Sei sulla pagina 1di 26

ItaliaCINEMATOGRAFIA

Dalle origini agli anni Venti del Novecento

Durante le feste di Pasqua del 1897 un fotografo francese, Henri Le Lieure, aprì con il
socio italiano Luigi Topi una sala di proiezioni a Roma, avviando così, dopo le prime
proiezioni avvenute l'anno precedente a Milano e Torino, la diffusione del cinema in
Italia. Nel volgere di pochi anni numerosi produttori diedero inizio a una vera e
propria attività cinematografica; tra questi, a Torino, Rinaldo Arturo Ambrosio
(v. film ambrosio) che, dopo alcune riprese dal vero della corsa automobilistica Susa-
Moncenisio girate con l'operatore Roberto Omegna, produsse, a partire dal 1906, film
comici e drammatici che avrebbero riscosso grande successo anche all'estero. Ma
Torino, con l'altra importante casa di produzione, la Film artistica 'Gloria', fu solo una
delle capitali del nascente cinema italiano: c'era infatti Roma, dove alla Film
Ambrosio faceva concorrenza la Cines di Filoteo Alberini e Dante Santoni, che
debuttarono nel 1905 dirigendo La presa di Roma, imponente ricostruzione degli
avvenimenti del 1870, forse il primo film italiano a soggetto; c'era Milano, dove Luca
Comerio aprì i suoi stabilimenti alla Bovisa, seppur per cederli presto a un gruppo di
aristocratici che sarebbero andati incontro a un fallimento con l'ambizioso Excelsior
(1913, diretto dallo stesso Comerio); c'era Napoli, che applaudiva con entusiasmo ‒ e
l'eco doveva arrivare fino a New York ‒ i film di Elvira Notari per la Film Dora,
modellati sulla forma di teatro popolare della canzone sceneggiata. Già nel 1908 uscì
‒ mentre stava per affermarsi anche il genere comico con il personaggio di Cretinetti ‒
un successo internazionale quale Gli ultimi giorni di Pompei, prodotto da Ambrosio
per la regia di Luigi Maggi, che anticipò il genere kolossal esibendo grandi
scenografie tridimensionali, masse imponenti, trucchi sofisticati e un'accuratissima
fotografia (l'operatore era ancora Omegna, il maggiore dell'epoca, con Giovanni
Vitrotti e Comerio). Da quel momento ebbe grande sviluppo la produzione di film
storici ispirati a vicende di epoche remote o del Risorgimento, tratti con onnivora
indifferenza da romanzi d'avventura e opere classiche: Omero (L'Odissea, 1911, di
Francesco Bertolini e Adolfo Padovan), Dante (L'Inferno, 1911, di Padovan, Bertolini
e Giuseppe De Liguoro), T. Tasso, W. Shakespeare, F. Schiller, A. Manzoni, A.
Dumas, E.R. Bulwer-Lytton (ancora con una versione di Gli ultimi giorni di Pompei,
diretta nel 1913 da Eleuterio Rodolfi, della durata di quasi tre ore), H. Sienkiewicz,
che fornì il testo per il Quo vadis? diretto nel 1913 da Enrico Guazzoni, un successo
mondiale che provocò le prime discussioni sul cinema come arte. Ma a compiere il
passo decisivo in tale direzione fu Giovanni Pastrone, grande personaggio del cinema
italiano del tempo. Dopo La caduta di Troia del 1911 Pastrone elaborò un progetto
ancora più ardito, e per Cabiria (1914) chiese la collaborazione di Gabriele
D'Annunzio per la sceneggiatura, costruì imponenti scenografie e, con la
collaborazione di Segundo de Chomón, fece ricorso a movimenti di macchina di
ardita modernità utilizzando sistematicamente l'illuminazione artificiale con intenti
estetici.

Il film colossale, insieme al divismo soprattutto femminile (Francesca Bertini, Lyda


Borelli, Diana Karenne, Italia Almirante Manzini, Dora e Pina Menichelli, Maria e
Diomira Jacobini), ma anche maschile in particolare nei generi (il Maciste di
Bartolomeo Pagano, che debuttò in Cabiria, lo Za la Mort del misterioso Emilio
Ghione), sarebbe stato il punto di forza del cinema italiano fino alla crisi irreversibile
del primo dopoguerra, quando esso fu travolto dalla concorrenza statunitense, dalla
mancanza di idee nuove e dai costi esorbitanti per divi e divine. Tuttavia, nel corso
degli anni Dieci ‒ durante i quali crebbe anche la pubblicistica di settore e nella
produzione svolse un ruolo di un certo rilievo la Film d'arte italiana, filiazione della
Film d'art della Pathé (v. pathé frères) ‒ non mancarono altre opere di grande
suggestione, nell'ambito di un universo ancora in parte da indagare, come Assunta
Spina (1915) di Gustavo Serena, con una notevole Francesca Bertini, a un film di cui
si sono perse le tracce, Sperduti nel buio (1914) di Nino Martoglio e Roberto Danesi,
che rivelano la dominante tendenza realista del cinema italiano, con il ricorso a scene
en plein air; da Rapsodia satanica (1917) di Nino Oxilia a Malombra (1917)
di Carmine Gallone, dove le pose e gli atteggiamenti di Lyda Borelli sono una
preziosa e intelligente antologia di un gusto pittorico che va dal preraffaellismo al
liberty. E ancora un'opera comico-fantastica quale Saturnino Farandola (1913), film in
quattro episodi diretto da Marcel Fabre; melodrammi come Ma l'amor mio non
muore! (1913) di Mario Caserini, che aveva segnato l'esordio nel cinema di Lyda
Borelli; Il fuoco (1915) e Tigre reale (1916) entrambi di Pastrone e con Pina
Menichelli; Mariute (1918) di Edoardo Bencivenga; l'unica, ma assai intensa, prova
cinematografica di Eleonora Duse, Cenere (1917) di Febo Mari e Arturo Ambrosio Jr;
fino a La serpe (1920) di Roberto Roberti. Un cinema in apparenza più di attori che di
autori, eppure non certo privo di interessanti personalità, se si considerano, oltre i
citati, anche i casi di R. Omegna con il documentario La vita delle farfalle (1911) e di
un altro documentarista come L. Comerio, fino ai primi film di Augusto Genina che
già denotavano la competenza e il nitore figurativo evidenti nei suoi lavori più noti
degli anni Trenta e Quaranta. Una macchina, quella del cinema, da cui tutti
sembravano essere attratti: i futuristi in prima linea (v. futurismo), con tanto di
apposito manifesto, La cinematografia futurista (1916), con alcuni cortometraggi dei
fratelli Corradini, in arte rispettivamente Bruno Corra e Arnaldo Ginna, e anche con
un'opera, esterna al gruppo del manifesto ma nata in seno a umori futuristi quale Thaïs
(1917) di Anton Giulio Bragaglia, con scene e costumi di Enrico Prampolini.

Il sonoro e gli anni della guerra

La crisi, dunque, arrivò all'inizio degli anni Venti. Ma alla fine del nuovo decennio
s'impose l'arrivo del film sonoro ‒ con La canzone dell'amore (1930) di Gennaro
Righelli ‒ e le sale tornarono a riempirsi anche per le numerose proiezioni di The jazz
singer (1927; Il cantante di jazz) di Alan Crosland, che causò sulla terza pagina del
"Corriere della sera" un'accesa polemica pro o contro il sonoro, con articoli, tra gli
altri, di O. Vergani e di S. Pittaluga. La politica protezionistica del fascismo
incoraggiò la produzione e se nel 1931 G. Bottai presentò una legge sulla
cinematografia, l'anno precedente erano stati inaugurati i nuovi padiglioni sonori della
Cines. Nel 1933 iniziò l'attività la Titanus di Goffredo Lombardo, l'anno dopo
Giovacchino Forzano si costruì un suo regno privato negli Stabilimenti di Tirrenia e
Riccardo Gualino fondò la Compagnia italiana cinematografica Lux (v. lux film); poi
vennero fondate altre società (Manenti film, Scalera film, Rizzoli e C., G. Amato),
finché nel 1937 nacque Cinecittà (v.), sede confacente a esprimere le manie di
grandezza del regime, per es. con Scipione l'Africano (1937) di Gallone. Il numero dei
film realizzati crebbe ogni anno e i contatti con le cinematografie internazionali
vennero assicurati a partire dal 1932 con la prima Mostra internazionale d'arte
cinematografica di Venezia, mentre i corsi del Centro sperimentale di cinematografia,
fondato nel 1932, provvidero a preparare le nuove leve, e i cinegiornali Luce
(v. cinegiornale e istituto nazionale l.u.c.e.), iniziati nel 1927, amplificarono con il
sonoro la figura di B. Mussolini e la retorica propagandistica. I film a soggetto
variavano dalla commedia al melodramma, al film d'avventura, e nel suo insieme
quello del ventennio fascista fu un cinema più bianco che nero, vista la predominanza
delle cosiddette commedie dei 'telefoni bianchi' sui film di aperta propaganda quali
Camicia nera di Forzano (1933), Vecchia guardia di Alessandro Blasetti (1935) o Il
grande appello di Mario Camerini (1936). Forse solo in Condottieri (1937) di Luis
Trenker si respira, come osservato da F. Savio, un fascismo teutone e un'inquietudine
mortale. Certo, nel finale di quel film straordinario che è Rotaie (1930) diretto da
Camerini i due ragazzi protagonisti abbandonano i saloni e le terrazze degli alberghi
rivieraschi non già per tornare, come all'inizio, nel loro grigio mondo crepuscolare da
Kammerspiel, ma per dirigersi verso una fabbrica e un modesto quartiere periferico
dal sapore vagamente autarchico e mussoliniano; proprio come in Terra madre (1931)
di Blasetti, dove il giovane duca Marco preferisce la sana vita rurale alle pericolose
conseguenze dell'urbanesimo, e nel notevole La tavola dei poveri (1932, da e con
Raffaele Viviani), ancora Blasetti indica nella vigorosa produttività dell'industria
italica un'alternativa alla decadenza dell'aristocrazia e al furbesco cinismo dei
sottoproletari (un ruolo analogamente positivo, come del resto nel testo originario di
G. Giacosa, ebbe l'onesto e laborioso Massimo rispetto alla frivola famiglia Rosani in
Come le foglie, 1935, di Camerini). Ma, in questi e in altri casi, si tratta di un generico
e benpensante atteggiamento borghese, verso il quale si indirizzarono anche registi più
'allineati' come Goffredo Alessandrini oppure come Genina, che al rimario delle
avventure nel deserto o nel fortino assediato del West ricondusse, rispettivamente, le
vicende ispano-franchiste di L'assedio dell'Alcazar (1940) e quelle coloniali di
Bengasi (1942).

Sarebbe comunque ingiusto ridurre al solo livello di registi di regime Blasetti e


Camerini. Se il primo poté risultare gradito al regime per l'affresco risorgimentale di
1860 (1934) ‒ ricco di belle immagini en plein air di gusto 'sovietico' e di un riuscito
plurilinguismo verbale ‒e per le gremite coreografie pseudostoriche di Palio (1932), di
Ettore Fieramosca (1938) e del felicissimo Un'avventura di Salvator Rosa (1939; ma
già il delirio kitsch di La corona di ferro, 1941, appare intriso di un pacifismo sospetto
ancorché generico e confuso), Camerini rappresentò un mondo a sé. Da sempre
etichettato, con rigido schematismo, come modesto precursore provinciale e piccolo-
borghese del Neorealismo, egli è stato in realtà, insieme forse solo a Roberto
Rossellini, l'unico regista italiano degli anni a cavallo tra i Trenta e i Quaranta che, sia
pure con una buona dose di sano e scettico empirismo, si sia preoccupato di integrare i
destini individuali in una dimensione che comunque li trascenda, magari a costo di
farli aspirare, insoddisfatti e irrequieti, all'emigrazione in un altro setting e in un altro
film: come l'edicolante Gianni (Vittorio De Sica) di Il signor Max (1937), o Annetta
(Assia Noris) che sogna di essere invitata al ballo dall'altra parte del lago (Una
romantica avventura, 1940). Nonostante queste tensioni interne ‒ ma tutto il cinema
italiano degli anni Trenta, in presaga attesa dell'uscita neorealistica dagli studi,
tendeva a un 'oltre' che all'epoca era solo la falsa Ungheria in stile Mille lire al mese
(1939) di Max Neufeld o il modello irraggiungibile della commedia statunitense ‒ la
tavolozza cameriniana dipinge un mondo perfettamente autosufficiente e nettamente
delineato.

Fra il 1939 e il 1944 il cinema italiano appare segnato dal debutto registico di Vittorio
De Sica, inizialmente garbato e timido ma presto, grazie anche all'incontro con Cesare
Zavattini, commosso e deciso in I bambini ci guardano (1944). Poteva contare sulle
commedie malinconiche e sui melodrammi eleganti e intelligenti, di grande gusto
figurativo, di Ferdinando Maria Poggioli e sulla robusta prosa di Amleto Palermi,
rafforzata nel caso di La peccatrice (1940) dagli apporti di Umberto Barbaro e Luigi
Chiarini e dall'atmosfera di fronda del Centro sperimentale di cinematografia; sulla
padronanza del mezzo cinematografico espressa in Fari nella nebbia (1942) di Gianni
Franciolini. Persino i modesti film sentimentali e di routine di Mario Mattoli appaiono
costruiti con grande cura (Luce nelle tenebre, 1941; Labbra serrate, 1942), e i divi
autarchici italiani, o alcuni fra questi (Alida Valli, Assia Noris, Isa Miranda, Massimo
Girotti, Osvaldo Valenti, Fosco Giachetti, Amedeo Nazzari, Clara Calamai),
acquistavano un alone suggestivo, lasciando intravedere qualità e risonanze fino ad
allora insospettate. E c'era anche e soprattutto il filone calligrafico del film in
costume, la 'bella forma', tanto vituperata dalla giovane critica dell'epoca ‒ impegnata
nelle pre-neorealistiche battaglie per un cinema più attuale e più vivo ‒ ma più tardi
giustamente recuperata nel suo fascino non solo esteriore, nelle sue scelte non solo
evasive.

Di fronte ai risultati più compiuti di questa tendenza (che vide in prima linea gli
esordienti Alberto Lattuada e Renato Castellani, il Mario Soldati delle incursioni
fogazzariane, per certi aspetti anche Poggioli, Chiarini e lo stesso Camerini), non
basta nemmeno parlare di scelta elitaria, di aristocratico distacco dall'esaurimento dei
generi dominanti e dagli slogan sempre più scopertamente vacui del fascismo
declinante: i paesaggi lombardi di Piccolo mondo antico (1941) di Soldati e di
Giacomo l'idealista (1943) di Lattuada, la sonnolenta e oppressiva atmosfera di La
bella addormentata (1942) di Chiarini, il café chantant provinciale di Zazà (1944) di
Castellani, amorosamente e ironicamente filtrato attraverso gli echi del cinema di
Josef von Sternberg, non sono solo cornici o pretesti per eleganti confezioni di
drammi esangui e uniformi, anche se di per sé testimoniano l'ammirevole livello
professionale di operatori, scenografi, costumisti e tecnici. Si avvertiva qualcosa di
diverso: per es., in quella grande festa visiva e sonora che è la merenda sull'erba di Un
colpo di pistola (1942) di Castellani non si assiste a un esercizio calligrafico aulico e
compiacente, bensì al rifiuto nevrotico di immagini troppo belle, dolorose e
ingannevoli, accumulate con frenesia e poi carezzate con struggimento e subito
allontanate. Così come la follia di Marina (Isa Miranda), le candele che stridono e
oscillano nel vento, l'imbarazzo degli invitati e degli astanti nella scena finale di
Malombra (1942) di M. Soldati fanno crescere una tensione difficilmente sostenibile.
Forse dipende dalla consapevolezza delle grandi tragedie della storia, che ben presto
avrebbero guastato una volta per tutte quelle cene sulle verande e quelle merende sui
prati, ma è certo che sulle luci, le musiche e i profumi di quel cinema impalpabile si
era diffuso, sottile e contagioso, un velo di tristezza, un senso di nevrosi e di
precarietà.

La variegata stagione del Neorealismo

Nonostante il duro clima bellico, i primi anni Quaranta videro ugualmente lo sviluppo
di un dibattito artistico e culturale, che proseguiva quelli del decennio precedente e
all'inizio del quale era stato usato il termine Neorealismo (v.)

Un critico autorevole quale G.C. Castello (Il Neorealismo cinematografico italiano,


1954) stabilì nel 1945 e con il film Roma città aperta di Roberto Rossellini la data
d'inizio del Neorealismo, precisando tuttavia che esistevano alcuni precedenti del
movimento, individuati, in rigoroso ordine cronologico, nei film Sperduti nel buio
(1914) di Nino Martoglio e Roberto Danesi, 1860 di Blasetti, e Uomini sul fondo
(1941) di Francesco De Robertis, fino a rintracciare in tre opere dei primi anni
Quaranta gli antecedenti più immediati: Quattro passi tra le nuvole (1942) di Blasetti,
I bambini ci guardano di V. De Sica e Ossessione (1943), l'opera prima di Luchino
Visconti. Nomi che, come ha sostenuto Paul Virilio (I tanti padri del Neorealismo, in
"L'illustrazione italiana", n.s., marzo 1986, 28, pp. 98-104), si possono definire i tanti
padri del Neorealismo, anche se lo studioso francese ha ritenuto di individuare tali
padri soprattutto nel cinedocumento della Prima guerra mondiale e nella figura di L.
Comerio, che definisce "il padre spirituale del Neorealismo", con particolare
riferimento a Paisà (1946) di Rossellini. Una tesi suggestiva, che pone l'accento sulla
valenza documentaristica che lo sguardo sulla realtà di questi registi contiene e che in
Paisà combina scene recitate con immagini documentarie. Ma una visione nuova della
realtà è già presente nel Visconti di Ossessione, ardito nella scelta e nel disegno di
personaggi, ambienti e situazioni ispirati al modello del melodramma ottocentesco.

Un'attenzione a dettagli d'ambiente e a personaggi comuni riservò il Blasetti di


Quattro passi tra le nuvole, importante anche per la presenza, come soggettista e
sceneggiatore, di Zavattini, vero e proprio nume della stagione neorealista, che avviò
con questo film la sua grande stagione cinematografica, proseguita poi con la
sceneggiatura di I bambini ci guardano, inizio della proficua collaborazione con De
Sica. Con la fine della guerra il Neorealismo, entrato nella sua fase centrale con Roma
città aperta, presentò alcuni degli aspetti principali di questa tendenza: la predilezione
per le riprese en plein air, l'impiego di attori generalmente non professionisti, la
collaborazione di gruppo alla sceneggiatura e, soprattutto, l'attenzione alla cronaca e
alla Storia. Roma città aperta uscì nell'anno della Liberazione (1945) e porta i segni
del tragico della Storia ‒ così come Paisà e Germania anno zero (1948) ‒ in scene
rimaste commoventi e di grande intensità. La pratica del documentario, consueta già
in Rossellini (Il ruscello di Ripasottile e La nave bianca, entrambi girati nel 1941),
venne perseguita anche da Michelangelo Antonioni, che nel 1943 iniziò le riprese di
un cortometraggio concluso solo nel 1947, Gente del Po, descrizione della misera vita
dei pescatori padani. Le tappe di avvicinamento al suo primo lungometraggio di
finzione proseguirono con N.U. (Nettezza urbana) (1948) e con il 'film nel film'
L'amorosa menzogna (1949); ma nel frattempo Antonioni fu anche sceneggiatore
nell'esordio di Giuseppe De Santis, Caccia tragica (1947), dove questi rivelò
un'attenzione al paesaggio e alla sua funzione nello sviluppo dell'azione, nonché
l'influenza di generi quali il western e il gangster film. Nel clima neorealistico G. De
Santis fu forse il regista allo stesso tempo più nazional-popolare e più direttamente
influenzato dalle suggestioni cinefile, come appare anche in Riso amaro (1949),
importante viatico per le future star Silvana Mangano e Vittorio Gassman, storia di
amore e morte, memore dei grandi scenari western; con Non c'è pace tra gli ulivi
(1950), dramma di ambiente pastorale, e con quel notevole intreccio di storie
personali, ispirato a una cronaca drammatica del tempo, di Roma ore 11 (1952). Tra
un impianto neorealistico e canoni del film poliziesco e del melodramma, si collocò Il
bandito (1946) di Lattuada, architetto e, soprattutto, ottimo fotografo, mentre
Castellani in Mio figlio professore (1946) sembrò attenuare i suoi raffinati stilemi per
una commedia d'ambiente popolare, densa di umori teneri e malinconici. Alla
commedia satirica e, talvolta, dotata di un pungente sguardo nel sociale, si rivolse
Luigi Zampa, in opere quali Vivere in pace (1947), Anni difficili (1948), scritto con
Vitaliano Brancati, e L'onorevole Angelina (1947), che offrì alla più grande delle
attrici italiane, Anna Magnani, uno dei ruoli più famosi. A Napoli e con la
partecipazione di molti bambini (gli scugnizzi) Luigi Comencini girò la sua opera
prima, Proibito rubare (1948), che con il cortometraggio documentario Bambini in
città (1946) rivelò una capacità non comune, poi mantenuta, nel raccontare i
sentimenti e le inquietudini del mondo dell'infanzia.

Attraverso il Neorealismo

Se possono esservi, come si è visto, molti padri per il Neorealismo, vi sono anche
molte e variegate opere che nell'I. del secondo dopoguerra portarono alla ribalta
registi che si erano formati in questo humus. Tanto che si può parlare di 'opere
neorealiste', ovvero film che si identificano in gran parte con un certo progetto estetico
ed etico, e di 'film del Neorealismo', opere sostanzialmente estranee a quel progetto,
ma da esso variamente toccate e contaminate, a dimostrazione della sua ampiezza e
della sua forza d'influenza sul cinema italiano del dopoguerra. Ecco allora, entro la
varietà delle proposte, film d'ambiente partigiano come Il sole sorge ancora (1946) di
Aldo Vergano o Un giorno nella vita (1946) di Blasetti e Due lettere anonime (1945)
di Camerini; un'opera dai toni surrealisti come Roma città libera (1946) di Marcello
Pagliero; altre di ambiente popolare come il dittico Abbasso la miseria! (1945) e
Abbasso la ricchezza! (1946) di Gennaro Righelli; il dramma rurale di Genina su
Maria Goretti, Cielo sulla palude (1949), che si avvalse della fotografia di G.R. Aldo,
il più celebre degli operatori legati alla stagione neorealista; il melodramma musicale
O sole mio (1946) di Giacomo Gentilomo con Tito Gobbi, lo stesso che ripropose
Tosca nella Roma occupata (Avanti a lui tremava tutta Roma, 1946, di Gallone); il
documentario a più mani sulla Resistenza Giorni di gloria (1945); uno splendido 'noir'
quale Fuga in Francia (1948) di Soldati. E, nell'ambito di una logica di dialogo stretto
tra i generi, avvenne l'esordio di Pietro Germi, con i toni western e d'azione di In
nome della legge (1949), quelli, memori di Grapes of wrath (1940) di John Ford, di Il
cammino della speranza (1950), e con il poliziesco La città si difende (1951). Forse lo
spirito più puro del Neorealismo è espresso, oltre che da Rossellini, dai primi film del
binomio De Sica-Zavattini, dove la teoria zavattiniana della 'distrazione involontaria'
della macchina da presa, che coglie aspetti del reale solo in apparenza marginali, e lo
sguardo apparentemente non mediato di De Sica crearono opere quali Sciuscià (1946)
e Ladri di biciclette (1948), espressione, per dirla con André Bazin di una
"fenomenologia della storia" (Qu'est-ce que le cinéma, 4. Une esthétique de la réalité:
le néo-réalisme, 1962; trad. it. parz. 1973, p. 311), rispetto alla quale il successivo
film-fiaba Miracolo a Milano (1951) mise in risalto la vena favolistica e surreale dello
sceneggiatore. Nello stesso anno di Ladri di biciclette uscì anche un altro grande film
di Visconti, la sua opera seconda La terra trema, forse quella più legata allo spirito del
Neorealismo grazie alla scelta di un soggetto ispirato ai Malavoglia verghiani e all'uso
del dialetto, ma entro una concezione e un gusto plastico-pittorico dell'immagine che
ha pochi eguali nella storia del cinema. Sul finire degli anni Quaranta la stagione
neorealista in senso proprio tuttavia sembrò chiudersi, anche se, almeno dal punto di
vista della fabula, un film come Sotto il sole di Roma (1948) di Castellani ‒ con la
Roma di borgata durante l'occupazione tedesca ‒ appare a metà strada tra Neorealismo
e commedia degli anni Cinquanta, gettando le basi del cosiddetto neorealismo rosa;
mentre nel 1952 lo stesso regista firmava un'opera di robusta vena populistica come
Due soldi di speranza, il cui spirito picaresco evoca il Il novellino, ma anche Lo cunto
de li cunti di G.B. Basile.

Gli anni Cinquanta. Generi e autori

La commedia, dopo la grande stagione cameriniana degli anni Trenta e alcuni sparsi
esempi neorealistici, tornò con forza all'inizio degli anni Cinquanta con Luciano
Emmer, già autore di rilevanti film sulla storia dell'arte, che con Una domenica
d'agosto (1950) disegnò il vivace ritratto di un variegato gruppo di romani in gita a
Ostia, su soggetto dell'abituale collaboratore di Rossellini, Sergio Amidei. Un'opera
che delinea un certo gusto del bozzetto, non necessariamente da intendere in senso
negativo, seppur di non grande respiro, un gusto che Emmer rivelò anche in Le
ragazze di piazza di Spagna (1952), nel quale la voce narrante di Giorgio Bassani ‒
che interpreta il ruolo di un professore ‒ scandisce le vicende, intrise di delicata
malinconia, di tre giovani lavoranti di sartoria. Era questo il periodo del neorealismo
rosa, anche se proprio all'inizio del decennio De Sica firmò un altro capolavoro nel
suo stile, un film teso e spoglio, a tratti crudele, Umberto D. (1952). Intanto nel 1951
Visconti aveva girato Bellissima, uno dei vertici del cinema italiano, che segnò un
importante cambiamento; nel cast appare Anna Magnani, ne è sceneggiatore C.
Zavattini e Visconti ambienta il racconto nello stesso mondo del cinema e traccia con
grande acume e crudeltà il rapporto tra questo mondo e quello popolare
('neorealistico'), attraverso l'iniziale e ironico contrappunto dell'Elisir d'amore di G.
Donizetti. In quegli anni esordirono Antonioni e Federico Fellini, i quali, neorealisti o
meno, introdussero elementi del tutto nuovi nel panorama italiano. Esordi inizialmente
non molto fortunati, pur con opere che restano tra le loro migliori (Cronaca di un
amore, 1950, e La signora senza camelie, 1953, per Antonioni; Luci del varietà, 1950,
e Lo sceicco bianco, 1952, per Fellini, ma il primo codiretto da Lattuada), analoghi sia
nella diversità dell'approccio al mezzo cinematografico sia nella visione del mondo.
Da un lato gli spazi spogli e gli interni magari eleganti ma diacci di Antonioni, ove i
personaggi sono seguiti, nel loro disagio, con inquadrature lunghe e geometriche e
immagini che richiamano parte della grande pittura contemporanea (da G. Morandi a
P. Mondrian, da J. Pollock a M. Rothko); dall'altro il gran teatro barocco del mondo
felliniano, pieno di figure e figurine da circo o da cartoons in perenne agitazione,
continuamente immerse in uno spazio sospeso tra realtà e sogno. Entrambi, tuttavia,
provengono dalla provincia (Ferrara e Rimini), spezzano la mera dicotomia città-
campagna che, tranne Ossessione, il Neorealismo aveva mutuato dal cinema del
fascismo, e propongono, in particolare Fellini, uno sguardo inedito sul rapporto fra
provincia e grande città (le sequenze magistrali di Ferrara e quelle di Milano in
Cronaca di un amore, la Vibo Valentia da cui provengono gli sposini di Lo sceicco
bianco e la dialettica Rimini-Roma in Fellini, da I vitelloni, 1953, in avanti).

Accanto ai due principali esordi del decennio fu dunque la commedia a ritrovare un


certo smalto e a proporre la più grande maschera del cinema italiano, Totò. La sua
impronta ha lasciato un segno indelebile in tutti i film che ha interpretato, nella
combinazione, talvolta, di registro comico e registro drammatico, da Napoli
milionaria (1950) di Eduardo De Filippo, a Guardie e ladri (1951) di Steno e Mario
Monicelli, da Dov'è la libertà…? (1954) di Rossellini a I soliti ignoti (1958) di
Monicelli. Aristocratico e plebeo, erede dell'Atellana e della Commedia dell'arte,
Pulcinella moderno e antico, Totò rifulge ancor più nella sua grandezza in canovacci
più o meno organizzati come l'irresistibile Totò a colori (1952) di Steno e Monicelli o
in commedie di artigiani, dai meccanismi ben calibrati e surreali, quali Totò, Peppino
e… la malafemmina (1956) di Camillo Mastrocinque, dove è affiancato da un altro
comico straordinario quale Peppino De Filippo. È la punta di un iceberg, o di un parco
d'attori che nella commedia o nel film drammatico trovavano sempre più spazio,
da Alberto Sordi a Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi e Marcello Mastroianni, alle
bellezze emerse dai concorsi di miss Italia, per prime Lucia Bosè e Silvana Mangano,
ma anche Marisa Allasio, Eleonora Rossi Drago, Gianna Maria Canale, Anna Maria
Ferrero, Yvonne Sanson, Gina Lollobrigida, Sofia Loren, e altre glorie nazionali
ancora in felice e più o meno costante attività (Alida Valli, Isa Miranda, Clara
Calamai e, naturalmente, Anna Magnani).

Fu soprattutto negli anni Cinquanta che in I. si manifestarono da un lato il lancio di


nuovi attori e dall'altro la proposta di un cinema popolare, segnato nella commedia da
titoli quali Poveri, ma belli (1957) di Dino Risi e che in un altro genere, il
melodramma, vide le opere, talora un po' involute e non immuni da effettoni
strappalacrime, e tuttavia dotate di un robusto impianto narrativo e di un legame con
la buona letteratura d'appendice, di Raffaello Matarazzo, già autore negli anni Trenta
di un bel film quale Treno popolare (1933), seguito, tra gli altri, da Catene (1949),
Tormento (1950), I figli di nessuno (1951), Vortice (1953), Guai ai vinti! (1954) e
Angelo bianco (1955). Dentro la logica dei generi si mossero Pietro Francisci (Le
fatiche di Ercole, 1958) e Riccardo Freda, esordiente negli anni Quaranta con opere di
valore quali Don Cesare di Bazan (1942) e I miserabili (1948), e che si mantenne
fedele negli anni Cinquanta a un cinema altamente spettacolare, ricco di un ottimo
senso del ritmo e di doti figurative (Teodora, 1954; Beatrice Cenci, 1956; I vampiri,
1957). Qualità che si riscontrano anche in alcuni film di Soldati (La provinciale, 1953;
La mano dello straniero, 1954), peraltro assai suggestivi nella loro densità narrativa e
visiva. E ancor più nei film diretti da Vittorio Cottafavi, anch'egli a proprio agio nella
varietà e nel trattamento dei generi: da Traviata '53 (1953), immissione della
tradizione melodrammatica in un racconto e in uno stile visivo tersi e quasi straniati, a
Una donna libera (1954), bel ritratto di una giovane inquieta e altro esempio di
melodramma 'freddo'.

Lo spettacolo dilaga nei film di Freda, ma anche in quelli, poetici e melanconici, di


Fellini (La strada, 1954; Le notti di Cabiria, 1957), e nel primo film a colori diretto da
Visconti, Senso (1954), dove il teatro e l'opera lirica, la pittura e la Storia s'intrecciano
in sequenze di straordinaria bellezza. Estraneo a queste suggestioni appare invece
Rossellini, peraltro autore nello stesso periodo di alcuni dei suoi film più belli
(Stromboli, 1950; Francesco giullare di Dio, 1950; Europa '51, 1952; Viaggio in
Italia, 1954), di un rigore e di un'asciutta drammaticità di cui forse solo Carl Theodor
Dreyer e pochi altri nella storia del cinema sono stati capaci. Opere che imprigionano,
un po' come in Antonioni, i personaggi nello spazio (la prigione, l'isola o il
manicomio), anche se poi, con Viaggio in Italia, culmine della ricorrente presenza di
Ingrid Bergman, invano i protagonisti potranno lasciar fuori dal quadro una realtà
mediterranea di canzonette, miseria, donne incinte e, soprattutto, di morte e di
museificazione: lo 'spettacolo' del viaggio in I. si prende una rivincita sul film che lo
contiene. Tra commedie, melodrammi e opere d'autore, il cinema di quegli anni offrì
anche un significativo spaccato del Belpaese, spesso reso con grande acume nella
forma del documentario, cui fecero ricorso molti registi, da Florestano Vancini (Delta
padano, 1951) a D. Risi, da Vittorio De Seta (Isole di fuoco, 1955) a Luigi Di Gianni,
da Gianfranco Mingozzi a Michele Gandin, da Francesco Pasinetti a molti altri,
compresi i registi più celebri di quegli anni e dei successivi.

E se il decennio in questione si era aperto anche con un'attenta ricostruzione di un


episodio della Resistenza, Achtung! Banditi! (1951) di Carlo Lizzani, in seguito
passato al quadro intimistico di Cronache di poveri amanti (1954), esso si avviò alla
conclusione con lo choc del suicidio dell'operaio di Il grido (1957) diretto da
Antonioni, uno degli esiti più alti del cinema italiano, ove lo spazio è ancor più
spoglio e angosciante del solito, e senza confini. Per giungere, in fase conclusiva al
volger del decennio, a un bel dramma sospeso tra cronaca intimistica e contesto
storico (il 1943), quale Estate violenta (1959) di Valerio Zurlini, e a un intenso e
desolato sguardo sulla vita di borgata quale La notte brava (1959) di Mauro
Bolognini, ispirato a un romanzo (Ragazzi di vita) di uno scrittore e poeta già
importante, che lo sceneggiò, Pier Paolo Pasolini.

Gli anni Sessanta, un periodo aureo

Fu proprio lo scrittore e poeta, di nascita bolognese e di formazione friulana, l'autore


nuovo più importante espresso dal decennio della 'dolce vita' e del boom economico,
delle canzonette e della contestazione, dei viaggi difficili dal Sud al Nord e del
primato (ancora non assoluto) della città sulla campagna. Fu il decennio più vivace, al
di là di ogni facile agiografia, sul piano artistico e culturale, nonché politico; quello in
cui il numero di opere cinematografiche prodotte aumentò in modo considerevole e
così quello degli spettatori. Una vera e propria età dell'oro del cinema italiano, come
l'ha definita un attento studioso quale P. Bondanella (1983), ricca di molteplici e
significativi esordi, a cominciare da quello dello stesso Pasolini. Privo di un'effettiva
esperienza tecnica, egli rivelò subito una grande affinità con la scrittura
cinematografica, e con il tragico percorso di un borgataro (Accattone, 1961) trasferì
sullo schermo la sua poesia e la sua prosa, nonché le proprie notevoli doti di
sensibilità e gusto pittorico, alimentate anche dalla scuola di R. Longhi. Scandito dalla
musica di J.S. Bach, Accattone sembra rivelare un'innocenza dello sguardo, una
pressoché totale disponibilità del suo autore verso la materia della rappresentazione. I
volti 'masacceschi' e 'caravaggeschi' dei giovani sottoproletari romani si ritrovano
anche in Mamma Roma (1962), che segnò anche un'altra grande prova di Anna
Magnani, mentre il rapporto tra quel mondo di borgata e miseria e la sua
rappresentazione sullo schermo ‒ e tra questi e la pittura ‒ sono al centro di La ricotta
(1963), episodio interno a un'opera collettanea, RO.GO.PA.G., straordinario esempio
di autoriflessione d'artista, con ricostruzioni in forma di tableaux vivants di opere di
Rosso Fiorentino e Pontormo. Tra i sassi di Matera e la Calabria ionica Pasolini girò Il
Vangelo secondo Matteo (1964), scandito da citazioni pittoriche del Quattrocento
italiano e da frasi messianiche. Intellettuale militante e provocatorio qual era, Pasolini
non poteva non riflettere sulla figura del chierico anche in forma di film; nacque così
Uccellacci e uccellini (1966), il conte philosophique in cui il tragicomico e il grottesco
del mondo sono visti attraverso le figure di Totò e di Ninetto Davoli. A questa 'strana'
coppia Pasolini affidò anche due splendidi cortometraggi, La Terra vista dalla Luna
(episodio del film collettivo Le streghe, 1967) e Che cosa sono le nuvole? (episodio
del film collettivo Capriccio all'italiana, 1968), entrambi fondamentali apologhi sulla
vita e la morte. Infine il regista si avviò verso il declinare del decennio con una
rivisitazione del mito classico, Edipo re (1967).

Con Pasolini mosse i primi passi Bernardo Bertolucci, che da un racconto del suo
'maestro' realizzò La commare secca (1962), spaccato di una Roma sottoproletaria che
tuttavia cerca di staccarsi immediatamente dall'influenza pasoliniana, per es.
preferendo avvolgenti e ripetuti movimenti di macchina alle ricorrenti inquadrature
frontali e ai primi piani del regista di Accattone. Più 'pasoliniano', semmai, risulta il
successivo Prima della rivoluzione (1964), una delle sue opere migliori, film un po'
stendhaliano, analogo a un Bildungsroman. Le nuove generazioni, espressione dei
fermenti degli anni Sessanta, fecero il loro ingresso nel cinema con Bertolucci e
con Marco Bellocchio. Dopo alcuni cortometraggi, questi si impose con
l'iconoclastica analisi, condotta sovente con inquadrature sghembe e stranianti, di un
ambiente familiare borghese di provincia, i cui membri sono affetti, con una sola ma
'mostruosa' eccezione, da vari tipi di tare: I pugni in tasca (1965). Film che rivelò la
propensione al grottesco del primo Bellocchio, confermata da alcuni passaggi del
successivo La Cina è vicina (1967), dove più evidente, ma meno efficace dal punto di
vista formale, si fa la dimensione 'politica' dell'assunto. Alcuni anni prima, nella
Spagna franchista, aveva esordito con spirito caustico e surrealista Marco Ferreri,
autore di due film bizzarri, El pisito (1958) ed El cochecito (1960), apologhi
sull'insensatezza e sulla valenza utilitaristica dell'agire umano, nei quali Ferreri rivelò
già la sua predilezione per figure singolari o addirittura freaks (lo sciancato del primo
film, il paralitico protagonista del secondo) e per situazioni svelate nel loro lato più
paradossale e demistificante. Una strada seguita nel suo primo film italiano, L'ape
regina (1963), dove il grottesco è assai sapientemente calibrato in un crescendo che
porta l'assunto iniziale alle sue estreme conseguenze. L'universo di Ferreri è
costantemente abitato da figure concepite su una base realistica, ma prontamente
virate in risvolti 'mostruosi'. Una galleria che annovera donne scimmia (La donna
scimmia, 1964), bambole di plastica e automi (Marcia nuziale, 1966), fino
all'ingegnere feticista (Michel Piccoli) di quella che è forse l'opera più importante di
questo regista, Dillinger è morto (1969), lenta scansione di atti gratuiti e alienanti,
dove le immagini di vecchi film sembrano rivelare che tutto è già accaduto nel lucido
nonsense ferreriano. Se del Ferreri di Dillinger si può affermare che sia fuori o oltre la
Storia, quasi in un dopo-storia, dentro la Storia e anche dentro la cronaca
rimane Francesco Rosi, già assistente di Visconti e autore, con La sfida (1958), di
un'opera prima ricca di senso del ritmo e tensione narrativa. Ma fu con Salvatore
Giuliano (1962) che si poté apprezzare anche un notevole senso delle immagini e del
montaggio. Con quest'opera Rosi mise a punto la tecnica dell'effetto documentario,
ottenuto anche grazie all'uso o al rifacimento di brani di repertorio, inseriti con grande
perizia nel tessuto narrativo, mentre un effetto di realtà o di ripresa in diretta si avverte
in alcune sequenze di Le mani sulla città (1963), coraggiosa riflessione sulla
corruzione politica. Il gusto per la valenza documentaria del cinema appartiene anche
a Gillo Pontecorvo, che forse lo ricavò dalla frequentazione, in gioventù, di Joris
Ivens. Dopo un film, Kapò (1960), non privo di momenti intensi e con l'indubbio
merito di aver iniziato una via cinematografica alla comprensione del genocidio
ebraico, la sua vena documentaria si rivelò appieno in La battaglia di Algeri (1966).
Sull'onda della rievocazione storica si mosse anche il bell'esordio di Florestano
Vancini, l'intenso La lunga notte del '43 (1960), suggestivo, partecipato e coraggioso
racconto di una terribile pagina di storia italiana ‒ il massacro di numerosi ebrei e non,
a Ferrara, da parte dei repubblichini di Salò ‒ tratto, con ottima capacità descrittiva di
ambienti e personaggi, da una de Le storie ferraresi (Torino 1960) di G. Bassani.
Lungo questa ipotetica linea storico-sociale del cinema italiano degli anni Sessanta
s'incontra anche il buon esordio di un regista teatrale, Gianfranco De Bosio, con Il
terrorista (1963), e soprattutto Banditi a Orgosolo (1961) di V. De Seta, costruito con
grande senso del montaggio e frutto di una sapiente pratica nel documentario (di cui
mantiene il taglio) alimentata nel corso degli anni Cinquanta, lucido e incisivo
sguardo su comportamenti e mentalità.

Particolarmente attento al ruolo del Tempo e della Storia, Visconti aprì il decennio
con un dramma, Rocco e i suoi fratelli (1960), strutturato come una tragedia greca,
sulla perdita delle radici e la disgregazione del ghenos nel viaggio da Sud a Nord.
Quindi fece un salto all'indietro, ma a mo' di metafora di un pressoché eterno presente,
con un altro grande e sontuoso quadro di immagini a colori e musica, Il Gattopardo
(1963), per tornare poi al bianco e nero che fotografa una tenebrosa Volterra (Vaghe
stelle dell'Orsa, 1965). La crisi e l'avventura dei sentimenti, il rapporto disarmonico
tra uomo e spazio (il mondo, la natura), il mistero del reale che mai si dischiude
veramente sono al centro della tetralogia di Antonioni, che inizia con L'avventura
(1960), passa per La notte (1961) e L'eclisse (1962) e si conclude con la natura
innaturale di Deserto rosso (1964), che costituisce lo stadio estremo dell'alienazione in
questo suo primo film a colori (con splendidi effetti tachistes e pennellate degli esterni
in grigio-verde e degli interni in rosso e nero). Una geometria d'immagini che
costituisce forse la punta più avanzata di tutta l'arte figurativa di quegli anni, pur se
suggestionata da una parte di essa, in particolare di area americana. Con il successivo
Blow-up (1966), riflessione sul rapporto tra arte e realtà e tra arte e illusione,
Antonioni sembrò chiudere realmente tutta una lunga e ricca ricerca sulle immagini.
Nel suo tipico e unico gran teatro del mondo Fellini immise nuovi personaggi, spesso
paradossali dramatis personae, in spazi metropolitani scioccamente festaioli e
cinematografari (La dolce vita, 1960) o in quelli sospesi tra sogno e realtà,
rappresentazione mentale di un regista di un film da farsi che infine vede passare in
rassegna tutte le creature (lui compreso) del suo 'circo' (8¹/₂, 1963). Con il suo primo
film a colori, Giulietta degli spiriti (1965), tentò poi di adottare il punto di vista della
sua nevrotica protagonista, immergendola in un universo magico e incantato; quindi in
un notevole viaggio allucinante e onirico verso la morte (Toby Dammit, episodio di
Histoires extraordinaires, noto anche come Tre passi nel delirio, 1968) elaborò un
tema (appunto la morte) sempre più presente nell'universo felliniano, a partire da quel
viaggio fantastico e visionario nella Roma imperiale costituito dal Fellini Satyricon
(1969), dove la decadenza del passato sembra alludere a quella del presente. Tutt'altra
strada seguì Rossellini, che dopo un fiacco omaggio al 1860 garibaldino, tuttavia
suggestivo nelle sequenze en plein air (Viva l'Italia!, 1961), avviò un progetto lungo e
coraggioso, ma sostanzialmente irrisolto, con le prime opere del ciclo storico-didattico
per la televisione il cui esito più alto resta La presa di potere di Luigi XIV (1966).
Anche De Sica non ebbe momenti innovativi, se si escludono il fantasioso e bizzarro
finale di Il giudizio universale (1961) e alcuni passaggi di La ciociara (1960), Il boom
(1963), Ieri oggi domani (1963) e Matrimonio all'italiana (1964).

Nella commedia, che in quegli anni assunse la denominazione di commedia


all'italiana (v.), furono altri registi a offrire alcune opere memorabili: D. Risi con Una
vita difficile (1961) elaborò un grande racconto di quasi un ventennio di storia d'Italia,
con inserti d'epoca e giornali a far da 'effetto di reale', attraverso la figura di un
giornalista umiliato e offeso (un magistrale Alberto Sordi), che si concede infine una
bella rivincita. Quindi con Il sorpasso (1962) propose una sorta di moderno Capitan
Matamoro (le suggestioni della Commedia dell'arte alimentavano quella 'all'italiana'),
interpretato con grande perizia da Vittorio Gassman per una storia di vita e di morte,
brillante e drammatica a un tempo, melanconica e grottesca, come altri significativi
esempi di commedia anni Sessanta. Affidata alla perizia di registi, attori e
sceneggiatori (Age, Furio Scarpelli, Rodolfo Sonego, Ettore Scola), la commedia
all'italiana trovò esempi efficaci in regie di Zampa (Il vigile, 1960; Il medico della
mutua, 1968) e Germi (Divorzio all'italiana, 1961; ma ancor più in Un maledetto
imbroglio, 1959, da C.E. Gadda, che anche grazie all'apporto di un 'narratore' robusto
come Ennio De Concini costruì un'efficace macchina narrativa e incisivi quadri
ambientali). Maggiore spessore assunsero le figure femminili, quali l'Aida (Claudia
Cardinale) di una bella e un po' crepuscolare storia d'amore, La ragazza con la valigia
(1961) di Valerio Zurlini, che nel successivo Cronaca familiare (1962) si rifece alla
pittura di O. Rosai per narrare con toni elegiaci un rapporto tra fratelli; e ancor più
l'Adriana (una bravissima Stefania Sandrelli) di Io la conoscevo bene (1965) di
Antonio Pietrangeli, autore nel 1961 di un'opera ricca di una brillante vena fantastica
quale Fantasmi a Roma. Donna malinconica e contornata di squallide figure maschili,
Adriana è forse la più celebre tra le intense figure femminili del cinema di Pietrangeli,
tra cui la protagonista (Catherine Spaak) di La parmigiana (1963). Che la commedia
preveda una compresenza di comico, drammatico e grottesco lo rivelarono bene le
opere di Monicelli, da La grande guerra (1959), con i due picareschi protagonisti, a La
ragazza con la pistola (1968), viaggio di una sedotta e abbandonata siciliana nella
swinging London, nel quale Monica Vitti venne scoperta come attrice comica. In
mezzo vi fu uno dei maggiori successi del regista, L'armata Brancaleone (1966, con
un grande Vittorio Gassman), combinazione di elementi 'aulici' e popolari, mediante
l'adozione di un linguaggio maccheronico e il ricorso al paradosso, e con la grande
cura nell'uso del colore, del trucco, dei costumi. Acre e grottesca è la rappresentazione
di una fase storica complessa (il periodo successivo all'armistizio dell'8 settembre
1943), in Tutti a casa (1960) di L. Comencini, che propose anche una variante più
sommessa di una materia simile con La ragazza di Bube (1963), dal romanzo di C.
Cassola. Successivamente egli tornò a indagare l'universo dei bambini, con la sua
gentilezza di tocco, non incline però a indulgenze, in Incompreso (1966) e soprattutto
in Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova veneziano (1969),
che immerge il diario del celebre libertino as a young man in una Venezia ben
'fotografata' e ricca di suggestioni pittoriche (da F. Guardi e da P. Longhi).

Una bella storia d'ambiente alto-borghese, indagato con sicurezza e incisività, era
stato l'esordio (Gli sbandati, 1955) di Francesco Maselli, robusto studio di caratteri,
come anche I delfini (1960) e Gli indifferenti (1964), dove il romanzo di A. Moravia
fu adattato con molta cura scenografica e fotografica (l'operatore fu Gianni Di
Venanzo). Agli effetti del bianco e nero 'alla Di Venanzo' furono affidate anche le
immagini del bel film d'esordio di un'assistente di Fellini, Lina Wertmüller, I
basilischi (1963), storia di alcuni giovani vitelloni della buona borghesia in un
imprecisato paese del Meridione d'Italia: una commedia dolce-amara, che sembra
alludere a una condizione congenita e, in parte, generalizzata. Toni dimessi, legati a
una quotidianità restituita con occhio acuto e garbata ironia, si notano nella felice
opera prima, Il posto (1961), di un regista, Ermanno Olmi, avviato al cinema da una
nutrita serie di documentari d'ambiente industriale. Il rapporto tra città industriale
(Milano) e periferia, e tra i diversi modi di vita, fa da sfondo alla storia di un giovane
che si appresta a entrare nel difficile mondo del lavoro e alla tenera amicizia con una
sua coetanea. Un motivo, quello dei rapporti umani, che fu al centro anche del
successivo I fidanzati (1963), inconsueto ritratto di un operaio del Nord trasferito al
Sud e dello scambio epistolare con la fidanzata, cadenzato da frequenti avanzamenti e
arretramenti del racconto. Quella di Olmi appare come una delle figure più singolari
del cinema italiano degli anni Sessanta, appartata nella realizzazione di film a basso
costo e con attori sconosciuti, aspetti che insieme alla ricerca di un minuzioso
realismo rendono questo regista uno dei più sensibili alle ascendenze neorealistiche.
Del resto tutto il decennio fu cadenzato da altre presenze singolari, con opere talora di
rilievo: La contessa azzurra (1960) di Claudio Gora, Leoni al sole (1961) di Vittorio
Caprioli, Omicron (1963) di Ugo Gregoretti, o la sarcastica coniugazione degli stilemi
da commedia all'italiana di un regista prematuramente scomparso come Franco
Indovina (Lo scatenato, 1967). Dalle prime prove di registi poi in vario modo
importanti, quali Giuliano Montaldo (Tiro al piccione, 1961), Elio Petri (Il maestro di
Vigevano, 1963), Tinto Brass (Chi lavora è perduto, 1963), si sviluppò una tendenza
di cinema innovativo, diverso sia rispetto ai canoni industriali sia rispetto al cinema
d'autore. Tale tendenza fu caratterizzata da prove di artisti che sperimentarono
inconsuete potenzialità del mezzo cinematografico (Mario Schifano, Alberto Grifi,
Gianfranco Baruchello), oppure dalla poliedrica attività di registi indipendenti quali
Silvano Agosti e Tonino De Bernardi.

Altrettanto singolare, ma sotto altri aspetti, fu anche Sergio Leone, che conferì


particolare spessore a un sottogenere quale il cosiddetto western all'italiana (v.), assai
popolare e fortunato (Duccio Tessari, Sergio Sollima e Antonio Margheriti, più noto
con lo pseudonimo di Anthony M. Dawson, sono alcuni dei registi che lo coltivarono
con più efficacia). Con la cosiddetta 'trilogia del dollaro' (Per un pugno di dollari,
1964; Per qualche dollaro in più, 1965; Il buono, il brutto, il cattivo, 1966) e i due film
successivi (C'era una volta il West, 1968; Giù la testa, 1971) Leone elaborò un cinema
di forte tensione spettacolare, con scene e sequenze magistralmente condotte,
affidandosi ai temi musicali di Ennio Morricone e definendo una serie di eroi negativi,
cinici e disincantati, dramatis personae senza particolari configurazioni psicologiche.
Dentro la frequentazione dei generi ‒ assai praticati nel corso di tutto il decennio,
segnato anche dalla 'serialità' dei film a episodi ‒ va infine ricordata, accanto a quella
di R. Freda, che si misurò con perizia soprattutto con l'horror (L'orribile segreto del
dottor Hichcock, 1962), la significativa figura di Mario Bava, segnalatosi con La
maschera del demonio (1960), notevole per l'ideazione degli effetti sia visivi sia
narrativi, poi autore dell'ottimo I tre volti della paura (1963), complesso esercizio
autoreferenziale di stile, in atmosfere gotiche ispirate ad A.P. Čechov, L.N. Tolstoj e
G. Snyder. Accanto a questa figura a lungo misconosciuta dalla critica, il suggello di
un ricco decennio è costituito da un attore-regista singolarissimo come Carmelo Bene,
la cui opera Nostra signora dei Turchi (1968), affascinante esempio di barocco e
visionario teatro cinematografico, affidato all'uso reiterato di filtri e obiettivi
deformanti, costituisce una notevole avventura dello sguardo.

Gli anni Settanta: cinema 'politico' e continuità della commedia

Nel corso di un decennio segnato dal piombo e dalla strategia della tensione, dalle
stragi, dai nuovi movimenti studenteschi e dal compromesso storico, dal terrorismo e
dalla tragedia dello statista Aldo Moro, trovò fortuna il cosiddetto cinema politico, un
nuovo sottogenere all'italiana connotato dal legame delle varie opere con la cronaca di
quegli anni. Ma forse si dovrebbe parlare, almeno per alcuni registi, di insistenza sul
confronto tra un passato più o meno lontano e il presente, oppure di continuità
d'intervento, con gli ovvi aggiornamenti sul piano del soggetto. Talvolta l'excursus
narrativo è molto ampio, come in C'eravamo tanto amati (1974) di E. Scola, le cui
ottime qualità di sceneggiatore in commedie all'italiana, ma anche di narratore e
disegnatore negli anni Cinquanta, scandiscono un iter che riprende e aggiorna quello
del D. Risi di Una vita difficile, nella sapiente alternanza di bianco e nero e colore, di
momenti comici ed elegiaco-malinconici che si ritrovano in parte anche in un'altra
opera di rilievo quale Una giornata particolare (1977). In Novecento (1976) B.
Bertolucci intensificò le sue suggestioni hollywoodiane, già svelate nella
Tara/Sabbioneta di La strategia del ragno (1970), onirico viaggio interiore nella
memoria personale e collettiva, laddove Il conformista (1970) aveva cercato di
delineare, attraverso il protagonista e con sapienza rievocativa, un connubio perverso
tra borghesia e fascismo (oltre che una metafora della 'uccisione' di padri e maestri
cinematografici). La fluidità dei due atti di Novecento alterna alti e bassi con molta
ambizione e senso dello spettacolo, dopo l'incursione fin troppo cinefila, tuttavia
intrigante nella messinscena di un universo claustrofobico 'alla Francis Bacon', di
Ultimo tango a Parigi (1972). Ma l'esito più alto di questo 'cinema della memoria' è il
felliniano Amarcord (1973), il confronto più diretto del regista riminese tra
l'individuale e l'universale, il sogno e la realtà, il comico e l'elegiaco, un ritorno a casa
dopo che con Roma (1972) egli aveva compiuto un viaggio ricco di possente
visionarietà tra passato e presente nella città elettiva. Di grande respiro è anche la
cosiddetta trilogia germanica di Visconti, guidata da uno dei suoi numi tutelari, Th.
Mann. Del trittico lo scrittore ispira La caduta degli dei (1969, in cui si evoca
Buddenbrooks) e ancor più Morte a Venezia (1971), tratto dal suo racconto Der Tod
in Venedig. Il filo conduttore delle tre opere, l'ultima delle quali è Ludwig (1972), è la
maggiore esplicitazione di un tema sempre presente nell'opera viscontiana, quello
della crisi o della decadenza di un mondo e di una società, che raramente perde una
valenza metaforico-generalizzante, e quasi atemporale, dentro la consueta
magnificenza d'immagini.

Afflato storicistico e lirismo epico, combinazione stilistica e tematica di una vena


insieme minimalista e massimalista costituiscono gli esordi ‒ ma anche l'insieme
dell'opera ‒ di un singolare e inossidabile team costituito da Paolo e Vittorio Taviani.
Una vena che, dopo Sovversivi (1967), docufiction intorno ai funerali di P. Togliatti, e
Sotto il segno dello Scorpione (1969), favola filosofico-brechtiana, trovò uno sviluppo
e una maturazione in un apologo intenso e di ampio respiro quale San Michele aveva
un gallo (1973), tratto da una novella di L.N. Tolstoj e strutturato in quattro blocchi
narrativi. Quasi in contemporanea con esso i Taviani insistevano su tematiche storiche
di tipo allegorico-rivoluzionario con Allonsanfàn (1974), magniloquente ma non
sempre con-trollato spettacolo della storia; quindi tornarono a privilegiare un tono
cronachistico-minimalista con lo spaccato duro e intenso di Padre padrone (1977) dal
romanzo di G. Ledda. Di robusta valenza allegorica si può parlare a proposito di
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di E. Petri, che deforma in
senso kafkiano una figura di ispettore di polizia (affidato all'incisiva ma un po'
enfatica performance di Gian Maria Volonté) inserendolo in una struttura da giallo,
mentre carattere da conte philosophique acquista una commedia cupa e grottesca
quale Todo modo (1976), secondo e significativo incontro con la poetica di L.
Sciascia. Autore, questi, frequentato anche da F. Rosi (Cadaveri eccellenti, 1976,
tratto da Il contesto), che con Il caso Mattei (1972) mise a punto una tecnica rigorosa
di docufiction, già accennata a suo modo, un decennio prima, con Salvatore Giuliano
(1962), di notevole riuscita.

Gialli che continuamente trascolorano nel thriller sono poi quelli di Dario Argento,
talvolta un po' compiaciuti dei propri virtuosismi visivo-sonori, ma anche di forte
impatto (in particolare L'uccello dalle piume di cristallo, 1970; Profondo rosso, 1975;
Suspiria, 1977). Liliana Cavani, una delle rare figure di regista donna, dopo aver
offerto sprazzi di buon cinema in I cannibali (1970), si è poi cimentata in ardue e
claustrofobiche ricostruzioni d'ambiente (Il portiere di notte, 1974). Significative ‒
soprattutto a uno sguardo retrospettivo ‒ appaiono figure di registi che debuttarono
negli anni Settanta: lo scrittore-regista Fabio Carpi, autore di storie intense in cui
raffinate suggestioni letterarie introducono a una riflessione accorata sulla memoria e
sul confronto generazionale (Corpo d'amore, 1973; cui sono seguiti Quartetto
Basileus, 1984; Barbablù Barbablù, 1989; L'amore necessario, 1991; Nel profondo
paese straniero, 1997; Nobel, 2001); Franco Brusati (bella in particolare una
commedia amara quale Pane e cioccolata, 1974); Franco Giraldi (La rosa rossa, 1973;
La frontiera, 1996); Emidio Greco (il 'fantastico' L'invenzione di Morel, 1974; seguito
da altre buone trasposizioni quali Ehrengard, 1982, da K. Blixen; Una storia semplice,
1991, e Il consiglio d'Egitto, 2002, da L. Sciascia); Pupi Avati (che ottenne una buona
affermazione con l'horror venato d'ironia La casa dalle finestre che ridono, 1976, per
poi passare dagli anni Ottanta a indagare l'universo dei sentimenti, percorso da
venature melanconiche, trovando in un gruppo di attori legati al regista da una
profonda affinità, sensibili protagonisti, come nel caso di Carlo Delle Piane: Una gita
scolastica, 1983; Impiegati, 1985; Magnificat, 1993; Il testimone dello sposo, 1998);
Luigi Faccini (Garofano rosso, 1976; che ha in seguito sviluppato un tono lirico-
esistenziale in Inganni, 1985, su D. Campana; Donna d'ombra, 1988; Notte di stelle,
1991). E inoltre si sono segnalati: Romano Scavolini (La prova generale, 1976);
Ansano Giannarelli (Sierra Maestra, 1969, sul caso Régis Debray; Non ho tempo,
1973, sulla vita del matematico évariste Galois); Gianfranco Mingozzi (Trio, 1967;
Sequestro di persona, 1968; L'appassionata, 1988, con un'intensa interpretazione di
Piera degli Esposti); Maurizio Ponzi (I visionari, 1969; Equinozio, 1971); Roberto
Faenza (Escalation, 1968; Copkiller, 1983, passato poi a un cinema di prevalente
ispirazione letteraria da Sostiene Pereira, 1995, a Marianna Ucrìa, 1997, dai rispettivi
romanzi di A. Tabucchi e D. Maraini); Gianvittorio Baldi (Fuoco!, 1968, che dopo
un'attività di produttore è ritornato alla regia con film di aspra drammaticità come
Nevrijeme ‒ Il temporale, 2002); Sandro Franchina (Morire gratis, 1968); Marco
Tullio Giordana (autore di film sospesi tra melodramma e ritratto sociopolitico, come
Maledetti, vi amerò, 1980, linea proseguita fino al successo di I cento passi, 2000), e
infine Salvatore Piscicelli (Immacolata e Concetta, l'altra gelosia, 1980; poi seguito da
opere irrisolte ma coraggiose e assai personali, da Le occasioni di Rosa, 1981, a
Regina, 1987, a Il corpo dell'anima, 1999).

La fortuna dei generi proseguì lungo tutto il decennio degli anni Settanta, in
particolare con il poliziesco, l'erotico, il giallo, l'horror e il comico, affidati a registi
quali Lucio Fulci, Flavio Mogherini, Umberto Lenzi, Fernando di Leo, Sergio e Bruno
Corbucci. Autori, questi ultimi, di alcuni film campioni d'incassi, con una star della
canzone quale Adriano Celentano, probabilmente il caso di maggior impatto sul
pubblico degli anni Settanta, assieme a quello di Paolo Villaggio, arguto inventore del
personaggio di Fantozzi, diretto con buona vena da Luciano Salce. Tuttavia fu la
commedia ‒ ancorché in varie sfumature ‒ il genere più duraturo, sia che fosse
affidato alla vecchia guardia (Risi, Monicelli), o ai film della coppia Bud Spencer-
Terence Hill (come Lo chiamavano Trinità, 1970, di E.B. Clucher) che riscuotevano
enorme successo di botteghino, sia che vedesse configurarsi all'orizzonte il passaggio
alla regia dei cosiddetti nuovi comici di provenienza teatrale e televisiva (Massimo
Troisi, Roberto Benigni, Francesco Nuti, Alessandro Benvenuti, Maurizio
Nichetti, Carlo Verdone) o di un 'commediante'-moralista di valore quale Nanni
Moretti (Io sono un autarchico, 1977; Ecce bombo, 1978), un cineasta che sarebbe poi
cresciuto negli anni per rigore e controllo della materia privilegiata, posando il suo
occhio acuto su una fenomenologia del vivere contemporaneo (si pensi, in particolare,
a Bianca, 1984; La messa è finita, 1985; Caro diario, 1993, di cui notevole è
soprattutto il primo episodio o segmento, che sembra alludere al cinema inteso come
viaggio e come scoperta; La stanza del figlio, 2001).

A ideale chiusura degli anni Settanta, un decennio continuamente sospeso tra dramma
e commedia, sovente tra loro intrecciati, si possono scegliere quattro opere
diversamente rappresentative di una certa fase dei loro autori e anche del più generale
contesto italiano, cinematografico e socio-culturale: Il Casanova di Federico Fellini
(1976), con cui Fellini costruì un nuovo e ancor più visionario universo teatralizzato
abitato dal sogno e dalla morte; Un borghese piccolo piccolo (1977) di Monicelli, dal
romanzo di V. Cerami, dapprima commedia umana a dimensione familiare, poi
Kammerspiel duro e assai incisivo, con precisi umori contemporanei; un altro Fellini,
quello del piccolo ma robusto e inquietante concerto da camera, Prova d'orchestra
(1979), che con la sua confusione ben funge da allegoria di un'epoca. Ma su di esse si
pone lo sguardo delirante e profetico del pasoliniano Salò o le 120 giornate di Sodoma
(1975), opera ardua e complessa, che per la tragica scomparsa dello scrittore
rappresenta la sua opera testamentaria.

Gli anni Ottanta e Novanta


E' stato all'insegna dei comici che il cinema italiano ha attraversato una fase non
eccelsa della sua storia, i primi anni Ottanta, peraltro caratterizzati dalla scarsa attività
o dalla scomparsa dei grandi registi del recente passato. Certo nel tempo ancora si
apprezza l'esordio di Massimo Troisi, quel Ricomincio da tre (1981) in cui egli ha
rivelato tutta la sua sapienza di attore legato alla tradizione teatrale napoletana e una
certa capacità nel creare scene e personaggi, non del tutto confermate in Scusate il
ritardo (1983), anche se costante sarebbe rimasta la riuscita di una maschera
malinconica e un po' stralunata, fino all'ultimo esito di Il postino (1994), ispirato al
romanzo di A. Skarmeta, diretto da Michael Radford, ma con il notevole contributo
dello stesso Troisi.

A ben guardare questi comici si apprezzano più per le virtù attoriali che per quelle
registiche, perché scarsa è in loro la presenza di una vera e propria concezione del
cinema. Si ha così una galleria di ritratti e di scene, talvolta assai efficaci, che rivelano
ampie capacità trasformistiche in Carlo Verdone, in particolare con i vari tipi di
Bianco, rosso e Verdone (1981), poi via via sostituiti da personaggi più delineati in
commedie acute e di buona tenuta come Compagni di scuola (1988) e Maledetto il
giorno che t'ho incontrato (1992); una maschera comica assai singolare fin dalle
caratteristiche facciali è quella di Roberto Benigni, erede un po' surreale dei giullari di
corte, scatenato nella mobilità corporale in Tu mi turbi (1983) e in Il piccolo diavolo
(1988), da lui stesso diretti, come l'assai divertente Johnny Stecchino (1991), fino
all'ispirato e commovente La vita è bella (1997). Francesco Nuti, a sua volta,
inizialmente diretto da Maurizio Ponzi (Madonna che silenzio c'è stasera, 1982) è
stato regista e interprete di Casablanca Casablanca (1985) e di Caruso Pascoski (di
padre polacco) (1988). Un po' diverso è il caso di Maurizio Nichetti, uno dei pochi
che riveli un'idea più definita di cinema (nel suo caso inteso come spettacolo onirico e
surreale, come viaggio nella fantasia) e un'attenzione costante alla tecnica e alla
sperimentazione, con esiti di particolare rilievo in Ladri di saponette (1989), Volere
volare (1991) e in Luna e l'altra (1996), opere mature di un autore esordiente nel 1979
con un fortunato e assai divertente omaggio al muto e al burlesque, Ratataplan. Così
come più consapevole degli strumenti cinematografici appare anche una figura come
quella di Alessandro Benvenuti, che nel tempo ha delineato un cinema stralunato e
bizzarro, talora con un eccellente controllo della storia e dei personaggi (Benvenuti in
casa Gori, 1990; Belle al bar, 1994; Ivo il tardivo, 1995; Ritorno a casa Gori, 1996).
Attraverso l'attività di produttore di Nanni Moretti è avvenuto anche l'esordio di
Daniele Luchetti, che con Domani accadrà (1988) ha offerto la sua prova più riuscita,
in parte confermata con Il portaborse (1991), efficace ma troppo mimetico spaccato di
vita politica. Nel panorama della commedia degli anni Ottanta si collocano anche i
grandi successi commerciali caratterizzati dall'accoppiata Adriano Celentano-Ornella
Muti (Il bisbetico domato, 1980, e Innamorato pazzo, 1981, entrambi di Castellano e
Pipolo), le commedie di Carlo Vanzina (Sapore di mare, 1983; Vacanze di Natale,
1983; Yuppies, i giovani di successo, 1986) e di Neri Parenti, che ha diretto Paolo
Villaggio in altri episodi della saga Fantozzi (tra cui Fantozzi contro tutti, 1980;
Fantozzi va in pensione, 1988) e, a seguire, il film a episodi Fratelli d'Italia (1989).
All'interno di una crisi diffusa, che si è espressa nel calo dei film prodotti, degli
spettatori, delle sale, e che è stata almeno in parte alimentata dalla crescita del numero
delle reti televisive e dall'influenza che la televisione ha esercitato sulle nuove
generazioni, il cinema italiano ha provato negli anni Ottanta a seguire altre forme di
produzione e di organizzazione del film. Sono nati così gruppi quali Indigena, che tra
Milano e Torino (e in particolare con una rassegna quale la milanese Filmaker) hanno
consentito l'esordio di registi che in seguito si sono variamente affermati o comunque
fatti conoscere da un pubblico non solo 'da festival' (per es. Silvio Soldini e Gianluca
Maria Tavarelli). Esordi di un certo rilievo negli anni Ottanta sono stati quelli
di Gabriele Salvatores, formatosi nel teatro con un proprio gruppo (Sogno di una notte
d'estate, 1983, equivalente cinematografico di una sua messinscena shakespeariana;
Marrakesh Express, 1989; Turné, 1990, film di ambiente teatrale; il premio Oscar
Mediterraneo, 1991); di Giuseppe Tornatore, già fotografo, anch'egli premiato con
l'Oscar per Nuovo cinema Paradiso (1988), preceduto da Il camorrista (1986) e
seguito, tra gli altri, da Stanno tutti bene (1990) e Una pura formalità (1994), sapiente
esercizio di stile, d'atmosfera Kammerspiel. Ma l'autore di maggiore rilevanza emerso
nella fase contemporanea è Gianni Amelio, la cui esperienza è maturata prima con la
collaborazione a western all'italiana degli anni Sessanta, quindi mediante la pratica
televisiva. Passato alla regia cinematografica con un esordio già ragguardevole quale
Colpire al cuore (1982), ha poi realizzato opere sempre rilevanti, e in particolare Il
ladro di bambini (1992), un film che sa tenere insieme il senso dello spettacolo di
ascendenza hollywoodiana (con qualche eco viscontiana nella sapienza della messa in
scena) con la migliore lezione del Neorealismo, soprattutto l'istanza rosselliniana.
Esordio significativo è stato anche quello di Carlo Mazzacurati, più legato a un'idea,
espressa con molta sensibilità, di realismo del quotidiano (Notte italiana, 1987;
Un'altra vita, 1992; Vesna va veloce, 1996). Scomparsi tra il 1975 e il 1994 quasi tutti
gli autori maggiori (Pasolini, Visconti, Rossellini, Fellini), il solo Antonioni è rimasto,
tra i 'vecchi', a provare a fare cinema, anche se la generazione più o meno mediana ha
saputo offrire ancora opere di ottimo livello (Tre fratelli, 1981, di Rosi; La tragedia di
un uomo ridicolo, 1981, e L'assedio, 1999, di B. Bertolucci; L'ultima donna, 1976,
Diario di un vizio, 1993, e Nitrato d'argento, 1996, di Ferreri; La notte di San
Lorenzo, 1982, dei fratelli Taviani; Voltati Eugenio, 1980, di Comencini; Speriamo
che sia femmina, 1986, di Monicelli; Once upon a time in America, 1984, C'era una
volta in America, di Leone; La nuit de Varennes, noto anche come Il mondo nuovo,
1982, La famiglia, 1987, Concorrenza sleale, 2001, di Scola; L'albero degli zoccoli,
1978, Camminacammina, 1983, Il mestiere delle armi, 2001, di Olmi; Salto nel vuoto,
1980, Il principe di Homburg , 1997, La balia, 1999 e l'importante e rigoroso L'ora di
religione ‒ Il sorriso di mia madre, 2002, di Bellocchio).

A parte è poi da ricordare (anche a dispetto della discontinuità dei risultati) la


produzione di alcuni tra i più singolari e appartati autori degli ultimi vent'anni: una
vena olmiana si può riconoscere nell'opera di Mario Brenta, che dopo Vermisàt
(1974), raccontato con oc-chio da entomologo, ha confermato le sue doti con lo
squallore metropolitano di Maicol, 1989, per approdare, in Barnabo delle montagne
(1994), dal racconto di D. Buzzati, a una robusta rappresentazione di un paesaggio
insieme affascinante e inquietante, in cui i silenzi e i rumori contano quanto e più
delle parole e dei suoni; Franco Piavoli, documentarista di lunga esperienza che in
realtà ha esordito nel lungometraggio agli inizi degli anni Ottanta con un film-evento
quale Il pianeta azzurro (1982), sinfonia paesaggistica di grande respiro panico, legata
a suggestioni classiche ‒ da Omero a Lucrezio ‒ come anche i successivi Nostos ‒ Il
ritorno (1990) e Voci nel tempo (1996). Peter Del Monte, che con Irene, Irene (1975)
aveva realizzato un racconto intimista cercando di recuperare una rosselliniana
innocenza dello sguardo, si è confermato incline anch'egli alla sottolineatura di quel
gioco di sguardi e di silenzi che si ritrova in Compagna di viaggio (1996). Più
rapsodica è risultata l'opera di Giuseppe Bertolucci, che nei suoi film ha saputo
tuttavia far emergere con notevole intensità caratteri e sentimenti (Amori in corso,
1989), talvolta affidandosi ad arditi ed emozionanti incastri narrativi (come nel
precedente Segreti segreti, 1985), quindi realizzando una complessa commistione di
cinema e teatro (Il dolce rumore della vita, 1999; L'amore probabilmente, 2001).
Infine Sergio Citti si è ritagliato uno spazio insieme naturalistico e immaginario di
ascendenza pasoliniana, ove il comico e il tragico si combinano con uno humour
'nero', mentre l'iperreale e il surreale delineano un'idea di racconto libero da
costrizioni e bizzarro (Casotto, 1977; Il minestrone, 1981; I magi randagi, 1996).

Potrebbero piacerti anche