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00002
Autori Contenuti
Biagio Raffaele Di Iorio
Luigi Francesco Pio Morrone (redattore) 1. Abstract
Renzo Tarchini (redattore) 2. Premesse - Introduzione
Luigi Catizone (redattore) 3. Definizione di IRC
Riccardo Maria Fagugli (redattore) 4. Stadiazione di IRC
Gianni Cappelli (redattore) 5. Percorsi diagnostici
Giuseppe Quintaliani (redattore) 6. Composizione corporea
Rachele Brugnano (redattore) 7. Rischio di progressione
Luca De Nicola (redattore) 8. Percorso terapeutico
Vincenzo Bellizzi (redattore) Ipertensione arteriosa
Lamberto Oldrizzi (redattore) Metabolismo Calcio-Fosforo
Roberto Minutolo (redattore) Dieta
Mario Meola (redattore) Controllo del Sodio inapparente
Adamasco Cupisti (redattore) Controllo del fosforo inapparente
Lucia Di Micco (collaboratore) Anemia
Simona Laurino (collaboratore) 9. Interazione con specialisti
Andrea Pota (collaboratore) non-nefrologi
Francesco Sorrentino (collaboratore) 10. Continuità delle cure
Maria Luisa Sirico (collaboratore) 11. Autogestione
Serena Torraca (collaboratore) 12. Indicatori di processo
Domenico Russo (collaboratore)
Sandro Mazzaferro (collaboratore)
La cura dell’IRC 00002
Abstract
release 1 pubblicata il 15 aprile 2011 21:06 da Biagio Raffaele Di Iorio
La Malattia Renale Cronica (MRC) è da molti indicata come la Pandemia della modernità e quindi una
reale emergenza sanitaria e non solo per le sue dimensioni epidemiche ma anche per l'evidenza che la
mortalità, prevalentemente da cause cardiovascolari, aumenta in maniera esponenziale in soggetti con
CKD non in dialisi.
Questa procedura è stata scelta perchè probabilmente nel prossimo futuro le specialità mediche
scompariranno, e i nefrologi dovranno essere pronti a presentarsi come i case-manager del paziente
con MRC, con l'ambizione di meglio poter rappresentare gli interessi di salute dei malati con problemi
renali.
Infine uno sforzo è stato fatto per individuare gli Indicatori di processo della MRC.
Premesse - Introduzione
release 1 pubblicata il 30 marzo 2011 17:58 da Biagio Raffaele Di Iorio
Lo scopo di nephromeet e' quello di proporre e testare, come ci ricorda Pino QUINTALIANI, delle
PROCEDURE. Quindi non siamo chiamati a scrivere un libro ma a delineare delle procedure che, per
definizione, devono contenere e descrivere ed indicare:
pubblicazioni di riferimento).
Ma piu’ di tutto le procedure devono indicare chi fa che cosa, la successione degli eventi per
raggiungere un obiettivo (chiaro ed esplicitato), l’interconnessione tra professionisti, nello stesso
reparto o in reparti diversi se non addirittura ospedali diversi.
Probabilmente nel prossimo futuro le specialità scompariranno, e perciò i nefrologi dovranno essere
pronti a presentarsi come i case-manager del paziente, con l'ambizione di meglio poter rappresentare
gli interessi di salute dei malati con problemi renali.
Figure
Definizione di IRC
release 1 pubblicata il 01 aprile 2011 17:29 da Biagio Raffaele Di Iorio
La Malattia Renale Cronica (CKD) è ormai riconosciuta come una reale emergenza sanitaria (El
Nahas 2005, Coresh 20007), e le dimensioni epidemiche della CKD non rappresentano l’unico dato di
preoccupazione. Infatti diversi studi epidemiologici effettuati in USA e nel nord Europa hanno messo
in evidenza che la mortalità, prevalentemente da cause cardiovascolari, aumenta in maniera
esponenziale in soggetti con CKD non in dialisi (Sarnak 2003, Go 2004, Keith 2004, Peralta 2006,
McCullough 2007, Weiner 2006).
Il concetto di CKD comporta che il filtrato glomerulare sia ridotto in maniera irreversibile. Questa
Procedura aggiornata il: 05 febbraio 2013 Pag. 3 di 73
Preparata e verificata da (autore): Biagio Raffaele Di Iorio
La cura dell’IRC 00002
Il concetto di CKD comporta che il filtrato glomerulare sia ridotto in maniera irreversibile. Questa
definizione se è usata in maniera estensiva include anche una compromissione lieve del filtrato
glomerulare. L’evidenza della cronicità della sindrome è fornita da valutazioni ripetute del filtrato
glomerulare (FG) mediante la Clearance della Creatinina (ClCr), misurata direttamente o calcolata,
che ne documentano la riduzione stabile (in un arco temporale di 3-6 mesi) o un declino più o meno
graduale negli anni.
L’eventuale outcome negativo (fino alla perdita totale della funzione renale con necessità di dialisi) di
una nefropatia cronica è basato sul livello di funzione renale attuale e sul rischio (e velocità) di perdita
di funzione renale residua nel futuro. Ogni malattia renale cronica tende a peggiorare nel tempo:
quindi, il rischio di outcome negativo aumenta nel tempo parallelamente alla severità della malattia;
nel contempo, un’outcome negativo può essere prevenuto attraverso la diagnosi e il trattamento
precoci.
La severità di una nefropatia cronica dovrebbe essere stabilita basandosi sulla presenza di:
Indicatori di danno renale (proteinuria, alterazioni del sedimento urinario, anomalie agli esami
eco-radiografici);
ipertensione arteriosa;
livelli di funzione renale (FG), indipendentemente dalla diagnosi eziologica.
Pertanto, è sicuramente utile, per meglio indirizzare gli interventi terapeutici, una stadiazione della
nefropatia basata sui livelli di funzione renale e svincolata dalla diagnosi di base.
La quantificazione della proteinuria associata ai livelli di livelli di funzione renale (Hallan 2009) è
ormai indispensabile per una quantificazione del rischio di progressione (Figura 1).
Figure
Stadiazione di IRC
release 2 revisionata il 22 agosto 2011 16:48 da Luca De Nicola
Nel 2002, la National Kidney Foundation Kidney Disease Outcome Quality Initiative (NKF-KDOQI)
ha proposto che la malattia renale cronica fosse categorizzata in cinque stadi che si basano
essenzialmente sul tasso di filtrato glomerulare stimato (GFR). Il danno renale è accertato dalla
presenza di proteinuria, definita come rapporto tra albuminuria e creatininuria (ACR) su un esame
urine random ≥30 mg/g, ematuria, anomalie renali all’anamnesi/diagnostica di immagini, oppure un
GFR <60 ml/min/1.73 m2 [KDOQI 2002] (Figura 1).
L’attuale sistema di stadiazione della CKD, pur rappresentando un importante mezzo di definizione del
grado di patologia e di stratificazione dei pazienti in base a differenti categorie di rischio, presenta
alcuni limiti. In particolare, il range di valori di GFR incluso nello stadio III (30-59 ml/min/1,73 m2)
appare ampio e comprende un gran numero di pazienti con prognosi estremamente variabile. Alcuni
Autori hanno infatti proposto una suddivisione dello stadio III in due sottogruppi, 3a (GFR: 45-59
ml/min/1,73m2) e 3b (GFR: 30-44 ml/min/1,73m2) [ Kirzstajn 2009]. Per i primi, qualora non
sussistano altri fattori di rischio renali ed extrarenali, potrebbe non essere sempre necessario il
follow-up specialistico nefrologico.
Il problema della misclassification diventa ancora più rilevante se si fa riferimento al paziente di età
avanzata con lieve disfunzione renale, in quanto nella classificazione K/DOQI non è presente alcuna
stratificazione per età e non si tiene conto della progressiva riduzione del GFR secondaria al processo
fisiologico di invecchiamento dell’organismo. L’analisi dei dati epidemiologici rivela infatti che
l’elevata prevalenza della CKD sia da imputare soprattutto all’ampia percentuale di pazienti di età
avanzata e di pazienti appartenenti allo stadio III [ Gambaro 2010]. D’altra parte, le indagini condotte
sulla popolazione generale spesso valutano il GFR basandosi su misurazioni singole della
creatininemia per ciascun paziente, e, pertanto, classificano i pazienti come appartenenti ai diversi
stadi K/DOQI senza tenere conto del criterio di cronicità indicato dalle linee guida K/DOQI per la
definizione di CKD (riduzione del GFR confermata in due visite con intervallo di almeno tre mesi).
E’ importante notare che la classificazione corrente della CKD non incorpora informazioni di come la
presenza e la severità della proteinuria possano influenzare la prognosi. Al contrario, la definizione e
la classificazione della CKD dovrebbe riflettere il rischio di morte, di eventi cardiovascolari, e di
perdita della funzione renale (pazienti progressor vs non progressor), ossia della prognosi globale dei
pazienti con CKD, e quindi dovrebbe basarsi anche sulla presenza e sulla severità della proteinuria.
Diversi studi hanno infatti dimostrato che sia il GFR sia l’albuminuria sono potenti predittori di
mortalità e di peggioramento della funzione renale.
A tal riguardo, una recente metanalisi di studi in coorti di popolazioni con CKD ha evidenziato come
valori inferiori di filtrato glomerulare ed elevati livelli di proteinuria siano predittori indipendenti di
mortalità e di insufficienza renale cronica in stadio terminale (ESRD) dopo aggiustamento per i
tradizionali fattori di rischio [ Astor 2011]. In particolare una proteinuria otto volte maggiore il valore
normale si associava ad un aumento del rischio di morte del 40% e un aumento di circa tre volte del
rischio di ingresso in dialisi dopo aggiustamento per il GFR e gli altri fattori di rischio. Questi dati
forniscono un’evidenza consistente sulla necessità di aggiungere il grado di albuminuria/proteinuria al
valore di GFR per meglio definire la prognosi dei pazienti con CKD.
Una recente Controversies Conference [Levey 2010], del gruppo Kidney Disease Improving Global
Outcomes (KDIGO), ha esaminato la relazione esistente tra il GFR e l’albuminuria con la mortalità e
gli outcomes renali in una coorte che comprendeva pazienti della popolazione generale, quelli ad alto
rischio cardiovascolare e quelli con malattia renale. L’incidenza della mortalità cardiovascolare e da
tutte le cause e l’incidenza di ESRD e progressione di CKD aumentavano al ridursi del GFR e
all’incremento dell’albuminuria con un rischio relativo maggiore associato con livelli più bassi di GFR
e più alti di albuminuria. L’aumento del rischio per maggiori livelli di albuminuria era indipendente
dal GFR ed era statisticamente significativo per valori di albuminuria maggiori di 30 mg/g, cioè di
quel valore soglia che indica la presenza di microalbuminuria. Inoltre il rischio aveva una crescita
maggiore per valori di GFR compresi tra 59 e 30 ml/min, confermando l’utilità di suddividere lo stadio
3 in due sottogruppi 3a e 3b. In base ai risultati di questa metanalisi è stata sviluppata una tabella del
rischio che tiene conto sia dei diversi livelli di GFR e sia dei diversi valori di albuminuria (Figura 2).
Come risultato finale, i partecipanti della conferenza concordavano sul modificare la classificazione
precedente aggiungendo al GFR i diversi gradi di albuminuria, suddividendo lo stadio 3 in 3a e 3b ed
enfatizzando la prognosi.
Di grande interesse sono anche i dati di un’altra metanalisi in cui si valutava l’associazione,
indipendente e combinata, del GFR e dell’albuminuria sulla mortalità cardiovascolare e da tutte le
cause nella popolazione generale [Chronic Kidney Disease Prognosis Consortium]. Rispetto ad un
GFR di 95 ml/min, il rischio relativo di morte per tutte le cause era aumentato del 18% per GFR di 60
ml/min, del 57% per GFR di 45 ml/min ed era più che triplicato per GFR di 15 ml/min. Analogamente,
il rischio correlato all’albuminuria seguiva una crescita lineare, senza effetto soglia, ed era
significativo già per bassi valori di albuminuria o per presenza di sole tracce di proteinuria al dipstick
urinario. In confronto ad un rapporto albuminuria/creatininuria (ACR) sulle urine estemporanee di 5
mg/g, il rischio relativo di morte per tutte le cause era aumentato, rispettivamente, del 20% per ACR
di 10 mg/g, del 63% per ACR di 30 mg/g, e più che raddoppiato per ACR di 300 mg/g. Risultati simili
erano ritrovati anche per la mortalità da tutte le cause. Quindi GFR inferiore a 60 ml/min e ACR di 10
mg/g o superiore sono predittori indipendenti e moltiplicativi di rischio di mortalità nella popolazione
generale, senza evidenza di interazione.
Sulla base di queste metanalisi risulta pertanto evidente l’importante ruolo predittivo dell’albuminuria
sul rischio di mortalità e progressione del danno renale e quindi l’utilità che essa può avere nella
classificazione della malattia renale.
A tale conclusione giungono anche gli Autori dell’Alberta Kidney Disease Network study che hanno
valutato l’incidenza di morte da ogni causa e l’outcome composito di ESRD e raddoppio della
creatininemia in circa 1.500.000 pazienti seguiti per 4 anni [Tonelli 2011]. Questi Autori hanno
proposto una nuova stadiazione della CKD basata, come per la stadiazione proposta dalla KDIGO
2009, su entrambe le variabili GFR e albuminuria/proteinuria (Figura 3). I pazienti erano categorizzati
in base a cinque valori di filtrato glomerulare (>90, 60-89.9, 45-59.9, 30-44.9 e 15-29.9) e tre di
proteinuria: normale (ACR <30 mg/g o dipstick urine negativo), moderata (ACR 30-300 mg/g o
dipstick urine con tracce o 1 +) o elevata (ACR >300 mg/g o dipstick urine ≥2 +).
In questo studio i pazienti sono quindi raggruppati in 5 categorie di rischio secondo il loro rischio di
mortalità da tutte le cause e di outcome renale (dialisi, trapianto renale o raddoppio della
creatininemia). Il rischio aumenta al ridursi del filtrato e all’aumento della proteinuria, ma la presenza
delle categorie per l’albuminuria fornisce informazioni prognostiche più precise rispetto alla “vecchia”
classificazione KDOQI. La nuova classificazione è più accurata per i soggetti che non sviluppano gli
outcomes renali rispetto a quelli che li sviluppano, riducendo il numero dei pazienti delle categorie 3 e
4 a circa 4 milioni negli USA rispetto ai 16 milioni di individui che rientrano nello stadio 3 e 4 della
attuale classificazione. Ciò permette quindi di ridurre di gran lunga il riferimento nefrologico non
necessario al costo di un riferimento nefrologico assente o ritardato in una quota minoritaria dei
pazienti che invece ne avrebbero bisogno. Infine la nuova classificazione è più accurata per i pazienti
con età inferiore a 60 anni che sviluppano eventi renali rispetto a quelli di età superiore a 60 anni che
non li sviluppano. Pertanto, la stadiazione proposta sembra essere un utile strumento per distinguere la
presenza di proteinuria elevata e filtrato preservato (condizione relativamente più comune nei giovani
adulti ed associata ad una prognosi renale peggiore) da una riduzione del GFR ma senza proteinuria
(condizione più comune negli anziani ed associata ad una prognosi renale relativamente migliore).
CONCLUSIONI
Le nuove classificazioni della CKD includono, oltre al GFR, la severità della proteinuria come
elemento discriminante per la prognosi. E’ auspicabile che esse possano anche essere utilizzate dai
non-nefrologi per indirizzare ai nefrologi i pazienti a maggior rischio (proteinuria e/o GFR ridotto).
Figure
Percorsi diagnostici
release 1 pubblicata il 17 aprile 2011 17:19 da Rachele Brugnano
Step 1)- tutti i pazienti con una insufficienza renale di recente scoperta dovrebbero andare sottoposti ad
indagini per determinare la potenziale reversibilità della malattia, la prognosi e la ottimizzazione del
piano di cura
Step 2) la diagnosi di IRC si basa su misure seriate della funzione renale che dovrebbero essere
ripetute entro 1-3 mesi dal primo riscontro ( a 2 e 4 settimane e quindi nuovamente a 3 /6 mesi) . Le
circostanze individuali possono variare a seconda di altri fattori co-morbide.
v Ipertensione arteriosa,
v diabete,
v malattie autoimmuni,
v dislidipidemia,
v cardiopatia,
v familiarità,
v sesso maschile,
v anamnesi per diabete mellito gestazionale, basso peso alla nascita, dismaturità,
v malnutrizione, infiammazione
Tabella:
Valutazione diagnostica dei soggetti a rischio nelle varie fasce d’età e nelle varie fasi di danno
renale
-Anamnesi+esame
clinico+ misura P.A -Anamnesi+esame -Anamnesi+esame
clinico+ misura P.A clinico+ misura P.A -Anamnesi+esame
Stadio I -Laboratorio[1] clinico+ misura P.A
-Laboratorio[1] -Laboratorio[1]
GFR > 90 -Esami strumentali: [1], -Laboratorio[1]
ml/mn/1,73m2 [2 b)e c)] se indicati -Esami strumentali: [1], -Esami strumentali: [1],
[2]se indicati [2]se indicati -Esami strumentali:
-Procedure: a)se [1],[2 a),c),d),e)] se
indicata - Procedure: a)se - Procedure: a) se indicati
+ indicata indicata
proteinuria/ematuria -Definizione Soggetto a -Definizione Soggetto a
rischio -Definizione Soggetto a -Definizione Soggetto a rischio
rischio rischio
-Anamnesi+esame -Anamnesi+esame
-Anamnesi+esame -Anamnesi+esame
clinico+ misura P.A clinico+ misura P.A
clinico+ misura P.A clinico+ misura P.A
- Laboratorio[1]e - Laboratorio[1]e
- Laboratorio[1]e - Laboratorio[1]e [2],[3]
[2],[3] se indicato [2],[3] se indicato
Stadio 3 [2],[3] se indicato se indicato
- Esami strumentali: - Esami strumentali:
GFR 30-59 - Esami strumentali: - Esami strumentali:
[1]e[2a),c), d),e)] se [1]e[2a),c), d),e)] se
ml/mn/1,73m2 [1]e[2] se indicati [1]e[2a),c), d),e)] se
indicati indicati
-Procedure: a)se indicati
-Procedure: a)se -Procedure: a)se
indicata -Procedure: a)se
indicata indicata per m.sistemica
indicata per m.sistemica
-Anamnesi+esame -Anamnesi+esame
clinico+ misura P.A clinico+ misura P.A -Anamnesi+esame -Anamnesi+esame
- Laboratorio[1]e - Laboratorio[1]e clinico+ misura P.A clinico+ misura P.A
Stadio 4 [2],[3] se indicato [2],[3] se indicato - Laboratorio[1]e - Laboratorio[1]e [2],[3]
- Esami strumentali: - Esami strumentali: [2],[3] se indicato se indicato
GFR 15-29
ml/mn/1,73m2 [1]e[2] se indicati [1]e[2] se indicati - Esami strumentali: - Esami strumentali:
-Procedure: a)se -Procedure: a)se [1]e[2] se indicati [1]e[2] se indicati
indicata indicata per m.sistemica
Anamnesi:
la raccolta dei dati anamnestici salienti* può essere effettuata dal personale infermieristico
v *Precedenti esami di laboratorio routinari in particolare relativi alla funzione renale, microematuria,
proteinuria
v *Tabagismo
v *Precedenti ospedalizzazioni
v Sintomi urinari
Laboratorio:
Tipologia
Esame Caratteristiche Note
soggetto
Misura del
filtrato Clearance misurata della cres in caso di
glomerulare stima con formula MDRD normalizzata Tutti obesità estrema, cachessia, amputazione,
paralisi
eGFR
albumina ur./creatinina ur. ratio > 30mg/g; Su prima urina del mattino o su campione
Proteinuria proteinuria/creatininuria ratio >200mg/g ; proteinuria Tutti urine “spot” o su raccolta 24 ore
su raccolta urine 24 ore > 0.5g
urea Tutti
Emocromo Tutti
Assetto lipidico Stadio 2/3/4/5 Anamnesi per proteinuria nefrosica,diabete,obesità, ipertensione arteriosa
Tipologia
Esame Note
soggetto
Ab anti HBV e anti HCV Stadio 2/3/4/5 Anamnesi per dipendenza da farmaci e droghe, ipertransaminasemia
Ab anti HIV Stadio 2/3/4/5 Anamnesi per dipendenza da farmaci e droghe, frequenti eventi infettivi
Immunofissazione sierica
Immunofissazione Stadio 2/3/4/5 diagnosi disgammaglobulinemia
urinaria
Urinocoltura
Stadio 2/3/4/5 Anamnesi per I.V.U, litiasi,ostruzione
Tipologia
Esame Note
soggetto
Valutazione della morfologia, delle anomalie strutturali (es.cisti), ostruzione, coinvolgimento del
Ecografia retroperitoneo
Tutti
renale
Tipologia
Esame Note
soggetto
a)Ecocolor-doppler vascolare Anamnesi per m.cardiovascolare, uso di ACE-i/ARB, rapido deterioramento funzione
Stadio 2/3/4
renale renale
c) Scintigrafia renale Stadio 2/3 Sospetto di stenosi arteria renale , a seconda esperienza dei centri
Diagnosi vascolare arteriosa e venosa con scelta del M.d.c più idoneo per il singolo
e) MRI renale Stadio 2/3
caso clinico
Procedure diagnostiche
Tipologia
Esame Note
soggetto
Biopsia a) Preferenziale nella diagnosi di glomerulopatie primitive e secondarie a malattie sistemiche, trapianto,
Stadio 1/2/3
renale proteinuria persistente, insufficienza renale a rapida progressione
Bibliografia
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v Linee guida per la nefrolitiasi Società Italiana di nefrologia: Linee guida 2° edizione
v Uptodate, Diagnostic approach to the patient with acute or chronic kidney disease,Gennaio 2011
http://www.uptodate.com
Composizione corporea
release 1 pubblicata il 01 aprile 2011 17:28 da Biagio Raffaele Di Iorio
di acidosi metabolica.
Le alterazioni della composizione corporea e dello stato nutrizionale si osservano precocemente nel
corso della malattia renale cronica e l’insufficienza renale è essa stessa un fattore di rischio
indipendente di malnutrizione proteico-energetica (Garg 2001). In realtà, si osserva una riduzione
spontanea e progressiva dell’introito proteico ed energetico in quasi la metà dei pazienti che non sono
aderenti alle prescrizioni dietetiche e non consumano la quantità minima richiesta di nutrienti.
Dall’altro lato, nel corso della malattia renale cronica, si verifica un incremento della richiesta di
nutrienti legato alla presenza di specifici fattori catabolici connessi all’uremia, come l’acidosi
metabolica, l’infiammazione, l’intolleranza gastro-intestinale, l’ipercatabolismo (per incremento di
ormoni catabolici come PTH e glucagone, per la resistenza insulinica, per l’eventuale uso di steroidi).
Tale bilancio nutritivo negativo può causare alterazioni nutrizionali durante l’intero corso della
malattia renale cronica con un apparente dispendio proteico ed energetico, soprattutto negli stadi 5 e
5D della malattia renale cronica, mentre un brusco peggioramento dello stato nutrizionale già si
osserva negli stadi precoci della malattia renale cronica. Poiché la malnutrizione proteico-energetica
di per sé influenza la funzione renale, peggiorando il flusso plasmatico renale, il filtrato glomerulare e
l’escrezione tubulare (di sodio, acidi, acqua etc), l’identificazione di iniziali anomalie dello stato
nutrizionale è uno dei principali obiettivi dell’approccio nutrizionale al paziente affetto da malattia
renale cronica.
Quali sono gli strumenti utilizzabili dal nefrologo per una precoce diagnosi nei pazienti con IRC?
Le anomalie metaboliche nella malattia renale cronica determinano una riduzione della massa magra e
perciò ci si aspetta anche una riduzione del peso corporeo; dall’altro lato, il peso corporeo nella
popolazione generale è aumentato rapidamente nelle ultime decadi, influenzando probabilmente sia
l’inizio sia la progressione della malattia renale cronica. A questo punto il problema è come e fino a
che punto il peso corporeo nei pazienti con malattia renale cronica sia influenzato da tali fattori
contrastanti. In Europa, in una coorte di pazienti incidenti in dialisi il BMI medio era 25.3 kg/m2; ci si
aspetta, inoltre, che più della metà dei pazienti che inizia la dialisi sia sovrappeso o obeso (Zoccali
2009). Dati relativi al BMI e alle sue variazioni nella malattia renale cronica da lieve a severa sono
scarsi. In una coorte di 521 veterani statunitensi con malattia renale cronica lieve-moderata (521
uomini; età media 68 anni, razza nera 21%; GFR 37 ml/min/1.73 m2) il 50 % dei soggetti era
sovrappeso o obeso (BMI > 28 kg/ m2 ) (Kovedesky 2007). In un sottogruppo di partecipanti agli
studi ARIC e CHS (condotti negli Stati Uniti), affetti da insufficienza renale cronica lieve (1669
soggetti, età media 70 anni, GFR 51 ml/min/1.73 m2 ) il BMI medio (in entrambi i sessi) era di 27.2
kg/m2 ed il 65 % dei pazienti era sovrappeso o obeso (Elsayed 2008). Nei pazienti asiatici con
malattia renale cronica, il BMI sembra essere inferiore (24.1 kg/m2) in una coorte di pazienti
giapponesi piu’ giovani (eta media 59 anni) con insufficienza renale lieve (GFR 54 ml/min/1.73 m2),
con valori leggermente inferiori nelle donne (Sawara 2009). Allo stesso modo, a Taiwan, un gruppo di
pazienti simili per eta’ e stadio di malattia renale, aveva un BMI di 24.7 kg/m2, senza differenze
significative tra uomini e donne (Lin 2007). In realta’, e’ ben noto che nelle popolazioni asiatiche il
cut-off tra sovrappeso ed obesita’ corrisponde a valori di BMI inferiori rispetto a qelli della
popolazione caucasica. I dati di BMI di una coorte italiana con insufficienza renale da moderata ad
avanzata seguita in regime di ambulatorio (De Nicola 2006) mostrano un valore medio di BMI di 27.2
kg/m2, con valori maggiori nelle donne e nei pazienti diabetici, come evidenziato nella popolazione
statunitense con malattia renale cronica. È interessante notare che non sono state riscontrate
differenze durante il decorso della malattia, infatti i valori di BMI erano simili negli stadi da 2 a 5
della malattia renale. Utilizzando la classificazione della Organizzazione Mondiale della Sanita’, 2
pazienti su 3 (65 %) erano sovrappeso o obesi. Complessivamente, sembra che l’importanza del
sovrappeso o obesita’ nella popolazione con malattia renale cronica sia in aumento in tutto il mondo.
Mentre esistono numerosi dati che correlano la mortalità in dialisi con il BMI (con l'elaborazione della
classica curva ad "U"), pochi dati, e non di RCT, sono reperibili in letteratura circa l'influenza della
malnutrizione in "eccesso" o in "difetto" rispetto alla mortalità e alla perdita di funzione renale in IRC.
Sono state sviluppate diverse linee guida sull’approccio nutrizionale dei pazienti con malattia renale
cronica. Sebbene esse si concentrino soprattuto sui pazienti in emodialisi, e’ interessante riassumere
delle indicazioni fondamentali relative alla misurazione della composizione corporea e soprattutto
all’antropometria e alla bioimpoedeziometria (BIA) (tabella 1). In generale, tali tecniche dovrebbero
essere utilizzate per individuare, nell’ambito della valutazione clinica del paziente, le variazioni
iniziali della massa muscolare e dell’acqua corporea e per acquisire informazioni connesse alla stato
nutrizionale.
Le linee guida europee affermano che l’antropometria e le altre tecniche di valutazione della
composizione corporea (BIA o dual X-ray absorptiometry) possono essere utilizzate per la diagnosi di
malutrizione nei pazienti in emodialisi (opinione) (Fouque 2007); al contrario, non ci sono
raccomandazioni riguardanti i pazienti con malattia renale cronica non ancora in dialisi. I pazienti in
emodialisi dovrebbero avere un BMI > 23.0 kg/m2. L’antropometria dell’aria media del braccio
(MAC) e lo spessore delle pliche cutanee sono delle misurazioni importanti per la valutazione dello
stato nutrizionale (Fouque 2007). In particolare, MAC e la circonferenza muscolare dell’aria media del
braccio (MAMC) possono essere utilizzate per valutare la massa muscolare. La BIA, invece, consente
di effettuare una stima dei compartimenti liquidi corporei, utile per la valutazione della composizione
corporea.
Secondo le linee guida K/DOQI lo stato nutrizionale nei pazienti in dialisi dovrebbe essere valutato
usando una combinazione di misure valide e complementari piuttosto che una singola misura
(opinione degli esperti) (K/DOQI 2000). In realta’, non esiste un singolo parametro che fornisce
un’indicazione esaustiva dello stato metabolico-nutrizionale, inoltre una condizione di ridotta o
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La cura dell’IRC 00002
eccessiva nutrizione puo’ essere indentificata con maggiore sensibilita’ e specificita’ utilizzando una
combinazione di metodi. L’interpretabilita’ dei valori di BMI e’ limitata nella popolazione con
malattia renale cronica a causa dell’eccesso di liquidi. La MAC e lo spessore delle pliche cutanee sono
raccomandate nella valutazione nutrizionale dei pazienti con malattia renale cronica. Inoltre, secondo
le linee guida K/DOQI, la BIA e’ un metodo interessante per la valutazione nutrizionale nei soggetti in
dialisi in quanto poco costosa, non invasiva o dolorosa, richiede un training minimo dell’operatore che
la esegue e fornisce dati correlati con molti aspetti della composizione corporea.
Le linee guida inglesi fornisco poche indicazioni riguardanti la determinazione della composizione
corporea. Solo nella linea guida 4.1 C-NUTR: screenng nutrizionale si afferma che tutti i pazienti con
malattia renale cronica stadio 4 e 5 dovrebbero effettuare regolarmente uno screening nutrizionale
(buona pratica) (UK Guidelines 2007). Diverse potenziali misure dello stato nutrizionale, incluso
creatinina, colesterolo, albumina, SGA (subjective global assessment), BMI, massa magra e handgrip
strength, predicono una sopravvivenza del paziente negativa. Quindi, poiche’ non esiste un gold
standard per la valutazione dello stato nutrizionale nei pazienti con malattia renale cronica, dovrebbe
essere utilizzata una serie di misurazioni, riflettenti i vari aspetti dello stato nutrizionale
proteico-calorico (UK Guidelines 2007).
Le linee guida KDIGO (Kidney Disease: Improving Global Outcomes) (KDIGO 2005), CORR
(Canadian Organ Replacement Registry) (CORR 2010) and CARI (Australian Guidelines) (CARI
2010) non forniscono informazioni riguardanti le misurazioni antropometriche nella malattia renale
cronica.
L’antropometria può essere utilizzata nei pazienti con malattia renale cronica non ancora in dialisi per
valutare la presenza di malnutrizione proteico-calorica o di cachessia, o per definire le relazioni tra
composizione corporea ed anomalie metaboliche e/o alcuni fattori di rischio cardiovascolare.
Relativamente alla iponutrizione, l’utilità dell’antropometria è anche dimostrata dal fatto che la SGA
( Cooper 2002), che è una tecnica clinica ampiamente usata nei pazienti con malattia renale cronica,
valuta lo stato nutrizionale considerando non solo alcune notizie anamnestiche ma anche la riduzione
della massa muscolare e del grasso sottocutaneo (valutate con l’esame fisico). In realtà, la valutazione
dello stato nutrizionale nei pazienti con malattia renale cronica è una procedura che coinvolge la
valutazione delle riserve di proteine viscerali e/o somatiche, e richiede l’utilizzo contemporaneo di
diversi strumenti. Dati sulle misurazioni antropometriche, ad esempio il BMI, ma anche lo spessore
delle pliche cutanee e l’antropometria dell’aria media del braccio, sono riportati in molti studi e
generalmente concordano con altre tecniche utilizzate per identificare la malnutrizione. La valutazione
nutrizionale basale comprende l’antropometria, la SGA, alcuni esami ematochimici (albuminemia) e la
stima dell’intake dei nutrienti. L’antropometria (peso corporeo, BMI, MAC, MAMC) rappresenta uno
strumento di primo livello per la valutazione delle proteine somatiche (essenzialmente la massa
muscolare) (Pupim 2006). Dall’altro lato, la stima del grasso corporeo mediante la plicometria,
potrebbe essere, almeno in teoria, di particolare interesse nei pazienti edematosi, che presentano peso
corporeo e BMI aumentati a causa di un incremento patologico dell’acqua corporea intracellulare.
Infine, bisogna dire che non ci sono specifici valori di riferimento per le misurazioni antropometriche
né per i pazienti in dialisi né per i pazienti con malattia renale cronica non in dialisi.
L’associazione tra gli indici di grasso corporeo ed i fattori di rischio cardiovascolare è stata valutata da
diversi studi cross-sectional, ma spesso come endpoint secondario. Ad esempio, Madero et al (Madero
2007) ha osservato in 1772 soggetti con malattia renale cronica severa, non ancora in dialisi, che
quartili di BMI più alti erano associati ad una maggiore prevalenza di diabete, elevate livelli di
pressione arteriosa e di colesterolo LDL, e a livelli più bassi di colesterolo HDL. In un altro studio su
pazienti con malattia renale cronica non in dialisi, la correlazione tra circonferenza vita e lipidi o
insulino-resistenza sembra essere simile a quella osservata per il grasso viscerale valutato mediane
tomografia computerizzata ( Sanches 2008). Inoltre, è stato riscontrato che il BMI, il grasso troncale
o viscerale sono associate con i markers di infiammazione, mentre è stata descritta una relazione
complessa tra obesità, sindrome metabolica e malattia renale cronica. In ultimo, il sovrappeso e
l’obesità sono fattori di rischio noti per la proteinuria (Iseki2004, Foster 2008).
Bioimpedenziometria nella malattia renale cronica
L’antropometria rappresenta una parte importante della valutazione della composizione corporea, ma
non distingue tra proteine corporee, ossa ed acqua. Pertanto, è ragionevole combinare l’utilizzo
dell’antropometria con quello di altri strumenti che consentano misurazioni e/o stime facili ed
affidabili dell’acqua corporea e possibilmente della massa cellulare. I valori di riferimento per la
bioimpedenza nelle popolazioni sane sono state fornite sia per gli adulti (percentile) sia per i bambini
(vettori) ( Di Iorio 2000, De Palo 2000, Bellizzi 2006). La bioimpedenza ha attirato l’interesse dei
nefrologi in quanto è uno strumento semplice per valutare la composizione corporea nella malattia
renale cronica ed, eseguito a letto del paziente, fornisce allo stesso tempo informazioni sulla
composizione corporea e sullo stato di idratazione.
Diagnosi dell'acqua extravascolare polmonare: nuove frontiere
Nessuna delle metodiche proposte, molte di queste invasive, complesse o costose, (cateterismo e
diluizione di doppio indicatore, la misura dell'impedenza toracica, la scintigrafia, la risonanza
magnetica, la tomografia ad emissione di positroni, sono correntemente utilizzabili per
l'identificazione della congestione polmonare prima delle manifestazioni cliniche di malattia, così che
ancora oggi la radiografia standard del torace rimane il miglior test disponibile, sebbene altamente
impreciso tanto da non essere raccomandato nella gestione clinica del paziente con scompenso
cardiaco ( Hunt 2005). recentemente è stata proposta ed applicata in Cardiologia una metodica
diagnostica basata sull'ecografia toracica che consente una rapida quantificazione dell'acqua
polmonare extravascolare. in condizioni normali l'aria presente nei polmoni non consente una
valutazione del parenchima polmonare, ma l'eventuale presenza di acqua nei setti interlobulari e negli
alveoli aumenta la risoluzione del fascio ultrasonoro e determina salti di impedenza che generano le
"COMETE" ultrasoniche, la cui presenza e numero permette la quantificazione di acqua polmonare
extravascolare da scompenso cardiaco. Infatti agli ultrasuoni il polmone normale è nero, quello da
scompenso è a strisce biano-nere ( Picano 2010, Bedetti 2006). Sono comunque necessari studi
controllati in IRC, ma l'interesse dei nefrologi è già puntato su questo argomento (Mallamaci 2010).
Sommario
1. La maggioranza dei pazienti con malattia renale cronica sono sovrappeso o obesi.
2. Recenti studi mostrano un’associazione tra la malnutrizione proteico-energetica e la mortalit’
nei pazienti con malattia renale cronica non ancora in dialisi.
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La cura dell’IRC 00002
3. Alcuni studi effettuati in pazienti con malattia renale cronica, ma non tutti, indicano che c’e’ una
relazioen inversa tra il BMI ed alcuni outcomes quali la mortalita’ e gli eventi cardiovascolari.
4. Il BMI sembra essere un predittore dell’inizio della malattia renale cronica; e’ stata descritta
anche una possibile associazione con la circonferenza della vita o il rapporto vita-anca.
5. Le linee guida internazionali non forniscono delle chiare indicazioni sulla valutazione dello stato
nutrizionale nei pazienti con malattia renale cronica non ancora in dialisi.
6. Alcune misure antropometriche come il BMI, la circonferenza del braccio, la circonferenza
dell’area muscolare del braccio e le pliche cutanee possono essere usate nella valutazione di
anomalie precoci dello stato nutrizionale nei pazoenti con malattia renale cronica non ancora in
dialisi.
7. Le valutazioni antropometriche dovrebbero essere usate insieme ad altri strumenti per una
valutazione globale dello stato nutrizionale del paziente con malattia renale cronica non in
dialisi.
8. In molti casi, la bioimpedenziometria e’ una tecnica utile per valutare i liquidi corporei nei
pazienti con malattia renale cronica.
9. L’utilizzo dell’antropometria o della bioimpedenziometria per monitorare le variazioni nel
tempo dello stato nutrizionale dei pazienti con malattia renale cronicano e’ stato ancora ben
definito.
KEY POINT
L’utilizzo di definizioni comuni, chiare e condivise e’ un punto fondamentale nel campo della nutrizione clinica, poiche’ abbastanza spesso termini
differenti vengono utilizzati per la stessa condizione nutrizionale, oppure termini uguali vengono usati per diverse condizioni nutrizionali.
Nel 2008, un panel di esperti, nell’ambito della Societa’ Internazionale di Nutrizione Renale e Metabolismo, ha rivisto la terminologia connessa ai
problemi nutrizionali nella malattia renale cronica. Il termine malnutrizione e’ stato considerato confondente ed ambiguo in quanto puo’ indicare
una condizione sia di ridotto sia di aumentato stato nutrizionale.
Gli esperti hanno raccomandato l’utilizzo dei termini malnutrizione proteico-energetica e cachessia.
La malnutrizione proteico-energetica e’ stata definita come uno stato di ridotte riserve corporee proteiche ed energetiche (cioe’ proteine e grassi
corporei). Tale anomalia e’ spesso associata ad una ridotta capacita’ funzionale connessa alle condizioni di stress metabolico. La malnutrizione
proteico-energetica puo’ riferirsi a gradi molto diversi di deplezione nutrizionale.
La cachessia, invece, si riferisce ad una forma molto severa di malnutrizione proteico-energetica, frequentemente associata a gravi disordini
psicologici, metabolici ed immunologici. La cachessia e’ una sindrome complessa che si verifica spesso come una grave complicanza di diverse
malattie croniche. Essa si accompagna ad una prognosi molto scarsa e non vi sono terapie approvate per il suo trattamento ( Fouque 2008).
Figure
Rischio di progressione
release 1 pubblicata il 01 aprile 2011 18:18 da Biagio Raffaele Di Iorio
L’incidenza, la prevalenza, la mortalità e i costi per i pazienti con IRC aumentano in modo
esponenziale per l’aumento della vita media, dell’incidenza di ipertensione arteriosa, diabete mellito e
l’adozione di stili di vita più sedentari ( Levey 2009).
La malattia renale cronica trova il suo primum movens in una serie di fattori dopo elencati (Manley
2007)
età
razza
familiarità
scolarità
Fattori di inizio
ipertensione
diabete
malattie renali specifiche
Fattori di progressione
proteinuria
ipertensione
iperglicemia
obesità
fumo
Inoltre, la progressione dell’IRC è associate con una serie di severe complicanze cardiovascolari.
Perciò il trattamento di fattori tradizionali e non tradizionali di rischio cardiovascolare negli individui
con IRC coinvolge il bisogno di un team multidisciplinare (Thomas 2008, Hemmelgarn 2007, Harris1
998)
La figura 2 mostra il Rischio Cardiovascolare in accordo allo stadio di IRC (modificata da Schiffrin
2007)
Proteinuria e rischio di progressione
La microalbuminuria riflette un’alterazione della funzione vascolare ed è associate ad un alta
suscettibilità per eventi renali e cardiovascolari. La possibilità che la proteinuria possa accellerare la
progressione della malattia renale di per sé ha armai ricevuto numerosi attestati da numerosi studi
clinici e sperimentali (Figura 3) ( Remuzzi 1998, Iseki 2003, Glassock 2010).
Le evidenze indicano che questo processo avviene attraverso l’espressione di chemochine tubulari e
attivazione del complemento che stimola l’infiltrazione di cellule infiammatorie nell’intertizio e
provocare fibrogenesi. I macrofagi sono le cellule infiammatorie preminenti . il carico proteico
ultrafiltrato a livello delle cellule del tubulo prossimale up-regola l’attrazione e l’adesitività di
molecole pro-infiammatorie attraverso l’attivazione di pathway NF-κB-dipendenti e
NF-κB-indipendenti. Infine evidenze suggeriscono che la proteinuria causa apoptosi delle cellule
tubulari (Abbate 2006).
dell’aldesterone che diventa il secondo effettore (con effetti pro-infiammatori, stimolanti fattori di
crescita, pro-collagene e proliferazione cellulare) nel determinismo della glomeruloscelrosi e della
fibrosi tubulo-intertiziale ( Remuzzi 2008).
Il declino della funzione renale è accellerato dalla presenza contemporanea di ipertensione arteriosa e
proteinuria ( Ruggenenti 1998, Eijkelkamp 2007) (figura 4 ).
È stato accertato il beneficio dell’uso di vitamina D nel ridurre la proteinuria: regolazione della PA
con un meccanismo di controllo del SRAA (Gal-Moscovici 2010, Li 2002, Alborzi 2008).
Diabete e rischio di progressione
Il 20-40 % dei soggetti diabetici presenta malattia renale cronica e spesso definita da proteinuria,
ipertensione arteriosa, dislipidemmia, retinopatia, neuropatia.
Il Risk score per ESRD (RENAAL study) tiene conto del rapporto albumina/creatinina,
l’albuminemia, la creatininemia e l’emoglobinemia è un robusto indice di rischio per nefropatia
Risk Score = (1.96 x log albu/Cru)-(0.78 x albs)+(1.23 x Crs) (0.11 x Hb) (Keane 2006)
Dislipidemia fumo, obesità, acidosi e rischio di progressione
L’ipercolesterolemia è un fattore predittivo della perdita progressivqa di funzione renale in pazienti
diabetici e non diabetici, con o senza IRC ( Wang 1999) (Athyros 2004).
Il fumo di sigarette è stato indicato come importante fattore di rischio per malattie renali progressive.
Il meccanismo non è ancora stato stabilito, ma si ipotizza che lo stress ossidativo, azione
pro-infiammatoria e ossido nitrico possono causare proteinuria e alterazioni della filtrazione
glomerulare (Sauriasari 2010, O'Seaghdha 2010).
Evidenze indicano che l’obesità , anche in assenza di diabete, contribuisce significativamente allo
sviluppo e alla progression di malattia renale cronica. È stato proposto che lo sviluppo di
glomerulosclerosi consegente all’iperfiltrazione e ipertrofia a livello glomerulare non è sufficiente
senza concomitante ipertensione arteriosa.
Bisogna sottolineare che basso peso salla nascita può rappresentare un fattore di rischio per IRC non
solo per riduzione numerica dei nefroni alla nascita, ma anche per la possibilità successiva di
sviluppare obesità e ipertenssione (Griffin 2008, Tomaszewski 2007).
Una recente review della Cochrane Collaboration (Levey 2009) mette in evidenza che non vi sono
evidenze che supportino la correzione dell’acidosi in pre-ESRD con sodio bicarbonato (Levey 2009), e
conclude con l’affermazione che RCTs sono necessari per valutare i benefici e i rischi della
correzione dell’acidosi in pre-ESRD ( Roderick 2007).
Nello stesso 2009 appare nella letteratura scientifica un RCT che evidenzi come la somministrazione
di bicarbonato di sodio, e la conseguente correzione dell’acidosi, nei pazienti in ESRD stadio 4-5
rallenti la progressione della malattia renale cronica e migliori lo stato nutrizionale. Questo studio è
randomizzato, prospettico, open-label, monocentrico ed ha studiato 134 pazienti (De Brito-Ashurst
2009).
È conosciuto l’effetto dell’acidosi sull’aumento del catabolismo proteico (Ballmer PE, J Clin Invest
1995;95:39-40), sull’ossidazione degli aminoacidi a catena ramificata (Mitch WE; Miner Electrolyte
metab 1999;25:216-219 ), sulla ridotta sintesi delle proteine viscerali ( Lofberg E; Clin Nephrol
1997;48:230-237). Sono, ancora noti gli effetti benefici della somministrazione di bicarbonato in
modelli sperimentali su ratti ( Jara A; Kidney Int 2000;58:1023-1032 ; Jara A, Nephrol Dial Transplant
2004;19:1993-1998) e gli effetti della correzione dell’acidosi sullo stato nutrizionale (Chiu YW; Sem
Nephrol 2009;29:67-74;Bommer J; Am J Kidney Disease 2004;44:661-671;Wu DY; Clin J Am Soc
Nephrol 2006;1:70-78;Menon V, AJKD 2010; 56:907-14)
Infine, recentemente vi è stata una pubblicazione su Kidney Int (Wesson 2010) che ha messo l’accento
sui fattori patogenetici, quali l’endotelina e l’iperaldosteronismo, determinati dall’acidosi metabolica
nel peggiorare la funzione renale in ratti da esperimento.
A commento di questo articolo nello stesso numero di Kidney Int appare un editoriale di Sahni , Rosa
e Batlle D con le seguenti affermazioni:
“There is increasing evidence that alkali therapy can retard progression of chronic kidney disease
(CKD). We summarize recent studies and discuss a mechanism whereby alkali therapy may neutralize
acid production associated with typical Western diets, which generate acid. We emphasize the
rationale for using alkali therapy early in the course of CKD, even in the absence of overt metabolic
acidosis, and we urge the pharmaceutical industry to develop palatable alkali- containing solutions
(Sahni 2010).
Il presupposto che il filtrato con l’età glomerulare declini è valido?
(Coresh 2008)
Il declino del FG con l’età è legato a sclerosi glomerulare, sclerosi vascolare, e tubulare atrofia con
riduzione della corteccia corticale e del rene in toto. Le cause del declino del FG legato all’età è ancora
un’importante area di ricerca ( Coresh 2009). Infatti, la causa di aumento della fibrosi renale
(glomerulosclerosi, fibrosi tubulo-intyerstiziale, sclerosi vascolare) con l’età che porta alla perdita
della funzione renale è ancora poco noto ( Anderson 2009). Nei modelli animmali vi è accumulo di
collageno nei glomeruli, nei capillari peritubuilari e bel tessuto tubulo-interstiziale per aumentata
trscrizione del gene di codifica del collagene tipo III (Abrass 1995). È stato ipotizzato che un
accorciamento del telomero e un’aumentata espressione del p16INK4A possono essere implicate
nella senescenza cellulare, ma l’accorciamernto del telomero non è dimostrato (Melk2004, Melk 2000).
KEY Point
10 gradini per il successo (modificato da 48)
Percorso terapeutico
Ipertensione arteriosa
release 1 pubblicata il 01 aprile 2011 18:54 da Biagio Raffaele Di Iorio
Le figure 1 e 2 mostrano i problemi della misura legati allo strumento e al paziente, mentre la figura 3
mostra le controindicazioni assolute e relative alla ABPM (modificate da J Hypertens. 2007
Jun;25:1105-87) (Guidelines 2007)
Per quanto riguarda il punto 3 (della Figura 3), se la differenza di PA tra le due braccia è > di 20 mm
Recentemente Rothwell, con post hoc analysis di trials per la prevenzione dello stroke, ha messo in
evidenza che la variabilità della PA (calcolata come DS di successive misurazioni della PA) sia un
forte predittore (come la PAS massima, ma non la PAD, o la PA media) di outcomes CV. Ma non
esistono ancora dati in IRC (Rothwell 2010).
Le raccomandazioni nelle attenersi a stili di vita più consoni alla patologia IRC (attività fisica,
riduzione del peso corporeo in caso di obesità, abolizione del fumo, predilezione di cibi a scarso
contenuto di grassi saturi) sono necessarie.
Quali farmaci usare
L’imperativo è normalizzare la PA per prevenire la perdita di funzione renale, e perciò ogni farmaco
ipotensivante può entrare di diritto nell’armamentario terapeutico.
Accanto a questo concetto, bisogna considerare che vi sono moltissime evidenze sull’importanza di
ridurre la proteinuria attraverso l' inibizione del SRAA, sull’importanza di migliorare outcomes
cardiaci attraverso l’uso di beta-bloccanti; e l’uso del diuretico dell’ansa diventa imperativo,
adeguando i dosaggi alla ridotta funzione renale, per un controllo ottimale dei fluidi, prestando
particolare attenzione alla disidratazione. Infine è da considerare il numero complessivo di farmaci da
Procedura aggiornata il: 05 febbraio 2013 Pag. 32 di 73
Preparata e verificata da (autore): Biagio Raffaele Di Iorio
La cura dell’IRC 00002
Da queste considerazioni e dall’analisi della letteratura scientifica appare ragionevole l’uso combinato
di ACE-I con Sartanico e Beta-bloccanti.
Il blocco diretto della renina con l’uso di aliskiren non ha ancora di tutte le evidenze dei RCTs che
invece hanno gli ACE-I e i sartanici e l’uso in monoterapia non appare fornire risultati migliori
rispetto all’associazione con ACE-I e satanici, sebbene vi siano studi che dimostrano effetti
renoprotettivi indipendenti dagli effetti antiipertensivi ( Parving 2008) (Norris 2010, Stanton 2010).
Rinnovato interesse è rappresentato dagli inibitori dell’aldosterone per gli effetti di questo ormone
sul facilitare la fibrosi renale (Campese 2011). Infatti l’aldosterone è attivato sia dall’angiotensina II,
ma anche da un ridotto introito si sale, dalla dislipidemia e dall’iperglicemia, e provoca a sua volta
l’attivazione di fattori pro-infiammatori (ROS, MCP-1, IL-6, IL-1ß), di fattori della crescita (GTGF,
TGF-1ß), fattori attivatori della matrice extracellulare (collagene I e IV, PAI-1), e provoca la
proliferazione e la crescita dei fibroblasti. Tutte queste azioni determinano glomerulosclerosi e fibrosi
tubulo-interstiziale a livello renale ( Remuzzi 2008).
Possono essere utilizzati, in associazione per un controllo ottimale della PA, farmaci come i Calcio
antagonisti (soprattutto i non-diidropiridinci) e i farmaci Vasodilatatori (compreso il minoxidil per
portare il valore della PA del paziente al gradino più basso possibile nella Carta del Rischio CV)
(Mann JF, Nephrol Dial Transplant. 2011;26:50-55) (Ruggenenti 2011)
Metabolismo Calcio-Fosforo
release 2 revisionata il 29 marzo 2011 19:47 da Luigi Francesco Pio Morrone
In una fase relativamente precoce della MRC (già da 80 ml/min/1.73m2 di eGFR) si comincia ad
osservare una riduzione dei livelli circolanti medi di 1,25(OH)2 vitamina D ( Levin 2007). Tale
riduzione si accentua progressivamente con il ridursi dell’ eGFR e diventa deficienza (< 22 pg/ml)
mediamente nell’intervallo di eGFR tra i 30 ed i 40ml/min/1.73m2. Tuttavia è da sottolineare la non
trascurabile presenza di deficienza di 1,25(OH)2 vitamina D in pazienti con funzione renale
relativamente conservata. Infatti circa il 10-15% dei pazienti con eGFR ≥ 60 ml/min/1.73 m2 presenta
livelli circolanti di 1,25(OH)2 vitamina D inferiori a 22 pg/ml.
E’ stata inoltre osservata una significativa correlazione lineare tra il decrescere dell’eGFR ed il ridursi
dei livelli circolanti di 1,25(OH)2 vitamina D, ma non con il ridursi dei livelli circolanti di 25(OH)
vitamina D. I livelli circolanti di 1,25(OH)2 vitamina D e di 25(OH) vitamina D sono
significativamente correlati tra loro, ma non nei pazienti con eGFR < 60 ml/min/1.73m2. In questi
ultimi pazienti la frequenza della deficienza di 1,25(OH)2 vitamina D (< 22 pg/ml) è più che doppia
rispetto alla frequenza della deficienza di 25(OH) vitamina D (< 15 ng/ml). Tra i pazienti con eGFR <
30 ml/min/1.73m2 la frequenza della deficienza di 25(OH) vitamina D oscilla tra il 20% ed il 30% dei
pazienti, mentre la frequenza della deficienza di 1,25(OH)2 vitamina D oscilla tra il 55% ed il 65%
dei pazienti.
L’FGF-23 è una fosfatonina prodotta nel tessuto osseo e molto importante, in condizioni fisiologiche,
nel regolare l’omeostasi del fosforo attraverso la sua azione fosfaturica (Westerberg 2007). La
produzione ossea di FGF-23 è, dunque, principalmente stimolata dalla iperfosforemia e dall’aumentato
introito dietetico di fosforo, nonché dall’aumentata concentrazione circolante di 1,25(OH)2 vitamina D
(Westerberg 2007). L’aumento dei livelli circolanti di FGF-23 ha un triplice effetto biologico: ridurre i
livelli di fosforemia mediante l’effetto fosfaturico, ridurre la produzione di 1,25(OH)2 vitamina D e
ridurre la produzione di PTH ( Westerberg 2007, Isakova 2011). Molte delle azioni biologiche
dell’FGF-23 sono mediate dall’interazione con uno specifico recettore e con una proteina di membrana
denominata klotho, la cui espressione fenotipica è coinvolta fisiologicamente nei processi di
invecchiamento. In condizioni carenziali di klotho (es. nella MRC o nell’invecchiamento), gli effetti
biologici dell’FGF-23 perdono notevolmente di efficacia.
Nella MRC i livelli di FGF-23 cominciano ad aumentare già nelle fasi più precoci, intorno ai 75
ml/min di filtrato glomerulare e continuano ad aumentare man mano che il filtrato glomerulare si
riduce, con un rapporto di significativa correlazione inversa rispetto al GFR (Isakova 2011, Larsson
2003).
Le alterazioni del PTH compaiono in una fase un po’ più tardiva del decorso progressivo della MRC
(Levin 2007). I livelli medi di PTH intatto circolante cominciano a superare i 65 pg/ml nell’intervallo
di eGFR compreso tra i 40 ed i 50 ml/min/1.73m2. In questo stesso intervallo i livelli medi di
1,25(OH)2 e di 25(OH) vitamina D sono prossimi ai limiti, rispettivamente, della deficienza (< 22
pg/ml) e della insufficienza (< 30 ng/ml). Livelli di PTH intatto > 65 pg/ml sono stati riscontrati in
circa la metà dei pazienti con eGFR compreso tra 30 e 40 ml/min/1.73m2 ed in oltre i ¾ dei pazienti
con eGFR < 20 ml/min/1.73m2 .
Le alterazioni della calcemia e fosforemia si manifestano solo in una fase molto tardiva della MRC
(Levin 2007). La ipocalcemia (< 8.4 mg/dl) e la iperfosforemia (> 4.6 mg/dl) cominciano a
manifestarsi tra i 30 ed i 40 ml/min/1.73m2 di eGFR, diventando conclamate al di sotto dei 30
ml/min/1.73m2. Nei pazienti con eGFR< 20 ml/min/1.73m2 la frequenza di ipocalcemia è intorno al
20% e quella di iperfosforemia è intorno al 40%.
2. Aspetti fisiopatologici delle alterazioni del metabolismo minerale nella malattia
renale cronica .
L’acquisizione di nuove conoscenze sull’importante ruolo dell’FGF-23 nell’omeostasi del fosforo ha
arricchito lo scenario fisiopatologico iniziale delle alterazioni del metabolismo minerale in corso di
MRC. Recuperando ed arricchendo i principi della trade-off hypothesis, c’è la tendenza ad inquadrare
in senso adattativo molte delle alterazioni del metabolismo minerale riscontrate precocemente nel
corso della MRC ( Gutièrrez 2010). In particolare, l’incremento combinato dei livelli circolanti di
FGF-23 e PTH rappresenterebbe il principale meccanismo compensatorio che, inducendo fosfaturia
nei nefroni superstiti, consentirebbe di evitare il conclamarsi della iperfosforemia. Ciò almeno sino a
valori di GFR di 30-40 ml/min/1.73m2, oltrepassati i quali il meccanismo adattativo diventerebbe
inefficace e quello che era un silente sovraccarico di fosforo (overload silente di fosforo) può
trasformarsi in iperfosforemia conclamata. Anche il deficit di 1,25 (OH)2 vitamina D, una diretta
conseguenza dell’azione inibitoria dell’FGF-23 sulla 1a idrossilasi, avrebbe un ruolo centrale in questo
meccanismo adattativo, inducendo ridotto assorbimento intestinale di fosforo e contemporaneamente
contribuendo all’aumento della secrezione paratiroidea di PTH, ormone ad attività fosfaturica.
Al contrario, in queste fasi ed in pazienti con eccessivo carico di fosforo ancora silente, piuttosto che
trattare moderati incrementi del PTH primitivamente con farmaci in grado di interferire direttamente
con la secrezione paratiroidea, potrebbe essere vantaggioso ridurre l’introito di fosforo, avvalendosi
della dieta ed eventualmente dei farmaci fosforochelanti. Con tale strategia si mirerebbe a ridurre il
PTH in modo indiretto, semplicemente agendo sul trigger di attivazione del meccanismo adattativo
che fa perno sull’azione fosfaturica dell’FGF-23 e del PTH. In altri termini, speculando su questi
meccanismi fisiopatologici compensatori, si potrebbe arrivare alla conclusione che nei pazienti con
MRC vi sia un concreto razionale a trattare non solo l’iperfosforemia franca ma anche, in fase più
precoce della MRC, il sovraccarico di fosforo ancora silente e normofosfatemico, semplicemente
riducendo l’introito di fosforo con la dieta o impiegando anche farmaci fosforochelanti ( Sigrist 2009).
Sfortunatamente, tali presupposti teorici non sono ancora suffragati da studi di intervento
metodologicamente idonei a dimostrare un significativo vantaggio su outcomes rilevanti. Inoltre non è
ancora sufficientemente chiaro quale sia il modo più agevole ed affidabile per svelare uno stato di
sovraccarico silente di fosforo in pazienti con MRC normofosfatemici. In questo ambito vari marcatori
sono stati proposti, dal PTH, alla frazione di escrezione del fosforo (purtroppo poco affidabile negli
stati avanzati della MRC), all’FGF-23 ( Wolf 2009; Klonoff 2009). L’impiego diagnostico di
quest’ultimo nello studio del bilancio del fosforo è stato anche paragonato a quello dell’emoglobina
glicata nei pazienti diabetici. In realtà l’introduzione dell’FGF-23 nella pratica diagnostica non è, allo
stato attuale, ancora suffragato da sufficienti evidenze scientifiche. Occorre inoltre ricordare che la
fosforemia non è l’unico determinante dei livelli circolanti di FGF-23, in quanto questi possono essere
influenzati, ad esempio, dall’età anagrafica e dalla espressione di klotho. Infine, la relazione tra
fosforemia e livelli di FGF-23 presenta ancora aspetti poco chiari. Per esempio, è stato osservato che
in soggetti con MRC ancora normofosfatemici e normocalcemici, l’incremento postprandiale della
fosfaturia è associato ad ipocalcemia ed aumento del PTH, piuttosto che ad aumento dei livelli di
FGF-23 ( Isakova 2008). Quindi, contrariamente a quanto atteso, l’ FGF-23 non sembra essere il
principale regolatore della fosfaturia dopo un carico orale di calcio e fosforo in pazienti con MRC ed
eGFR compreso tra 15 e 60 ml/min/1.73m2.
Ad ogni buon conto il parametro del metabolismo minerale cui si tende a dare la maggiore
importanza fisiopatologica nei pazienti con MRC in terapia conservativa è la fosforemia. Infatti,
l’iperfosforemia è associata ad alcuni importanti esiti come la morbilità e la mortalità cardiovascolare e
la progressione della insufficienza renale cronica (Kestenbaum 2005; Voormolen 2007). Anche in un
range ritenuto normale di fosforemia, piccoli incrementi di questo parametro sono associati a
significativo aumento di mortalità. Questo ha portato ad interrogarsi su quanto in basso, al netto di
condizioni di malnutrizione, si debba mirare a portare la fosforemia in pazienti con MRC. La
iperfosforemia è stata associata, nei pazienti con MRC, anche al processo di calcificazione vascolare,
un processo che può iniziare già precocemente nella MRC, la cui progressione è significativamente
condizionata dai valori di fosforemia (Russo 2007). Infine, resta un caposaldo fisiopatologico il ruolo
esercitato dal fosforo nello sviluppo e nella progressione dell’iperparatiroidismo (Slatopolsky 1973).
Persino l’associazione di elevati livelli di FGF-23 e di PTH con outcomes sfavorevoli in pazienti con
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Persino l’associazione di elevati livelli di FGF-23 e di PTH con outcomes sfavorevoli in pazienti con
MRC potrebbe, in chiave ipotetica, essere interpretabile come una manifestazione di “iperfosforemia
silente” di cui questi marcatori sono, come già detto, espressione adattativa. Infatti, nei pazienti con
MRC in terapia conservativa, gli elevati livelli di FGF-23 sono stati associati a disfunzione
endoteliale, ipertrofia ventricolare sinistra, elevato score di calcificazione coronarica ed a progressione
della insufficienza renale cronica ( Yilmaz 2010, Gutiérrez 2009, Kanbay 2010, Fliser 2007), mentre
livelli moderatamente elevati di PTH sono stati associati a ridotta sopravvivenza
(Bhuriya 2009, Kovesdy 2008).
3. Principi di gestione clinica del metabolismo minerale in pazienti con malattia renale
cronica.
In questo breve paragrafo si farà riferimento alle linee guida KDIGO (KDIGO 2009) per la parte che
riguarda la MRC.
A partire dallo stadio 3 della MRC, i pazienti dovrebbero effettuare le seguenti valutazioni
laboratoristiche periodiche: livelli circolanti di calcio, fosforo, PTH, fosfatasi alcalina e 25(OH)
vitamina D. I metodi di II generazione per il dosaggio del PTH intatto (iPTH) ed il dosaggio della
fosfatasi alcalina totale mantengono piena validità ed hanno sufficiente potere informativo diagnostico
nella gran parte dei casi. Informazioni suppletive possono essere fornite dai metodi di dosaggio del
PTH di III generazione e dall’isoenzima osseo della fosfatasi alcalina, in casi selezionati e dubbi.
In stadio 3 della MRC la calcemia e la fosforemia dovrebbero essere dosate almeno ogni 6-12
mesi, mentre il PTH, la fosfatasi alcalina e la 25(OH) vitamina D dovrebbero essere dosati ad
intervalli che dipendono dai valori baseline.
In stadio 4 della MRC la calcemia e la fosforemia dovrebbero essere valutate almeno ogni 3-6
mesi, PTH e fosfatasi alcalina almeno ogni 6-12 mesi e 25(OH) vitamina D ad intervalli che
dipendono dai valori baseline
In stadio 5 della MRC la calcemia e la fosforemia dovrebbero essere valutate almeno ogni 1-3
mesi, PTH e fosfatasi alcalina almeno ogni 3-6 mesi e 25(OH) vitamina D ad intervalli che
dipendono dai valori baseline.
I livelli target da raggiungere sono per calcemia e fosforemia quelli indicati dal laboratorio come
intervallo dei valori normali, mentre quelli ottimali per il PTH non sono ben definiti. Tuttavia valori di
PTH moderatamente al di sopra dei limiti superiori di laboratorio possono essere tollerati, purchè non
siano in significativo incremento nel tempo ed in presenza di calcemia e fosforemia in target. Essi
potrebbero rappresentare una manifestazione fisiopatologica di adattamento compensatorio ancora
efficace (vedi capitolo precedente).
Il dosaggio dell’FGF-23, invece, non è ritenuto ancora suffragato da sufficienti evidenze scientifiche
da renderne consigliato l’impiego diagnostico nella pratica clinica, anche se il suo interesse scientifico
va, come si è visto, aumentando esponenzialmente nel tempo
Negli stadi 3-5 CKD i pazienti dovrebbero essere sottoposti anche ad uno studio osteo-vascolare, da
ripetere eventualmente nel tempo con un intervallo che dipende dalle risultanze baseline.
Nello studio dell’osso non è ritenuto vantaggioso misurare routinariamente né la densitometria ossea
né i markers biochimici di turnover osseo. Tuttavia è accettabile considerare che valori marcatamente
elevati o bassi di PTH e fosfatasi alcalina (o di isoenzima osseo della fosfatasi alcalina) possono essere
abbastanza indicativi dello stato di turnover metabolico dell’osso. Opportuno è ritenuta, soprattutto
negli stati avanzati di MRC, la ricerca di fratture, soprattutto vertebrali e del bacino. La biopsia ossea
resta riservata a casi selezionati: fratture inspiegabili, dolore osseo persistente, ipercalcemia ed
iperfosforemia inspiegabili, sospetto di tossicità da alluminio e prima di iniziare la terapia con
difosfonati.
Lo studio vascolare è essenzialmente basato sulla ricerca delle calcificazioni vascolari. Electron beam
tomography e multislice computed tomography, sono sofisticate tecniche tomografiche in grado di
rilevare e quantizzare le calcificazioni coronariche, molto diffuse nella letteratura scientifica ma con
limitazioni all’impiego clinico routinario. Ciò per la loro scarsa diffusione, la necessità di
somministrare non trascurabili dosi di radiazioni nei pazienti, l’elevato costo e la buona correlazione
del loro potere informativo diagnostico con quello di altre metodiche più semplici, diffuse e sicure. Tra
queste vi sono la semplice radiografia laterale dell’addome per la ricerca delle calcificazioni dell’aorta
addominale e l’esame ecocardiografico per la ricerca delle calcificazioni valvolari. La radiografia
laterale dell’addome è molto utile nel rilevare e nel quantizzare le calcificazioni della parete anteriore
e posteriore dell’aorta addominale utilizzando uno score di semplice valutazione e calcolo (Kauppila
1997). Importante è sottolineare l’importanza prognostica delle fratture ossee e delle calcificazioni
vascolari, in quanto risultano in vari studi osservazionali significativi predittori indipendenti di
morbilità e mortalità cardiovascolare.
Per quanto attiene l’approccio terapeutico, le linee guida KDIGO mantengono un atteggiamento molto
cauto in considerazione della carenza di studi di intervento in questo ambito. La strategia che
comunque viene suggerita è quella di avere come prima linea di intervento la normalizzazione della
fosforemia mirando, nel contempo, a mantenere la calcemia nel range dei valori normali di
laboratorio. Moderati aumenti del PTH, purchè non in significativo incremento nel tempo, potrebbero
essere tollerati e ritenuti indice di un meccanismo compensatorio ancora efficace, specie in presenza di
fosforemia normale.
Un PTH in progressivo significativo incremento andrà invece trattato con vitamina D attiva e non con
calcimimetici in quanto questi ultimi sembrano essere associati ad aumento della fosforemia, effetto
che è stato ipoteticamente attribuito ad un’azione di riduzione dei livelli di FGF-23 da parte dei calci
mimetici e non della vitamina D attiva ( Chonchol 2009, Kalantar-Zadeh 2009).
Dieta
release 1 pubblicata il 30 marzo 2011 15:51 da Adamasco Cupisti
La “terapia nutrizionale” rappresenta un elemento centrale del trattamento conservativo del paziente
con insufficienza renale cronica, e consiste nel controllo dell’apporto di proteine, di fosforo e di sale,
insieme con modificazioni del tipo di proteine e di lipidi, sempre garantendo un adeguato apporto
energetico. Quest’ultimo è un punto di basilare importanza della dieta ipoproteica anche perché il
termine “dieta” è spesso inteso da molti soggetti come sinonimo di dieta ipocalorica dando luogo a
errori e rischio di malnutrizione. Meglio sarebbe infatti parlare di Terapia nutrizionale anche per
l’effettivo e favorevole impatto che questa ha su molti dei segni e sintomi dell’insufficienza renale
cronica, al quale partecipano anche le supplementazioni con calcio carbonato, e aminoacidi essenziali
e chetoacidi.
La manipolazione dietetica può comprendere, per fasi successive di gravità dell’insufficienza renale,
diversi livelli di restrizione proteica, ad iniziare da una limitazione a 0.8 g/Kg, per poi ridurre a 0.6
g/Kg, e ulteriormente fino a 0.3-0.4 g/Kg in casi molto selezionati e con supplementazione di
aminoacidi essenziali e chetoanaloghi. Questo si accompagna ad una parallela riduzione dell’apporto
di fosforo e di sale; il soddisfacimento della richiesta energetica e la correzione dell’acidosi
metabolica sono poi due elementi imprescindibili per il mantenimento del bilancio azotato. L’uso dei
prodotti aproteici ha lo scopo di fornire energia “pulita” al paziente, cioè praticamente priva di azoto,
fosforo, potassio e sale. Essendo diete ipofosforiche, oltre che ipoproteiche, il contenuto di calcio è
generalmente basso per cui se ne richiede la supplementazione che ha anche altri effetti positivi: la
forma di calcio carbonato permette di fornire basi e contribuisce alla correzione dell’acidosi
metabolica, e la somministrazione post-prandiale è utile quando si vuole ottenere anche un effetto
chelante il fosforo.
Dieta ipoproteica-ipofosforica con proteine animali: 0,6 g/kg di peso ideale di proteine, di cui 0,4
g/kg ad alto valore biologico (carni, pesce, albume), e 500-700 mg di fosforo. Uso di pane, pasta ed
altri prodotti aproteici per permettere un apporto calorico di 30-35 kcal/kg/die, e apporto controllato di
sodio < 100 mmol/die (2-6 g di sale). Integrazione con calcio carbonato (400-1200 mg di calcio
elemento, generalmente ai pasti). Applicazione in Stadio 3-5.
Applicazione in Stadio 3-4, in alternativa o in alternanza alla dieta ipoproteica standard, in particolare
in caso di indisponibilità o di scarsa aderenza all’utilizzo dei prodotti aproteici.
Sebbene rimangano ancora oggi dubbi sulla reale efficacia della dieta ipoproteica nel rallentare la
progressione della nefropatia, in termini di riduzione del GFR, l’effetto favorevole nel ridurre il
rischio di morte renale e quindi nel ritardare l’inizio della terapia sostitutiva è ben evidente [ Fouque
2009].
La storia naturale della malattia comporta un declino dell’apporto spontaneo di proteine e calorie e un
peggioramento degli indici di stato nutrizionale nei pazienti con insufficienza renale cronica, a partire
da 60-50 ml/min di GFR . Questo porterà ad una progressiva malnutrizione per inadeguatezza
dell’apporto di calorie, proteine e aminoacidi essenziali, cosa che non accade quando si assume una
quota ridotta ma selezionata di proteine insieme con un adeguato apporto calorico.
A fronte di un carico dietetico di proteine, già a partire da GFR <50 ml/min, si manifesta la tendenza
alla ritenzione di fosforo, radicali acidi, sodio e composti azotati: quindi la restrizione proteica può
prevenire e/o correggere l’acidosi metabolica, le alterazioni del metabolismo calcio-fosforo, la
resistenza all’insulina e la ritenzione di tossine azotate, responsabili anche dell’inappetenza
dell’anoressia uremica [Fouque 2007].
Fin dagli stadi molto iniziali della nefropatia, anche quando non vi sono segni di ritenzione azotata, la
restrizione di sodio è importante per un miglior controllo della pressione arteriosa e per l’effetto
anti-proteinurico, e la limitazione del fosforo è essenziale per la prevenzione dell’iperparatiroidismo
secondario. In ogni caso, proprio perché il contenuto di sodio e di fosforo di una dieta sono
proporzionali all’apporto proteico, la modulazione dell’apporto proteico è l’elemento necessario anche
se non sufficiente alla corretta impostazione della terapia nutrizionale nei vari stadi dell’insufficienza
renale cronica (vedi Tabella 1) [ Cupisti 2008, Aparicio 2009].
Possibili criteri per iniziare più precocemente la terapia nutrizionale sono, oltre all’elevata
motivazione del paziente e alla prevedibile buona aderenza alle norme dietetiche, possono essere una
Proteinuria >1 g, un’elevata progressione della nefropatia >5 ml/min/anno, la presenza di Diabete
mellito, un insoddisfacente compenso metabolico (ad es. urea plasmatica >100 mg/dl, fosforemia >4,5
mg/dl, bicarbonatemia <22 mmol/l).
E’ infine da ricordare che per ottenere i massimi benefici con il minimo rischio, l’indicazione e
l’applicazione di una terapia nutrizionale nel paziente con nefropatia cronica richiede sempre
un’attenta valutazione clinica e dietetico-nutrizionale, e un buon livello motivazionale sia del paziente
sia del nefrologo.
Il dietista deve innanzitutto ed “educare” il paziente alle prescrizioni dietetiche, preparare il piano
alimentare e adattarlo per quanto possibile ai suoi gusti e alle esigenze di lavoro e di vita di relazione. I
modelli di gestione di qualità dell’insufficienza renale cronica comprendono poi un ruolo attivo anche
dell’infermiere e dello psicologo [ Quintaliani 2009].
Al fine poi di valutare lo stato di nutrizione, la regolare registrazione del peso corporeo, una periodica
valutazione della composizione corporea con l’impedenziometria vettoriale, e l’albuminemia verranno
effettuate con maggiore o minore frequenza in base al livello di funzione renale residua. Strumenti utili
di verifica di aderenza alle prescrizioni dietetiche sono il calcolo del protein catabolic rate (tramite la
misurazione dell’urea urinaria delle 24h) per stimare l’effettivo apporto proteico, e la misura della
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Tabella 1
Stadio GFR
Prodotti aproteici Supplementazione con aminoacidi essenziali e chetoanaloghi
ml/min/1,73 m2 Apporto proteico giornaliero
Apporto proteico =
II 60-89 NO NO
RDA: 0,8 g/kg/p.c.
Restrizione proteica:
III 30-59 a. 0,6 g/kg/p.c. SI a. Non necessaria
b. 0,7 g/kg/p.c. NO b. Non necessaria
Restrizione proteica:
IV 15-29 a. 0,6 g/kg/p.c. SI a. Non necessaria
b. 0,3-0,4 g/kg/p.c. SI b. 0,1 g/kg/p.c.
Restrizione proteica:
V < 10-15
a. 0,6 g/kg/p.c. SI a. Non necessaria
(non in dialisi)
b. 0,3-0,4 g/kg/p.c. SI b. 0,1 g/kg/p.c.
Premesse
Sodio nell’organismo umano e fabbisogno
- Presente negli alimenti in forma ionica solubile, il sodio viene completamente assorbito
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- Presente negli alimenti in forma ionica solubile, il sodio viene completamente assorbito
nell’intestino e il suo bilancio corporeo viene mantenuto grazie alla sua escrezione renale; i reni hanno
sviluppato la capacità di riassorbire un’altissima percentuale del sodio filtrato nei glomeruli durante la
formazione dell’urina, permettendo all’organismo di trattenere tutta la piccola quantità di sodio
presente nei cibi alimenti naturali, tanto da rendere il fabbisogno di sodio dell’organismo molto ridotto
(meno di mezzo grammo al giorno, pari a circa 1 grammo di cloruro di sodio)
2. Introito di sodio, ipertensione arteriosa e rischio cardiovascolare
- Un’alimentazione a basso apporto di sodio è una fase fondamentale della prevenzione e della terapia
dell’ipertensione. Del resto, le raccomandazioni per la popolazione generale suggeriscono di limitare
l’apporto giornaliero di sale da cucina (cloruro di sodio) a 6 grammi al giorno (circa 2,4 grammi di
sodio) [ Report JNC 2004], che rappresenta una quantità largamente superiore al fabbisogno minimo
dell’uomo. Le popolazioni occidentali, tuttavia, assumono quantità di sale molto superiori
raggiungendo in media 10-12 grammi al giorno [Intersalt Cooperative Research Group 1998].
- Gli alimenti naturali contengono poco sodio ma, tuttavia, in quantità sufficiente a soddisfare
completamente il fabbisogno dell’organismo
- Anche alimenti elaborati di uso quotidiano contengono elevate quantità di sale: il pane e i
prodotti da forno (cracker, grissini, fette biscottate, cornflakes), ma anche paste ripiene (tortellini,
agnolotti, cannelloni), pizza, formaggi, insaccati.
- E’ opinione diffusa che i prodotti succedanei del sale da cucina, il cosiddetto “sale di farmacia”,
non contengano sodio e quindi possano essere utilizzati liberalmente a tavola. Questo non corrisponde
al vero; infatti, in questi prodotti la composizione per 100 grammi è pari a 13.5-13.6 g di Na+, 36-38 g
di Cl-; 28-30 g di K+; quindi, il sodio rappresenta circa 1/3 del comune sale da cucina e se viene usato
largamente l’apporto totale di sodio diventa significativo. Questi prodotti, inoltre, contengono elevate
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quantità di potassio che, se nell’iperteso essenziale possono non essere un problema, nel paziente con
insufficienza renale invece lo diventano perché si accumulano, considerando anche che la stragrande
maggioranza di questi pazienti è in trattamento con uno o più inibitori del sistema
renina-angiotensina-aldosterone che aumentano la potassiemia
Indicare le principali fonti di sodio alimentare per imparare a scegliere i cibi a minor contenuto
di sodio per ogni categoria di alimenti (Tabella 1);
Insegnare a leggere le etichette nutrizionali degli alimenti per individuare i prodotti con maggior
contenuto addizionale di sodio; secondo la normativa sull’etichettatura dei prodotti alimentari gli
ingredienti devono essere indicati in ordine decrescente e, quindi, che se sull’etichetta di un
prodotto alimentare il sodio o il sale compaiono tra i primi ingredienti quell’alimento è ricco in
sodio e, dunque, va evitato;
Prestare attenzione ad alcuni ingredienti che indicano la presenza del sale: sodio, cloruro di
sodio, bicarbonato di sodio, fosfato monosodico, glutammato monopodico;
Fornire al paziente raccomandazioni specifiche sulle modalità per ridurre l’utilizzo di sodio
nell’alimentazione a casa (Tabella 2);
Sottolineare sempre che l'uso di pane senza sale è lo strumento principale per ridurre l'apporto
alimentare di sodio;
Per i pasti fuori casa, suggerire di chiedere di non aggiungere sale nella preparazione delle
pietanze (es. carne, pesce, insalate), di evitare salse e condimenti (mostarda, ketchup, maionese),
di scegliere pietanze cucinate in modo semplice (griglia, arrosto, lesse)
Meglio abituarsi ad aggiungere poco sale a tavola, piuttosto che usare il cosiddetto “sale di
farmacia”
sono enormi [Karppanen 2006]; dunque, i cibi freschi devono essere sempre preferiti. Tuttavia, è
anche necessario intervenire sulla formulazione degli alimenti processati
ridurre per legge il contenuto di sodio consentito degli alimenti
promuovere accordi con le industrie alimentari e le mense per ridurre il sale aggiunto
durante la conservazione e la preparazione del cibo
pianificazione della produzione industriale che porti a nuovi prodotti con un contenuto
ridotto di sodio
Un aspetto di rilievo nella lotta al sale è rappresentato dalle etichette nutrizionali dei
prodotti alimentari industriali che devono essere comprensibili e di facile lettura per
consentire di identificare gli alimenti a basso contenuto di sodio; occorre promuovere:
normativa in materia di etichettatura di tutte le categorie di prodotti alimentari
industriali
segnalazione sui prodotti conservati di “attenzione” per "elevato contenuto di sale"
(definito in % per ciascun prodotto)
creazione di un logo visibile (di “basso contenuto di sale” e conservate qualità
gustative) da apporre sui prodotti
“Marchio” di qualità che può essere acquistato dalle aziende per utilizzarlo sui
prodotti alimentari con contenuto di sodio ridotto e migliore composizione di grasso
rispetto alla media dei prodotti sul mercato
le comunità medica e scientifica, dopo aver dimostrato scientificamente gli effetti dannosi del
sale, devono promuovere una cultura sociale sul problema del sale:
programmi educazionali nella popolazione
incoraggiare i media a prendere posizione nella lotta contro il sale emanando dati
scientifici e raccomandazioni ufficiali per diminuire l'utilizzo del sale
campagne di stampa e pubblicazione di articoli divulgativi sulla nocività del sale da parte
di fonti di informazione nazionali, così come avviene per altre sostanze nocive come
tabacco e alcool (in altri paesi questa campagne si sono dimostrate decisive per la lotta al
consumo di sale [Pekka 2002, Elliott 2006].
pubblicazione (su giornali, televisioni e radio) di studi di confronto del contenuto di sodio
dei prodotti alimentari di largo consumo
Figure
Figura 1.
Figura 2.
Premesse
- Nella popolazione generale, con e senza malattia renale, i livelli di fosforemia sono associati
significativamente al rischio di morte cardiovascolare [Dhingra 2007].
- Nei soggetti affetti da malattia renale cronica (CKD) una fosforemia superiore a 3.5 mg/dl è
associata ad aumentato rischio di morte [ Kestenbaum 2007].
- In questi pazienti (CKD) l’aumento della fosforemia aumenta anche il rischio di progressione
della malattia renale [Schwarz 2006].
- Il fosforo che viene introdotto quale componente naturale dell’alimento, vi si ritrova come
costituente di fosfoproteine, fosfolipidi di membrana, ATP, ADP, DNA, RNA o come sali di fosfato.
In una dieta mista libera, il contenuto di fosforo è direttamente proporzionale a quello di proteine
- Il rapporto proteine/fosforo non è comunque uguale per tutti gli alimenti ma in alcuni risulta più
ridotto [ Cupisti 2003, Noori 2010]; cioè alcuni cibi, nell’ambito dello stesso gruppo alimentare,
possono contenere meno fosforo a parità di contenuto proteico; inoltre, la biodisponibilità
(assorbimento intestinale netto) del fosforo è maggiore per il fosforo contenuto negli alimenti di
origine animale, rispetto a quelli di origine vegetale, dove si trova sotto forma di fitati che l’uomo,
mancando dell’enzima fitasi, non può utilizzare
- In media l’assorbimento intestinale netto del fosforo alimentare in una dieta mista è di circa il
60%. L’impiego di prodotti attivi della vitamina D (calcitriolo) aumenta questa percentuale mentre
l’uso dei chelanti intestinali del fosforo la riducono
- Il fosforo si può ritrovare, in forma nascosta, nei cibi sotto forma di additivi alimentari (coloranti;
addensanti; conservanti) [Benini 2010], arrivando fino ad 1 grammo al giorno in una tipica dieta
americana [ Karalis 2006].
- Un aspetto fondamentale è che il fosforo inorganico degli additivi viene assorbito completamente
e quindi rappresenta un carico aggiuntivo netto di fosforo per l’organismo
- In tutti i pazienti con riduzione anche iniziale della funzione renale – CKD stadio 3/5 – bisogna
monitorare frequentemente (Linee Guida) il livelli plasmatici di PTH, fosforo e calcio (l’aumento del
PTH compare precocemente a circa 50 ml/min di GFR, mentre l’aumento del fosforo compare più
tardivamente a circa 40-30 ml/min)
- Monitorare l’escrezione giornaliera del fosforo urinario per stimare l’introito alimentare di
fosforo (verifica aderenza prescrizione).
CHI ? → Nefrologo
2. Intervento nutrizionale
- diario e intervista alimentare consentono una valutazione preliminare di quantità e qualità degli
alimenti e, dunque, della quantità e fonte alimentare del fosforo
CHI ? → Dietista
3. Consapevolezza
- In tutto questo processo la presenza della figura del DIETISTA (meglio del dietista renale, come
negli altri paesi europei) è essenziale. Nei centri italiani di nefrologia il dietista è presente in meno del
20% dei casi [Bellizzi 2010]. È, dunque, auspicabile coinvolgere le autorità preposte in materia di
politica sanitaria per implementare informazione e presenza di dietisti
Figure
Figura 1.
Figura 2.
Anemia
release 1 pubblicata il 30 marzo 2011 18:14 da Roberto Minutolo
DEFINIZIONE
L’anemia rappresenta una complicanza comune dell’IRC che coinvolge circa un terzo dei pazienti
afferenti a strutture di nefrologia (De Nicola 2006). La causa principale risiede nella ridotta sintesi
renale di eritropoietina ed infatti la prevalenza di tale complicanza aumenta al ridursi del filtrato (De
Nicola 2006). Le linee Guida internazionali sono concordi nel definire anemia la presenza di valori di
emoglobina (Hb) inferiori a 13.5 g/dL nell’uomo e 12 g/dL nella donna (KDOQI 2006, European Best
Practice Guidelines 2004; Locatelli 2009).
APPROCCIO TERAPEUTICO
La terapia dell’anemia è sostanzialmente basata sulla somministrazione di ferro e agenti stimolanti
l’eritropoiesi (ESA) o in casi molto gravi sulle trasfusioni. Fortunatamente, l’introduzione degli ESA
ha consentito una notevole riduzione nel corso degli anni del ricorso alle trasfusioni sia nei pazienti in
dialisi che nei pazienti CKD in fase conservativa (Ibrahim 2008,
Ibrahim 2009). La necessità della supplementazione con ferro è evidente se si considera che tale
elemento è essenziale nel processo di maturazione midollare dei precursori eritroidi (il passaggio da
Procedura aggiornata il: 05 febbraio 2013 Pag. 51 di 73
Preparata e verificata da (autore): Biagio Raffaele Di Iorio
La cura dell’IRC 00002
elemento è essenziale nel processo di maturazione midollare dei precursori eritroidi (il passaggio da
pro-eritroblasti a eritroblasti, infatti, è ferro-dipendente) (Besarab 2009). Inoltre, studi osservazionali
hanno mostrato che la presenza contemporanea di una carenza marziale funzionale (saturazione della
transferrina,TSAT<20%) e assoluta (ferritina<100 ng/mL) si associa ad una riduzione di Hb di 0.6-0.8
g/dL e che la loro presenza aumenta significativamente il rischio di anemia (Hb<12 g/dL) del 72% e
del 23%, rispettivamente (Hsu 2002, McClellan 2004).
Gli indici attualmente considerati e maggiormente utilizzati nella pratica clinica sono rappresentati
dalla TSAT e dalla ferritina. Un valore di TSAT<20% e/o di ferritina<100 ng/mL richiedono l’inizio
della terapia marziale ( KDOQI 2006, European Best Practice Guidelines 2004; Locatelli 2009). Tali
indici sono da preferire in quanto di facile esecuzione e con costi limitati, pur essendo meno specifici e
sensibili di altri indici (Wish 2006). Questi includono il contenuto reticolocitario di Hb (CHr,
caratterizzato da maggiore sensibilità e specificità, non costoso di facile esecuzione), la percentuale
dei GR ipocromici (predice meglio la risposta alla somministrazione di ferro e di facile esecuzione), il
recettore solubile della transferrina (maggiore sensibilità e specificità rispetto ai precedenti, ma poco
diffuso e molto costoso).
SCELTA DEL TRATTAMENTO
Il timing della terapia per l’anemia (ferro o ESA) è essenzialmente basata sulla gravità del quadro
anemico. In soggetti con anemia lieve (11-13.5 g/dL nei maschi e 11-12 g/dL nelle donne) la terapia è
sostanzialmente basata sulla supplementazione marziale. Solo nei casi in cui i livelli di Hb siano <11
g/dL è previsto l’uso degli ESA, preceduto o accompagnato dalla terapia marziale.
TERAPIA MARZIALE
In ogni grammo di Hb sono contenuti 3.4 mg di ferro elementare, per cui l’aumento di 1 g/dL di Hb
richiede 150-200 mg Fe elementare. In condizioni normali, l’assorbimento intestinale di ferro è circa il
10-15% del quantità assunta. Tale percentuale aumenta in condizioni di carenza o di stimolo
all’eritropoiesi (es. ipossia, anemia, terapia con ESA) ed è ridotto in presenza di stati infiammatori
cronici (principalmente a cause di un aumento dei livelli di epcidina); inoltre, l’assorbimento
intestinale risulta ridotto dall’assunzione di altri farmaci (antiacidi, Sali di calcio) e dai pasti. Per tali
motivi, la somministrazione dovrebbe avvenire a stomaco vuoto (il legame con il cibo riduce
l’assorbimento), 2 h prima o 4 h dopo l’assunzione di antiacidi, 1 h prima o 2 h dopo l’assunzione di
sali di calcio e dal momento che la quantità di ferro assorbito si riduce all’aumentare delle dosi
assunte, è consigliabile assumere il ferro in dosi frazionate. E’ utile anche ricordare che l’assorbimento
di ferro avviene nel duodeno e nel digiuno prossimale (dopo trasformazione da Fe++ a Fe+++ nello
stomaco), per cui preparati a rilascio prolungato assorbiti nelle parti distali dell’intestino possono
essere meno efficaci. La dose giornaliera raccomandata è 150-200 mg/die di ferro elementare
prediligendo, laddove possibile, le formulazioni a base di sale ferroso (solfato, gluconato) in quanto
più facilmente assorbiti. Tuttavia, non ci sono evidenze che una preparazione sia superiore all’altra per
cui la scelta può essere effettuata in base a rapporto costo/efficacia e tollerabilità. Il ferro assorbito è
inizialmente incorporato nell’Hb e solo in un momento successivo ripristina i depositi. Ciò implica che
la durata del trattamento deve essere prolungato per almeno 6 mesi (1-2 mesi per correggere l’anemia
e 2-4 mesi per ripristinare i depositi, considerando che l’assorbimento si riduce dopo l’aumento
dell’Hb). Interrompere la terapia marziale dopo la normalizzazione dell’Hb predispone il paziente a
nuova anemizzazione. I disturbi più frequenti indotti dalla supplementazione con ferro sono quelli
gastrointestinali (riportati nel 10-20% dei pazienti) e sono dose-dipendenti. Strategie efficaci per
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gastrointestinali (riportati nel 10-20% dei pazienti) e sono dose-dipendenti. Strategie efficaci per
ridurre tale incidenza e migliorare quindi l’aderenza alla terapia sono quelli di ridurre la dose
giornaliera (eventualmente associando vitamina C) e somministrare il ferro ai pasti raddoppiando la
dose; nel caso il pazienti continui ad essere intollerante al trattamento è necessario passare alla via
endovenosa. Non esistono protocolli definiti da Linea Guida sulla supplementazione di ferro e.v. in
fase conservativa per quanto riguarda dosi e durata del trattamento. I pochi studi clinici disponibili in
letteratura hanno utilizzato ferro saccarato al dosaggio di 300 mg/mese eventualmente ripetuto sulla
base dei valori di ferritina ( Stopves 2001) oppure alla dose di 1 g in 14 giorni (due somministrazioni
da 500 mg o 5 somministrazioni da 200 mg) ( van Wych 2005) e ferro gluconato (250 mg a settimana
per 4 settimane) ( Agarwal 2006). Entrambe le preparazioni sono presenti in Italia: il profilo di
sicurezza è superiore per il ferro saccarato ma i costi sono notevolmente inferiori per il ferro gluconato
(Hayat 2008).
Il trattamento con ESA deve essere iniziato quando si riscontrano due valori di Hb<11 g/dL a distanza
di almeno 15 giorni ( KDOQI 2006, European Best Practice Guidelines 2004; Locatelli 2009). La via
di somministrazione in fase conservativa deve essere sottocutanea allo scopo di preservare le vene per
futuri accessi vascolari. La frequenza di somministrazione deve essere stabilita sulla base delle
caratteristiche farmacocinetiche della molecola utilizzata. Le dosi di attacco delle diverse molecole
sono per l’epoetina-a 50 UI/kg tre volte la settimana, per l’epoetina-b 20 UI/kg tre volte la settimana,
per la darbepoetina 0.45 µg/kg una volta a settimana o 0.75 µg/kg una volta ogni due settimane, per il
C.E.R.A. 1.2 µg/kg una volta al mese. Tali indicazioni, basate sul riassunto delle caratteristiche del
prodotto, dovrebbero essere riadattate sulla base di quelle caratteristiche demografiche cliniche e
terapeutiche del paziente che si associano ad una maggiore gravità dell’anemia e/o necessità di
maggiori dosi di ESA, quali età avanzata ( Stevens 2010) sesso femminile (Richardson 2002), diabete
(Thomas 2003), iperparatirotidismo secondario (Drueke 2002), livello di funzione renale (Fehr 2004) e
uso di farmaci inibenti il sistema renina-angiotensina (Vlahakos 2010). La presenza di tali influenze
sottolinea la necessità di un trattamento “individualizzato”
Un aspetto emergente del trattamento dell’anemia è rappresentato dall’utilizzo delle alte dosi di ESA
in pazienti che non raggiungono il target nonostante l’aumento progressivo delle dosi del farmaco (non
responders). Studi sperimentali e clinici hanno evidenziato che l’utilizzo di dosi elevate di ESA si
associa ad un aumentata produzione di sostanze ad azione ipertensivante, pro-trombotica e
Sulla base di tali studi, l’Anaemia Working Group of European Renal Best Practice ha suggerito di
evitare l’uso di dosi >20.000 UI/settimana o 300 UI/kg/settimana per l’epoietina o dosi >100
µg/settimana o 1.5 µg/kg/settimana per la darbepoetina al fine di bilanciare il rischio cardiovascolare
con i benefici della correzione dell’anemia nei pazienti che non rispondono al trattamento come
previsto o nei quali il peggioramento dell’anemia è indotto da fattori non renali (Locatelli 2010).
L’effetto della supplementazione vitaminica sull’anemia secondaria a IRC in fase conservativa non è
ancora ben noto, in mancanza di ampi studi randomizzati e controllati. Inoltre le evidenze presenti in
letteratura riguardano esclusivamente pazienti in emodialisi. Pertanto non sembra giustificato l’uso
routinario di supplementi di acido folico e vitamina B12 nei pazienti con IRC non-dialitica in buono
stato nutrizionale, a meno che non sia presente anemia macrocitica secondaria a deficit di folati ( Horl
1999, Schiffl 2006).
Alcuni studi effettuati in pazienti in emodialisi iporesponsivi agli ESA con deficit funzionale di ferro e
sovraccarico marziale (condizione di ferro bloccato) hanno evidenziato un miglioramento dei livelli di
Hb e una significativa riduzione delle dosi di ESA dopo terapia con vitamina C endovena (
Attallah 2006, Tarng 1998 ). Tale effetto adiuvante della vitamina C potrebbe essere mediato dalle sue
proprietà antiossidanti e di mobilizzazione del ferro dai depositi tissutali. In fase conservativa, in
assenza di studi clinici a riguardo, la supplementazione con vitamina C per os (1-1,5 g/settimana) è da
valutare in condizioni di ferro bloccato ( Horl 1999) oppure in corso di terapia orale con ferro allo
scopo di migliorarne l’assorbimento.
Il deficit di carnitina è evenienza comune nei pazienti con IRC avanzata, come effetto sia della ridotta
produzione da parte dei reni e della restrizione proteica, sia per le perdite che si verificano in corso di
emodialisi. Alcuni studi effettuati esclusivamente su pazienti in emodialisi hanno evidenziato un
possibile effetto benefico della supplementazione con carnitina sull’anemia e sulla risposta all’ESA,
verosimilmente mediato dal miglioramento della sopravvivenza eritrocitaria e della stabilità osmotica
di membrana ( Golper 2003). Sulla base delle evidenze presenti in letteratura le linee guida Americane
ed Europee consigliano l’impiego dei supplementi di L carnitina endovena solo nei pazienti in dialisi
con anemia resistente ad alte dosi di ESA (KDOQI 2006, European Best Practice Guidelines 2004).
INTERAZIONE NEFROLOGO-CARDIOLOGO-DIABETOLOGO
La necessità di interazione multidisciplinare tra nefrologi , cardiologi e diabetologi nasce dalla
dimostrazione dell’elevata incidenza di danni renali in pazienti cardiopatici e/o affetti da diabete
mellito, prevalentemente di tipo II.
Si tratta quindi di affrontare il problema dei pazienti affetti primitivamente da patologia cardiaca che
presentano nel corso del follow-up una disfunzione renale; l’insorgenza di insufficienza renale
modifica in modo rilevante la prognosi del paziente stesso.
In molte strutture ospedaliere esistono già attività ambulatoriali coordinate dove i pazienti vengono
seguiti clinicamente dal cardiologo e dal nefrologo al fine di stabilire una strategia gestionale,
terapeutica e preventiva che possa risultare efficace.
Nei pazienti nei quali si sta instaurando una cardiopatia congestizia , lo sviluppo di insufficienza
renale cronica (IRC) si associa alla comparsa di disfunzioni quali un’alterata conduzione dello stimolo
e una riduzione della funzione diastolica, che giustificano l’aumentato rischio di morte in questi
pazienti .
L’insufficienza renale nei pazienti cardiopatici ha una prevalenza significativa; le stime attuali non
forniscono tuttavia indicazioni esatte: l’associazione insufficienza
cardiaca-insufficienza renale varia dal 30% in studi anglosassoni , al 4-5% nel registro IN-CHF , al
10% in registri locali .
È quindi di fondamentale importanza prognostica una diagnosi precoce di malattia renale e di IRC: non
solo per rallentare la progressione della IRC verso lo stadio 5, ma anche per ridurre il rischio
cardiovascolare di questi pazienti. Lo studio di Go , condotto per quasi tre anni in oltre un milione di
pazienti censiti nel “Kaiser Permanente Renal Registry” (San Francisco, California) ha fornito queste
indicazioni:
aumento del rischio di morte dal 17% (soggetti con GFR tra 45 e 59 mL/min) sino al 600% per i
soggetti con IRC in stadio 5 (GFR <15 mL/min);
aumento del rischio di eventi cardiovascolari dal 43% (stadio 3) fino al 343% (stadio 5);
aumento del rischio di ospedalizzazione: dal 14% (stadio 3) al 315% per i soggetti con IRC in
stadio 5.
Una metanalisi cumulativa di due studi longitudinali, “ARIC Study” e “Cardiovascular Health Study”
(circa 14000 soggetti) ha dimostrato, al termine di un periodo
di osservazione di 9.3 anni, un’evidente associazione tra malattia cardiovascolare e sviluppo di IRC .
Lo studio conferma precedenti osservazioni, sia
di tipo epidemiologico sia ottenute in trial terapeutici, sul potenziamento bidirezionale del rischio
cardiovascolare e renale . In particolare, nei pazienti trattati con calcioantagonisti e/o diuretici la
comparsa di insufficienza renale si associa ad aumento dell’outcome primario (rischio CV composto:
15% vs 6% nei soggetti con normofunzione renale) , mentre nei pazienti con insufficienza cardiaca o
infarto acuto del miocardio e alterazioni della funzione renale si riscontrava, nei dodici mesi
successivi al primo ricovero, un rischio di riospedalizzazione e di morte significativamente più elevato
(“odds ratio”, rispettivamente, di 1.70 e 3.10).
DIAGNOSI PRECOCE SIGNIFICA INTERAZIONE EFFICACE
I soggetti con patologia cardiologica/cardiovascolare sono seguiti in prevalenza dal medico generico e
dal cardiologo; il medico di base mostra al contempo una minore capacità di riconoscere le nefropatie
croniche in fase precoce. Questo rende indispensabile un programma di educazione mirata
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L’epidemiologia dei pazienti con IRC in trattamento dialitico ha posto negli ultimi anni il problema
della IRC secondaria a nefropatia diabetica.
I dati del “National Diabetes Education Program” concernono la drammatica realtà degli USA: circa
21 milioni di persone affette da diabete mellito (90-95% di diabete di tipo 2), oltre 6 milioni
d’individui che non sanno di esserlo. Secondo le stime USA, ogni 24 ore si verificano 4100 nuovi casi
di diabete, 810 decessi causati dal diabete, 230 amputazioni, 120 casi di insufficienza renale e 55 casi
di cecità .
Una percentuale significativa di pazienti diabetici è predisposta allo sviluppo di nefropatia. In questi
individui il rischio cardiovascolare è moltiplicato dalla compresenza della IRC.
Il “Casale Monferrato Study”, condotto in Italia nel 2003, ha indicato che, ogni anno, il 4% dei
diabetici di tipo 2 sviluppa nefropatia, mentre la comparsa di microalbuminuria raddoppia il rischio di
nefropatia diabetica manifesta .
I costi personali, sociali e finanziari della IRC e delle altre complicanze nel paziente diabetico
rendono ragione dell’assoluta necessità di attuare un programma di prevenzione e diagnosi precoce. Il
sommario di questo programma dovrebbe includere uno screening per la diagnosi precoce, con utilizzo
sempre più diffuso di esami mirati (microalbuminuria e eVFG); riduzione dei valori di pressione
arteriosa ed uso di farmaci di provata efficacia nefroprotettiva nel diabetico, ottimizzazione del
controllo glicemico ed utilizzo di farmaci che riducano l’insulino-resistenza . Appare inevitabile che
un programma di efficace prevenzione della nefropatia richieda l’integrazione stretta tra l’attività del
diabetologo del nefrologo e del medico di medicina generale .
Lo schema terapeutico e il follow-up clinico di questi pazienti è spesso fatto da medici con diverse
attitudini, compiti e specializzazioni; la qualità della cura ne può risentire in modo importante. Figura 1
È invece indispensabile concordare una strategia operativa di completa collaborazione tra diabetologo
e nefrologo: lo scopo è attuare un corretto follow-up nefrologico sin dalla comparsa dai primi segni di
nefropatia.
I risultati di una gestione autonoma non sembrano, infatti, ideali. In uno studio condotto in Italia si è
valutata l’efficacia delle terapie adottate dal medico di medicina generale, dal diabetologo e dal
nefrologo su alcuni parametri clinici e biochimici: pressione arteriosa,
assetto lipidico, Hb glicata, emoglobinemia. I risultati ottenuti indicano che è essenziale una
integrazione tra le varie figure mediche per ottenere i migliori risultati in termini d’efficacia: se questo
non si realizza, il paziente è ad elevato rischio di sottotrattamento farmacologico .
L’importanza dell’integrazione e/o della collaborazione tra vari specialisti e diverse professionalità
dell’assistenza sanitaria è stata fondamentale nel disegno
del progetto “Team Care” (“Comprehensive Lifetime Management for Diabetes” , programma di
gestione integrata del paziente diabetico (www.ndep.nih.gov/diabetes/pubs/TeamCare.pdf), e del
“Canadian Collaborative Group for the Prevention of Illness in Kidney Disease”, ulteriore progetto di
sviluppo di un programma di assistenza socio-sanitaria che si poggia sulla collaborazione tra
diabetologo e nefrologo (http://www.cihr-irsc.gc.ca/e/24561.html).
La attuazione di un team di care giver migliora risultati clinici, out come, qualità percepita e riduce i
costi di gestione.
E’ tuttavia evidente che la realizzazione di procedure condivise con altri specialisti implichino attività
di formazione alla gestione del paziente nefropatico.
Nella nostra realtà clinica ( Ospedale Fracastoro, ULSS 20 di Verona, San Bonifacio) abbiamo
realizzato un team interdisciplinare sia per l’assistenza al paziente diabetico sia per il monitoraggio del
paziente cardionefropatico.
L’ attività prevede un ambulatorio con agenda a prenotazione riservata, eseguita direttamente dal
personale del centro antidiabetico sulla base delle indicazioni del nefrologo ; vengono dedicate tre ore
alla settimana a questa attività; non sono previste urgenze differibili ( queste ultime afferiscono
all’ambulatorio divisionale).
L’ambulatorio cardionefrologico è basato sullo stesso tipo di organizzazione; gestione diretta delle
prenotazioni ( gestione “non CUP”) in un’agenda ambulatoriale che prevede 2-4 visite settimanali
riservate ai pazienti che hanno follow-up cardionefrologico.
I controlli successivi vengono organizzati sulla base delle variazioni di funzione renale e sulla classe
NYHA del paziente.
La frequenza dei controlli in follow up si basa sulla risposta alla terapia e sulla presenza di normale
funzione renale:
dopo 6 mesi per pazienti con albuminuria ( e quindi dopo 12 mesi per pazienti con albuminuria
stabile)
entro 4 mesi per pazienti con proteinuria
ogni 6 mesi per pazienti con IRC stadio 2-3
ogni 3 mesi per pazienti con IRC stadio 3-4
È invece indispensabile concordare una strategia operativa di completa collaborazione tra diabetologo
e nefrologo: lo scopo è attuare un corretto follow-up nefrologico sin dalla comparsa dai primi segni di
nefropatia.
I risultati di una gestione autonoma non sembrano, infatti, ideali. In uno studio condotto in Italia si è
valutata l’efficacia delle terapie adottate dal medico di medicina generale, dal diabetologo e dal
nefrologo su alcuni parametri clinici e biochimici: pressione arteriosa, assetto lipidico, Hb glicata,
emoglobinemia. I risultati ottenuti indicano che è essenziale una integrazione tra le varie figure
mediche per ottenere i migliori risultati in termini d’efficacia: se questo non si realizza, il paziente è ad
elevato rischio di sottotrattamento farmacologico.
L’importanza dell’integrazione e/o della collaborazione tra vari specialisti e diverse professionalità
dell’assistenza sanitaria è stata fondamentale nel disegno del progetto “Team Care” (“Comprehensive
Lifetime Management for Diabetes” , programma di gestione integrata del paziente diabetico
(www.ndep.nih.gov/diabetes/pubs/TeamCare.pdf), e del “Canadian Collaborative Group for the
Prevention of Illness in Kidney Disease”, ulteriore progetto di sviluppo di un programma di assistenza
socio-sanitaria che si poggia sulla collaborazione tra diabetologo e nefrologo
(http://www.cihr-irsc.gc.ca/e/24561.html).
La attuazione di un team di care giver migliora risultati clinici, out come, qualità percepita e riduce i
costi di gestione.
E’ tuttavia evidente che la realizzazione di procedure condivise con altri specialisti implichino attività
di formazione alla gestione del paziente nefropatico. Tale attività appare ancora ridotta e carente .
Nella nostra realtà clinica ( Ospedale Fracastoro, ULSS 20 di Verona, San Bonifacio) abbiamo
realizzato un team interdisciplinare sia per l’assistenza al paziente diabetico sia per il monitoraggio del
paziente cardionefropatico.
L’ attività prevede un ambulatorio con agenda a prenotazione riservata, eseguita direttamente dal
personale del centro antidiabetico sulla base delle indicazioni del nefrologo ; vengono dedicate tre ore
alla settimana a questa attività; non sono previste urgenze differibili ( queste ultime afferiscono
all’ambulatorio divisionale).
L’ambulatorio cardionefrologico è basato sullo stesso tipo di organizzazione; gestione diretta delle
prenotazioni ( gestione “non CUP”) in un’agenda ambulatoriale che prevede 2-4 visite settimanali
riservate ai pazienti che hanno follow-up cardionefrologico.
I controlli successivi vengono organizzati sulla base delle variazioni di funzione renale e sulla classe
NYHA del paziente.
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Figure
Figura 1.
Figura 2.
Figura 3.
L’identificazione precoce della malattia renale cronica è importante se consente di applicare degli
interventi efficaci e sicuri che riducano il rischio di morte, di insufficienza renale terminale o le
complicanze della disfunzione renale. Lo screening di popolazioni non selezionate, non a rischio noto
di malattia renale cronica, potrebbe essere svantaggioso e non avere un rapporto costo-efficacia.
L’aggiunta alle linee guida K/DOQI delle formule che stimano la velocità di filtrazione glomerulare
(GFR) per stadiare l’insufficienza renale, intese come strumento di screening universale, è di dubbio
valore e presenta dei pericoli intrinseci. Tale conclusione è basata sia sull’inaffidabilità delle formule
attualmente utilizzate per determinare il GFR, sia sui punti deboli della stadiazione K/DOQI
dell’insufficienza renale cronica. L’incapacità di tenere in considerazione il declino fisiologico del
GFR legato all’età ed al sesso e la mancanza di altre evidenze nello stadio 3 della malattia renale
cronica fa si che, erroneamente, un largo numero di soggetti anziani e di sesso femminile venga
ritenuto far parte di uno stadio intermedio di una malattia ad alta mortalità. I criteri per stadiare la
malattia renale cronica dovrebbero considerare la distribuzione percentile del GFR per sesso ed età.
Uno screening selezionato per la malattia renale cronica è probabilmente più efficace di uno screening
universale. Se l’identificazione precoce ed il trattamento di soggetti con ‘ridotti’ livelli di GFR
all’interno di un range normale per sesso ed età, ma senza altri segni di malattia renale, riduca il
conseguente rischio di eventi cardiovascolari o la progressione verso l’insufficienza renale terminale
non è ancora provato. ( Glassock RJ, 2008).
La malattia renale cronica necessita, per ottimizzare le cure, dell'intervento di numerose figure
professionali, non solo specialisti come Nefrologi, Cardologi, Diabetologi e altro, ma anche dietiste,
infermieri di dialisi e pazienti in dialisi. Ma sicuramente al centro del sistema, proprio accanto al
paziente vi è, e così deve essere, il suo MMG.
Le Figure 1-6 mostrano proprio come MMG e Nefrologi devono relazionarsi per la cura dei soggetti
con malattia renale cronica durante la progressione della malattia (Modificato da ARSAN Regione
Marche)
Figure
Figura 2.
Figura 3.
Figura 4.
Figura 5.
Figura 6.
Autogestione
release 1 pubblicata il 06 aprile 2011 19:29 da Giuseppe Quintaliani
Si prevede che nel prossimo decennio le malattie croniche saranno responsabili di un numero di morti
addirittura superiore all’intera popolazione europea.
La buona notizia è che moltissime malattie croniche si possono prevenire perché provocate
dall’alimentazione (come il diabete, l’ipertensione, l’obesità e parecchie malattie cardiovascolari), o
dal fumo, (come le malattie dei bronchi e dei polmoni), oppure da uno stile di vita non corretto.
Si è visto, però, che non è sufficiente fornire alle persone la conoscenza dei rimedi a questi fattori di
rischio; anche dopo episodi molto seri di malattia, la riduzione delle cattive abitudini è molto modesta.
I dati dicono che oltre un quarto dei pazienti continua a fumare, un quarto mantiene un livello elevato
di colesterolo, un quarto resta iperteso e addirittura i tre quarti dei pazienti rimangono in sovrappeso.
STUDI aspire
Questa bassa aderenza dei pazienti cronici alle terapie è documentata da numerosi studi scientifici e
dall’osservatorio sull’uso dei farmaci che evidenzia come soltanto la metà dei pazienti segue
adeguatamente le terapie ed usa correttamente le medicine prescritte.
Una delle cause è la difficoltà nel rapporto tra medico e paziente. Spesso il paziente non comprende
quello che gli dice il medico e non ha il coraggio di chiedere spiegazioni. A volte è il medico che non
vuole o non può spiegarsi meglio. Il risultato è che il paziente non segue, o segue solo in parte, i
consigli del medico.
La convinzione che si sta affermando in tutto il mondo è che soltanto un paziente attivo e consapevole
deciderà di seguire i consigli e le terapie. Questo aspetto è stato teorizzato dal “chronic care model”
che presuppone un sanitario proattivo, ma soprattutto un paziente informato.
Il paziente informato è anche il cardine della certificazione secondo JCI. Esso coinvolge in modo
centrale il paziente che, per la certificazione JCI, è il fulcro dei processi di miglioramento continuo
della qualità. Uno degli obiettivi principali della certificazione è proprio quello di ridurre i rischi per il
paziente e migliorare le sue condizioni di vita.
La SIN ha sviluppato il percorso Insufficienza Renale Cronica secondo JCI e, nello standard SE
(Sostegno all’Autogestione), sono ben descritti tutti gli sforzi e le procedure che i sanitari dovrebbero
compiere per informare, educare e sostenere il paziente nel suo sforzo verso la comprensione della
malattia e della terapia.
In questo documento sulla certificazione di qualità' del percorso IRC, nella parte dedicata allo standard
del Sostegno all’Autogestione, sono richiesti:
sia disponibile materiale informativo per gli utenti (opuscoli, manuali, filmati, cd etc.)
Alcuni tentativi di migliorare il rapporto tra medico e paziente, come stampare opuscoli informativi
sulle malattie croniche o contenenti consigli sul come effettuare alcuni controlli o esami, non hanno
ottenuto grandi risultati anche perché di solito si tratta di persone anziane, con nessuna voglia di
leggere, molto più abituati a sedersi in poltrona a guardare la televisione.
Da ultimo un recente editoriale corredato da due lavori pubblicati sull’AJKD afferma semplicemente
che “ it is imperative to find methods to slow the progression of CKD. Empowering patients to become
active participants in their own care through patient education programs may help accomplish this.
This review discusses gaps in CKD knowledge and communication and how certain types of education
need to be revised to increase CKD knowledge and promote appropriate kidney health care” e “As the
prevalence of CKD continues to increase in the United States, greater efforts are needed to reduce the
risk of complications and attenuate progression to kidney failure. In this issue of the American Journal
of Kidney Diseases, 2 reports address important issues relevant to the education of patients with CKD
and have the potential to positively influence the clinical care of patients with CKD and their disease
trajectory.”
Quindi il sostegno all’autogestione deve essere sviluppato come richiede JCI e deve essere per forza
normato da adatta procedura.
Il responsabile della procedura è il medico che esercita attivita’ o è responsabile della attivita’
ambulatoriale. Nel caso in cui tutti i medici esercitino attivita’ ambulatoriale il responsabile sara’
individuato nel medico che effettua ambulatorio predialisi o sara’ scelto tra tutti. È imperativo che ci
sia un solo responsabile.
Si stabiliscono gruppi di lavoro che coinvolgono infermieri (degenza, HD, DP) e altre figure
professionali (dietista, psicologo, fisioterapista) che possano produrre materiale informativo. Di ogni
gruppo deve essere stabilito’ il coordinatore (preferibile di gruppo non di area) e saranno assegnati
compiti specifici (chi fa che cosa).
Una volta stabilito il materiale viene chiesa autorizzazione alla stampa e/o produzione (video, TV,
audio etc) del materiale stesso alla direzione aziendale. In alternativa si puo’ chiedere patrocinio alle
varie associazioni (malati, SIN, EDTNA etc) che dovra’ essere stampigliato sul materiale. Cio’
potrebbe servire per aggirare e/o abbreviare l’autorizzazione aziendale.
Stabilire la versione (numerazione successiva che deve essere stampata sul materiale) in modo da
poter procedere periodicamente alla sostituzione/aggiornamento (deve essere scritto per quanto tempo
si stima che possa essere valido quanto scritto). Dopo tale data si deve comunque ristampare il
materiale anche se non si è proceduto a nessun cambiamento (sarebbe comunque auspicabile un
qualche cambiamento/aggiornamento)
Ad ogni visita
da chi
medico/infermiere/dietista/psicologo
Se non è disponibile si puo’ prestare il materiale al paziente che deve riportarlo alla prossima visita
(procedura di tracciabilita’ del prodotto)
Indicatori:
percentuale di risposte esatte a questionari distribuiti prima dell’inizio del processo EF e dopo
percentuale di pazienti che risponde esattamente a domande poste dal medico (da riportare in cartella)
dopo il processo/percorso di EI
percentuale di pazienti che conosce il problema affrontato al momento dell’inizio della dialisi
(questionario od interrogazione) in sala dialisi. Da riportare su appositi report
Colloqui periodici con il medico, psicologo, infermiere od altro DEPUTATI alla valutazione
dell’acquisizione di conoscenza (e generalmente diversi da quelli che hanno condotto la EF), da
riportare in cartella
altro . . . . . . . .
Uso periodico di audit interni per stabilire l’esatta strategia da modificare man mano che si presentino
problemi e suggermenti.
Indicatori di processo
release 1 pubblicata il 06 aprile 2011 19:30 da Giuseppe Quintaliani
INDICATORE
La definizione di indicatore e' riportata in figura 1
Gli indicatori piuì' solidi quelli di esito che necessitano tuttavia di tempo per poter essere osservati in
maniera corretta (sopravvivenza, riduzione di outcome avversi etc).
E' quindi invalsa l'uso di ricorrere ad indicatori di processo che, sebbene meno potenti, riescano a
descrivere bene il processo diagnostico - terapeutico nella consapevolezza, derivata dalla letteratura
scientifica, che compiendo bene il processo l'esito sia positivo.
In altre parole se voliamo ridurre la mortalita' in dialisi (criterio) possiamo usare la HB come indicatori
di esito in quanto e' stato dimostrato che in un cereto range di HB la mortalita' si riduce.
Nella IRC sono stati indicati diversi indicatori di processo di cui alleghiamo alcuni esempi:
1. Biochimici: Hb, PTH, P, Na e K urinari, Azoto Urinario, P urinario, Proteine urinarie, etc
2. Organizzativi: numero di visite all'anno, etc
3. Clinici: PA, Edemi declivi, etc
4. Strumentali: Ecocardiogramma, Valutazione calcificazioni vascolari, etc
PROCEDURA
La prima cosa da fare e' quella di individuare il responsabile della procedura che provvedera' ad
individuarne lo scopo, il gruppo di lavoro, i tempi di attuazione
Una volta formato il gruppo si decidera' quali e quanti indicatori di processo prendere in
considerazione.
Se l'indicatore e' biochimico si dovranno descrivere anche le metodiche di laboratorio utilizzate (ad
esempio la creatinina se e' calibrata o no), cosi' anche per altre metodiche strumentali.
Se si prevede il mezzo di contrasto inserire la procedura per uso di mezzo di contrasto nella
insufficienza renale cronica.
Un punto fondamentale e' cercare di stabilire un contatto con il mondo infermieristico e quindi sarebbe
opportuno stabilire la figura di case manager per il particolare problema preso in considerazione. Il
case manager curera' gli appuntamenti, la tempistica, la tenuta dei dati e la corretta applicazione della
procedura
ARCHIVIAZIONE ED ELABORAZIONE DEI DATI
Non e' possibile stabilire degli indicatori di processo in assenza di un sistema adeguato per
l'archiviazione ed elaborazione dei dati.
Il percorso di certificazione SIN-JCI prevede che i dati siano archiviati in maniera elettronica in un
database. Luso del database elettronico permetera' di elaborare i dati con la metodica dell'Audit (in
press GIN), di individuare carenze, debolezze, criticita' e punti di forza.
In mancanza di un adeguato sistema di raccolta ed elaborazione dei dati e' assolutamentre inutile
stabilire indicatori in quanto la mancata elaborazione degli indicatori stessi non apporta alcun
beneficio alla struttura e ne rende noioso ed inutile la raccolta.
Noi consigliamo che si abbiano due procedure distinte con due responsabili distinti riguardanti la
archiviazione e la elaborazione dei dati.
La archiviazione potrebbe anche essere appannaggio degli infermieri coordinati dal case manager per
l'item designato. la immissione potrebbe essere appannaggio di tutti gli infermieri e dovrebbe rientrare
nel punto 3, 7, 11, 20, 24 del codice deontologico dell'infermiere.
E' del tutto ovvio che tali punti e la cooptazione nel raccogliere esami e dati possono avere un fine ed
una utilita' se lo stesso infermiere viene coinvolto ATTIVAMENTE nella cura e nella assistenza del
paziente e non, come spesso succede, come mero esecutore di copiatura esami. La copiatura e la
archiviazione degli esami hanno un significato elevato di scelta della migliore condotta terapeutica ed
educazionale nei confronti del paziente.
La procedura di elaborazione deve essere definita con attenzione. Anche in questo caso e' necessario
sapere chi sia il referente, quando elaborare con che programma statistico o meno, con che frequenza.
Fondamentale e' la scelta dei quesiti a cui si vuol dare risposta che devono essere definiti in partenza e
a cui il sistema informatico deve dare una risposta.
Si consiglia una statistica descrittiva con frequenza cumulativa per range nei casi di risposte
numeriche.
I risultati devono essere disponibili a tutti (medici, infermieri, personale amministrativo) ed essere
oggetto di discussione DOPO la distribuzione dei report in modo che chiunque abbia tempo per poter
capire e analizzare i risultati.
I medici a cui sono assegnati i pazienti che non arrivano a target potrebbero rendersi disponibili a
discutere alcune cartelle cliniche dei casi piu' compromessi nell'ottica NON di un aspetto punitivo ma
di un miglioramento continuo della qualità'.
Della riunione andrebbe tenuto un verbale da approvare nella riunione successiva o non piu' tardi di un
mese dallo svolgimento.