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Opera aperta: teoria e prassi


di Angela Ida De Benedictis

Alcuni aspetti rilevanti delle vicende musicali intervenute tra gli ini-
zi degli anni cinquanta e la fine degli anni settanta del Novecento
appaiono quali risposte, talora estreme, alle tensioni che in forme e
modi diversi attraversano nel tempo i rapporti tra l’arte e le con-
temporanee vicende socio-politiche e tecnologiche. Nel caso delle
avanguardie musicali sorte verso la metà del secolo, così come per
altri settori artistici, le sperimentazioni muovono da due direzioni
sostanzialmente differenti, delle quali l’una – di area europea – si
confronta, all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale,
con le inquietudini e gli ideali tipici di una ricostruzione, laddove
l’altra – quella americana – affonda le sue radici in presupposti po-
litico-culturali affatto diversi e nella ricerca di una propria indivi-
dualità non debitrice a un codice culturale esterno. Lontane nelle
premesse, tali esperienze giunsero nondimeno con il tempo a colma-
re l’iniziale divergenza e a risultare contigue – se non parallele –
nell’approfondimento di alcune tendenze complesse ed estremamen-
te articolate. Tra queste, l’introduzione del caso o di fattori di inde-
terminazione nell’opera e/o nel processo creativo.
Limitando il discorso all’ambito novecentesco, e tacendo di
quella particolare apertura performativa-interpretativa implicita in
ogni costrutto artistico (Ingarden, [1962] 1989a), principi di inde-
terminazione potrebbero già intravedersi in alcune composizioni
della prima metà del secolo (si pensi, in area europea, al Lehr-
stück di Hindemith del 1929 o, in area americana, ad alcune pagi-
ne di Ives e Cowell). Eppure, soprattutto in ambito europeo, par-
lare in questi casi di prodromi della poetica dell’ambiguità signifi-
cherebbe falsificare gli intenti dell’una come dell’altra esperienza,
la prima dettata dalla volontà di affrancare l’arte dal concetto ot-
tocentesco di autonomia (a favore soprattutto di una dimensione
funzionale); la seconda provocata invece da un mutamento nei pa-

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ESPRESSIONE , FORMA , OPERA

radigmi estetici e poetici della creazione artistica, finalizzata ora


alla comunicazione di un messaggio volutamente polivalente e
ambiguo.
In un momento in cui la riflessione teorica era compiuta presso-
ché di pari passo con il divenire delle singole tendenze – e a distan-
za di qualche anno dalle più note e opinabili letture di Umberto
Eco (1959; 1960; 1962) – Konrad Boehmer apriva la sua critica e
approfondita dissertazione sul fenomeno rilevando l’«attuale impos-
sibilità» di produrre una teoria organica dell’apertura in musica do-
vuta da un lato all’eterogeneità delle produzioni, dall’altro a una
confusione terminologica e concettuale generata dagli stessi scritti
dei compositori (Boehmer, 1967, pp. 5-6). Ancora oggi, e sebbene
nella pratica il fenomeno sia stato da tempo archiviato, interiorizza-
to, rifiutato o ignorato a seconda dei casi, una tale teoria continua a
confermarsi “impossibile”: una definizione sistematica dell’indeter-
minazione nell’arte musicale dimora incompiuta e, per di più, la sua
analisi retrospettiva presenta a volte margini di interpretazione am-
bigui (Blumröder, 1984; Frobenius, 1976) quando non parziali (Zie-
rolf, 1983), che lasciano invero aperte più problematiche di quante
non ne risolvano. Di certo, quanto di comune c’è nel multiforme
orizzonte dell’indeterminazione risiede in quella transizione epocale
(legata a un clima culturale comune ad arti e scienze) determinatasi
intorno alla prima metà del Novecento da una visione riferita all’or-
dine e al controllo degli elementi a una visione condizionata dal
caso o dall’indisciplina locale. Si scorge, in questo passaggio, una
possibile risposta in campo artistico ai nuovi rapporti che andavano
creandosi tra soggetto e contemporaneità, oltre ad una nuova mani-
festazione storicamente determinata dal ricorrente tema della crisi o
della morte dell’arte, amplificato ora dalle profonde trasformazioni
dovute all’impatto della tecnologia. In quest’ottica, dietro il concet-
to di «opera aperta» si cela il mutamento (per alcuni, la dissoluzio-
ne) del concetto di opera, nonché un “trapasso” insito nella pro-
gressiva abolizione dei confini tra diversi generi artistici: apertura,
mobilità, informale, musica aleatoria, caso, indeterminazione, im-
provvisazione controllata, forma statistica, a percorso variabile ecc.
si pongono tutti come sinonimi di una musica che «ha rifiutato tut-
te le forme che le stavano di fronte esternamente, astrattamente e
rigidamente», di una musica che non si costituisce in schemi preco-
stituiti, «leggi di facciata» e concetti quali «tensione, risoluzione,
prosecuzione, sviluppo, contrasto e riconferma» (Adorno, [1961]
2004d, pp. 238, 245).

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17. OPERA APERTA : TEORIA E PRASSI

17.1
Opera aperta tra continuità e innovazione

Nella scelta dell’aggettivo “aperto” – formula divenuta slogan in rela-


zione all’opera grazie al titolo imposto dall’editore Bompiani al volu-
me di Eco (1962, VI), laddove, attribuito alla forma, il suo uso è atte-
stato fin dalla fine dell’Ottocento (Blumröder, 1984) – si cela una
contrapposizione tacita e affatto neutrale: aperto rispetto a qualcosa
che, in precedenza, era da intendersi come “chiuso”. Il riferimento va
a un ideale di opera intesa quale oggetto assoluto e imperituro, con-
chiuso e fisso nel suo sviluppo drammatico o narrativo, da contem-
plare dall’esterno nella sua perfezione e intima immutabilità. Di que-
sto ideale d’opera, che aveva guidato la pratica e l’estetica musicale
per circa due secoli, la poetica dell’indeterminazione mina gradual-
mente le fondamenta arrivando a intaccare – talvolta a negare – il
principio di consequenzialità/direzionalità temporale e, a questo stret-
tamente connesso, il canone dell’impianto drammatico sviluppato in-
torno a un’idea centrale o, altrimenti detto, quel principio dell’unità
nella diversità interpretabile quale retaggio dell’estetica ottocentesca
dell’organicismo (Granat, 2002, p. 14). Nel professato riorientamento
estetico implicito nelle dichiarazioni di alcuni compositori (Boulez,
Stockhausen, Pousseur così come Cage o Feldman), questo rifiuto
della ripetizione e del principio di causalità coinvolge anche fenomeni
propriamente novecenteschi – quali, per esempio, il sistema schön-
berghiano o «dodecafonico-cromatico» (Stockhausen, [1952] 1963d,
p. 22) – non affrancati, secondo la nuova prospettiva, da una nozione
di forma e di sviluppo ancorata alla tonalità. Ed è proprio in queste
contrapposizioni passato/presente che la formula “opera aperta”, on-
nicomprensiva e vaga quanto basta per annoverare al suo interno tut-
te le possibili sfumature dell’ambiguità, nel sancire la fine di un’era
che, per analogia, si potrebbe definire dell’“opera chiusa”, mostra al
contempo il suo debito e la sua diretta relazione con tematiche e pro-
blematiche precedenti.
Spesso in conseguenza di una lettura ambigua di alcune asserzioni
di Eco (di cui deve essere incidentalmente sottolineato da un lato
l’apporto insussistente alla coeva evoluzione di un pensiero informale,
dall’altro l’approccio puramente teorico al fenomeno dell’indetermi-
nazione; Borio, 1997a, pp. 461, 463), tra le interpretazioni dell’opera
aperta gode di ampia diffusione la visione che accomuna la sua affer-
mazione a una volontà di relativizzare tutti gli aspetti dell’estetica tra-
dizionale, se non a un irriverente atteggiamento nei confronti di un
passato musicale recente o remoto. Di fronte a valutazioni del feno-

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ESPRESSIONE , FORMA , OPERA

meno come «contropartita» al rigore seriale (Rivest, 2001, p. 312) o


come evento senza alcun precedente storico, filosofico o concettuale
(Zierolf, 1983), appare più fondata una lettura che pone l’indetermi-
nazione in prospettiva dialettica con le precedenti tendenze dell’avan-
guardia musicale del primo e secondo Novecento (Boehmer, 1967;
Decroupet, 1997; Granat, 2002). L’intervento intenzionale di “fessu-
re” nell’ordine lineare o nella costruzione dell’opera, lontano dal por-
si semplicemente quale elemento oppositivo di una presunta diade se-
rialismo/indeterminazione (o, con le parole di Eco, Ordine/Disordi-
ne, 1962, p. 2), si inquadra infatti quale approdo logico e inevitabile
di un pensiero seriale piuttosto che come deflagrazione o improvvisa
deviazione del progresso musicale intese l’una come l’altra nell’ottica
di una bloomiana “angoscia dell’influenza”.
Per quanto differenti nelle premesse e negli effetti, sia le speri-
mentazioni europee sia quelle americane sembrano trovare un comu-
ne denominatore nella musica di Anton Webern più che in quella di
Schönberg o di Berg. Il debito, se dichiarato o altrimenti desumibile
per i compositori della cerchia di Darmstadt (Borio, 1997b), è forse
meno scontato oltreoceano, dove (restando sempre in campo musica-
le) può peraltro essere tematizzata una linea Ives-Cowell-Varèse, non-
ché un influsso indiretto del jazz. Secondo Cage, la produzione di
Webern avrebbe suggerito sia l’applicazione del metodo seriale agli
altri parametri del suono, sia l’autonomia del suono nel tempo-spazio
e la conseguente possibilità di realizzare una musica non dipendente
dai «mezzi di una continuità lineare», ponendosi al contempo come
punto di partenza sia del serialismo rigoroso di uno Stockhausen, sia
delle libere sperimentazioni compiute nei primi anni cinquanta dai
compositori della cosiddetta New York School (Cage, [1959] 1993b,
p. 81).
Compiendo un ulteriore passo indietro nelle fasi storiche del No-
vecento, e abbozzando una linea che procede da Wagner a Schön-
berg all’alea, per altri l’apertura si inquadra come sviluppo logico del-
l’idea di variazione, estesa ora alla forma globale dell’opera (Evangeli-
sti, [1960] 1991). Ripresa altrimenti da Boehmer, quest’ultima visione
è sviluppata a partire dal presupposto che i germi dell’apertura erano
impliciti nella tecnica seriale (Boehmer, 1967, pp. 49-53), ossia in una
tecnica basata sulla legge della permutazione e concepita come «un
universo in perpetua espansione» (Boulez, [1961] 1968d, p. 263). Il
punto di connessione tra le due esperienze compositive apparente-
mente opposte è da vedersi nell’estensione del principio seriale dai
singoli parametri all’organizzazione della forma globale, passaggio av-
venuto non senza difficoltà e contraddizioni. Investendo categorie

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17. OPERA APERTA : TEORIA E PRASSI

sempre più articolate, le procedure seriali si estendono alle unità


complesse (gruppi, fasce, strutture sonore ecc.) che, nell’economia ge-
nerale del lavoro, sostituiscono per importanza i fenomeni di orga-
nizzazione locale. Alcune forme di indeterminazione formale potreb-
bero per esempio essere intese come evoluzione di quella che Ligeti
([1958] 1985, p. 228) chiama «composizione per strati», ossia una
composizione formata da strutture differenti che vengono sovrappo-
ste con criteri e tecniche che proiettano nella macroforma i procedi-
menti adoperati nella microforma. Data dunque un’opera (e la sua
forma) come somma di singole strutture, il passaggio dalla loro orga-
nizzazione e sincronizzazione alla loro permutazione fino alla poten-
ziale fungibilità delle stesse è operativamente e concettualmente bre-
ve. Dal piano della grammatica la coordinazione si sposta su quello
della sintassi musicale: comporre non implica più la sola organizzazio-
ne delle strutture, ma anche la loro permutazione. In questo modo,
nel processo di costituzione di un’opera, le aree formali mutano la
propria funzione da qualitativa a quantitativa e la «sostituibilità, l’im-
prevedibilità e la flessibilità» arrivano a essere in rapporto con la
complessità delle strutture seriali (Boehmer, 1967, p. 66).

17.2
Di alcuni malintesi. Pluralità dell’opera aperta

Sebbene sia talvolta affiorata la tendenza ad assimilare il concetto di


“opera aperta” a una sorta di genere specifico manifestatosi negli
anni cinquanta, è ormai chiaro che, al contrario, esso rimanda generi-
camente a opere e manifestazioni molto diverse che, al di là di analo-
gie di superficie, presentano caratteristiche ben distinte. Come notava
già Eugenio Montale nel 1962 recensendo Opera Aperta di Eco, per
queste produzioni artistiche sarebbe più corretto utilizzare il plurale e
parlare di opere aperte (Montale, in Eco, 1962, p. XVII). La nozione
di apertura, applicata in generale all’opera come toto pro pars, può
essere estesa in particolare alle singole dimensioni di un costrutto
musicale: dalla fonte acustica che produce il suono ai parametri o
“materiali” (altezze, timbro, dinamica, durata), dalla disposizione di
strutture locali potenzialmente fungibili all’espressione, fino alla ma-
crostruttura formale. Nel caso di procedimenti aleatori – intervento
di operazioni arbitrarie e/o casuali comunque circoscritte in un cam-
po di possibilità –, essa può investire il processo compositivo o quello
performativo. Nel primo caso, data una griglia di eventi o la selezione
di varie procedure generative, l’atto creativo e la mise en page sono

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ESPRESSIONE , FORMA , OPERA

volontariamente aperti a procedure non-intenzionali, variamente ge-


nerate, che permettono di «essere liberi rispetto alla propria volontà»
(Cage [1976] 1999, p. 85; si veda l’uso dell’I Ching per Music of
Changes, 1951, e Water Music, 1952, o la derivazione delle altezze
dall’osservazione delle imperfezioni della carta in Music for Carillon
n. 1, 1952, e in Music for Piano [1-84], 1952-56). L’articolazione for-
male dell’opera è qui solitamente definita e la veste grafica può pre-
sentarsi come “chiusa”, notata in modo più o meno convenzionale.
Nel secondo caso, i procedimenti random competono all’esecutore e
conseguono a prescrizioni (verbali o grafiche) della partitura; talvolta
essi possono essere impliciti in una forma di “notazione” che, nel
sancire una volontaria riduzione del controllo sull’evento sonoro da
parte del compositore, richiede all’interprete una sorta di “pre-ridu-
zione” propedeutica per l’esecuzione (Cage, Variation I, 1958 o Car-
tridge Music, 1960; Donatoni, Black and White, 1964).
Sul piano meramente grafico dell’“oggetto” partitura, il cui ufficio
prioritario dovrebbe essere quello di «identificare un’opera» (Good-
man, [1968] 1998, p. 115), l’apertura può evidenziarsi quale prescri-
zione autoriale in un contesto di assoluta definitività grafica o grazie
all’impiego di sistemi notazionali volutamente ambigui in cui sono
implicite molteplici risposte – compatibili o contraddittorie – alle do-
mande interpretative poste dalle peculiarità segniche del testo. In en-
trambi i casi la pagina non restituisce alla lettura l’immagine sonora
di un’opera non più congruente o acusticamente equivalente con il
suo segno grafico. Il sistema di simboli in essa codificato, a prescinde-
re dal grado di parentela con la semiografia tradizionale, restituisce
ad ogni esecuzione una delle prospettive sonore coesistenti nell’oriz-
zonte grafico dell’opera. Ma, anche laddove l’indefinitezza testuale sia
massima, il testo consegnato all’interprete (partitura, guida operativa,
progetto ecc.) corrisponde – pur nella sua ambiguità – a un disegno
autoriale compiuto, che solo incorrendo in un errore di prospettiva
può essere paragonato a uno schizzo o a un prodotto “non finito”.
Fraintendimento, quest’ultimo, invero radicato nella pubblicistica de-
dicata all’opera aperta nella quale, sulla scia di alcune affermazioni di
Eco, si evidenzia uno slittamento di senso tra “chiuso” e “finito” («è
chiaro che opere come quelle di Berio o di Stockhausen [...], detto
volgarmente, sono opere “non finite”, che l’autore pare consegnare
all’interprete più o meno come i mezzi di un meccano, apparente-
mente disinteressandosi di come andranno a finire le cose»; Eco,
1959, p. 34 e 1962, p. 35; «L’autore offre insomma al fruitore un’o-
pera da finire»; 1959, p. 49 e 1962, p. 58; «vitalità strutturale che
l’opera possiede anche se non è finita»; 1959, p. 50 e 1962, p. 60).

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17. OPERA APERTA : TEORIA E PRASSI

L’ambiguità teorica nasconde in questo caso un’equivoca confusione


tra opera in quanto progetto estetico – sempre compiuto (o “finito”,
secondo la terminologia di Eco) anche nelle poetiche dell’indetermi-
nazione – e opera in quanto processo o prodotto artistico che, solita-
mente ora da combinare (realtà differente dal “finire”), usa spesso
l’interprete come strumento o veicolo di “chiusura”. In quest’ottica,
l’opera aperta si definisce quale risultato di un progetto estetico con-
chiuso che assume deliberatamente contorni mobili e/o ambigui
(aperti) che proiettano la sua identità verso l’indefinito. Che l’inten-
zione finale dell’autore si esprima volontariamente nell’indetermina-
zione non è d’altronde sempre sinonimo di un ideale di “definitività
imperfetta” o “parziale” che porterebbe a evitare e/o liquidare gli ul-
timi gradini della scala del processo creativo tradizionalmente inteso.
L’osservazione di alcuni comportamenti compositivi ha al contrario
dimostrato come talora l’apertura di un testo corrisponda all’“esplo-
sione” di un’unità completamente strutturata (“chiusa”) e sottoposta
solo a posteriori a una pratica di taglio e montaggio debitrice verso
una tecnologia di scrittura elettronica (De Benedictis, 2004). Tale
esperienza viene a coincidere con un’altra prospettiva estetica, quella
del frammento, propria di alcune procedure di indeterminazione for-
temente orientate verso la deflagrazione dei modelli lineari di rappre-
sentazione del pensiero musicale.
Il concetto di apertura in musica – arte che si sviluppa nel tem-
po – investe soprattutto problematiche relative alla forma, conseguen-
ti alla rottura degli “schemi temporali” tradizionali nei quali essa si
dispiega. È stato d’altronde giustamente rimarcato come nelle tratta-
zioni teoriche sull’indeterminazione si arrivi spesso ad assimilare o a
confondere il concetto di opera con quello di forma (Schmidt, 1992,
p. 10). La ripercussione dell’indeterminazione sul dato grafico, sulla
partitura, evidenzia la centralità della problematica temporale: nelle
diverse manifestazioni grafiche aleatorie e/o indeterminate, è soprat-
tutto la partitura in quanto oggetto temporale a essere rifiutata a fa-
vore di un progetto artistico che, molto spesso, enuclea gli eventi sen-
za stabilirne la durata. Per orientarsi nella molteplicità e nell’eteroge-
neità delle creazioni “aperte”, vari studiosi si sono cimentati in classi-
ficazioni basate sull’individuazione di caratteristiche qualitative e
quantitative dell’indeterminazione. Tra queste (Dahlhaus, 1966, p. 74;
Boehmer, 1967, p. 128; Gieseler 1975, p. 139) la più esaustiva può
considerarsi quella proposta da Pascal Decroupet che, a partire da un
sistema di classificazione basato su tre livelli costitutivi dell’opera –
fonte strumentale, struttura degli eventi sonori e forma (intesa come

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ESPRESSIONE , FORMA , OPERA

rapporto tra sezioni e strutture) –, individua otto differenti tipologie


di apertura; la capacità tassonomica di tale griglia è sufficientemente
flessibile per permettere di annoverare alcune opere in differenti tipo-
logie (Decroupet, 1997, pp. 191-8).
Definendo a nostra volta le variabili in S = strumento (voci tim-
briche), P = parametri delle strutture (eventi sonori) e F = forma,
nella realtà binaria chiusa (c) o mobile (m), tali tipologie possono es-
sere così enumerate:
1. Sc-Pc-Fc: partiture in cui il testo è interamente fissato (come nella
già citata Music of Changes di Cage);
2. Sc-Pc-Fm: partiture modulari in cui è contemplata la fungibilità di
strutture e/o sezioni del tutto definite (Boulez, Troisième Sonata,
1955-57; Stockhausen, Klavierstück XI, 1956; Pousseur, Scambi, 1957,
Caractères I, 1961; Evangelisti, Aleatorio, 1964; Lutoslawski, Preludes
and Fugue, 1972);
3. Sc-Pm-Fc: partiture in cui le decisioni locali sulla realizzazione di
alcuni parametri sono lasciate all’interprete (Berio, Sequenza I, 1958,
Circles, 1960-61; Cerha, Spiegel II, 1961-63; Ligeti, Volumina,
1961-62);
4. Sc-Pm-Fm: partiture in cui le decisioni locali per la definizione
delle singole strutture così come la loro organizzazione formale sono
lasciate agli interpreti (Pousseur, Mobile, 1958; Brown, Available
Forms I e II, 1961-62; Haubenstock-Ramati, Mobile for Shakespeare,
1961; Maderna, Ausstrahlung, 1970-71; Bussotti, Five Piano Pieces for
David Tudor, 1959, in realtà “adozione pianistica” di disegni realizzati
nel 1949);
5. Sm-Pc-Fc: partiture notate precisamente ma non destinate ad al-
cuno strumento specifico (Maderna, Dialodia, 1972);
6. Sm-Pc-Fm: partiture modulari composte da strutture definite per
le quali non è specificata alcuna strumentazione (Stockhausen, Mikro-
phonie I, 1964);
7. Sm-Pm-Fc: partiture dal tracciato formale chiuso che prevedono
un margine di libertà nell’articolazione parametrica delle strutture e
nella destinazione strumentale (Brown, Hodograph I, 1959);
8. Sm-Pm-Fm: partiture in cui tutti i dati risultano mobili, talora
presentate in forma grafica e/o ridotte alla consegna di indicazioni
verbali per “elaborare” un testo (Cage, Variation I, 1958; Schnebel,
Glossolalie, 1959; Stockhausen, Plus-Minus, 1963).
In quest’ultima tipologia potrebbero essere anche annoverate ope-
re che, per qualità e quantità di indeterminazione, evidenziano de-
clinazioni del tutto particolari del concetto di apertura e, conseguen-

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17. OPERA APERTA : TEORIA E PRASSI

temente, un’implicita refrattarietà ad essere inserite in classificazioni


di sorta. Le prime tra queste sono alcune opere basate su un peculia-
re processo compositivo che potremmo chiamare “additivo” (mutuan-
do intenzionalmente il termine dalla composizione elettronica). Si
tratta di composizioni realizzate di volta in volta con materiali nuovi
e/o già composti (ready-made), le cui singole componenti possono
fungere a loro volta da tasselli modulari per nuove opere o come bra-
ni potenzialmente autonomi (si pensi a varie pagine di Maderna degli
anni sessanta-settanta, tra le quali il complesso che va sotto il nome
di Hyperion, o al cageano Atlas Eclipticalis, 1961-62). In questi casi il
concetto di permutabilità è ulteriormente esteso all’intera composizio-
ne che, per senso e funzione, equivale al ruolo di struttura e/o di
materiale; l’attività creativa volge alla produzione di un repertorio di
brani autonomi che, nello stesso momento, sono potenzialmente fun-
zionali alla costituzione – per assemblage o innesto – di una totalità
sempre diversa intesa come costellazione di strutture mobili. Lo slit-
tamento di destinazione e la potenziale ibridazione con altri brani
non rendono incongruo lo statuto di questi “materiali” bensì, nel ca-
rattere composito dell’aggregazione, lo rinnovano.
Inseribili nelle precedenti otto tipologie solo a costo di evidenti
forzature sono invece alcune opere intese come action performing,
dove la ricerca dell’assoluta spontaneità porta a far convergere inten-
zione e risultato in un atto simultaneo. L’utopia dell’irripetibilità del-
l’opera, della sua natura di “evento” transeunte, tocca qui punti
estremi rivelatisi quasi sempre insoddisfacenti o inadeguati. Rientrano
in questa categoria i cosiddetti people processes (Nyman, [1974] 1999,
p. 5) e la musica “intuitiva”, in cui la prescrizione dell’evento sonoro
diviene esclusivamente verbale (Stockhausen, Aus den sieben Tagen,
1968; Cardew, Schooltime Special, 1968; Wolff, Play, 1968). Un di-
scorso a parte meritano invece le manifestazioni note sotto i termini
di improvvisazione e happening, o alcune esperienze debitrici all’arte
concettuale (Kagel, Schnebel), dove si rasenta il punto di massima la-
bilità nei confini tra arte e arte, per le quali il concetto di apertura
risulta inadeguato tanto quanto quello di opera diviene improprio (si
accenna solo qui alla problematica dello scacco procurato da situazio-
ni performative che, nel ricercare la massima spontaneità, hanno visto
fallire i propri scopi inibendo proprio ciò che si proponevano di libe-
rare, la fantasia dell’interprete. Non è del resto un caso che i più noti
gruppi di improvvisazione fossero composti esclusivamente da com-
positori – Nuova consonanza – o guidati dallo stesso compositore –
gruppo di improvvisazione di Stockhausen).

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ESPRESSIONE , FORMA , OPERA

17.3
Stati Uniti vs Europa:
libertà di controllo – controllo della libertà
Dalle prime prove indeterminate o aleatorie degli anni cinquanta ri-
sulta con evidenza quanto le problematiche sentite dai compositori
americani ed europei fossero inizialmente differenti. Negli Stati Uniti,
dove il fenomeno emerse tra il 1950 e il 1951 con un certo anticipo
rispetto al continente europeo, le prime composizioni proiettate verso
nuove frontiere creativo-interpretative (svincolate o meno da una se-
miografia tradizionale) appaiono in un momento in cui in Europa i
compositori più impegnati cominciavano a cimentarsi con la serialità
integrale. Per una singolare analogia tra fatti storici e fatti artistici,
per compositori quali John Cage, Morton Feldman, Christian Wolff,
La Monte Young o Earle Brown la decostruzione del linguaggio e/o
della sintassi musicale (o, se si vuole, la ricerca di un nuovo modo
per veicolare il messaggio artistico) non presupponeva una necessaria
“ricostruzione” o una volontà di “riordinamento”, esigenza, quest’ul-
tima, sottesa alla sperimentazione seriale. Quello che per gli uni era
vissuto come ineluttabile, era per gli altri estraneo o percepito come
tale, muovendo gli interessi non dalla ricerca di un linguaggio rigoro-
so e oggettivo atto a ricucire una lacerazione nella sperimentazione
musicale causata dagli eventi bellici quanto, piuttosto, dalla volontà
di liberare il suono dalle sedimentazioni di senso proprie della tradi-
zione, nonché da una propensione verso la non-intenzionalità o l’in-
consapevolezza dell’atto creativo. La differenza si inscrive nel quadro
di una dialettica tra natura e artigianato, tra libertà dal controllo e
controllo della libertà. Cosicché, il punto di partenza di quel tragitto
che in entrambi i casi ha portato a un progressivo annullamento (o
riconnotazione) dei parametri musicali muove in un caso (Stati Uniti)
dal suono, nell’altro (Europa) dal tempo, ossia dalla prima dimensio-
ne “sovraordinatrice” dell’artefatto musicale anche qui, per estensio-
ne, fatta deflagrare in nome di una sperimentazione condotta solo ap-
parentemente via negationis.
Nel processo di liberazione del suono, di progressivo de-control-
ling degli elementi sonori (Feldman, [1966] 1985c, p. 48) o di «libe-
razione di tutti i suoni udibili dalle limitazioni del pregiudizio musi-
cale» (Cage, [1948] 1993a, p. 32), il primo parametro sottratto alla
convenzione (creativa e performativa) è l’altezza. Proprio l’indifferen-
za verso il concetto di altezza è, in area americana, visibile fin dai
brani che a buon diritto possono essere considerati i primi riusciti
tentativi di affrancamento da una notazione tradizionale a favore di

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17. OPERA APERTA : TEORIA E PRASSI

un sistema di rappresentazione grafica: le Projections di Morton Feld-


man (I, per violoncello solo, 1950; II-V per strumenti vari, 1951). Ar-
chiviati in un colpo il pentagramma e il codice semiografico classico
(«questa musica non poteva essere notata nel vecchio modo. Ogni
nuovo pensiero [...] suggerisce la propria notazione»; Feldman,
[1966] 1985c, p. 48), il compositore “intavola” i suoni in un sistema
grafico che suddivide genericamente i registri in tre aree (grave, me-
dio e acuto). Indeterminato in quanto ad altezza e dinamica, il suono
è definito solo per la sua qualità timbrica (ad esempio: pizzicato, ar-
monico o arco nel caso delle Projections I e IV) ed è «proiettato nel
tempo, libero da ogni retorica compositiva» (Feldman, [1967] 1985b,
p. 38) all’interno di unità temporali scandite regolarmente. Affrancato
dalle maglie di una rigida rappresentazione frequenziale, esso diviene
parte flessibile di un insieme le cui singole componenti si equivalgo-
no: decise le sole “altezze frontiera” che separano le tre regioni regi-
striche, ogni suono compreso al loro interno può comparire al pari di
un altro. Tale sistema, applicato in seguito anche ad alcune composi-
zioni orchestrali (Intersections I, 1951; Atlantis, 1958; Out of Last Pie-
ces, 1960), cominciò a rivelare con il tempo dei limiti di scarsa duttili-
tà performativa che portarono a un suo graduale abbandono a favore
di “tele temporali” dotate di una maggiore plasticità (Feldman,
[1967] 1985b, p. 39). Sebbene nuovamente disposte in pentagramma,
le altezze assolvono comunque una funzione più temporale che regi-
strica, tanto da poter interpretare le sue pagine notate convenzional-
mente come «lo stesso Feldman che suona la sua musica grafica»
(Cage, in Feldman, 1985a, p. 28). I suoni, indeterminati ritmicamen-
te, colorano queste tele e ne esperiscono la superficie con la durata
fisiologica del riverbero (Durations I-V, De Kooning, 1964) o con una
“polifonia” di riverberi delle medesime altezze suonate a velocità dif-
ferenti (Piece for Four Pianos, 1957).
Anche per John Cage il grado di disinteresse per il concetto di
altezza (o, più in generale, verso l’armonia e/o i rapporti armonici) è
direttamente proporzionale all’attenzione riposta nella dimensione rit-
mico-temporale, evidente nell’uso delle strutture ritmiche adoperate
fin dagli anni trenta (Trio, 1936; First Construction (in Metal), 1939;
Three Dances, 1945; Music for Marcel Duchamp, 1947; Music of Chan-
ges, 1951) così come nella predilezione per gli strumenti a percussio-
ne, elettronici e per tutte quelle realtà musicali in cui «l’armonia non
è essenziale» (Cage, [1946] 1993c, p. 25). Sancita in varie composi-
zioni degli anni quaranta – Living Room Music, 1940; Credo in Us,
1942; nei vari Imaginary Landscapes ecc. –, l’approdo estremo di que-
sta indifferenza verso il materiale sonoro si celebra in 4’33’’ (realizza-

327
ESPRESSIONE , FORMA , OPERA

ta nel 1952 sebbene già concepita nel 1948), dove l’unico dato che
resta è la sola componente che accomuna suono e silenzio: il tempo.
L’indifferenza nei confronti di qualsiasi parametro musicale – il bra-
no è destinato a qualunque strumento o gruppi di strumenti – è bi-
lanciata (o, se si vuole, potenziata) dall’attenzione per la dimensione
temporale, articolata in questo caso in una sorta di “paradosso tri-
partito” composto da tre singole sezioni di «Tacet», i cui tempi par-
ziali – prescritti in partitura – sommano per l’appunto 4 minuti e 33
secondi.
L’affermazione di Earle Brown, secondo cui nella sua musica la
«liberazione del suono» coincide con quella «del tempo» (Brown,
1966, p. 58), potrebbe condurre a una diversa interpretazione delle
sue prime esperienze indeterminate; ma, anche in questo caso, il tem-
po è inteso, alla pari di Feldman, come una «“tela” sulla quale la
forma musicale diviene osservabile» mediante una libera «disposizione
di elementi» al suo interno. Il dato temporale, inteso olisticamente
come “tempo-spazio” ed esaltato quale risultato “soggettivo” dell’in-
terprete, è pur nella sua apparente negazione l’«elemento strutturale
(come lo spazio nelle arti visive)» (ivi, p. 64) sia che al suo interno gli
elementi siano completamente indeterminati – si pensi all’insieme di
pezzi chiamati Folio, scritti tra il 1952 e il 1953, in cui spicca De-
cember 1952, composta esclusivamente da 31 differenti rettangoli ver-
ticali e orizzontali collocati nello spazio –, sia che esso sia invece l’u-
nico elemento libero in cui risuonano altezze, timbri e intensità con-
trollate (Twenty-Five Pages, 1953; Available Forms, 1961; Corroboree
per 3 o 2 pianoforti, 1964; Quartetto, 1965). È importante sottolinea-
re come per le proprie poetiche dell’indeterminazione i compositori
si siano dichiaratamente ispirati alle coeve sperimentazioni condotte
nelle arti figurative: per Feldman il debito va alla produzione e alla
poetica di Guston, Pollock, Rothko, Rauschenberg ecc. (Feldman,
[1967] 1985b, pp. 38-40); per Brown l’influsso principale è quello di
Calder e dei suoi mobilès (Brown, 1966, p. 62), mentre per Cage l’in-
flusso si estende fino alle avanguardie figurative continentali: «A
chiunque possa interessare: I quadri bianchi vennero per primi; il
mio pezzo silenzioso venne più tardi» (Cage, 1971b, p. 121).
In questa concezione del tempo come «cornice da riempire»
(Wolff e Cage, in Nyman, [1974] 1999, p. 10), in cui il controllo del-
le altezze è ininfluente e il concetto di irreversibilità indiscusso, si mi-
sura l’iniziale distanza con le prime sperimentazioni indeterminate eu-
ropee dove, al contrario, strutture più o meno definite (campi sonori,
gruppi, blocchi ecc.) si svolgono in un tempo sempre più minato nel-
la sua funzione di vettore direzionale degli eventi sonori. Ancorati al

328
17. OPERA APERTA : TEORIA E PRASSI

concetto di altezza – parametro “aperto” solo verso la fine degli anni


cinquanta –, per i compositori europei è il dispiegamento dell’opera
nel tempo d’ascolto, con il susseguirsi di parti che trovano senso e
completezza in un tutto, a divenire il primo «compito da ponderare e
risolvere» (Adorno, [1961] 2004d, p. 236). Eloquenti, in proposito,
gli esempi forniti dalle prime opere aperte realizzate da due tra i
maggiori esponenti dell’avanguardia europea, Stockhausen e Boulez,
entrambi accomunati dall’esperienza dei Ferienkurse für Neue Musik
di Darmstadt, teatro privilegiato delle diverse tendenze dell’avanguar-
dia musicale post-bellica e, con la partecipazione di Cage nel 1958,
catalizzatore delle sue idee sull’alea (Decroupet, 1997, pp. 231-40).
L’approdo alle strutture mobili per Boulez scaturisce direttamente
da problematiche proprie alla serialità integrale, del tutto estranee a
qualsiasi tipo di apertura o a quel caso già respinto con decisione nel
corso della corrispondenza intrattenuta con Cage tra il 1949 e la pri-
ma metà degli anni cinquanta (così in una delle ultime lettere del
1954: «io non ammetto – e dubito che mai l’ammetterò – il caso
come componente di un’opera finita. Posso accettare la possibilità di
musica stretta o libera [...]. Ma del caso no, non posso assolutamente
sopportarne il pensiero!»; Boulez, Cage, 2002, p. 242). La domanda
alla quale Boulez sembra rispondere con i due formanti editi della III
Sonate (Trope e Constellation-Miroir) muove dalla constatazione del-
l’illusoria capacità di variazione consentita dall’organizzazione globale
e rigorosa di tutti i parametri musicali, denunciata dal compositore
francese fin dal 1954. L’alternativa all’assenza di variazione fu vista
nel ricorso a una pratica che, conciliando il rigore con momentanee
concessioni al libero arbitrio, permettesse di articolare sviluppi in
modo dinamico e non omogeneo in un “circuito aperto” consono a
quel rifiuto tematico implicito nelle procedure seriali. Dai singoli ele-
menti e/o parametri musicali il principio della permutazione si esten-
de a intere sezioni costitutive dei brani, evoluzione logica e «piena-
mente giustificata poiché lo stesso principio organizzatore governa
tanto la morfologia quanto la retorica» (Boulez, [1957] 1968b, p. 51).
La concessione al caso nasce dunque dalla ricerca di una “rivoluzione
permanente”, di un universo ambiguo e relativo (Boulez, [1964]
1984c, p. 126). Da qui l’idea di opera “labirinto” (Boulez, [1957]
1968b, p. 44; [1964] 1984c, pp. 128-9) che, ispirata apertamente alle
sperimentazioni condotte in campo letterario da scrittori quali Mal-
larmé o Joyce (ma anche Kafka e Butor), rivendica «il diritto alla pa-
rentesi e al corsivo» (Boulez, [1954] 1968c, p. 33) e rigetta i tracciati
formali corrispondenti a una «semplice traiettoria da percorrere tra
un punto di partenza e uno di arrivo» (Boulez, [1964] 1984c, p.

329
ESPRESSIONE , FORMA , OPERA

128). I due modelli letterari si celano d’altronde dietro una disposi-


zione grafica che si vuole adeguata al contenuto musicale; cosicché in
Constellation-Miroir (“mallarmeiano”) la funzione assunta dall’assetto
tipografico del testo letterario è trasferita ai segni di concatenazione
che corredano le sequenze del brano, mentre in Trope (“joyciano”)
Boulez integra nel testo fisso commentari supplementari tra parentesi
(Pereira, 1996). Ma, benché labirintico, il tracciato formale dei due
brani è del tutto controllato e coerente; i percorsi suggeriti dalla pagi-
na sono precisamente organizzati dal compositore che lascia all’inter-
prete esclusivamente una “libertà guidata” che consenta di esperire
l’opera quale rete di possibilità non esauribili in una singola esecuzio-
ne (Boulez, [1964] 1984c, p. 137).
La volontà di permutare l’elemento temporale è altrimenti decli-
nata da Stockhausen nella cui pratica – utopicamente mirata alla con-
quista di un tempo reversibile e svincolato da un decorso empirico –
si esplicitano maggiormente gli influssi della sperimentazione elettro-
nica (ricerca che «ha sviluppato il pensiero di una nuova morfologia
del tempo musicale»; Stockhausen, [1956] 1963f, p. 124). Se discu-
tibile rimane la visione di un diretto condizionamento derivato dal-
l’ascolto di Cage nel 1954 (Charles, in Cage [1976] 1999, p. 127; si
leggano al contrario le critiche mosse al suo trattamento del tempo in
Stockhausen, [1956] 1963f, p. 130), esplicite risultano le suggestioni
procurate nello stesso anno dalle teorie sui processi statistici di Wer-
ner Meyer-Eppler, docente di scienze della comunicazione legato allo
Studio di musica elettronica della Radio di Colonia. Da alcuni punti
di vista, nella disposizione sparsa dei 19 frammenti musicali che com-
pongono la “costellazione sonora” di Klavierstück XI (1956), e nella
loro libera combinazione da parte dell’interprete, può intravedersi
una traduzione sonora degli esperimenti condotti nei seminari con
Meyer-Eppler, in cui testi artificiali erano prodotti a partire da parole
o sillabe ritagliate da giornali (Stockhausen, in Cott, 1973, p. 68). In
entrambi i casi il risultato è statisticamente incluso nel materiale di
partenza, che può dare vita a «un numero di differenti soluzioni, tut-
te ugualmente valide» (Stockhausen, [1961] 1963b, p. 241; ma cfr. la
critica di Boehmer, 1967, p. 202, che vede in questo tipo di forme
combinatorie un regresso). Secondo la stessa classificazione di Stoc-
khausen, ripresa in modo aproblematico da alcuni studiosi (Blumrö-
der, 1984) – questa caratteristica, condivisa da Klavierstück XI e dalle
successive Zyklus e Refrain (1959), è propria delle «forme polivalen-
ti» (vieldeutige Formen) alle quali, nel suo cammino verso l’indetermi-
nazione totale, segue la tappa della Momentform sperimentata in Car-
ré, del 1959-60, Kontakte del 1960, e Momente del 1961-62 (Stoc-

330
17. OPERA APERTA : TEORIA E PRASSI

khausen, [1961] 1963b, pp. 241-51). Il problema posto dal rifiuto di


una forma basata sul principio drammatico è qui affrontato nuova-
mente con l’approdo a una composizione di singoli momenti visti
ognuno come centro indipendente e autosufficiente sebbene collegato
con gli altri (Stockhausen, [1960] 1963c, p. 190). Nei suoi presuppo-
sti teorici, l’autore sembra voler sfidare le leggi percettive e di scorri-
mento temporale intendendo ogni momento (o evento sonoro) come
uno spaccato temporale “verticale”, un nunc senza né fine né inizio,
potenzialmente isolabile dal flusso d’ascolto “orizzontale” e manife-
stazione di un’«eternità che è presente in ogni momento» (ivi, p.
199). Paradossalmente, per il compositore è proprio grazie a questa
apparente perdita di ogni coordinata temporale che il fruitore può
giungere a percepire il tempo in modo più intenso (Stockhausen
[1955] 1963e, p. 98). Sorvolando sulle successive prove stockhause-
niane nel mondo dell’indeterminazione – sempre più estranee a istan-
ze musicali e dettate da una mistica qui non in discussione – non si
può tacere della critica rivolta da Adorno alla Momentform e alla sua
chimerica idea di mutare sia il corso del tempo sia le modalità di per-
cezione. Premesso che «l’articolazione sensata della musica, la sua lo-
gicità interna, è stata sempre legata a ripetizioni esplicite o latenti», il
filosofo sottolinea come anche il «postulato della non ripetizione, del-
la dissomiglianza assoluta, richiede un momento di uguaglianza in
rapporto al quale il dissimile possa essere definito come tale. [...] Se
il bisogno di articolazione musicale non viene soddisfatto, persino
l’incessante mutamento scivola in monotonia e staticità» (Adorno,
[1965] 2004b, p. 287).

17.4
Percezione, ascolto e meccanismi di fruizione
dell’opera aperta
Spostato così l’asse di osservazione dalla creazione dell’opera alla sua
fruizione, si evidenziano altre problematiche e nuove ambiguità. Dalle
pagine dedicate da Eco a forma e indeterminazione (Eco, 1959; 1960;
1962) alle più recenti trattazioni (Rivest, 2001) si perpetua un frain-
tendimento dovuto a una sbrigativa equiparazione tra i ruoli del com-
positore, dell’interprete e dell’ascoltatore che – sulla scia di poetiche
“aperte” proprie alle arti visive e spazio-temporali – si vogliono acco-
munati nella condivisione di «uno stesso atteggiamento interpretati-
vo» (Eco, 1962, p. 33 nota). Nell’equiparare i ruoli (e le conseguenti
funzioni) degli “attori” dell’evento musicale si ingenera una confusio-

331
ESPRESSIONE , FORMA , OPERA

ne tra cause ed effetti dimentica della sostanziale invariabilità dei


meccanismi d’ascolto anche nei fenomeni più estremi di indetermina-
zione. Detto altrimenti: ai fini dell’esecuzione, della performance, il
pubblico non interpreta e, laddove accidentalmente o volontariamen-
te sia portato a farlo, il suo statuto diviene simile a quello dell’inter-
prete e come tale va analizzato. Similmente, è del tutto fuorviante
l’immagine di un interprete che, al pari dell’ascoltatore, realizzi opere
aperte portandole a termine «nello stesso momento in cui le fruisce
esteticamente» (ivi, p. 33). Nell’atto musicale i momenti della decodi-
fica e dell’interpretazione sono sempre distinti da quelli della fruizio-
ne estetica; la convergenza interprete/fruitore (in una sorta di fittizia
ubiquità dei ruoli) è condizione estranea al processo performativo se
non nei processi di riproduzione meccanica del suono. L’auspicato e
celebrato «nuovo rapporto tra contemplazione e uso dell’opera d’arte»
(Eco, 1959, p. 52, quindi in 1962, p. 63) è assunto inficiato dall’evi-
dente realtà che anche nella fruizione di opere aperte il pubblico
continua a “contemplare” e l’esecutore a “usare” la pagina fornita dal
compositore e a porsi come intermediario (potenziato nella sua fun-
zione di decodifica) tra quest’ultimo e chi ascolta. Che l’opera aperta
voglia sfidare «deliberatamente la linearità del processo comunicativo
delle opere chiuse» (Granat, 2002, p. 25) è asserto confutato dalla
considerazione che, al di là del progetto creativo, la percezione esteti-
ca dell’opera aperta si pone in assoluta continuità storica con le for-
me precedenti.
Sempre nel dominio dell’ascolto, resiste a tutt’oggi l’equivoca con-
cezione dell’opera aperta come offerta di «approcci multipli» per l’a-
scoltatore (Rivest, 2001, p. 312). In quanto esperienza unica e irre-
versibile, nell’ascolto – o meglio, in un ascolto – non può riflettersi la
molteplicità delle realizzazioni possibili di una partitura aleatoria.
Quanto proposto in una esecuzione – per quanto generato da un’o-
pera completamente indeterminata o del tutto improvvisata – giunge
comunque all’ascoltatore come unità comunicativa chiusa e in sé
compiuta (cfr. anche Boehmer, 1967, p. 99), a conferma che una cosa
è l’intenzionalità estetica, un’altra la fruibilità estetica. Come arguiva
Dahlhaus già nel 1966, per l’ascoltatore il concetto di variabilità non
esiste: nel dominio aurale essa è una «finzione estetica» (Dahlhaus,
1966, p. 74). A tale constatazione è stato replicato che più audizioni
o un propedeutico studio analitico possono comunque rendere l’inde-
terminazione “riconoscibile” all’ascolto (Karkoschka, 1967, p. 51). Ri-
sposta che proietta la problematica all’interno di un circolo vizioso in
cui, oltre a evidenziarsi un’intrinseca confusione tra i piani sostanzial-
mente differenti dello studio (attività di analisi) e dell’ascolto (attività

332
17. OPERA APERTA : TEORIA E PRASSI

di sintesi), si palesa una contraddizione che rafforza e avvalora la po-


sizione di Dahlhaus: nel momento in cui più ascolti rendono ricono-
scibile l’apertura, il riferimento va a un’immagine dell’opera che, per-
mettendo il confronto in quanto modello, si rivela un “prototipo” la
cui “finzione estetica” è difficilmente discutibile.
Se nei spesso citati mobilès di Calder è possibile osservare al con-
tempo la struttura e le sue variazioni in movimento in un campo per-
cettivo dato, in musica si può fruire invece una sola variazione della
struttura (ossia una sola versione per volta), realtà che esclude la pos-
sibilità di percepire il suo “movimento” in quanto tale. La sola au-
tentica differenza che sul piano della fruizione sembra dimorare tra
opere aperte e chiuse risiede nel progressivo attenuarsi del concetto
di adeguatezza – o inadeguatezza – interpretativa: per statuto, ogni
esecuzione di un’opera aperta è plausibile (Schmidt, 1992, pp. 14-5).
Ma, in definitiva, la problematica della percezione dell’indetermina-
zione – lontana dal compromettere il valore o lo «scopo» dell’opera
aperta (come affermato in Stockhausen, [1975] 1978, p. 573 e in
Nattiez, [1987] 1989, p. 65) – conduce a problematiche che toccano
solo tangenzialmente l’essenza del fenomeno. Più che la capacità di
riconoscere la mobilità, è infatti la potenzialità di trasformazione del-
l’opera, la volontà di rendere unica ogni sua esecuzione, ad essere ve-
rosimilmente il fine primo di un fenomeno che nel suo evolversi (e
nel suo languire) ha sempre avuto come prius l’oggettivazione di un
messaggio artistico.
Un ultimo accenno merita un ulteriore luogo comune della pub-
blicistica sull’opera aperta riservato alla celebrazione delle nuove
frontiere creativo-interpretative raggiunte dall’esecutore. Le riserve
nei confronti di questa visione sovradimensionata del ruolo dell’inter-
prete – che, se si vuole, aveva visto accrescere la sua importanza già
con il serialismo (Mosch, 1994) – si basano sul suo carattere astorico,
apparentemente ignaro delle differenti problematiche e dei “conflitti”
che nelle diverse epoche hanno contraddistinto il rapporto tra esecu-
tore e testo scritto. Ad esclusione dei casi in cui i ruoli del composi-
tore e dell’interprete convergano nella medesima persona, nella realiz-
zazione di pagine indeterminate il ruolo dell’esecutore – di cui si è
già menzionata la sua funzione di “strumento”, di mezzo nel processo
costitutivo di un’opera aperta – solo in rari casi coincide con il ruolo
di co-creatore postulato da alcuni (da Eco, 1962 a Rivest, 2001).
Sommando tutte le precedenti osservazioni, si può plausibilmente
affermare che, nel campo della fruizione più che in quello della crea-
zione di opere indeterminate, Adorno ([1961] 2004d, p. 240) aveva
visto giusto allorché, citando Cocteau, si stupiva «di quanto poco ol-

333
ESPRESSIONE , FORMA , OPERA

tre il limite si è andati superando il limite». Sull’opera aperta, di cui


non sono in discussione il valore e l’ineluttabilità nel quadro di un
processo storico di evoluzione del linguaggio musicale, gravano anco-
ra alcune problematiche non risolte da un dibattito rimasto invero
sempre a uno stadio embrionale. Tra queste, la riflessione sul muta-
mento o sulla validità del concetto di identità dell’opera nelle forme
più audaci di apertura, problematica per la quale appare insufficiente
l’equiparazione che assimila l’opera al progetto d’autore.

334

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