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SALVATORE VECA

La teoria politica e la qualità della vita

1. Vita giusta e vita buona

Il problema della qualità della vita viene esaminato in


quest’articolo adottando una particolare prospettiva che
è quella propria di una teoria normativa della politica.
Ci si chiede, in parole povere, se la nozione di vita buo-
na debba avere un qualche spazio entro il più ampio
contesto di una teoria della giustizia; e se si riconosce
che un qualche spazio debba essere delimitato entro il
quadro di una teoria politica normativa, ci si chiede
quali debbano esserne i confini appropriati. In un senso
più generale e astratto, chi avanzi una tesi sulla qualità
della vita entro il quadro di una più ampia concezione
del valore o dei valori politici si misura con la questione
dei rapporti fra il giusto e il bene. Una certa definizione
di tali rapporti che, ad esempio, richieda che si dia prio-
rità all’uno o all’altro, è responsabile della distinzione or-
mai canonica fra teorie deontologiche e teorie teleo-
logiche. Si usa dire che le prime si basano sulla priorità
del giusto sul bene, mentre le seconde sono incentrate
sulla priorità inversa e assumono che il giusto consista
in una qualche forma di realizzazione o massimizzazione
del bene. Un altro modo per porre la questione è quel-
lo di sottolineare la differenza fra risposte a domande
del tipo: come dobbiamo vivere? e risposte a domande
del tipo: come vivere bene?
Per chi affronti da questo punto di vista la questione,
può essere naturale cominciare esaminando le risposte
dell’utilitarismo come una prospettiva filosofica per cui
RIVISTA DI FILOSOFIA / vol. XCII, n. 1, aprile 2001
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la qualità della vita è non solo un argomento pertinente


per la teoria politica, ma ne costituisce addirittura un
ingrediente essenziale. A questa, che è stata la filosofia
esplicita o implicita di gran parte delle teorie normative
della politica e delle istituzioni (scienza delle finanze,
economia del benessere, teoria della scelta pubblica) si è
venuta contrapponendo, a partire dall’opera ormai clas-
sica di John Rawls, una famiglia di teorie deontologiche,
variamente incentrate sull’idea dei diritti fondamentali
degli individui, grazie a cui si afferma una tesi che fa
valere la disgiunzione fra le questioni di vita giusta e
quelle di vita buona. Quest’ultima tesi implica l’impegno
della teoria politica normativa alla neutralità nei con-
fronti delle concezioni del bene umano.
Le tesi neutralistiche sono andate incontro a critiche
e difficoltà: un esempio significativo è quello rappresen-
tato dalle prospettive comunitarie o da una qualche for-
ma di perfezionismo. Così la questione della qualità del-
la vita è rientrata prepotentemente al centro della di-
scussione su valori politici fondamentali. Un liberale
come Ronald Dworkin ha rifiutato alla fine la tesi della
neutralità per sostenere un particolare modello sostan-
ziale di vita buona, un modello che definisce quindi la
qualità di una vita degna di essere vissuta, come l’unico
coerente e implicito in una moralità politica liberale dei
diritti. Il tentativo più ambizioso di tenere assieme
un’idea di vita buona e una prospettiva incentrata sui
diritti e sulla libertà delle persone è probabilmente quel-
lo perseguito da Amartya Sen negli ultimi anni. La tesi
delle capacità e dei funzionamenti è d’altra parte una
tesi debitrice nei confronti della nozione rawlsiana del-
l’indice dei beni sociali primari.
Questo è, grosso modo, un resoconto piuttosto cano-
nico della questione della qualità della vita nella teoria
politica normativa degli ultimi decenni. Il resoconto ca-
nonico può essere esaminato con qualche dettaglio in al-
meno due contesti in cui vale la pena di guardare le
cose più da vicino. Il primo è, per così dire, un conte-
sto extra-teorico, un contesto che ha a che vedere con
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le circostanze in cui si generano le domande per la filo-


sofia politica e sociale. Il secondo ha invece carattere in-
tra-teorico. Abbozzerò un sommario esame del contesto
extra-teorico per passare poi a una discussione interna
delle questioni al centro della controversia. L’idea è che,
così facendo, si possa situare la controversia filosofica e
ridurre l’astrazione che caratterizza prima facie l’intera
faccenda.

2. Il contesto extra-teorico

Consideriamo in primo luogo alcuni tratti salienti del


contesto extra-teorico. Il primo tipo di problemi che la
teoria normativa è chiamata a risolvere ha carattere so-
stanzialmente allocativo. Si tratta di individuare i criteri
dell’allocazione giusta: la scelta pubblica è una scelta al-
locativa che dev’essere rispondente alle preferenze della
popolazione pertinente. Sono le preferenze che rivelano
la concezione del bene delle persone o la loro concezio-
ne di vita buona e, assumendo un criterio elementare di
razionalità, il criterio allocativo è inevitabilmente un cri-
terio di massimizzazione di una qualche grandezza socia-
le, variamente interpretata come utilità o benessere col-
lettivo. Qui non abbiamo alcuna tensione o contrasto o
disgiunzione fra questioni di vita giusta e di vita buona:
la qualità della vita è un obiettivo di valore politico che
informa le agenda delle politiche pubbliche. Grosso
modo, la silhouette istituzionale di sfondo è quella di
uno stato del benessere di tipo puro. I diritti degli indi-
vidui sono l’esito del calcolo sociale degli interessi.
L’unico valore intrinseco, su questo sfondo, è quello del
benessere collettivo. I requisiti di una società giusta
sono dettati dalla soluzione di problemi meramente allo-
cativi.
Un secondo tipo di problemi che la teoria normativa
è chiamata a risolvere ha carattere sostanzialmente di-
stributivo. In questo caso si tratta di individuare i criteri
della distribuzione giusta: la scelta pubblica è modellata
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da principi o criteri di valutazione delle distribuzioni. E


questi ultimi sono rispondenti non tanto alle preferenze
di per sé prese delle persone, quanto piuttosto o a un
sotto-insieme delle preferenze, classificato alla luce dei
diritti fondamentali ascritti alle persone, o semplicemen-
te ai diritti fondamentali ascritti alle persone.
È facile vedere che nel primo caso, quello in cui
svolgono un ruolo normativo alcune preferenze, resta al-
meno una connessione fra vita giusta e vita buona, nel
senso che sarà pertinente per la concezione di giustizia
una determinata concezione parziale del bene, mentre
nel secondo caso, quello in cui svolgono un ruolo nor-
mativo solo i diritti fondamentali degli individui, consi-
derazioni concernenti la qualità delle vita delle persone
escono dall’arena della scelta pubblica e delle politiche.
La silhouette istituzionale di sfondo è grosso modo quel-
la che esemplifica uno stato del benessere riformato ri-
spetto al tipo puro o uno stato minimo che esclude la
giustificabilità di scelte pubbliche orientate all’allocazio-
ne o alla distribuzione di beni, valori o risorse. I requi-
siti di una società giusta sono dettati dalla soluzione di
problemi propriamente distributivi o, nel caso dello sta-
to minimo, dalla soluzione di problemi commutativi, per
onorare la venerabile classificazione aristotelica dei tipi
di giustizia.
Un terzo tipo di problemi è connesso non tanto al
quadro familiare dei contrasti fra concezioni di giustizia
allocativa, distributiva o commutativa quanto a una
gamma di sfide che possiamo etichettare con il termine-
ombrello del pluralismo: si tratta di dilemmi che inve-
stono domande e conflitti per il riconoscimento di iden-
tità collettive distinte e differenti nella società. Il plurali-
smo chiama direttamente in causa la concezione di vita
buona o, meglio, le concezioni di vita buona, e le chia-
ma in causa rivolgendo domande alla politica e alle isti-
tuzioni, chiedendo o esigendo provvedimenti e scelte
pubbliche rispondenti a (e coerenti con) concezioni so-
stanziali e dottrine morali o religiose a proposito della
vita buona. Qui l’incertezza è generata dal fatto che
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spesso, anche se non sempre, differenti fra loro e alme-


no prima facie irriducibili e confliggenti sono le inter-
pretazioni culturali, morali o religiose di che cosa renda
una vita umana migliore o peggiore per chi la vive (un
caso paradigmatico e, in un qualche senso, pionieristico
è quello costituito da una varietà di versioni del pensie-
ro femminista della differenza).
Si osservi inoltre che qualcosa del genere ha luogo
anche in quella classe crescente di casi in cui le scelte
pubbliche toccano questioni in cui è in gioco il signifi-
cato che le persone danno alla vita: i dilemmi della bio-
etica, che coprono un’ampia e variegata gamma di que-
stioni che coinvolgono scelte, pratiche e condotte, sono
in proposito esemplari. Sappiamo che si tratta, a volte,
di questioni ultime e di scelte tragiche in cui la diver-
genza ha la massima serietà e presenta il carattere del
conflitto etico non riducibile, in uno spazio in cui sem-
bra non vi siano margini per negoziati. Qui viene meno
la condivisione della lealtà civile che è naturalmente
compatibile con il conflitto allocativo o distributivo, e la
sfida per la filosofia politica e morale è quanto meno
più difficile.
Come si debba intendere la qualità della vita, questa
è infatti la posta in gioco. O, per rendere le cose solo
un po’ più complicate, la questione non è solo se sia
possibile o desiderabile una convergenza su come inten-
dere la qualità della vita; la questione è piuttosto quella
se abbia senso e sia accettabile una nozione come quella
di qualità della vita. E, in secondo luogo, se abbia senso
e sia accettabile che la politica e le istituzioni, le norme
e i provvedimenti abbiano un ruolo nel sostenere e nel
premiare o nel sanzionare una qualsivoglia risposta in
proposito. In questo contesto troviamo una gamma di
risposte teoriche che si dispongono su un continuum, ai
cui estremi possiamo riconoscere, da un lato, la risposta
neutralistica del liberalismo politico e, dall’altro, la ri-
sposta o le risposte del comunitarismo.
Un quarto tipo di problemi, infine, è quello che si
formula per la filosofia politica quando si metta a fuoco
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l’idea di giustizia globale, contrapposta a quella di giu-


stizia locale. Con l’espressione «giustizia locale» intendo
qualsiasi teoria politica normativa il cui oggetto sia co-
stituito da una comunità o da una unità chiusa, definita
da confini e distinta da altre. Quando ci poniamo la do-
manda sulla possibilità e la praticabilità dell’estensione
della portata dei criteri di giustizia dal versante interno
all’arena internazionale, si profilano i problemi del quar-
to tipo: questioni di giustizia globale, appunto.
La questione della vita buona e della qualità della
vita si ripropone così inevitabilmente al centro alla teo-
ria politica. E ritroviamo, dilatati su scala globale, i di-
lemmi del pluralismo. Siamo destinati a misurarci con le
difficoltà generate dall’incommensurabilità e dalla diffe-
renza delle risposte alla domanda su che cosa renda una
vita degna di essere vissuta per chi la vive, con il fatto
del pluralismo nella sua esemplificazione saliente. Ci
chiediamo, in altri termini, quali risposte la filosofia po-
litica possa, debba o sappia dare ai tempi della crescen-
te interdipendenza e della globalizzazione, quale che sia
l’interpretazione teoricamente favorita di quest’altro ter-
mine-ombrello.

3. L’utilitarismo e la dimensione dei pazienti morali

Consideriamo ora alcuni aspetti del problema della


qualità della vita entro i quadri teorici corrispondenti ai
quattro tipi di domande che, in differenti circostanze,
sono rivolte alla teoria politica normativa. Cominciamo
con il caso dell’allocazione. Come ho accennato, una
qualche versione dell’utilitarismo costituisce la risposta
appropriata. La qualità della vita è una nozione situata
entro lo spazio delle scelte pubbliche e i criteri della
scelta pubblica sono dettati da un principio di massi-
mizzazione. Così, si può dire, la nozione di qualità della
vita è una nozione propriamente politica. Più precisa-
mente: la nozione di qualità della vita collettiva è
l’obiettivo di valore delle politiche utilitaristiche.
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La concezione del bene o della vita buona delle per-


sone entra nel calcolo sociale che mira alla soddisfazione
razionale delle preferenze, e giusta sarà quella allocazio-
ne di beni o valori che massimizzerà il benessere collet-
tivo. Si osservi che la funzione del benessere sociale si
ottiene grazie a una qualche procedura aggregativa del-
le preferenze individuali e i requisiti del punto di vista
etico sono soddisfatti grazie alla eguale ponderazione
delle preferenze: ciascuna preferenza individuale ha di-
ritto a contare nello stesso modo di ciascun’altra ai fini
della determinazione dell’esito sociale giustificato dalla
teoria1.
Sono note le difficoltà cui va incontro la procedura
con cui l’utilitarismo costruisce la funzione del benesse-
re sociale; così come sono note le riformulazioni del
programma utilitaristico che hanno cercato di superare
critiche e limiti nell’applicazione del principio di massi-
mizzazione alle concezioni individuali del bene, rivelate
dalle preferenze individuali. Basta pensare alle questioni
relative alla natura delle preferenze, all’oscillazione fra le
preferenze date e le preferenze vere o prudenti; alle
questioni relative alla natura dei confronti interpersonali;
alle questioni relative al principio di scelta collettiva in-
teso come un principio di maggioranza; alle questioni
relative al fatto che la distinzione o la separazione fra le
persone non viene presa sul serio. Tuttavia, non è di
questo tipo di questioni che vorrei occuparmi.
In genere, questo tipo di questioni sono sollevate nel-
l’ambito di una critica locale o globale dell’utilitarismo.
Quella che mi interessa non è una critica dell’utilitari-
smo: mi interessa una critica della pretesa di completez-
za dell’utilitarismo. La mia, in altri termini, non è una
tesi contro l’utilitarismo; è piuttosto una tesi sui suoi li-
miti. E, quindi, quella che abbozzo non è altro che una
tesi sui limiti dell’utilitarismo a proposito dello spazio

1 Cfr. T. Nagel, Mortal Questions, Cambridge, Cambridge University


Press, 1979, trad. it. di A. Besussi col titolo Questioni mortali, a cura di S.
Veca, Milano, Il Saggiatore, 1986, pp. 112-13.
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che una qualche nozione di qualità della vita deve avere


in una teoria del valore politico.
La critica è la seguente: l’utilitarismo tende a concet-
tualizzare gli individui come meri recettori di trattamen-
ti o come destinatari di benefici2. In questo modo l’utili-
tarismo mette a fuoco la nostra dimensione di pazienti
morali ed è rispondente solo a questa dimensione, sulla
base dell’idea che questa è la sola dimensione che conta
o che deve contare in etica. In altri termini, i nostri cri-
teri di valutazione devono essere rispondenti solo al fat-
to che sia massimizzato il saldo di soddisfazione delle
preferenze per individui concettualizzati solo come be-
neficiari. È difficile sottovalutare l’importanza morale
della prospettiva utilitaristica: basta pensare alla versione
dell’utilitarismo negativo in cui l’obiettivo è quello della
minimizzazione della sofferenza socialmente evitabile.
L’esito di molte tesi critiche nei confronti dell’utilita-
rismo è quello di rifiutare o far evaporare l’importanza
morale della dimensione del paziente morale. Una tesi,
invece, che critichi la pretesa della completezza e il mo-
nismo proprio dell’utilitarismo, rende giustizia al nucleo
della moralità utilitaristica e tuttavia non accetta che la
dimensione del nostro essere pazienti morali sia l’unica
dimensione che conti e cui debbano essere rispondenti i
nostri criteri di valutazione etica della politica e delle
politiche3.
Sembra difficile ritenere seriamente che gli aspetti di
benessere delle persone possano non essere rilevanti per
il nostro giudizio e per la giustificazione etica di istitu-
zioni e pratiche sociali; ma sembra altrettanto difficile
ritenere che gli aspetti di benessere siano gli unici a do-
ver contare. Se si accetta questo elogio dell’incompletez-

2 Cfr. A.K. Sen e B.A.O. Williams, Introduction, in Utilitarianism and


Beyond, Cambridge, Maison des Sciences de l’Homme – Cambridge Uni-
versity Press, 1982, trad. it. di A. Besussi col titolo Utilitarismo e oltre, a
cura di S. Veca, Milano, Il Saggiatore, 1984, pp. 9-10.
3 Ho argomentato questa tesi in Dell’incertezza, Milano, Feltrinelli,
1997, pp. 100-17.
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za, si può mettere a fuoco in modo piano un’altra di-


mensione saliente che è al centro di una moralità dei di-
ritti: si tratta della dimensione del nostro essere agenti
morali.
Così il resoconto pluralistico della nostra prospettiva
etica rende giustizia alle complicazioni delle strutture
del giudizio morale, introducendo gli aspetti della capa-
cità di agire delle persone. Sono questi gli aspetti che
vengono in primo piano quando si passi al secondo tipo
di problemi, quello incentrato sui criteri della distribu-
zione giusta. Vediamo allora come stanno le cose in
rapporto alla nozione di qualità della vita.

4. Le teorie dei diritti e la dimensione degli agenti morali

Come ho accennato nella ricostruzione del contesto


extra-teorico, due sono grosso modo le risposte che una
teoria della giustizia incentrata sui diritti fondamentali
delle persone può dare a proposito dello spazio che le
considerazioni riguardanti la qualità della vita devono
avere nell’ambito delle scelte pubbliche. La risposta del
libertarismo, che è una risposta a favore dello stato mi-
nimo, è che la concezione del bene delle persone e la
qualità della vita, variamente connessa all’idea di bene,
non devono avere alcuno spazio, politicamente parlando.
Avanzo la congettura secondo cui questo esito sia co-
erente con la pretesa di completezza e con il monismo
proprio di una prospettiva libertaria incentrata sui diritti
negativi delle persone. Questa prospettiva, in modo op-
posto e simmetrico all’utilitarismo, è basata sull’idea che
gli aspetti della capacità di agire e, quindi, della libertà
di scelta delle persone siano gli unici rilevanti e che
questo sia il modo, l’unico modo, per prendere sul serio
l’importanza della dimensione degli agenti morali. In
questo caso l’importanza assegnata alla dimensione del-
l’agente esaurisce lo spazio di ciò che, per noi, etica-
mente vale. Come le persone stanno, non è questione
appropriata per istituzioni pubbliche e scelte collettive.
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Se la politica si occupa di promuovere fini collettivi che


tocchino la qualità della vita delle persone, questo im-
plica violazione dei diritti fondamentali delle persone,
nel senso che riduce lo spazio delle scelte individuali in
cui si esprime e deve esprimersi pienamente il nostro
status di agenti morali.
Nella prospettiva del libertarismo è facile riconoscere
le ragioni della disgiunzione fra le questioni di vita giu-
sta e le questioni di vita buona. La disgiunzione non di-
pende, come alcuni tendono a ritenere, dall’impegno de-
ontologico delle teorie libertarie: essa dipende propria-
mente dall’impegno anti-consequenzialistico di una pro-
spettiva incentrata sulla sola dimensione rilevante del
nostro essere agenti morali4.
Basta considerare in proposito l’altra risposta formu-
lata nel quadro di una teoria dei diritti fondamentali
delle persone che tuttavia non rinuncia a criteri di valu-
tazione rispondenti alle conseguenze di istituzioni e poli-
tiche sui piani di vita completi degli individui: si tratta
della risposta che è propria della teoria della giustizia
come equità di Rawls. Sappiamo che la teoria di Rawls
è una teoria deontologica in cui, a differenza dell’utilita-
rismo, si definisce una priorità del giusto sul bene. Tut-
tavia, sia nell’argomento intuitivo a favore dei due prin-
cipi di giustizia, sia nell’argomento analitico costruito
nella celebre posizione originaria, ha un ruolo importan-
te nella concezione di giustizia una particolare nozione
di vita buona5. Quindi, possiamo dire, la qualità della
vita ha un suo spazio in questa prospettiva di valore po-
litico. Il punto è: quale spazio? O, in altri termini: quale
nozione di qualità della vita è quella pertinente e am-
messa nella teoria contrattualistica della giustizia come

4 Cfr. R. Nozik, Anarchy, State and Utopia, New York, Basic Books,
1974, trad. it. di E. e G. Bona col titolo Anarchia stato utopia, Firenze, Le
Monnier, 1981, pp. 36-38.
5 Cfr. J. Rawls, A Theory of Justice, Cambridge (Mass.), Harvard Uni-
versity Press, 1971, trad. it. di U. Santini col titolo Una teoria della giusti-
zia, a cura di S. Maffettone, Milano, Feltrinelli, 1982, pp. 89-93.
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equità? La risposta è semplice: in questa teoria vi è spa-


zio per una concezione parziale del bene delle persone.
L’argomento intuitivo, quello incentrato sull’arbitra-
rietà morale delle dotazioni iniziali delle persone, induce
a riconoscere un qualche indice o paniere di beni di cit-
tadinanza su cui verte il principio distributivo. Nella si-
tuazione di scelta, interpretata come posizione originaria,
il velo di ignoranza sulla concezione completa del bene
delle parti ha come esito la definizione di un indice o
di un paniere di beni sociali primari; e i beni sociali
primari non esemplificano altro che la concezione par-
ziale del bene disponibile alle parti per la deliberazione
e la selezione dei principi di giustizia distributiva. Si
può sostenere che la nozione di qualità della vita perti-
nente per la teoria della giustizia come equità è una no-
zione pubblica o impersonale.
In altri termini, l’unica concezione ammessa è una
concezione strumentale che verte su beni che sono mez-
zi per molti scopi delle persone. L’idea è quella di otte-
nere un isomorfismo su un sotto-insieme delle preferen-
ze delle persone, le preferenze che non esprimono i fini
completi degli individui, ma i mezzi per avere probabili-
tà di conseguire fini individuali6.
Questa idea relativa alla natura strumentale dei beni
sociali e del loro carattere di mezzi per molti scopi ha
dato luogo a importanti sviluppi nel quadro di teorie in-
centrate sui diritti fondamentali delle persone: basta
pensare al tentativo di Dworkin di costruire un modello
di eguaglianza di risorse che incorpori la dimensione del
nostro essere agenti e la nostra libertà di scelta o alla
prima riformulazione critica di Sen della nozione di
beni sociali primari in termini che sfuggano al «fetici-
smo» cui sembra soggiacere la tesi di Rawls (la prima

6 Può essere utile riconsiderare in proposito alcune indicazioni che


Kenneth Arrow aveva dato per sfuggire alla trappola del suo teorema di
impossibilità della scelta democratica: cfr. K. Arrow, Social Choice and In-
dividual Values, New York, Wiley, 1951, trad. it. di G. Graziola col titolo
Scelta sociale e valori individuali, Milano, Etas Libri, 1977, p. 87.
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riformulazione consiste nel focalizzare non tanto i beni


quanto i tassi di conversione dei beni in funzionamenti
per le persone, concettualizzate nella duplice dimensione
di pazienti e agenti). Non è di questi sviluppi, tuttavia,
che intendo occuparmi qui: ne dovremo esaminare alcu-
ni aspetti a proposito delle risposte al quarto tipo di
problemi, quando la questione della qualità della vita
assume la sua rilevanza in una prospettiva che mette a
fuoco l’idea di giustizia globale.

5. I dilemmi del pluralismo

Ora dobbiamo gettar luce sulle questioni aperte dal


terzo tipo di problemi, quello che chiama in causa il
fatto del pluralismo e le circostanze del conflitto delle
interpretazioni e dei modelli di vita buona, fra loro dif-
ferenti e – a volte – irriducibili. Anche qui possiamo
considerare due risposte che hanno carattere esemplare
e polarmente opposto: quella del liberalismo neutralisti-
co e quella del comunitarismo.
I comunitari insistono sul fatto che una teoria del va-
lore politico deve potersi basare su una concezione so-
stanziale di vita buona. Secondo i comunitari, le teorie
liberali, come quelle di Rawls e Dworkin, falliscono pro-
prio perché, rinunciando per principio a un impegno a
favore di una particolare versione della vita buona per
le persone, o devono ricorrere a una concezione parziale
del bene, in cui nessuno è in grado di riconoscersi e
identificarsi con altri nella polis o, farisaicamente, spac-
ciano per neutrale una preferenza implicita per il mo-
dello di vita buona che vale al massimo per sezioni di
maggioranza della popolazione.
Quindi, la pretesa del liberalismo politico di essere
neutrale rispetto al pluralismo, alla varietà delle conce-
zioni di vita buona e delle risposte alla domanda su che
cosa renda una vita degna di essere vissuta per le perso-
ne o è ipocrita o manca l’obiettivo di una teoria politica
seria che resta quello di identificare una qualche idea
La teoria politica e la qualità della vita 43

condivisa di bene comune, espressa dalle forme di vita


o dalle tradizioni o dalle culture e, in ogni caso, ricono-
scibile univocamente solo entro contesti determinati. In
un qualche senso, in una prospettiva comunitaria il plu-
ralismo e la frammentazione del valore, la varietà delle
prospettive su ciò che per noi eticamente o religiosa-
mente vale, sono l’indice e il sintomo della crisi e del
collasso della comune lealtà civile. Per dirla con Michael
Sandel, la philia politica è a rischio e la neutralità della
giustizia liberale, cieca e indifferente rispetto al plurali-
smo etico, è incapace di offrire un ideale attraente di
condivisione politica. Un singolo modello sostanziale di
vita buona deve essere condiviso perché le persone pos-
sano mutuamente riconoscersi come partner di una qual-
che comunità politica degna di lode7.
Una delle più elaborate repliche alla sfida comunita-
ria resta quella presentata e argomentata da Rawls nelle
lezioni di Political Liberalism. Com’è noto, il dilemma
della condivisione generato dal fatto del pluralismo vie-
ne affrontato come un caso, forse il più importante, di
estensione del principio di tolleranza a nuove e mutate
forme di conflitto divisivo. L’estensione è riuscita se e
solo se viene guadagnato uno stabile consenso per inter-
sezione su un grappolo di valori politici fondamentali.
Persone che abbiano concezioni morali comprensive di-
vergenti e divergenti concezioni di vita buona devono
poter trovare entro le proprie prospettive di valore le
ragioni convergenti dell’adesione a una idea politica di
società giusta.
In altri termini, ciò che dobbiamo politicamente con-
dividere è un sotto-insieme di valori; le ragioni della no-
stra adesione agli elementi costituzionali essenziali della
nostra società sono differenti e giacciono entro le nostre
differenti dottrine morali comprensive. Così, conclude

7 Cfr. M. Sandel, Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge,


Cambridge University Press, 1982, trad. it. di S. D’Amico col titolo Il
liberalismo e i limiti della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 195-
99.
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l’argomento centrale di Political Liberalism, la stabilità


della lealtà civile è coerente con il fatto del pluralismo.
E una concezione di valore politico deve essere neutrale
nei confronti delle differenti concezioni e modelli di vita
buona, basandosi sull’idea del rispetto dovuto alle pro-
spettive di valore etico, culturale o religioso di chiun-
que. Essere neutrali equivale a essere equi nei confronti
della pluralità delle dottrine morali comprensive, soste-
nute in una società da distinte identità8.
La soluzione del liberalismo politico è elegante e par-
simoniosa. Tuttavia, va incontro ad alcune serie difficol-
tà come risposta ai conflitti o alle domande di riconosci-
mento proprie di una società caratterizzata dal fatto del
pluralismo come suo tratto permanente. In primo luogo,
è bene precisare che la soluzione funziona solo se siamo
in presenza di un pluralismo ragionevole: è presupposta
una sorta di motivazione all’intesa condivisa da chi ab-
bia differenti prospettive di valore. Che succede se i
soggetti del pluralismo non condividono la motivazione
all’intesa o il criterio del ragionevole? In secondo luogo,
la parsimonia filosofica può non essere necessariamente
una virtù: il liberalismo politico deve escludere dall’area
del consenso per intersezione le questioni controverse,
quelle che sono direttamente generate dal conflitto fra
visioni alternative della vita buona. Questioni, come ho
accennato nel resoconto extra-teorico, in cui sono in
gioco cose come il significato ultimo che assegniamo al
nostro avere vite mortali; per esempio, questioni in sen-
so lato bioetiche devono essere messe da parte e, come
si dice, tolte dall’agenda pubblica. Ma il punto sembra
essere, in proposito, che proprio questi dilemmi, e non
altri, sono da risolvere da parte di una teoria politica
che abbia pretese normative. In conclusione, se il plura-
lismo non è ragionevole, allora la teoria non risolve il
problema per cui è elaborata.

8 Cfr. J. Rawls, Political Liberalism, New York, Columbia University


Press, 1993, trad. it. di G. Rigamonti col titolo Liberalismo politico, a cura
di S. Veca, Milano, Edizioni di Comunità, 1994, pp. 170-74.
La teoria politica e la qualità della vita 45

La tesi del liberalismo politico sembra funzionare


solo se il consenso per intersezione è già dato. Sembra
essere un resoconto descrittivo di come accade che, a
certe condizioni, si generi stabilmente in una società
pluralistica un consenso per intersezione, piuttosto che
un argomento propriamente normativo che ci dà le ra-
gioni per aderire a un consenso per intersezione. D’altra
parte la sua parsimonia, espressa dall’idea dell’applica-
zione della tolleranza alla filosofia politica stessa, esclude
che criteri del giudizio possano orientarci nella contro-
versia pubblica fra risposte alternative alle domande sul-
la vita buona o degna di essere vissuta; ma questa, e
non altra, è la posta in gioco quando si diano conflitti
intorno a scelte pubbliche o provvedimenti che toccano
direttamente i nostri modi di interpretare la qualità del-
la vita e le nostre lealtà e attaccamenti ultimi.

6. L’idea di giustizia globale e il criterio delle capacità

La conclusione critica sulle difficoltà della tesi centra-


le del liberalismo politico può suggerirci in modo piano
di passare al quarto tipo di problemi, quello connesso
all’idea di giustizia globale. Si può infatti condividere
l’osservazione di Sen a proposito del carattere dopo tut-
to contestualistico e inevitabilmente «locale» della pro-
spettiva adottata in Political Liberalism9. Rawls situa il
suo discorso sulla stabilità di una società giusta entro la
tradizione delle democrazie costituzionali, offrendo una
particolare proposta di interpretazione del senso di giu-
stizia costituzionale propria di maggioranze culturalmen-
te omogenee di società della parte ricca del mondo. Se
noi miriamo a metterci alla prova con l’estensione della
portata dei criteri di giustizia e mettiamo a fuoco
un’idea di giustizia la cui validità non sia dipendente dal

9 Cfr. A.K. Sen, Inequality Reexamined, Oxford, Oxford University


Press, 1992, trad. it. di A. Balestrino col titolo La disuguaglianza, Bologna,
Il Mulino, 1994, pp. 114-15.
46 Salvatore Veca

riferimento ai confini dati di comunità politiche chiuse,


allora l’esercizio universalistico del giudizio e della valu-
tazione etica di istituzioni e pratiche sociali deve avva-
lersi di criteri che non siano dipendenti da contesti ma
valgano, per dir così, al di là dei confini.
Sullo sfondo di questa estensione dei criteri di giu-
stizia la questione della qualità della vita per esseri
umani sembra essere di nuovo ineludibile: una teoria
della giustizia globale deve orientarci nella valutazione
degli aspetti che riguardano il maggiore o minore be-
nessere delle persone e, congiuntamente, degli aspetti
che riguardano la capacità di agire delle persone. Tor-
na così la dimensione plurale dell’essere pazienti e
agenti morali che abbiamo discusso a proposito dei
problemi di allocazione e distribuzione del primo e del
secondo tipo.
Sen ha sviluppato la sua critica alla nozione di beni
sociali primari, basata sul feticismo dei beni non rispon-
dente alla varietà dei funzionamenti delle persone in
una tesi che connette i funzionamenti e le capacità delle
persone. Grosso modo, i funzionamenti corrispondono a
stati di essere e fare delle persone, mentre le capacità
denotano la libertà di scelta delle persone tra funziona-
menti alternativi. Riformulando la remota idea aristoteli-
ca di eudaimonia, Sen pone l’accento sul valore intrinse-
co della libertà delle persone di scegliere fra vite possi-
bili10. Naturalmente, vi è una difficoltà immediata in
questa riformulazione «liberale» del vecchio Aristotele.
Nell’Etica Nicomachea, com’è noto, si sostiene che il
bene umano per eccellenza è una vita degna di essere
scelta. Ma il punto è che le ragioni per cui una vita è
degna di essere scelta sono ragioni oggettive e definite
da una teoria monistica della fioritura umana. La tesi
delle capacità dovrebbe all’inverso basarsi sull’idea per
cui le ragioni di eleggibilità di una vita sono plurali.
Come altrimenti si potrebbe dare un peso significativo

10 Cfr. A.K. Sen, Inequality Reexamined, cit., trad. it. cit., pp. 63-106.
La teoria politica e la qualità della vita 47

alla libertà di scelta delle persone, considerata come un


ingrediente fondamentale per la valutazione della qualità
della vita delle persone?
Una seconda difficoltà della tesi delle capacità dipen-
de dal fatto che non è sempre chiaro quale sia il con-
cetto di libertà adottato da Sen. Non è chiaro se il con-
cetto in questione sia connesso a un’idea di autonomia
o a un’idea di auto-realizzazione delle persone. Né, infi-
ne, è chiaro quale debba essere lo spazio appropriato
per la scelta collettiva mirante a scopi di egualizzazione
o di redistribuzione delle capacità. Forse Sen risponde-
rebbe che l’approccio alle questioni di giustizia proprio
della tesi delle capacità non intende fornire una risposta
indipendente e univoca alla questione delle agenda pub-
bliche. La tesi delle capacità è incentrata semplicemente
sull’idea dello sviluppo umano come libertà11. Quando
ci impegniamo in esercizi di valutazione etica, è questo
l’indicatore che dovrebbe darci una sorta di metrica del-
la qualità della vita per individui. Questo è, per così
dire, il punto archimedeo, non dipendente da contesti e
culture o tradizioni, che ci deve guidare nella valutazio-
ne di contesti, culture e tradizioni.
Il fatto del pluralismo, ora considerato sullo sfondo
di una scena globale, ci chiede di prendere sul serio la
varietà delle ragioni per cui una vita è degna di essere
vissuta. Ma la tesi delle capacità ci chiede di non rinun-
ciare a valutare la distribuzione dei gradi di libertà delle
persone di scegliere le loro vite. E l’approccio dello svi-
luppo umano come libertà mette a fuoco la varietà delle
circostanze in cui ha senso dire che vite umane sono
migliori o peggiori per chi le vive, in un senso rispon-
dente al deficit dei funzionamenti per pazienti morali
tanto quanto alla contrazione o all’accrescimento della
capacità di scelta di agenti morali che hanno come sco-
po quello di modellare il loro destino e di non essere

11 Cfr. A.K. Sen, Development as Freedom, Oxford, Oxford University


Press, 1999, trad. it. di G. Rigamonti col titolo Lo sviluppo è libertà, Mila-
no, Mondadori, 2000, pp. 9-17.
48 Salvatore Veca

schiavi o sudditi delle circostanze avverse, di istituzioni


inique o di azioni coercitive e tiranniche di altri.
Che cosa istituzioni e politiche debbano fare, dipende
in ultima istanza da quanto istituzioni e politiche posso-
no fare per approssimarsi, in una intrinseca varietà di
circostanze, a esiti sociali che, alla fine, minimizzino la
sofferenza socialmente evitabile e massimizzino la libertà
delle persone di scegliere le loro vite. In questo senso,
nel quadro di una prospettiva incentrata su questioni di
giustizia globale, la nozione di qualità della vita finisce
per assumere un ruolo centrale. Nonostante le difficoltà
delle tesi di Sen, sembra probabile che questa direzione
di ricerca sia una di quelle più promettenti e in ogni
caso importanti per la filosofia politica e sociale, come
si usa dire, fin de siècle.

Summary. In this article the problem of the quality of life is di-


scussed within the framework of normative political theory. In the
first part I suggest four kinds of background circumstances. The
notion of quality of life plays a different role in each of these, de-
pending on the differences between problems of allocation, pro-
blems of distribution, problems of pluralism and problems of inter-
national justice. In the second part I discuss the main normative
solutions to such problems and I assess the scope and limits of
those solutions, concentrating in particular on the theories of utili-
tarianism, libertarianism and political liberalism. In conclusion I ar-
gue that a particular version of Sen’s capabilities approach, cente-
red on the distinction between moral agents and patients, may pro-
vide the most promising vehicle for incorporating the notion of
quality of life within a larger theory of global justice.

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