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Lez.

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La glottodidattica si occupa della ‘educazione linguistica: cioè la capacità di acquisire lingue native e non. Glotto significa
‘lingua’, didatti che riguarda i metodi di insegnamento. La Glottodidattica analizza e mette in pratica approcci teorici e
metodologici dell’insegnamento delle lingue, in particolare della L1 la lingua madre e, soprattutto, della L2. la
glottodidattica si può dividere in due parti, da una parte c’è la glottodidattica tradizionale che elabora metodologie,
strumenti e approcci utili per la didattica delle lingue, al cui centro c’è l’insegnante e l’attività che svolge con gli studenti.
L’altra parte è linguistica acquisizionale la quale studia il modo in cui vengono apprese le lingue sia la prima che la seconda
dove al centro dell’attenzione c’è l’apprendente.
Origini: La Glottodidattica come disciplina nasce per convenzione nel 1942, anno di pubblicazione del saggio di Leonard
Bloomfield: egli si occupa del modo in cui si imparano le lingue straniere, un apprendimento di una lingua straniera lungo,
fatto di molta pratica e, soprattutto, di continua imitazione del parlante nativo quindi in stretto contatto con lui. Secondo
bloomfield l’insegnante di lingue, non ha una particolare considerazione. Per bloomfield ha importanza il linguista teorico,
il quale è l’unico che può guidare lo studente nell’acquisizione linguistica, grazie a delle osservazioni utili che lo possano
portare alla scoperta e alla interiorizzazione di generalizzazioni formali. Bloomfield rompe con il passato e apre la strada a
nuove prospettive future.
Tradizione classica: Nell’antichità egizia o greca si insegnavano le lingue allo scopo di comunicare con i popoli stranieri, che
i Greci chiamavano βάρβαροι ‘balbuzienti’, con cui si entrava in contatto per motivi commerciali o per alleanze o per
operazioni militari. Nel mondo romano veniva studiata una L2 soprattutto la lingua greca, considerata il principale veicolo
di una cultura, per loro il greco era da ammirare e imitare, l’apprendimento avveniva mettendo l’apprendente in stretto
contatto con un madrelingua, di solito uno schiavo greco.
Medioevo e il primo Rinascimento: Nel Medioevo e nel primo Rinascimento si studiavano le lingue per uno scopo
‘comunicativo’ per comunicare all’interno delle corti. Le classi colte parlavano il latino, le classi più popolari parlavano un
latino non più classico, perché vi erano diverse varianti. Un esempio può essere il caso del genitivo che in latino per fare
quello che noi oggi chiamiamo complemento di specificazione si usava un morfema di caso che era il genitivo, quindi per
dire figlio di marco si diceva marci filius e le classi più agiate continuavano a dire cosi, mentre le classi popolari cambiavano
il detto perché la marca del genitivo veniva sostituita dall’uso di ‘de’ più il caso ablativo quindi filius de marco. I modelli di
riferimento in cui si studiava erano i testi classici e i libri sacri, per i quali lo studente doveva avere il massimo rispetto
affidandosi al magister, colui che ‘ne sapeva di più’ o colui che fa crescere.
Seicento e L’APPROCCIO FORMALISTICO: Nel Seicento nacque l’approccio formalistico e il metodo grammatico-
traduttivo. Sulla scia della creazione delle grammatiche e dei dizionari, lo studio delle lingue venne incentrato sull’uso di
manuali dove vengono imparate a memoria schemi grammaticali già formalizzati. Le regole erano concepite come stabili e
immutabili. Ogni tipo di variante linguistica era condannata. Il registro usato per l’apprendimento delle lingue era di tipo
formale. I testi classici erano considerati dei modelli da insegnare e in particolare, per l’insegnamento dell’italiano, quelli
di Dante, Petrarca e Boccaccio e i poemi cavallereschi. La fonologia era vista come un insieme di regole di pronuncia. Il
lessico era studiato su elenchi precompilati di verbi irregolari, di parole suddivise per campi semantici o presenti in un
testo letterario. Il metodo e i contenuti non potevano essere messi in discussione: l’apprendente era come una tabula rasa
da inscrivere con regole grammaticali. Metodo di insegnamento vi era quello ORALE in cui venivano spiegate le regole
prosodiche e di pronuncia e venivano letti testi che spesso lo studente non capiva. E vi era il metodo SCRITTO in cui
venivano fatti leggere e tradurre dei testi stranieri. L’approccio formalistico e il metodo grammatico traduttivo hanno
avuto molta fortuna e sono rimasti in voga nelle scuole italiane almeno fino agli Anni ‘80 del Novecento.
Ottocento e l’APPROCCIO NATURALE: L’approccio formalistico fu messo in discussione nell’Ottocento negli Stati Uniti. La
società americana era multiculturale e in forte ascesa economica. Ticknor, docente ad Harvard, sostenne che
l’insegnamento delle lingue parlate andava personalizzato in virtù delle caratteristiche individuali di chi le studiava e
doveva essere usato il metodo induttivo. Maximillian Berlitz nel 1872 fondò una scuola di tedesco che poi sarebbe
diventata una catena mondiale. Venne utilizzato il metodo diretto, secondo cui il docente madrelingua si concentrava
soprattutto sulla capacità di leggere e comprendere un testo, anche se non ogni parola. Dall’interazione tra gli studi
scientifici di fonetica e la nuova società multiculturale nacque l’approccio naturale in cui alla base dell’insegnamento delle
lingue c’era la lingua parlata, c’era la priorità di oralità su scrittura. Inoltre si dava attenzione all’ascolto e alla lettura di
testi esemplificati da parafrasi. Con questo quadro ci si apre al secolo successivo, in cui il succedersi di approcci e modelli
teorici registrerà un’accelerazione vertiginosa.
Lez.2
Precursori glottodidattica: Tra la fine dell’800 e i primi del 900 si distinguono Sweet, Jespersen e Palmer: Sweet parla di
metodo progressivo, secondo cui ogni insegnamento linguistico di lunga durata passa attraverso dei momenti che vanno
rispettati e mai alterati; Jespersen sottolinea l’importanza delle comunicazioni reali e della lingua viva, al contrario delle
frasi e delle parole decontestualizzate, per cui la didattica deve ruotare attorno ad alcuni principi fondamentali quali il
contatto diretto e prolungato con la lingua, varietà degli esercizi e grammatica inventiva (cioè induttiva, in cui la sintassi è
prioritaria rispetto alla morfologia); Palmer, infine, ritiene fondamentale per l’acquisizione la ripetizione, ma deve essere
graduale e occuparsi delle 4 abilità fondamentali: capire, parlare, leggere e scrivere. Il lavoro didattico deve essere molto
accurato. Il modello scelto va sempre seguito anche se nella lingua ci sono elementi regolari e altri arbitrari che si
alternano in continuazione. Non è la parola, ma la frase ad essere l’unità minima di senso.
Reading method: A partire dalla 1° GM la società cambia fortemente a causa della depressione economica,
dell’isolazionismo e della mancanza di interscambio, fattori che penalizzano la lingua parlata e favoriscono il ritorno della
grammatica al centro degli studi di lingue che vengono utilizzate più che altro per leggere opere scientifiche.
Quest’atteggiamento porterà al Reading Method, che concentra l’attenzione soprattutto sull’abilità di lettura delle lingue e
pone l’insegnante in secondo piano.
APPROCCIO STRUTTURALISTICO: Negli anni 50 è importante la figura di Lado e la linguistica contrastiva che cerca di capire
le zone di maggiore difficoltà dell’apprendente sulla base delle simmetrie e dissimmetrie tra la sua lingua madre e quella
che sta studiando per poi utilizzare strategie adeguate. Poi unite ai pattern drill, esercizi strutturali che daranno il nome
all’approccio strutturalistico e che consistono in sequenze stimolo-risposta-conferma usate per incentivare la
memorizzazione spontanea, lasciano poco spazio alla riflessione. I pattern drill sono stati applicati, principalmente, nei
laboratori linguistici fino agli anni ’70, poi vengono in apparenza abbandonati. In realtà rimangono nei manuali didattici
perché sia gli autori sia i docenti pensano che per l’acquisizione linguistica si devono automatizzare processi.
L’automatizzazione dei processi avviene con la ripetizione che, a sua volta, permette la memorizzazione. La diffusione
dell’approccio strutturalistico subisce un arresto nella seconda metà degli anni ‘50 a causa dell’attacco di Chomsky alla
psicologia comportamentista e della nascita della sociolinguistica. Le microstrutture non servono se non sono viste in un
contesto sociale, che è alla base della comunicazione. L’importanza data alla ripetizione per aiutare la memorizzazione
verrà ripresa dagli approcci successivi.
Lez.3
APPROCCIO COMUNICATIVO e i 5 METODI DIDATTICI: L’approccio comunicativo per l’apprendimento delle lingue
straniere nasce e si diffonde a partire dagli anni ‘70. Si basa sulla competenza comunicativa e sul metodo funzionale. [La
competenza comunicativa è una realtà mentale, la cui realizzazione concreta è l’esecuzione di eventi comunicativi in
contesti sociali. Le componenti della competenza comunicativa sono: 1) ‘sapere la lingua’; 2) ‘saper fare lingua’; 3) ‘saper
fare con la lingua’. Ci sono tre tipi di competenze mentali da sviluppare che costituiscono il ‘sapere la lingua’: 1.
competenza linguistica, capacità di comprendere e produrre enunciati ben formati a tutti i livelli (fonologico, morfologico,
sintattico, lessicale, testuale); 2. competenze extralinguistiche, capacità di interpretare e produrre gesti del corpo per
comunicare e il saper valutare l’importanza della vestemica e oggettemica. 3. competenze contestuali, legate alla lingua in
uso. Le competenze mentali si realizzano nell’azione comunicativa, il ‘saper fare lingua’: comprendere, produrre e
manipolare testi orali e scritti. Questa attualizzazione della competenza è la padronanza linguistica.] L’approccio
comunicativo, che considera la lingua come mezzo di comunicazione, influenza numerosi metodi didattici (5). 1.METODO
SITUAZIONALE: Secondo l’approccio comunicativo le strutture e lessico dovevano essere contestualizzati in ‘situazioni’
(una sera al bar, l’anno scorso in aeroporto ecc.), al ruolo dei partecipanti (amici, parenti, estranei ecc.) e ai loro scopi
(offrire da bere, prendere un aereo ecc.). Il manuale situazionale è diviso in unità didattiche, secondo la logica delle tre P:
Presentation, Practice, Production. Al suo interno si trovano: il paratesto (elementi di contorno al testo); il dialogo
registrato da utilizzare in classe per far riascoltare allo studente dei brani in maniera autonoma; la versione segmentata del
dialogo, con delle pause tra le battute per farle ripetere allo studente con pronuncia e intonazione corrette; i pattern drill
registrati di tradizione strutturalistica; la sezione di grammatica. 2.METODO NOZIONALE-FUNZIONALE: Nel 1980 parte in
Italia il Progetto Speciale Lingue Straniere che utilizza 300 insegnanti che hanno studiato all’estero per la formazione dei
loro colleghi. L’approccio grammaticale viene bandito ufficialmente, ma gli insegnanti continuano ad utilizzarlo. I manuali
seguono ancora l’impianto delle tre P: presentation, che è affidata al registratore audio e adesso anche video, practice, che
riguarda gli atti comunicativi, e production, che si realizza in dialoghi aperti e drammatizzazioni. Non c’è più attenzione alla
società, ai valori, all’identità culturale dei popoli di cui si studia la lingua. La Cultura viene ridotta alla sola vita quotidiana.
La traduzione scompare definitivamente. Si diffonde così l’approccio comunicativo: dall’unione dei concetti di nozione e di
atto comunicativo con la struttura del metodo situazionale nasce il metodo nozionale-funzionale. 3.DIMENSIONE
PSICOLOGICA: Tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80 si sviluppa un interesse crescente per la dimensione psicologica in
glottodidattica. In particolare, la psicologia umanistica si pone contro la tradizione razionale e intellettuale
dell’insegnamento, che non prende in considerazione la dimensione emozionale dell’apprendente ed evidenzia che: il
cervello è diviso in due emisferi che, pur interagendo, si occupano di due diversi tipi di conoscenza e quindi di
apprendimento: globale e intuitivo l’uno, analitico e razionale l’altro; la dimensione emozionale è prevalente in bambini e
adolescenti, e ha un ruolo fondamentale nell’acquisizione di una lingua attraverso, ad es., la motivazione; esiste un ordine
naturale di acquisizione di una lingua che va rispettato; perché sia interiorizzato, l’apprendimento deve essere
‘significativo’, nei contenuti e nella relazione con il docente; la conoscenza è costruita dallo studente, e diventa più stabile
e rapida se lavora con i compagni e con la guida dell’insegnante. Grazie alla psicologia vengono create nuove metodologie
che prediligono l’apprendimento con attività che coinvolgono l’intera classe, ad es. la risoluzione di un problema o
l’elaborazione di un progetto. Gli uomini sono sia emozionali sia razionali, e la prima di queste caratteristiche, spesso
prevalente, influenza l’apprendimento.
4.METODO NATURALE DI KRASHEN: Sulla base del LAD (Language Acquisition Device) di Chomsky, Krashen elabora lo
SLAT (Second Language Acquisition Theory) e istituisce una differenza tra acquisizione e apprendimento. L’acquisizione è
un processo inconscio che sfrutta sia la conoscenza globale dell’emisfero destro sia quella analitica del sinistro; è stabile e
entra nella memoria a lungo termine. L’apprendimento è un processo razionale che utilizza l’emisfero sinistro, è
provvisorio e si attiva lentamente. Acquisire avviene in maniera naturale come nel caso della L1, l’apprendere viene invece
indotto, è guidato. Secondo la SLAT l’insegnante deve far produrre negli studenti acquisizione, non apprendimento. I
principi sono 3: 1. un input comprensibile mette in moto il LAD e avviene l’acquisizione quindi lo studente si deve
concentrare sul significato dell’input, non sulla sua forma; 2. c’è un ordine naturale di apprendimento che va sempre
rispettato perché ci sia acquisizione; 3. perché ci sia acquisizione non deve essere inserito il filtro affettivo, cioè un
meccanismo di autodifesa che si attiva in caso di: stati d’ansia; situazioni che mettono a rischio la propria immagine;
situazioni che danneggiano l’autostima; attività che diano la sensazione di non riuscire ad apprendere, causando
frustrazione e conseguente perdita di motivazione. 5.METODI CLINICI: La psicologia umanistica influenza sempre più gli
studi di glottodidattica, che comincia ad occuparsi sempre meno della dimensione linguistica e sempre più di quella
psicologica. Sono quattro i metodi più importanti che influenzano ancora oggi la glottodidattica: Total Physical Response di
Asher, in cui l’insegnante dà ordini sempre più difficili agli studenti che a poco a poco iniziano a usare la lingua
spontaneamente; Community Language Learning di Curran, in cui l’insegnante consiglia e aiuta ma sta fuori dal lavoro di
apprendimento (poco impatto in Italia); Silent Way di Gattegno in cui l’insegnante dà un modello che gli studenti ripetono
e utilizzano in situazioni specifiche. Se il docente deve fare qualche correzione, la fa in silenzio, a gesti; suggestopedia di
Lozanov, un metodo clinico simile ad una psicoterapia di gruppo con training autogeno e musica di sottofondo.
Lez.4
Ultime tendenze: Negli ultimi anni sono nate nuove metodologie e nuove tendenze didattiche, che influenzano anche i
manuali e si diffondono sempre più. C’è l’uso delle nuove tecnologie nello studio delle lingue. 1.La metodologia CLIL
(Content and Language Integrated Learning) utilizza una lingua straniera per insegnare un’altra disciplina. 2. Strategie di
intercomprensione tra lingue affini quindi c’è l’idea è che un italiano che ha studiato francese può leggere lo spagnolo, il
catalano o il portoghese; a livello orale, un italiano e uno spagnolo possono capirsi a vicenda se usano le proprie lingue
lentamente. In questo modo si migliora la qualità dell’intercomprensione. 3. I manuali ‘arlecchino’ che, mettendo insieme
diversi elementi presi da vari approcci della storia della glottodidattica, cercano di adattarsi a tutti i docenti, sia quelli più
tradizionalisti sia quelli più innovativi. Le tecnologie entrano in modo sempre più preponderante nell’insegnamento delle
lingue. Si passa dall’idea di tecnologia, ad es. i film, come contributo alla conoscenza dei modi di vivere e di pensare di un
popolo, a quella di sussidio tecnologico atto a descrivere la situazione comunicativa d’uso di una lingua. Con l’uso di
riproduttori audio e video la lingua autentica entra nelle classi. Oggi con web2.0 si accede ad infinite banche dati di tutti i
tipi, e con la LIM lo studente fa prove strutturate di ascolto e si autovaluta.
Linguistica acquisizionale: Nata come branca della linguistica applicata, la linguistica acquisizionale sta pian piano
diventando una disciplina autonoma. In teoria, essa studia ogni tipo di acquisizione linguistica a qualsiasi età; in realtà,
però la sua attenzione si concentra maggiormente sui processi di apprendimento di una lingua seconda che non su quelli di
acquisizione della materna. Studia anche i modelli che spiegano tali processi, e i fattori esterni che li condizionano. DIFF.
BILINGUISMO/L2 e tecniche di apprendimento in questi 2 casi: In genere, L1 e L2 sono apprese in sequenza, prima l’una e
poi l’altra. Se sono invece apprese contemporaneamente a partire dai primi anni di vita del bambino, di solito perché
parlate una da un genitore e l’altra dall’altro, allora si parla di bilinguismo. L’acquisizione di L2 può essere: SPONTANEA Se
l’apprendente si trova all’interno della comunità in cui questa lingua è parlata. Stando a contatto con i nativi, egli assolve
contemporaneamente un compito comunicativo (capire e farsi capire) e uno acquisizionale (imparare L2). GUIDATA
L’acquisizione di chi impara L2 in un corso strutturato con un docente. Le due modalità si possono sovrapporre. Per
Krashen ci sono 2 modi di imparare una L2: acquisizione e apprendimento. Si tratta di 2 processi separati di cui il primo è
inconscio, porta all’interiorizzazione stabile e duratura. Es: il bambino impara la lingua madre sfruttando l’intuizione e la
memorizzazione naturale degli input. Il secondo è consapevole e razionale e rispecchia il modo in cui si apprende a scuola
e da adulti. La distinzione fu operata da Krashen, per il quale l’acquisizione è un processo inconscio che sfrutta sia la
conoscenza globale dell’emisfero destro, sia quella analitica del sinistro; è stabile e entra nella memoria a lungo termine.
L’apprendimento è un processo razionale che utilizza l’emisfero sinistro, è provvisorio e si attiva lentamente. Differenza tra
lingua seconda (L2) e lingua straniera (LS): LINGUA SECONDA (L2) è la lingua non materna appresa in un contesto in cui
essa è la lingua madre della maggior parte della popolazione (per es., nel caso degli immigrati) LINGUA STRANIERA (LS) è
una lingua non materna imparata in un paese dove essa non è parlata. La differenza principale tra L2 e LS è nella qualità e
nella quantità di input a cui l’apprendente viene esposto. Inoltre, imparare L2 in un posto in cui questa è la lingua
principale vuol dire imparare anche la cultura di cui la lingua è veicolo. Spesso l’acquisizione di L2 è stata paragonata a
quella di lingue pidgin o lingue creole. Le lingue pidgin sono delle varietà di contatto, nate nell’ambiente delle colonie e
molto semplificate sia nel lessico sia nella struttura. Sono nate allo scopo di far comunicare due comunità (per es. i
colonizzatori e gli indigeni) in assenza di una lingua franca. Se non si estingue o non resta limitata per numero di parlanti, la
lingua pidgin viene trasmessa alle generazioni successive, per le quali sarà la lingua madre, e diventa creolo.
Nell’apprendimento di L2, in caso di integrazione con la comunità di arrivo, la grammatica diventa sempre più complessa e
vicina a quella dei parlanti nativi; in caso di pidgin o creolo, la lingua si fossilizza in una versione semplificata, diversa da
quella della lingua di arrivo.

Linguistica acquisizionale e rapporti con altre discipline: La linguistica acquisizionale (LA) nasce nel mondo anglosassone
allo scopo di cercare di conoscere i processi di apprendimento di una lingua seconda per impostarne meglio la didattica.
Visto che sono numerosi i fattori che intervengono nell’apprendimento di una lingua, la LA intrattiene stretti rapporti con
altre discipline: 1.la linguistica generale; 2.la tipologia linguistica; 3.la sociolinguistica; 4.la linguistica applicata; 5.la
psicologia cognitiva e sociale; 6.la neurolinguistica. 1.La linguistica generale: offre gli strumenti teorici per la comprensione
del funzionamento delle lingue, fornisce anche i livelli di analisi delle lingue: fonologia, morfologia, sintassi, semantica,
lessico e pragmatica, spiega le categorie grammaticali (genere, numero, caso, persona, tempo, aspetto, modo e modalità,
diatesi) che gli apprendenti devono saper riconoscere in L2. 2.La tipologia linguistica fornisce generalizzazioni universali,
che riguardano le lingue, e restrizioni sui tipi linguistici; mette in evidenza quelle che sono le strutture attestate nelle lingue
del mondo, le più diffuse e quelle marcate e quindi più difficili da imparare. 3.È nell’ambito della sociolinguistica che sono
state fatte le prime ricerche su L2. Essa studia l’uso della lingua all’interno della situazione sociale in cui viene utilizzata,
analizzando le diverse varietà in cui essa si concretizza: da un lato c’è lo standard, lingua quasi ideale con poche
realizzazioni sociali, dall’altro ci sono le varietà di registro, quelle geografiche, quelle legate al mezzo (ad es. lingua del
telegiornale vs lingua di un giornale) ecc.; inoltre si occupa delle variabili sociali che condizionano lo sviluppo della
competenza di L2, fornendo alla LA sia metodologie di raccolta (interviste o osservazioni dei partecipanti
all’apprendimento) sia analisi dei dati utilizzati per descrivere la variazione. 4.La linguistica applicata utilizza i risultati
raggiunti dalla LA, usufruendo delle conoscenze da questa raggiunte sull’apprendimento di L2 per poi creare modelli
glottodidattici. D’altro canto, la linguistica applicata dà alla LA più strumenti di analisi dei dati di L2 e arriva a simulare
situazioni di apprendimento su singoli argomenti grammaticali, pervenendo a risultati spesso simili a quelli osservati
nell’apprendimento naturale di L2. 5.La psicologia cognitiva studia la percezione e i meccanismi di elaborazione
dell’informazione e di problem solving della mente umana, nonché la memoria. Proprio come un computer, la mente
umana, elabora le informazioni (input) che le vengono dal mondo esterno, ne trova le regolarità, le organizza, le
memorizza, e automatizza alcune procedure per poi poter generare output, cioè enunciati linguistici in L1 o L2. La
psicologia sociale studia gli aspetti sociali del comportamento umano, che poi vanno a influenzare l’apprendimento di L2.
L’integrazione fra l’apprendente e il gruppo di parlanti L2 in cui egli si va a inserire o, al contrario, l’isolamento e la
discriminazione possono rendere più veloce o ritardare o bloccare l’acquisizione della lingua. 6.La neurolinguistica studia i
meccanismi neurologici che stanno alla base del linguaggio o dei disturbi del linguaggio. In questo modo essa fornisce alla
LA supporti alla comprensione di regolarità o di difficoltà nella costruzione di L2.
Storia linguistica acquisizionale (seconda metà 900 - STRUTTURALISMO – WEINREICH –LADO – CHOMSKY): Lo studio
scientifico dell’acquisizione delle lingue seconde risale alla seconda metà del Novecento: nei secoli precedenti ci si era
concentrati solo sull’insegnamento. A partire dagli anni ‘50-’60 si comincia a studiare il modo in cui avviene
l’apprendimento di L2, concentrando l’attenzione sul discente. Negli anni ‘50 appaiono i due più importanti studi, di
impronta strutturalista, che sono alla base della disciplina: Weinreich,che si occupa delle lingue in contatto; Lado, che si
concentra sull’insegnamento delle lingue. WEINREICH si occupa principalmente di bilinguismo piuttosto che di L2, ed
elabora il concetto di interferenza vista come deviazione a qualsiasi livello (fonologico, morfosintattico, lessicale ecc.) dalle
regole della lingua che l’apprendente sta imparando. Questa deviazione è dovuta, principalmente, all’influsso che
l’apprendente subisce da parte di un’altra lingua, ad es., nel caso di apprendimento di L2, da parte della L1. Un caso tipico
di interferenza si ha, a livello fonologico, quando nella pronuncia di L2 si sente l’influsso di quella di L1 (‘accento
straniero’). LADO utilizza l’analisi contrastiva, cioè un rigoroso confronto tra le strutture di L1 e quelle di L2. La lingua è
come un insieme di strutture finite che producono un numero infinito di frasi. Le strutture sono apprese attraverso
continue ripetizioni, secondo lo schema del comportamentismo (Skinner) ‘stimolo-risposta-verifica’. L’apprendimento di L1
consiste nella formazione di abitudini, mentre per L2 si sostituiscono le vecchie abitudini con le nuove. Secondo Lado le
abitudini dell’apprendimento di L1 agiscono su L2, dando origine alle interferenze. Gli studiosi devono quindi cercare di
prevedere le difficoltà che un apprendente che parla una determinata L1 può incontrare nello studio di L2. Questa
previsione si ottiene paragonando le strutture della L1 a quelle della L2, focalizzando l’attenzione su quelle che sono
differenti e, quindi, più difficili da imparare. In Lado c’è un interesse solo per l’insegnamento e non per la descrizione del
processo di acquisizione./ Alla fine degli anni ‘50 entra in scena CHOMSKY con una nuova prospettiva sull’apprendimento
di L1. Il bambino che impara L1 non lo fa semplicemente imitando gli adulti, tanto che crea parole ed enunciati mai sentiti
prima, a volte corretti e altre volte devianti dalla lingua di arrivo ma comunque rispondenti a precise regole (‘dicete’ come
‘leggete’, ‘venghi’ come ‘corri’, ‘petaloso’ con -oso che esprime la presenza o l’abbondanza della qualità o della condizione
espresse dal sostantivo da cui deriva). L’acquisizione linguistica non è quindi imitativa ma creativa: il bambino rielabora gli
input in una grammatica con cui genera parole e frasi nuove. Per Chomsky l’apprendimento poggia sul LAD (Language
Acquisition Device), un dispositivo innato che agisce ogni volta che si apprende una lingua: l’acquisizione di una lingua è
considerata come una finestra sul funzionamento della facoltà umana del linguaggio. C’è un nuovo interesse per gli errori
che non sono deviazioni dallo standard ma esito di grammatiche provvisorie costantemente riviste e riaggiustate
dall’apprendente attraverso il confronto con l’input a cui è esposto.

Lez.5
Prime fasi linguistica acquisizionale – COGNITIVISMO- Corder: Gli studi di Chomsky della fine degli anni ’50 segnano una
svolta molto importante: si passa dallo strutturalismo linguistico, che considerava il linguaggio come un sistema diviso in
unità strutturali, al generativismo. Degli stessi anni è il passaggio, in ambito psicologico, dal comportamentismo, attento al
ruolo dell’ambiente esterno e dell’input nell’apprendimento, al congnitivismo, che si interessa soprattutto dei dati mentali
interni al soggetto. Pit Corder, alla fine degli anni ’60, applica allo studio di L2 le intuizioni proprie del cognitivismo dando
così origine alla linguistica acquisizionale (LA). Nasce quindi un interesse per la lingua degli apprendenti, vista come una
varietà linguistica deviante dalla lingua di arrivo e però sistematica e con grammatica e regole proprie. Gli errori
dell’apprendente sono visti come manifestazioni del processo di acquisizione e di un sistema di regole soggiacenti. Nasce
quindi la metodologia di ‘analisi degli errori’ (anni ‘60-’70), che si concentra non sulle difficoltà degli apprendenti ma sulle
loro produzioni linguistiche che mostrano una grammatica della L2 in formazione. L’analisi degli errori’ di Corder, dimostra
che solo parte degli errori in L2 sono causati dall’influsso di L1; la maggior parte degli errori in L2 sono simili a quelli fatti
dai bambini che imparano L1. Selinker (1972) per la prima volta parla di interlingua per indicare la lingua degli
apprendenti. Anche gli studi sull’apprendimento di L1 vanno avanti e dimostrano che i bambini imparano morfemi e
strutture sintattiche in ordine costante, a prescindere dall’input familiare o dalla classe sociale da cui provengono.
L’apprendimento sia di L1 sia di L2 segue gli stessi principi interni. C’è quindi l’‘Ipotesi della costruzione creativa’:
l’acquisizione di L2, come quella di L1, è un processo di costruzione di una grammatica e di una competenza attraverso il
LAD, dispositivo mentale innato. Non è una mera modifica di abitudini.
INTERLINGUA: La più importante nozione relativa allo studio di L2 è quella di interlingua, proposto da Selinker nel 1972.
L’interlingua è un sistema linguistico a sé stante, che si sviluppa dal tentativo di produzione di una regola della L2 da parte
dell’apprendente. In senso sincronico è un sistema posseduto dall’apprendente in un determinato momento e, in senso
diacronico, come serie di stadi di apprendimento che si susseguono nel corso del tempo. Per Selinker ci sono cinque
processi cognitivi centrali: 1. l’influsso (o transfer) di regole da L1 sul sistema in formazione; 2. il transfer of training, legato
al tipo di insegnamento di L2 a cui si è sottoposti; 3. le strategie di apprendimento; 4. le strategie di comunicazione; 5. la
sovraestensione di regole di L2 che l’apprendente ha appreso./ Pit Corder (1981) parla dell’interlingua come di una
competenza transitoria, riferendosi sia alla competence di Chomsky, cioè a una competenza interiorizzata, sia alla
dimensione dinamica dell’apprendimento. L’evoluzione della competenza avviene attraverso due percorsi graduali: uno di
ristrutturazione secondo cui certe caratteristiche di L2 si sostituiscono pian piano a quelle di L1; l’altro di ricreazione, cioè
di graduale costruzione di strutture complesse a partire da quelle semplici. Corder fa inoltre una distinzione tra input
(quantità e qualità di lingua di arrivo a cui si è esposti) e intake (parte di input utilizzata ed elaborata dall’apprendente
nella costruzione della sua competenza di L2).
Comportamentismo, innatismo e interazionismo: Per l’apprendimento sono indispensabili almeno due elementi: l'input,
cioè gli elementi di L2; l'abilità di processare i dati dell'input. Questi due elementi portano alla formulazione di 3 ipotesi
principali: 1. prima ipotesi – Comportamentismo: le nuove conoscenze linguistiche sono generalmente acquisite in un
modo abbastanza meccanico, cioè attraverso la pratica; l'input è visto come stimolo da un lato e come feedback dall'altro,
infatti rinforza o corregge gli aspetti appresi. L’input è centrale, meno spazio all’iniziativa e alla partecipazione attiva di chi
apprende. Dal punto di vista applicativo questa visione ha portato all’elaborazione di esercizi drills basati sulla ripetizione
piuttosto meccanica. 2. seconda ipotesi – Innatismo: il ruolo dell'input è visto come minore e vi è una focalizzazione sul
ruolo della capacità linguistica innata nell'apprendente. Si ritiene che non vi sia una vera corrispondenza tra il tipo di lingua
dell'input e quelle che poi risultano essere le produzioni dell'apprendente; viene posto come elemento prioritario quello
relativo alla capacità linguistica cioè l'esistenza di processi mentali interni che elaborino l'input e lo rendano intake.
Focalizzazione della ricerca sull’output. 3. terza ipotesi – Interazionismo: Posizione intermedia: secondo questa ipotesi,
l'input da un lato determina le abilità mentali e dall'altro ne è determinato: l'apprendimento è il risultato di entrambi i
fattori. I dati più interessanti da questo punto di vista sono quelli dell'interazione tra parlante nativo ed apprendente, dati
che in realtà costituiscono input e output allo stesso tempo.
Principali modelli sulla acquisizione di L2: Non esiste una teoria unitaria dell’apprendimento di L2, ma ci sono diverse
tendenze. In particolare: 1. modelli innatisti; 2. modelli cognitivi e cognitivo-funzionali; 3. modelli ambientalisti; 4. modelli
integrati. I MODELLI INNATISTI sottolineano il ruolo, nell’acquisizione di una lingua, della componente innata e mentale, la
cosiddetta facoltà di linguaggio, che si attiva una prima volta per l’acquisizione della lingua materna, poi delle altre lingue. I
due modelli innatisti più famosi sono quello di Chomsky e quello di Krashen. Chomsky parla di una Grammatica Universale
(GU) innata per spiegare l’acquisizione della sintassi di una lingua. L’input esterno da solo non può spiegare le
rappresentazioni mentali che l’apprendente di una lingua si costruisce, né basterebbero l’imitazione o l’interazione con i
nativi. La GU, sistema di regole che sono proprietà di tutte le lingue, guida l’apprendente nella formulazione di ipotesi. La
GU è vista come insieme di principi e parametri innati. I principi sono astratti e universali, i parametri sono la realizzazione,
nelle singole lingue, dei principi e spiegano le variazioni strutturali tra le lingue del mondo. Secondo Chomsky apprendere
una lingua significa imparare come i principi di GU si applicano ad una lingua e i valori che assumono i parametri. Bisogna
anche acquisire il lessico e gli elementi più ‘periferici’ della grammatica. /L’altra teoria innatista molto conosciuta è il
modello del monitor di Krashen (1985), alla base anche dell’approccio naturale nella didattica delle lingue straniere. Presta
attenzione anche ai vari fattori extralinguistici che incidono sull’apprendimento di L2. L’acquisizione di L2 è vista come
elaborazione interna dovuta a tre operatori mentali: 1. filtro affettivo; 2. organizzatore; 3. monitor. 1. Il filtro si riferisce ai
fattori psicoaffettivi che entrano in gioco nell’apprendimento di L2; è una sorta di autodifesa che può essere alzata o
abbassata: si alza in situazioni di pericolo o scarsa sintonia con l’insegnante, mentre si abbassa in caso di rilassatezza e
affetto consentendo il passaggio dell’input e favorendo la memorizzazione. 2. L’organizzatore, simile al LAD di Chomsky, è
innato e, partendo dall’intake, si occupa dell’elaborazione della competenza linguistica (interlingua); la sua azione si rileva
nelle costruzioni transitorie e negli errori sistematici fatti dagli apprendenti prima di acquisire una struttura. 3. Il monitor,
che dà il nome al modello, opera solo in caso di conoscenza consapevole di una regola, di attenzione alla forma e di
produzione controllata da parte dell’apprendente. Controlla le produzioni dell’organizzatore. Si attiva dopo la pubertà, in
età adulta./ Il modello di Krashen si riassume in 5 ipotesi: 1) Ipotesi della distinzione tra acquisizione e apprendimento, si
tratta di due processi separati. La prima, inconscia, porta all’interiorizzazione stabile e duratura: è il modo in cui, ad es., il
bambino impara la sua lingua madre sfruttando l’intuizione e la memorizzazione naturale degli input. La seconda è
consapevole e razionale e rispecchia il modo in cui si apprende a scuola e da adulti. 2) Ipotesi del monitor, che fa da
controllore della correttezza delle nozioni e da correttore delle espressioni che risultano scorrette. Il monitor varia in modo
considerevole a seconda dell’età e dello stile cognitivo degli apprendenti. 3) Ipotesi dell’ordine naturale, secondo cui la
grammatica di una lingua è acquisita in modo spontaneo seguendo un ordine naturale, che va dalle strutture più semplici a
quelle più complesse. 4) Ipotesi dell’input comprensibile, secondo cui l’esposizione all’input è l’unico modo per imparare
una lingua a qualsiasi età. Ma l’esposizione da sola non garantisce né acquisizione né apprendimento: l’input deve essere
comprensibile. L’esposizione alle nuove conoscenze deve seguire una scala progressiva, senza fare salti. 5) Ipotesi del filtro
affettivo, che condiziona l’efficacia dell’input. Se il filtro è alzato può bloccare l’acquisizione, se abbassato consente il
passaggio dell’input e la memorizzazione.
Altri principali modelli (lez.6): I modelli cognitivi e quelli cognitivo-funzionali sono di tipo induttivo (dai dati alla teoria) e
trattano l’apprendimento di L2 come quello di altre conoscenze. Si interessano principalmente dei meccanismi che
regolano l’acquisizione della competenza linguistica, e dell’elaborazione di L2, osservando ciò che accade all’interno della
mente del parlante a partire dall’input in L2 fino all’output in L2. Quelli COGNITIVI riguardano le strategie che portano alla
costruzione dell’interlingua perché l’acquisizione di L2 è considerata come una verifica di ipotesi continuamente riviste in
relazione alle difficoltà comunicative e alla formazione di una grammatica sempre più complessa. [Esistono 3 modelli: 1) il
modello ACT (adaptive control of thought) di Anderson distingue tra la conoscenza esplicita e verbalizzabile (sapere che) e
quella procedurale acquisita gradualmente (sapere come). Il passaggio dall’una all’altra rappresenta il processo di
acquisizione di L2 e consta di diverse fasi: cognitiva, associativa (associazione tra una conoscenza e l’azione con cui la si
mette in pratica) e autonoma (la procedura diventa più rapida). È un modello che riduce il carico sulla memoria che, a sua
volta, è usata per nuove conoscenza. 2) il modello dell’information processing di Mc Laughling si concentra
sull’automatizzazione nell’elaborazione dell’informazione: l’apprendimento è il passaggio da processi controllati che
richiedono l’uso della memoria a processi automatici rapidi che utilizzano poca attenzione. 3) teoria della processabilità di
Pinemann. Tre operatori agiscono in parallelo e vengono utilizzati per l’elaborazione prima, e la produzione poi, di un
messaggio linguistico: il concettualizzatore elabora concetti e informazioni pronti per la verbalizzazione; il formulatore
codifica il messaggio a livello grammaticale e fonologico ed è specifico per ogni singola lingua nota; l’articolatore produce il
messaggio acustico.] I modelli COGNITIVO-FUNZIONALI si dedicano agli aspetti cognitivi dell’acquisizione di L2 e sono 3: 1)
il competition model di Mac Whinney si fonda sull’idea che l’apprendimento di una lingua porta alla individuazione di
indizi da usare per poter riconoscere strutture e significati all’interno dell’input, per poi costruire la grammatica. Vengono
usati gli indizi più frequenti e affidabili la cui importanza varia da lingua a lingua. 2) il modello di Andersen si basa
sull’approccio a L1 di Slobin secondo cui il bambino, nell’analisi dell’input e nella costruzione della grammatica, segue dei
principi operativi: principio uno a uno (nell’interlingua ad ogni significato corrisponde un’unica forma: dogs=childs e non
children); principio del bias distribuzionale (quando si acquisisce una struttura la si usa con le funzioni in cui occorre più
spesso); principio della rilessificazione (se non si conosce una struttura di L2 si utilizza una di L1 con le parole di L2);
principio transfer to somewhere. 3) prospettiva della varietà di apprendimento, che vede l’interlingua come un sistema
autonomo con dei principi propri, non una imitazione di una “lingua vera”. I modelli AMBIENTALISTI concentrano la loro
attenzione sul contributo del contesto all’acquisizione di L2: 1) modello della acculturazione e della pidginizzazione di
Shumann per cui l’acquisizione di L2 è vista come parte dell’adeguamento dell’apprendente alla nuova cultura del popolo
in cui ci si sta inserendo. Più c’è distanza sociale e psicologica, più scadente sarà l’apprendimento. In caso di distanza
sociale e psicologica, le prime fasi di apprendimento di L2 sono simili al processo di formazione delle lingue pidgin, con
poca morfologia. Successivamente, l’elaborazione di L2 diventa simile alla trasformazione del pidgin in creolo. 2) ipotesi
interazionista di Long: per l’acquisizione è necessario un input comprensibile in L2; questo va quindi modificato nella
struttura della conversazione tra parlante nativo e non nativo. I modelli INTEGRATI sono divisi in base alla diversa
importanza data ai vari fattori acquisizionali: 1) il modello multidimensionale, basandosi su ricerche empiriche, mostra la
presenza di una correlazione tra alcune caratteristiche delle interlingue e le variabili sociali: le semplificazioni linguistiche
(ad es. assenza di desinenze) si trovano nelle interlingue degli apprendenti meno integrati. 2) modello integrato di Gass:
riconosce il ruolo dell’input e dei fattori innati e ambientali nei 4 momenti della formazione dell’interlingua: a) fase della
percezione dell’input (agiscono fattori di tipo personale e ambientale come personalità e attenzione), b) fase di
comprensione dell’input (agiscono strategie di modifiche dell’input nonché conoscenze linguistiche specifiche innate
universali o legate a L1 e altre lingue), c) fase di accettazione dell’input e passaggio a intake (formazione, messa alla prova
e valutazione di ipotesi su L2); fase di integrazione dell’intake all’interno dell’interlingua (agiscono sistemi linguistici e
sistemi di conoscenze).

Lez.6
Fattori linguistici sull’acquisizione di L2 [FATT. UNIVERSALI (Chomsky,Greenberg)]: Sull’apprendimento di L2 incidono
fattori linguistici di diverso tipo sia universali e perciò capaci di influenzare tutti gli apprendenti nello stesso modo, sia
particolari della lingua di arrivo o della lingua di partenza. Per quanto riguarda l’analisi sui fattori universali, che
riguardano cioè le proprietà di tutte le lingue, abbiamo da una parte la Grammatica Universale di Chomsky, dall’altra gli
universali tipologici di Greenberg. Alla base del pensiero di Chomsky c’è l’idea che tutti gli uomini hanno la facoltà di
linguaggio, che li contraddistingue dagli altri esseri viventi. Chomsky parla di una Grammatica Universale che è la
componente innata del linguaggio e deve essere attivata nel bambino dall’esperienza linguistica entro un cosiddetto
“periodo critico” e gli permette, in base all’ambiente in cui vive, di passare con un processo graduale ad uno stato stabile,
rappresentato da una determinata lingua. Chomsky studia la teoria dei principi e dei parametri: tutte le lingue condividono
delle proprietà, i principi della GU, che fissano anche i limiti che sanciscono le differenze tra le lingue. Tali diversità si
realizzano sia per l’arbitrarietà saussuriana, sia per la presenza nella GU di parametri, i cui valori non sono innati. La GU è
quindi una predisposizione genetica innata, ma non è un sistema completamente definito: lascia aperte alcune scelte, i
parametri. La fissazione dei valori dei singoli parametri produce le grammatiche particolari delle lingue e, in base a questa
fissazione, una lingua può essere acquisita. [Per quanto riguarda il ruolo della GU nell’apprendimento della L2, invece, ci
sono diverse posizioni: a) gli studenti L2 hanno accesso diretto alla GU e non sono influenzati dalla L1 nel fissare il valore
dei parametri; b) gli studenti L2 avrebbero accesso indiretto alla GU attraverso L1, della quale utilizzerebbero principi e
parametri, quindi la conoscenza di L2 è strettamente legata alla conoscenza di L1; c) la GU in L2 è accessibile in una forma
fossilizzata su come essa si realizza in L1 e vi sarebbero violazioni di GU se l’interlingua cerca di recepire forme dell’input
non conformi al sistema basato su L1; d) le grammatiche di L2 sono wild grammars, cioè soggette a GU. La competenza di
L2 è separata da quella di L1 e viene formata in modo totalmente diverso; e) la GU dopo il “periodo critico” non è più
accessibile per L2, ma si utilizzano altri meccanismi di apprendimento generali. Questa teoria dei principi e dei parametri
presenta la difficoltà data dal fatto che i bambini non apprendono istantaneamente i valori dei parametri appena ascoltano
frasi della lingua, ma lo fanno attraverso un processo che dura negli anni. Ciò ha portato a 3 ipotesi: della continuità, della
maturazione e della discontinuità, secondo le quali o le grammatiche dei bambini sono sostanzialmente la stessa cosa, in
termini di principi e parametri, di quelle degli adulti, o possiedono una selezione degli stessi principi e parametri degli
adulti o, infine, hanno principi totalmente differente. Quella della maturazione, in particolare, è stata messa in relazione
con l’ipotesi del periodo critico.] La tipologia linguistica, il cui pioniere fu Greenberg con lo studio sugli universali, si occupa
essenzialmente dello studio della variazione interlinguistica che non è frutto del caso, ma obbedisce a principi generali. Al
centro dell’interesse c’è l’impianto strutturale delle lingue. La tipologia deve esplicitare non solo l’insieme delle proprietà
che caratterizzano il “tipo”, ma anche e soprattutto i rapporti che intercorrono tra le proprietà stesse. I tipi linguistici sono,
quindi, modelli di descrizione delle lingue storico-naturali. La tendenza più diffusa deli studi tipologici è su base
morfosintattica, mentre hanno scarsa rilevanza le componenti fonetico-fonologiche e lessicali. La tipologia sintattica
guarda la posizione di S V O nella frase indipendente dichiarativa nelle diverse lingue, nelle quali si nota una prevalenza dei
tipi SOV (45%) e SVO (42%). Si evince che la maggior parte delle lingue antepone S a O nella frase dichiarativa
indipendente (universale di Greenberg). La tipologia morfologica presuppone l’azione di 2 parametri: l’indice di sintesi (che
considera il numero di morfemi individuabili dentro una parola) e l’indice di fusione (che riguarda il grado di difficoltà nel
trovare i confini tra i morfemi); la loro combinazione permette di individuare 4 tipi di lingue: isolanti (la parola tende ad
essere monomorfemica, ogni morfema è invariabile, i morfemi non si combinano mai tra loro e il rapporto morfema-
significato è 1:1), polisintetiche (concentrano all’interno della stessa unità lessicale un numero elevato di morfemi,
arrivando a condensare in un’unica parola le informazioni di un’intera frase), agglutinanti (la parola è formata da più
morfemi, ma la segmentazione non presenta difficoltà perché i morfemi sono disposti in sequenza fissa senza che i confini
si confondano), flessive (i confini tra i morfemi perdono visibilità, la segmentazione diventa difficile e il rapporto forma-
significato è 1:molti. Comprendono il sottotipo introflessivo, che include lingue in cui i morfemi sono disposti in ordine non
lineare. Sono lingue a morfologia non concatenativa ma a pettine, come l’arabo). La tipologia fonetico-fonologica è stata a
lungo penalizzata, ma ultimamente sono stati condotti studi sul tono che caratterizza i suoni e che si produce in tutte le
lingue verbali in modi diversi, anche se solo nella metà di esse ha valore distintivo. Quindi le lingue si distinguono
tipologicamente in tonali e non tonali. La tipologia lessicale si concentra principalmente sulla terminologia dei nomi di
parentela e sul lessico dei colori. La ricerca degli universali circoscrive il campo di indagine della tipologia perché individua
tratti che hanno un indice di variazione interlinguistica pari a zero. Gli universali assoluti sanciscono la presenza o l’assenza
di una proprietà in tutte le lingue del mondo senza metterle in correlazione tra loro (es: tutte le lingue hanno le vocali orali,
tutte le lingue distinguono tra vocali e consonanti) non c’è spazio per la variabilità, ma si individua un unico tipo linguistico
cui appartengono tutte le lingue.
Fattori linguistici PARTICOLARI/SPECIFICI (caratteristiche tipiche): I fattori linguistici che incidono sull’acquisizione di L2 si
dividono in: universali, che influenzano cioè allo stesso modo il percorso dei singoli apprendenti (gli universali linguistici e
la GU di Chomsky e gli universali tipologici di Greenberg) e specifici, legati alle caratteristiche tipiche della lingua di arrivo e
della lingua di partenza. Sull’acquisizione di L2 incidono notevolmente le caratteristiche tipiche del sistema di arrivo. Per
alcune lingue un tratto linguistico può essere marcato e, quindi, sentito come ‘non naturale’ e più difficile da imparare,
mentre in altre lingue lo stesso tratto non è marcato e quindi risulta più facile da imparare. Naturalmente, una struttura è
appresa più facilmente se è connaturata al tipo di L2. Ad es. in una lingua di tipo flessivo come l’italiano, la flessione
verbale è imparata abbastanza velocemente, anche perché nell’input non ci saranno mai verbi non flessi. Le strutture
meno marcate sono le più frequenti nell’input e quindi sono apprese più velocemente rispetto alle altre. Ci sono però
alcune strutture marcate che sono comunque molto frequenti nell’input e quindi apprese abbastanza in fretta (ad es. ingl.
went da go o came da come che sono appresi più in fretta delle forme di passato regolari). Anche il tipo di input a cui
l’apprendente è esposto influisce sull’acquisizione di L2: chi è a contatto con un input più formale apprenderà facilmente
anche le strutture marcate. Anche il modo in cui l’input arriva all’apprendente influisce sull’acquisizione, che diventa più
veloce se ad es. il professore si sofferma maggiormente su esse. Fattori che incidono sul transfer (cognitivismo): Oggi il
ruolo di L1 è stato rivalutato sia in ambito cognitivista sia in certi approcci generativi. In ambito cognitivista la L1 è vista
come un mezzo per orientarsi nella comprensione di L2. I casi di transfer da L1 più studiati sono quelli negativi, che
producono cioè deviazioni rispetto a L2. Alcuni fattori incidono sul transfer: 1. livello di analisi: l’influsso di L1 è più
probabile a livello fonologico e prosodico (‘accento straniero’), mentre è sempre meno importante negli altri livelli (lessico,
sintassi, morfologia) 2. livello di competenza: il transfer agisce nelle fasi iniziali a livello fonologico e lessicale, per la
morfologia agisce più tardi (anche perché questa è elaborata dopo); 3. marcatezza: è probabile che si riprendano in L2 gli
elementi meno marcati di L1 piuttosto che quelli marcati. Secondo Eckman (1977) sono più difficili da apprendere le parti
di L2 più marcate e diverse da L1; le aree di L2 meno marcate e comunque diverse da L1 non saranno difficili da imparare;
4. prototipicità: le forme lessicali di L1 maggiormente trasferite in L2 sono quelle dal significato più prototipico, non quelle
con significati metaforici; 5. distanza tipologica o genetica tra L1 e L2: il transfer è più probabile se c’è somiglianza tra le
due lingue. Se invece la distanza è grande, il transfer è più raro e si manifesta con il rallentamento nell’acquisizione delle
categorie assenti in L1. A volte si proietta il tipo (morfologico, sintattico o semantico) di L1 su L2 (ad es. l’interlingua di un
cinese che impara italiano L2 avrà una prima fase isolante). Se le lingue sono imparentate, Corder parla di continuum di
ristrutturazione, cioè certi sottoinsiemi di L2 vengono costruiti a partire da L1 con opportuni aggiustamenti; 6. naturalezza:
il transfer da L1 c’è solo se la struttura in questione in L1 segue principi naturali e se in L2 ci sono le condizioni per lo stesso
errore. Ad es. la sovraestensione di ‘una’ / ‘la’ anche in parole inizianti per vocali (‘una isola’ invece di ‘un’isola’). In ogni
caso, è appurato che il transfer da L1 può accelerare o rallentare l’acquisizione di L2, ma le tappe da compiere rimangono
le stesse. L’ordine di apprendimento è legato a fattori universali e alle caratteristiche del sistema di arrivo.
Lez. 7 - 8
Fattori EXTRALINGUISTICI: I fattori extralinguistici che influiscono sull’acquisizione di L2 sono di due tipi: quelli legati alle
caratteristiche personali dell’apprendente (fattori individuali) e quelli legati al contesto sociale e culturale in cui ha luogo
l’apprendimento (fattori sociocontestuali). Tra i FATTORI INDIVIDUALI ci sono l’età, l’attitudine linguistica, la personalità,
l’empatia e la motivazione. 1. L’età influenza l’apprendimento di una lingua: chi impara una L2 in età adulta mantiene
alcuni tratti della propria L1, soprattutto nella pronuncia. Chi, invece, la impara nell’infanzia può raggiungere livelli di
competenza molto vicini a quelli dei parlanti nativi. [Lenneberg parla di un ‘periodo critico’, prima della pubertà, che non si
deve superare per imparare al meglio una qualsiasi lingua. Superato questo periodo, la plasticità mentale si ridurrebbe.
Molti parlano di diversi periodi critici, uno per ogni livello linguistico dalla fonetica alla sintassi. Nelle fasi iniziali
dell’apprendimento consapevole, a volte può succedere che gli adulti imparino più velocemente dei bambini grazie ad una
maggiore maturità cognitiva, che permette loro riflessioni metalinguistiche e generalizzazioni. I bambini, però,
acquisiscono la lingua in modo intuitivo e inconsapevole. Studi recenti hanno inoltre mostrato che i ragazzi tra i 12 e i 15
anni ottengono risultati migliori di adulti e bambini in morfologia, sintassi e lessico. Per quanto riguarda la didattica, si
ritiene che un’esposizione precoce a una L2 può portare al raggiungimento di una competenza, soprattutto fonologica,
quasi nativa; buoni risultati, inoltre, si ottengono entro i 15 anni di età con un input abbondante. Per l’insegnamento agli
adulti, invece, ci si deve concentrare sulla forma per avere buoni risultati nell’apprendimento esplicito] 2. L’attitudine alle
lingue è diversa da persona a persona. Si compone di diverse abilità: abilità fonetica, cioè saper riconoscere e memorizzare
i suoni; abilità grammaticale, cioè capire le funzioni delle parole di una frase; abilità di memorizzazione per associare
velocemente suoni e significati; capacità di ricavare regole. 3. La personalità è legata all’apprendimento di L2: un livello
basso di ansia e un’alta autostima portano a risultati migliori in L2. Chi è più sicuro di sé è anche più disposto a mettersi in
gioco nella L2, e avrà quindi più opportunità per impararla. 4. Il ruolo dell’empatia, cioè della capacità di immedesimarsi
nei sentimenti e nelle idee degli altri, è tutt’oggi oggetto di studio, perché non dà risultati univoci. 5. La motivazione dà
una delle spinte più forti nell’apprendimento. Quando soddisfa un bisogno o un desiderio, consapevole o inconsapevole,
allora l’apprendimento risulta più facile. [In base ai bisogni dell’apprendente e al suo atteggiamento verso una L2 e verso la
comunità che la parla, gli studiosi distinguono tre tipi di motivazione: la motivazione integrativa, che riguarda il desiderio di
conoscere la L2 per meglio integrarsi nel gruppo dei parlanti di L2; la motivazione strumentale, cioè il desiderio di imparare
la L2 per fini utilitaristici; la motivazione di identificazione con il gruppo sociale, per identificarsi con la comunità di parlanti
di L2. La motivazione strumentale sembra più forte nell’immediato, ma alla lunga le più efficaci sono quelle integrative e di
identificazione, che danno risultati migliori soprattutto nella pronuncia. Esistono altri tipi di motivazione, che sono stati
studiati in relazione ai risultati ottenuti in L2: la motivazione culturale è data dal desiderio di conoscere, tramite la L2, la
cultura e la società ad essa associate; la motivazione estrinseca è data dal desiderio di ricevere premi e gratificazioni per la
buona riuscita in L2; la motivazione intrinseca è data dall’interesse per lo studio delle lingue in generale o per la L2 in
particolare, considerata musicale o interessante per vari motivi. La motivazione non è solo causa, ma anche esito di un
buon apprendimento di L2: il successo e la conseguente gratificazione nell’apprendimento di L2 aumentano la motivazione
che, a sua volta, porta l’apprendente ad un impegno sempre maggiore. Si crea, quindi, un circolo virtuoso.]

Tra i FATTORI SOCIOCONTESTUALI che incidono sull’acquisizione di L2, alcuni vengono dalla collocazione dell’apprendente
in uno specifico contesto socioculturale. Ci sono tre tipi di fattori sociocontestuali: i fattori macrosociali (distanza sociale e
psicologica), le variabili sociali (età, sesso, classe, gruppo etnico) e i fattori microsociali. 1. i fattori macrosociali sono
relativi ai gruppi di parlanti, con le loro caratteristiche culturali, in cui si inserisce l’apprendente. Secondo Schumann (1978)
lo scarso apprendimento di una L2 è legato ad una grande distanza, sociale e psicologica, tra l’apprendente e il gruppo di
parlanti L2. [La distanza sociale considera i rapporti che l’apprendente ha sia con il suo stesso gruppo d’origine di L1 sia con
i parlanti L2 in cui si va ad inserire. La distanza psicologica, secondo Schumann, può essere provocata da uno shock
linguistico o uno shock culturale, oppure dal livello di motivazione.] 2. Le variabili sociali che in diverso modo incidono
sull’apprendimento sono età, sesso, classe sociale e gruppo etnico. Per cui ad età diverse corrispondono pressioni sociali
diverse. Per quanto riguarda il sesso, le donne hanno solitamente atteggiamenti più positivi e risultati migliori degli uomini.
Le persone di classe media hanno risultati migliori e atteggiamenti più positivi verso l’apprendimento che non quelli di
classe bassa. Il gruppo etnico di appartenenza ha un peso notevole sull’apprendimento di L2 e sul desiderio di integrazione
verso la nuova comunità, perché influenza gli atteggiamenti verso la L2. Più il gruppo di appartenenza è chiuso, meno
desiderio si avrà di integrazione e di conoscenza della L2. 3. I fattori microsociali sono due: il contesto e l’input. a) Il
contesto in cui avviene l’apprendimento può essere informale (spontaneo) o formale (guidato). Secondo Krashen la vera
acquisizione (inconscia) avviene in un contesto informale, mentre quello formale porta a un apprendimento consapevole.
[Per quanto riguarda il contesto informale, l’apprendente è esposto a L2 in diversi domini d’uso: casa, amici, lavoro, tempo
libero ecc. Di conseguenza, egli entra in contatto con tipi diversi di L2, che è vista come un mezzo per stabilire relazioni
affettive e sociali in contesti specifici. Si può quindi dire che il contesto di apprendimento incide notevolmente
sull’acquisizione, sia come fonte di input sia come ambito in cui la L2 ha valenze specifiche, affettive o utilitaristiche, che
influenzano gli atteggiamenti dell’apprendente verso la lingua che sta imparando: ad es. se il contesto è amicale,
l’apprendente sarà più aperto alla L2, che verrà percepita come meno distante.] b) L’input è stato negli ultimi anni uno dei
più importanti oggetti di studio. L’approccio interazionista attribuisce all’input un ruolo importante per quanto riguarda la
sua quantità e qualità e l’interazione tra nativi e non nativi. [In base alla quantità di input, più è abbondante, più
l’apprendente ha la possibilità di percepire strutture e elementi di lessico meno frequenti, ha cioè più occasioni di
imparare L2. Se, invece, l’input è scarso, è più probabile che si sviluppi una interlingua più semplice. In ogni caso, può
avvenire che espressioni morfosintattiche frequenti, come ad es. gli articoli, vengano apprese dopo, indipendentemente
dalla quantità di input di L2 a cui l’apprendente è esposto. La qualità dell’input invece incide sulle varietà di L2 a cui
l’apprendente viene esposto e sull’esito dell’acquisizione. Se l’apprendimento è spontaneo, l’input sarà informale; se esso
è guidato, l’input sarà di una varietà più alta, con una sintassi complessa e un lessico ricco. Se l’input è facile da
comprendere, risulterà più facile l’acquisizione di L2. L’interazione fra nativi e non nativi ha un ruolo molto importante
nell’apprendimento. Le modifiche che il nativo attua nell’interazione con il non nativo servono da un lato a favorire la
comunicazione, dall’altro a migliorare la comprensione di L2 e, di conseguenza, la sua acquisizione. Anche l’input non
interattivo può portare all’apprendimento di L2: le immagini dei mass media e della televisione aiutano l’apprendente
nella contestualizzazione dell’input e quindi nella comprensione dello stesso avviandone l’acquisizione. Input e interazione
sono quindi le condizioni che portano all’acquisizione.]
10. Variabilità nell’interlingua – Ellis (variazione libera e sistematica): L’interlingua varia in diacronia (variazione verticale)
e in sincronia (variazione orizzontale), varia tra persone diverse (intersoggettiva) e all’interno della stessa persona (intra-
soggettiva). Secondo Ellis (1994) se non ci fosse variabilità nell’interlingua non ci sarebbe alcun progresso nella
competenza in L2. La variazione intra-soggettiva può essere o non sistematica libera, cioè non legata ad alcuna causa nota,
o sistematica legata a motivi psicolinguistici, sociali o linguistici. La variazione libera può essere causata da lapsus o da
regole di grammatica in competizione tra loro perché ancora non acquisite in modo stabile dall’apprendente. Può, inoltre,
causare nel tempo il restringimento o l’allargamento del campo di applicazione di una determinata regola, preparando la
strada alla variazione sistematica e all’apprendimento. Anche la variazione all’apparenza più incomprensibile spesso è
dovuta a regole dell’interlingua devianti dalla lingua di arrivo. La variazione sistematica può avere cause di diverso tipo,
ma le più preponderanti sono quelle legate a fattori linguistici. Secondo Ellis, le sequenze di acquisizione vengono in parte
messe in crisi dagli studi sulla variabilità, perché si basano sull’idea di una competenza omogenea e di un’unica
grammatica, senza però vedere se le stesse valgono per tutti i domini e per gli stili sia formali sia informali. Per Ellis, invece,
la competenza è multipla, cioè formata da diversi sistemi di interlingua in parte separati e utilizzati nei vari domini. [Klein e
Dittmar (1979) parlano di ‘grammatiche di varietà’ per descrivere la variabilità dell’interlingua. Queste grammatiche sono
formate da una lista di regole a cui è associato un indice di probabilità in base alla frequenza con cui esse compaiono nelle
varietà di un gruppo di persone: ad es. un gruppo di apprendenti nelle fasi iniziali dell’apprendimento avrà un indice di
probabilità molto alto per la regola secondo cui un gruppo verbale si realizza con un verbo semplice, indice che, invece,
sarà molto basso per la realizzazione di gruppi verbali attraverso verbi ausiliari o modali, che saranno appresi nelle fasi
successive.]
A quale concezione dell'apprendimento di L2 è legato il concetto di interlingua - FUNZIONALISMO: C’è un approccio
funzionalista nell’analisi dell’interlingua: sia l’apprendimento di L1 che quello di L2 avviene nell’uso, nella comunicazione; il
ricercatore deve individuare i rapporti tra forma e funzione nei vari stadi dell’apprendimento che segue un ordine specifico
fatto di fasi evolutive. In questo modo le categorie sintattiche e grammaticali si formano gradualmente in tutti i soggetti a
prescindere dall’età, dal contesto e dalla loro L1. La prima fase è quella di silenzio, che caratterizza le primissime
produzioni in L2 di un apprendente che studia bene l’input e, dopo averne memorizzato le parti più importanti, lo utilizza
trovando le strutture più frequenti nelle interazioni quotidiane. Dopo questa fase, l’apprendente inizia a produrre output.
Nella fase pre-basica l’apprendente produce enunciati molto brevi con l’utilizzo di poche parole-chiave. Spesso utilizza
anche gesti. Gli enunciati della frase non hanno verbi ma solo nomi. Non ci sono legami sintattici tra le parole e non è
presente neanche la morfologia, quindi le parole non vengono flesse. Il lessico è un “lessico di sopravvivenza”, che
contiene pochissime parole-funzione e molte parole piene. Si utilizzano molto delle formule riprese dall’input che
costituiscono il primo passo verso un apprendimento creativo della sintassi. Nella fase basica, gli enunciati sono organizzati
secondo il modo pragmatico e semantico. L’apprendente possiede un lessico più ampio, il verbo è sempre più utilizzato
come nucleo della frase anche se molti suoi tratti spesso non vengono espressi, come tempo, modo, persona, numero ecc.
attorno al verbo si inseriscono gli argomenti con i loro ruoli tematici. Dal punto di vista morfologico le parole-funzione
sono ancora poche, mentre la flessione nominale e verbale comincia ad essere usata in modo consapevole. Le frasi sono in
genere coordinate o, poche volte, subordinate, il lessico è più ampio e le parole iniziano ad essere inserite in classi. Si
cominciano, inoltre, a conoscere le loro proprietà sintattiche. Gli elementi funzionali, articoli, preposizioni ecc ancora non
vengono usati. Nelle fasi post-basiche compare l’organizzazione sintattica dell’enunciato, che comincia ad avere una
struttura vicina a quella del sistema di arrivo. La morfologia diventa più complessa, con l’utilizzo sempre più consapevole di
suffissi e desinenze. Anche la sintassi diventa più complessa, con la comparsa delle subordinate. Le varietà post-basiche
comprendono diversi stadi: a- stadi intermedi (in cui morfologia e sintassi sono più sistematiche, ma con zone più fragili
come nei tempi verbali o nel genere dei nomi), b- varietà avanzate (in cui la morfosintassi è corretta e le rare deviazioni
riguardano soprattutto la pronuncia), c- varietà quasi native (in cui la differenza con quelle native è quasi nulla sia nel
lessico sia nella grammatica, mentre l’organizzazione del discorso è ancora diversa da quella del modello di arrivo). In ogni
fase, la L1 può avere un ruolo facilitante o ritardante. Non tutti comunque arrivano alle varietà quasi native, ma si fermano
allo stadio precedente. Molti studi hanno dimostrato che nell’acquisizione di una lingua c’è la stessa sequenzialità, a
prescindere dall’input e dall’ambiente di vita e in base a questi studi si sono costruite delle gerarchie di acquisizione
implicazionali che dimostrano che l’interlingua è un sistema in fieri, non la somma di regole da imparare una dietro l’altra.
Le prime gerarchie acquisizionali implicazionali degli stadi di sviluppo di L2 sono state costruite per l’inglese e per il
tedesco. Una delle prime riguarda le frasi interrogative (la sequenza è: domanda con l’intonazione ascendente corretta ma
senza inversione né uso di ausiliari, presenza dei primi ausiliari e i primi modali, inversione degli ausiliari che si sono già
acquisiti, acquisizione degli ultimi ausiliari e inserimento del “do”). Il diverso ordine sintattico tra S e V crea problemi agli
apprendenti di qualsiasi L2. Segue il costrutto della negazione (sequenza: negazione posta fuori dalla frase, prima o dopo
l’enunciato o l’elemento negato, negazione all’interno della frase posta prima del verbo senza ausiliare, negazione inserita
dopo l’ausiliare e prima del verbo principale, negazione posposta all’ausiliare “do” che viene ormai flesso nel tempo e nella
persona). Dopodiché si passa alla formazione nelle interlingue di regole sintattiche particolari della L2.
Apprendimento SPONTANEO vs apprendimento GUIDATO: Gli errori e le tappe delle sequenze di acquisizione degli
studenti sono gli stessi che fanno gli apprendenti in altri contesti non guidati. La differenza sta nella velocità e nell’esito
finale. L’insegnamento, nell’apprendimento guidato, può essere un facilitatore. L’apprendimento spontaneo differisce
notevolmente da quello guidato per diverse ragioni. 1 tempo di esposizione e quantità dell’input in L2 (guidato:
notevolmente ridotti a meno che non si frequentino corsi intensivi o programmi particolari come il CLIL; spontaneo:
esposizione all’input per molte ore al giorno); 2 qualità dell’input, che presenta diverse caratteristiche: gradualità con cui
l’input è presentato all’apprendente (guidato: il docente decide i contenuti e le modalità con cui presentarli agli studenti;
spontaneo: l’input non è in genere modificato in base alla competenza già acquisita), varietà di lingua a cui l’apprendente è
esposto (guidato: standard; spontaneo: diverse varietà perché l’apprendente entra in contatto con diversi parlanti nativi),
tipologie di discorso presenti nell’input (guidato: limitate a istruzioni, dialoghi tra docente e studenti, spiegazioni o
traduzioni, commenti ai testi; spontaneo: partecipa a diversi tipi di eventi linguistici, come richieste di informazioni o
conversazioni); 3 obiettivi primari degli scambi linguistici (guidato: legati alla forma, alla correttezza e alle regole
grammaticali e il docente spesso corregge gli errori; spontaneo: la focalizzazione è sul contenuto perché lo scopo è quello
di trasmettere messaggi); 4 soggetti coinvolti nell’apprendimento guidato (guidato: ragazzi in età scolare o adulti che
studiano per motivi di lavoro o culturali; spontaneo: perlopiù adulti immigrati o bambini in età prescolare); 5 tipo di
comunicazione a cui l’apprendente è esposto (guidato: rigido e asimmetrico, perché tutte le scelte e le decisioni sono in
mano all’insegnante e anche il livello di competenza è asimmetrico, perché quello degli studenti è in genere più basso di
quello del docente; spontaneo: asimmetria nella competenza, ma ruoli interazionali meno sbilanciati, anche se molto
spesso la dominanza è del parlante nativo); 6 pressione verso la produzione di L2 (guidato: pressione elevata; spontaneo:
c’è una fase iniziale di silenzio, di cui l’apprendente approfitta per iniziare a elaborare e comprendere l’input).
Negli ultimi decenni si è tentato di utilizzare NUOVI METODI DI INSEGNAMENTO, che mirano a una didattica di tipo
comunicativo. •Il Natural Approach di Krashen e Terrell prova a riprodurre in classe le stesse condizioni tipiche
dell’apprendimento spontaneo, non interrompendo la fase di silenzio, in cui gli apprendenti cercano di capire ed elaborare
l’input, e focalizzandosi più sulla comprensione del messaggio e sulla comunicazione che non sulla correttezza della forma
o sulla grammatica. La quantità di input di L2 a cui l’apprendente è esposto è maggiore; i materiali usati in classe sono più
variegati, spaziando dalla lettura di articoli di giornale all’ascolto di canzoni o alla proiezione di film in L2. •Il CLIL, Content
and Language Integrated Learning, sempre più diffuso e appoggiato dalle istituzioni italiane ed europee, mira ad
aumentare la quantità di input in L2 utilizzando la lingua straniera per l’insegnamento di altre materie curricolari.
(+coop.learn)

Lez.9 Polo Pavia


A partire dagli anni ‘80 del Novecento il polo di Pavia, che ha coinvolto studiosi dell’Italia settentrionale, si è interessato, in
un’ottica tipologico-funzionale, al modo in cui alcune categorie semantiche, sintattiche e pragmatiche vengono rese
nell’acquisizione dell’italiano, proponendo delle sequenze di acquisizione.
1. La prima sequenza di apprendimento per italiano L2 è quella riguardante i PRONOMI CLITICI proposta da Berretta
(1986). Si tratta di un tipo di pronome atono che si inserisce in un sottosistema morfologico marcato e di bassa salienza
fonica, e che si può trovare in diverse posizioni sintattiche, pre-verbale (‘ti chiamo’) o post-verbale (‘chiamalo’). Il
paradigma dei clitici tende ad essere semplificato, in lingua parlata anche dagli stessi parlanti nativi dell’italiano, che
tendono ad utilizzare sempre ‘gli’ al posto di ‘le’ o ‘loro’. I clitici non compaiono nelle prime fasi di apprendimento
dell’italiano L2. La gerarchia implicazionale di acquisizione di italiano L2 è simile a quella dei bambini che imparano italiano
L1. La spiegazione della sequenza di apprendimento non è data tanto dalla frequenza nell’input, ma il ritardo
dell’apprendimento dei clitici è dato da fattori pragmatici da un lato e dalle gerarchie tipologiche di marcatezza dall’altro. Il
primo clitico ad essere imparato è ci + essere (ad es. c’è), probabilmente però non analizzato come clitico + v. essere ma
appreso solo perché sentono i nativi che lo utilizzano. Poi c’è la comparsa del mi dativo (‘mi piace’), poi mi riflessivo (‘mi
lavo’), si impersonale (‘si va’) o passivante (‘si vedono le stelle’), nessi clitici come me lo o te lo (‘dammelo’)… Dagli studi
emersi quindi si può capire che i primi clitici ad essere appresi sono i pronomi di 1° e 2° persona perché questi pronomi
sono meno marcati e sono presenti in tutte le lingue del mondo perché rappresentano chi parla e chi ascolta. Inoltre, il
maschile e il singolare sono meno marcati e quindi vengono appresi prima del femminile e del plurale.
2. La sequenza di apprendimento studiata dal gruppo di Pavia riguarda i mezzi per esprimere la TEMPORALITÀ, che è una
caratteristica del verbo. Nelle prime fasi di apprendimento, la temporalità è espressa con mezzi pragmatico-discorsivi o
con mezzi lessicali. Per quanto riguarda i mezzi pragmatico-discorsivi, l’apprendente fa dei continui riferimenti al testo
oppure racconta gli eventi seguendo un ordine iconico di sequenzialità, quindi racconta prima eventi passati, poi presenti e
infine futuri. Per quanto invece riguarda i mezzi lessicali, c’è un grande uso di avverbi di tempo e di luogo. Il verbo comincia
ad essere flesso nella fase basica: i primi tempi verbali ad essere imparati sono presente e infinito, poi participio passato,
imperfetto, futuro, condizionale e infine congiuntivo. La gerarchia acquisizionale è implicazionale, quindi tutti gli
apprendenti imparano le forme temporali nell’ordine appena descritto. Sono state date diverse spiegazioni di questa
sequenza. Una spiegazione è legata alla complessità morfologica: il presente è più semplice e più usato. Tutte le altre
forme verbali sono più complesse, perché richiedono l’uso di specifici morfemi di tempo/aspetto. Altre spiegazioni sono
legate alla frequenza d’uso nell’input (ad es. il congiuntivo è meno frequente), alla basicità (il futuro è meno basico del
passato e si può rendere anche attraverso il presente), alla forma (l’imperfetto, attraverso il suffisso -va, è più facilmente
individuabile delle forme del futuro). La sequenza di acquisizione delle categorie verbali è aspetto, poi tempo e infine
modo. In ogni caso si registra un forte legame tra tempo/aspetto e l’Aktionsart (azionalità) dei verbi. [In base all’
Aktionsart, Wengler classifica i verbi in 4 categorie: stativi, che indicano uno stato (sapere, assomigliare); di attività
(passeggiare, guardare); di compimento, che hanno già lessicalmente l’idea di un’azione che cerca di andare verso un suo
compimento (costruire, scrivere); di culminazione, che indicano una conclusione (notare trovare). In base a questa
categorizzazione, i verbi vengono divisi in delle sottocategorie con delle proprietà particolari. La più grande distinzione è
quella tra verbi telici e atelici. I verbi telici indicano un evento che ha uno scopo o un fine già inserito nella forma del verbo
(verbi di realizzazione e compimento). I verbi atelici sono verbi di attività o di stato.] Le prime forme di passato prossimo
saranno usate per i verbi telici e puntuali (es. starnutire). L’imperfetto, invece, sarà usato in primo luogo con i verbi durativi
e stativi, poi con quelli di attività, che indicano un’azione senza il raggiungimento di uno scopo, più tardi ancora con i verbi
telici e puntuali.
3. La terza sequenza di apprendimento è quella della MODALITÀ, che indica l’atteggiamento del parlante nei confronti di
quanto sta dicendo. Gli studi si sono concentrati sulla modalità ‘epistemica’ e su quella ‘deontica’. La modalità epistemica
esprime il grado in cui il parlante sottoscrive la veridicità del contenuto dell’enunciato o il grado di probabilità che viene
dato dal parlante alla realizzazione di un determinato evento. Ad es. ‘He can come tomorrow ’(da’ un grado di probabilità
a ciò che si sta dicendo). La modalità deontica esprime una condizione di obbligo, permesso o desiderio riguardo alla
realizzazione di una determinata azione. Ad es. ‘Va’ a dormire!’ La modalità nelle prime fasi di acquisizione è espressa con
mezzi pragmatici, prosodici o lessicali. La realizzazione con mezzi pragmatici consiste, ad es., nel mettere in prima
posizione la protasi non marcata (cioè la premessa, iniziando con ‘se’) e in seconda l’apodosi (la reggente) nelle frasi
ipotetiche. Per la resa con mezzi prosodici si cambia l’intonazione, per quella lessicale si usano avverbi (‘forse’), verbi (‘non
so’) o verbi modali. In una seconda fase si usano le marche grammaticali nei verbi (congiuntivo ecc.), che spuntano prima
nelle principali e poi nelle subordinate. I verbi modali sono appresi nell’ordine volere > potere > volere nella sequenza
deontico prima, ed epistemico poi (anche in L1).
4. Per quanto riguarda la sequenza di apprendimento della categoria grammaticale PERSONA, questa si realizza
lessicalmente in una prima fase con l’uso dei pronomi personali ‘io’, ‘tu’ e poi compare ‘lui’ mentre il verbo non viene
flesso. Successivamente, nelle varietà post-basiche, spuntano anche le marche morfologiche.
5. La categoria grammaticale del NUMERO, che riguarda i nomi, si apprende prima di quella del genere, già enunciato da
Greenberg nell’Universale 36: se una lingua ha la categoria di genere, essa avrà sempre anche la categoria numero. In una
prima fase di apprendimento la categoria numero è omessa o è usata in modo non consapevole con nomi che si trovano
frequentemente nell’input già come plurale (ad es. ‘anni’ è più frequente nell’input di ‘anno’). Altre volte il numero viene
reso lessicalmente attraverso l’uso di quantificatori, senza però aggiungere il morfema plurale al nome: ad es. ‘due
settimana’. In una seconda fase compaiono soltanto nel nome delle marche di desinenza: prima la -i, che è più frequente
nella resa del plurale in italiano, in quanto maschile, e poi la -e. Infine vengono flessi al plurale anche gli articoli e gli
aggettivi che si accompagnano al nome. Le fasi di acquisizione delle categorie di numero e di genere sono quattro: 1) fase
pragmatica, dove comincia ad esserci consapevolezza di regolarità fonologiche in L2, senza però fare riferimento alle
categorie morfologiche; 2) fase lessicale, in cui spuntano marche lessicali ma non morfologiche (quantificatori e
dimostrativi); 3) fase protomorfologica, nella quale vengono riconosciuti i più tipici e frequenti morfemi di numero e di
genere; 4) fase sintattica, che vede la comparsa di morfemi di numero e di genere per marcare l’accordo con il nome.
6. La categoria grammaticale di GENERE serve a fare una classificazione dei nomi su base semantica, (quindi opposizione
maschile e femminile come ‘professore’ vs ‘professoressa’), su base formale (nomi in -o o -tore sono maschili, -a, -trice o
-zione sono femminili). Il genere può essere anche anche arbitrario (‘sole’ m. vs ‘luna’ f.). Nella prima fase di acquisizione,
all’interno delle interlingue, il genere non è preso in considerazione. Le marche di genere, quando presenti, non sono
riconosciute come tali. In questa fase si riscontra spesso una sovra-estenzione della -a, percepita come desinenza tipica
dell’italiano ma non come femminile. Successivamente, la categoria di genere entra a far parte della grammatica
dell’apprendente: soprattutto con le sue terminazioni più tipiche: -o per il maschile e -a per il femminile. I nomi con
suffisso -e, invece, sono più problematici per gli apprendenti perché non capiscono a che genere corrisponde. L’accordo di
genere è acquisito più lentamente e in modo incerto, secondo l’ordine: pronome di 3° pers. sing. (lui o lei), poi attraverso
l’articolo determinativo e indeterminativo, l’aggettivo attributivo e predicativo, infine con il participio passato.
L’apprendimento dell’accordo di genere segue la distanza sintattica: più lontano si va dal nome che controlla l’accordo, più
questo si apprende tardi. Segue, quindi, il ‘modello della processabilità’ di Pienemann: le regole che coinvolgono gli
elementi all’interno di uno stesso sintagma sono meno complesse da apprendere rispetto a quelle che riguardano due
sintagmi diversi. Per questo motivo si apprende prima l’accordo degli articoli col nome e successivamente l’accordo tra il
nome e l’aggettivo predicativo. L’apprendente apprenderà più facilmente il genere se questo è già presente nella sua L1,
anche se possono esserci transfer negativi (ad es. ted. ‘die Sonne ’, ‘der Mond ’ it. ‘il sole’, ‘la luna’). Le fasi di acquisizione
delle categorie di numero e di genere sono quattro: a) fase pragmatica, dove comincia ad esserci consapevolezza di
regolarità fonologiche in L2 (-o m. e -a f.), senza però fare riferimento alle categorie morfologiche; b) fase lessicale, in cui
spuntano marche lessicali ma non morfologiche (quantificatori e dimostrativi); c) fase protomorfologica, nella quale
vengono riconosciuti i più tipici e frequenti morfemi di numero e di genere; d) fase sintattica, che vede la comparsa di
morfemi di numero e di genere per marcare l’accordo con il nome.
7. Una sequenza di apprendimento presa in considerazione dal gruppo di Pavia riguarda la sintassi della frase e, in
particolare, la NEGAZIONE. Le forme negative vengono apprese secondo l’ordine no, non, niente, nessuno o mai, neanche
e infine mica. La forma ‘no’ è olofrastica, cioè equivale nell’uso a un’intera frase. Compare subito, in fase pre-basica, nella
sequenza di acquisizione, inizialmente usata da sola e successivamente prima o dopo l’elemento negato. Man mano che
viene acquisita una forma della sequenza, l’elemento precedente rimane ma se ne restringe il campo d’uso. Nell’ultima
fase la negazione viene posta prima dell’elemento negato, seguendo una forma universale che in italiano risulta essere la
forma corretta. In italiano, quindi, la negazione è più semplice da apprendere rispetto ad altre lingue in cui essa è
postverbale, come in tedesco.
8. Per quanto riguarda la connessione tra le proposizioni, il gruppo di Pavia si è occupato della GERARCHIA DI
APPRENDIMENTO DELLE FRASI COMPLESSE. Nella prima fase di acquisizione, le frasi vengono soltanto giustapposte senza
uso di connettivi. Poi si aggiungono i connettivi semplici come ‘ma’, ‘poi’ o a volte ‘anche’, che hanno valore temporale,
avversativo, concessivo, enfatico o di presa di turno in un dialogo. Poi compare la subordinazione, inizialmente di tipo
avverbiale (temporali, causali e finali), poi le completive e le relative, che sono inserite all’interno delle reggenti o come
uno degli argomenti interni o come modificatore di uno dei suoi elementi. Di conseguenza, l’apprendimento delle
subordinate avverbiali segue l’ordine causali > avverbiali > finali > ipotetiche > concessive. Le relative inizialmente non
compaiono, poi occorrono come costruzioni paratattiche in cui il sintagma nominale che regge la relativa viene ripetuto o
sostituito con un pronome (per es: ho un fratello, lui si chiama Filippo). In fase post-basica compaiono le relative vere e
proprie, prime quelle costruite sul soggetto, poi sull’oggetto diretto e infine sull’oggetto indiretto e sul genitivo. Queste
ultime vedono una sovraestensione dell’uso del che generico al posto di cui.
9. Uno dei mezzi usati per rendere la connessione tra le proposizioni, studiato nel Progetto di Pavia, è l’ANAFORA, che
serve a legare all’interno di un testo delle entità più o meno distanti tra loro. In italiano, se il referente è stato appena
menzionato, o è facilmente accessibile, la ripresa anaforica sarà ‘leggera’ con l’uso del semplice accordo verbale ad un
soggetto sottinteso. Se invece il referente è distante e poco accessibile, la ripresa anaforica sarà ‘pesante’, quindi lessicale.
L’apprendente di italiano L2 nelle prime fasi tende ad usare mezzi lessicali più pesanti del necessario. Nelle fasi successive
dell’apprendimento si cominciano ad usare forme più leggere con clitici e soggetti sottintesi. Naturalmente è il progredire
della competenza morfosintattica che consente questo tipo di sviluppo.
10. L’ultima sequenza di apprendimento studiata dal gruppo di Pavia riguarda gli ORDINI SINTATTICI MARCATI diversi
dall’ordine naturale dell’italiano, quello SVO. Gli ordini marcati in italiano hanno delle specifiche funzioni pragmatiche, e
necessitano di una buona competenza sintattica. Le prime strutture marcate a comparire sono quelle che presentano
un’inversione del verbo e del soggetto, nelle forme ‘esserci’ o ‘arrivare’+ S ( è arrivato Luca). Successivamente viene
introdotta una pseudo-relativa con ‘che’ (ad es. ‘c’è un libro che sta sul tavolo’). Più tardive, perché più complesse e poco
frequenti nell’input, sono le frasi scisse. Sono formate da una reggente con il verbo essere in funzione di copula, che mette
in rilievo il dato nuovo, e una subordinata introdotta da un ‘che’, relativo o congiunzione, che fornisce il dato già noto (ad
es. È per il tuo bene che lo dico’). Sono tardive nelle interlingue anche le dislocazioni a sinistra (dette topicalizzazioni),
benché siano frequenti nell’input in italiano. (Ad es. ‘La torta l’ha fatta Elisa’). L’apprendimento tardivo probabilmente è
dovuto alla presenza di un clitico marcato. Ancora più tardive nell’apprendimento sono le dislocazioni a destra e le frasi
pseudo-scisse. Nelle dislocazioni a destra un costituente viene collocato, con una funzione tematica (Ad es. ‘Le ho messe
sul tavolo, le chiavi’). Infine ci sono le frasi pseudo-scisse che sono costruite con lo stesso meccanismo delle frasi scisse,
cioè con una divisione della frase in due nuclei distinti ma con la reggente introdotta dal pronome relativo ‘chi’ o dal nesso
‘dimostrativo+che’ e la subordinata viene introdotta dalla copula e contiene l’elemento nuovo che si vuole mettere in
risalto (ad es. ‘Quello che abbaia è il cane del vicino’). La sequenza di acquisizione degli ordini sintattici marcati è quindi:
ordini presentativi (esserci + S o verbi inaccusativi (per es. arrivare) + S > frasi scisse > dislocazioni a sinistra > dislocazioni a
destra > frasi pseudoscisse.

Lez.10
STRATEGIE DI ACQUISIZIONE: Dagli studi fatti sulle fasi di acquisizione di L2, si è appurato che l’apprendente mette in atto
delle strategie allo scopo di formulare ipotesi sulla L2 che, nell’interlingua, si trasformeranno in regole. Queste strategie,
che stanno dietro gli errori dell’apprendente in L2, sono: 1) il transfer da L1; 2) la strategia delle parole-chiave che, in
varietà pre-basica, permette all’apprendente di capire e produrre L2 attraverso i pochi elementi lessicali che già conosce,
senza prestare attenzione agli elementi funzionali degli enunciati; 3) le strategie lessicali, che l’apprendente utilizza nella
varietà basica esprimendo con morfemi liberi ciò che nella lingua d’arrivo è espresso attraverso morfemi legati (ad es. il
numerale al posto della desinenza di plurale); 4) le strategie isolanti, che vedono l’apprendente trattare come invariabili
tutti i lessemi di L2, senza fletterli né modificarli; 5) le strategie agglutinanti che, tipiche delle varietà post-basiche, sono
messe in atto quando, cominciando ad utilizzare i principali morfemi flessivi e derivazionali, li attacca alle basi senza però
applicare le Regole di Riaggiustamento; 6) le strategie analitiche spingono l’apprendente a creare a tutti i livelli linguistici
forme perifrastiche o analitiche, anche se nella lingua di arrivo dovrebbero essere sintetiche (ad es. ‘avevo credo’ =
‘credo’); 7) le strategie flessive sono proprie delle varietà postbasiche e sono usate dall’apprendente quando, sulla base
dell’input, inserisce i corretti morfemi flessivi alle basi anche in caso di irregolarità;8) l’analogia causa la sovra-estensione
di una regola, anche a forme che nella lingua di arrivo non la richiedono. 9) la semplificazione è utilizzata dall’apprendente
quando si omettono o si semplificano, a livello fonologico, morfologico o sintattico, determinate forme marcate in L2. 10)
la strategia dell’evitare è utilizzata dall’apprendente quando sceglie di non produrre una determinata struttura marcata
finché non sente di averla elaborata in modo più sicuro.
I vari tipi di INTERAZIONE in una classe di L2: L’apprendimento di L2 è strettamente legato all’interazione in classe, sia tra
docente e studenti sia tra gli studenti tra loro. L’interazione in classe ha un ruolo decisivo nell’apprendimento di L2: è
infatti la principale fonte di input, spinge gli studenti a utilizzare la L2 e può avere un ruolo attivo negli atteggiamenti degli
apprendenti verso la L2, incentivandone la motivazione. Le interazioni tra docente e discenti hanno caratteristiche
specifiche: 1. una struttura triadica, in cui il docente inizia con una domanda, il discente risponde e, infine, il docente fa
una valutazione o un commento su quanto detto. Questa struttura permette all’insegnante di tenere sotto controllo i
progressi degli studenti e colmare le loro lacune, però non spinge gli apprendenti a prendere l’iniziativa; 2. fini interazionali
diversi, che spaziano da discorsi, iniziati dal docente, a discussioni sulla vita, di classe o sociale, in cui gli studenti stessi
possono prendere l’iniziativa; 3. le modalità di gestione dell’interazione in cui il docente assegna i turni di parola; 4. il tipo
di significati comunicati influenza l’uso della lingua; 5. i tipi di domande poste che si classificano in base alla loro funzione
pragmatica: [referenziali, di controllo, display, retoriche.] 6. il feedback, che il docente dà agli studenti, riveste
un’importanza fondamentale nell’apprendimento in classe. Può essere dato attraverso mosse di approvazione, commenti
sulle produzioni dello studente, richieste di chiarimento o di conferma, correzione degli errori; 7. le modifiche fatte dal
docente per presentare agli studenti un input più comprensibile ma pur sempre corretto; 8. gli interventi degli studenti. I
metodi didattici più diffusi negli ultimi anni cercano di dare più spazio agli studenti, creando delle situazioni più rilassanti e
stimolanti per loro, in modo da aumentarne la motivazione. Si è anche provato a incentivare le interazioni tra gli studenti
stessi (interlanguage talk), ma spesso le loro produzioni linguistiche risultano devianti da L2 e costringono il docente ad
intervenire con delle correzioni per evitare fossilizzazioni. Gli studi fatti fino ad oggi mostrano che l’interazione in L2 ha un
ruolo determinante sull’acquisizione di L2. La negoziazione del significato e la semplificazione dell’input aiutano
l’acquisizione del lessico. Le correzioni del docente e la riformulazione, da parte dello studente, di quanto egli stesso ha
detto migliorano la grammatica. Un input calibrato sul livello degli apprendenti e le lezioni guidate dall’insegnante
migliorano l’acquisizione. L’ascolto degli altri studenti sotto la guida del docente spesso favorisce l’acquisizione più della
partecipazione diretta. Gli ultimi studi sull’apprendimento di L2 mostrano che la ripetizione meccanica delle regole non ne
migliora l’acquisizione. Si deve però utilizzare anche una didattica più formale, fondata sullo studio della grammatica e
sulle correzioni fatte dall’insegnante, allo scopo di evitare la fossilizzazione di forme scorrette. La didattica incentrata sul
contenuto e la didattica incentrata sulla forma devono quindi andare di pari passo.
Lez.11
Funzionamento del cervello e teoria di implicazione glottodidattica: La neurolinguistica si occupa del funzionamento del
cervello inteso come hardware, mentre la psicolinguistica si è occupata del software, il LAD di Chomsky, e del meccanismo
della memoria. La neurologia si interessa della lateralizzazione, fenomeno che riguarda la specializzazione dei due emisferi
cerebrali nello svolgimento di attività diverse: l’emisfero sinistro assolve i compiti logici, analitici e sequenziali; quello
destro compiti analogici, globalistici e simultanei. Studia anche la memoria, intesa come immagazzinamento di nozioni nel
cervello con il loro successivo recupero al bisogno. Sulla base di questi studi, Marcel Danesi elabora la sua teoria di
implicazione glottodidattica e parla di bimodalità e direzionalità. Il principio della bimodalità dice che sia la modalità
analitica sia quella globale dei due emisferi agiscono nella comunicazione linguistica, e devono essere quindi coinvolte
entrambe perché ci sia acquisizione completa. È un principio preso in considerazione solo negli anni 60. Il principio di
direzionalità, invece, precisa che la bimodalità segue una direzione precisa: dall’emisfero destro (olistico e
contestualizzante) al sinistro (analitico e formale). Di conseguenza, nell’ottica di una didattica della lingua straniera, deve
essere coinvolta sia la dimensione affettiva (destro, legata al piacere di imparare una lingua o di conoscere una cultura
diversa) sia quella logica (sinistro, che guarda ai bisogni linguistici o professionali); poi si può passare alla presentazione del
materiale contestualizzato e ricco di connotazioni culturali (destro) e infine si piò procedere all’analisi sulla lingua e alle
spiegazioni di grammatica, il tutto correlato da esercizi (sinistro).

Funzionameno del LAD + LASS + SLAT: Secondo gli studi di psicolinguistica, esiste una facoltà di linguaggio genetica, che ci
differenzia dalle altre specie animali. Lo sviluppo del linguaggio nei bambini segue più o meno gli stessi percorsi a
prescindere dall’ambiente in cui essi vivono. Esiste una Grammatica Universale che accomuna tutte le lingue esistenti,
spiegabile solo con l’ipotesi di una facoltà di linguaggio innata. Quindi lo studente è un soggetto attivo, e non una tabula
rasa. Il processo di acquisizione del LAD (Language Acquisition Device) formulato da Chomsky si articola in 5 fasi: 1- fase di
osservazione dell’input con l’attuazione di correlazioni legate alla lingua stessa. Quindi l’insegnante propone agli studenti
esercizi atti a individuare le regole della lingua man mano che si incontrano; 2- fase di creazione di ipotesi sulla base
dell’input osservato, in cui si generano forme come goed al posto di went. Il docente o il libro di testo guida gli studenti
nella formulazione di ipotesi; 3- fase di verifica delle ipotesi attraverso la correzione del docente; 4- fase di fissazione,
attraverso continue ripetizioni di una regola, magari con attività svolte attraverso giochi più motivanti; 5- fase di riflessione
guidata dagli adulti prima e dal docente poi. A completamento del LAD, Burner ha ipotizzato il LASS (Language Acquisition
Support System), che comprende tutto quanto supporti, guidi e faciliti l’acquisizione all’apprendente. Consiste nella
famiglia del bambino, dell’insegnante, dei compagni o dei social network, elementi che comportano, uniti alle
caratteristiche personali degli studenti, il rendimento diverso a seconda del singolo studente. Sulla base del Lad di
Chomsky, Krashen elabora lo SLAT e istituisce una differenza tra acquisizione e apprendimento. (Lez.3)
Le attitudini dello studente (SKEHAN, attitudine personale – GARDNER, intelligenze multiple): Il rendimento dei singoli
studenti nello studio delle lingue straniere può essere molto diverso da persona a persona. Gli studiosi si sono a lungo
interrogati sulle cause di queste differenze. Alcuni sostengono che il diverso rendimento è dovuto al LASS, cioè
all’insegnante e al materiale didattico che guidano e accompagnano gli studenti nell’apprendimento. Il LASS sicuramente
incide, ma certo non si devono sottovalutare le caratteristiche personali dei singoli studenti. A questo proposito, Skehan
parla di un’attitudine personale legata proprio all’apprendimento delle lingue, mentre Gardner ha sviluppato la teoria delle
intelligenze multiple. Secondo Skehan, l’ATTITUDINE PERSONALE è stabile e probabilmente non si può insegnare. La
variabile più importante che può incidere sull’attitudine dei singoli studenti è la dominanza emisferica cerebrale. Ogni
persona si affida maggiormente o all’emisfero destro o a quello sinistro. In base all’emisfero privilegiato cambia il modo di
concettualizzare gli input che si ricevono: in modo globale, contestuale ed emozionale per l’emisfero destro, o in modo
analitico, sequenziale e razionale per l’emisfero sinistro. Gli studenti più ‘olistici’ hanno una maggiore attitudine all’uso
della lingua, anche se fanno errori di grammatica e non capiscono perfettamente l’input. Quelli più ‘analitici’ hanno più
attitudine alla riflessione sulla lingua e vogliono conoscere tutti i meccanismi che la regolano. A livello didattico si
dovrebbero scegliere le attività in modo da non privilegiare o penalizzare alcuno. Lo psicologo Gardner ha sviluppato la
teoria delle INTELLIGENZE MULTIPLE, presenti in tutti gli individui ma con una predominanza diversa da persona a persona
in base alle caratteristiche personali o all’ambiente in cui si vive. Tutte queste intelligenze vanno poi a convergere
nell’intelligenza individuale, [composta da: 1. L’intelligenza linguistica che permette di saper scegliere le parole giuste in
base alle sfumature di significato, per comunicare ad es emozioni e per capire gli altri. 2. L’intelligenza logico-matematica
che è alla base della riflessione grammaticale sulla lingua. Chi ha una predominanza per questa intelligenza non sopporta
le imprecisioni o le ambiguità e ha difficoltà a ‘lanciarsi’ nell’uso di una lingua non ancora padroneggiata al meglio. 3.
L’intelligenza spaziale che permette di collocare gli oggetti nello spazio e di modificarne velocemente la disposizione e
serve alla memorizzazione del lessico legato ad ambienti specifici. 4. L’intelligenza musicale che consente la
memorizzazione linguistica attraverso canzoni, poesie o filastrocche. 5. L’intelligenza intra-personale che funziona
nell’autoanalisi, che permette di scoprire i propri punti di forza o di debolezza. 6. L’intelligenza interpersonale che porta ad
aiutare nella comunicazione un interlocutore in difficoltà. 7. Anche i tratti della personalità non sono legati solo
all’apprendimento, ma certo possono incidere su questo. All’interno di una classe, gli studenti possono essere più portati o
alla cooperazione e alla integrazione con gli altri oppure alla competizione, rischiando però, in questo caso, una
progressiva esclusione da parte dei compagni. Le differenze caratteriali legate all’introversione o all’estroversione vanno
oltretutto ad incidere sull’apprendimento. L’estroverso, infatti, non avrà problemi a mettersi in gioco e‘lanciarsi’ nella
produzione in lingua straniera, mentre l’introverso tenderà a chiudersi in se stesso e quindi ad esercitarsi meno. Anche
l’essere ottimisti o pessimisti influenza l’apprendimento. Non sono quindi i LAD individuali a causare differenziazioni
nell’apprendimento, ma il contesto psicologico, gli stili cognitivi e i tratti della personalità.]
STILI DI APPRENDIMENTO: I tipi di intelligenza non vanno confusi con gli stili di apprendimento, cioè il modo in cui si
affronta un qualsiasi compito. Questi stili sono diversi da persona a persona. -Stile analitico vs globale: lo studente può
avere uno stile più riflessivo e sistematico o più intuitivo. -Stile ideativo vs esecutivo: lo studente con stile ideativo lavora
sulla teoria per potere analizzare e possedere la lingua; quello con stile esecutivo si concentra sull’efficacia pragmatica.
-Intolleranza vs tolleranza per l’ambiguità: alcuni studenti non si sentono a disagio di fronte all’imprecisione perché
tendono a una comprensione globale; altri invece si sentono in difficoltà perché sono più interessati ai dettagli.
-Indipendenza vs dipendenza dal campo: gli studenti con la prima capacità riescono a non farsi distrarre da particolari
irrilevanti, solo perché presenti nel testo. Essi producono infatti un’osservazione analitica e non globale; gli altri invece
hanno più difficoltà a individuare i singoli elementi di un testo o di un esercizio, e si faranno distrarre più facilmente.
-Capacità vs difficoltà di prevedere dei contenuti sulla base del contesto: utilizzando le conoscenze del mondo e il
contesto, alcuni studenti riescono a prevedere quello che verrà detto. -Tendenza vs difficoltà ad apprendere dai propri
errori: oltre che dai tratti della personalità, gli studenti sono spesso influenzati dagli insegnanti con il loro approccio agli
errori. -Autonomia vs dipendenza nello studio.

FUNZIONAMENTO DELLA MEMORIA: Per acquisizione si intende inserire nella memoria stabile e poi saper utilizzare
quanto si è memorizzato. La memoria è strutturata in tre livelli. 1) La memoria di lavoro elabora le informazioni, ma è
molto limitata nel tempo e nella quantità. Per ricordarlo più facilmente, l’input deve essere organizzato in frammenti
significativi che compongano un significato unitario piuttosto che i significati delle singole parole. 2) Quanto elaborato si va
ad inserire nella memoria a breve termine, che elabora la struttura superficiale tralasciando quella profonda. Però, questo
tipo di memoria dimentica molto facilmente e, oltretutto, adatta le nuove informazioni su quelle già possedute causando
interferenza. 3) La memoria a lungo termine include la nostra enciclopedia e la memoria semantica, che prima interpreta e
poi memorizza la lingua. Sono stati formulati diversi modelli di memorizzazione, che comunque hanno in comune diversi
punti: ad una maggiore riflessione, quindi ad un maggiore sforzo, corrisponde una maggiore memorizzazione; la codifica
più profonda è a livello semantico e lessicale, non sintattico o grammaticale; la traccia sonora si ricorda più dell’immagine
visiva. Visto che il recupero delle informazioni dalla memoria avviene in centesimi di secondo, si ipotizza che il lessico sia
organizzato, all’interno della nostra mente, in schemi o in copioni.
LA MOTIVAZIONE: La motivazione dà una delle spinte più forti nell’apprendimento. Quando soddisfa un bisogno o un
desiderio, consapevole o inconsapevole, allora l’apprendimento risulta più facile. In base ai bisogni dell’apprendente e al
suo atteggiamento verso una L2 e verso la comunità che la parla, gli studiosi distinguono tre tipi di motivazione: la
motivazione integrativa, che riguarda il desiderio di conoscere la L2 per meglio integrarsi nel gruppo dei parlanti di L2; la
motivazione strumentale, che concerne il desiderio di imparare la L2 per fini utilitaristici; la motivazione di identificazione
con il gruppo sociale. Oltre alle motivazioni sociali ci sono quelle psicologiche e degli studi hanno evidenziato 2 modelli
sulla motivazione. 1. Il modello egodinamico, formulato da Titone, dice che l’ego di ogni persona ha un progetto di sé. Per
portare avanti questo progetto la persona trova una strategia (per es l’iscrizione a un corso). Se i risultati ottenuti sono
prossimi alle attese, la strategia diventa più forte e invia un feedback positivo all’ego, che continua a dare motivazione
all’apprendente per continuare a migliorare. Se il feedback è negativo, si andrà ad alzare il filtro affettivo che bloccherà la
motivazione. In questo modo il progetto riguardante l’apprendimento della lingua cadrà. Il problema del modello
egodinamico è che, nel caso in cui lo studente senta l’apprendimento di una seconda lingua straniera in contesto scolastico
come un obbligo, non ci sarà modo di motivarlo. 2. Il modello tripolare individua le cause/fattori che spingono gli uomini
ad agire: dovere, bisogno e piacere. Il dovere non è una buona motivazione, perché fa alzare il filtro affettivo che blocca
l’acquisizione. Le informazioni apprese rimangono nella memoria a medio termine e vi rimangono per es solo durante i
compiti in classe. Come motivazione funziona, ma con dei limiti. Da una parte, il bisogno deve essere percepito
dall’apprendente, ma questo non avviene facilmente se si tratta di imparare una seconda lingua straniera o una
letteratura. Dall’altra, il bisogno smette di essere motivante se lo studente sente di averlo soddisfatto. Il piacere, legato
principalmente all’emisfero destro del cervello, diventa una motivazione fortissima se coinvolge anche l’emisfero sinistro.
Oltre al piacere, proprio della persona, di realizzare un proprio progetto o di soddisfare un bisogno utilitaristico, ci sono
piaceri suscitati da particolari emozioni, che il docente deve alimentare continuamente: [per es: il piacere di apprendere
qualcosa che piace è molto forte, ma in caso di fallimento si esaurisce. Il docente deve proporre attività che risultino
fattibili allo studente, e deve considerare gli errori come naturali e non come qualcosa da punire. Mentre il fallimento
annulla la motivazione, gli sbagli possono essere accettati; il piacere della varietà è corroborato da attività e materiali
didattici che devono essere sempre diversi, perché lo studente non si annoi e annulli la motivazione; il piacere della novità
e dell’insolito è implicito al piacere della varietà, e strettamente legato alla valutazione dell’input; il piacere della sfida, cioè
del mettersi alla prova con esercizi, giochi e attività; il piacere della sistematizzazione per cercare di capire come funziona il
mondo. Per attivare questo piacere nell’insegnamento delle lingue si potrebbe, per esempio, far ‘scoprire’ la grammatica
piuttosto che insegnarla con schemi precostituiti; il piacere di seguire il proprio senso del dovere porta lo studente ad
impegnarsi anche in attività che non gli piacciono. ]
Lez.12
Approcci didattici della lingua straniera, diversi in base all’età: Sui processi di acquisizione agiscono vari fattori, tra i quali
l’età, che ha delle ripercussioni anche sulle scelte metodologiche e gli approcci didattici adottati dai docenti.
Apprendenti bambini: li si deve guidare alla scoperta delle lingue, facendo loro notare che anche le altre lingue possono
essere imparate. Sono cittadini europei, per questo si deve formare la loro nuova identità culturale e portarli ad avere una
“personalità bilingue” perché nelle persone bilingui la dominanza di un emisfero sull’altro risulta essere meno rigida che
non in quelle monolingui, di conseguenza l’apprendimento della lingua straniera prima delle scuole elementari è di
fondamentale importanza. Lenneberg parla di un “periodo critico” oltre il quale la capacità umana di acquisire lingue
decadrebbe; in realtà a decadere è solo la capacità di una perfetta acquisizione fonetica. Si dovrebbe parlare piuttosto di
“periodi critici”, al plurale, prima dei quali si riesce ad acquisire le lingue ad un livello pari a quello di un madrelingua. 1°
periodo critico (fino a 3 anni: pronuncia corretta e sviluppo pieno delle sue capacità linguistiche); 2° periodo critico (4-8
anni: pronuncia corretta ma sforzo maggiore); 3° periodo critico (8-22 anni: buona competenza, ma non raggiungerà mai il
livello di un madrelingua. La L1 ha un’influenza molto forte). [Cummins elabora il principio di interdipendenza linguistica,
secondo cui lo studio di una lingua ha un’influenza positiva su tutto il repertorio linguistico di una persona e paragona la
lingua a un iceberg: ciò che compare nella comunicazione linguistica è solo una parte del processo di concettualizzazione
che avviene nella nostra testa, come la punta di un iceberg che emerge dall’acqua. La parte sommersa dell’iceberg è la
nostra capacità di elaborazione linguistica, che cresce con lo studio di una lingua straniera.] Iniziare lo studio di una lingua
straniera tra i 3 e i 4 anni serve a tenere attivo il LAD e ad immettere nuovi stimoli che migliorano la competenza in
generale, compresa quella della L1. Ci sono poi una serie di punti fermi da rispettare: 1- lo studio della lingua straniera va
integrato col resto del curriculum, anche in altri settori, come se fosse il CLIL; 2- ci vuole una sorta di flessibilità nei metodi
didattici e nelle tecniche di insegnamento, perché ogni bambino ha uno stile cognitivo e di apprendimento diversi da quelli
degli altri, inoltre i bambini hanno tempi e ritmi diversi tra loro che vanno rispettati; 3- La didattica ai bambini deve essere
incentrata sulla sensorialità: vanno attivate tutte le facoltà sensoriali umane; 4- la motricità è importante: i bambini
devono usare la lingua per giocare, per dare e ricevere istruzioni; 5- la lingua deve essere vista dai bambini come un gioco
fine a se stesso, con delle regole, in cui si percepisce il piacere della sfida e se si sbaglia non è un grosso problema.
Apprendenti adolescenti: l’adolescente ha un rapporto particolare con i suoi compagni: entra in branco e cerca
continuamente la loro approvazione, gli errori sono qualcosa che può mettere in cattiva luce la sua immagine con il resto
del branco, di conseguenza accetta sempre meno le correzioni del docente. Il gruppo classe, poi, privilegia la mediocrità
rispetto all’eccellenza, che potrebbe portare all’isolamento e alla fuoriuscita dal gruppo. L’adolescente desidera lasciare la
casa dei genitori, pertanto egli considera la conoscenza dell’inglese il mezzo principale per potersi muovere nel mondo, e
la sua motivazione aumenta. Il problema sorge se l’apprendente pensa di aver raggiunto una competenza soddisfacente e
deve capire che quel che sa è sufficiente a sopravvivere, non ad essere autonomo. Per le lingue diverse dall’inglese la
motivazione scatta solo se l’apprendente si interessa alla cultura del paese di cui sta studiando la lingua, o se il docente gli
fa provare il piacere di stare a lezione. A livello didattico si può passare ad un approccio fondato sulla riflessione
metalinguistica. Gli apprendenti sono in grado di produrre lingua e di dare ragione della propria esecuzione. Nella scuola
media gli apprendenti iniziano a studiare una seconda lingua straniera scelta da loro stessi. La prima, l’inglese, costituisce
una sorta di passaporto per il mondo. La seconda lingua porta con sé la conoscenza della cultura del popolo che la parla.
Non va studiata isolatamente, ma il docente si deve coordinare con quello di inglese e di italiano per seguire lo stesso
percorso che non crei confusione negli apprendenti e che li aiuti ad affrontare gli stessi problemi.
Apprendenti giovani-adulti: gli apprendenti universitari spesso vedono lo studio della lingua come un’imposizione, si
sentono ancora in una posizione di inferiorità rispetto all’insegnante per cui l’impianto è ancora pedagogico. In realtà il
docente deve cercare di rendere autonomi i suoi apprendenti.
Apprendenti adulti: gli adulti sono padroni di sé e delle proprie scelte. Vogliono prendersi la propria responsabilità sul
risultato del corso. La prospettiva è il lifelong learning, cioè la formazione continua. L’apprendente vuole decidere
autonomamente e tutto questo lo pone socialmente alla pari del docente, il rapporto con il quale non è più educativo ma
istruttivo. L’adulto paga l’iscrizione al corso di lingua e vuole quindi portare a casa dei risultati. Il docente si deve
inizialmente accordare con gli apprendenti affinché questi non subiscano un calo di motivazione. I risultati devono essere
raggiunti nel più breve tempo possibile. Il docente deve spiegare i principi metodologici agli apprendenti in modo esplicito
e bisogna spiegare agli apprendenti che una certa lentezza rispetto a quando erano bambini è normale. Gli apprendenti
adulti hanno una maggiore maturità linguistica unita a un forte desiderio di conoscere le regole della lingua. Le tecniche
didattiche utilizzabili per loro sono quelle che considerano autonomi l’apprendente nella scelta di affrontare i compiti
richiesti, per cui sono poco utilizzabili le attività di interazione con i compagni, perché l’adulto ha un’immagine di sé che
non vuole che venga messa a rischio di fronte agli altri. Per tenere alta la motivazione, il docente deve continuamente far
notare all’apprendente il percorso fin lì portato avanti.
La classe di apprendenti (COOPERATIVE LEARNING): L’apprendimento all’interno di una classe comporta un confronto
continuo tra gli apprendenti che può causare problemi relazionali. Il docente deve fare in modo che gli apprendenti si
considerino come colleghi che devono affrontare insieme il processo di apprendimento cooperando l’uno con l’altro
attraverso un “cooperative learning”. Alcuni insegnanti non vedono di buon occhio la cooperazione perché temono che si
possano influenzare negativamente gli uni con gli altri, rischio in realtà minimo perché gli apprendenti sono
continuamente esposti a degli input corretti. La cooperazione ha molti lati positivi: diverse teste impegnate ad affrontare
insieme problemi hanno più possibilità di riuscita; cose per alcuni oscure possono essere rese comprensibili da altri; le
classi in genere non sono omogenee quindi bisognerebbe dividere la classe in gruppi più piccoli in modo da seguire meglio
gli apprendenti con maggiori difficoltà, mentre quelli eccellenti possono svolgere delle attività per loro più stimolanti. Il
cooperative learning è una metodologia che permette agli apprendenti di mettere da parte l’atteggiamento competitivo e
la convinzione di essere soli davanti all’insegnante. Per risolvere i problemi gli apprendenti devono collaborare tra di loro e
procedere insieme nel cercare di risolverli. Il lavoro in piccoli gruppi dovrebbe essere un’abitudine, non esclusiva,
dell’insegnamento linguistico, perché più teste lavorano meglio di una.

Lez.13
Il docente come regista dell’azione didattica: L’attività dell’insegnamento ruota attorno alla persona che apprende, quella
che insegna (docente) e l’oggetto dell’insegnamento. Il docente deve aiutare l’interazione tra gli altri due elementi
attraverso una serie di procedure che adatta di volta in volta ai singoli casi come un regista, senza però farle andare in
contrasto tra loro; mantiene in equilibrio il ruolo degli altri due senza privilegiare lo studente o la lingua. Il docente è un
punto di riferimento per lo studente durante il suo percorso di acquisizione. Ci sono 3 punti critici nella comunicazione
didattica: 1- l’insegnante durante la propria lezione parla, ma più parla lui e meno parlano gli studenti e di conseguenza
meno acquisiscono; 2- non si sa bene quale lingua utilizzare nel corso delle lezioni (es: è più utile fare la correzione degli
errori in italiano); 3- bisogna decidere quale tipo di genere comunicativo applicare in una classe. Negli ultimi anni le scuole
e le università stanno diventando sempre più autonome nella progettazione di loro curricula. Bisogna però capire qual è il
ruolo della lingua straniera all’interno del percorso formativo degli studenti, analizzare i loro bisogni, capire quali risorse
servono o quali si possono ottenere, capire che tipo di insegnante serve per quel determinato corso in modo da poterlo
formare con corsi di aggiornamento, definire il curriculum in lingua straniera, scegliere il materiale didattico più
opportuno. A tal proposito, ormai non esiste più solo il libro di testo, ma tutta una serie di elementi accessori che sono:
manuale di base, materiali di rinforzo e di recupero, materiali audio, materiale presente in rete, materiale video, guida
didattica per l’insegnante, prove di verifica graduate, siti internet e il docente può integrare il materiale didattico con altri
tipi di materiale per interessare e motivare gli studenti.
Le caratteristiche della lingua straniera al centro della didattica: Alla base di un corso di lingua straniera ci sono 3
elementi: la nozione di comunicazione, la lingua che viene insegnata e la cultura del popolo di cui la lingua è portatrice. 1-
la comunicazione serve a scambiare messaggi efficaci. Non deve mai mancare un destinatario, anche se fittizio, i messaggi
possono essere verbali o non verbali, scritti o orali, semplici parole o intere frasi e così via. In genere si comunica qualcosa
per uno scopo; 2- la definizione di “lingua straniera” include 4 realtà diverse: la lingua straniera vera e propria, la lingua
seconda, la lingua etnica e la lingua franca. [La LINGUA STRANIERA vera e propria indica quella che viene studiata nelle
scuole, all’interno di una comunità che non la parla ma che ha una diversa L1. Di conseguenza, l’input a cui gli apprendenti
sono esposti è esclusivamente quello fornito in vario modo dal docente, graduato e semplificato in base al livello degli
studenti. La LINGUA SECONDA è quella che parla come L1 la comunità in cui uno studente è inserito per un tempo breve o
lungo. L’apprendente, quindi, la incontra anche al di fuori della scuola, e l’input a cui è esposto proviene direttamente dalla
realtà extrascolastica in cui egli vive. La motivazione all’apprendimento della L2 è molto più forte, per esempio, di quella
della lingua straniera, perché è legata alla vita quotidiana e tende all’integrazione nella società in cui essa è parlata. La
LINGUA ETNICA è quella della comunità di origine di una persona ma non è la sua lingua materna. Un esempio è il caso di
figli di immigrati in Italia, che parlano italiano ma sentono parlare altre lingue dai loro genitori e all’interno della comunità
di immigrati in cui vivono. La LINGUA FRANCA è una lingua usata in modo semplificato per permettere la comunicazione
internazionale. Una volta era il latino, oggi è l’inglese. La conseguenza del passaggio dell’inglese a lingua franca è che oggi
non riflette più la cultura delle comunità che lo parlano come L1. In questo bad English la pronuncia a cui si mira è una
pronuncia comprensibile, anche se lontana da quella di un madrelingua; il lessico è molto semplificato; la pragmatica è
considerata molto più importante dell’accuratezza formale e grammaticale.] La competenza linguistica comprende le
grammatiche dei vari livelli della lingua. Non tutte saranno inserite nel curriculum e, in ogni caso, ci si atterrà agli elementi
più basilari. Lo studio di questa grammatiche deve seguire le sequenze della linguistica acquisizionale, tornando però
continuamente su quanto è già stato acquisito. La competenza extralinguistica, comprende una serie di codici che servono
ad accentuare o modificare i significati della lingua verbale. Può essere cinesica (riguarda i gesti, i movimenti del corpo e le
espressioni del viso; lo stesso gesto può assumere diversi significati in diverse culture), prossemica (relativa alla vicinanza e
al contatto tra il parlante e l’interlocutore), oggettuale (rivolta all’uso di oggetti come strumento di comunicazione di uno
stato sociale o di una funzione. Comprende anche la vestemica). È importante avere una competenza extralinguistica della
comunità con cui si entra in contatto, sì da evitare di incorrere in errori e/o gaffes. Dal punto di vista didattico si può
procedere in due modi: proiettare film o avviare dibattiti ad audio spento, di modo che l’attenzione degli apprendenti si
incentri sui gesti, le espressioni del viso, modi di vestire diversi e così via; si possono instaurare contatti reali o virtuali con
nativi di altre culture. 3- La competenza culturale: Oltre alla competenza linguistica, nell’insegnamento della lingua
straniera ha un ruolo di primo piano anche la competenza culturale, alla cui base sta l’osservazione. Si deve quindi
insegnare a osservare la cultura degli altri paesi. Negli anni ’80 si diffonde l’idea della cultura intesa come un software della
mente, che va sostituito ogni volta che si entra in contatto con persone appartenenti ad altre culture. Il collegamento tra
mente e mondo è quello che noi chiamiamo padronanza. A livello comunicativo, la padronanza comprende da un lato le
abilità linguistiche (saper comprendere, saper produrre ecc.), dall’altro le abilità relazionali che consistono nell’osservare le
persone di altre culture ed eventi dall’esterno creando un distacco emotivo al fine di evitare filtri emozionali, evitare
giudizi affrettati, saper ascoltare gli altri e saper partecipare alle emozioni dell’interlocutore cercando di considerare la
diversità degli altri come naturale. Tutto ciò affrontando dei punti critici, problemi legati ad alcuni concetti quali il tempo,
la gerarchia sociale, i codici verbali (legati al suono e al tono della lingua) ma anche non verbali come il linguaggio del
corpo e sociali, come l’utilizzo di un registro formale o informale. Tutti questi elementi, infatti, cambiano da cultura a
cultura. Il compito dell’insegnante è di far capire agli studenti che la differenza tra le culture è legata a diversi software
mentali; la realtà cambia costantemente, e allo stesso modo mutano le culture che si contagiano tra di loro. Si deve
pertanto osservare con attenzione e provare a interpretare il mondo che ci circonda.

Lez.14
Organizzazione della didattica, modularità: A partire dagli anni 60 del 900 si parla di UNITÀ DIDATTICA, formata da unità
di acquisizione che si basa sulla psicologia della Gestalt, che considera la percezione come un processo in 3 fasi: globale
(che usa soprattutto l’emisfero destro del cervello e durante la quale un testo viene ascoltato o letto diverse volte e
vengono avviate diverse attività che aiutino lo studente ad addentrarvisi sempre di più passando da una comprensione
globale ad una sempre più dettagliata); percezione analitica (centro dell’attività di acquisizione di una lingua straniera e
coinvolge l’emisfero sinistro. Apre la strada alle sequenze di analisi-sintesi spontanea-riflessione guidata sui singoli atti
comunicativi, aspetti linguistici e temi culturali di un testo); fase conclusiva (sintesi e conseguente riflessione che consenta
il passaggio dall’apprendimento all’acquisizione). Questo processo non riguarda solo le lingue straniere e si può eseguire
benissimo da soli in piena autonomia. La presenza del docente fa da guida e il processo si fa più ordinato e veloce. L’UNITÀ
DI ACQUISIZIONE è un’unità di misura che consente allo studente di percepire quanto ha appreso. Può durare pochi
minuti ma anche un’ora. Una rete di unità di acquisizione forma un’unità didattica che è una parte linguistico-comunicativa
che mette insieme atti e strutture linguistiche, le espressioni e gli atti comunicativi legati ad un contesto situazionale. Dura
dalle 6 alle 10 ore. L’unità didattica di lingua comprende tutto ciò che riguarda il contesto situazionale che viene studiato.
Può durare settimane ed è legata all’argomento letterario scelto: si incentra sui testi di un autore, sul periodo storico e
culturale in cui egli vive o è vissuto e così via. Per quanto riguarda le lingue straniere, esse sono importanti per il docente al
fine di programmare le attività. Sono divise in unità di apprendimento. Affinché questo sia significativo ci deve essere una
fase legata alla motivazione tale da spingere lo studente a sforzarsi nell’affrontare l’unità didattica. In questa fase il
docente deve porre agli studenti delle domande-stimolo e in italiano, tralasciando l’esercitazione linguistica. Alla fine di
un’unità didattica, prima di iniziarne un’altra, il docente può presentare del materiale supplementare (film, testi) relativo a
quanto si è appreso. Una serie di unità didattiche formano il modulo, che a sua volta costituisce parte del curriculum. Il
MODULO è un blocco tematico chiuso e autosufficiente. Alla fine del modulo lo studente deve essere in grado di operare
nel contesto che è stato affrontato. I moduli devono essere valutati in modo da essere inseriti nel curriculum vitae dello
studente. Il modulo nasce proprio per poter accreditare e valutare le competenze di uno studente o di un lavoratore che
va all’estero. Il modulo quindi è un blocco tematico concluso in sé, autosufficiente, significativo, si articola in una serie di
unità didattiche, ciascuna basata su una rete di unità di acquisizione. È possibile avere un’efficiente modularizzazione delle
dimensioni letteraria e microlinguistica dell’insegnamento delle lingue.
COMPRENSIONE: La comprensione è il processo che sottostà all’attività di ascolto e lettura; la differenza tra queste due
abilità è a livello di decodifica dei segnali sonori e visivi. Essa procede da processi cognitivi che costituiscono “la
grammatica dell’anticipazione” (expectancy grammar), quindi capiamo meglio un testo se esso è prevedibile all’interno di
uno schema derivato dalla nostra conoscenza del mondo. La comprensione avviene attraverso processi logici che
contribuiscono a costruire la comprensione in quanto legano la fonte esterna di informazioni con la realtà psichica di chi
comprende; il principale processo è quello preposizionale, attraverso il quale si costruisce il senso della preposizione con
predicato e argomenti; e processi analogici che consistono in processi di comprensione come la competenza metaforica.
Le abilità produttive possono essere orali o scritte. Quelle orali possono consistere ad esempio nel monologo, che diventa
anche attività di ascolto oppure si può formare una serie di monologhi successivi creando una “detective story” collettiva o
facendo descrivere un fumetto in successione; per la produzione scritta si possono comporre descrizioni, relazioni,
narrazioni, lettere, testi regolativi, definizioni, ecc. in questo caso intervengono una componente cognitiva, il possesso di
specifiche informazioni e la padronanza linguistica. Per il monologo, la tecnologia può venire in aiuto: può essere creata a
casa una registrazione video, da discutere in classe; per la composizione scritta, il computer evidenzia gli errori
grammaticali, permette di spostare blocchi di testo, non richiede ricopiatura in calligrafia e in ordine; la correzione è
inoltre più semplice ed esplicita. Si possono inoltre realizzare “videolettere” per comunicare con studenti stranieri.
L’approccio comunicativo si basa sull’abilità di interazione, che richiede l’unione di un’abilità di comprensione con una di
produzione orale. La tecnica più importante è il dialogo, che richiede la conoscenza dei copioni situazionali, cioè sequenze
prevedibili di atti linguistici legati ad una specifica situazione (cinema, ristorante…); la scelta del registro linguistico in base
al proprio ruolo nella situazione in cui si svolge il dialogo; l’organizzazione del discorso in modo da raggiungere il fine che ci
si è prefissati; l’interpretazione delle intenzioni dell’interlocutore e la negoziazione dei significati non chiari. Tra le tecniche
per sviluppare l’abilità vi sono la drammatizzazione, il dialogo a catena in cui uno studente inizia e un altro continua, il
dialogo aperto, il dialogo in chat, le simulazioni, i talk show ecc. Le abilità di trasformazione vengono sviluppate nella
lingua madre, in tutte le discipline scolastiche, e la lingua straniera può dare un contributo: dettato (trasformazione di un
testo orale in uno scritto. Perché non si alzi il filtro affettivo è auspicabile attuare una procedura di autocorrezione. Non è
un test affidabile, perché non tutte le parole scritte correttamente sono chiare e viceversa; appunti (forma personalizzata
di riassunto di un testo orale o scritto); riassunto (tecnica complessa perché richiede la produzione di un testo partendo da
un altro testo dato, di cui si devono estrapolare e disporre in sequenza i punti più importanti); parafrasi (realizzazione di un
testo in prosa a partire da un altro testo di cui si deve mantenere il significato, modificando però il lessico e la sintassi);
traduzione (non è una tecnica di apprendimento di una lingua, ma il punto di arrivo. La sua unità minima è il periodo, non
la frase né tantomeno la parola. La traduzione agisce contemporaneamente sulla L1 e sulla lingua che si sta apprendendo).

Lez.15
ACQUISIZIONE DEL LESSICO: Negli anni ‘90 nasce il Lexical Approach di Willis (1990) e Lewis (1993, 1997) che ripropone la
questione del lessico. Acquisire il lessico significa memorizzare una parola o un item per recuperarlo al bisogno nel più
breve tempo possibile. Bisogna anche conoscere le RFP per poter creare, ad es., nomi da aggettivi e così via. Anche se la si
conosce, può succedere, per stress o distrazione, che non si riesca a recuperare in tempo utile dal nostro magazzino di
memoria una determinata parola. Per risolvere il problema si deve far sviluppare negli apprendenti l’abilità di fare
perifrasi, cioè di saper spiegare, con altre parole, quella che non si riesce a ricordare. Insegnare il lessico di una lingua è
molto difficile sia perché questo ha alle spalle tutta una serie di connotazioni culturali, sia perché è un insieme aperto,
impreciso e in fieri. Tra le tecniche per facilitare l’acquisizione del lessico abbiamo sia quelle di accoppiamento della
memoria verbale con le altre memorie (visiva, musicale, cinestetica ecc.), sia quella di creazione di reti semantiche, cioè di
campi complessi di parole correlate da un significato chiave.
Nozioni di base: Il lessico è l’insieme delle parole di una lingua. È astratto e strutturato, e comprende le parole con le
informazioni ad esse associate, che sono immagazzinate nella nostra memoria (lessico mentale). Il dizionario è la
descrizione del lessico, un oggetto concreto, consultabile nel formato sia cartaceo sia elettronico. I dizionari sono
organizzati in diverso modo, a seconda dell’utente a cui sono rivolti (ad es. i dizionari specialistici) o in base alla tipologia
(storico, etimologico ecc.). Il dizionario cerca di descrivere il lessico come la grammatica cerca di descrivere le strutture
sintattiche. Il fatto che ci siano più dizionari dimostra che il lessico può essere descritto secondo diversi punti di vista.
Oltretutto, il dizionario non conterrà mai tutte le parole di una lingua sia per scelta sia per necessità. In ogni caso, nessun
parlante nativo di una data lingua potrà mai conoscere tutte le parole, le accezioni o gli usi documentati in un dizionario.
Per vocabolario, invece, si intende sia l’insieme dei vocaboli di una lingua (il lessico), sia l’opera che descrive questo
patrimonio (il dizionario).
LESSICALIZZAZIONE: L’associazione di un concetto con una forma lessicale è chiamata lessicalizzazione. Questa ha varie
interpretazioni. 1. Dinamica: la lessicalizzazione indica tutti i procedimenti con cui, in una data lingua, un concetto è
associato ad una forma lessicale. Il risultato di questo processo è la creazione di una parola nuova, che entra a far parte del
lessico. Perciò ogni parola di una lingua è una lessicalizzazione. 2. Dinamica ristretta: con lessicalizzazione si indica il
procedimento secondo cui una sequenza di elementi lessicali, adiacenti gli uni agli altri in un testo, acquistano
progressivamente il valore di una sola parola; una forma, nominale o verbale, flessa assume esistenza indipendente e
significato autonomo implementando così il lessico di una lingua. È il caso di parole come l’avverbio ‘perlopiù’ o il nome
del fiore ‘nontiscordardimé’, entrati nel lessico dall’unione di singole parole, ed ancora come il participio presente di
‘cantare’ che ha dato vita al nome ‘cantante’, e così via. 3. Statica: guarda alla lessicalizzazione non come processo ma
come esito del processo. Ogni singola parola è quindi una lessicalizzazione. Per cui si può dire che l’italiano esprime con tre
lessicalizzazioni ‘legno, legna, bosco’ ciò che il francese esprime con ‘bois’. Nella maggior parte delle lingue le
lessicalizzazioni non sono biunivoche. a) Quando più concetti sono espressi da una singola parola abbiamo le
lessicalizzazioni sintetiche. Nell’associazione forma/contenuto viene attuato un procedimento di sintesi: più contenuti
sono compressi in un solo elemento lessicale. Ad es., ‘muovere’ esprime solo il moto; ‘andare’ esprime il moto e la
direzione (lontano dal parlante); ‘correre’ il moto e la maniera (velocità elevata); ‘zoppicare’ il moto, lo strumento (piedi) e
la maniera e così via. b) Quando un concetto unitario è espresso da più parole abbiamo le lessicalizzazioni analitiche, in cui
l’associazione forma/contenuto è attuata attraverso l’analisi, cioè la distribuzione del contenuto in diverse forme lessicali.
Ad es. ‘essere stanco’, ‘segnare un goal’, ‘dare un pugno’ e così via. In genere entrambi questi procedimenti sono sfruttati
in una singola lingua. A volte si usano entrambi per esprimere lo stesso concetto: ‘uscire’ vs ‘andar fuori’, ‘tardare’ vs ‘fare
tardi’, ‘addormentare’ vs ‘ far dormire’ ecc.; altre volte solo uno dei due è utilizzato: ‘portar su’ o ‘portar giù’ non ha un
equivalente espresso con un’unica parola in italiano standard./ Un’altra distinzione è quella che contrappone le
lessicalizzazioni ‘descrittive’ a quelle ‘etichettanti’, distinguendole in base alla diversa relazione semantica che esiste tra ciò
che il nome designa e la parola. Quando il designato è associato alla parola attraverso una descrizione, abbiamo una
lessicalizzazione descrittiva. In italiano parole come ‘lavoratore’ è ‘colui che lavora’, formato col suffisso –tore, che indica
qualcuno che svolge un lavoro. Quando il designato è associato alla parola attraverso l’attribuzione di un’etichetta,
abbiamo una lessicalizzazione etichettante. Per es. in italiano ‘medico’ è un nome etichettante, perché non c’è nessun
elemento all’interno della parola che chiarisca il significato.
SIGNIFICATO: Dal punto di vista del significato, le parole del lessico di una lingua si dividono in parole contenuto, o
lessicali, e parole funzione, o grammaticali. Le parole lessicali forniscono il contenuto e hanno un significato lessicale.
Queste parole sono autonome dal punto di vista semantico, cioè hanno significato da sole. Esse costituiscono un insieme
aperto in cui ne entrano continuamente di nuove. Le parole funzione hanno un significato grammaticale e servono a
chiarire le relazioni esistenti tra le parole contenuto. Formano un insieme chiuso, non hanno significato autonomo, ma lo
acquisiscono in base alle parole lessicali a cui si riferiscono. Il significato può essere anche denotativo o connotativo. Il
significato denotativo è la proprietà di una parola di potersi riferire non solo ad un singolo oggetto, ma all’intera classe che
possedette, possiede e possiederà le caratteristiche di quell’oggetto (‘non mi piace il pesce’). Il significato connotativo
riguarda quelle proprietà che possono aggiungersi al significato di base, esprimendo: l’attitudine del parlante verso il
referente della parola (significato affettivo, ad es. ‘mamma’ vs ‘madre’); il rapporto del parlante con il destinatario
(significato stilistico, ad es. ‘bici’ vs ‘bicicletta’); l’intenzione comunicativa del parlante (significato pragmatico, ad es.
‘guarda, la storia è questa’ in cui guarda ha un valore che emerge solo in situazioni comunicative particolari). Un altro tipo
di significato è il significato collocazionale, che secondo alcuni studiosi è parte di quello denotativo mentre, secondo altri,
va distinto da essi. Si tratta del significato particolare che una parola assume solo in combinazione con altre parole, ad es.
pioggia battente (= incessante), saluto caloroso (= affettuoso) e così via.
LA PAROLA: La nozione di parola è di difficile definizione, a causa anche della diversità tra le lingue. Si possono distinguere
varie accezioni di ‘parola’: la parola fonologica (la/e sequenza/e fonica/che che si raggruppa/no attorno a un accento
primario), morfologica (‘capostazione’) o sintattica (‘telefonami’). Ma rimane il problema di come si devono considerare,
ad es., le forme flesse che fanno capo a un’unica parola. Si è pensato di stabilire, per convenzione, delle forme di
riferimento o di citazione, che però non riflettono l’effettiva organizzazione del lessico. In italiano la forma di citazione è
l’infinito per il verbo, il singolare per il nome e così via. Nulla però vieta di usare come forma di riferimento la terza
persona singolare dell’indicativo presente per il verbo, che è già sufficiente per indicarne la coniugazione e costituisce la
forma basica usata nelle varietà di apprendimento. In base a questo ragionamento abbiamo: il lessema, che indica, l’unità
del lessico presa come forma base a cui si riconducono le forme flesse; il lemma, che corrisponde alla voce di un dizionario
ed è la controparte del lessema in lessicografia. Quello di lessema è un concetto astratto perché, nelle lingue flessive, cioè
dotate di flessione, le forme più frequenti nell’uso concreto sono proprio quelle flesse. I costrutti lessicali, o unità poli-
rematiche, si comportano come lessemi perché esprimono un concetto unitario. Espressioni come ‘sala d’attesa’,
‘macchina da scrivere’ ecc. hanno un significato desumibile dalla somma dei significati delle singole parti e si comportano
come dei composti. Al contrario, i costrutti privi di un significato composizionale si chiamano espressioni idiomatiche. Sono
a metà strada tra sintassi e lessico (‘tagliare la corda’, ‘partire in quarta’), con un significato proprio non predicibile a
partire dai costituenti e con una struttura fissa. Di conseguenza, fare un conto delle parole di una lingua non è
un’operazione semplice perché si deve tener conto di tutte le forme flesse, derivate, composte e polirematiche
(idiomatiche e non). Una stessa forma lessicale può avere più significati. Bisogna pertanto capire se si è di fronte a parole
polisemiche o omonime. Le parole polisemiche hanno un’unica forma in cui sono cumulati più significati, le omonime sono
due forme con significato diverso, che hanno in comune suono e grafia. Non è facile distinguere tra omonimia e polisemia,
lo si può fare solo in diacronia. Uno dei criteri più efficaci è quello etimologico: se i diversi significati connessi a una forma
si possono mettere in relazione tra loro riconducendo l’uno all’altro secondo una dimensione semantica (per es. metafora,
metonimia ecc.) allora il lessema è polisemico. Ad es. ‘collo’ che, oltre alla parte del corpo, indica per estensione quella di
un indumento, per similitudine quella di un recipiente (bottiglia) e così via. Invece, parole come ‘miglio’ (unità di misura e
pianta) costituiscono probabilmente due parole omonime.
FORMA DELLE PAROLE: Per quanto riguarda la forma, le parole si dividono in semplici vs complesse. Le parole semplici
sono costituite da un unico morfema lessicale libero (‘oggi’) o da un morfema lessicale legato ad uno flessivo. Le parole
complesse hanno una struttura interna di tipo morfologico o sintattico. Le prime sono quelle formate da RFP, le seconde
sono le parole sintagmatiche, cioè parole che si presentano come dei sintagmi ma hanno una forte coesione interna (‘sala
da pranzo’ ecc.). Tra le parole complesse, anche i composti si trovano in una zona grigia tra morfologia e sintassi.
Informazione lessicale e proprietà predicato: L’INFORMAZIONE LESSICALE è quell’insieme di proprietà che sono
contenute in una parola, e che ne condizionano il modo in cui esse vengono utilizzate. Queste proprietà sono di diverso
tipo. La prima è il significato, che è l’informazione più evidente contenuta in ogni parola. Poi abbiamo proprietà foniche e
grafiche, che riguardano i suoni, la struttura sillabica e l’accentazione, da una parte, il rapporto tra suono e grafia,
dall’altra. Proprietà morfologiche che riguardano sia la struttura morfologica delle parole formate da più morfemi, sia il
comportamento morfologico delle parole all’interno delle frasi (ad es. ‘rosa’ è aggettivo invariabile e in quanto tale resterà
sempre immutato nel genere e nel numero). Infine la classe lessicale, che si evidenzia sia nel comportamento sintattico sia
in quello morfologico delle parole. Per quanto riguarda il comportamento sintattico, in base alla classe di appartenenza
una parola ammette intorno a sé alcuni contesti e ne esclude altri (ad es. N può essere preceduto da un articolo,
accompagnato da A ma non modificato da Avv). Per quanto riguarda il comportamento morfologico, in base alla classe di
appartenenza una parola può avere delle modificazioni morfologiche mentre un’altra no (ad es. V può essere flesso per il
tempo, mentre N no). Molte parole possono avere diverse classi lessicali: ad es. ‘ho un dubbio atroce’ (N), ‘il caso è
dubbio’ (A). L’ipotesi più accreditata per questi casi è che ogni parola abbia una classe lessicale di default, ma tramite il
processo morfologico di conversione (o suffissazione zero) può acquisire diversi usi secondari a seconda del contesto.
Ci sono delle parole che hanno due proprietà in più: sono i PREDICATI, che hanno la funzione di dire qualcosa a proposito
dei referenti indicati dalle altre parole. Proprietà di richiedere attorno a sé degli argomenti per completare il proprio
significato: l’argomento è un elemento indispensabile nella frase, non può essere omesso perché altrimenti la frase
risulterebbe incompleta da un punto di vista semantico. Questa proprietà deriva da una caratteristica semantica dei verbi
stessi: quella di essere elementi che predicano, cioè dicono qualcosa di altri elementi. L’informazione lessicale in questo
caso specifica lo schema minimo di argomenti necessario (struttura argomentale). Aktionsart, cioè il modo in cui gli
argomenti presentano l’evento in relazione alle fasi temporali che lo costituiscono.

Lez.16 Categorie grammaticali dei nominali


Il significato grammaticale: Le parole lessicali, o parole-contenuto, hanno un significato autonomo (anche se staccate
dalla frase hanno un loro significato), le parole grammaticali, o parole-funzione, hanno un significato legato alle parole-
contenuto con cui interagiscono. In diacronia, nel lessico di una lingua entrano parole- contenuto più spesso di quanto
si pensi (computer, software ecc.), mentre l’ingresso delle parole-funzione è molto più raro e lento. Il rapporto tra
grammatica e lessico può modificarsi ridistribuendo il contenuto nelle due direzioni. Si rende allora lessicale ciò che era
solo grammaticale (lesicalizzazione) o, viceversa, grammaticale ciò che era lessicale (grammaticalizzazione). Questo
secondo è, ad esempio, il caso dei verbi ausiliari che ‘aiutano’ la coniugazione. Quando servono a formare i verbi
composti (‘io ho mangiato’, ‘io sono andato’), essi perdono il loro contenuto semantico e ne assumono uno
grammaticale, diventano cioè parole-funzione. Oltre che dalle parole-funzione, il significato grammaticale è espresso
anche da strutture sintattiche, da morfemi grammaticali e, a volte, persino lessicalmente. Ad esempio, la nozione
grammaticale di genere è espressa in italiano da morfemi grammaticali specifici: nelle parole ‘gatt-o’, ‘gatt-a’, i morfemi
grammaticali indicano il genere e il numero, m. s. il primo e f. s. il secondo.In inglese, invece, la nozione grammaticale
di genere è espressa lessicalmente: ‘the cat ’, ‘the she-cat ’. Il genere nominale in inglese non è quindi
grammaticalizzato ma lessicalizzato. Per i diversi tipi di significati grammaticali, spesso associati a N o a V, è invalsa la
denominazione di categorie grammaticali.
CATEGORIE GRAMMATICALI: La parola ‘categoria’ viene dal vocabolario filosofico aristotelico. Le categorie
grammaticali, in particolare, sono le entità nozionali di: Persona, Numero, Genere, Caso, Tempo, Aspetto, Modalità e
Modo, Diatesi. Si tratta di classi di opzioni grammaticali complementari e omogenee. Le opzioni che fanno parte di una
stessa categoria sono complementari nel senso che, se si sceglie un’opzione in una parola, automaticamente si
escludono, per la stessa parola, tutte le possibili altre. Ad es., se per una parola si decide di usare il singolare, non si può
usare contemporaneamente il plurale. Al contrario, però, una parola può essere nello stesso tempo, ad es., singolare e
femminile (es. casa). Le due opzioni non sono di fatto complementari, perché appartengono a due categorie diverse,
rispettivamente Numero e Genere. Le opzioni che fanno parte di una stessa categoria sono anche omogenee perché
codificano una stessa nozione grammaticale. Ad es., singolare e femminile non sono omogenee perché non sono
entrambe né della classe Numero né di quella Genere. Le categorie grammaticali possono essere coperte o scoperte
(secondo B. L. Whorf). Una categoria grammaticale, che è l’associazione di una porzione di contenuto a una forma, è
scoperta se l’opzione grammaticale (il contenuto) ha un corrispondente sul piano dell’espressione (la forma), è invece
coperta se non ce l’ha. Ad es., in italiano la categoria del Numero generalmente è scoperta perché viene espressa da
morfemi specifici:‘ragazz-o’ vs ‘ragazz-i’. Non mancano però le eccezioni: sg. e pl. ‘crisi’.Allo stesso modo, in inglese la
categoria Genere è quasi completamente coperta. Di quasi nessun Nome si può dire se sia m. o f. (e non serve farlo) a
meno che il nome in questione non sia ripreso da un pronome personale al sg. in cui si può fare una distinzione di
genere (he, she, it). Le categorie grammaticali possono essere sistematiche o isolate. Le categorie sono sistematiche se
si applicano a tutte o quasi tutte le forme di una classe lessicale, sono isolate se si applicano solo ad alcune di esse. Ad
es., in italiano il Caso è una categoria isolata, perché non riguarda tutte le forme (come era per il latino o per il greco
antico). Residui di Caso si trovano in italiano solo nei pronomi personali e nei pronomi relativi. Allo stesso modo,
l’inglese ha una categoria isolata di Caso, che riguarda i pronomi relativi e gli interrogativi (ad es. it. ‘che’ = ingl. ‘who’
caso del soggetto e ‘whom’ caso del non-soggetto). I diversi tipi di categorie, coperte vs scoperte e sistematiche vs
isolate, possono incrociarsi tra di loro creando quattro combinazioni: coperte sistematiche, scoperte sistematiche,
coperte isolate, scoperte isolate.
CATEGORIA PERSONA: La categoria Persona serve a indicare, durante l’enunciazione, chi è l’emittente e chi è il
ricevente del messaggio. Per cui, l’’emittente, quando prende la parola, chiama se stesso ‘io’. L’enunciato è sempre
diretto a un ricevente (reale o ideale), che l’emittente chiama ‘tu’. Emittente e ricevente sono i soggetti
dell’enunciazione e devono necessariamente essere persone, motivo per cui ‘io’ e ‘tu’ designano esseri umani in tutte
le lingue. Designano animali o oggetti solo nelle fiabe. Quindi 1° e 2° persona sono universali linguistici perché sono
indispensabili perché ci sia un’enunciazione. Non si conosce lingua che non abbia parole particolari per designare
emittente e ricevente. L’emittente chiama se stesso ‘io’ finché parla a un ricevente ‘tu’; appena la parola passa al
ricevente, ci sarà un’inversione. Si avrà così un continuo passaggio da ‘io’ a ‘tu’ nel corso di una conversazione. Mentre
la 1° e 2° pers. designano persone, vere e proprie, presenti nell’enunciazione, la 3° pers., invece, non deve essere
necessariamente presente. Per questo motivo la 3° pers. spesso non ha forme specifiche come ‘io’ e ‘tu’. Spesso il
pronome di 3° pers. deriva da pronomi dimostrativi. Inoltre, solo il pronome di 3° pers. può cambiare genere (m., f., n.).
La categoria Persona si interseca con la categoria Numero. I pronomi personali variano infatti nel numero. In it. ‘voi’ è il
pl. di ‘tu’, perché i riceventi possono essere contemporaneamente più di uno (tu + tu + tu..). ‘Noi’, però, non è pl. di ‘io’
perché il parlante è uno solo, a meno che a parlare non sia un coro. Di conseguenza, ‘noi’ significa ‘io’ + qualcun altro
che non parla nello stesso momento. Per questo motivo in molte lingue i pl. dei pron. pers. vengono usati per
esprimere ‘referenza’, come per es. quando si da’ del Voi. Allo stesso modo, darsi del ‘noi’ quando si parla significa
fingere che il parlante non sia uno solo, in modo da aumentarne l’importanza (plurale maiestatis), oppure serve a
umiliarsi in modo simbolico (plurale modestiae): in questo caso il singolo parlante scompare inghiottito nel gruppo di
molti altri parlanti immaginari. Quando si usa il ‘lei’ al posto del ‘tu’, si finge che l’interlocutore sia talmente importante
che non ci si può rivolgere a lui direttamente. Se ne simula così l’assenza impiegando la 3apers. come forma di rispetto.

CATEGORIA GENERE: La categoria Genere riguarda soprattutto i nomi e i nominali. All’interno della categoria Genere, si
possono distinguere m., f. e n. a seconda delle lingue. Il Genere può essere coperto o scoperto, e riguarda in diversa
misura anche gli elementi che accompagnano il N (articolo e aggettivo in italiano, seconde persone del verbo in arabo e
nel russo parlato). La nozione di genere proviene dalla grammatica antica. Questa si basava sul greco e sul latino che,
accanto a m. e f., avevano il n., intermedio rispetto ai primi due e relativo a entità inanimate. Non sempre, però, il
genere grammaticale e quello naturale coincidono. Ad es., in tedesco ‘das Kind’ è di genere neutro e vale ‘bambino’ o
‘bambina’. Alla base del pensiero primitivo c’era il bisogno di creare un ordine e di stabilire corrispondenze tra
significato e significante. Nel corso della storia molte di queste corrispondenze hanno subito modifiche, cambiando
anche l’ordine con cui le cose si presentavano all’origine. Di conseguenza, in tutte le lingue si trovano alcune aree
apparentemente iconiche, ma molte altre assolutamente imprevedibili. Ad es., nel passaggio dal latino alle lingue
romanze, il n. è scomparso, mentre m. e f. si sono ridistribuiti casualmente. Di conseguenza, oggi la coincidenza tra
genere naturale e genere grammaticale è sporadica e presenta molti casi dubbi (‘il soprano’). Rispetto al Genere le
lingue si comportano in modo diverso. 1.Ci sono lingue che, come l’inglese, non hanno marche che permettono di
distinguere un N m. da uno f., e in cui Art. e A non si accordano al N. Il Genere, però, non manca ma è coperto, come si
può vedere nelle riprese anaforiche.2. Ci sono lingue che, come quelle romanze, hanno solo m. e f.; in queste lingue
spesso il genere di ciò che non è ‘femmina’ o ‘maschio’ è immotivato. La corrispondenza, però, non è perfetta: ci sono
casi di rovesciamento di genere (it. ‘soprano’), di un genere unico per i due sessi (la ‘tigre’) e di parole che non hanno
marca di genere (it. il/la ‘francese’). In questi casi il genere naturale è espresso con l’aggiunta di altro materiale
lessicale: ‘la tigre femmina’, ‘la francese’. 3. Lingue in cui l’opposizione di genere è molto più articolata, come lo swaili,
dotato di speciali prefissi che aggiungono al N un’idea precisa (m- e mi- riguardano entità viventi o mobili non umane:
m-to = fiume).
CATEGORIA NUMERO: La categoria Numero, oltre a indicare le quantità, si intreccia con valori semantici e logici.
L’opposizione più semplice è quella singolare (ciò che è uno) vs plurale (ciò che è più di uno). Per esplicitare le esatte
quantità si usano i numerali. Quindi al numero sono connessi i quantificatori definiti (numerali e sintagmi del tipo ‘un
paio di’, ‘una dozzina’ ecc.) o indefiniti (‘qualche’, ‘alcuni’ ecc.) che, associati al numero grammaticale, a volte possono
produrre effetti strani (qualche + N s. = p. ‘qualche libro’). Rispetto al Numero, le lingue si comportano in vario modo. 1.
Ci sono lingue che oppongono solo singolare a plurale. Dal punto di vista morfologico il sg. si distingue dal pl. o con un
morfema apposito (it. ‘libr-o/libr-i’, lat. ‘ros-a/ros-ae ’) o con un morfo Ø (ingl. ‘dog/dog-s ’).2. Ci sono lingue che hanno
anche il duale, che indica entità che si presentano in coppia. All’origine del duale probabilmente c’erano le entità che si
presentavano sempre in coppia, per es. occhi, mani, piedi ecc.3. Ci sono lingue che hanno anche il triale (usato per
gruppi di tre entità) o il paucale (che indica morfologicamente gruppi di poche entità, col significato di “qualche”). Nel
lessico di una lingua vi sono in genere tre classi di nomi: nomi numerabili, che possono essere ‘contati’, possono essere
preceduti da un quantificatore e avere il plurale; nomi di massa, che indicano una massa indistinta di materia (latte,
farina, zucchero, acqua ecc.), possono avere solo un quantificatore indefinito (‘un po’ di latte’ ecc.), ma non hanno
plurale; nomi collettivi, che indicano un gruppo di numerose entità singole (stormo, gregge, folla, mandria ecc.) e
possono avere il plurale. Alcune parole, i N astratti (‘cattiveria’, ‘gentilezza’, ‘crudeltà’ ecc.), hanno un plurale
numerabile, ma il singolare può essere sia numerabile sia di massa. ‘È una persona di grande cattiveria’ (massa), ‘mi ha
fatto molte cattiverie’ (numerabile, col significato di ‘atto di cattiveria’). Le lingue rendono ‘numerabili’ i N in modalità
diverse. In ingl., per es., N come ‘research ’ o ‘information ’ non sono numerabili e non ammettono il plurale. Per
“prelevare” una parte di informazione si deve dire ‘a piece of ’, ‘two pieces of ’ ecc.
CATEGORIA CASO: La categoria Caso ha lo scopo di marcare delle funzioni grammaticali, cioè elementi come il
Soggetto, il Predicato o i Complementi, che rappresentano i posti vuoti di cui un enunciato si compone. Il materiale che
riempie i posti ha un ruolo ben preciso dentro l’enunciato. Ad es., il posto di Soggetto può essere occupato dai
nominali, cioè N, Pron. o altri elementi (A, infiniti sostantivati ecc.) che si comportano come i N. Le funzioni
grammaticali sono legate alle parti del discorso (N, V, A ecc.): i Nominali possono occupare il posto di Soggetto o di
Complemento, il V di Predicato. La funzione grammaticale, però, è provvisoria [‘Elisa (Sogg.) ti chiama’, ‘ho visto Elisa
(Compl.)’], mentre la parte del discorso è stabile (Elisa è sempre N). I casi sono stati classificati dai grammatici greci e
latini, e ancora oggi noi utilizziamo i termini da loro coniati. Il primo caso, quello del Soggetto, è il nominativo,
tradizionalmente considerato come prioritario sugli altri, tanto da essere sempre elencato per primo nei paradigmi
flessionali. Il caso che marca la funzione grammaticale di Complemento Oggetto è l’accusativo. Nominativo e accusativo
sono casi cardinali, costituiscono cioè il nucleo fondamentale nei sistemi di caso. Anche l’ergativo, nelle lingue che
l’hanno, marca la funzione grammaticale di Soggetto dei V transitivi, mentre l’assolutivo quella di Soggetto dei V
intransitivi. Gli altri casi, invece, hanno la funzione di legare l’enunciato al contesto rinviando alla dimensione
extralinguistica. Per cui, Il genitivo, Complemento di Specificazione, esprime una relazione. Il dativo, Complemento di
termine, in genere marca il destinatario di un’azione. Lo strumentale indica lo strumento con cui si compie un’azione.
Da una lingua all’altra i singoli casi possono avere anche altre funzioni oltre a quelle principali. Vi sono altri casi che
designano una localizzazione spaziale nel senso dei cosiddetti complementi di Stato in Luogo, Moto a Luogo, Moto da
Luogo ecc., che evidenziano un’organizzazione dello spazio, molto strutturata, a partire dalla quale il parlante si trova
nel momento dell’enunciazione. In italiano non esiste differenza di casi, tranne che nei clitici e nei pronomi relativi. I
clitici (enclitici e proclitici) sono pronomi personali atoni che ricorrono in determinati contesti. ‘Me, mi’, ‘te, ti’ ecc.
hanno la funzione di Complemento Oggetto e Complemento Indiretto. ‘Mi ha chiamato Elisa’ o ‘Elisa ha chiamato me’,
ma mai ‘*me chiamo Elisa’. Allo stesso modo il ‘che’ relativo svolge esclusivamente la funzione di Soggetto o
Complemento Oggetto. ‘Ho ascoltato il cd che (Complemento Oggetto) hai comprato’ o ‘questo è il professore che
(Soggetto) farà lezione oggi’.

Lez.17 Le categorie grammaticali dei verbi


Le categorie grammaticali sono le entità nozionali di Persona, Numero, Genere, Caso, tipiche quasi esclusivamente dei
nominali, Tempo, Aspetto, Modalità e Modo, Diatesi proprie dei verbi.
CATEGORIA TEMPO: Tramite gli enunciati, gli eventi vengono collocati in vari punti del tempo. ‘Domani porterò la
macchina dal meccanico’. ‘Ieri ho portato la macchina dal meccanico’. I verbi ‘porterò’ e ‘ho portato’ localizzano
l’evento nel futuro e nel passato rispetto al momento in cui l’emittente parla. Di conseguenza, il tempo coinvolge due
livelli: il punto dell’enunciazione, in cui l’emittente produce l’enunciato; il punto dell’evento, in cui ha luogo l’evento di
cui si parla. Per cui: il presente indica che punto dell’enunciazione e punto dell’evento coincidono; il passato si sceglie
quando il punto dell’evento viene prima di quello dell’enunciazione; il futuro si usa quando il punto dell’evento viene
dopo quello dell’enunciazione. Questo “sistema ideale” funziona per parlare di un evento alla volta. Quando gli eventi
sono più di uno, questi vanno collocati nel tempo in relazione l’uno all’altro. ‘[Ha avuto un incidente]A ed [è finito in
ospedale]B’. A e B sono entrambi nel passato, ma A si riferisce ad un evento anteriore rispetto a B e viene perciò detto
prima di B. Ad ogni modo, studi specifici mostrano che l’opposizione di tempo più importante non è presente vs
passato vs futuro, ma passato vs non-passato (‘Domani chiamo la dottoressa’ è in futuro ma uso il presente). Infatti,
nelle diverse lingue è in genere presente una forma specifica per realizzare il passato, mentre il non-passato spesso
indica sia il presente sia il futuro. Inoltre, molte lingue non hanno una forma specifica per il futuro, e lo rendono con
forme perifrastiche. Ad es ingl. ‘I will read’ (lett. ‘io voglio leggere’). In molte lingue il futuro ha pertanto uno statuto
debole, mentre il passato ne ha uno forte. Oltretutto, il presente è spesso usato per fare un’asserzione atemporale: ‘la
calma è la virtù dei forti’. Inoltre, le lingue si differenziano anche per il grado di distanza di un evento rispetto al punto
di enunciazione può essere indicato in modo più o meno preciso a seconda della lingua. Ad es. in it. il passato prossimo
indica una distanza minore (‘ieri ho incontrato Elisa’), mentre il passato remoto una maggiore (‘nel 2011 feci un bel
viaggio in India’). Nel francese d’oggi questa differenza si è neutralizzata.
CATEGORIA ASPETTO: L’aspetto verbale indica il modo in cui un evento espresso dal verbo è presentato in base a
diversi parametri legati alla dimensione temporale. ‘Elisa dorme’ vs ‘Elisa si addormenta’: ‘dorme’ indica un processo
già iniziato e con una certa durata, ‘si addormenta’ indica l’inizio del processo. ‘Luca ha cercato la chiave’ vs ‘Luca ha
trovato la chiave’: ‘ha cercato’ indica un processo in corso e con una durata, ‘ha trovato’ indica il punto finale di un
processo. L’aspetto indica quindi il modo in cui il processo indicato da un verbo viene descritto dal verbo stesso. I tipi di
aspetto sono numerosi, ma tutti prendono in considerazione tre fasi di un evento: l’inizio (I), lo sviluppo (S) e il termine
(T). Su ogni fase si possono compiere delle operazioni, ad es.: co-occorrenza di I, S e T, evento visto nella globalità;
neutralizzazione di una o due delle tre fasi; focalizzazione di una o due delle tre fasi; iterazione di una o due delle tre
fasi, evento visto come costituito da vari momenti che si susseguono. Sulla base di queste operazioni si ‘creano’ i tipi
aspettuali più importanti: perfettivo, I, S e T co-occorrono (es. ‘sono andato negli USA’); permanente, I si neutralizza (es.
‘la scritta si vede male’); puntuale, S si neutralizza e la durata è ridotta a un solo momento (es., ‘esplodere’);
imperfettivo, T si neutralizza (es. ‘sto mangiando’); incoativo, focalizzazione di I (es. ‘arrossire’); risultativi dell’evento
verso a un punto finale in cui l’evento si conclude (es. ‘svuotare’); intensivo, focalizzazione su I, S e T (es. ‘accecava’);
iterativo, ripetizione delle singole fasi dell’evento (es. ‘mangia sempre le stesse cose’). Chiaramente le lingue decidono
in maniera autonoma come rendere le differenze aspettuali, a volte grammaticalizzandole altre lessicalizzandole.
L’italiano fa entrambe le cose. La differenza più importante a livello aspettuale contrappone il perfettivo
all’imperfettivo. Il perfettivo descrive l’evento come concluso, enfatizzando T. L’imperfettivo cancella T o, al più, non
dice se l’evento è terminato o no. Oggi il perfettivo equivale più o meno alle diverse varietà di passato dell’italiano,
mentre l’imperfettivo al presente e al futuro.

CATEGORIE MODALITÀ E MODO: Gli enunciati esprimono gli atteggiamenti del parlante nei confronti di ciò che dice.
‘Sono le 10’ è un’asserzione di cui può essere provata la verità o la falsità. ‘Chiudi la finestra!’ è un ordine e non può
esserne provata la verità o la falsità. La categoria Modalità indica quindi le rese linguistiche degli atteggiamenti del
parlante verso un evento o verso ciò che dice. Il modo usato nelle asserzioni è l’indicativo che non serve però solo ad
asserire. È un modo non marcato, che presenta l’evento come vero senza specificare in alcun modo l’atteggiamento del
parlante, è un modo neutro. Le non asserzioni, invece, hanno diverse rese a seconda della lingua. Gli ordini sono
espressi con un modo specifico imperativo, che in genere ha solo le seconde. Le domande non hanno sempre un modo
apposito, perché il parlante le fa per ottenere un valore di verità. Le altre modalità si basano su tre assi: certezza,
possibilità e augurio. Le diverse lingue decidono poi se renderle grammaticali o no. La modalità si presenta
diversamente nelle lingue. Alcune di esse aggiungono a V dei morfemi appositi che ne modificano il significato. Altre
creano interi paradigmi di flessioni specializzate, i modi, per esprimere le diverse modalità. Inoltre, la maggior parte
delle lingue d’Europa ha i modi indicativo, congiuntivo, infinito, condizionale e così via. Un caso a parte è l’inglese che
ha praticamente solo il modo indicativo. In inglese il congiuntivo è di uso raro, il condizionale è perifrastico (‘I would go’
= ‘io andrei’, lett. ‘io volevo andare’) e l’imperativo ha un’unica forma uguale all’infinito senza to (‘shut up! ’ = ‘stai
zitto!’). In inglese, dunque, le distinzioni di modalità si fanno lessicalmente con verbi appositi, i cosiddetti modali. I modi
possono essere di numero diverso a seconda delle lingue, e hanno anche un ruolo sintattico importante. In italiano, ad
esempio, il congiuntivo spesso marca anche le frasi dipendenti rispetto alla principale: ‘spero che tu venga’. Oltretutto,
congiuntivo e condizionale in frasi dipendenti perdono un po’ la capacità di segnalare il tempo. In questi casi, infatti, la
localizzazione temporale si basa anche sulle relazioni tra i modi dei verbi. ‘[Spero]A che [venga]B’: B è contemporaneo o
successivo a A. ‘[Spero]A che [sia venuto]B’: B è antecedente ad A. ‘[Spero]A che [verrà]B’: B è successivo ad A. Può
succedere anche l’inverso, cioè che forme ‘temporali’ marchino differenze di modalità: ‘avrai letto l’ultimo libro di
Camilleri’ indica non il tempo futuro ma la possibilità.
CATEGORIA DIATESI: Il termine diatesi significa "disposizione, stato d’animo“. La più importante opposizione riguarda
quella tra attivo e passivo: ‘io mangio la mela’; ‘la mela è mangiata da me’. La relazione tra le due frasi è sintattica:
l’oggetto del predicato attivo è coreferente del soggetto di quello passivo; il soggetto dell’attivo è complemento
d’agente del passivo. La resa della diatesi varia nelle singole lingue. In italiano il passivo si ottiene combinando il verbo
principale transitivo con forme del verbo essere. Dal punto di vista semantico, i termini ‘attivo’ e ‘passivo’ sembrano
sottintendere delle relazioni con ‘agire’ e ‘patire’. Ma studi recenti hanno messo in luce 2 caratteristiche fondamentali:
1. In realtà, la funzione del passivo non è quella di segnalare il paziente di un’azione, ma di occultare colui che agisce,
cioè l’attore dell’azione stessa (‘La mela è stata mangiata’: non importa da chi). Il motivo dell’occultamento è che
l’attore o è sconosciuto o è considerato di scarso rilievo ai fini dell’azione. Nelle lingue che hanno la diatesi, poi,
esprimere l’attore al passivo con un complemento d’agente non è obbligatorio. 2. Altra funzione del passivo è quella di
dare rilievo all’azione. Assieme all’attivo e al passivo, alcune lingue hanno anche il medio grammaticalizzato. Il medio
indica dei verbi che hanno una forma passiva ma un significato attivo. Nel medio l’azione del verbo è incentrata
sull’attore o lo coinvolge direttamente. Molto probabilmente, in lingue come italiano o spagnolo esiste il medio non
grammaticalizzato reso con un uso pronominale del V: ‘stasera mi faccio la pizza’. Cmq, la distinzione tra attivo e
passivo a volte si trova in modo coperto. ‘Ho sentito chiamare i ragazzi’ può significare: ‘i ragazzi hanno chiamato’; ‘i
ragazzi sono stati chiamati’. Nel primo caso ‘i ragazzi’ sono soggetto di frase attiva, nel secondo soggetto di frase
passiva.

lez.18 La semantica: è lo studio del significato di cui sono portatrici le lingue.


TIPI DI SIGNIFICATO: Le lingue utilizzano diversi tipi di significato: se diciamo per es. ‘cane’ designa qualcosa di
percepibile con i sensi; ‘pazienza’ indica qualcosa di non percepibile; ‘con’ ha un significato relazionale legato al testo.
Inoltre, i significati delle singole parole hanno dei collegamenti specifici: ‘colombo’ e ‘aquila’ sono semanticamente
affini perché appartengono ala categoria uccelli, mentre ‘colombo’ e ‘computer’ no. Di conseguenza, possiamo dire che
alcune parole hanno legami semantici più o meno stretti, mentre altre no. Queste differenze di significato si registrano
poi anche a livello degli enunciati. Chiaramente noi costruiamo gli enunciati a partire dal significato delle parole, ma il
significato degli enunciati non è dato quasi mai dalla somma di quello delle singole parole. Quindi la semantica frasale
si occupa di come il significato delle frasi si formi a partire da quello delle parole. il contesto in cui si trova una parola
influenza il significato della frase. Perché le parole prendono in genere un diverso significato in relazione al contesto in
cui si trovano. Per questa loro caratteristica esse sono dette polisemiche. La semantica lessicale si occupa dei morfemi
lessicali o lessemi, che hanno un significato proprio, detto significato lessicale, che può essere descritto. Però se in un
enunciato togliamo tutti i morfemi lessicali, otteniamo una sorta di struttura astratta indipendente, portatrice di un
significato strutturale, indipendente. ‘L’attrice ha sposato il cantante’ se tolgo i morfemi diventa ‘la _trice ha___to il
nte’. Il significato della struttura astratta all’incirca è: l’agente, femminile e singolare, ha svolto nel passato un’azione,
che è ormai conclusa, su un beneficiario anch’esso singolare. Il significato autonomo degli elementi della struttura
astratta è studiato dalla semantica strutturale.
CONTESTO: è ciò che circonda una parola e può essere linguistico e situazionale. Contesto linguistico, che si divide in:
contesto sintattico, collegato alle proprietà sintattiche degli elementi posti vicino ad una parola, può essere nominale,
verbale, aggettivale ecc; contesto semantico, riferibile alle proprietà semantiche degli elementi posti vicino ad una
determinata parola. Nel combinarsi tra loro, infatti, i significati delle parole si influenzano a vicenda: ad es., ‘lanciare
una penna’ (= tirare), ‘lanciare un messaggio’ (= indirizzare a). Lanciare quindi ha significati differenti in base al
contesto. Il contesto situazionale o pragmatico, connesso alla situazione comunicativa in cui l’enunciato è utilizzato: ad
es., nella frase ‘Luca è davvero forte’ solo il contesto situazionale può disambiguare ‘forte’.
AMBIGUITÀ LESSICALE: Ogni forma lessicale può avere più di un significato. Questa proprietà delle parole è legata al
fatto che le lingue sono ‘economiche’, cioè utilizzano lo stesso materiale per scopi diversi. Secondo Weinreich (1964),
l’ambiguità può essere di due tipi: contrastiva e complementare. L’ambiguità contrastiva, omonimia, si crea quando
una parola ha due o più significati diversi non correlati tra loro: ‘stagno’ è sia un metallo sia una distesa d’acqua, dolce
o salmastra. poco profonda e paludosa. Si chiama ambiguità contrastiva perché i significati sono contraddittori e si
escludono a vicenda nello stesso contesto. Ad es., di uno stagno non posso dire che è ‘malleabile’ e ‘profondo’ nello
stesso tempo, perché il primo aggettivo modifica il significato di metallo, il secondo quello di distesa d’acqua.
L’ambiguità complementare, polisemia, si crea quando una parola ha più significati, che si sviluppano dallo stesso
significato di base in diversi contesti. In questo caso, i vari significati della parola polisemica sono correlati tra di loro.
Ad es., la parola ‘albero’ indica la pianta, l’asta che tiene le vele in una nave, uno schema grafico ramificato che indica
rapporti di derivazione. Le parole più polisemiche in assoluto sono i verbi, molto probabilmente perché il loro
significato viene completato dagli argomenti che li possono accompagnare. Ad es., ‘perdere’: ‘ho perso (= smarrito) il
portafoglio’; ‘il motore perde (= lasciar fuoriuscire) olio’; ‘l’oro sta perdendo (= diminuire in una caratteristica o qualità)
di valore’; ‘la società continua a perdere (= subire perdite economiche). /La polisemia sembra casuale, ma in realtà si
possono trovare alternanze sistematiche di significato. Alcune alternanze sono il risultato di procedimenti noti e
studiati fin dall’antichità: sineddoche, metonimia, metafora. La metonimia è quel procedimento attraverso cui il
significato di una parola si estende per contiguità con un altro, che ha con il primo una relazione di vicinanza. Ci sono
vari tipi di metonimia: il contenitore per il contenuto: ‘ho bevuto un bicchiere’; l’autore per l’opera: ‘ho letto tutto
Manzoni’; l’astratto per il concreto: ‘confido nell’amicizia (= gli amici)’; il concreto per l’astratto: ‘segui il tuo cuore (=
sentimenti)’. La sineddoche si realizza sostituendo un’entità con un’altra contigua, logicamente o fisicamente, alla
prima. È caratterizzata da: il tutto per la parte: ‘America’ invece di ‘Stati Uniti d’America’; il genere per la specie: ‘felino’
al posto di ‘gatto’; il singolare per il plurale: ‘l’italiano all’estero’. La metafora serve a espandere il significato delle
parole, che viene reinterpretato individuando un’affinità tra due situazioni. Di conseguenza la parola viene usata, in
senso figurato, in un contesto diverso dal solito. Per comprendere il significato metaforico bisogna avere delle
conoscenze extralinguistiche su ciò a cui si riferisce la parola da cui si è partiti. La metafora è molto più usata di quanto
si creda, soprattutto per quanto riguarda i verbi, il cui significato è strettamente legato agli argomenti che li
accompagnano: ‘Il lupo ha sbranato (= divorare dilaniando) la pecora; Se lo vedo, lo sbrano (= fare a pezzi)’. La
polisemia verbale è data anche da un processo di cancellazione o aggiunta di specifici tratti di significato. Un esempio
sono i verbi che hanno sia un significato causativo sia uno non causativo. ‘Il medico ha guarito (= ha fatto guarire) il
paziente’ (causativo). ‘Luca è guarito’ (non causativo). La polisemia verbale, dunque, si può esprimere con la sola
variazione di significato (come con ‘sbranare’), o con un cambiamento di struttura sintattica o argomentale (come con
‘guarire’). Metonimia, sineddoche e metafora sono dunque dei procedimenti che possono agire su qualsiasi elemento
del lessico. Ottenuti con tali procedimenti, alcuni di questi significati si lessicalizzano, entrano cioè stabilmente a far
parte del lessico, altri no. Oltre a questi procedimenti, alcuni studiosi hanno proposto di distinguere l’ambiguità e la
polisemia dalla vaghezza. La vaghezza si riferisce alle parole che non hanno un significato ben definito nei suoi confini.
Un esempio sono i nomi delle fasce d’età: ‘bambino, adolescente, ragazzo, giovane, adulto, anziano, vecchio’ che non
chiariscono l’esatta età della persona di cui si parla.

CALCOLO DEL SIGNIFICATO: Capire come si formi il significato delle frasi a partire da quello delle singole parole è lo
scopo della semantica frasale. Due problemi riguardano il calcolo del significato: la polisemia delle parole e la
contestualità del significato. Uno dei principi più importanti per il calcolo del significato è il principio di
composizionalità che dice che il significato di un enunciato deriva dal significato delle singole parole che lo
compongono, purché non siano violate le restrizioni degli elementi lessicali stessi. ‘Il cane mangia la carne’ vs ‘*Il cane
legge il libro’: la seconda frase viola le restrizioni di ‘leggere’ che vuole un soggetto [+umano], quindi semanticamente
non è corretta, mentre la prima sì. Quindi secondo il principio di composizionalità il significato degli enunciati può
essere “calcolato” a partire da quello delle loro singole parti. Il problema però si pone quando gli enunciati diventano
sempre più complessi. [Inoltre, vi sono dei casi in cui il significato degli enunciati non è calcolabile, non basta cioè
conoscere il significato delle singole parole. Si tratta degli idioms e degli enunciati dotati di forza pragmatica. Gli
idioms sono di tre tipi: cristallizzati, cioè proverbi, aforismi ecc; sintagmi fissi come ‘farla finita’, ‘stinco di santo’, ‘tavola
rotonda’, ‘partire in quarta’ ecc; Situazionali, cioè espressioni momentanee che il parlante crea sul momento e poi non
usa più: ‘quando dico “vai” tu solleva dal tuo lato’, in cui il significato intensionale di ‘vai’ è trascurato. Gli idioms sono
molto usati in tutte le lingue, e il loro significato non è dato dalla somma di quelli delle singole parole. Vi sono degli
enunciati che hanno una precisa forza pragmatica, che non si può dedurre dal significato delle singole parti. ‘Ma che
stai dicendo?’, ‘chi credi di essere?’, ‘chi ti conosce?’, ‘chi lo dice?’, ‘ma smettila!’ e così via. Se si rispondesse in modo
letterale a questi enunciati si commetterebbe un errore comunicativo, perché non sono utilizzati per il loro significato
ma per la forza pragmatica.] Il principio di composizionalità si confronta inoltre con il problema della polisemia: non si
può stabilire quale significato deve avere una parola polisemica estrapolata dal contesto. ‘Un caro amico’ vs ‘quel
negozio è caro (= costoso)’. Per cercare di risolvere i problemi dati dal principio di composizionalità si è pensato a due
soluzioni. 1. La teoria lessicale basata sull’enumerazione dei sensi sostiene che i vari significati di una parola polisemica
sono tutti presenti nella parola stessa. La parola polisemica avrebbe pertanto al suo interno tutta una serie di significati,
ognuno dei quali è accompagnato da diverse restrizioni che specificano in quali contesti si attivano i singoli significati. 2.
La teoria basata su una concezione dinamica del significato lessicale sostiene che un lessico in cui ogni parola ha lunghe
liste di significati è antieconomico, incompleto e inadeguato, perché i confini dei significati sono troppo rigidi e non si
possono memorizzare. Le parole sono invece permeabili, e dall’interazione dei loro significati nasce il significato della
frase. Pustejovsky (1995) ritiene che oltre a quello della composizionalità bisogna postulare altri tre principi. Questi si
attivano quando le parole si combinano tra loro sviluppando il loro significato contestuale. Il principio di co-
composizione riguarda il rapporto tra verbo e complementi. Ogni V ha un suo significato di base non variabile e a
questo si uniscono i significati che nel contesto sono dati dai suoi argomenti. Il risultato è che il V sviluppa nuovi
significati nati dalla combinazione delle parole. I nuovi significati non vengono semplicemente aggiunti, ma è il
significato di V che viene ridefinito da quello dei suoi acquirenti. Ad es. ‘il ministero ha bandito (= annunciare con
avviso pubblico) un concorso’ vs ‘Dante è stato bandito (= esiliare) da Firenze’. Il principio di forzatura di tipo riguarda,
nel rapporto tra V e N, le modifiche di significato che N subisce a contatto con la semantica verbale. Nel caso di
‘iniziare’, ‘finire’ ecc. il complemento oggetto deve indicare un evento. ‘terminare gli studi (= l’attività di studiare)’. Il
principio di forzatura di tipo riguarda anche le Preposizioni temporali che, come i V, hanno bisogno di N con significato
eventivo. ‘Il caffè (= bevanda) è pronto’ vs ‘prima del caffè (= l’atto di bere il caffè) mi faccio la doccia’. La Preposizione
in questo caso forza il significato di N. Il principio di legamento selettivo considera in genere il rapporto di A con N. A in
questo caso seleziona e modifica solo una porzione del significato di N. L’A predicativo modificherà soltanto l’evento
presente nel significato di N, che a sua volta completa il significato di A: ‘è un bravo cantante (= canta bene)’, ‘è un
bravo attore (= recita bene)’, ‘è un bravo medico (= cura bene)’. Di conseguenza, significato di N e significato di A
interagiscono tra di loro. Da una parte A ha significati diversi in base ai diversi N che accompagna. Dall’altra N, in base
agli A con cui si combina, contribuisce a completarne il significato in base alla porzione di significato che l’A stesso
modifica. In conclusione il principio classico di composizionalità presupponeva, come si è detto, che le singole parole
avessero lunghe liste di significati già pronti all’uso. I tre principi appena analizzati, invece, propongono delle soluzioni
per spiegare come i significati delle parole, entità permeabili, si combinano tra loro.

1 9 . R e l a z i o n i p a r a d i g m a ti c h e t r a le p a r o l e
R E L A Z I O N I S I N T A G M A T I C H E E P A R A D I G M A T I C H E : Secondo Saussure, le relazioni possono essere di
due tipi: associative e sintagmatiche. Le relazioni associative o paradigmati che si instaurano tra due o più
elementi linguistici sulla base di un’associazione mentale. A livello lessicale l’associazione funziona
accostando le parole che condividono qualcosa, delle caratteristiche. Questo accostamento, fatto dai parlanti
di una lingua, può essere basato o sul signifi cante (la forma delle parole) o sul significato (il loro
contenuto). L’associazione basata sul significante crea gruppi di parole accomunati , ad es.,da uno stesso
morfema lessicale o da uno stesso suffi sso. ‘Frutto, frutteto, frutticoltura, frutti era, fruttifero, fruttivendolo,
fruttosio ecc.’, hanno in comune lo stesso morfema. ‘Amaramente, dolcemente, difficilmente, felicemente,
cordialmente ecc.’, hanno lo stesso suffisso. Queste associazioni legate alla forma possono essere anche
dovute a semplici somiglianze foniche, senza motivazioni morfologiche, come per es: ‘asso, masso, grasso,
passo ecc.’L’associazione fondata sul significato accumuna parole in base ad aspetti del loro significato.
‘Sedia, sgabello, poltrona, divano, bracciolo, cuscino, spalliera ecc.’. In questo caso tutti gli oggetti sono
accomunati dall’essere usati per sedersi. I sottotipi ‘bracciolo, cuscino, spalliera’ indicano le parti fi siche
di cui gli oggetti possono essere composti. Entrambi tipi di associazione hanno un ruolo preciso
nell’apprendimento delle lingue. Nelle prime fasi di apprendimento, infatti , il lessico di una lingua viene
memorizzato attraverso associazioni basate sul significante. Le relazioni sintagmatiche intercorrono tra gli
elementi linguistici quando questi si uniscono per formare unità linguistiche più complesse. Nel caso delle
parole, queste si uniscono per formare sintagmi e frasi. Una relazione sintagmatica è quella che lega
l’aggetti vo al nome in espressioni come ‘un vestito caro (= costoso)’ e ‘un amico caro’./La defi nizione di
relazione associativa può essere ristretta fino ad arrivare a precisare la nozione di relazione paradigmatica
di cui parla Hjelmslev. A livello lessicale questa si instaura tra parole che possono essere sostituite l’una
all’altra nella stessa posizione sintagmatica. ‘Ho mangiato la migliore _x__ della città’. In _x__ si possono
inserire parole come ‘pizza’, ‘pasta’ ecc. Di conseguenza, tutt e le parole che possono essere sosti tuite l’una
all’altra nello stesso contesto costi tuiscono un paradigma lessicale e sono in relazione paradigmatica. I
rapporti paradigmati ci sono inabsenti a, perché riguardano parole che non ricorrono
contemporaneamente, m a una in alternativa all’altra, nello stesso contesto./I rapporti sintagmati ci, che
intercorrono tra le parole di una lingua, costituiscono la dimensione sintagmati ca o orizzontale della lingua.
I rapporti sintagmati ci sono in praesenti a, perché riguardano le parole che compaiono in sequenza una
dopo l’altra. Tanto i rapporti paradigmati ci quanto quelli sintagmati ci riguardano elementi a tutti i livelli
della lingua. Quando si forma una frase si prendono elementi dall’asse paradigmati co (magazzino di
memoria) e li si combinano su quello sintagmati co, dove possono subire delle variazioni. Ad es., l’articolo
determinativo maschile singolare cambia forma in base ai foni iniziali della parola che segue (‘il ragazzo’, ‘lo
studio’, ‘l’orologio’). Allo stesso m o d o u n verbo si fl ett e nella persona e nel numero in relazione al
soggetto con cui si accorda. L’asse sintagmati co non si limita pertanto a ricevere materiali da quello
paradigmatico, ma agisce su di essi.
PRINCIPI D I O R D I N A M E N T O ( = r e l a z i o n i s e m a n ti c h e ) : Il lessico delle lingue non è composto da parole
isolate, ma è organizzato seguendo dei principi di ordinamento, cioè delle relazioni semantiche. Le
associazioni di parole basate sul significato sono di vario tipo. A livello paradigmatico, cioè a livello delle
sostituzioni possibili, si possono stabilire degli assi che rappresentano una possibile struttura del lessico. Un
asse riguarda le relazioni verticali o gerarchiche: una parola è sovraordinata, l’altra è sottordinata. Un altro
asse riguarda le relazioni orizzontali: le parole sono sullo stesso piano, m a stanno in rapporto o di
equivalenza o di opposizione l’una all’altra. Esistono diversi principi di ordinamento paradigmatici: 1.La
gradazione permett e di inserire alcune parole del lessico in una scala, i cui estremi sono rispetti vamente
il grado minimo e il grado massimo di una determinata proprietà. Ad es.: ‘gelido, freddo, fresco, tiepido, caldo,
bollente’; Le gradazioni possono però avere delle lacune: ad es., tra ‘grande’ e ‘grandissimo’ ci potrebbe
essere una gradazione intermedia, che però non è lessicalizzata in italiano. Le gradazioni sono inoltre
paradigmaticamente fragili, nel senso che alcune parole di una gradazione possono avere degli equivalenti:
ad es. ‘polare’ al posto di ‘gelido’. Nel caso di usi tecnici delle parole, si può decidere di regolarizzare una
scala in modo che non sia lacunosa né fragile. Ad es. la scala di valutazione scolastica è regolarizzata:
Quindi, le gradazioni lessicalizzate mostrano chiaramente che qualsiasi parola può diventare un termine
tecnico attraverso il semplice accordarsi dei parlanti sul significato.
2.L’iponimia e l’iperonimia sono relazioni gerarchiche che formano numerosi gruppi di parole in tutt e le
lingue del mondo e hanno un rendimento molto elevato. A è iponimo di B quando il suo significato è incluso
in quello di B. Viceversa B è iperonimo di A. Quindi ‘rosa’ è iponimo di ‘fiore’, ‘fiore’ è iperonimo di ‘rosa’. Più
parole iponime di uno stesso iperonimo si dicono co- iponime: ‘cane’, ‘gatto’, ‘cavallo’ sono co-iponime
rispetto a ‘mammifero’. La relazione che si instaura è asimmetrica: se la rosa è un fi ore, il fi ore non è
obbligatoriamente una rosa. Spesso accade che u n iponimo diventi a sua volta u n iperonimo di altre
parole. Le relazioni di iponimia/iperonimia riguardano anche i composti e i sintagmi lessicalizzati:
‘capostazione/capo’. Questo vale anche per i Verbi. 3.La meronimia e l’olonimia mett ono in relazione
gerarchica dei termini di cui il meronimo indica la parte e l’olonimo il tutto. Le relazioni di
meronimia/olonimia possono essere anche di altri tipi: tra un intero e le sue parti: ‘mano’ (o.) - ‘dito’ (m.); tra
un insieme e i suoi membri: ‘classe’ (o.) - ‘studenti’ (m.); tra un intero e una sua porzione: ‘torta’ (o.) ‘fetta’
(m.); tra un intero e i suoi elementi: ‘grappolo’ (o.) - ‘chicco’ (m.). A volte un meronimo può avere più
olonimi: ‘fetta’ è meronimo di ‘pizza, torta, formaggio, pane ecc.’. Al contrario ci possono essere più co-
meronimi di uno stesso olonimo: ‘tetto, muro, pavimento ecc.’ sono co-meronimi di ‘edificio’. Mentre gli
iponimi sono un tipo di qualcosa, i meronimi sono parte di qualcosa. Per cui, mentre un iponimo prende le
proprietà dell’iperonimo, il meronimo non le eredita dall’olonimo. La relazione di meronimia è importante
perché nelle varie lingue il termine c he esprime la parte spesso è usato per indicare il tutto attraverso
la sineddoche: ‘sono al volante’ = ‘sto guidando la macchina’. 4.L a sinonimia è una relazione di
equivalenza semanti ca tra parole che possono essere sostituite l’una con l’altra senza che cambi il
significato della frase. In realtà, però visto che quasi tutt e le parole sono polisemiche, è improbabile che
due parole con tutti i loro significati siano esattamente interscambiabili in ogni contesto. Di conseguenza, la
sinonimia va in realtà intesa come quasi-sinonimia, nel senso che due parole possono avere in comune più
componenti semantiche ma diffi cilmente tutte. Si parla di quasisinonimia anche quando due parole si
possono sostituire l’un all’altra senza cambiare il significato della frase in almeno un contesto.
Chiaramente però, le dimensioni semantiche in cui due quasi-sinonimi divergono sono di diverso tipo:
esprimono lo stesso concetto ma in gradi diversi: ‘pieno’ vs ‘colmo’; denotano lo stesso evento ma in diverse
modalità: ‘sorridere, sogghignare, ridacchiare’; hanno la stessa denotazione ma diverso registro: ‘ubriaco’
vs‘sbronzo’; 5.L’antonimia è la relazione per cui il significato di una parola è il contrario o l’opposto di quello
di un’altra. Gli antonimi possono essere A (buono/catti vo), V (aprire/chiudere) e N (oscurità/luminosità). Due
antonimi si oppongono l’uno all’altro in base a una scala di valori di cui costituiscono i poli. Gli antonimi
sono contrari ma non contradditt ori: ‘non bello’ non significa necessariamente ‘brutto’, perché nella scala
delle proprietà di cui gli antonimi sono ai poli c’è tutta una zona intermedia. 6.La complementarità si
instaura tra due parole mutualmente esclusive, che si oppongono non per una disti nzione scalare ma
binaria: non c’è pertanto un termine intermedio. Ad es ‘vivo’ vs ‘morto’: se non è viv è necessariamente
morto. 7.La simmetria è la relazione che intercorre tra almeno due elementi, definiti come conversi. Ad es.
‘compratore/venditore’ o ‘madre/figlio’ (si può essere madre solo in relazione a un figlio e viceversa). La
relazione che intercorre tra i conversi è vista dal punto di vista di uno dei due. Ci sono comunque parole che
contengono contemporaneamente due significati simmetrici: ‘affittare’ significa sia prendere in affi tto sia
dare in affitto. 8.L a relazione di causa collega parole di cui un a è causa dell’altra. ‘Uccidere/morire’:
l’uccidere causa il morire. La relazione può essere fatti va, cioè si applica di necessità come in
uccidere/morire. Se uccido chiaramente qualcuno deve morire. Può anche essere non fatti va, nel senso che
l’evento x non causa ma può causare l’evento y. Ad es. ‘cercare/trovare’, cerco qualcosa ma non la trovo.
9.La relazione di implicazione temporale è alla base di altre, come ad es. quella di causa fatti va. Che
riguarda parole come: ‘Dormire/russare’: l’evento del russare implica quello del dormire ed è incluso, dal punto
di vista temporale, in esso perché io russo solo mentre dormo. ‘Comprare/pagare’: l’evento del comprare
implica e include, dal punto di vista temporale, quello del pagare. 10.La relazione di ruolo lega Verbo e
Nome quando V include l’informazione di N (‘barrire/elefante’,‘pedone/camminare’). L’informazione
comunicata può riguardare l’agente dell’azione espressa da V (ad es. l’elefante barrisce), m a anche il
paziente (‘partorire/figlio’), lo strumento (‘guardare/occhi’), il locativo (‘nuotare/acqua’). 11.La relazione di
modo collega un Verbo a un Avverbio che esprime il modo in cui l’evento espresso ha luogo. ‘Correre
velocemente’

20. Relazioni sintagmatiche tra le parole


RELAZIONI SEMANTICHE TRA LE PAROLE: I principi di ordinamento, o relazioni semantiche, presenti nel lessico delle
lingue possono essere paradigmatici e sintagmatici. I principi paradigmatici si instaurano tra parole che non possono
essere usate l’una al posto dell’altra, ma se se ne sceglie una, l’uso dell’altra è interdetto. I principi sintagmatici
ordinano le parole che si dispongono sulla stessa catena sintagmatica. Questi principi di ordinamento sono universali,
ma quello che può cambiare da una lingua all’altra è il rendimento. In ogni caso, i principi di ordinamento semantico
sicuramente servono a che il lessico non sia una massa informe di parole, difficilmente ‘ripescabili’ nel momento in cui
se ne deve fare un uso concreto, il lessico è qualcosa di organizzato nella nostra mente. Le relazioni semantiche fanno
in modo che le parole si possano classificare secondo diversi criteri. Esse, inoltre, favoriscono la memorizzazione del
lessico da parte dei parlanti. Le relazioni semantiche offrono infatti dei collegamenti tra le parole, che servono anche a
poterle recuperare velocemente dal magazzino di memoria al momento del bisogno. Oltretutto, queste relazioni
attivano negli utenti dei meccanismi di attesa, fondamentali sia nella produzione sia nella interpretazione degli
enunciati. Infatti, se in un testo o in una conversazione ci si imbatte nella parola ‘nuora’, siamo portati a pensare che
prima o poi incontreremo la parola ‘suocero’ o ‘suocera’. Il ‘meccanismo di attesa’ è una nozione approssimativa, il cui
funzionamento è reso possibile dal fatto che vengono richiamate parole che sono collegate tra loro da relazioni
semantiche di qualche tipo. Le relazioni sintagmatiche intercorrono tra gli elementi linguistici semplici quando questi si
uniscono per formare unità linguistiche più complesse (o sintagmi o frasi). Il sintagma è un raggruppamento strutturato
di parole che si trova, quindi, a metà tra la parola e la frase. Però non tutte le sequenze di parole costituiscono un
sintagma solo perché si susseguono nell’asse sintagmatico. Ci sono diversi criteri per individuare un sintagma:
movimento: le parole che fanno parte di uno stesso sintagma si muovono assieme nella frase; enunciabilità in
isolamento: in un determinato contesto le parole che formano uno stesso sintagma possono essere pronunciate da
sole, cioè non in una frase completa; coordinabilità: sintagmi di diverso tipo non possono essere messi in
coordinazione. Ogni sintagma ha una propria testa, che dà nome al sintagma e gli impone il proprio comportamento
sintattico. I tipi di sintagma possibili sono: SN, SV, SA, SP. Per concludere, la dimensione sintagmatica o orizzontale si
riferisce al fenomeno della combinazione di parole il cui risultato sono i sintagmi.
RESTRIZIONI SEMANTICHE SULLA SELEZIONE: Le parole non sono disposte a caso sull’asse sintagmatico, ma seguono
l’ordine stabilito dalla sintassi. La sintassi regola l’ordine delle parole sia all’interno delle frasi sia all’interno dei
sintagmi, e pertanto pone delle specifiche restrizioni. ‘La pizza margherita che ha ordinato’ non è come ‘la pizza che ha
ordinato margherita’. Quando sono ammessi ordini sintattici diversi, l’interpretazione cambia. ‘Roberta ama Benedetto’
non è come ‘Benedetto ama Roberta’. Altre restrizioni riguardano anche gli argomenti del verbo che ne ‘decide’ il
numero e il modo in cui devono essere espressi. Oltre alla sintassi, anche la semantica ha una grande influenza sulle
combinazioni di parole. Può quindi succedere che delle combinazioni sintatticamente corrette non vadano bene
dal punto di vista semantico. Per cui, ‘Il leone sta leggendo il giornale’ viola le restrizioni semantiche perché il sogg. di
‘leggere’ deve essere umano. Molti studiosi si sono occupati delle restrizioni semantiche sulle combinazioni possibili di
parole. Coseriu nel 1971 parlava di solidarietà lessematiche. Si tratta di un particolare legame che lega due parole
‘solidali’ tra di loro e con tendenza ad occorrere insieme. In questo caso, la relazione è orientata, nel senso che il
significato di una parola è inglobato in quello dell’altra. Chomsky nel 1965 ha parlato di selezione a proposito della
valenza verbale: il predicato seleziona i suoi argomenti sia a livello sintattico sia semantico. Ad es., ‘respirare’ richiede
necessariamente un sogg. animato. Viene quindi fatta una restrizione sulla selezione. Ma non tutte le restrizioni sono
dello stesso tipo: se ne distinguono tre. 1. Restrizioni concettuali: noi conosciamo le caratteristiche intrinseche dei
referenti delle singole parole in base alla nostra esperienza del mondo, e ne teniamo conto quando parliamo.
‘L’armadio canta’ è una combinazione inaccettabile proprio perché vìola la restrizione concettuale, e non potrà mai
essere accettata. 2. Restrizioni lessicali di solidarietà semantica si basano sul modo in cui le lingue distribuiscono il
significato tra le parole, lessicalizzando un concetto. ‘The building is tall’’ e ‘the boy is tall ’.Tall è solo per persone
umane e no oggetti. Questo tipo di restrizioni semantiche possono essere aggiustate sostituendo la parola “errata”. 3.
Restrizioni lessicali di solidarietà consolidata dall’uso: le lingue tendono a usare la stessa combinazione di parole per
esprimere lo stesso concetto anche se sono possibili altre soluzioni

COMBINAZIONI DI PAROLE: Esistono diversi tipi di combinazione di parole. Per classificarli bisogna tener conto di 4 fattori.
Per primo, bisogna tener conto della presenza o assenza di una restrizione semantica di un qualche tipo, poi bisogna
vedere se le parole in combinazione hanno un significato composizionale. Inoltre, si deve anche considerare la variabilità
distribuzionale, cioè se uno dei membri in combinazione può essere sostituito da un altro. Per ultimo, è importante
valutare la coesione sintattica, cioè se la combinazione di parole può subire modifiche sintattiche. In base a questi 4 fattori,
distinguiamo diverse combinazioni di parole. 1) Le combinazioni libere sono quelle che non hanno alcun tipo di restrizione.
In realtà, però, non esistono combinazioni totalmente libere, perché vi sono sempre almeno delle restrizioni concettuali,
che per es. ci impediscono di dire “il cane legge”. In ogni caso, sono considerate libere tutte quelle combinazioni di parole
(che sono autonome) che vengono create sul momento dall’utente. 2) Le combinazioni ristrette sono diverse in base al
tipo di restrizione che le caratterizzano. Quelle più comuni sono soggette a una restrizione legata a un’implicazione di
contenuto, come ‘guardare/occhi’ in cui il V già contiene in sé lo strumento con cui si fa l’azione (infatti non diciamo
guarda con gli occhi). Le restrizioni possono essere di diverso grado e possono coinvolgere parole di diverse classi lessicali.
In base al grado della restrizione è ammessa o no la sostituzione di una parola. Ad es., nel caso di ‘chiamare’ gli oggetti
possibili sono numerosi e di diverso tipo: ‘il medico’, ‘Elisa’, ‘la segreteria’ ecc. Nel caso invece di ‘pastorizzare’ l’oggetto è
praticamente esclusivamente ‘latte’, che quindi non può essere sostituito. 3) Le collocazioni rappresentano un’altra risorsa
che hanno le lingue per garantire la coesione a mezzo del lessico. Sono infatti sequenze di parole che si presentano in
combinazioni, stabili o privilegiate, e formano dei sintagmi semi-rigidi. Sono molto frequenti in tutte le lingue che però
scelgono i termini da collocare in modo diverso tra loro. Ad es. it. ‘fare una foto’, ingl. ‘to take a photo’. La particolarità
delle collocazioni è che non c’è in genere alcun motivo specifico perché alcune parole si associno tra di loro in modo semi-
rigido, è semplicemente un motivo culturale. - C’è differenza tra solidarietà semantiche lessicali e collocazioni. Entrambe
sono sequenze in cui, per poter esprimere un determinato significato, si sceglie il collocato a partire dalla base a cui il
significato è riferito. Nelle solidarietà lessicali tra parole c’è un’implicazione di contenuto che rimane nel collocato anche
quando quelle non occorrono in coppia (‘cavallo/baio’: se ometto cavallo, sappiamo che baio si riferisce sempre a cavallo).
Nelle collocazioni l’implicazione di contenuto è presente solo quando i termini occorrono insieme, ma non se il collocato
ricorre con un’altra parola (‘lanciare/accusa’: se ometto una delle 2 parole, non ottengo più lo stesso risultato). Nelle
solidarietà lessicali la restrizione è imposta da A (o V) a N: ‘baio’ si riferisce solo a ‘cavallo’, ma ‘cavallo’ ha altre
caratteristiche. Nelle collocazioni la restrizione è in genere data da N a A (o V). Le collocazioni possono essere di diverso
tipo: V+N: ‘battere il record’, A+N ‘bella vista’, N+V ‘l’elefante barrisce’, N+di+N: ‘mazzo di chiavi’, V+Avv: ‘discutere
animatamente’, N+A o A+N ‘disco rigido’ o ‘hard disk’. 4) Le costruzioni a verbo supporto sono tipi particolari di
collocazioni. Sono formate da V+N, e N è spesso preceduto da articolo o preposizione. Ad es., ‘fare impressione’ (ingl. ‘to
make an impression’). Vi sono somiglianze e differenze tra le costruzioni a verbo supporto e le collocazioni. Tra le
somiglianze abbiamo: la base (N) influenza il significato del collocato (V), N mantiene il suo significato senza modificarlo.
Tra le differenze: V nelle costruzioni a verbo a supporto ha un significato generico (‘fare, dare ecc.’); mentre nelle
collocazioni le parole sono sintatticamente autonome, le costruzioni a V supporto sono di due tipi: termini sintatticamente
autonomi: ‘fare una foto, fare una torta ecc.’; termini sintatticamente non autonomi: ‘prendere sonno, essere in dubbio
ecc.’. 5) Le espressioni idiomatiche o locuzioni sono sequenze di parole rigide, non modificabili sintatticamente né
lessicalmente. Ad es in ‘tagliare la corda’ non posso prendere il significato singolo di ogni parola. Il loro significato non è
composizionale, ma è costruito su diversi procedimenti, come la similitudine e attraverso questa il significato viene
spostato in un contesto diverso da quello originario. Le diverse parole costituenti la sequenza vengono così fissate
nell’ordine sintattico, e tendono a comportarsi come un’unica parola. Il significato della locuzione è difficile da tradurre e
da comprendere nelle altre lingue,

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