetto alla partecipazione dei soggetti che
filma, con i quali il regista stesso non stringe relazioni. Diventa necessario quindi distinguere questo
tipo di atteggiamento da quello veramente partecipativo: sicuramente MacDougall interagisce con i
soggetti filmati ma non collabora veramente con loro, l'interazione è solo un modo per avere più
informazioni possibili e per ottimizzare l'osservazione. Da questo approccio nasce l'uso di riprese
lunghe: il filmmaker infatti spesso sta a guardare, aspettando che accada qualcosa in disparte, non
collabora, si limita a contemplare; Rouch invece interagirebbe con i soggetti ripresi.
Una metodologia a la MacDougall lascia il film all'interpretazione dello spettatore che non è
influenzato da rigide indicazioni del filmmaker; questa metodologia potrebbe essere definita come
“cinema di contemplazione”.
Il film etnografico rappresenta meglio della scrittura le esperienze sensoriali poiché è in grado di
restituire la sensorialità, la quale difficilmente può essere trasmessa attraverso fonti scritte. Ma la
capacità di un film di rappresentare la dimensione sensoriale è una conseguenza della qualità della
relazione umana che si viene a creare fra i soggetti coinvolti nella realizzazione del documento: fra
filmmaker e soggetti ripresi; il dialogo, quindi, oltre alla condivisione sensoriale, rimane centrale.

Capitolo 5. Interagire e collaborare


Se, come già sottolineato, nei lavori di MacDougall mancava un'interazione profonda e consapevole
con i soggetti filmati, colui invece è riuscito ad esplorare in profondità l'Altro è stato Jean Rouch,
cineasta francese che nei suoi lavori ha coinvolto realmente i soggetti da lui filmati in una intima e
diretta collaborazione; realmente perché, a differenza di altri, per Rouch la partecipazione non è uno
stratagemma per riuscire ad osservare meglio.
Convinto che la presenza della macchina da presa avrebbe condizionato il comportamento degli
“attori”, il cineasta francese non cercava di limitare questi comportamenti dettati dal disagio, al
contrario li considerava come rivelazioni più profonde di una parte nascosta ma più reale di noi
stessi.
È facile notare come Rouch decostruisse, così facendo, alcuni dei punti che erano stati considerati
dall'etnografia visualista fondamentali fino a quel momento. Rappresentare la realtà in modo
oggettivo infatti non è più possibile: non esiste più una realtà che va scoperta a disposizione del
ricercatore; il soggetto ripreso e il filmmaker sono coinvolti in un processo dialogico dettato da
piena collaborazione e complicità. Il film diventa una “relazione”.
Quella di Rouch si può definire come “antropologia condivisa”: il più importante aspetto è quello
che l'autore chiama “controdono audiovisivo”, tecnica che consiste nel mostrare ai soggetti filmati il
film una volta terminato, come se immagini e suoni fossero restituite a coloro senza i quali non
sarebbe stato possibile realizzare il lavoro.
Grazie a questa pratica, mutuata da Flaherty, non solo i nativi possono “controllare” come siano
state rappresentate la loro cultura e la loro società ma anche l'antropologo può ricevere nuovi
suggerimenti.
Siamo quindi di fronte ad un atteggiamento di collaborazione che, a partire dalla fase preparatoria,
si estende oltre la fase di postproduzione del film, fino alla sala di proiezione.
Jean Rouch infatti chiude il montaggio solo dopo aver richiesto l'autorizzazione all'intera tribù
attraverso la proiezione pubblica del suo film.
Un altro aspetto dell'antropologia condivisa consiste nell'avvalersi dei nativi come collaboratori, dai
tecnici del suono agli attori; il cinema allora diventa un'opera condivisa e distribuita con la
complicità dei soggetti-attori che sono sempre coautori delle immagini che si registrano.
Alla base del modo di riprendere di Rouch quindi si trova un'interattività tra l'autore, il quale mette

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in gioco il proprio corpo e partecipa così a quello che possiamo definire il rituale filmico, e i
soggetti filmati che agiscono e re-agiscono alle riprese.
Il concetto di collaborazione critica supera quindi contemporaneamente l'epistemologia della
distanza propria del positivismo, il cinema d'osservazione (“la mosca sul muro”, “fly on the wall”),
ma anche il cinema d'interazione di MacDougall dove collaborare era solo una strategia del
filmmaker per riuscire a vedere più aspetti della realtà filmata e raggiungere più facilmente i propri
scopi.
Il cinema di Rouch non cerca una realtà già data, la produce, per proprio conto; la macchina da
presa, inoltre, non mostra significati che la realtà detiene, bensì è uno strumento per crearne di
nuovi.
Una volta analizzata a grandi linee la visione del cinema di Rouch è facile capire quanto questa si
discosti da quella di MacDougall: per Rouch si può parlare di “cinema di ripresa”, mentre per
MacDougall di un “cinema di montaggio”. In altre parole l'improvvisazione si oppone alla
precisione tecnica e artificiosa del montaggio.
Nel 1957 Rouch inaugura un nuovo filone della sua produzione cinematografica, quello
dell'etnofiction, in cui il filmmaker decide di ricostruire assieme ad alcuni amici songhai le loro
migrazioni stagionali dal Mali verso il Ghana per cercare lavoro.
Il film, inizialmente senza sonoro, fu post-sonorizzato con i commenti degli attori e l'introduzione
dei sottotitoli, consentendo di dar voce ai soggetti filmati che si esprimevano direttamente nella
propria lingua, grazie alla traduzione delle loro parole rese così comprensibili al pubblico.
Nasce così Jaguar che apre il cinema ad un nuovo modo di fare fiction, girando senza copione, con
soltanto un percorso di viaggio da seguire deciso di comune accordo con i tre attori protagonisti,
con lo scopo di raccontare una realtà che altrimenti sarebbe stata impossibile da ridurre ai tempi
filmici.
La finzione o etno-finzione, come Rouch la definisce, diventa qui il mezzo per affrontare e
raccontare il reale.
Ma a questo punto ci si potrebbe chiedere se è davvero possibile una vera collaborazione fra
soggetti che stanno comunque vivendo una relazione asimmetrica, dato che nonostante tutto Rouch
è sempre stato un bianco colonizzatore mentre i suoi attori i colonizzati.
In seconda istanza, è lecito porsi il problema di quanto gli attori “guadagnassero” da un rapporto
così stretto con un bianco, almeno da un punto di vista sociale e simbolico.
In effetti, nei lavori di Jean Rouch i soggetti filmati hanno acquisito ruoli sempre più importanti
fino ad arrivare, negli anni '70, ad essere veri e propri autori di film etnografici.
La globalizzazione ha comportato una spinta al dialogo, rendendo sempre più necessario lo sviluppo
di linguaggi che consentano il confronto tra culture e aiutino nello stesso tempo a ridefinire la
propria identità.
Anche coloro che un tempo erano relegati al solo ruolo di soggetti filmati o addirittura di spettatori
divengono produttori, registi ed operatori.
Lo sviluppo delle nuove strumentazioni audiovisive si è trovato a coincidere con il movimento di
decolonizzazione degli anni '60, quando antropologi/filmmakers hanno in parte ceduto i loro
strumenti a coloro che avevano fino ad allora filmato.
I modelli della comunicazione utilizzati dai nativi vanno dalle produzioni documentarie, fino alle
sortite nel campo della ricostruzione storica e del giornalismo televisivo.
Le produzioni spesso espongono problemi di carattere sociale, il film diventa quasi un elemento di
lotta nei confronti del potere dominante, uno strumento utilizzato per rivolgersi ad un pubblico il
più vasto possibile. La videocamera offre alle culture native un potente mezzo espressivo,
svincolato dai poteri dominanti dei media e delle istituzioni governative.
Le comunità native, attraverso le produzioni cinematografiche cercano di preservare la propria
cultura, sempre più contaminata, usano il film come forma di autopromozione rivolta ad un
pubblico occidentale, cercando contemporaneamente di catalizzare l'attenzione delle società

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nazionali ed internazionali verso la situazione dei diritti delle minoranze.


Inoltre possono usufruire dei filmati come mezzo di scambio di informazioni tra diversi gruppi
indigeni.
È cosi che le popolazioni indigene smettono di configurarsi e rappresentarsi come l'Occidente,
inizialmente dei colonizzatori e dei missionari ed oggi dei media, ha inscenato per loro, riuscendo
così ad uscire da questa realtà tanto imposta quanto fittizia.

Capitolo 6. Poetiche del film etnografico


I modelli teorici dei film etnografici sono caratterizzati da tre poetiche: oggettivanti, soggettivate ed
enattive.
Le prime sono quelle proprie di autori che hanno messo in rilievo la forza riproduttiva delle
immagini e di conseguenza la necessità di occultare il filmmaker dal processo di realizzazione del
film, così da poter evitare una modifica della realtà dovuta alla sua presenza.
Si possono includere nel campo delle poetiche oggettivanti tutte le opere prodotte in quel particolare
periodo storico in cui si credeva di dover dare valore scientifico al film etnografico.
Alle poetiche soggettivate invece si possono ascrivere tutti i lavori in cui si va oltre la registrazione
e la documentazione, quando il film smette di essere uno strumento che può solo mostrare e
comincia ad essere uno strumento che deve anche interpretare.
Il filmmaker non deve più nascondersi, al contrario si rende visibile, diventando portatore di un
punto di vista, commentando con la voce.
Il fatto di essere “visibile”, presente solo con la voce, crea nello spettatore l'illusione di vivere il
film in prima persona. Chi guarda è ora in primo piano al posto del soggetto filmato.
Un ulteriore spostamento di focus si ha nel modello delle poetiche enattive, nelle quali in primo
piano si ha la partecipazione, l'esplorazione del Sé e dell'Altro, la relazione fra soggetto e oggetto.
Rouch fu uno dei primi a stabilire come la presenza del filmmaker e della macchina da presa
producano gli eventi, in modo tale che il filmmaker stesso possa vedere le sue teorie modificarsi sul
set/campo.
Colui che filma e colui che è filmato cominciano a far parte di uno stesso campo di forze modificato
da qualsiasi movimento dell'uno o dell'altro, ciascuno dei soggetti e la relazione che li lega sono
quindi costantemente in “movimento”, in trasformazione.
Il film è il luogo in cui avviene questo incontro, in cui si supera la soglia tra chi filma e chi è filmato
e di conseguenza è allo stesso tempo il luogo in cui si sviluppa una conoscenza reciproca e di se
stessi. Il film diventa interazione, luogo in cui si produce una realtà.
La realtà non è più assoluta ma è ciò che accade nel momento in cui il regista comincia a filmare,
ciò che Fabietti chiama serendipity, un'antropologia del fiuto e del caso.
Questi tre tipi di poetica nella pratica si contaminano e sarebbe sbagliato collocarli in una specie di
percorso evolutivo in cui ciascuno di essi perfeziona il precedente, se è vero che in realtà ogni
modello risponde a obiettivi specifici dettati da esigenze storiche.

Un quarto possibile modello che potrebbe nascere dalla necessità di dover sostenere una densità
culturale che oggi si riconosce alle società e dalla voglia di inserire nel film tutte le informazioni
possibili senza appesantirlo è quello che si potrebbe chiamare “poetica dell'ipermedialità”.
Oggi infatti tutte le informazioni sui protagonisti del film, sul contesto in cui il film è stato prodotto,
sui primi contatti con i soggetti filmati vengono scartate per una questione di durata del film che
sarebbe altrimenti eccessiva.
Secondo alcuni autori combinare più tecnologie potrebbe essere un modo per ovviare a problemi di
questo genere: quando si parla di ipermedialità si intende infatti la necessità di utilizzare più
supporti per presentare i documenti.
Il fruitore, a seconda dei suoi interessi, potrà scegliere il percorso di navigazione all'interno del

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“testo”, non ci saranno infatti inizi o finali già prestabiliti, tutto sarà “aperto”.
Ovviamente l'ipermedialità non è uno sviluppo del film; sarebbe però interessante far dialogare i
due media tenendo sempre conto che anche in questo caso quella che si presenta non sarà mai una
copia integrale della realtà bensì un'interpretazione della realtà stessa.
I lavori prodotti tenendo presente una determinata poetica non saranno più antropologici di altri, per
ciascun tipo di poetica il film infatti potrà essere considerato etnografico se detiene alcune
particolari caratteristiche.
Secondo la prospettiva oggettivante un film è etnografico se è “puro”, se non è contaminato dalla
soggettività del filmmaker, perché solo così potrà fornire informazioni scientifiche.
Le poetiche soggettivate invece considerano etnografico un film quando contiene i crismi di uno
studio antropologico e quando l'autore palesa il suo metodo.
Come scrive Rollwagen: «Coloro che non sono antropologi non possono fare film antropologici,
perché non hanno il quadro concettuale necessario a trattare il soggetto in modo che sia illuminato
dalla teoria antropologica».
Secondo le poetiche enattive il film stesso deve essere un'esperienza per i soggetti filmati e il
filmmaker e lo strumento grazie al quale entrambi comprendono se stessi e la propria cultura; il
metodo è flessibile, continuamente in discussione, si muove e riduce la differenza di potere fra il sé
e l'altro, smettendo di cercare le differenze per analizzare invece le contaminazioni.
Non è sufficiente l'intenzionalità dell'autore per far si che il suo film venga percepito come
veramente etnografico, antropologico, ma occorre anche che lo spettatore lo accetti come tale.
Il filmmaker può usare delle strategie grazie alle quali il film può sembrare “scientifico”, questi
segnali possono essere di diverso tipo: testuali o extratestuali.
Ascrivibile al primo tipo è, per esempio, la voce dell'antropologo fuori campo che ogni tanto spiega
con tono neutro alcune scene (la cosiddetta “voce di Dio”), mentre al secondo la scelta di proiettare
il film in determinati festival o la scelta di trailer e copertina.
Detto questo, non bisogna dimenticare che ciò che è considerato etnografico cambia a seconda del
contesto culturale e storico in cui quella categoria viene utilizzata.

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