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Alcuni aspetti rilevanti delle vicende musicali intervenute tra gli ini-
zi degli anni cinquanta e la fine degli anni settanta del Novecento
appaiono quali risposte, talora estreme, alle tensioni che in forme e
modi diversi attraversano nel tempo i rapporti tra l’arte e le con-
temporanee vicende socio-politiche e tecnologiche. Nel caso delle
avanguardie musicali sorte verso la metà del secolo, così come per
altri settori artistici, le sperimentazioni muovono da due direzioni
sostanzialmente differenti, delle quali l’una – di area europea – si
confronta, all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale,
con le inquietudini e gli ideali tipici di una ricostruzione, laddove
l’altra – quella americana – affonda le sue radici in presupposti po-
litico-culturali affatto diversi e nella ricerca di una propria indivi-
dualità non debitrice a un codice culturale esterno. Lontane nelle
premesse, tali esperienze giunsero nondimeno con il tempo a colma-
re l’iniziale divergenza e a risultare contigue – se non parallele –
nell’approfondimento di alcune tendenze complesse ed estremamen-
te articolate. Tra queste, l’introduzione del caso o di fattori di inde-
terminazione nell’opera e/o nel processo creativo.
Limitando il discorso all’ambito novecentesco, e tacendo di
quella particolare apertura performativa-interpretativa implicita in
ogni costrutto artistico (Ingarden, [1962] 1989a), principi di inde-
terminazione potrebbero già intravedersi in alcune composizioni
della prima metà del secolo (si pensi, in area europea, al Lehr-
stück di Hindemith del 1929 o, in area americana, ad alcune pagi-
ne di Ives e Cowell). Eppure, soprattutto in ambito europeo, par-
lare in questi casi di prodromi della poetica dell’ambiguità signifi-
cherebbe falsificare gli intenti dell’una come dell’altra esperienza,
la prima dettata dalla volontà di affrancare l’arte dal concetto ot-
tocentesco di autonomia (a favore soprattutto di una dimensione
funzionale); la seconda provocata invece da un mutamento nei pa-
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Opera aperta tra continuità e innovazione
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Di alcuni malintesi. Pluralità dell’opera aperta
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17.3
Stati Uniti vs Europa:
libertà di controllo – controllo della libertà
Dalle prime prove indeterminate o aleatorie degli anni cinquanta ri-
sulta con evidenza quanto le problematiche sentite dai compositori
americani ed europei fossero inizialmente differenti. Negli Stati Uniti,
dove il fenomeno emerse tra il 1950 e il 1951 con un certo anticipo
rispetto al continente europeo, le prime composizioni proiettate verso
nuove frontiere creativo-interpretative (svincolate o meno da una se-
miografia tradizionale) appaiono in un momento in cui in Europa i
compositori più impegnati cominciavano a cimentarsi con la serialità
integrale. Per una singolare analogia tra fatti storici e fatti artistici,
per compositori quali John Cage, Morton Feldman, Christian Wolff,
La Monte Young o Earle Brown la decostruzione del linguaggio e/o
della sintassi musicale (o, se si vuole, la ricerca di un nuovo modo
per veicolare il messaggio artistico) non presupponeva una necessaria
“ricostruzione” o una volontà di “riordinamento”, esigenza, quest’ul-
tima, sottesa alla sperimentazione seriale. Quello che per gli uni era
vissuto come ineluttabile, era per gli altri estraneo o percepito come
tale, muovendo gli interessi non dalla ricerca di un linguaggio rigoro-
so e oggettivo atto a ricucire una lacerazione nella sperimentazione
musicale causata dagli eventi bellici quanto, piuttosto, dalla volontà
di liberare il suono dalle sedimentazioni di senso proprie della tradi-
zione, nonché da una propensione verso la non-intenzionalità o l’in-
consapevolezza dell’atto creativo. La differenza si inscrive nel quadro
di una dialettica tra natura e artigianato, tra libertà dal controllo e
controllo della libertà. Cosicché, il punto di partenza di quel tragitto
che in entrambi i casi ha portato a un progressivo annullamento (o
riconnotazione) dei parametri musicali muove in un caso (Stati Uniti)
dal suono, nell’altro (Europa) dal tempo, ossia dalla prima dimensio-
ne “sovraordinatrice” dell’artefatto musicale anche qui, per estensio-
ne, fatta deflagrare in nome di una sperimentazione condotta solo ap-
parentemente via negationis.
Nel processo di liberazione del suono, di progressivo de-control-
ling degli elementi sonori (Feldman, [1966] 1985c, p. 48) o di «libe-
razione di tutti i suoni udibili dalle limitazioni del pregiudizio musi-
cale» (Cage, [1948] 1993a, p. 32), il primo parametro sottratto alla
convenzione (creativa e performativa) è l’altezza. Proprio l’indifferen-
za verso il concetto di altezza è, in area americana, visibile fin dai
brani che a buon diritto possono essere considerati i primi riusciti
tentativi di affrancamento da una notazione tradizionale a favore di
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ta nel 1952 sebbene già concepita nel 1948), dove l’unico dato che
resta è la sola componente che accomuna suono e silenzio: il tempo.
L’indifferenza nei confronti di qualsiasi parametro musicale – il bra-
no è destinato a qualunque strumento o gruppi di strumenti – è bi-
lanciata (o, se si vuole, potenziata) dall’attenzione per la dimensione
temporale, articolata in questo caso in una sorta di “paradosso tri-
partito” composto da tre singole sezioni di «Tacet», i cui tempi par-
ziali – prescritti in partitura – sommano per l’appunto 4 minuti e 33
secondi.
L’affermazione di Earle Brown, secondo cui nella sua musica la
«liberazione del suono» coincide con quella «del tempo» (Brown,
1966, p. 58), potrebbe condurre a una diversa interpretazione delle
sue prime esperienze indeterminate; ma, anche in questo caso, il tem-
po è inteso, alla pari di Feldman, come una «“tela” sulla quale la
forma musicale diviene osservabile» mediante una libera «disposizione
di elementi» al suo interno. Il dato temporale, inteso olisticamente
come “tempo-spazio” ed esaltato quale risultato “soggettivo” dell’in-
terprete, è pur nella sua apparente negazione l’«elemento strutturale
(come lo spazio nelle arti visive)» (ivi, p. 64) sia che al suo interno gli
elementi siano completamente indeterminati – si pensi all’insieme di
pezzi chiamati Folio, scritti tra il 1952 e il 1953, in cui spicca De-
cember 1952, composta esclusivamente da 31 differenti rettangoli ver-
ticali e orizzontali collocati nello spazio –, sia che esso sia invece l’u-
nico elemento libero in cui risuonano altezze, timbri e intensità con-
trollate (Twenty-Five Pages, 1953; Available Forms, 1961; Corroboree
per 3 o 2 pianoforti, 1964; Quartetto, 1965). È importante sottolinea-
re come per le proprie poetiche dell’indeterminazione i compositori
si siano dichiaratamente ispirati alle coeve sperimentazioni condotte
nelle arti figurative: per Feldman il debito va alla produzione e alla
poetica di Guston, Pollock, Rothko, Rauschenberg ecc. (Feldman,
[1967] 1985b, pp. 38-40); per Brown l’influsso principale è quello di
Calder e dei suoi mobilès (Brown, 1966, p. 62), mentre per Cage l’in-
flusso si estende fino alle avanguardie figurative continentali: «A
chiunque possa interessare: I quadri bianchi vennero per primi; il
mio pezzo silenzioso venne più tardi» (Cage, 1971b, p. 121).
In questa concezione del tempo come «cornice da riempire»
(Wolff e Cage, in Nyman, [1974] 1999, p. 10), in cui il controllo del-
le altezze è ininfluente e il concetto di irreversibilità indiscusso, si mi-
sura l’iniziale distanza con le prime sperimentazioni indeterminate eu-
ropee dove, al contrario, strutture più o meno definite (campi sonori,
gruppi, blocchi ecc.) si svolgono in un tempo sempre più minato nel-
la sua funzione di vettore direzionale degli eventi sonori. Ancorati al
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17.4
Percezione, ascolto e meccanismi di fruizione
dell’opera aperta
Spostato così l’asse di osservazione dalla creazione dell’opera alla sua
fruizione, si evidenziano altre problematiche e nuove ambiguità. Dalle
pagine dedicate da Eco a forma e indeterminazione (Eco, 1959; 1960;
1962) alle più recenti trattazioni (Rivest, 2001) si perpetua un frain-
tendimento dovuto a una sbrigativa equiparazione tra i ruoli del com-
positore, dell’interprete e dell’ascoltatore che – sulla scia di poetiche
“aperte” proprie alle arti visive e spazio-temporali – si vogliono acco-
munati nella condivisione di «uno stesso atteggiamento interpretati-
vo» (Eco, 1962, p. 33 nota). Nell’equiparare i ruoli (e le conseguenti
funzioni) degli “attori” dell’evento musicale si ingenera una confusio-
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