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S. E. Mons. Dott.

TOTH TIHAMER
Vescovo di Veszprém

IL SIMBOLO DEGLI APOSTOLI


VOLUME II.

DIO
LA PROVVIDENZA

Edizione italiana a cura di

Mons. Dott. UGO CAMOZZO

RISTAMPA

GREGORIANA EDITRICE IN PADOVA


S. E. Mons. Dott. TOTH TIHAMER
Vescovo di Veszprém

IL SIMBOLO DEGLI APOSTOLI VOLUME II.

DIO
LA PROVVIDENZA

Edizione italiana a cura di Mons. Dott. UGO CAMOZZO

INDICE: DIO, LA PROVVIDENZA

I. Dio è Spirito
II. Dio è mio Padre - Egli ha cura di me (1)
III. Dio è mio Padre - Egli ha cura di me (II)
IV. Dio è mio Padre - Io Lo prego - il culto di Dio
V. Dio è mio Padre: Io L'amo.
VI. La Santissima Trinità.
VII. Dio creatore
VIII. Dio è Santo.
IX. Dio è buono
X. La bontà di Dio e il male nel mondo
XI. Dio è verace e fedele
XII. Dio è presente dappertutto
XIII. Dio sa tutto
XIV. Dio è infinitamente saggio
XV. Dio è infinitamente giusto
XVI. Dio è misericordioso
XVII. Dio è paziente
XVIII. Dio è immutabile
XIX. Dio è eterno
XX. Te Deum laudamus!

I.

Dio è Spirito

Fratelli, conoscete la leggenda della statua derubata, di Sais? La dolorosa e commovente


leggenda egiziana di un giovane audace? Essa narra che la prima origine di ogni divinità e di ogni
vita è la Dea Isis, la cui immagine era conservata a Sais dietro un velo di trine d’oro. Si raccontava
pure che chiunque avesse sollevato il velo di questa statua avrebbe scoperto i più profondi misteri
religiosi; ma nessuno aveva il diritto di sollevarla, all’infuori dei Sacerdoti dedicati al servizio della
Dea.
Orbene, c’era un giovane che non giungeva mai ad appagare la sua sete di sapere...: ad ogni costo
egli voleva conoscere qualche cosa di più sulla divinità... Una notte egli si nascose nel Tempio e con
mano tremante sollevò il velo di Sais...
Ciò che egli vide, egli non lo disse ad alcuno; perché il giorno dopo, quando i Sacerdoti
entrarono nel Tempio, l’audace giovane giaceva sul pavimento, bianco come un morto, muto e privo
della ragione. Che cosa gliela aveva tolta? Precisamente ciò che aveva realmente visto; egli era
penetrato nel più profondo della religione pagana; aveva visto che essa non era che una grande
menzogna, perché dietro al velo non aveva scoperto che un grande vuoto.
Ebbene, miei fratelli, la nostra santa Religione Cristiana non ha affatto paura che si sollevi il suo
velo. Non solo essa non ha paura, ma ella ci invita espressamente: avvicinatevi a Dio! Che Egli non
rimanga per voi un’immagine velata e nascosta nella lontananza! Parlate molto di Lui, pensate a Lui,
e - per quanto è possibile alla debole ragione umana - cercate di conoscerelo sempre meglio!
E non ci toccherà per caso la sorte che è toccata al giovane di Sais? Non abbiate paura, fratelli!
Procediamo con coraggio nella nostra via! Io sono convinto che noi, alla fine, non avremo la
delusione di quel giovane, ma, pieni di una gioia rispettosa, fortificati nella nostra fede, noi ci
prostreremo dinanzi al nostro Dio meglio conosciuto e meglio amato.

I.

La nostra guida

La ragione è la prima guida nel nostro cammino verso Dio. Alla ragione noi possiamo
domandare: vi è un Dio? E noi ne riceviamo questa risposta: è necessario che esista un essere
supremo e onnipotente che noi chiamiamo Dio. La ragione ci può condurre fino a Lui, poi s’arresta;
s’arresta dinanzi al velo che avvolge la Divinità e non può più oltre procedere.
L’ago calamitato indica con precisione all’esploratore il Polo Nord; ma quando egli arriva nella
vicinanza del Polo, allora l’ago diventa folle e non serve più a nulla; egualmente la ragione umana
perde la sua sicurezza e si rivela impotente allorché s’accosta al mistero per eccellenza, quando, cioè,
vuol scrutare la Divinità.
I pagani più saggi si rendevano già conto della difficoltà di questo compito. Il tiranno di Siracusa,
Gerone, presentò un giorno al filosofo Simonide questa questione: «Ditemi chi è Dio?». Il saggio
chiese un giorno per riflettere. Passò la giornata ed egli domandò altri due giorni... indi un quarto... e
poi otto... alla fine egli confessò al tiranno impaziente: «Più io rifletto sulla questione e più la trovo
insolubile» (CICERONE: De natura deorum, I, 33). Vedete come la ragione umana si sforza di
sollevare il velo e come, lasciata a se stessa, essa ne è incapace?
Allora bisogna limitarsi a sapere che Dio esiste, e confessare che è impossibile conoscerne la
natura?
No, miei fratelli! L’uomo non può essere soddisfatto di questa conclusone ed è perciò che la
ragione umana scruta e cerca di comprendere qualche cosa degli attributi divini. Là dove essa si
arresta, giunge in nostro aiuto una mano sicura per sollevare il velo che nasconde la pace di Dio: la
mano robusta della Fede.
a) Chi è Dio? La ragione umana dice la sua parola; senza dubbio ella non può dire gran cose,
tuttavia dice qualche cosa. Non si limita infatti ad affermare l’esistenza di Dio, ma soggiunge che
Egli deve essere grande, immenso e potente.
Dio! Indicatemi un punto solo del mondo immenso, dove il suo nome sacro sia estraneo e
sconosciuto! Al sorgere del sole il contadino solleva gli occhi verso il cielo per adorare il suo
Signore. L’afflitto grida verso di Lui, l’infermo Lo implora. Il cattivo Lo teme, il buono ripone la sua
confidenza in Lui. Il fanciullo s’inginocchia davanti a Lui ed il vecchio si china tremante verso di
Lui. E’ da Lui che il povero attende soccorso, è davanti a Lui che si prostrano i Re. Noi sappiamo che
per tutti Dio è tutto.
Dio! Quante sono le stelle nel cielo e i fili d’erba nei prati, quanti sono i pesci nel mare e gli
uccelli nell’aria, le foglie nella foresta e i fiori nei campi, i granelli di sabbia sulla riva del mare e le
gocce d’acqua nell’oceano, altrettante sono le prove eloquenti che noi possediamo della grandezza di
Dio. «Interroga le bestie ed esse ti istruiranno, gli uccelli del cielo ed essi te lo faranno conoscere;
domanda alla terra ed ella te lo insegnerà; gli stessi pesci del mare ti parleranno di Lui. Chi di essi
non sa che la mano di Jahvè ha fatto tutte le cose?» (JOB 12, 7-9). «Ogni casa e costruita da qualcuno
e colui che ha costruito ogni cosa è Dio» (Ebrei III, 4).
Attorno a me turbina meraviglioso l’universo coi suoi milioni di corpi celesti. Esso gira da
migliaia a migliaia di anni con una regolarità perfetta. La gente si ferma ammirata dinanzi alla vetrina
di un orologiaio: sotto un globo si trova una pendola con questa iscrizione: «Non ha bisogno di essere
caricata che ogni 400 giorni». Ognuno ammira la pendola, e più ancora chi l’ha costruita. Orbene, voi
avete dinanzi agli occhi l’organismo infinitamente più bello e piú complicato: l’universo. Come
dev’esser sapiente e potente insieme il suo Creatore! La ragione già ci dice tutto questo. «Non cessate
di sfogliare le pagine del libro della natura; esso racchiude l’immagine di Dio» (VOROSMARTY).
Con queste parole il poeta faceva notare, a chi sa vedere e riflettere, che vi sono delle
meravigliose bellezze nel mondo creato.
b) Ma questa immagine di Dio, come ci è offerta dalla natura, è velata, incerta, insufficiente...
Noi abbiamo bisogno di avere un’immagine più chiara e più esatta. Che esista Dio, che sia necessaria
la Sua esistenza, la ragione umana lo dice. Ma questo concetto di Dio è troppo astratto, troppo vago,
troppo freddo e nebuloso. Cosa sia Dio, non v’è che Dio solo che possa dircelo più esattamente.
«Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo vuol rivelare» (S. MATTEO
XI, 27).
Ecco dunque, miei fratelli, la mano forte e possente che ci aiuterà a sollevare il velo: la mano
benefica della fede, la Sacra Scrittura che ci parla di Dio, nostro Signore Gesù Cristo che ci rivela il
Padre.
Nei punti di osservazione posti ad una certa altezza vi è generalmente un telescopio e, con pochi
soldi, si possono guardare e contemplare i panorami e le montagne che chiudono l’orizzonte. Noi ci
troviamo accanto a colui che guarda nello strumento ed esclama ad ogni istante: «Che rocce
magnifiche! che gole! che bellezza! qual meraviglia!». Le altre persone non vedono nulla di tutto ciò
e credono a colui che ha lo strumento dinanzi ai suoi occhi. Cristo vede nell’eternità. Mettiamoci
accanto a nostro Signore, seguiamo la Sacra Scrittura, ed ascoltiamo ciò che ci dicono di Dio. La
nostra ragione ci dice soltanto che Dio è grande, infinitamente potente... ma quanto più di Lui ci
dicono la Fede e nostro Signor Gesù Cristo!
Da ciò che nostro Signore ci dice noi sappiamo chi è Dio. «Colui che vede Me, vede anche mio
Padre» disse un giorno Gesù Cristo, e così noi sappiamo che Dio è tutto ciò che è Gesù Cristo stesso:
il Dio buono che ci attende nella felice eternità, il Dio giusto che ricompensa e punisce secondo le
opere, il Dio Santo che ha in orrore il peccato, il Dio paziente che non colpisce immediatamente il
peccatore, il Dio misericordioso che chiama a sé tutti gli erranti. Sotto quali nobili tratti nostro
Signore non ci ha fatto conoscere Iddio! E questi tratti noi studieremo nelle nostre istruzioni;
certamente dovremo salire ad altezze vertiginose e sondare degli abissi senza fondo; ma non temiamo
di niente: il Cristo ci tiene per la mano.

II.

Dio è Spirito

Nostro Signore, attraversando la Palestina, giunse un giorno a Samaria. I giudei evitavano questa
località perché, all’epoca della cattività di Babilonia, i samaritani avevano contratto dei matrimoni
con i pagani e ne avevano adottato gli usi, e i1 popolo ebreo, di ritorno dalla cattività, non li aveva più
riconosciuti come fratelli. Così essi avevano costruito un tempio per sé sul monte Garizim.
E’ là che Gesù si dirige, e nella vicinanza di questa città Egli si ferma stanco presso il pozzo di
Giacobbe. Ecco giungere una samaritana per attinger dell’acqua, e allora si inizia tra il divino
Maestro e questa donna una conversazione sublime. E’ impossibile leggere senza commuoversi il
quarto capitolo del Vangelo di San Giovanni che ci riporta per esteso questa conversazione. La donna
pone con accento angosciato questa questione: «Signore, dove si deve adorare Iddio? I nostri padri
hanno adorato Iddio su questa montagna, ma voi dite che è a Gerusalemme che bisogna adorarlo» (S.
GIOV. IV, 20). E nostro Signore pronuncia allora quella affermazione che costituisce la base
inconcussa della nostra Fede: «Dio è Spirito e coloro che adorano devono adorarlo in spirito e
verità» (S. GIOV. IV, 24).
Chi è Dio? «Dio è Spirito». Meditiamo, o fratelli, su queste parole. Il fanciullo le apprende dal
Catechismo e tuttavia il più profondo dei teologi è incapace di sondare il contenuto.
1) Dio è Spirito. - Ciò vuol innanzi tutto dire che Egli non ha corpo. E’ questa una verità
evidente, direi quasi, banale per noi cristiani. Ma dinanzi a noi si levano, come degli spettri, le tristi
aberrazioni dei secoli passati, come i concetti degni di commiserazione dei pagani della nostra epoca.
Ancora oggi vi sono centinaia di milioni di uomini che riconoscono e adorano Dio nella pietra, nei
feticci, negli idoli, nel sole, nel fuoco. E tra essi io non annovero soltanto i negri o i popoli
dell’Australia, ma bensì quei pagani inciviliti che cercano Dio nella materia e che riguardano il
mondo, l’universo, le forze della natura, queste forze cieche senza cuore e senza anima, come la
Divinità. Senza dubbio è potente la forza gigantesca che ha potuto far sorgere dagli abissi della terra
le più alte montagne; ma questa forza ha essa una volontà, e puó essere Dio? Certamente è
meraviglioso il risveglio della primavera quando i tiepidi raggi del sole versano i loro sorrisi sulla
campagna, ma un tale Dio può forse dare una risposta a un cuore umano che soffre, che è in pena, o
che lotta?
No, miei fratelli: Iddio è Spirito.
2) Ora si presenta un’altra questone: Dio è Spirito, e appunto per questo è difficile a noi, che
siamo composti di corpo ed anima, di farcene una idea. Dio è Spirito, e perciò noi ci troviamo
imbarazzati a parlarne con precisione.
Il più grande dei profeti della antica legge, Isaia, lo ha appreso da Dio stesso: «Quanto il cielo è
più alto dalla terra, altrettanto le mie vie sono più elevate delle vostre vie e i miei pensieri al di sopra
dei vostri pensieri» (ISAIA LV, 9).
Non si può dunque insistere mai abbastanza, sul fatto che Dio è Spirito, che Egli non ha corpo e
che perciò ci è impossibile di parlare chiaramente di Lui servendoci delle espressioni umane. Non
dobbiamo mai dimenticare, quando parliamo di Dio, che noi adattiamo i nostri termini, le nostre
espressioni, i nostri paragoni, presi dalla vita umana e, appunto perché siamo delle creature umane,
non possiamo pensare né parlare diversamente. Dobbiamo aver sempre dinanzi agli occhi che la
nostra espressione è inesatta e insufficiente, come quando parliamo della «mano di Dio», dell’«occhio
di Dio» ecc. La Sacra Scrittura parla del «Trono di Dio» per significare la maestà divina; essa parla
della «Destra di Dio», del «Dito di Dio», per indicare la sua potenza; dell’«Occhio di Dio» per
rappresentare la sua onniscienza. Noi però dobbiamo sapere che queste espressioni non vanno prese
alla lettera, poiché esse non sono che una maniera di parlare, umana e simbolica.
E’ invano, bisogna essere persuasi, che la piccola ragione umana cerca di scrutare Iddio infinito e
si sforza di parlarne con precisione. Ma, non è proprio possibile? No, l’intelligenza umana più acuta
non può giungere a farlo. Quanto non siamo noi distanti dal genio di S. Agostino! pur tuttavia egli
scriveva così: «Dio sorpassa ogni espressione. E’ più facile dire ciò che Egli non è, che non ciò che
Egli è. Dio non è né in terra né in mare. Tutto ciò che si trova nel mare e nell’aria non è Dio. Tutto
ciò che brilla nel cielo: le stelle, il sole, la luna, tutto ciò non è Dio. Vuoi tu sapere chi è Dio? E’ ciò
che l’occhio non ha mai visto, ciò che l’orecchio non ha mai inteso, ciò che il cuore umano non ha
mai potuto abbracciare. Ma, se il cuore dell’uomo non ha potuto abbracciarlo, come mai potrà Egli
salire alle sue labbra?» (in Ps. 85, 12).

III.

Non vi è che un solo Dio


«Io credo in un Dio solo». E’ così che comincia il simbolo degli apostoli.
Attualmente noi non possiamo renderci ben conto dell’immenso valore spirituale che racchiude
questa affermazione: non vi è che un Dio. Nei paesi cristiani ogni piccolo bambino dice: «Io credo in
un solo Dio»; niente più che uno e non possiamo neppur immaginare che si possa credere a più dei.
«Ascolta, Israele, il Signore è il tuo Dio, l’unico Dio» (Deuteronomio 4, 35). E’ così che Mosè
parlò al suo popolo e questo piccolo popolo conservò la sua Fede in un solo Dio, in mezzo
all’idolatria che lo circondava, e il «Credo in unum Deum», «Io credo in un solo Dio» è divenuto la
verità fondamentale del credo cristiano.
Vi è una verità religiosa che possa essere riguardata come più evidente e naturale? Dopo quanti
errori l’umanità ha potuto giungere fino ad essa? In quali aberrazioni non ha dovuto l’umanità
perdersi per secoli sotto il giogo delle innumerevoli divinità del paganesimo?
Non possiamo ora farci un’idea delle lotte e dei sanguinosi sacrifici che i cristiani si sono imposti
per giungere a far penetrare una verità che ci sembra così evidente nel dominio spirituale
dell’umanità. Il sangue dei primi martiri è stato versato per la Fede in un solo Dio. I missionari hanno
rinunziato alle loro famiglie, alle loro comodità, al riposo delle loro notti e spesso anche alla loro vita,
per evangelizzare i popoli pagani, per insegnar loro la Fede in un solo Dio.
Se oggi si ammette come una verità evidente la Fede cristiana in un solo Dio, non dimentichiamo
il passato, ma pensiamo con riconoscenza a quelli che con le loro fatiche apostoliche hanno dato al
nostro paese la vera civilizzazione. E non rifiutiamoci di sostenere con le nostre preghiere e con le
nostre offerte coloro che oggi lottano nei paesi delle missioni per erigere, al posto dei falsi dei,
l’altare del solo vero Dio.
Soprattutto non dimentichiamo una cosa! Senza dubbio gl’idoli dell’antico paganesimo sono
presso di noi distrutti già da lungo tempo, ma in quanti cuori umani essi non sono stati sostituiti dagli
idoli del paganesimo moderno: l’avarizia, la sensualità, l’orgoglio! Ora, «nessuno può servire a due
padroni». Non si può servire allo stesso tempo il vero Dio e gli idoli.
Chi è Dio? Ecco il problema che si delinea dinanzi a noi, ed ogni nostro discorso avrà lo scopo di
imprimere, con sempre maggior precisione, l’immagine di Dio nelle nostre anime.
La nostra religione ci presenta un quadro maestoso di Dio, ma non si può dire che esso sia
completo, chiaro e preciso fino nei suoi particolari.
L’anima congiunta al corpo, è incapace di avvicinarsi interamente a Dio. «Ora noi vediamo in
uno specchio in modo oscuro» (I Corinti XII, 12).
Ma, sapete quando noi avremo di Dio una visione chiara, quando, cioè, cadrà il velo che ora ce lo
nasconde? Ciò avverrà quando splenderà su noi l’eterna luce; sotto i suoi raggi noi potremo vedere
Iddio.
«Che splenda su esso la luce eterna». E’ magnifico l’uso cristiano: quando si dice addio ad un
defunto, mentre le ultime palate di terra cadono sulla fossa, la chiesa fa l’augurio: risplenda su esso la
luce eterna. Questo breve saluto racchiude quanto di più bello noi possiamo augurare ai nostri morti.
La luce eterna! Dove vi è la luce, si può vedere; là dove splende la luce eterna, si vede tutto, si vede
Dio. Ora, vedere Dio costituisce per l’uomo la felicità suprema, l’eterna felicità.
Già nel vecchio testamento l’uomo aveva il presentimento che per lui la suprema felicità sarebbe
consistita nel vedere Iddio. Così Mosè domanda al Signore: Mostratemi la vostra faccia (Esodo 33,
13). San Paolo va più oltre: Egli accetta ogni sofferenza e persecuzione per giungere a vedere Iddio
(II Corinti XI). Nostro Signore stesso non può promettere ai suoi più coraggiosi discepoli, agli eroi e
ai martiri della castità, una ricompensa più elevata di questa: «beati i puri di cuore, perché vedranno
Iddio» (S. MATTEO V, 8).
Fratelli, noi vedremo Dio. Noi cristiani siamo figli di uomini che cercano di uscire dalle tenebre,
per giungere alla luce, noi solleviamo la testa verso l’eterna luce, come il piccolo fiore, che dalla
camera umida e oscura, dirige la sua pallida corolla verso i raggi del sole.
Signore, non permettete che questo piccolo fiore si dissecchi; Signore, non permettete che esso
avvizzisca nell’atmosfera viziata d’una vita di peccati.
Signore, non lasciate che la tempesta del mondo lo abbatta, ma fate che al momento degli addii,
nel lasciar questa terra, si possa esclamare: Fratello! che tu veda Dio e sia felice eternamente!
«Risplenda su di te la luce eterna». Amen.

II

Dio è mio Padre - Egli ha cura di me

La professione della fede cattolica comincia con queste parole: Io credo in Dio Padre
onnipotente. Che cosa vi è di straordinario in questa affermazione? Forse, che in Dio noi non
crediamo? No. La ragione, e il cuore, il nostro passato e il nostro avvenire, la nostra vita terrena e la
nostra via futura ci costringono a credere in Dio. In che cosa dunque consiste il carattere straordinario
di questa affermazione? In ciò: che noi cristiani osiamo chiamare Dio «nostro Padre». Per noi ciò è
cosa del tutto naturale, a tal punto, che noi difficilmente potremmo immaginare che Egli possa essere
chiamato diversamente. Ma questa sublime conoscenza noi la dobbiamo unicamente a Nostro Signore
Gesù Cristo. La Grecia e Roma non hanno affatto riconosciuto in Dio un Padre; Budda non L’ha
considerato così, Maometto non Lo ha predicato sotto questo nome. Lo stesso popolo eletto
dell’antico testamento non ha avuto l’idea di chiamare Dio suo padre. Ai suoi occhi Dio era un
padrone severo che ha dato i Suoi comandamenti in mezzo a lampi e tuoni e che ne punisce
rigorosamente la trasgressione fin nelle successive generazioni. Da ciò quel terrore, per noi quasi
incomprensbile, del popolo giudeo verso Dio, per cui esso non osava neppure di pronunciare il nome.
Ma ecco apparire nostro Signore Gesú Cristo e sul suo labbro risuonare la straordinaria parola:
Abba! Pater! Padre nostro!
Fratelli, è stato questo il momento decisivo nel quale è caduto il velo che copriva la statua di
Sais. Nostro Signore stesso ha strappato il velo che avvolgeva l’immagine di Dio, e allora noi
abbiamo visto la santa, la sublime, la vivificante realtà: Dio, nostro Padre.
Nostro Signor Gesù Cristo non ha mai cessato d’affermare che Dio non è un crudele padrone che
ci considera come suoi schiavi, e che noi dobbiamo trattare con Lui, non alla maniera dei farisei,
come con un mercante, ma come con un padre che s’interessa di noi e che ci ama con tutto il cuore.
«Al principio Iddio creò il cielo e la terra». Queste parole ci mostrano Iddio onnipotente,
infinitamente sapiente, infinitamente forte, sorgente della vita e creatore di ogni cosa: ma questa
immagine di Dio trova il suo complemento nel nuovo testamento: Dio non è soltanto forza, ma anche
amore, Egli non è soltanto un giudice severo, ma anche un padre amoroso che ci aiuta ad osservare i
Suoi comandamenti: «Padre nostro» (S. MATTEO VI, 9).
Dio, nostro Padre. Quali sono le conseguenze di quest’articolo di Fede così sublime e
strettamente cristiano?

I.

Non ho nulla da temere

La prima idea che si presenta al nostro spirito e che, del resto, appare del tutto naturale, è questa:
Se Dio è mio padre, allora io non ho nulla da temere, perché certamente Egli si prende cura di me.
Qual confortante e incoraggiante pensiero: Io nulla ho da temere né nella vita, né nella morte.
1) Io non ho nulla da temere durante la mia vita. La nostra vita è piena di timori: lo scolaro teme
gli esami; l’uomo maturo teme ogni sorta di difficoltà; il vecchio ha paura della malattia e di quella
porta attraverso la quale un giorno tutti dovremo passare. Ed ecco, in mezzo ai timori, la Sacra
Scrittura mi dice: «Il Signore mi conduce e niente mi mancherà; Egli mi fa riposare nei pascoli
verdeggianti» (Ps. XXII, 1, 2).
Perché dovrei temere, dopo che in più di trenta luoghi dei libri santi io posso leggere: «Non
temere» ? Come fa bene il sentir ripetere: Non temere!
Che significa quest’espressione? Non lavorare, forse? No. Non curarti di guadagnare per la vita?
Neppure. Ma: lavora, ed abbi confidenza in Dio. Abbi fiducia che la navicella che tu piloti durante
questa vita non farà naufragio nella tempesta. Tu non soccomberai se avrai confidenza nel Padre che
è nei cieli.
Su chi o che cosa, del resto, potrei io contare? sulla forza delle mie braccia? Come essa è presto
paralizzata! Sulla mia giovinezza? Oh, come rapidamente svanisce! Sul mio vigore? Com’è
passeggero! Sugli uomini? Senza dubbio su essi pure, ma, in generale, quelli che sono ben disposti
verso di noi non possono aiutarci, e quelli che lo potrebbero non lo vogliono.
Ascoltate queste parole di nostroSignore, nelle quali egli fa allusione alle nostre preoccupazioni
terrene: «Vostro Padre sa che voi avete bisogno di tutte queste cose» (S. LUCA XII, 30). Chi lo sa?
Forse il severo legislatore? Un giudice austero? No, ma un Padre amoroso.
Quale fortuna per me avere un padre forte e potente!
Una violenta tempesta infuria sull’oceano e il grande naviglio è sballottato come un guscio di
noce sulle onde spumeggianti. I passeggeri spaventati perdono la testa e son presi dal panico; soltanto
un piccolo bambino continua a giocare in mezzo alla bufera: è il figlioletto del pilota. Alla fine il
vascello giunge a sfuggire al pericolo. I passeggeri domandano allora, incuriositi, al fanciullo per
quale ragione egli ha potuto conservarsi così calmo in mezzo al pericolo e perché egli non ha avuto
paura.
- Aver paura! Ma era mio padre che teneva il timone! - Risponde il fanciullo con un’ingenuità
commovente. Era mio padre che teneva il timone. Ah se io potessi proferire le stesse parole ad ogni
prova che mi colpisce, sull’oscuro sentiero della vita che io devo percorrere fino al termine! Ah! se io
potessi applicare a me stesso, nei giorni della sventura, queste parole di nostro Signore: «Io non sono
solo, poiché il Padre è con me» (S. GIOV. XVI, 32).
Se soltanto potessi dire col salmista: «Signore, io ho sperato in Voi. Io ho detto: Voi siete il mio
Dio. L’avvenire è nelle vostre mani» (Ps. XXX, 15).
«Il Signore è mia guida; nulla mi mancherà...» e: «quando io camminerò in una valle di ombra
mortale, io non temerò alcun male, perché Voi siete con me» (Ps. XXII, 1 e 4).
2) Io non ho nulla da temere neppure all’ombra della morte. Se ho un padre, ho pure una patria:
una patria eterna. Così ho pure la risposta al problema assillante della vita terrena. Il mondo è una
macchina di immane grandezza che si muove, in una corsa precipitosa, ma a quale scopo? Perché la
vita? Per morire? Questa non è una risposta. Perché la vita? Per servir gli altri? Ma questo non fa che
spostare il problema.
Infatti mi si pone dinanzi questo nuovo quesito: gli altri perché vivono? Tutti lavoriamo col
sudore della nostra fronte: ma a quale scopo? Siamo nella via del progresso; oppure andiamo verso la
decadenza? La nostra vita è forse come una foglia che cade, un’onda che scompare tra i flutti
spumanti, oppure la porta della patria eterna si apre grande dinanzi a noi?
«Io credo in Dio Padre onnipotente». Cioè: io ho un padre che mi attende. Davanti alla morte io
posso ripetere le parole del Cristo: «Io vado al Padre mio» (S. GIOV. XVI, 10). E dico ancora:
«Padre, io affido la mia anima nelle vostre mani» (S. LUCA XXIII, 46).
Ah! quale felicità che Dio sia il nostro padre; un padre pieno di premura per noi!

II

La Provvidenza.
Qui, o fratelli, io ho pronunciato una parola sulla quale ho il dovere di soffermarmi, voglio dire:
La Divina Provvidenza.
Basta prendere in mano un giornale di una data qualsiasi e alla lettura degli innumerevoli
incidenti, delle sofferenze, e delle lagrime che vi troviamo descritte, noi comprendiamo che non vi è
un altro articolo di fede che più possa esser messo in dubbio di quello che si riferisce alla provvidenza
del nostro Padre celeste.
Sì, sappiamo bene che talvolta ci è necessario raeccogliere tutte le nostre forze per allontanare
l’ombra del dubbio: Dio è veramente un padre che si prende cura di noi?
Quanti pianti si odono! Dov’è il padre, dov’è il Dio-Provvidenza? Dal fondo dell’abisso io ho
gridato verso di Lui, ed Egli non mi ha affatto inteso. Colle mani giunte io L’ho implorato dinanzi ai
gradini del Suo altare, ed Egli non mi ha prestato attenzione. Durante tutta la mia vita io sono stato
fedele a Lui, e tuttavia il vascello minaccia di sommergersi. Io ho osservato sempre i Suoi
comandamenti, eppure Egli non distrugge i bacilli che nascostamente m’insidiano. Quando cade la
folgore, quando il fiume rompe le dighe e straripa, quando gli uomini a migliaia e migliaia muoiono
nelle epidemie, quando poveri bambini soffrono la fame e divengono orfani... dov’è la provvidenza di
Dio? Non vi è provvidenza, ma destino, la sorte dura e crudele. Voleva il fato così...
Fratelli, quante anime non si sono tormentate a questo pensiero: non vi è provvidenza, nessuna
provvidenza!
Che cosa bisogna rispondere? Che cosa bisogna dir loro?
1) Se io volessi rispondere alla leggera, non avrei che a rappresentare altri uomini, coloro cioè
che proclamano con cuore riconoscente: sì, esiste una Provvidenza. Noi eravamo ridotti nella più
squallida miseria, ma all’ultimo momento fummo salvati. Il medico aveva abbandonato la nostra
madre gravemente ammalata, e all’ultimo minuto essa ha cominciato a migliorare. In un incidente
tranviario io sono rimasto sano e salvo, e ancora oggi non so rendermi conto come ciò possa esser
avvenuto. Tutto il mio lavoro sembrava inutile e perduto, invece alla fine è stato coronato di successo.
Sì, vi è la Provvidenza.
Ecco ciò che potrei rispondere.
Comprendo però che una simile risposta non risolverebbe affatto la questione. Non basta dire
semplicemente a coloro che piangono: voi avete torto, perché vi son molti che, malgrado le loro
sofferenze, credono nella Provvidenza, ma ho il dovere di dire: ascoltate, fratelli infelici. Io voglio
esporvi qualche pensiero che certamente potrà aiutarvi, in mezzo a questi mali terreni a entrare nella
schiera vincitrice dei credenti.
Quali pensieri? Da prima la considerazione dell’ordine che regna nel mondo, poi, le verità che ad
esso sono connesse.
2) L’armonia delle leggi della natura. Dio ha creato il mondo con ordine magnifico, ha imposto
ad esso delle leggi e noi non possiamo esigere da Dio che Egli rompa, per nostro vantaggio, l’ordine
dell’universo. Le forze della natura sono più potenti dell’uomo ed il Signore non ha fatto la promessa
che colui che crede in Lui non incontrerà alcun ostacolo in questo mondo, che sarà preservato da ogni
sofferenza. Dio non ha soltanto creato la vita umana, ma anche la legge di gravità; perciò, se una
tegola si stacca dal tetto, essa necessariamente cade secondo questa legge; tale è l’ordine del mondo.
E se il vostro bambino che sta davanti alla casa è mortalmente ferito da quella tegola, voi non avete
perciò il diritto di accusare la Provvidenza.
Per spiegare i colpi avversi della sorte bisogna anche notare che talvolta ciò che è un male per gli
uni, è invece un bene per gli altri. La tempesta ha forse danneggiato il vostro tetto, ma nello stesso
tempo essa ha purificato l’atmosfera. La pioggia ha forse impedito la vostra gita e voi ne siete irritato;
ma senza la pioggia ne soffrirebbe la campagna. La sapienza di Dio sa meglio di noi ciò che fa.
3) Eccoci ora dinanzi a questa grande, luminosa verità, l’eterna sapienza di Dio.
Leggiamo l’Edipo-re di Sofocle e comprenderemo ciò che significa la redenzione e la Divina
Provvidenza predicata dal Signore.
La commovente tragedia ci presenta nel dramma di Sofocle i pianti ed i singhiozzi dell’anima
umana prima della venuta del Cristo. Il pugno di una sorte inesorabile, di un cieco destino schiacciava
l’uomo che protendeva le sue mani verso il cielo, ma egli non sapeva che nostro Padre si trova lassù e
che Egli ascolta le preghiere di tutti i suoi figli. Le ascolta, direte, ma forse le esaudisce? Fratelli,
riflettiamo: si può rivolgersi a Dio in tante maniere. Quanti sospiri, quante pene nella vita umana!
Il cuore paterno di Dio ascolta ogni lamento, poi la Sua sapienza e la Sua onniscienza fanno una
scelta in mezzo a queste preghiere. Quelle che Egli giudica suscettibili di un utile risultato, Egli le
esaudisce secondo i nostri desideri. Quelle che Egli vede essere sfavorevole al nostro eterno destino,
Egli non le esaudisce nella maniera nella quale noi le abbiamo presentate. Perciò nessuna preghiera,
nessuna domanda rivolta al cielo rimane senza risposta: solo, la risposta non è sempre come noi
l’abbiamo sperata, come la nostra ragione, nella sua terrena debolezza, se l’era immaginata, ma nel
modo che nostro Padre, che veglia sopra di noi da migliaia di secoli, giudica più vantaggioso per noi.
Noi dobbiamo esser convinti che l’aquila reale che si libra a due o tre mila metri di altezza vede
il mondo e gli uomini in maniera affatto differente di una gallina che razzola nel suo cortile.
4) La sapienza divina dirige non soltanto gli indivdui, ma anche i popoli.
E’ vero che, nell’epoca agitata nella quale viviamo, la nostra generazione stenta assai a scoprire il
disegno meraviglioso di Dio, che veglia sul mondo e ne dirige gli eventi, e fa fatica a credere alla
Divina Provvidenza. Ma se noi ritraiamo lo sguardo dall’agitata vita attuale per riportarlo sui secoli
passati, è impossibile non scorgere la mente divina che ha tracciato le vie alla storia del mondo. E’
impossibile non scorgere la mano della Provvidenza, per esempio, in questo fatto, che allo svolto
decisivo della vita dell’umanità, è sempre apparso l’uomo o l’istituzione che all’umanità stessa erano
necessarie, in quell’epoca determinata, per proseguire il suo sviluppo storico.
Così, per esempio, quando l’antica civiltà era già matura per la sua caduta, e sarebbe stato di gran
danno che i suoi immensi tesori perissero con essa, apparve, quindici secoli fa, S. Agostino che
racchiuse questi tesori dell’antica civiltà nei fondamenti dell’edificio della civiltà nuova. Al momento
delle grandi lotte dogmatiche contro gli eretici dei primi secoli, la Provvidenza suscitò un S. Atanasio
e un S. Cirillo. Contro i tentativi cesaropapisti dell’Oriente, la Provvidenza ha stabilito e consolidato
il potere temporale dei papi; più tardi per controbilanciare la potenza temporale del papato giunto al
suo apogeo, la Provvidenza ha fatto nascere gli ordini mendicanti che praticano alla lettera la povertà
evangelica. E’ impossibile non scorgere nella storia la mano governatrice della Provvidenza.
E allora come potrei io osar di sollevarmi dinanzi all’Eterno e di domandargli conto: «Mio Dio,
perché non avete accordato questo o quello, a me indegna creatura, essere effimero, per il quale già
cresce nella foresta l’albero che dovrà un giorno servire a formargli la bara; perché non mi avete dato
questa o quella cosa, perché non avete colpito questo o quel delinquente?».
Fratelli, noi non considereremo mai con diffidenza le vie di Dio, se non perderemo di vista questi
due grandi pensieri della Sacra Scrittura. L’uno, è quella eternamente bella espressione di S. Paolo:
«o profondità insondabile della sapienza e della scienza di Dio! I Suoi giudizi sono inscrutabili e le
Sue vie impenetrabili!» (Romani XI, 33). L’altro è egualmente di S. Paolo, nella stessa epistola: «Noi
sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Romani VIII, 28).
Il mondo è un vasto teatro del quale Dio è il direttore.
Egli assegna a ciascuno la sua parte, e noi non sappiamo ciò che lo guida in questa assegnazione:
uno fa da re, l’altro da mendicante... cosa importa? L’essenziale è che ciascuno abbia una parte.
Senza dubbio colui che deve fare il mendicante per tutta la sua vita ne è scontento; colui che è colpito
dalla sventura, dalle sofferenze ne è irritato; quando noi vediamo i cattivi nella prosperità ne siamo
indignati.
Ciò però proviene dal fatto che noi siamo troppo pronti a giudicare. Fin che dura la recitazione
nel teatro non si può formulare una critica esatta; bisogna attendere che sia calato il sipario per poter
dare un vero giudizio. Il sipario della scena del mondo non calerà definitivamente che al giorno
dell’estremo giudizio, e allora gli ultimi guizzi della fiamma del mondo che finisce, metteranno in
piena luce queste parole della Sacra Scrittura: «Dio ha disposto ogni cosa per il bene di coloro che lo
amano». A tutti i miei fratelli che sono nella sofferenza, a tutti coloro che lottano contro la sorte
avversa, io non voglio dare che questo consiglio: prendete i libri santi e leggete l’ottavo capitolo
dell’epistola di S. Paolo ai Romani: «Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano
Dio» (VIII, 28). «Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?» (VIII, 31). «Chi ci separerà dall’amore di
Cristo? La tribolazione o l’angoscia? La persecuzione, la fame o la nudità? Il pericolo o la spada?»
(VIII, 35). «Né la morte, né la vita... Né le cose presenti, né le cose che devono venire, né l’altezza,
né la profondità, né alcuna creatura potranno separarci dall’amore di Dio in Gesù Cristo nostro
Signore» (VIII, 38-39).

***

Un treno espresso intercontinentale divora con rapidità impressionante lo spazio. E’ notte


profonda, senza stelle. I numerosi viaggiatori dormono tranquilamente, senza alcuna apprensione.
Solo il macchinista scruta con lo sguardo l’oscurità della notte. Improvvisamente gli sembra di vedere
come una figura bianca che fluttua davanti al fanale della locomotiva lanciata a tutto vapore e che
sembra fargli segno: «Ferma! Ferma!». Un brivido freddo attraversa il corpo del macchinista, ma il
fantasma scompare e il treno prosegue la sua corsa folle.
Poco dopo lo spettro riappare. Pallido di spavento, il macchinista afferra la manovella dei freni.
Ma l’apparizione ancora scompare. Il treno continua la sua corsa in mezzo alle tenebre.
Ed ecco che il fantasma si mostra una terza volta. Esso agita un braccio avvolto in un lenzuolo:
«Ferma! Ferma!». Il macchinista sente mancargli le forze, a tastoni egli afferra la leva e dà il
controvapore... Un fischio acuto, lacerante, lo sbattere dei vagoni gli uni contro gli altri, il cadere dei
bagagli sospesi sulle mensole, grida di viaggiatori bruscamente risvegliati dal sonno e pieni di terrore.
Tutti si precipitano fuori delle vetture. Che cosa è accaduto? Qualche metro più lontano, la linea
ferroviaria passa su un ponte magnifico. Ma durante la notte il fiume eccezionalmente ingrossato lo
ha travolto. Vicinissima ai flutti spumeggianti a qualche passo dalla riva, la locomotiva si è arrestata
fumante e ansante.
E lo spettro? Lo spettro che ha salvato dalla morte centinaia di persone? Esso non era che una
piccola farfalla che si era introdotta sotto il vetro del fanale. L’ombra delle sue ali, mentre essa si
dibatteva, appariva come un fantasma dinanzi alla macchina lanciata a tutto vapore... era essa che
aveva arrestato il treno.
Nella mano di Dio la semplice ala di una farfalla basta a salvare la vita a centinaia di creature.
Credo in Dio Padre, credo nella Sua Provvidenza.

III.

Dio è mio Padre: Egli ha cura di me (II)

Dio è nostro Padre, tale è il sublime insegnamento che è uscito dalla bocca di nostro Signor Gesù
Cristo. Nostro Padre, che con ardente amore ha cura dei Suoi figli e dirige i loro destini secondo i
disegni della Sua Provvidenza. La Sacra Scrittura parla senza interruzione e ovunque della
provvidenza di Dio.
L’antico testamento ne parla già: «Padre, è la Vostra provvidenza che governa» (Sapienza XVI,
3). «I beni e i mali, la morte e la vita, la povertà e la ricchezza vengono da Dio» (Ecclesiastico XI,
14). «Egli ha creato i grandi e i piccoli, e si prende cura degli uni come degli altri» (Sapienza VI, 8).
Il nuovo testamento ci offre i tratti più sublimi della provvidenza di Dio che «sostiene ogni cosa
con la sua onnipotente parola» (Ebrei I, 3). «Due passeri non sono forse venduti per un soldo? eppure
non ne cade uno solo in terra senza del Padre vostro... Non temete adunque, voi valete ben più dei
piccoli passeri» (S. MATTEO X, 29-31).
Realmente la Divina Provvidenza è una verità confortante della nostra religione, ma
apparentemente molte circostanze sembrano metterne in dubbio l’esistenza.
Vi sono molti che si adirano contro Dio, che perdono la loro fede, quando nel corso della vita
sono sorpresi da una qualsiasi sventura, oppure quando sono stati testimoni del trionfo del male e
dell’oppressione della virtù. Dov’è allora la Provvidenza? domandano con amarezza. Dov’è la
sollecitudine del Padre celeste? Io credo adunque necessario, o miei fratelli, di ritornare ancora sul
tema della Provvidenza, sui disegni eterni di Dio coi quali Egli guida il mondo ai suoi eterni destini.
Io sono persuaso di far cosa utile alle anime vostre che vedranno dileguarsi il dubbio e l’obbiezione,
se avranno imparato a ben comprendere: La vera idea che noi dobbiamo avere della Divina
Provvidenza, e il falso concetto che noi dobbiamo evitare di formarci di essa.

I.

Che cosa dobbiamo intendere per Divina Provvidenza.

1) Che significano i passi della Sacra Scrittura relativi alla Divina Provvidenza?
Questa domanda ha già preoccupato S. Agostino e non troviamo risposta migliore della Sua (De
Gen. ad lit. IV, 12).
Ecco quello che egli dice: Dio non agisce nei riguardi del mondo come l’ingegnere che ha
costruito la casa: la casa continua ad esistere senza l’architetto, ma il mondo non potrebbe continuare
la sua esistenza, neppure per un istante, se non lo sostenesse l’incessante azione di Dio.
Assai spesso gli artisti hanno raffigurato questa verità sulla tela: Dio, cioè, rappresentato sotto
l’aspetto di un vecchio che tiene un globo nella Sua mano. Senza dubbio la Sua immagine è
raffigurata da un punto di vista troppo umano; Dio non tiene il mondo nella Sua mano, ma con la sua
volontà creatrice conserva ad esso l’esistenza.
Che cosa dunque bisogna intendere con questa parola Provvidenza?
L’azione di Dio che dirige le sue creature verso il fine da Lui stabilito. E’ Dio stesso che
stabilisce a noi il fine supremo che dobbiamo raggiungere, ed è la Provvidenza che ci conduce verso
di esso e non già verso un fine che noi, forse, ci siamo fissati entro la cerchia ristretta della nostra
vista e del nostro modo di giudicare le cose. «I miei pensieri non sono già i vostri pensieri», dice il
Signore (ISAIA LV, 8).
Colui che si fa un’idea giusta della Provvidenza non soltanto mai giudicherà di essa, ma la
scoprirà costantemente, nell’umiltà del suo cuore, lungo il corso di tutta la sua vita.
2) «Ah! Ecco un vero miracolo» esclamano di quando in quando, gli uomini che sono usciti da
una situazione difficile e pericolosa o che hanno ottenuto un importante successo.
Vi è forse un uomo giunto all’età matura che a mente tranquilla, ponendo la mano sul cuore,
ripensando al suo passato, non sia costretto ad esclamare: E’ un vero miracolo il mondo nel quale
Iddio mi ha condotto attraverso la vita? Lungo il corso della mia esistenza io mi sono trovato in
presenza di tanti eventi, senza potermi rendere conto del loro scopo, ma che ora mi appaiono disposti
provvidenzialmente da Dio e vedo ciò che Egli voleva ottenere attraverso di essi.
Quando noi riflettiamo seriamente sulla nostra vita vediamo che la Provvidenza ha posto sul
nostro cammino uomini e circostanze difficili, affinché noi avessimo l’occasione di maturare e
perfezionare la nostra anima. Ella, per esempio, ha messo accanto a me questa persona di carattere
dolce e gaio per addolcire i tratti troppo rudi del mio. Ella mi ha fatto incontrare quell’altra persona
così facile alla critica, perché qualcuno mi dicesse la verità e m’insegnasse a conoscere me stesso. E
quell’altra che è stata per me occasione d’inciampo? Forse mi ha impedito di avere un’eccessiva
confidenza in me e mi ha fatto vedere ch’io ero ben lungi dall’essere perfetto. E quest’altra
insopportabile? Era per esercitarmi a vincer me stesso. E quel vile calunniatore? Era per vedere se io
sapevo generosamente perdonare. E quell’ammalato? Era per fornirmi l’occasione di mostrare la
riconoscenza a Dio per la mia salute. E quello così santo? Era per confondermi nella mia pochezza.
Sì, o fratelli, se noi ci abituiamo a vedere in ogni uomo che la vita ci dà come compagno un
inviato di Dio; io vado più lontano: se noi ci abituiamo non solo a proposito degli uomini, ma in tutte
le circostanze, nelle pene e nelle contraddizioni, a dire: Che cosa Dio domanda da me? Quale piccolo
idolo vuole Egli abbattere nel mio cuore? Quale errore vuole Egli risparmiarmi? Quale cattiva
tendenza vuole estirpare da me? Quale nuova forza vuole Egli risvegliare nella mia volontà?... Se non
ci poniamo queste domande, allora sentiremo in noi, giorno per giorno, l’azione della Divina
Provvidenza e saremo veramente dei cristiani fedeli che, nella felicità come nella sventura, sanno
baciare con lo stesso fervore la mano invisibile del Padre celeste, e ripetere lealmente con l’illustre
Pascal: «Signore, Voi siete sempre Dio, allorché Voi mi provate o mi punite, come quando Voi mi
consolate e mi elargite delle grazie».
3) Le vie del Signore sono ammirabili.
Qualche volta la nostra vita ci appare terribilmente incomprensibile e noi proviamo un
sentimento di angoscia e di abbattimento. Ogni cosa è contro di noi; sembra che tutti si siano alleati a
nostro danno. Quale felicità se noi possiamo allora fare questa preghiera: «Io credo in Dio Padre
Onnipotente». E’ Dio che dirige lassù milioni di stelle secondo piani che oltrepassano i limiti di ogni
umana intelligenza; è Lui ancora che dirige me secondo i Suoi piani, piani che io oggi non
comprendo, ma che un giorno certamente comprenderò. Le vie del Signore sono mirabili.
Finché l’uomo è travolto dalla corrente degli avvenimenti di ogni giorno, non scorge la mano di
Dio che guida ogni cosa; ma quando gli anni sono trascorsi ed il suo capo e divenuto canuto, egli
riconosce che la provvidenza paterna di Dio lo ha meravigliosamente condotto.
Non voglio citare che un solo esempio recente. Quando scoppiò la rivoluzione russa, insegnava
all’Università di Mosca il celebre professore di cristallografia, Artemieff. Per l’addietro egli era stato
incaricato di tenere le sue lezioni a S. Peterburg, poi egli era divenuto professore dell’Università di
Varsavia e infine dell’Università di Mosca. La rivoluzione gli fece perdere tutto il suo patrimonio e
l’obbligò a fuggire all’estero.
Mettiamoci per un momento nello stato d’animo di quest’uomo che vede distrutta la sua alta
posizione, perduti i suoi beni, che è allontanato dalla Patria. Non aveva forse egli motivo di
lamentarsi? Non avrebbe forse egli dovuto avvilirsi e darsi in braccio alla disperazione?
Ciò avveniva nel 1917. Dodici anni dopo in Vienna un uomo di una certa età era prostrato ai
piedi dell’altare dinanzi all’Arcivescovo per ricevere i sacri ordini. Era Artemieff, l’antico professore
dell’Università di Mosca che l’esilio aveva condotto prima a Berlino, poi a Vienna, dove aveva
imparato a conoscere il Cattolicismo del quale, prima, ben poco conosceva. Se egli fosse rimasto in
mezzo all’ambiente russo della chiesa greco-sismatica, forse ciò non sarebbe avvenuto. Dopo lunghe
lotte interiori e mature riflessioni, egli si era fatto cattolico nel 1924 e Sacerdote nel 1929. Come sono
meravigliose le vie del Signore!

II.

Quali idee inesatte noi dobbiamo evitare sulla Divina Provvidenza.

1) Io non ho ancora citato le parole più belle del divino Maestro relative alla Provvidenza. Ve le
voglio subito ricordare, non solamente perché sono magnifiche, ma anche perché esse sono spesso
contraddette.
L’uomo moderno si meraviglia e non comprende le parole che escono dalla bocca di Nostro
Signore: «Non inquietatevi per la vostra vita, per ciò che mangerete e berrete; né per il vostro corpo
per ciò di cui vi vestirete... guardate gli uccelli del cielo. Essi non seminano, non mietono, non
ripongono alcunché nei granai e il vostro Padre celeste li nutre. Non valete voi forse più di essi?... E
perché vi inquieterete per il vestito? Considerate i gigli del campo, come essi fioriscono... se Dio
riveste così il fiore del campo che oggi è e domani sarà gettato nel fuoco, non farà Egli di più per
voi, o gente di poca fede?... Il Vostro Padre celeste sa che voi avete bisogno di tutto ciò. Cercate
prima il regno di Dio e la Sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato in sopra più» (S. MATTEO VI,
25 -33).
Io vi ripeto: Quando l’uomo d’oggi sente parlare così, si meraviglia e non comprende. Dove
dunque siamo noi? egli esclama. In un mondo chimerico, su un altro pianeta? O in un eremitaggio del
deserto? Nel paese di Canaan dove scorrono il latte e il miele, dove i frutti dorati e i ricchi grappoli
pendono dalle piante? O piuttosto non siamo noi forse in mezzo ad una foresta di alti camini? Non
soffriamo perfino la fame al quinto piano di una miserabile costruzione di una grande città? Non
viviamo forse in mezzo a milioni di uomini che non hanno che un solo pensiero, un solo problema,
una sola preoccupazione: Che cosa noi mangeremo? Come pagheremo il nostro affitto? Come
potremo vestirci? Ed il Vangelo risponde: Non vi preoccupate di tutto questo!...
O miei fratelli, è proprio questo che ci dice il Vangelo? No, certamente. Gesù Cristo vuole
soltanto che noi facciamo la nostra parte, ma che, per il resto, noi ci rimettiamo a Dio.
Certamente noi abbiamo il dovere di lavorare per migliorare la nostra sorte, ma con confidenza e
fede nella Divina Provvidenza. Se questi due sentimenti non sono ben vivi dentro di noi, il nostro
ardore nel lavoro si spegnerà, e la nostra anima sarà avvolta dalle nubi dell’ansietà.
2) Non è dunque allora Nostro Signore il nemico dell’assiduo lavoro, niente affatto.
Non bisogna immaginare che il divino Maestro, eternamente attivo, abbia incoraggiato
un’indolenza che attende che cada la manna dal cielo, o un fatalismo mussulmano: «Ciò che è
stabilito, è stabilito ».

Nostro Signore non critica il nostro zelo e il nostro ardore per il lavoro, per guadagnarci la
vita, ma la nostra diffidenza e la mancanza di Fede riguardo a Dio.
Egli non ci proibisce di provvedere al nostro avvenire, ma di preoccuparcene troppo
ansiosamente.
E’ come se Egli dicesse: Io vi improvero, se vi lasciate totalmente assorbire dalle
preoccupazioni terrene, ma non certo se siete previdenti e attivi lavoratori. Non ho io forse
inserito nel Pater questa domanda: Dateci il nostro pane quotidiano? Il mio apostolo non ha forse
esclamato: «Se qualcuno non ha cura dei suoi e soprattutto della sua famiglia, egli ha rinnegato la
fede ed è peggiore di un infedele»? (I. Timoteo V, 8). E non è forse prescritto nei dieci
comandamenti che i genitori devono aver cura dei loro figli, e questi devono venir in aiuto ai
propri genitori? Abbiate cura di voi stessi, ma non siate schiavi dei vostri bisogni.
Lavorate, ma abbiate confidenza! Lottate, ma abbiate fede!
La fede nella Provvidenza paralizza forse il fervore nel lavoro dell’uomo? No. Senza dubbio
Iddio ha fatto cadere la manna nel deserto per gli ebrei, dunque Egli aveva cura di essi, ma essi
dovevano raccoglierla. Egli ha fatto entrare i pesci nella rete degli apostoli, dunque Egli si
preoccupava di loro, ma essi dovettero ritirarla. Egli ha assicurato all’Apostolo San Paolo dei
meravigliosi successi, ma quanto questi ha dovuto penare, faticare e soffrire! Dio dà il nutrimento
all’uccellino, ma non glielo porta nel suo nido. Credete forse che il pesce guizzi nell’acqua, che
l’uccello voli nell’aria per divertimento? No. Essi cercano il loro nutrimento.
Così voi vedete come va intesa la fede nella Provvidenza. Essa cioè non ci dice che non
dobbiamo lavorare, o che dobbiamo attendere che il cibo ci cada dal cielo.
3) Io vado ancor più oltre e affermo che il pensiero della Divina Provvidenza, il pensiero di Dio
che sostiene il mondo con un contino intervento, non solamente non ci priva della gioia del lavoro,
ma ci spinge al lavoro e ad un’incessante attività.
«Mio Padre lavora fino a questo momento» (S. GIOVANNI V, I7). Se queste parole sono vere, -
esse escono dalle labbra di Nostro Signore - allora il lavoro è un dovere sacro per l’uomo, perché noi
crediamo che l’uomo è stato creato ad immagine di Dio.
Ecco come il pensiero dell’attività divina nobilita il lavoro che l’uomo spesso considera come
una maledizione dell’umanità.
Perché il lavoro? Perché questa attività incessante, inquieta, febbrile dell’uomo? Perché
bisogna che l’uomo fatichi: penosamente e sudi? Ecco le questioni ardue che una filosofia, che
ignora Dio, è incapace di risolvere.
Perché bisogna che l’uomo lavori? E soprattutto con tanta pena? I fiori sbocciano senza lavorare.
I gigli splendono nel candore della loro bianca veste, ma essi non tessono e sono felici. Gli uccelli
trovano il loro nutrimento e non sono obbligati a rinchiudersi in un’oscura officina, o a sprofondarsi
in una miniera... Essi cantano; volano, vivono e sono felici. Solo sulla fronte dell’uomo scorre il
sudore.
Solo la mano dell’uomo porta le tracce della sua fatica. Solo le spalle dell’uomo si curvano sotto
l’abitudine dello sforzo. Solo i polmoni dell’uomo aspirano la polvere degli archivi e delle librerie. E
dal volto dell’uomo scompare la felicità del vivere.
Perché tutto ciò? Perché?
Ecco la sublime risposta: L’uomo col suo lavoro assiduo dimostra che egli è creato ad
immagine di Dio eternamente attivo. Dal giorno in cui Dio pose l’uomo «nel Paradiso terrestre,
perché lo custodisse e lo coltivasse» (Genesi II, I5), il lavoro è diventato per noi un dovere; ma se noi
osserviamo che per mezzo di esso noi diventiamo simili a Dio, allora il lavoro diviene per noi un
grande onore ed un particolare privilegio.
Agli occhi del cristiano il lavoro è un segno di stima da parte di Dio.
L’antico testamento diceva già: «Se tu vedi un uomo abile nel suo lavoro, ponilo presso i Re e
non presso la gente oscura» (Proverbi XXII, 29).
Per quanto sia penoso il sudore del lavoro e rude la mano che ha faticato, l’operaio sente
risuonare al suo orecchio queste parole del Salvatore: «O servo buono e fedele, perché tu sei stato
fedele nelle piccole cose, io ti proporrò alle grandi; entra nel gaudio del tuo Signore» (S. MATTEO
XXV, 21).
Ora io mi domando: La fede nella divina Provvidenza fa forse temere il lavoro? Ma allora
come S. Paolo avrebbe potuto scrivere a certi cristiani indolenti di Tessalonica: «Abbiamo udito
che alcuni tra voi camminano disordinatamente, non facendo nulla, ma occupandosi in cose vane.
Ora a questi tali ordiniamo e li scongiuriamo nel Signor Gesù Cristo che lavorando lietamente,
mangino il loro pane» (II Tessalonicesi III, 11-12).
Vi è un lavoro che è proprio dello schiavo: è quello di coloro che non conoscono Dio; e vi è un
lavoro che è un servizio divino, cioè il lavoro del cristiano. Se io lavoro secondo la divina volontà,
allora il mio tavolo diventa un altare, il fornello della cucina diventa un altare, la macchina da cucire
diventa un altare e il lavoro penoso, spossante diviene un ufficio divino. O miei fratelli, non
creiamoci delle illusioni. Dio non ci domanda soltanto una mezz’ora del nostro tempo alla domenica;
Egli reclama ancora ogni giorno della settimana. Io non devo soltanto lodar Dio a mani giunte per la
preghiera, ma con le mani che stringono la penna o il pennello. Io non devo soltanto lodarlo con la
preghiera, ma anche col lavoro; Lui stesso lo chiede con queste parole. «Tu amerai il Signore Dio tuo,
con tutto il cuore, con tutta l’anima tua ».
Provvidenza non vuol dire affatto indolenza. Provvidenza non vuol dire rimanere a braccia
conserte. Provvidenza non vuol dire attendere che la manna cada dal cielo. Povvidenza vuol dire
dedicarsi al lavoro per guadagnarsi la vita, prendere le precauzioni necessarie per evitare un
raffreddore, imparare coscienziosamente il proprio mestiere, fare dei piani, calcolare, fare degli
sforzi, ma... ma, durante tutto questo e ancora dopo, ripetere questa preghiera: «Signore, io ho
fatto tutto quello che dipendeva da me, ora Vi supplico, umilmente, di essere Padre per me,
Vostro figlio fedele».
Ecco l’esatto concetto della fede nella Divina Provvidenza.

***

O fratelli, una delle figure più commoventi dell’antico testamento è quella del vecchio Tobia,
del quale è impossibile legger la vita senza esserne profondamente colpiti. Quale zelo, quale
ardore, quale disinteresse, quanti sacrifici in favore del suo prossimo! E quale ricompensa ne
ottiene Egli a prima vista?
Come se Dio l’avesse abbandonato, la sventura lo colpisce nel suo caritatevole lavoro: egli
diviene cieco. Ed ora ecco il bell’elogio che traccia di Lui la Sacra Scrittura: «Anche nella sua
immensa sventura, egli non si è allontanato da Dio... Immobilis in Dei timore permansit ... Rimase
inalterato nella soggezione a Dio» (Tobia II, 13-14).
Rimase forte nella più penosa delle prove, perché egli credeva in Dio. Eppure egli non poteva
dire che: «Io credo in Dio», mentre noi possiamo aggiungere... «Padre onnipotente».
Io credo nel Padre che è nei cieli. E’ mia ferma convinzione che dietro la gigantesca
macchina dell’universo vi è una mano paterna che dirige ogni cosa. Io credo nella Divina
Provvidenza. E’ mia profonda convinzione che la vita umana non è un dramma senza scopo, che
la tomba non è un termine definitivo, che la corruzione non è l’ultima trasformazione, ma che in
un’altra patria io sono atteso da un Padre, un Padre il quale ha detto di se stesso, che Egli non è il
Dio dei morti, ma il Dio dei viventi.
Signore, io credo che Voi siete mio Padre e che vi prendete cura di me. E se Voi non
interveniste, tutto s’arresterebbe. Se Voi non interveniste, non batterebbe più il mio cuore,
s’abbasserebbero le ali dell’uccello, cesserebbe il fiume di scorrere. Se Voi non interveniste,
neppure un vermicello si muoverebbe, né una foglia oscillerebbe.
Ma Voi verrete sempre in mio aiuto, perché Voi siete mio Padre. Amen.

IV.

Dio è mio Padre - Io Lo prego

Il culto di Dio

Nelle mie ultime istruzioni io vi ho parlato della fede così consolante nella Divina Provvidenza.
Ma se Dio è nostro Padre, ne deriva qualche cosa ancor più di questa confidenza in Lui; noi
dobbiamo, cioè, rivolgerci a Lui con umiltà e rispetto.
Se Dio è «mio Padre», allora è naturale che io Gli parli, che io lo preghi. Un fanciullo può dire
forse di amare suo padre, se, per tutta la settimana, non gli parla mai? E può dire di amare suo Padre
che è nei cieli l’uomo, che non Gli parla mai con la preghiera?
Questo è il modo di pensare terreno ed umano, dirà qualcuno. Come mai Iddio immenso ed
eterno presterà attenzioni alla nostra preghiera?
Sapete che cosa io risponderei al mio contradditore? Le parole stesse che nostro Signore ha
rivolto alla Samaritana: «L’ora s’avvicina ed e già venuta, nella quale gli adoratori adoreranno il
Padre in ispirito e verità; è di tali adoratori che il Padre domanda» (GIOVANNI IV, 23). Avete
inteso? Il Padre domanda tali adoratori, perché Lo preghino.
Ad ogni pagina i Vangeli ci mostrano che nostro Signore stesso ci ha dato l’esempio della
preghiera. Talvolta Egli prega appartato, altre volte davanti ai suoi discepoli, spesso al cospetto del
popolo. Egli ha pregato quando ha detto addio al mondo, quando ha lottato con la morte, quando la
Sua anima era ripiena di gioie e quando le lacrime scendevano dai suoi occhi.
Gli Apostoli hanno imitato il Suo esempio; è evidente nei loro scritti come abbiano
frequentemente esortato i primi cristiani a pregare, e come facciano sovente allusione alle proprie
preghiere (Atti I, 24; III, 1; IV, 24; VI, 4; VIII, 15. I° Tessalonicesi I, 2. Efesini I, 16. Filippesi I,
4. Colossesi I, 3. Romani XII, 12. I Corinti VII, 5; II Corinti I, 11).
Sì, se Dio è mio Padre io devo pregarlo. Perché dobbiamo pregare? E come dovremo noi
pregare? Ecco le due domande alle quali io cercherò di rispondere.
I.

Perché dobbiamo pregare?

1) Per poter rispondere a questa domanda dobbiamo intenderci sul valore della parola «pregare».
A chi infatti conosce il senso profondo di questo termine, non è necessario raccomandare la preghiera
e ancor meno imporla, perché egli da sé cercherà tutte le occasioni per pregare.
Che significa pregare?
a) Pregare vuol dire conversare con Dio, cioè rivolgere verso Dio i nostri pensieri, la nostra
volontà i nostri sentimenti, tutto il nostro essere. La preghiera è come una corda che vibra dentro
di noi. Colui che prega sente passare dinanzi a sé il tempo e l’eternità, il cielo e la terra. Egli
sente di trovarsi ad un tratto alla presenza di Dio e a Lui indirizza la gioia ed il dolore. Ecco
perché la preghiera è uno spettacolo sublime. Ecco perché non vi è cosa più bella, a questo
mondo, di un uomo in preghiera. Non lo disturbate: ora egli prega.
L’imperatore Carlo V stava ascoltando la Messa, quando gli fu annunciato che un ambasciatore
straniero era giunto e chiedeva di essere tosto ricevuto. L’imperatore rispose: Dite all’ambasciatore
che io stesso in questo momento sono ricevuto in udienza.
b) Oh benedetta democrazia della preghiera! Quando noi preghiamo, o fratelli, noi siamo tutti
uguali. A qualunque classe sociale appartenga colui che prega, sia egli sapiente o ignorante, giovane
o vecchio, principe o servitore, nella preghiera tutti divengono uguali: tutti non sono che umili e
deboli uomini. Perché se da un lato dovrà umiliarsi colui che pregando pensa alla maestà di Dio,
d’altro lato si sentirà forte colui che sa, per mezzo della preghiera, appoggiarsi al braccio del Signore.
La vita terrestre si svolge come al fondo delle vallate; dalle altezze della montagna le acque
si precipitano nella valle e fecondano il suolo.
Sulle altezze della fede nasce la sorgente, le cui acque vivificanti impediscono alla nostra vita
terrestre di disseccarsi. Sapete qual è questa sorgente? E’ la preghiera.
2) Colui che sa tutto ciò può subito rispondere alla domanda che ci siamo proposti: Perché
dobbiamo pregare? Dio, grande ed eterno si degnerà, forse, di attendere le preghiere dell’uomo così
piccolo, e debole? Sapete che cosa io rispondo?
Voi avete ragione. Dio non è ridotto ad attendere le nostre preghiere, bensì noi siamo
obbligati a pregare, perché noi abbiamo bisogno di Dio.
a) Si può fare su Dio dei discorsi, si possono scrivere dei libri, si possono tenere dei
ragionamenti, ma soltanto può sentire Dio colui che sa far giungere a Lui delle parole di
riconoscenza, di pentimento, di domanda, di lode, cioè colui che prega. Non è possibile spiegare ciò,
bisogna esperimentarlo, con una buona preghiera che eleva l’animo, fortifica la volontà, purifica lo
sguardo, aumenta la pazienza, e, notatelo bene, calma i nervi, i nervi così irritati dell’uomo odierno.
Non meravigliatevi se vi dico che l’effetto di una buona preghiera alla sera, è superiore ad una
pastiglia di qualsiasi calmante.
Se il chirurgo prima dell’operazione, il giudice prima di un processo imbrogliato, il padre di
famiglia prima di prender un’importante decisione, elevassero, per un istante, la loro anima
dicendo: «Signore, rimanete presso di me, aiutatemi a ben compiere il mio dovere», allora si
sentirebbero d’un tratto nel pieno possesso delle loro forze, e s’accorgerebbero che il loro
orientamento verso Dio, ha fatto nascere in essi, in una maniera tanto inaspettata come
inesplicabile, delle novelle sorgenti d’energia.
Orientarsi verso Dio. Andare a prender consiglio da Dio. Dinanzi alla complicazione della vita
moderna, l’uomo, spesso, si trova completamente disorientato. Allora egli si rivolge da ogni parte, fa
dei progetti, scrive, telefona, domanda consiglio a destra e a sinistra, e alla fine la confusone è ancor
più grande nella sua testa che al principio. Colui invece che crede in Dio, a Lui domanderà il suo
primo ed ultimo consiglio.
Qualcuno ha detto, ed ha giudicato esattamente la situazione: «L’uomo d’oggi ha molti piaceri,
ma poche gioie». Egli compra a prezzo assai caro nei luoghi di divertimento questo o quel piacere,
ma non può trovare in esso una gioia riposante che ristora e vivifica.
Oh se egli conoscesse le gioie di una buona preghiera! Pregare è tacere, ascoltare, riposarsi. Oh
quali grandi benedizioni sono oggi queste cose! I nostri nervi sovraeccitati si calmano, e la nostra
anima abbattuta gusta il beneficio riposante della preghiera, nel raccoglimento della nostra piccola
camera, nel silenzio della chiesa, nella calma delle cime delle montagne, nella solitudine del bosco.
Ecco perché si prega meglio al mattino, quando la nostra anima non è ancora agitata dagli
avvenimenti del giorno, e alla sera, quando non si ha più bisogno di preoccuparci per la giornata
ormai trascorsa.
Che beneficio per noi! Come dobbiamo essere riconoscenti alla nostra santa religione! Essa ci
spinge alla preghiera quotidiana; che ci assicura ogni giorno qualche minuto di tranquillità. Appena
infatti finita la nostra preghiera del mattino, noi non abbiamo più un minuto di tregua; tutto il nostro
tempo è dedicato all’ufficio, alle nostre occupazioni in mezzo alla precipitazione ed all’ansietà e,
forse, alla dissipazione. Noi siamo più infelici delle nostre macchine che possono almeno riposare la
notte, mentre mille preoccupazioni vengono a turbare i nostri sonni. Solo durante la preghiera si può
dire dell’uomo: Ora tu appartieni finalmente a te stesso... alla tua anima... a Dio.
Come dobbiamo esser riconoscenti di poter pregare!
b) L’amore della preghiera è una caratteristica del vero cristianesimo. In nessuna parte del
mondo si prega con tanto fervore e così frequentemente come nella nostra santa religione.
Nessuno prega con più fervore di noi, perché noi non crediamo soltanto che Dio è il sovrano
Creatore del mondo, ma ancora che Egli è il nostro Padre celeste che dirige il cammino del mondo e
dell’umanità. Come Creatore, Egli può venirci in aiuto; come Padre, Egli vuole aiutarci.
Forse voi direte che anche nelle altre religioni si prega. Senza dubbio, ma non come presso i
cristiani. Non sono lo stesso fervore, la stessa confidenza, la stessa intima convinzione. Noi solo
infatti possiamo associare, parlando di Dio, questi due termini apparentemente inconciliabili:
Creatore e Padre.
Davanti al Creatore infinitamente potente noi ci umiliamo nella profondità del nostro nulla; ma
davanti al nostro Padre noi riprendiamo coraggio e, stringendoci al Suo cuore, noi parliamo.
La prima parola che anche in altri tempi il fanciulletto sentiva pronunciare da una famiglia
cristiana era il nome di Gesù. La prima lezione, il primo lavoro dell’intelligenza di questa tenera
creatura, non consisteva in un vano complimento, ma in una piccola preghiera. E quante volte non
viene ancora sul labbro di una madre veramente cristiana questa domanda: Figlio mio, hai detto la
tua preghiera? E quando il fanciullo dà l’addio alla casa paterna, egli sente ancora questa ultima
raccomandazione di sua madre: Non dimenticare di dire le tue preghiere.
Nessuna religione sulla terra sente la sublimità di Dio così intensamente, come la religione
Cristiana; è perciò naturale che essa domandi che il culto divino, che la preghera non cessi mai sulla
terra.
La preghiera del mattino e della sera, ecco la bella e pia abitudine dei cristiani. Come è edificante
il pensare che non vi è un sol momento in cui non ci siano degli uomini che si mettono in ginocchio
per pregare il Signore, poiché quando in una parte della terra spunta il mattino, la notte spiega altrove
le sue ali! La santa Chiesa Cattolica va ancora più oltre nel culto di Dio. Ella sa bene che i suoi fedeli,
causa le loro occupazioni terrene, non hanno il tempo sufficiente per pregare, durante la giornata;
perciò Ella ha prescritto rigorosamente ai suoi Sacerdoti di consacrare almeno un’ora ogni giorno alla
preghiera. Questa preghiera imposta al Sacerdote è il Breviario.
Il Breviario del prete, la prescrizione della Chiesa, non ci fanno forse sentire più profondamente
la maestà di Dio? Il Breviario non è la preghiera personale del Sacerdote, ma l’inno della lode che
esce in ogni parte del mondo dalle labbra della S. Chiesa Cattolica, per salire, senza interruzione,
verso il Padre che è nei cieli. Sì, in ogni parte del globo. Colui che viaggia molto e sa osservare con la
delicatezza di un’anima cristiana non mancherà, io credo, di farne l’esperienza, quando incontrerà, un
po’ dappertutto, un rappresentante ufficiale della Chiesa cattolica nel suo compito di adoratore
perfetto di Dio, un prete mentre sta dicendo il suo Breviario. Lo vedrà nel compartimento di un treno,
sul ponte di una nave, come nel sentiero di un bosco; nel giardino fiorito di un chiostro e nella
solitudine della Missione dell’Uganda o dell’Alasca, dovunque incontra il prete che dice il suo
Breviario. Ecco come sa pregare la S. Chiesa.
Sì, come un inno di festa, la preghiera risuona interrottamente attraverso tutta la storia del
cristianesimo: sotto le oscure volte delle catacombe, come sotto le cupole che si slanciano verso il
cielo, nel palazzo dei re o nella capanna dei poveri, sotto il rombo del cannone e nel tumulto della
vita quotidiana, presso il letto degli ammalati e sull’ara nuziale, al confessionale ed alla
balaustra... dovunque si prega. Dio solo conosce le innumerevoli preghiere di milioni di cuori
umani, felici o disgraziati, preghiere che salgono, ogni giorno, verso il cielo.

II.

Come dobbiamo pregare

1) Attualmente l’insegnamento delle lingue straniere è assai diffuso. Dovunque si trovano


dei corsi per appendere le lingue vive, perché esse sono indispensabili nelle relazioni
internazionali.
Le relazioni con l’altro mondo hanno pure la loro lingua ufficiale: la preghiera. Dio,
senza dubbio, comprende ogni lingua, ma Egli non ne esaudisce che una sola: la lingua della
preghiera. Molti si affannano per imparare l’inglese, il francese o il tedesco. Oh se
consacrassero altrettanto tempo per imparare la lingua sopraterrestre! Eppure è necessario
impararla e saperla usare.
Impararla? Da chi? Chi può esser il miglior maestro di questa lingua sopraterrestre? Non
meravigliatevi se io vi rispondo: Il mendicante e il fanciullo.
Il mendicante. Perché preghiamo noi? Perché noi siamo poveri e Dio è ricco; noi siamo deboli ed
egli e forte. Più uno si rende conto durante la preghiera che è povero davanti a Dio, e migliore sarà la
sua preghiera, più umile, più fervente, più perseverante.
E il fanciullo. Il fanciullo sa ben esprimere i suoi sentimenti anche senza parole, semplicemente
con un gesto, uno sguardo, un movimento, un sorriso. II bambino parla già bene, prima di saper
servirsi della sua lingua e sua madre lo comprende. E com’è ardente, cordiale questa conversazione,
questa preghiera senza parole! Il Santo Curato d’Ars aveva osservato che uno dei suoi parrocchiani
trascorreva lunghe ore immobile dinanzi al Santo Tabernacolo. «Che fate voi durante tutto
questo tempo?» gli domandò il Curato. «Io Lo guardo ed Egli mi guarda». Che magnifiche
parole piene di pietà e di fervore filiale! Si può dunque pregare senza parlare, senza muoversi,
ma a condizione di contemplare con amore sincero e riverente il Santissimo Sacramento, il
Crocifisso.
2) Per dare qualche utile indicazione per una buona preghiera voglio presentarvi
brevernente queste tre idee: a) noi preghiamo Dio che è sopra noi; b) noi preghiamo Dio che è
in mezzo a noi; c) noi preghiamo Dio che è dentro di noi.
a) Noi preghiamo Dio che è al di sopra di noi. E’ una particolarità della lingua umana il
chiamare «superiori» quelli che dobbiamo rispettare. Questo nome di superiori significa che
noi li poniamo a un grado più elevato di noi stessi. Lo studente vede il professore sulla
cattedra, il giudice è assiso ad un tavolo elevato, il sovrano domina su un trono. E’ dunque
naturale che, quando noi pensiamo a Dio, la più alta autorità, i nostri occhi si dirigano,
spontaneamente verso il cielo. Il sacerdote in preghiera, durante la Messa, eleva le mani verso
il cielo. Del resto è ciò che ci ha insegnato il Salvatore stesso che pregava di frequente così
(S. MARCO VI, 41; VII, 34).
Vogliamo forse noi, con ciò, mettere in dubbio che Dio sia da per tutto? No, ma con
questa attitudine noi vogliamo semplicemente venire in aiuto all’anima affinché, durante la
preghiera, sia liberata dalle preoccupazioni terrene e si elevi al di sopra delle cose create, al di
sopra delle montagne e delle valli, delle foreste e degli oceani, al di sopra di milioni di stelle, e
liberatasi così dal mondo creato, quanto è possibile ad un essere composto di corpo, essa possa
adorare umilmente il vero Dio che si eleva al di sopra di questi mondi.
Ecco uno che, assiso presso il suo apparecchio della radio, cerca qualche stazione. Egli prova,
ma non sente niente. Che è successo adunque? Le lampade sono intatte, l’antenna è a posto,
l’accumulatore è appena cambiato, eppure non sente niente. Finalmente ne scopre la causa:
l’antenna è a contatto con la terra. La preghiera dell’anima attaccata alla terra è appunto così: non
trova eco in cielo. Bisogna isolare l’antenna, e allora io sentirò il concerto nel mio apparecchio;
quando la mia anima prega, bisogna tagliare il contatto con la terra, e allora la mia preghiera troverà
eco nel cielo.
Così bisogna pregare Iddio che è sopra di noi.
b) Noi preghiamo Dio che è in mezzo a noi. Dio in mezzo a noi? Ma non abbiamo appena detto
che Egli è al di sopra di noi, al di sopra di tutte le cose create? Eppure è così. Voi conoscete l’inizio
del Vangelo di S. Giovanni: «Al principio era il Verbo e il Verbo era Dio» (S. GIOVANNI I, 1).
«E il Verbo si è fatto carne ed ha abitato fra noi» (S. GIOVANNI I, 14); ciò vuol dire che il Verbo
di Dio, il Figlio di Dio, ha preso un corpo come il nostro ed è vissuto in mezzo a noi, e quando è
risalito presso il Padre suo, Egli non ci ha abbandonato, ma è rimasto in mezzo a noi, sugli altari,
nel Santissimo Sacramento.
c) Infine noi preghiamo Dio che è dentro di noi. Come va intesa questa espressione? E’ mai ciò
possibile?
Se lo dicesse un uomo io non lo crederei. Ma io sono obbligato a credere le parole di Nostro
Signore. «Se qualcuno mi ama, disse un giorno il Divino Maestro, egli conserverà la mia parola, e
mio Padre lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (S. GIOVANNI XIV,
23).
Queste parole non sono forse abbastanza chiare? Colui che ama Dio e osserva i suoi
comandamenti, ha Dio nella sua anima; quale sublime rivelazione! Tale uomo è il tempio vivente di
Dio, un tabernacolo vivente.
Io prego Dio non solamente con le mie parole, ma anche con la mia maniera di vivere. La più
bella preghiera è una vita passata nell’osservanza dei comandamenti. Quando io dico che con la
nostra vita noi preghiamo Dio che abita in noi, non faccio che ripetere le parole di S. Paolo:
«Glorificate e portate Dio nel vostro corpo» (I Corinti VI, 20).
Vi sono dei compositori che hanno scelto, per le loro opere, questo titolo singolare: «Canto senza
parole». Un canto e una preghiera senza parole in onore a Dio, ecco una vita umana trascorsa secondo
la volontà di Dio.
Alla luce di questi pensieri noi comprendiamo la lodevole abitudine dei più ferventi cattolici, che
non lasciano passare alcuna festa senza accostarsi ai Sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. In
verità è questa la più bella maniera di celebrar una festa, facendo ritornare dentro di noi, appena la
polvere della vita terrena copre la nostra anima e la rende vittima della debolezza umana, il Dio
della misericordia e del perdono.
O miei fratelli, preghiamo Dio che è in noi.

***

Un vecchio pescatore aveva preso nella sua barca un giovane. Su uno dei remi era scritta la
parola: «preghiera», su l’altro: «dovere». Il giovane disse in tono sprezzante: «Brav’uomo voi
siete in arretrato. Colui che lavora non ha bisogno di pregare».
Il vecchio non rispose, soltanto depose il remo sul quale era scritta la parola «preghiera» e
vogò con l’altro. Egli vogava, vogava... ma la barca non faceva che girare intorno a sé, senza
avanzare. Il giovane capì allora che accanto al remo, «lavoro», era necessario anche l’altro:
«preghiera».
Perciò io prego Dio che è al di sopra di noi: è la preghiera abituale del mattino e della sera;
prego Dio che è in mezzo a noi: è la preghiera che io faccio in chiesa; prego Dio che è dentro di
noi: è la mia vita regolata secondo la volontà di Dio. Non è necessario prescrivermi, sotto pena di
peccato, d’andare alla Messa, di confessarmi e di comunicarmi. Non è necessario comandarmi di
pregare. Mia forza e mia gioia è d’aver un Padre in cielo; mia consolazione è di vedere Dio
degnarsi di accogliere le mie parole; il più grande onore per me è d’aver il diritto di pregare.

V.

Dio è mio Padre: Io L’amo

Quanto più profondamente noi ci addentriamo in questo pensiero che Dio è nostro Padre,
tanto più il nostro cuore batte con ardore per Lui. Dio è nostro Padre, perciò Egli ha cura di noi, e
noi confidiamo in Lui. Dio è nostro Padre, perciò noi Lo adoriamo. Oggi noi saliamo più in alto e
aggiungiamo nuovi colori al quadro che abbiamo dipinto del «nostro Padre celeste». Noi cristiani
non soltanto temiamo Dio, non solo Lo preghiamo e c’inchiniamo umilmente dinanzi a Lui, ma
abbiamo anche dei rapporti con Lui, che i seguaci di altre religioni non hanno: Noi amiamo Dio.
Noi Lo amiamo di un amore ammirabile, filiale e con una tenerezza senza pari. Noi Lo amiamo,
perché Egli è il nostro Padre celeste. I pagani avevano i loro idoli e non osavano guardarli senza
tremare. II popolo ebreo conosceva Iddio, ma sotto la sua preghiera si udiva costantemente una
nota di timore. Noi invece cristiani guardiamo verso Dio, senza tremare e senza temere, con
amore senza limiti.
Come siamo giunti a sapere che dobbiamo amare Dio? Ecco il tema che ora tratteremo ed
insieme esamineremo come dobbiamo manifestare il nostro amore verso Dio. Io posso dunque
riassumere brevemente in due quesiti il soggetto del mio discorso:
1°) Perché dobbiamo amare Dio ? 2°) Come dobbiamo amare Dio?

I.

Perché dobbiamo amare Dio?

1) A questa domanda io potrei subito rispondere: dobbiamo amarLo, perché Egli ce l’ha
comandato.
I Farisei si compiacevano di commentare la legge con una scrupolosa sottigliezza. Essi avevano
così scoperto più di trecento proibizioni e più di duecento comandi; niente di straordinario se poi il
popolo non sapeva più distinguere quale fosse il più importante comandamento.
Un giorno essi domandarono a Nostro Signore, come noi leggiamo nel Vangelo della XVII
domenica dopo Pentecoste, qual è il più grande comandamento? E la risposta del divino Maestro li
stupì. In mezzo alle numerose prescrizioni, ai comandamenti e alle proibizioni Egli mise al primo
posto quello al quale essi avrebbero meno pensato; un comandamento, per così dire, sperduto nella
massa: «Tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutto il tuo
spirito» (S. MATTEO XXII, 37).
E’necessario soffermarci un poco su questa risposta.
Chi può meglio comprendere l’uomo? Certamente Colui che l’ha creato: Iddio. Il Creatore ha
messo in mezzo del corpo umano, cosa notevole, non il cervello ma il cuore, quasi ad indicare che
nell’uomo il cuore avrebbe avuto un compito ancor più grande del cervello. Nostro Signore infatti ha
indicato come primo comandamento, il comandamento del cuore: l’amore. Qual è il più grande dei
comandamenti? avevano domandato al Salvatore. E che cosa Egli ha risposto? Applicate tutta la
vostra intelligenza a comprendere Dio? No. Ma: amate Dio con tutto il vostro cuore. Quale segno
meraviglioso della paterna bontà di Dio questo, d’imporci di amarLo! Sì, l’amor di Dio è la nostra più
grande felicità, è la sorgente della nostra gioia, il nostro onore, il nostro sostegno. Sarebbe già un
favore incomparabile per noi, se Dio ci avesse soltanto permesso di amarLo ma Egli è andato oltre e,
precisamente perché Egli ha visto che il Suo amore avrebbe dovuto essere nostra vitale necessità, non
solamente Egli l’ha permesso, ma ancora l’ha formalmente prescritto: Tu amerai il Signore Dio tuo.
Amiamo dunque Dio, perché Egli ce lo ha comandato.
2) Se io continuo a rispondere alla questione, perche noi amiamo Dio, aggiungerei: Noi amiamo
Dio perché Egli è la bellezza infinita.
Dio è bello? Come lo so io? Infatti io non ho visto Dio. E’ vero: io non ho mai visto Dio, ma ho
visto le impronte delle Sue mani, ho visto i colori del meraviglioso quadro che è questo mondo, ed io
ne sono ammirato.
O miei fratelli, amate voi i fiori, le praterie profumate, le messi che ondeggiano sotto la brezza?
Amate voi le cascate della montagna, il fruscio del bosco, le cime nevose, il mormorio del mare?
I turisti che vanno a vedere il lago dei quattro Cantoni non mancano di fare l’ascensione del rigi-
chulm per assistere ad una splendida levata del sole.
E’ buon mattino, i grandi ghiacciai sono ancora avvolti in un’onda grigiastra. Poco a poco spunta
il giorno, la luce aumenta. Ad un tratto il sole si mostra e le cime delle montagne s’accendono come
torce fiammanti, i ghiacciai ed i nevosi pendii rosseggiano come dei fiumi di fuoco. E in un silenzio
assoluto si sente più di un petto sospirare: O Dio, o Dio infinito!
Quante bellezze vi sono nel mondo! Quanto grande dev’essere la bellezza di Dio, se la sua
ombra, il mondo creato, è così magnifico!
Io posso dunque dire: Io amo Dio, perché Egli è bello.
3) Ma non basta. Io amo Dio più che perché Egli è bello, perché Egli è buono, infinitamente
buono.
a) Gesù ha detto un giorno: «Nessuno è buono se non Iddio solo» (LUCA XVIII, 19).
Non è questa un’esagerazione? Non vi è forse alcuna bontà nell’uomo? Si dice infatti di molti:
- E’ un buon uomo - e qualche volta perfino: - è la stessa bontà.
Sì, miei fratelli, chi oserebbe negare, che in mezzo a noi, grazie a Dio, non vi sia della bontà? Chi
oserebbe negare che gli uomini abbiano anch’essi delle buone qualità? Soltanto io non oserei
affermare che l’uomo è totalmente buono, che egli è la stessa bontà. Egli può essere religioso,
sacerdote, papa, ecc., ma egli è sempre un uomo, e l’uomo è un miscuglio di bene e di male. E per
impedire al male d’impadronirsi di noi, dobbiamo continuamente lottare contro noi stessi. Alcuni
riescono a riportare una vittoria completa, ma anche presso di loro è ancora possibile che il male
riprenda la sua rivincita. Non si può dunque dire mai di un uomo che egli è totalmente buono.
«Nessuno è buono, se non Iddio solo». Egli è la sorgente di ogni bontà, perché la bontà è la sua
stessa essenza. Se nell’uomo vi è un frammento di bontà, egli l’ha ricevuto dalla sorgente della
bontà, cioè da Dio, proprio come i pianeti ricevono la loro luce dalla sorgente della luce stessa: il
sole.
Nel profeta Isaia Iddio adopera un magnifico paragone, quando vuole mostrare la Sua bontà
verso il Suo popolo. «Io ti ho portato sulla palma delle mie mani» (ISAIA XLIX, 16). Così parla il
Signore. Di tutti i suoi membri è della mano che l’uomo ha più bisogno; egli l’ha costantemente sotto
i suoi occhi. «Aver una cosa fra le mani» vuol dire ricordarsi, senza tregua, di quella cosa; pensare,
senza interruzione, a quella cosa.
Come dev’essere buono Iddio per promettere di pensare sempre a noi!
Che Dio sia buono per noi e che Egli ci ami tanto, è proprio della Sua natura. Egli non può
restringere la Sua bontà, il Suo amore che si espande dovunque. E’ possibile forse impedire al fuoco
che arde di produrre il calore? E’ possibile impedire al sole che splende di diffondere ovunque la sua
luce? Ma ciò che il fuoco e il sole fanno involontariamente, Dio lo fa liberamente, manifestando
dovunque la Sua bontà.
b) Come Dio manifesta la sua bontà.
Innanzi tutto Egli l’ha mostrata dando l’esistenza all’universo, e conservandogliela.
Volgiamo soltanto lo sguardo sul mondo dai ricchi colori: tutto proclama la bontà del Creatore.
Nostro Signore stesso ha attirato su ciò la nostra attenzione: «Guardate i gigli del campo, gli uccelli
dell’aria». Ascolta il mormorio del ruscello e il vento che spira; tutto canta: come Dio è buono! «Egli
dà il nutrimento ai piccoli della cornacchia che gridano verso di Lui», dice il Salmista (Salmi CXLVI,
9).
Si potrebbe rispondere: è la vecchia cornacchia che dà loro il nutrimento. Senza dubbio; ma chi
ha dato alla madre l’istinto di nutrire i suoi piccoli?
In verità, il mondo intero proclama che Dio è buono.
Ma Dio dimostra ancor più la sua bontà verso gli uomini, perché Egli ci ama con amore
disinteressato; senza merito da parte nostra, senza misura.
Egli ci ama con amore disinteressato. In qualunque amore terreno si congiunge sempre qualche
interesse, o qualche obbligo, o qualche legame del sangue, anche nell’amore dei genitori e dei figli.
Noi amiamo qualcuno perché è stato buono con noi, perché ci ha aiutato, perché ci piace, perché
noi abbiamo bisogno di lui. Ma Dio ama con disinteresse. Egli non ha bisogno affatto di noi, non
possiamo renderLo più felice, e perciò Egli ha detto: «Io ti ho amato di un amor eterno »
(GEREMIA XXXI, 3).
In secondo luogo: Egli ci ama senza alcun merito da parte nostra; perché chi oserebbe dire che
ha meritato la bontà e l’amore di Dio? Gli angeli forse potrebbero dirlo. I Santi, forse, pure
potrebbero affermarlo. Ma io potrei dirlo? Tutte le colpe della mia vita passata mi ritornano alla
memoria ed io esclamo col Salmista: «Che è l’uomo perché Voi vi ricordiate di lui?» (Salmi V III,
5). Tutte le colpe della mia vita passata sono dinanzi a me, ed io esclamo col Profeta Geremia: «E’
una grazia del Signore che noi non siamo annientati» (Lamentazioni III, 22).
Tutti i miei peccati sono dinanzi a me, ma io dico con S. Paolo: «Dio mostra il Suo amore
verso di noi in ciò, che, mentre noi eravamo ancora peccatori, Gesù Cristo è morto per noi»
(Romani V, 8).
In verità, Dio ci ama senza merito da parte nostra.
Dio ci ama senza misura.
Io non finirei mai se volessi enumerare tutte le manifestazioni dell’amor di Dio per noi. Egli ci
ama quando ci dà dei genitori pieni di sollecitudine e degli ottimi amici. Egli ci ama, quando ci dà
l’integrità del corpo e la salute. Egli ci ama, quando ci dà le facoltà dell’anima. Per il momento io
non parlo di tutto questo, mi basta ricordare che il Padre mio celeste mi ha amato, fino ad inviare
Gesù Cristo, nostro Signore, che «mi ha amato e si è sacrificato per me» (Galati II, 20).
Quando Abramo nel suo amore per Dio, era vicino a compiere il più grande dei sacrifici, a
immolare suo figlio, un Angelo trattiene il suo braccio e gli dice: «Ora Dio ha riconosciuto che tu
Lo ami, ora che tu stavi per compiere il sacrificio del tuo più caro tesoro, il tuo unico figliuolo».
Noi pure sappiamo, dopo il pomeriggio di venerdì santo, come Iddio ci ha amato quando, in
quel giorno Egli ha sacrificato per noi il Suo più prezioso tesoro, il Suo unico Figliuolo. «Per
riscattare il vostro schiavo, voi avete dato il vostro Figlio alla morte» afferma S. Agostino.
Io vi scongiuro dunque, o miei fratelli, con S. Giovanni: amiamo Dio, «perché Egli ci ha amato
per primo» (I Episto1a di S. GIOVANNI IV, 10) . E g l i ci ha amato con disinteresse, senza alcun
merito da parte nostra, senza misura.
II.

Come dobbiamo amare Dio

Secondo nostro Signor Gesù Cristo, il dovere più sacro dell’uomo è quello di amare Dio. Se
adunque questo è per me il dovere supremo da cui dipende il mio destino, io desidero sapere se
veramente possiedo l’amor di Dio. Vi è un segno esteriore, una prova, cioè, che io amo Dio? Per
esempio, il mio cuore batte più forte quando io penso a Dio? Se io mi sento commosso, se dei
raggi di gioia illuminano il mio viso, se io sono penetrato da fervore nella mia preghiera, è questo
segno dell’amor di Dio?
Molti fanno sentire questo lamento: «Io non so ciò che mi avvenga. Alcune volte io sentivo
un dolce fervore quando pregavo, ed ora non provo niente. E’ forse segno che non amo più
Dio?». No, certamente. Anche i sentimenti più forti non sono dei segni certi di un vero amor di
Dio. Uno può sentirsi trasportato, entusiasmato, rapito in presenza di Dio, ma questa non è la
prova che io lo ami. Un’altra anima, forse, non è capace di provare simili impressioni, e tuttavia
essa può bruciare d’amore per Dio.
S. Paolo esortava i fedeli di Roma ad esclamare come dei fanciulli: «Abba pater» (Romani
V I I I , 1 5). Appunto in questa esortazione si trova la risposta alla domanda come dobbiamo amare
Dio: precisamente come il fanciullo ama suo padre d’un amore riconoscente e pronto al sacrificio.
Che si tratti di un giovane o di una giovane, d’un vecchio o d’un uomo maturo, poco importa:
davanti a Dio il vecchio centenario e il re potente non sono che dei fanciulli.
Qual è dunque il segno p i ù sicuro del nostro amore verso Dio? Eccolo: esso sta nella nostra
riconoscenza verso di Lui e nel nostro spirito di sacrificio e di adesione alla Sua volontà. La
misura nella quale noi siam pronti a sacrificarci per Dio e per il nostro prossimo, per amor Suo, è
la misura del nostro amore per Iddio.
1) Bisogna dunque amare Dio: a) con cuore riconoscente e b) con amore generoso.
a) Bisogna amare Dio con cuore riconoscente.
«Mio Dio!». Quanti, oggi, pronunciano questa parola senza riflessione, senza alcun motivo!
Se essi pensassero soltanto a ciò che dicono!
Sapete come un discepolo di S. Francesco d’Assisi parlò ad un giovane frivolo e leggero?
Egli lo condusse presso un uomo cieco e paralitico. «Ditemi, se qualcuno vi ridonasse la vista e
l’uso delle vostre mani non amereste voi quest’uomo?».
«Se lo amerei! - esclamò il cieco - io sarei suo schiavo per tutto il resto della mia vita».
«Vedi, - disse il religioso volgendosi verso il giovane frivolo - qualcuno ti ha dato tutti i
sensi sani e molte altre cose in più; ebbene, come tu manifesti la tua riconoscenza verso di Lui?».
b) Bisogna amare Dio con generosità. Il libro de1l’Apocalisse parla di persone che portano
sulla fronte il nome divino (XIV, 1). Quante volte durante la nostra vita noi abbiamo fatto il segno
della croce, ogni volta noi abbiamo tracciato sulla nostra fronte il nome di Dio Padre.
Ma ciò non dev’essere una vana cerimonia; consacriamo a Dio Padre tutto ciò che si trova
dietro la nostra fronte, voglio dire tutti i nostri pensieri. Se Dio è mio Padre, devo dunque cercare
di farGli piacere. E come? Accettando le Sue parole e osservando i Suoi comandamenti. Ma essi sono
difficili, alcuni toccano casì al vivo... Che importa?
Al fanciullo non piacerebbe di eseguire gli ordini dei suoi genitori, pur tuttavia essi esigono da
lui l’obbedienza. Il giovanetto non comprende abbastanza, si irrita, protesta quando i suoi genitori,
nel suo proprio interesse, gli proibiscono qualche cosa. Se egli fosse più ragionevole direbbe: Se papà
e mamma mi rifiutano questo, essi ne sanno il perché, lo fanno certamente per il mio bene.
Ecco ciò che penserebbe il fanciullo se fosse più ragionevole. Ed è ciò appunto che dovrebbe
pensare l’uomo maturo di Dio, quando Egli gli rifiuta qualche cosa o quando gli domanda qualche
sacrificio.
Non meravigliatevi, se io discendo qui ai più minuti particolari della vita di tutti i giorni e se vi
dico: colui che ama veramente Dio non osserverà i suoi comandamenti meno coscienziosamente di
quello che fa per le esigenze della moda. Il passato ed il presente ci offrono su ciò numerosi esempi.
Nel XVIII secolo, alla vigilia di una grande festa, il parrucchiere preparava, a forma di
Babele, la capigliatura di una dama alla moda ed essa era obbligata a passare tutta la notte su una
poltrona, senza muoversi, per non compromettere l’equilibrio della sua capigliatura.
Forse che Iddio c’impone di passare simili notti? E sono appunto quelle dame che si dispensano
poi facilmente dall’assistere alla Messa della domenica col pretesto di essere stanche o indisposte! O
vi è forse un comandamento che imponga un digiuno rigoroso, come per esempio le prescrizioni di
una cura dimagrante? E forse sono quelle persone che riguardano come troppo severo il precetto della
Chiesa e lo proclamano come una tortura per l’uomo moderno che, se la moda lo esigesse,
ingoierebbero, senza resistenza, il gesso sciolto nell’aceto, unicamente per acquistare una linea più
slanciata.
2) Dio e il prossimo. Questa è la seconda caratteristica del vero amore di Dio: Tu amerai il tuo
prossimo.
Se io amo Dio, se io Lo amo realmente, allora io amo anche il mio prossimo e dò alla parola
«amare» il suo genuino significato. Sapete per quale ragione, oggi, è così difficile parlare dell’amor
di Dio? E’ perchè si è fatta derivare da questa parola ogni sorta di contraffazioni dell’amore.
«Amare». Nell’atmosfera priva di cuore e frivola del nostro tempo, questa parola sacra o è
caduta in oblio, oppure, ciò che è ancor più doloroso, ha preso un significato peccaminoso.
E’ caduta in oblio perché la vita moderna l’ha calpestata. Oggi colui che è povero deve
soffrire la fame. Oggi colui che è debole deve scomparire. Colui che è malato è di peso alla sua
famiglia. Colui che ha lavorato fino ad esaurire le sue forze deve morire. Colui che muore oggi,
domani è dimenticato. L’amore è morto.
Se il nome sussiste, dietro ad esso si nasconde un veleno mortale. Il nome esiste ancora:
sui manifesti del cinematografo, nei titoli delle opere teatrali, nei romanzi, esso è tema
trattato in lunga e in largo e non permette che la nostra gioventù si conservi casta e pura.
Questa parola così bella e così nobile, amore, non serve piú che da mantello per coprire le piú
volgari passioni.
Come volete parlare al mondo odierno dell’amore di Dio? Parlate ad un cieco dei raggi tiepidi
del sole di maggio. Parlate al morente della felicità del vivere. Parlate ad un politico di un viagio
attorno al mondo. Piantate al Polo Nord dei fiori tropicali. L’uomo diffidente, sospettoso,
egoista riguardo agli altri, è parimenti diffidente, sospettoso, egoista riguardo a Dio.
Non ama Dio colui che è crudele, senza cuore, senza amore, insopportabile e ostile verso il suo
prossimo. Colui che possiede in sé il vero amore di Dio, non può nasconderlo, lo fa irraggiare su chi
lo avvicina, come il sole rischiara la luna durante la notte, e la luna non si può nascondere, ma rinvia
alla terra ed agli uomini immersi nelle tenebre, la dolce luce che ha ricevuto dal sole.
Volete sapere se amate Dio? Domandate a voi stessi se avete seguito le parole dei libri Santi: «se
Dio ci ha amato così, noi dobbiamo pure amarci gli uni con gli altri. Se noi ci amiamo gli uni con gli
altri, Dio dimora in noi ed il suo amore è perfetto in noi» (I Epistola di S. GIOV. IV, 11-12).

***

Fratelli, Dante, il grande poeta cristiano, termina il suo poema presentando l’amor divino
che fa muovere il sole e tutte le stelle. Se fa muovere il sole inerte e le fredde stelle, quanto
più a ragione deve muovere me, uomo dal cuore caldo e vivente!
Io amo dunque Dio e lo amerei anche qualora Egli non me lo comandasse. Io amo Dio e lo
amerei anche se Egli non fosse così bello. Io amo Dio, perché Egli è buono e perché il suo amore mi
benedice, mi nobilita, e mi eleva, mi fortifica. «Se tu ami la polvere, esclama S. Agostino, diventerai
polvere. Se tu ami Dio, diverrai simile a Dio».
Io amo Dio, perciò non mi rivolgo a Lui con uno sguardo accigliato ed amaro. Io non dico con
risentimento: sono obbligato ad ascoltare la Messa alla domenica, a mangiare di magro il venerdì, a
confessarmi almeno una volta all’anno... lo farò, poiché è necessario. No! Ma con tutto il cuore, con
tutta la mente, con le mie speranze e i sentimenti della mia anima, esclamerò senza tregua: - Signore,
io sono felice di poterTi amare, sono felice di potermi chiamare Tuo.
Sono da compiangere quegl’infelici, nei quali la fede religiosa si è assopita, che cercano,
attraverso le vie tenebrose dell’errore, di soddisfare i bisogni istintivi della loro anima anelante a Dio.
Un sistema d’occultismo insegna ai suoi adepti che vi sono nel corpo umano delle molecole
misteriose e sconosciute che permettono di conoscere il mondo sopra-sensibile e sono chiamate «fiore
di loto». Colui che sa svilupparle in sé vedrà delle cose, intenderà delle melodie che né occhio, né
orecchio possono percepire. Ma tutto ciò non è che pura immaginazione ed un vano desiderio.
Il vero fiore che vive nella nostra anima è il fiore della fede. Se noi lo coltiviamo, se viviamo per
esso, cioè, se veramente amiamo Dio, allora parteciperemo veramente alla felicità di cui parla S.
Paolo: «Né occhio ha mai visto, né orecchio ha mai inteso, né cuore umano ha mai provato ciò che
Dio riserba a coloro che lo amano» (I Corinti II, 9).
Ed ora, o miei fratelli, mettiamoci in ginocchio, e recitiamo la magnifica preghiera del Newman,
il grande Cardinale inglese, convertito dal protestantesimo:
«Signore, tra le vostre braccia io sono tranquillo; se Voi avete cura di me, io non ho nulla da
temere; se Voi mi abbandonate, io perdo ogni speranza. Io nulla so del mio avvenire, ma io ho
confidenza in Voi. Vi prego perciò di accordarmi ciò che è bene per me, Vi supplico di allontanare da
me ciò che potrebbe nuocere alla mia salvezza. Io conto interamente su Voi, perché Voi sapete e io
non so. Se Voi mi mandate la sofferenza e la pena, fatemi la grazia di ben sopportarla, preservatemi
dall’agitazione e dall’egoismo.
Se Voi mi date la forza e la salute e il successo nel mondo, fatemi vigilante affinché i Vostri
magnifici doni non m’allontanino mai da Voi. Fate che io Vi conosca, che io creda in Voi, che io Vi
ami, che io Vi serva. Possa io vivere per Voi e morire nella maniera che Voi giudicherete più utile
alla Vostra gloria».

VI.

La Santissima Trinità

S. Paolo nella epistola agli Ebrei scrive: «Senza la fede è impossibile piacere a Dio. Poiché
colui che va a Do deve credere che Egli esiste e che è rimuneratore di coloro che lo cercano» (Ebrei
XI, 6).
Io devo credere che Dio esiste «Io credo in Dio Padre onnipotente». E’ così che comincia il credo
cattolico e la fede in un solo Dio è base del cristanesimo stesso. Ma la fede cristiana possiede ancora
un secondo articolo, altrettanto importante, e fondamentale; un articolo che, a prima vista, sembra sia
in contraddizione col primo.
«Io credo in Dio», e tosto soggiunge: «io credo nella Santissima Trinità». «Io credo nel Padre
Onnipotente». E subito dopo «Io credo in Gesù Cristo suo unico Figliuolo», «Io credo nello Spirito
Santo».
Entrambe queste verità hanno la stessa importanza. Colui che non crede in Dio non può essere
cristiano, né può esserlo colui che non crede nella SS. Trinità.
Senza questa verità fondamentale, tutto il cristianesimo sarebbe incomprensibile ed inesplicabile,
perché la personalità e la vita di nostro Signore Gesù Cristo, la Sua dottrina, le Sue sofferenze non
trovano il loro fondamento che nella fede nella Santissima Trinità.
Non vi ha tra questi due dogmi una contraddizione, per cui l’uno esclude l’altro?
Su che cosa si basa questa dottrina della SS.ma Trinità, il patrimonio più delicato della
nostra fede? Non è forse un’assurdità, una sfida alla ragione umana questo dogma? E se
esso è in realtà una verità della fede rivelata, ha forse una ripercussione sulla nostra vita
religiosa? Ecco le domande che oggi attendono una risposta dal nostro discorso. Noi
studieremo le ragioni per le quali il cristianesimo insegna la fede nella SS. Trinità. Poi
confuteremo le difficoltà che apparentemente si oppongono. Infine esamineremo
l’importanza che questo dogma ha sulla vita religiosa.

I.

Per quali ragioni noi crediamo nella SS. ma Trinità

La fede nella SS. Trinità è una dottrina tutta propria del cristianesimo. Essa è la
grande porta, il solo ingresso per il quale devono passare tutti coloro che vogliono entrare
nel campo cristiano. E’ nostro Signor Gesù Cristo stesso, che ha aperto questa porta per la
quale devono entrare quelli che vogliono diventare Suoi discepoli. «Andate, insegnate a
tutte le nazioni e battezzate nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo» (S.
MATTEO XXVIII, 19).
Non si può certamente essere cristiani, se non si è battezzati, ma non si può essere
battezzati che nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Non si può dunque
essere cristiani, se non si crede nella Santissima Trinità.
La SS. Trinità! Il più grande mistero della fede cristiana. Una sola divinità, ma tre
persone divine. Il Padre è Dio, il Figliuolo è Dio, lo Spirito Santo è Dio. Tuttavia non sono tre Dei:
Non vi è che un solo Dio. Un Dio in tre persone.
Chi può comprendere ciò? Non la ragione umana.
Chi può formarsene un’idea? Non l’immaginazione umana.
Chi lo crede? Ogni cristiano le crede con umile fede.
Ma perché adunque noi lo crediamo? Unicamente perché nostro Signor Gesù Cristo ce
lo ha insegnato! E ce lo ha insegnato con precisione tale che noi siamo obbligati a credere
alla Sua parola.
Egli ha insegnato esplicitamente che Egli è il «Figlio di Dio», ma in senso totalmente
differente da quando noi uomini ci chiamiamo figli di Dio, cioè figli Suoi adottivi. Dio ha
dunque un Figlio.
Ma Egli dice ugualmente un’altra volta: «i1 Padre ed io siamo una sola cosa» (S.
GIOVANNI X, 30); dunque non vi sono due Dei. «Dio Padre» e «Dio Figlio» non sono due
Dei.
La Santa Scrittura non parla solamente del Figlio di Dio, la seconda persona divina,
ma anche di una terza persona, lo Spirito Santo. Noi leggiamo, per esempio, che quando
Gesù si è fatto battezzare nel Giordano, lo Spirito Santo è disceso su Lui sotto forma di
colomba (S. MATTEO III, 16).
Noi leggiamo che Gesù ha promesso lo Spirito Santo, lo Spirito di verità che dimorerà
sempre con gli Apostoli (S. GIOVANNI XIV, 17).
Noi leggiamo che, la sera del giorno di Pasqua, Gesù soffiò su di essi per comunicar
loro lo Spirito Santo onde rimettere i peccati (S. GIOVANNI XX, 22, 23).
E noi Lo sentiamo inviar a battezzare nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito
Santo (S. MATTEO XXVIII, 19).
Queste citazioni sono chiare e così indiscutibili che è impossibile lasciar in disparte la
fede nella Santissima Trinità. Comprendiamo noi? No. Crediamo? Sì, con umiltà.
Uno dei più acuti teologi, S. Agostino, si lambiccava inutilmente il cervello su questo
profondo mistero, mentre camminava sulla riva del mare. Voi conoscete certamente questa
scena deliziesa. Un fanciulletto giocava sulla sponda e metteva in una piccola buca l’acqua
del mare che egli attingeva con una conchiglia. Egli voleva versare il mare immenso nella
piccola fossa. Il grande pensatore sorrise e gli disse che ciò sarebbe stato impossibile. «Io ci
arriverei prima che la tua ragione umana limitata potesse comprendere l’essenza divina e i
misteri della Santissima Trinità», rispose il fanciulleto.

II.

Le difficoltà

E è vero che noi non possiamo comprendere i misteri della Santissima Trinità, non ci è tuttavia
proibito di riflettere su di essi e di sforzarci di rispondere alle difficoltà che si presentano alla nostra
mente.
«Credendo a questo mistero noi siamo obbligati ad ammettere qualche cosa che ripugna alla
ragione umana, può dire qualcuno: tre non possono essere uno. E uno non può essere tre».
E’ vero, uno non può essere tre e tre non possono essere uno. E se la fede cristiana
esigesse da me di credere una tale assurdità, io stesso non sarei più cristiano. Ora nel dogma
della Santissima Trinità non si dice questo. Noi non crediamo che in Dio vi sia una persona e
insieme che ve ne siano tre, noi non crediamo che in Dio vi sia una natura e insieme tre
nature; sarebbe un’assurdità. Ma noi crediamo che ciò che è uno sotto un aspetto, sia tre sotto
un altro aspetto. Dio è uno, se noi consideriamo la Sua natura, ma Egli è trino, se, in
quest’unica natura noi consideriamo le persone. La ragione umana ha fatto tutti gli sforzi
immaginabili per sondare, il più possibile, questo mistero, ma giammai ella potrà
comprenderlo.
S. Agostino, uno degli spiriti più penetranti che tanto si è affaticato intorno a quest’argomento,
ha preso dai fenomeni della natura i più meravigliosi paragoni, ma il mistero non è divenuto più
chiaro, finché non gli è accaduta la scena graziosa che noi abbiamo ricordato. Ecco qualcuno dei
paragoni di S. Agostino: Noi non chiamiamo la sorgente fiume e non diamo al fiume il nome di
sorgente, e la goccia d’acqua che noi beviamo alla sorgente non è la sorgente del fiume, tuttavia in
tutte e tre vi è la stessa acqua. Dunque sorgente, fiume, goccia sono tre cose, ma una sola acqua (De
fide et Simb. c. IX, 17).
S. Agostino prende un’altra comparazione dalle tre facoltà dell’anima. La memoria,
l’intelligenza, la volontà, tre facoltà di un solo e stesso essere; l’anima (De Spirit. IX, 12).
Si sono cercati altri paragoni. Tre uomini possono avere lo stesso pensiero: sono tre
pensieri ma una sola verità, un unico oggetto. Il sole brilla sull’acqua e alla sua superficie si
riflette la sua immagine, esso si riflette su uno specchio e ancor ivi appare la sua immagine;
dunque l’immagine del sole è insieme nel cielo, nell’acqua, e nello specchio; vi sono tre
immagini e uno unico sole.
Sul piano io posso far un accordo con tre note: tre note un solo accordo.
Io prendo in mano un’ametista; essa mostra se la si guarda su tre faccie tre colori differenti e
tuttavia non è che una sola cosa.
Vi è l’acqua liquida, vi è il ghiaccio e la nube; l’essenza di queste tre cose è l’acqua.
L’elettricità muove, riscalda, illumina e tuttavia essa è sempre la stessa.
Precisamente l’ingegnosità spiegata dalla ragione umana per trovare dei paragoni, prova che
ciascuno di essi zoppica ed è sempre lontano dalla realtà. Così le arti sono nell’imbarazzo quando si
tratta di rappresentare la SS.ma Trinità. Nelle Chiese del Medioevo veniva rappresentata per mezzo di
un grande Y o per mezzo di una grande T; nell’uno e nell’altro vi sono tre braccia in una sola lettera.
Generalmente la SS.ma Trinità è rappresentata da un triangolo che ha nei centro l’occhio di Dio che
vede tutto. Certamente questi non sono che degli sforzi umani, dei paragoni incompleti, e dopo tutte
queste immagini e riflessioni, io sono obbligato a dire con l’anima credente: «Io credo benché io non
comprenda».
Ma a proposito del mistero della SS.ma Trinità, non vediamo noi, forse, con meraviglia che Dio
ha sparso attraverso il dominio del pensiero umano, appunto questo numero di tre? Io posso dire:
il mondo è ripieno delle tracce nascoste della Santissima Trinità. Tutto ha un inizio, un corso
ed una fine. Ogni essere vivente nasce, cresce e muore. Il tempo comprende il passato, il
presente e il futuro. Un proverbio dice: «Tutte le buone cose sono tre» e sembra l’eco delle
parole del Salvatore: «Nessuno è buono se non Dio solo» (S. MARCO X, 18). Dio in tre
persone!
Per la nostra ragione la Santissima Trinità è un mistero che non arriviamo a comprendere,
ma noi vediamo tuttavia che essa non è affatto contraria alla ragione stessa, come
pretenderebbero i miscredenti, ma soltanto al di sopra della nostra ragione. Essa sarebbe
contraria se si sostenesse che tre è uguale a uno. No, noi non sosteniamo che vi sono tre dei e
che tuttavia questi tre sono uno solo, ciò sarebbe ridicolo, ma che vi sono tre persone divine
in un’unica divinità. Dunque non vi sono tre nature divine ma un’unica natura.
«Io non comprendo», ecco ciò che posso dire; ma che «ciò ripugna alla ragione» io non
ho il diritto di affermarlo.
Io non comprendo. Ma non sono io solo; nessuno comprende. Avete già visto come i
grandi artisti cercano di rappresentare gli angeli nel cielo? In ginocchio davanti a Dio, con la
testa inclinata. Quanto a maggior ragione quest’atteggiamento conviene alle creature umane!
«Tantum ergo mysterium veneremur cernui».
Noi non comprendiamo. Se ci trovassimo nel fuoco di un gigantesco riflettore, avremmo
l’impressione d’essere in un oceano di luce, non vedremmo altra cosa che la luce, sempre,
dovunque luce.
Chi volesse comprendere il mistero della SS.ma Trinità, dimostrerebbe la presunzione di voler
racchiudere nella propria mente limitata Colui che è infinito: Dio.
Il diacono Suplio di Catane subì nel trecentoquattro, il martirio per la fede cristiana. Il giudice
disse al martire che si contorceva per il dolore: «Infelice, prega gli dei. Adora Apollo, Esculapio...».
II martire rispose: «Io prego il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Io prego la SS.ma Trinità, fuori di
Essa non esiste Dio».

III.

L’importanza del dogma della SS. Trinità nella nostra vita religiosa

Un’altra questione può ancora sorgere nel nostro spirito e io non vorrei lasciarla senza risposta. Il
dogma della SS. Trinità è il più difficile della Religione Cristiana, la prova più ardua per la nostra
Fede. Colla nostra ragione noi non lo comprendiamo, ma noi crediamo perché il divino Maestro ce lo
ha insegnato. E perché nostro Signore ha voluto manifestarcelo? Sembrerebbe che questo dogma
fosse del tutto estraneo alla vita religiosa e totalmente indifferente a noi, perché dunque Cristo l’ha
rivelato, pur sapendo che noi non avremmo potuto comprenderlo? Certamente molte altre verità ci
sarebbero forse sembrate più interessanti, eppure Egli non ne ha fatto parola.
Quando per esempio avrà luogo la fine del mondo? Cristo non lo ha detto. La più gran parte
dell’umanità andrà salva o dannata? Che avviene dei fanciulli morti prima di aver ricevuto il
Battesimo? Saremmo curiosi di conoscere qualche cosa su ciò e Cristo niente ha detto, ma Egli ha
parlato della SS.ma Trinità.
Noi non comprendiamo, ma questo dogma, anche per quel poco che noi possiamo intendere, ci
rivela delle grandiose verità spirituali. Colla conoscenza della Santissima Trinità: 1) noi
comprendiamo Dio assai meglio; 2) noi preghiamo Dio con più fervore, 3) noi amiamo di più il
prossimo; e 4) noi sopportiamo meglio la vita terrena. Ecco le conseguenze pratiche di tale
rivelazione.
1) Innanzi tutto il dogma della SS. Trinità ci delinea e ci presenta in magnifici tratti l’immagine
di Dio. Se noi non avessimo mai inteso parlare della SS. Trinità la faccia di Dio sarebbe rimasta
sempre oscura per noi.
Immaginiamo, col pensiero, di sollevarci da questa terra e di portarci al di sopra del mondo
creato, svincolandoci dai legami della materia, e di prostrarci dinanzi al trono eterno di Dio.
Che cosa vediamo noi? Vediamo Iddio tutto solo, in un eterno isolamento?
Quest’idea è intollerabile. Essere eternamente solo. Sapete che significa essere solo? Essere
abbandonato, incompreso, vivere senza amore.
Situazione più penosa di ogni malattia.
Ed ora potete voi credere che Dio sia eternamente solo? Ch’Egli sia incompreso eternamente?
perché certamente una creatura non potrà mai comprenderlo.
Che Egli resti eternamente senza amore? perché una creatura non potrà mai amarlo nella
misura che a Lui conviene. E poi, soggiungono i miscredenti: «Che cosa ha fatto Iddio da tutta
l’eternità? Che cosa faceva Egli quando il mondo non esisteva?...».
Ascoltate la splendida risposta del dogma della SS. Trinità a tutte queste domande. Dio solo può
conoscere Dio perfettamente ed è questa Intelligenza che noi chiamiamo «Figlio di Dio». Il Padre ed
il Figlio si amano di amore infinito ed è il loro reciproco amore che noi chiamiamo Spirito Santo. In
questa conoscenza perfetta di Dio e per questo perfetto amore divino, Dio è eternamente e
perfettamente felice. O beata Trinitas! O felice Trinità!
Noi non possiamo dunque comprendere il dogma della SS. Trinità, tuttavia questa fede apre le
profondità vertiginose della vita meravigliosa che si svolge eternamente in Dio. Quale forza e quale
luce la fede nella SS. Trinità non dà alle parole di S. Paolo: «Il Re dei Re, il Signore dei Signori, che
solo possiede l’immortalità, che abita in una luce inaccessibile, che nessun uomo ha visto o può
vedere, al quale appartengono l’onore e la potenza eterna» (I Timoteo VI, 15-16).
2) Io vado oltre: non solamente Iddio ci appare più grande, ma noi possiamo così meglio
pregarLo.
Noi possiamo solo intravvedere il mistero dalla SS. Trinità, ma ciò che noi sappiamo di
Esso deve riempirci d’una meravigliosa e santa venerazione.
Senza dubbio una verità di fede così profonda facilmente rimane fuori del centro dei nostri
interessi, se noi non ci prendiamo cura di studiarla seriamente e di metterla a contatto della vita
della nostra anima.
«Vi sono tre persone in Dio e queste tre persone non sono che un solo Dio». Questa è la
nostra fede; ma io non mi fermo qui e continuo la mia idea. Se vi sono in Dio delle «persone», allora
vi è qualcuno a cui si può chiedere qualche cosa, che si può amare, col quale si possono avere «delle
relazioni personali». Io entro in relazione col Padre, gli parlo, Lo ringrazio di avermi dato la vita,
l’intelligenza, la ragione, il cuore. Io parlo col Figlio che si è fatto uomo, che è divenuto mio fratello,
che ha immolato il Suo corpo per me e per me ha versato i1 Suo Sangue. Io parlo con lo Spirito
Santo, che si diffonde nella mia anima come Spirito del Padre e del Figlio e che fa nascere in me ogni
buona risoluzione e tutte le mie buone intenzioni. Se io prego così con umiltà la SS. Trinità, io la
comprendo meglio di ciò che possa fare qualsiasi sistema filosofico.
Ora noi comprendiamo perché la Santa Chiesa inondi, per così dire, di lodi la SS. Trinità.
Noi cominciamo e finiamo le nostre preghiere pensando ad Essa. Noi cominciamo e finiamo
la Messa e la predica invocandola. L’amministrazione dei sacramenti è intimamente unita ad
Essa, e la Chiesa non benedice altrimenti che nel nome della SS. Trinità. Alla fine dei salmi,
degli inni, delle preghiere, risuona sempre la lode alla SS. Trinità: «Gloria al Padre, al Figlio
e allo Spirito Santo, come era in principio, ora e sempre nei secoli dei secoli».
3) Cerchiamo ancora di avvicinare l’insondabile dottrina della SS. Trinità alla nostra vita
religiosa. La fede nella SS. Trinità c’insegna ad amarci gli uni e gli altri.
Nostro Signor Gesù Cristo ha ispirato i più forti motivi per questo reciproco amore alla dottrina
della SS. Trinità. Nell’ultima cena Egli ha rivolto al Padre, con tutta la Sua anima, questa preghiera
per i Suoi discepoli: «...Che tutti siano una cosa sola, come Voi, o Padre mio, siete in me ed io in Voi;
così essi pure siano una sola cosa» (S. GIOVANNI XVII, 21).
Al di sopra delle nostre teste splende i1 sole vivificatore. Esso risveglia la vita, riscalda,
rischiara, e in questa triplice attività esso resta unico... è ancora un’immagine per far
comprendere la SS. Trinità. Ma il sole non è soltanto il disco fiammante come lo scorgiamo
attraverso le nubi, esso può paragonarsi ad una perpetua fornace, ad un grande vulcano
eternamente in azione, in continua attività. Permettetemi di applicare questo paragone a Dio uno e
trino che non rimane in una infruttuosa immobilità, ma è perpetuamente attivo e dà la vita per
mezzo della forza creatrice e dell’amore santificatore.
I nostri padri amavano consacrare di preferenza gli ospitali alla SS. Trinità. La loro anima,
profondamente religiosa, aveva fatto loro sentire che l’amore generoso, puro, votato per il bene del
prossimo, è più ardente in coloro che amano con più fervore la SS. Trinità, quella Trinità nella quale
l’eterno reciproco amore del Padre e del Figlio si chiama Spirito Santo. Dio è il Dio dell’amore, e
solo colui che ama Dio, ama pure il prossimo e osserva così il grande comandamento (S. MARCO
XII, 30, 31), perché «Dio è amore, e colui che rimane nell’amore rimane in Dio e Dio in lui» (I S.
GIOVANNI IV, 16).
4) Infine il dogma della SS. Trinità dà forza per la vita terrena. Dio comprende se stesso e
questa comprensione è il Figlio di Dio. «Dio è luce e non vi sono tenebre in Lui» (I S. GIOVANNI
I, 5). Se io vivo secondo la volontà di Dio, cioè se io vivo in Dio, allora la mia vita pure si rischiara,
essa si svolge nella luce, «io comprendo il senso della vita». Ma se io dovessi passare una vita nelle
tribolazioni e nelle sofferenze, l’esistenza sarebbe per me un puro enigma.
Il Padre e il Figlio si amano scambievolmente e questo amore è lo Spirito Santo. «Dio è
amore»; se io vivo in Dio, io possiedo nel mio cuore l’amore di Dio che vivifica e fortifica, anche
se l’amarezza e l’egoismo della vita terrestre mi affliggessero.
Voi adunque vedete che il mistero di un Dio solo in tre persone non soltanto mi permette una
conoscenza meravigliosa dell’essenza divina e getta su di essa una splendida luce, ma esso fa pur
giungere forza e luce sulle dolorose deficienze della vita umana.

***

O fratelli, la tradizione popolare racconta che l’aquila trasporta i suoi piccoli, di appena pochi
giorni, ad altezze vertiginose e li volge verso il sole. Se essi sopportano la luce sfolgorante senza
danno, allora essa li riconosce per suoi figli, ma se abbassano le palpebre essa li lascia
immediatamente cadere: non sono degni di divenire la sua posterità.
La nostra buona madre, la Santa Chiesa, fa realmente ciò che la leggenda racconta dell’aquila.
Col battesimo, quando il bambino ha appena pochi giorni, ella pone l’uomo, testè nato, di fronte
all’articolo di fede più vertiginoso e più difficile, il dogma della SS. Trinità, ed essa non lo riconosce
per suo figlio e non lo conta tra i suoi fedeli che quando ha pubblicamente professato la sua fede in
questo mistero. Da quel momento la fede nella SS. Trinità lo accompagnerà durante tutta la sua vita.
Dal primo segno di Croce, quando noi abbiamo cominciato a far uso della nostra ragione, questa fede
ci accompagna fino all’ultimo istante, fino al momento supremo, nel quale l’uomo, in piena
conoscenza, dice addio alla vita. I buoni cristiani del giorno d’oggi ancora cominciano così il loro
testamento: «Nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo».
La prima espressione religiosa che ha colpito il nostro orecchio quaggiù è stata la professione di
fede nella SS. Trinità nel nostro battesimo. E l’ultimo pensiero religioso ci sarà suggerito, dalle parole
del Sacerdote che pregherà accanto al nostro letto di morte: «Parti da questo mondo, anima cristiana,
nel nome di Dio, Padre onnipotente che ti ha creato, nel nome di Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente,
che ha sofferto per te, nel nome dello Spirito Santo, che è disceso sopra di te». E il Sacerdote
continuerà così la sua preghiera: «Noi vi raccomandiamo, Signore, l’anima del Vostro servo...
ricolmatela della gioia della Vostra presenza... egli ha peccato, ma non ha mai rinnegato la fede nel
Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, egli ha conservato la fede, ... e adora Dio fedelmente».
Certamente, io voglio credere in Dio, io Lo voglio fedelmente adorare. Quando io lavoro e sudo,
quando io compio, coscienziosamente, il dovere del mio stato, allora io servo Dio. Quando io recito le
mie preghiere, e vado in chiesa, e mi confesso e mi comunico io Lo servo ancor meglio.
Ma se io mi sforzo di essere amabile, dolce, conciliante, caritatevole con tutti, se io mi sforzo di
vivere senza commettere peccato osservando i comandamenti, allora io servo nella maniera migliore
il mio Dio.
O Signore, è nel nome della SS. Trinità che io ho ricevuto il battesimo; è nel nome della SS.
Trinità che io faccio così spesso il segno della croce; è nel nome della SS. Trinità che io voglio dire
addio a questo mondo... Concedetemi la grazia di contemplare un giorno faccia a faccia la Trinatà
Santa e di ottenere l’eterna felicità.
Amen.

VII.

Dio creatore

Tre mila anni or sono, il poeta ispirato del popolo giudeo, esclamava in uno dei suoi salmi:
«Signore, nostro supremo padrone, glorioso è il Vostro nome su tutta la terra!» (Ps. VIII, 2).
Eppure, a quell’epoca, gli uomini non sapevano grandi cose sulla vastità del mondo. Essi non
conoscevano i misteriosi fossili dei tempi preistorici, né l’immenso regno dei corpi celesti, né la
macchina a vapore, né l’elettricità, né la radio.
Sotto i nostri occhi il mondo continua a crescere in modo gigantesco; è necessario che anche la
nostra conoscenza di Dio di pari passo s’accresca. Non è più il Salmista di 3000 anni fa, ma siamo noi
che dobbiamo esclamare: «O Signore, come sono grandi le Vostre opere!».
Quando il torrente, dalla montagna, si precipita ruggendo, quando infuria la tempesta, quando
romba il tuono, io esclamo: «O Signore, come sono grandi le Vostre opere!».
Quando si alza il sole di maggio, quando esso getta, alla sera, i suoi ultimi raggi, quando
tinge di color rosa le Alpi dall’eterne nevi, io esclamo: «Signore, come sono grandi le Vostre
opere!».
Quando io conto le pulsazioni del mio polso, quando io guardo col microscopio le centinaia di
migliaia di microbi che vivono in una goccia d’acqua, quando io osservo, col telescopio, la corsa dei
corpi celesti io esclamo: «Signore, come son grandi le Vostre opere!».
«All’inizio Dio creò il cielo e la terra» (Genesi I, 1). Così comincia il libro sacro e tutta la Bibbia
è ripiena di lodi, uscite dal labbro dei Profeti e del Salmista, a Dio Creatore (ISAIA XL, 26; XLII, 5;
XLIV, 24; GEREMIA X, 12; Proverbi XVI, 4). Il Salmista proclama: «Il soccorso mi viene dal
Signore che ha creato il cielo e la terra» (Ps. CXX, 2); S. Paolo dice che «da Lui, per Lui ed in Lui
sono tutte le cose» (Rom. XI, 36), e che «Egli dà la vita ai morti e chiama le cose che non sono, come
se esse fossero» (Romani IV, I7), e che «Egli ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso» (Atti
XVII, 24).
Dio è onnipotente, ecco ciò che afferma la Sacra Scrittura un gran numero di volte (per
esempio, ESTER XIII, 9; Apocalisse XI, 17; XV, 3; XVI, 7), ma anche se essa mai l’avesse
detto, la onnipotenza divina è uno degli attributi che l’uomo più facilmente riconosce e
continuamente constata nella considerazione della grandezza del mondo e della sua propria
importanza.
Una tempesta si scatena nel cielo di estate e la folgore cade con fracasso... il suolo, che noi
crediamo fermo, trema sotto i nostri piedi... l’uragano furioso abbatte la quercia robusta...; il
fiume straripa spumeggiando... tutto ciò ci offre uno spettacolo impressionante, mentre spontanea
ci viene questa riflessione: Come deve esser potente il Creatore, che con la forza del suo pensiero
ha dato l’esistenza a tutte queste cose!
«Io credo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra».
Sì, noi lo crediamo e lo confessiamo, ma ci siamo mai domandati: quali conseguenze derivano
per noi da questo fatto che il mondo intero e tutto ciò che esso contiene è opera di Dio? Io vorrei
consacrare questo discorso alla considerazione delle edificanti conseguenze che derivano dalla nostra
fede in Dio, Creatore dell’universo.

I.

Godimento della natura

Dio è il creatore del mondo, perciò la bellezza del mondo ci procura una gioia legittima ed il
piacere derivante dalla contemplazione della natura è un sentimento profondamente cristiano.
a) La goia della natura. Ai nostri giorni è ormai entrato in uso il sottrarsi, di quando in
quando, al mostruoso caos della civilizzazione, all’asfalto infocato delle città, alle strade piene di
polvere e di fumo per cercare un po’ di rifrigerio sotto il cielo libero del buon Dio. Viaggi
domenicali, escursioni, ascensioni, bagni di sole, cure d’aria, tutto ciò è buono e noi ab biamo il
diritto di goderne; soltanto non dimentichiamo di fare un passo oltre, che ci trasporterà dalla gioia,
puramente sensibile della natura, fino alle altezze soprannaturali. Quando le stelle scintillano sopra il
nostro capo, il torrente precipita con fracasso, quando guizza il lampo, quando la foresta mormora e
gli uccelli lanciano i loro gorgheggi, quando il mare ruggisce, noi sentiamo risuonare un inno di lode
alla grandezza di Dio.
E non è con sforzo che noi mettiamo in relazione la gioia che ci procurano le bellezze
dell’universo con il pensiero di Dio.
Per renderci immediatamente conto di ciò, noi non abbiamo che ad evocare un’altra
considerazione.
b) Dio che tutto ha creato, conserva l’esistenza ad ogni cosa; dunque il mondo intero è
ripieno di Dio; nel corpo è l’anima che agisce dovunque: senza l’anima l’occhio non vede,
l’orecchio non sente, la bocca non parla, la mano non si muove; parimenti l’universo non esiste e
non vive se non in quanto Dio lo sostiene. Il mondo intero è ripieno dell’idea di Dio. Colui che sa
concepire quest’idea, colui che sa camminare ad occhi aperti attraverso la natura, potrà realmente
gioire della natura.
La natura non è Dio, essa non è la causa prima. Essa è soltanto uno strumento nelle mani di
Dio. Quando io dico: «La natura ha prodotto questo o quello», io non mi esprimo con rigorosa
esattezza. Sarebbe invero inesatto dire a proposito di un quadro del Murillo: sono i pennelli ed i
colori che l’hanno fatto. Oppure dir a proposito di un orologio: sono le molle e le ruote che
l’hanno fatto.
Quando io contemplo, con piacere, una pittura ho forse il diritto di dimenticare l’autore? E
per l’orologio, l’orologiaio? E nella gioia che mi procura la natura, potrò dimenticare il Creatore?
Alcuni anni or sono, nel 1927, il mondo incivilito ha festeggiato il centenario della morte di
Beethoven. Una biografia di questo musicista riporta la scena commovente di una conversazione tra
Beethoven e un industriale inglese durante una passeggiata all’aperto.
Beethoven si era assiso su un sasso... e cominciò: «Io godo di rimanere seduto per delle ore
qui, in mezzo alle bellezze della natura. I miei sensi s’immergono nella contemplazione di questo
quadro meraviglioso. Non vi sono qui tetti costruiti dall’uomo che intercettino la luce del sole,
non vi è che l’azzurro del cielo che si stende come una volta meravigliosa, infinita, al di sopra di
me. Quando, la sera, io sollevo il mio capo e guardo le stelle che seguono la loro orbita con
perenne esattezza, a milioni di chilometri da noi, allora la mia anima si slancia verso la prima
sorgente di tutte queste cose. Ma quando io mi sforzo di esprimere con le note, in una maniera
qualsiasi i sentimenti che ricolmano l’anima, allora io provo una grande delusione. Io sento che
non vi è alcun mortale che possa, con la musica, con la pittura o la scultura, dare una forma a
queste immagini celesti, che possa farci presentire, in queste ore benedette, un’inmagine adeguata
di Dio».
Poi Beethoven pieno di entusiasmo additò il cielo ed esclamò: «Sì, è da lassù che viene tutto ciò
che eleva il cuore. Senza ciò l’uomo non può creare che delle note e dei suoni senz’anima. Non ho
forse ragione? L’anima deve risalire verso questa sorgente dalla quale essa è discesa, ed è soltanto
per un’attività incessante che ella può venerare il Creatore, Colui che protegge ogni essere e la
natura infinita».
Ecco una considerazione religiosa ed esatta della natura.
Sapete che cosa procura a me questa fede in Dio Creatore dell’universo? Essa dà ai miei occhi il
potere dei raggi X; il potere cioè di penetrare ogni involucro, di scoprire le profondità nascoste degli
avvenimenti del mondo, e di scorgere in ogni cosa il pensiero nascosto di Dio. Se i miei occhi
hanno questa acutezza, allora anche la mia vita penetrerà i misteri di Dio, poiché tale è l’occhio,
tale è la vita. Il poeta contempla i fiori e questo sguardo li trasforma in poemi. Shakespeare
passeggia per la strada e la strada diventa, per lui, una scena. Il credente medita sulle vicende della
vita ed i suoi occhi gli fanno vedere negli avvenimenti, nelle sofferenze, nelle sventure stesse, la
mano di Dio.
«Che peccato che dietro la rosa, si nascondano le spine» geme il miscredente.
«Quanto è buono Dio che ha fatto spuntare le rose assieme alle spine», risponde il credente.
Ecco una contemplazione religiosa della natura.

II.

Lo studio della natura

Dal solo fatto che, come noi crediamo, Dio ha creato l’universo, deriva ancora un’altra
conseguenza. Se il mondo è un grande libro che ci parla di Dio, allora è per noi un sacro dovere
imparar a meglio conoscere questo libro e sfogliarne sovente le pagine per accrescere la nostra
scienza di Dio.
Si sente, qualche volta, l’obbiezione che il cristianesimo considera con ansietà e diffidenza,
l’incessante ardore che l’uomo moderno impiega per scoprire le forze nascoste della natura. «La
religione teme la luce della scienza», quest’è la breve e impudente frase con la quale i nemici della
religione esprimono il loro persiero.
a) La religione dovrebbe aver paura della scienza e dello studio? Al contrario, essa se ne
rallegra. Più la ragione umana scopre le leggi della natura, più si allarga dinanzi a noi l’immagine di
Dio che ha creato queste leggi ammirabili. Osservate bene: non è l’uomo che le ha fatte, l’uomo le
ha soltanto scoperte. E se l’uomo di 3000 anni fa, che non aveva ancora se non un’idea assai
imperfetta dell’opera di Dio, si prostrava dinanzi a Lui, come non dovremmo adorarLo noi, noi
uomini del secolo ventesimo che conosciamo un mondo cento volte più bello, più meraviglioso, più
vicino alla perfezione?
Il concetto religioso del mondo non si oppone dunque allo studio scientifico, anzi lo favorisce.
Ascoltate questo dialogo che ebbe luogo a Monaco tra un naturalista ed un amico, che lo aveva colto
mentre esaminava la zampina di un maggiolino. «Io non capisco come si possa occuparsi di simili
cose», disse l’amico. Ma lo scienziato rispose: «Se Dio non ha stimato indegno di sé di creare questo
insetto, l’uomo non deve vergognarsi di studiarlo».
Sagge parole in verità.
La mia fede in Dio mi stimola, dunque, continuamente, e mi spinge a studiare le leggi della
natura. Il precursore della cosmografia moderna, Copernico, nella sua opera magistrale dedicata al
Papa Paolo III, dice le ragioni che l’hanno condotto a un nuovo sistema e che gli hanno fatto
abbandonare l’antico: è perché, egli non trovava in esso abbastanza armonia e lo giudicava indegno
dell’autore della natura infinitamente sapiente. E’ precisamente la fede profonda di Copernico che
ha dato l’impulso al suo gigantesco lavoro.
b) Io giungo pure ad una nuova conseguenza. Se il mondo è veramente opera di Dio (infatti la
Sacra Scrittura afferma che Dio l’ha dato all’uomo perché vi regnasse) allora l’attività febbrile e la
passione allo studio dell’umanità, si elevano ben al di sopra della ricerca del pane quotidiano e
diventano come l’osservanza di un precetto divino.
Il lavoro non è stato mai così facile e più intenso del giorno d’oggi.
L’uomo lo considera come una pena, ma egli lo sopporta più facilmente, se ne forma un’idea più
alta. «Riempite la terra e sottomettetela a voi» (Genesi I, 28), queste furono le parole pronunciate dal
Creatore alla umanità; e, per parte mia, io sono persuaso che tutti i nostri sforzi febbrili, le nostre
scoperte e perfezionamenti, il giro del mondo in aeroplano, i sottomarini, la radio, la lotta contro i
microbi, tutte le macchine, gli apparecchi, i nostri microscopi, i nostri telescopi, tutte queste cose
sono in armonia col comando divino. Quando l’uomo utilizza secondo il loro fine le forze della natura
da Dio create, allora egli agisce seguendo la volontà di Dio. Chi non scorge che questa maniera di
vedere importa una profonda stima del lavoro scientifico e tecnico?
Io sono penetrato da questa idea, e allora io sentirò echeggiare le lodi divine non soltanto nel
canto dell’al1odoletta, nel mormorìo del ruscello, nel soffio del vento, ma anche nel fremito delle
dinamo, nel rombo delle macchine, nel fuoco degli alti forni. E da tutto questo rumore assordante,
dallo stridere delle ruote, dal fremito dei motori, si eleva una sinfonia grandiosa in onore del
Creatore che ha dato l’occasione di tutte queste scoperte per il bene dell’Umanità;... Io credo in Dio
Creatore onnipotente.
Oh sì, facciamo pure delle ricerche, escogitiamo dei piani, assoggettiamo la natura sotto un
giogo, soltanto non lasciamoci stordire, non crediamo di essere gli assoluti sovrani e i creatori del
mondo. L’uomo è tentato di crederlo. Ma quando il suo orgoglio non sa arrestarsi al momento
opportuno, allora ecco un terremoto che inghiotte centinaia di migliaia di persone, allora ecco il
Titanic che urta contro una montagna di ghiaccio, un fiume che straripa, un ciclone che abbatte le
case di una grande città, un dirigibile che cade in fiamme con le sue macchine, le sue dinamo, le
sue cabine di lusso e si riduce in cenere...
O uomo, non sei tu il creatore del mondo! A voi la terra, a voi il mare, a voi l’aria, ma voi, o
uomini, rimanete sempre una creatura, un umile verme.
Il direttissimo divora lo spazio, l’auto brucia le tappe, l’aeroplano fende l’aria come una
freccia, ma l’uomo resta cenere e polvere; curvate, dunque, la fronte dinanzi al Creatore: Io Credo
in Dio Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra.

III.

La fraternità umana
Dalla nostra fede in Dio Creatore dell’universo, deriva un’altra sublime verità, 1a bella
dottrina della fraternità umana.
Se Dio ha creato il mondo intero, allora Egli ha pure creato l’uomo. E se Dio ci ha tutti
creati, allora noi siamo tutti fratelli. Voi vedete che la sublime verità della solidarietà umana è
frutto della fede cristiana.
Amiamoci gli uni e gli altri, perché a) siamo tutti fratelli; b) se non ci amiamo, non amiamo il
Padre nostro comune.
a) Tutti, bianchi e neri, sapienti e ignoranti, nobili e operai, ricchi e poveri siamo tutti fratelli
gli uni rispetto agli altri.
Voglio mostrarvi, con qualche esempio, come di fatto noi abbiamo bisogno gli uni degli altri
nella vita pratica.
Osservare soltanto, dai piedi alla testa, l’uomo. Che elegante cappello voi portate! Dove
l’avete comperato? Nel grande negozio X; ma vi siete mai domandato come è arrivato fino alla
mostra di quel grande negozio? Quanti cioè dei vostri simili hanno lavorato per fabbricarlo, fino a
renderlo elegante indumento nelle vostre mani?
Voi uscite appena rasato dal negozio del barbiere. Il rasoio era di Solingen, il sapone da
barba era di Milano, il pennello di Torino. E il vostro abito nuovo? Quanti dei vostri simili hanno
lavorato attorno al tessuto, ai bottoni, al filo per cucirlo!
Ed i crostini caldi che ogni mattina voi mettete macchinalmente nel vostro caffè? Quanti
uomini hanno lavorato per procurarveli! Il seminatore, il mietitore, il panettiere. E il vostro caffè?
Il negro della piantagione a 10.000 chilometri lontano da qui; poi quelli che hanno raccolto i
grani e li hanno imballati, quelli che l’hanno trasportato nei battelli, e poi chi l’ha tostato, e il
grande negoziante che lo ha venduto ed infine il vostro fornitore. Tutti noi abbiamo bisogno del
nostro prossimo. Non possiamo fare un passo, non possiamo dormire, non possiamo mangiare
senza aver bisogno del nostro prossimo. Migliaia di mani lavorano per me, migliaia di fronti
versano sudore per causa mia.
Ma se è così, ho io pensato che io pure ho il dovere di lavorare per gli altri, e che ogni servizio
domanda un ricambio? E’ il formale precetto di Cristo: «Tutto ciò che voi volete che gli uomini
facciano per voi, fatelo voi pure per essi» (S. MATTEO VII, 12).
b) Io vi richiamo la massima che ho espresso in un altro mio discorso. Non si può mai
ripeterlo abbastanza: amiamoci gli uni e gli altri, perché non ama Dio colui che non ama il suo
prossimo. L’uomo moderno ha bisogno di sentirsi frequentemente ripetere questa verità. Vi è un
proverbio tedesco che dice: Amare Dio, senza fare le opere di Dio, è far piacere al diavolo e
seguire i suoi consigli.
Ciò significa che colui che pretende di amare Dio, ma non ama il suo prossimo, non fa
piacere che al diavolo. Qualcuno può visitare continuamente le chiese, farsi male ai ginocchi a
forza di pregare, arricchire la sua casa di immagini sante, indignarsi della bassezza e della
cattiveria umana; tutto ciò non sarà che falsa pietà, se l’amore del prossimo non viene a unirsi al
suo preteso amor di Dio, se a casa egli si mostra insopportabile, capriccioso, criticone, se
s’impermalisce alla più piccola parola, se non sa dimenticare né perdonare, se è autoritario, se
colpisce con la sua lingua quanti lo circondano, che dirò ancora? Se egli nega che noi siamo tutti
figli dello stesso Padre e, per conseguenza, fratelli gli uni rispetto agli altri.

IV.

La verità della nostra fede


Abbiamo finito? Vi ho già detto tutto ciò che deriva dall’idea di Dio Creatore onnipotente?
Non ancora.
Dal fatto che Dio è onnipotente, ne risulta tanta luce alla nostra santa Fede. Ne risultano quei fatti
che nella nostra credenza hanno un’importanza fondamentale e dei quali, benché non ne abbiamo la
piena comprensione, noi possiamo affermare con fede inconcussa: Dio onnipotente può ben fare che
sia così.
Dio onnipotente può fare che nell’istante in cui l’acqua del battesimo tocca la nostra fronte, il
peccato originale scompaia dalla nostra anima.
Dio onnipotente può fare che nell’istante in cui il prete pronuncia sulla bianca ostia le parole di
nostro Signore, Gesù Cristo divenga presente sotto le specie del pane.
Dio onnipotente può fare che nell’istante in cui il confessore pronuncia sull’anima peccatrice:
io ti assolvo dai tuoi peccati, l’anima ridivenga bianca come la neve.
Infine, qual consolante pensiero per il giorno della commemorazione dei fedeli defunti! Dio
onnipotente può fare che all’istante in cui Egli pronuncerà su di essi nell’estremo giorno la Sua
parola di vita, i miliardi di uomini che sono vissuti sulla terra risuscitino per una vita nuova.
Momento straordinario... momento inconcepibile per noi, ma, se io credo, la parola di Cristo mi
basta: «Agli uomini ciò è impossibile, ma non a Dio: perché tutto è possibile a Dio » ( S .
MARCO X, 27).

***

Il giorno dei morti s’avvicina, il pensiero della nostra fragilità opprime la nostra anima,
l’ombra della morte s’addensa sul nostro cuore. Ma quale sollievo per l’anima afflitta, quale
conforto per l’uomo che trema dinanzi alla morte, quando egli sa dire con una fede inconcussa:
«Io credo al Padre onnipotente». Se egli è nostro Padre è naturale che là dov’è nostro padre debba
trovarsi anche la nostra patria definitiva.
«Noi non abbiamo quaggiù la nostra dimora permanente, ma cerchiamo quella dove
dobbiamo andare» (Ebrei XIII, 14).
O fratelli, Eichendorff ha scritto una poesia impressionante che esprime i sentimenti suscitati
nella nostra anima durante il discorso d’oggi. E’ tarda sera, scrive il poeta, la notte è oscura e
tempestosa. L’uomo e la donna sono seduti nella camera senza dire una parola. Il loro piccolo
fanciullo è stato da poco seppellito. Il vento fa tremare i vetri, la tempesta scuote le porte.
Ascoltano. Hanno bussato alla porta. «Guardiamo, presto, che non sia il nostro bambino
defunto che vuole rientrare in casa». Ma immediatamente i genitori si trattengono: «Rientrare
in casa? Ma egli vi è già, siamo noi che dobbiamo ancora entrarvi».
«Egli è già a casa e noi dobbiamo ancora entrarvi».
Quanto cristiano è questo pensiero!
- Bah! Questa è poesia. Al poeta è facile far parlare così i suoi personaggi. Ma può in
realtà l’uomo far suoi questi sublimi sentimenti? direte voi. Io vi rispondo: ebbene, ascoltate
questa storta autentica. Sono quindici giorni da che alla fine del nostro discorso abbiamo
recitato la preghiera dell’illustre Cardinal Newmann. Oggi io voglio raccontarvi gli ultimi
istanti di un altro Cardinale, Wiseman, Arcivescovo di Westmister.
Siamo nel 1895. Wiseman è giunto alla sua ultima ora. I medici hanno dichiarato che la
scienza non ha più nulla a fare per lui. Dopo poco arriva la sorella infermiera, e il Cardinale
le domanda: «Avete inteso cosa hanno detto i medici? » .
«No, Eminenza, non ho potuto sentire, ma l’indovino » .
«Essi hanno detto, continua l’ammalato, che io sto per andarmene nella patria. Non è bello
ciò?» .
«Per Vostra Eminenza sì, ma non per noi».
«Non sapete voi la via? - dice il Cardinale - Io vado presso mio Padre. Io sono come un
fanciullo che ritorna a casa per restare presso il Padre suo».
O fratelli, non ricordate voi le parole del divino Maestro: «Io sono venuto dal Padre e sono
venuto nel mondo; ora io lascio il mondo e vado presso il Padre mio» ? (S. GIOVANNI XVI, 28).
E non ricordate voi queste parole del Salmista: «Felice colui che ripone la sua speranza
nel Signore, suo Dio» ? (Ps. CXLV, 5).
E chi potrebbe trattenersi dall’esclamare: Dio Onnipotente, Creatore e Signore della vita e
della morte, dateci una morte serena e tranquilla? Ed ora mettiamoci in ginocchio, fratelli, e
recitiamo, con umiltà, questa preghiera:
Dio onnipotente, Creatore, che con un solo pensiero avete dato l’esistenza al mondo
immenso e meraviglioso, che avete acceso su di noi le fiamme del sole e la dolce luce delle
stelle, che avete dato alla terra il suo manto e fatto discendere su di essa il crepuscolo, che
fate cadere la folgore e che al posto delle oscure nubi minacciose fate splendere i colori
dell’arcobaleno, che fate sviluppare la verde foresta e maturare le bionde spighe, accordateci
di riconoscere e di seguire sempre e dovunque la vostra santa volontà. Di Voi ci parlano i
timidi e dolci occhi del capriolo, di Voi l’infaticabile grillo parla nel suo ininterrotto
ritornello, tutto ci ripete la parola del Salmista: «Signore, nostro Dio, come è ammirabile il
vostro nome su tutta la terra!».
Padre, Creatore, aiutateci a passare la vita di questo mondo con tale purezza d’anima, con
tale amore generoso, che nella nostra ultima ora noi possiamo chinare, con confidenza, la
nostra testa stanca sotto la Vostra mano potente e paterna.
Amen.

VIII.

Dio è Santo

Il profeta Isaia al capo VI del suo libro descrive la visione grandiosa che ebbe di Dio.
Egli Lo rappresenta su un trono elevato in mezzo agli splendori celesti; davanti a Lui stanno i
serafini che si coprono la faccia con le ali a causa della Maestà divina e sulle loro labbra non
cessa di risuonare il cantico della lode: «Santo, Santo, Santo è il Signore Dio degli eserciti!».
Commovente rappresentazione della santità di Dio! Ma in molti altri passi, oltre che in
Isaia, la Bibbia parla della Santità di Dio. In Dio non solamente non vi è peccato, come
esclama Mosè (Deuteronomio XXXII, 4); Dio non solamente odia il peccato, come canta il
Salmista (Ps. V, 5); questo non sarebbe che un aspetto negativo. Dal punto di vista positivo,
«il Signore è Santo in tutte le sue opere» (Ps. CXLIV, 17), e «nessuno è santo come il
Signore» dice il libro dei Re (I Re II, 2).
In verità, quando uno sfoglia la Sacra Scrittura vede che, a parte l’onnipotenza e la
misericordia, tra gli attributi divini è appunto la santità che è citata più spesso e più
fortemente messa in rilievo. Non è dunque straordinario che nella bocca del Cristiano non
cessi mai il cantico «Santo, Santo, Santo è il Signore».
La santità di Dio!
Se Dio è Santo, allora Egli è il nemico di ogni peccato. Il sole è nemico della notte, la
luce delle tenebre, il calore del ghiaccio e la santità divina del peccato.
Ecco la prima constatazione che dobbiamo dedurre dalla santità di Dio, e perciò ci
occuperemo nella prima parte del discorso d’oggi dell’odio che Dio ha per il peccato.
Ma la santità divina non ha solo un lato negativo, ha pure il suo lato positivo. La santità
di Dio non è soltanto un avvertimento contro il peccato, ma anche la norma di ogni legge
morale, la sorgente di ogni santità: poiché Dio gioisce dell’umana bontà e dei nostri sforzi
verso il bene. La seconda parte di questa istruzione sarà perciò consacrata all’amore di Dio
per la virtù nell’uomo.
I.

L’odio di Dio per il peccato

1) II primo pensiero che si presenta, in relazione alla santità divina, è questo: Se Dio è la
Santità stessa, quanto deve Egli odiare il peccato! Se Dio è la Santità stessa, quanta pena
devono recargli i peccati degli uomini, come dev’essere irritato contro il peccatore indurito!
Dio odia il peccato, Dio soffre per il peccato, Dio è irritato contro il peccatore. Io vi
prego, fratelli, comprendete bene queste espressioni umane. In Dio non vi è alcuna passione,
dunque né impazienza, né collera, né dolore, né odio. Tuttavia noi parliamo spesso, come la
Sacra Scrittura pure fa, in modo umano, di Dio irritato che detesta il peccato, per
rappresentarci, in un modo più vivo e più forte, l’inflessibilità della Sua santa volontà.
Che la Volontà divina di fatto sia inflessibile nei riguardi del peccato, che la Santità
divina non possa dimorare sotto lo stesso tetto, per parlare ancora in modo umano, col peccato
e con l’uomo peccatore, noi ne abbiamo la prova viva, impressionante. Sapete quale?
L’inferno. Il luogo dell’eterna dannazione, il luogo delle sofferenze eterne.
O fratelli, quale stridente opposizione deve esistere fra Dio e il peccato, quale mostruosità
dev’essere il peccato, perché Dio sia obbligato a creare un luogo di dannazione dove saranno
rinchiusi i peccatori!
L’inferno... Oh! io so che è un dogma terribile della fede cristiana, un problema difficile
per il cuore paterno di Dio. Questo problema non sarà trattato a fondo che nel prossimo
discorso, nel quale noi dovremo conciliare la bontà di Dio con l’eterna dannazione. Ma devo
dire una parola fin d’ora, per conciliare, per spiegare queste due verità; bisogna sapere che
Dio è Santo, tre volte Santo, che con Lui non possono prender posto né il peccato, né una
creatura in istato di peccato.
Dio è nostro Padre. Concetto sublime di Dio! Ma non è forse una contraddizione questa con un
altro dogma della nostra fede, quello per cui la Chiesa insegna che Dio è il Giudice severo, che può
precipitare nell’eterna dannazione e nei supplizi senza fine il peccatore? Ma questo è un dogma
spaventoso, dicono molti. Sì, ma possono dire questo solo quelli che dimenticano la Santità di Dio.
a) Ora io pongo il quesito: E’ possibile che qualcuno p ossa rimanere tutta l’eternità presso
un Dio Santo che ignora l’ombra del peccato, con un’anima sfigurata e macchiata dalla colpa? E’
possibile che l’uomo, qualunque uso abbia egli fatto della sua libera volontà, possa arrivare allo
stesso risultato? Se un’anima, durante questi anni di prova sulla terra, vive, pensa e agisce
scientemente e volontariamente in modo contrario a quello ordinato da Dio; se qualcuno risponde a
tutti i tentativi di Dio per salvarlo con una vita di empietà e a Lui volta le spalle, quale dovrà essere la
risposta divina? Dio non manda nessuno all’inferno, ma è l’uorno che vi precipita; non è Dio che l’ha
scacciato da sé ma è l’uomo che si è allontanato da Dio.
Lo schiavo del peccato si è escluso da se stesso dal regno di Dio.
L’uomo non arriva alla vita eterna come colui che guadagna una grossa fortuna; bisogna
crescere per la vita eterna, mettendo, fin d’ora, in essa le radici. Queste radici noi le
piantiamo durante la vita terrena con la nostra fedeltà al dovere.
b) E ammettiamo il caso che non vi sia una dannazione, ma che ogni genere di vita
conduca alla felicità eterna, a Dio; quale ne è la conseguenza?
Questa: che non vi sarebbe più alcuna differenza tra il bene e il male, il peccato e la virtù,
il disonore e l’onore; l’amore e l’egoismo non avrebbero più tra loro alcuna distinzione;
sarebbe la fine della felicità eterna. Se si giungesse a Dio per qualsiasi via, la forza morale,
l’onesta, il lavoro, non avrebbero più valore. Allora non avremmo altro da fare che sdraiarci
al sole e rimanercene in ozio. Sì, il dogma dell’inferno spa venta, ma se noi non ammettiamo le
pene eterne praticamente non siamo più che dei miscredenti.
L’inferno: parola terribile. Un padre e un inferno, ecco dei concetti difficilmente conciliabili.
Ma Dio non è solamente il Dio buono, Egli è anche il Dio Santo, e la Santità di Dio reclama la
riparazione della colpa commessa.
2) Se è così, allora io ne traggo per me alcune considerazioni. E quali?
Dio è Santo, perciò io devo vegliare sulla mia anima affinché, per quanto dipende da me, essa
non s’allontani da Dio. Devo vegliare sulla mia anima, poiché, secondo i libri Santi, agli occhi di
Dio il cielo non è perfettamente puro e vi sono delle macchie anche negli angeli (GIOBBE XV,
15).
Queste parole mi commuovono: agli occhi di Dio il cielo non è abbastanza puro e neppure gli
Angeli. E che sarò io allora? Ecco un’altra frase della Sacra Scrittura: «L’uomo non sa se è degno
di amore o di odio» (Ecclesiastico IX, 1).
Che sarà di me quando apparirò davanti agli occhi di Dio infinitamente Santo, se Egli mi
rigetterà da sé perché mi aveva creato per diventare un diamante mentre io sono divenuto un pezzo
di carbone, perché mi aveva creato puro come il cristallo mentre io mi sono convertito nel fango,
perché mi aveva creato come un limpido lago mentre io sono divenuto un pantano, perché Egli mi
aveva creato come una verde prateria mentre io sono diventato una terra arida?
Alla luce della Santità Divina io vedo che tutte le mie prove, tutte le mie pene, tutte le mie
malattie non sono niente in confronto dell’unico vero grande male: il peccato.
Ed ora io pongo ancora una domanda, un problema scottante, angoscioso: fratelli miei, se in
questo momento stesso ci toccasse apparire dinanzi a Dio santo e giusto, potremmo noi presentarci
a Lui tranquillamente? Davanti a Dio che non può esser ingannato dall’apparenza, cui nessun
desiderio può rimanere nascosto? Senza dubbio, Dio onnipotente terrà conto dell’ereditarietà, delle
cattive inclinazioni, della corruzione dell’ambiente, ma resterà ancora abbastanza a carico della
nostra personale responsabilità. Certamente Dio è pieno di misericordia; ma vi sono dei ciechi che
non hanno voluto vedere Dio, perché preferivano rimanere nelle tenebre; vi sono dei sordi che non
hanno voluto sentire la parola di Dio, perché altrimenti avrebbero dovuto cambiare vita; vi sono dei
paralitici che non hanno voluto camminare, perché sapevano di dover cambiare la vita cattiva
intrapresa.
Se tutti questi apparissero dinanzi a Dio?
Dio tre volte Santo, insegnateci a scorgere il peccato, a detestare e piangere il peccato piú di
ogni altro male, più di ogni altra pena, più di ogni malattia, piú della morte stessa.

II.

L’amore di Dio per la virtù

Dalla Santità di Dio si deduce ancora un’altra verità. Il Suo amore per la virtù, per lo sforzo
umano verso l’ideale, per la lotta contro il peccato.
La Santità di Dio non è solo qualche cosa di negativo: una protesta contro il male; ma
essa è pure qualche cosa di positivo: una sorgente di forza per il perfezionamento della nostra
anima.
«Siate santi, perché Dio è Santo», diceva già il Signore nell’Antico Testamento (Levitico
XI, 44). Il divino Maestro lo ripete: «Siate perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto» (S.
MATTEO V, 48).
Questa breve frase è la «Magna Charta» del perfezionamento dell’animo umano, tanto che
nessun’altra ha avuto più benefici effetti sulla terra. Esaminiamo dunque: 1) che cosa esige da noi
questo comandamento; 2) se forse esso ci richiede troppo.
1) Riflettiamo al magnifico cammino che addita a noi questo comandamento.
Il fiume non si arresta finché non è arrivato al mare; l’ago calamitato non si riposa fino a
che non s’è rivolto a Nord; l’anima umana non si acquieta finché non ha trovato Iddio.
La vita è un’evoluzione; ma bisogna darle uno scopo. Alla nostra evoluzione Gesù Cristo ha
fissato un unico termine, degno di Lui, quando ha pronunciato queste parole eternamente memorabili:
«siate perfetti come il vostro Padre celeste e perfetto» (S. MATTEO V, 48).
Vi è stato mai nel mondo un filosofo che abbia potuto assegnare, anche
approssimativamente, uno scopo così elevato all’uomo? Che cos’è a paragone di ciò l’ideale
della vita d’un Democrito, d’uno Zenone, d’un Epicuro? E lo stesso nobile idealismo di un
Socrate, di un Platone, di un Aristotele?
Divenire simili a Dio: che aspirazione grandiosa! La realizzazione alla lettera del vecchio
mito greco! I Greci non hanno osato pensare a una tal cosa che nella favola. Secondo essi,
Apollo aveva deposto un giorno la lira su una pietra e poi, quando qualcuno urtava questo
sasso meraviglioso e l’avvicinava al suo orecchio, sentiva il canto divino dell’Olimpo.
E’ questa soltanto una finzione poetica, un sogno? No, non è una finzione, non è una
favola, ma è una santa realtà: in ciascuna anima umana si nasconde l’immagine di Dio.
La melodia è latente sulle corde della lira e attende la mano dell’artista. Nella mia anima
è ascosa l’immagine di Dio e attende che io le dia forma. E se riesco in questo lavoro, l’unico
lavoro decisivo della vita, allora divengo l’armonia vivente annunziatrice della magnificenza
divina e la nota che risuona nell’infinito. «Siate perfetti come il vostro Padre celeste è
perfetto», cioè, divenite simili a Dio!
Dio è puro spirito, ed io a Lui rassomiglio se lascio in me la supremazia allo spirito,
all’anima. In una parola, bisogna disprezzare il corpo? Bisogna calpesta re il mondo? No, non
è questo che voglio dire: noi viviamo sulla terra e siamo immersi nella materia. Ma la materia
non deve soffocar l’anima.
Vi citerò un bell’esempio; solamente, o miei fratelli, bisogna ben comprenderlo.
Denaro, denaro! ecco la parola d’ordine dell’umanità di oggi; essa vibra nelle arterie del
povero, turba il sonno dei ricchi; è per il denaro che si lavora giorno e notte.
Anche S. Luigi Gonzaga lavorava giorno e notte. Ma a far che cosa? A liberarsi delle sue
ricchezze. Infine egli dettò l’atto col quale rinunciava al marchesato in favore del fratello.
Quando lo ebbe sottoscritto domandò al fratello col cuore riboccante di gioia: «Rodolfo, chi
credi tu sia più felice tra noi due? Certemante io».
Il giovane marchese entrò nel chiostro. Nel 1591 la peste flagellava Roma; circa 6.000
persone morirono. Il nuovo religioso incontrò nella via un appestato abbandonato. Egli lo
prese sulle spalle, lo portò all’ospedale e lo curò; colpito egli stesso dal morbo morì all’età di
ventiquattro anni.
E’ una storia molto semplice; ma non sentite voi la bellezza, la poesia di un’anima
vittoriosa, simile al soffio vivificante che scende dalle montagne? «Siate perfetti come il
vostro Padre celeste è perfetto».
2) Questa storia potrebbe fornire il pretesto ad una difficoltà e ad una scappatoia.
- Noi non possiamo far altrettanto. Noi genitori che abbiamo il compito di provvedere alla nostra
famiglia, noi madri che non abbiamo un minuto di riposo... Se quello è il cammino della santità...
- No, no, miei fratelli, non andate oltre. Io non vi ho citato l’esempio di San Luigi Gonzaga
per dirvi d’imitare completamente questo modello. Noi non siamo obbligati a ricopiare gli atti
dei Santi... ma a prendere per esemplare i sentimenti eroici che li hanno condotti a compierli.
E questi sentimenti ci mostreranno come ancor oggi si può diventare santi. Ora io pongo il
grande quesito, il quesito piú importante di tutti: come si può attualmente divenire santi?
Perché è necessario che io lo diventi. Oggi ancora ha tutto il suo valore la parola di Dio:
«Siate santi perché io sono Santo» (Levitico XI, 44).
I popoli primitivi davano ai loro capi dei nomi basati sulle loro attitudini principali. Per
esempio, i nomi curiosi dei capi indiani: occhio di falco, gran cacciatore, gran serpente, cuore
d’eroe ecc. Tali nomi non possono essere dati che da qualcuno che conosce bene le buone e le
cattive qualità del soggetto in causa. Ma non vi è che Dio che possa conoscere perfettamente
l’uomo. E’ dunque mio dovere di raccogliermi e di riflettere sul nome che Dio mi ha dato.
Quest’idea potrà forse meravigliarmi, ma essa non è poi così strana come se fosse stata
proposta per la prima volta. Ascoltate questo pensiero dell’Apocalisse: A colui che vincerà io
darò della manna nascosta; io gli darò una pietra bianca, e su questa pietra è scritto un nome,
un nome particolare. Questo nome imprime la sua impronta su tutta la mia personalità; esso
mi avverte, attira la mia attenzione sul compito più importante il cui adempimento Dio
attende da me nel corso della vita terrena.
Io non sono responsabile della maniera nella quale sono nato; ma divengo responsabile
del lavoro che debbo impormi per non restare tale e quale son nato. Uno ha un carattere
facilmente irritabile, un secondo è suscettibile, un terzo è indolente, un quarto è diffidente e
sospettoso... Noi non ne possiamo nulla perché siamo nati così. Ma possiamo rendercene
conto e non dichiararcene soddisfatti. Colui che conosce il suo difetto dominante conosce
anche il nome nascosto che egli ha ricevuto da Dio. Dio in realtà non ci dà dei nomi alla
maniera indiana, ma nomi come questi: mano innocente, cuore puro, cuore buono, mano
misericordiosa, vita coraggiosa, fedeltà... Ecco come Egli ci chiama o vorrebbe chiamarci.
E colui che fa passare questi nomi nella sua vita diviene un Santo.
Sì, sono i Santi moderni quelli che combattono coraggiosamente per adempiere la volontà divina.
Vi sono, dunque, ancora attualmente dei Santi? Ne vivono anche al giorno d’oggi, in mezzo a
noi? Certamente. Forse di loro solo un piccolo numero giungerà alla canonizzazione ufficiale della
Chiesa, ma davanti a Dio molti conducono certamente, ai giorni nostri, una vita santa. Essi
trascorrono silenziosamente la vita ed è soltanto dopo la morte quando si ritorna dai loro funerali che
ordinariamente ci si rende conto di aver perduto un gioiello prezioso. Sono coloro che senza una
parola di lamento hanno adempiuto costantemente il loro dovere; quelli che hanno lavorato giorno e
notte dove Dio li ha posti, ma che hanno trovato sempre abbastanza tempo per la loro anima; quelli
che si sono dedicati con abnegazione, pazienti e gioiosi; quelli che non fanno dei miracoli, ma di cui
tutta la vita è un miracolo: un miracolo vivente della grazia divina e della corrispondenza alla grazia
da parte della volontà dell’uomo. Sono quelli che portano la loro croce senza lasciarsi sfuggire un
lamento. Sono quelli che passano attraverso un mondo corrotto, ma il cui cuore non si lascia sedurre.
Che dirò ancora? Sono quelli che in mezzo alla vita miserabile e battagliera d’oggi si sforzano di
attuare la parola del Salvatore: «Siate perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto».

***

Miei fratelli, il discorso d’oggi è stato consacrato alla Santità di Dio. Dio è santo e Lui solo e
santo. Tutto ció che vi è di santo nel mondo viene da Lui, sorgente di ogni Santità. Tutto ciò che vi
è di luce nel mondo viene dal sole; il sole si rispecchia nella goccia di rugiada e le dona un
magnifico aspetto; brilla attraverso il diamante e gli conferisce un nuovo splendore; così la Santità
di Dio si riflette in un’anima umana senza peccato e la rende più magnifica e preziosa. Che alta
stima devo avere della grazia santificatrice che è in me! come dovrò custodirla gelosamente e
cooperare con essa allo scopo di riportare la vittoria nella lotta contro il peccato!
Ma non è soltanto in me che devo combattere, bensì anche negli altri.
«Che il vostro Nome sia santificato!» Io non devo soltanto recitare questa formula, ma devo
agire in modo coerente ad essa, per santificare la vita di chi mi circonda, e così glorificare Iddio.
Quante sante madri il cui esempio silenzioso spande sulla famiglia intera una forza santificante!
Quanti apostoli ferventi che soffrono nel vedere gli uomini allontanarsi dalla Santità e da Dio,
sorgente della Santità, che fanno di tutto per riavvicinare a Dio un’anima traviata! E mentre essi
lavorano alla salvezza di altre anime sentono diventare giorno per giorno più bella l’anima propria,
cioè, sempre più splendente e più simile a Dio. Ecco il fine supremo della vita dell’uomo: divenire
sempre p i ù simili a Dio eternamente Santo.
Gli antichi romani, avevano una strana costumanza. Quando gli avvenimenti separavano due
amici, questi rompevano in due una piccola piastra d’argilla, una tessera, e quando dopo qualche anno
essi si ritrovavano, riavvicinavano l’uno all’altro i due frammenti gelosamente conservati e si
riconoscevano a questo segno, che i due pezzi combaciavano perfettamente.
Certamente voi non vi ingannerete sul senso delle mie parole, se io vi dico: «La nostra
anima è un frammento staccato da Dio! Possa essa rimaner inalterata! Possa esser
generosamente conservata! Non si frantumi mai!
Dio Santo ed eterno, aiutatemi a vegliare sulla mia anima, su questo frammento celeste da Voi
distaccato, affinché, quand’esso sarà a Voi ripresentato, possiate collocarlo al suo posto, e Vi
riconosciate in me e mi accogliate come Vostra proprietà per tutta l’eternita. Così sia.

IX.

Dio è buono

Oggi vi parlerò della bontà di Dio.


Quando si vuol dare un qualificativo al santo nome di Dio, si dice il più delle volte:
«Il buon Dio». In realtà, Dio è proprio buono? Io faccio questa domanda e la Sacra
Scrittura mi risponde: «Tu ami tutte le creature e non odi alcuna di quelle che da Te
furono fatte» (Sap. XI, 25). E’ così che parla di Dio il Libro della Sapienza, rilevando il
cuore divino pieno di bontà. Ma il profeta Isaia va più in là ancora; e per bocca sua Iddio dice di
Se stesso: «Può una donna scordarsi del suo bambino tanto da non aver pietà del frutto delle sue
viscere? Quand’anche le madri dimenticassero, io non saprei scordarmi di te» (ISAIA XLIX,
15). Una mamma è pur buona per i suoi figlioli; ma Io, dice il Signore, lo sono ancora di più per
voi.
Dio è realmente buono? questa è la mia domanda. E il mondo intero risponde con
mille voci: Iddio è buono. Iddio è buono!
Dio è la vita eterna, la sorgente della vita e trova la sua gioia nel far germogliare e
crescere la vita. «Gli occhi di tutti gli esseri mirano a Te nell’attesa o Signore - dice il
Salmista - e Tu dai loro il nutrimento nel tempo opportuno» (Sal. CXLIV, 15). Ogni
gemma che spunta, ogni fiore che si schiude, ogni filo d’erba che verdeggia, ogni nido
che canta, e soprattutto ogni cuore umano che batte, tutti insieme ripetono: Iddio è il
Signore della vita; Egli, munificente e buono, trova la sua gioia nella vita. Iddio basta a
Se stesso e non ha bisogno del mondo; nondimeno Egli inonda il mondo della sua bontà
concedendo ad essi la vita.
Ma ha fatto ancora di più. Difatti «Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio
suo unigenito affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna» (S.
GIOV. III, 16).
E questa vita eterna non è una semplice continuazione della vita terrena, ma è
un’elevazione della natura umana verso le cime soprannaturali della vita divina, dove sotto certi
rapporti parteciperemo anche noi alla gloria eterna di Dio. Quindi io domando a voi, fratelli
miei: Iddio non è forse infinitamente buono, se ci ama in tale maniera?
Ma non basta credere che Dio è infinitamente buono per gli uomini, bisogna anche
ricavarne delle conclusioni pratiche. La bontà di Dio: a) impone dei grandi doveri; e nello
stesso tempo b) solleva numerosi problemi verso i quali dobbiamo dirigere i nostri sguardi.
I. A che cosa ci obbliga la bontà di Dio? e II. Quali problemi propone la bontà di
Dio?
Esaminiamo anzitutto:

I.

A che cosa ci obbliga la bontà di Dio?

1) La prima conseguenza naturale della bontà di Dio è questa: Se Dio è buono per me, io
pure devo essere buono per gli uomini.
a) E’ tanto più necessario attirare l’attenzione su questo punto in quanto che la bontà, la
compiacenza, la cortese premura verso il prossimo spariscono visibilmente ogni giorno di più
dal consorzio degli uomini. Esse sono talmente in via di sparizione che in Francia,
conformemente alla moda delle «settimane», hanno già istituito la «settimana della bontà».
Durante la «settimana ungherese» non si deve far acquisto che di merci preparate in Ungheria;
durante la «settimana del libro» bisogna comperare libri; durante la «settimana della bontà»
ciascuno deve saper padroneggiare i propri nervi, mostrandosi compiacente, paziente, gentile e
buono.
b) «Nessuno è buono, se non Dio solo», ha detto Nostro Signore (S. MAR. X, 18). Di
conseguenza tutto ciò che è bontà nel mondo ha la sua sorgente nell’infinita bontà di Dio.
Quant’è amara la vita, e come il nostro pellegrinaggio terreno è seminato di lotte dolorose!
Come dobbiamo benedire le anime buone che, nel silenzio, con lo sguardo raggiante e il cuore
colmo di compassione, diffondono nella vita come una luce la letizia e la calma, così che sul
loro passaggio le lagrime s’asciugano e i fiori disseccati della felicità risorgono a nuova vita!
Oh! buone e care persone!
E quanto conviene che noi altri cristiani siamo del loro numero! Non lasciamo a
nessuno questo privilegio prezioso! Io sono buono, perché Iddio è infinitamente buono. Che
magnifica réclame per il cristianesimo se si potesse dire di noi quello che si diceva del tanto
amabile e buono San Francesco di Sales, vescovo di Ginevra: «Mio Dio, come dovete essere
buono, se già tanto buono è il vescovo di Ginevra!».
c) Non voglio ricordare che alla sfuggita come la bontà che si dimostra agli altri non sia
un bene perduto, poiché, mostrandoci buoni col prossimo, realizziamo la nostra stessa
felicità.
Uno scrittore inglese ha composto un grazioso racconto che mette in evidenza quest’idea.
Un uomo possedeva un vasto giardino, dove i bambini andavano volentieri a giocare e a far
chiasso. Ma quest’uomo era senza cuore; e lo contrariava il pensiero che altri potesse godere
della bellezza del suo giardino. Lo circondò allora di un muro assai elevato, in modo che i
fanciulli non potessero più penetrarvi. Che avvenne allora? I fiori non udendo più la garrule
risate infantili non apersero i loro calici; le foglie ingiallirono; l’inverno arrivò rigidissimo:
freddo e tormenta. La primavera non si fece più vedere. L’uomo attendeva, attendeva di vederla
apparire. Ma essa non veniva più, e giunse soltanto quando l’uomo ebbe riconosciuto il suo
errore e fatto demolire il muro. Quando i bimbi vi ebbero ricominciati i loro trastulli, il giardino
ritrovò immediatamente la bellezza d’un tempo e tutto riprese a verdeggiare.
Allo stesso modo la nostra vita sarà tanto piú felice quanto più avremo procurato la felicità
degli altri.
Siamo buoni gli uni per gli altri, poiché anche Iddio è buono per noi.
2) Dalla bontà di Dio Onnipotente deriva ancora un’altra conseguenza: la tenera fiducia del
cristiano nell’aiuto di Dio.
a) Quante buone persone, vorrebbero aiutarci con tutto il loro cuoce, ma non possono farlo!
Iddio non è soltanto buono nel senso che Egli vuole aiutarci; ma è pure Onnipotente, di modo
che se vuole Egli ci può anche aiutare. Nella Sacra Scrittura, più di cento volte Dio è chiamato
l’Onnipotente. «Io sono il Dio Onnipotente», dice il Signore ad Abramo (Gen. XVII, 1). E Gesù
nel Giardino degli Olivi implora il Padre Celeste dicendogli: «Abba, Padre, tutto è possibile a
Te» (S. MARC. XIV, 36).
San Canuto, re di Danimarca, passeggiava un giorno in riva al mare, quando un cortigiano
ne approfittò per rivolgergli parole adulatrici, chiamandolo sovrano padrone degli uomini, della
terra e del mare. Ma l’umile re si limitò a portarsi sul lembo estremo della riva, a gridare di là
con tono autoritario: - Onde, io ve l’ordino, non vi spingete fino ai miei piedi! Ciò
nonostante le onde arrivarono spumeggiando fino a lui. «Come mai avete potuto osare di
chiamarmi sovrano padrone, quando una semplice onda non mi vuole obbedire?».
II padrone onnipotente del cielo e della terra è Dio. Adoriamolo. Ecco in verità una
maniera di pensare degna di un’anima cristiana.
Adoriamo Dio immensamente buono e onnipotente e abbiamo fiducia in Lui.
b) Devo poi dire francamente che questa fiducia filiale nella benefica bontà divina è
assai più degna di noi di quello che lo siano tutte le superstizioni immaginabili.
Se parto per un viaggio, se do principio a un’impresa delicata, se devo risolvere una
questione difficile, se, insomma, mi trovo davanti a un qualsiasi dovere della vita, io
consacro tute le mie cure e le mie forze a raggiungere tale scopo, ma subito aggiungo:
Signore, ho fatto tutto quello che dipendeva da me: adesso aiutatemi con la vostra
benefica bontà.
Sì, questo è davvero un modo di pensare seriamente cristiano.
Prima di salire in aeroplano esamino attentamente il motore per assicurarmi che non
vi sia pericolo di panne, verifico se le ali sono in buono stato, guardo se tutti i dadi sono
solidamente avvitati. Quando ho fatto tutto quello che dipendeva da me, soggiungo:
Signore, venitemi in aiuto con la vostra onnipotente bontà. E con la coscienza tranquilla
inizio il mio volo - ma senza coccodrilletti, senza tartarughe, senza frustini, senza gatti
neri, senza monete da cinque dollari! Non è uno scherzo: tutti questi oggetti sono
talismani d’aviatori celebri che, senza di essi, non vorrebbero prendere il volo.
Non è vergognoso mettersi nella condizione di doversi fare questa domanda: in chi
dunque ho io maggior fiducia? in Dio o in una tartaruga? in Dio o in un gatto nero?
Se ho fiducia nella bontà di Dio non la metto neppure in quella «catena di preghiere»,
ricopiata nove volte e indirizzata a nove diverse persone, catena «incominciata in America da un
distintissimo colonnello e che io devo trasmettere a un’altra persona sotto pena di una grave
disgrazia». Se ho fiducia nella bontà divina, non devo occuparmi di tale superstizione più di
quanto io lo faccia delle altre.
- Sareste forse superstiziosa, signora?
- Io? che dite mai? mi vergognerei, in questa nostra epoca di progresso.
- Ma perché un momento fa avete battuto un colpetto sotto la tavola, mentre dicevate
che vostro marito gode ottima salute?
- Ma via! era per impedire alla malattia di ritornare.
- Dunque allora siete superstiziosa?
- Oh, superstiziosa no. Soltanto, non mi fido. Perché, dopo tutto, chissà se...
Che cos’è tutto ciò, fratelli miei? Un peccato grave? No. E che allora? Una fede
meschina. Una fede assai debole nella bontà di Dio. Poiché la bontà di Dio mi dovrebbe
costringere ad aver fiducia in Lui.

II.
Problemi in relazione con la bontà di Dio

La bontà di Dio è non soltanto la sorgente delle conclusioni pratiche che abbiamo
studiato or ora, ma è pure in relazione con problemi realmente difficili.
1) Incomincio immediatamente con la questione piú ardua, con l’obiezione più
grave. E’ l’angoscioso problema che si appiatta nel profondo di tante anime.
Voi dite: Dio è infinitamente buono, ma perché dunque ha creato l’inferno? Se è
infinitamente buono, come mai può precipitare gli uomini nelle spaventose profondità della
dannazione eterna?
Miei fratelli, che risponderemo noi a questa domanda che mette l’anima alla tortura?
Poiché la fede ci insegna che Dio è infinitamente buono ma c’insegna pure che tutti
coloro che muovono in stato di peccato grave sono colpiti dalla dannazione eterna. In
qual modo conciliare questi due dogmi? Come mai può essere «buono» questo Dio che ha
stabilito la dannazione eterna?
Sforziamoci di guardare in faccia questo problema tormentoso.
a) Vi ricordo anzitutto la predica precedente nella quale abbiamo trattato della
«santità» di Dio, e abbiamo visto che tra la santità di Dio e la malizia del peccato vi è un
abisso insormontabile, una opposizione irriducibile, e che il peccatore non può
assolutamente trascorrere la vita eterna accanto al Dio infinitamente santo, come le
tenebre non possono esistere accanto al sole, né il ghiaccio accanto alla fiamma.
b) Noi abbiamo ancora un’altra ragione che non permette che la bontà di Dio sia menomata
dalla tragica realtà dell’inferno. E questa ragione si trova in due passi della Sacra Scrittura. Il
primo riferisce le parole del Signore al profeta Ezechiele: «Io non voglio la morte del peccatore,
ma che egli si converta e viva» (Ezech. XXXIII, 11). Il secondo è di S. Pietro: Il Signore «usa
pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti ritornino a penitenza» (II Ep.
di S. PIETRO III, 9).
Sapete quello che vogliono dire queste parole? Che Iddio non prova gioia, ma anzi
molta pena se qualcuno è dannato. Dio vuol condurre tutti gli uomini alla salute eterna, e
sarebbe al colmo della gioia se tutti si salvassero. E fa ogni cosa per questo fine. Il Figlio
suo unigenito ha versato a tale scopo fino l’ultima goccia del suo Sangue: che altro
avrebbe potuto fare per noi? Per favorire la nostra salvezza Egli va fino ai limati estremi,
nel senso esatto di quest’espressione; ma, giunto all’estremo limite, si ferma.
E qual è questo limite estremo? La libertà della volontà umana.
c) Noi ci troviamo quindi davanti alla vera soluzione del problema: Nessuno si perde, se
non colui che lo vuole. Iddio non respinge nessuno; è l’uomo che si separa volontariamente da
Dio.
Essere uomo significa scegliere tra il bene e il male. L’uomo può tenere per il male, per il
peccato, può schierarsi con chi si rivolta e insorge contro Dio. Può pure fissarsi in tale stato,
indurirsi nel male; e, se la morte lo trova così, come potrebbe raggiungere il suo Dio, posto che
non l’ha voluto, che egli stesso lo ha respinto? E’ rimasto nella sua ostinazione e nella sua
impenitenza, non ha voluto saperne di Dio; che farebbe ora Iddio di lui? La vita eterna è il
godimento della gloria divina; ma quest’uomo in tutta la sua vita non ha mai avuto il desiderio di
Dio.
Sì, Dio è buono, ma non è permesso di abusare della bontà sua. E quanti ne abusano!
Quanti ingoiano il peccato, si rivoltolano nel fango, si tuffano fino al collo in un pantano
e cercano di tranquillizzare la loro coscienza inquieta dicendo a se stessi: Non aver
paura, Iddio è buono. Il buon Dio ti perdonerà!
Oppure si ripetono con la più grande semplicità: il buon Dio sarà indulgente per te.
Hanno costoro la minima idea di Dio e della sua bontà? In Dio, la bontà non è
debolezza di povera vecchietta, né impotenza, né mancanza di energia. Iddio è buono, ma
è giusto. Iddio è Padre, ma è anche Giudice severo. Dio è tanto buono verso coloro che
hanno voluto appartenergli quanto è Giudice severo per quelli che hanno abusato della
sua bontà e non hanno voluto vivere in modo conforme ai suoi comandamenti.
Dio è infinitamente buono. Prima di precipitare un’anima nella dannazione, prima di
gettarla nelle tenebre come una stella spenta, Dio esaurisce tutti i mezzi di salute che il
Suo Cuore amante gli può suggerire. Se si potesse vedere come tenta tutto per salvare le
anime, in qual modo mette in opera tutte le ricchezze della sua grazia per attirare,
avvertire e aiutare, allora non verrebbe a nessuno l’idea di dubitare della bontà di Dio per
causa di ciò che è richiesto dalla sua santità dalla sua giustizia: per causa della condanna
del male.
2) Altri vi sono che fanno un’obiezione diversa contro la bontà di Dio: e cioè che
Egli non punisce immediatamente la cattiveria e l’empietà. E’ una questione
estremamente difficile, che in questo momento io mi limito soltanto a sfiorare; oggi
espongo la questione mentre mi riservo di darvene la soluzione nella mia prossima
predica.
E’ il problema «della bontà di Dio e del male nel mondo».
Senza cercare una spiegazione complessa, io vi darò un esempio che metterà in luce
il nodo della questione.
C’era una volta una brava donna, onesta e religiosa, che fu duramente colpita dalla
sorte. Era un’anima retta, una sposa modello, una madre impareggiabile, un’eccellente
cattolica. In un anno ella perdette il marito e i due figli maggiori; poco dopo perdette
anche tutta la sua fortuna.
Allora la poveretta smarrì l’equilibrio dell’anima sua a tal punto che un pensiero atroce vi si
insinuò: Dio non si cura degli uomini. Per Lui noi non siamo che formiche, tanto numerose
quanto insignificanti, che non possono interessare Iddio assiso in trono a una distanza infinita.
Dei popoli nascono e spariscono, la primavera arriva, l’inverno muore, gli uomini si
rallegrano e piangono, la terra prosegue la sua corsa cieca in mezzo agli astri: Iddio non se ne
occupa. Per lo meno non dà segno di occuparsene, perché tace. Avete operato il bene, ed
Egli non si mostra soddisfatto; avete commes so il peccato, e non sembra soffrirne. Tace.
Seguita perfino a tacere quando dal cuore di un credente sfugge un sospiro: Signore,
come potete Voi sopportare una tal vista?
Miei fratelli, ho cominciato dicendo: «C’era una volta una brava donna che smarrì
l’equilibrio morale…». Non posso rivelare il suo nome; ma, ditemi, non si tratterebbe
forse di voi stessi? Non vi sono mai venuti simili pensieri? Allorché, dopo la guerra,
sopravvenne lo spaventoso disagio materiale; quando, dopo aver sottoscritto ai prestiti di
guerra con quel po’ che avevate messo da parte per la vecchiaia, avete perduto ogni cosa;
quando le persone senza coscienza, i frivoli, i viziosi godevano di ogni comodità, mentre
gli onesti erano nell’indigenza e trascinavano nell’ombra un’esistenza di stenti; quando
innalzaste preghiere per il figlio vostro ammalato che ciò nonostante morì... ecc. Quanti
peccati, quante miserie! Ov’è dunque il buon Dio? Ecco l’angosciosa domanda.
Questa vita è piena d’incertezze; la tetra vita di quaggiù. E’ lotta che accascia. E’
cumulo di pianto e di querele. Piangendo noi entriamo nella vita, e nel dolore
l’abbandoniamo. Quanti enigmi, quanti problemi, quanti dubbi intorno a me! Se Dio è
veramente «buono», come può guardare questa terra che diventò «una valle di lagrime»?
Domanda difficile e straziante. Domanda alla quale non è agevole rispondere.
Domanda che si presenta a innumerevoli anime e alla quale consacrerò tutta la mia
prossima predica. La risposta sarà doppia: a) Dio non vuole né il peccato né il male; ma
però li permette; b) Egli cerca pure di ricavarne del bene.
Esaminiamo rapidamente queste due idee.
a) Dio non vuole il male. Il mondo attuale non è più quale Iddio lo aveva creato in
origine. Nel piano divino non ci doveva essere né il male, né la sofferenza, né la morte. Ma
questo piano è stato sconvolto dalla libera volontà dell’uomo e dal suo primo peccato;
venne così completamente guastato. «Per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel
mondo, e per il peccato la morte» (Rom. V, 12).
Certo, questa risposta non è decisiva, poiché io so bene ch’essa è insufficiente. La risposta è
certamente esatta, ma non è tale da dissipare il dubbio. Essa spiega in qual modo noi siamo
arrivati a tanto, ma non spiega come Dio, il Dio infinitamente buono, possa contemplare la
miseria, la pena, la sofferenza. Non è Lui a voler tutto ciò, lo vedo bene; ma in ogni caso Egli ne
è lo spettatore.
b) Mi è dunque necessario approfondire un po’ la questione della responsabilità e
mettere in relazione i disegni misteriosi di Dio con il male e con la sofferenza . Sì, noi
crediamo che la bontà di Dio e la nostra fede in tale bontà ci rendano più chiaroveggenti.
Come mai ciò? Ebbene! ecco: Qualunque sia la sventura che possa abbattersi sopra un
credente, quand’anche egli si fosse smarrito in un angolo buio del labirinto della vita, egli
rialza la testa e, alla luce della fede, vuol guardare attraverso le nuvole, attraverso le
tenebre. Se la sofferenza vi afferra, fermatevi un istante e dite con semplicità: Che cosa
dunque vorrà da me Iddio?
Difatti Dio, il buon Dio, non vi manda la sofferenza unicamente per farvi soffrire. Dio, il
buon Dio, non ci fa versare delle lagrime semplicemente per vederci piangere.
Perché dunque lo fa? Vi darò presto la risposta a questa interrogazione. Ma per il
momento non posso fare a meno di leggervi un breve tratto d’una lettera che ho ricevuta
nei giorni scorsi. E’ stata scritta da una persona che venne tremendamente straziata dalla
vita. Ma state a sentire come si trasformò quest’anima dopo le terribili sventure che
l’hanno colpita.
Ecco la lettera: «… Non andavo più in chiesa; non alla santa Messa, non alle prediche
che non facevano alcuna impressione sopra di me. Ma quando le difficoltà mi
schiacciarono esse trovarono la strada dell’anima mia; quando in mezzo alle
preoccupazioni materiali incominciai a guardare con altri occhi la sofferenza umana, il
buon seme della parola di Dio non cadde più lungo l’arido cammino, ma nella terra
feconda. Da quel momento considerai con occhio diverso la nostra sventura nazionale; e
vedo in essa la bontà di Dio che, per mezzo della sofferenza, vuole ridestarci dalla nostra
indifferenza e indicarci la via della verità. Adesso comprendo il Pater Noster in tutta la sua
sublimità profonda. E’ la più bella e la più disinteressata fra tutte le preghiere. Adesso
vedo che si può far la prova della repubblica o del comunismo o di qualsiasi altra forma di
governo, ma che la pace e la calma non regneranno sulla terra se non quando il regno di
Dio sarà giunto fino a noi».
Ecco un’altra lettera scritta da una madre che ricevette il Battesimo soltanto sei mesi
fa. Aveva un unico figlio che è morto all’età di ventidue anni. Credo n on sia necessario
dire di più sullo stato d’animo di questa madre davanti alla bara di suo figlio.
Ma ascoltate quello che scrive.
«Io non avrei forse mai ricevuto il Battesimo, se un grave lutto non fosse venuto a
trasformare il corso della mia vita. Sono vedova da nove anni, e due anni e mezzo fa ho perduto
un figlio di ventidue anni. Non era un enfant gâté; malgrado la sua giovinezza era un ragazzo
serio e lavoratore. Era veramente il giovane quale voi li vorreste tutti: puro di corpo e d’anima;
non fumava, non sciupava il tempo ai caffé; lavorava, studiava ed era sempre allegro. E quando
arrivò la notte in cui mi trovai sola, non mi sentii abbandonata ma mi rivolsi a Colui nel quale
l’anima mia - quantunque io fossi ebrea - aveva riposto tutta la sua fiducia, e ripresi coraggio
pensando che il figlio mio era felice di corpo e d’anima; mi rivolsi a Colui che vive con noi,
tanto vicano a noi: Gesù. Ed ora io so che ho il Cristo per figliolo al posto del mio». Miei fratelli,
può esserci una spiegazione più cristiana della sofferenza? Ora io so di aver ricevuto il Cristo
per figliolo al posto del mio?
***

Non darò nessuna conclusione alla mia predica d’oggi: dobbiamo studiare ancora più
a fondo la bontà di Dio e il male su questa terra.
Dio di bontà, aiutatemi a diventare buono.
Dio di bontà, aiutatemi a vivere in modo da meritare la bontà vostra e da non essere
costretto a temere una giusta condanna.
Dio di bontà, se mi colpite, aiutatemi a riconoscere la vostra volontà santa. E così
sia!

X.

La bontà di Dio e il male nel mondo

Come già vi avevo annunciato nell’ultima mia predica, oggi mi occuperò di un


soggetto che tormenta e tortura le anime fin da quando gli uomini esistono sopra la terra;
o per lo meno da quando possiamo leggere, in un libro vecchio di quasi tremila anni, nel
salmo 72 mo , quelle parole dove sentiamo la lotta penosa di un’anima che cerca di
orientarsi e di riconoscere se stessa.
«... poco mancò che i miei piedi non vacillassero - e che non uscissero di strada i
miei passi.
Allorché m’indignai contro gl’iniqui - vedendo la pace dei peccatori.
Perché non pensano alla morte - e non sono durevoli le loro piaghe;
Non hanno parte alle afflizioni dei mortali - e come gli altri uomini non sono
flagellati.
Perciò li prese la superbia: - sono ricoperti della loro iniquità ed empietà.
Dalle loro viscere scaturì in qualche modo l’iniquità - si sono abbandonati agli
affetti del cuore.
Pensano e parlano malvagità - alteramente ragionano di far del male.
La loro bocca sfida il cielo - e la loro lingua va radendo la terra.
Per questo il mio popolo a ciò si rivolge - e trova giorni di piena afflizione.
E dice: Come mai Iddio sa questo? - e l’Altissimo come lo potrà conoscere?
Ecco, gli stessi peccatori e i fortunati del secolo - han radunato ricchezze.
E io dissi: Senza motivo dunque purificai il mio cuore - e lavai le mie mani tra
gl’innocenti?
E tutto il giorno fui flagellato - e sotto la sferza fin dal mattino?».
E’ così che si lamentava l’uomo tremila anni fa e questo lamento è ancor oggi per noi un
problema difficile. Dio è buono, infinitamente buono, noi lo sappiamo dalla predica
precedente: ma se è buono, come mai può contemplare senza dir parola tutte le sofferenze, i
peccati e i delitti, le cui onde fangose e spumeggianti ricoprono la terra insudiciando
l’umanità? Quanti delitti, quante vergogne, quanti peccati, quante impurità... - e il buon
Dio non avrebbe proprio nulla da dire? Quanti colpi della sorte avversa, quante sofferenze
e quanti dolori... - e il buon Dio potrebbe guardare a tutto ciò senza batter ciglio?
Il mondo è pieno di peccati e di pene, proprio questo mondo che noi affermiamo
diretto da un Dio santo e buono. Come si possono conciliare queste due cose?
Occupiamoci della prima questione, quella del male morale: Come mai Dio può
contemplare tranquillamente la moltitudine dei peccati?

I.

La bontà di Dio e il peccato

Anzitutto vorrei ricordarvi una delle mie prediche precedenti, nella quale abbiamo
trattato della «santità di Dio». Abbiamo veduto chiaramente quanto la santità divina è
offesa dal peccato, quanto Dio ne è addolorato, quanto desidererebbe che il peccato non
esistesse nel mondo. E’ quest’idea che noi dobbiamo mettere a capo del nostro studio di
oggi, poiché è unicamente alla sua luce che otterremo la risposta alla questione che
dobbiamo considerare.
Se Dio è tanto offeso dal peccato e nondimeno tace, se non lo impedisce con un
continuo intervento e non lo rende impossibile, bisogna allora ch’Egli abbia per questo una
ragione importantissima.
1) La prima ragione è il rispetto per la natura dell’uomo, per la libera volontà umana.
Nel creare l’uomo Iddio gli ha dato un privilegio incomparabile, una volontà libera, allo
scopo ch’egli non sia asservito alle leggi immutabili della natura, come le altre cose create
ma perché egli meriti il fine ultimo stabilito da Dio, fine sublime, la vita eterna, e la meriti
con la libera collaborazione della sua propria determinazione e della sua volontà. Iddio non
vuole degli schiavi in catene, non vuole degli uomini spinti verso di Lui dai terre moti, dal
fulmine, dalle inondazioni, dall’incendio, dalla guerra, dal terrore, ma delle anime che lo servano
e lo preghino liberamente. Per questo gli fu necessario conferire all’uomo un sublime privilegio:
una volontà libera.
La volontà umana, però, non è soltanto un privilegio, ma può anche diventare per noi un
percolo funesto. E’ una meravigliosa dote dell’uomo, ma pure un rischio inquietante. Io sono
uomo: tutti i tiranni del mondo sono dunque incapaci di farmi fare quello che non voglio. Ecco il
titolo di nobiltà della volontà umana: la libertà. Io non sono obbligato a fare il male (perché
diversamente non vi sarebbero peccati nel mondo); ma non sono nemmeno obbligato a fare il
bene (poiché in tal caso non vi sarebbe né virtù né merito). Senza dubbio, Iddio non vuole che io
abusi della mia volontà e che, scegliendo il male, io faccia discendere la mia dignità d’uomo
sotto livello dei bruti, e perché io non faccia questo mi assiste potentemente con la sua grazia;
nondimeno l’uomo può sempre agire altrimenti, ed ecco l’origine del peccato.
Il mondo non ha avuto inizio col peccato, Iddio non ha creato né il male né il peccato. E’
l’uomo che ha corrotto il suo terrestre cammino, quando ha opposto la sua volontà alla volontà
divina. E’ l’uomo che ha fatto cattivo uso del dono magnifico che lo elevava così in alto al di
sopra di tutte le creature: la libertà.
Ecco dunque la prima risposta: Il peccato esiste nel mondo, ma non è Iddio che lo ha
creato, né che lo ha voluto; bensì l’uomo.
E’ possibile far cattivo uso della propria libera volontà, è possibile commettere il peccato,
ma non è Dio il responsabile della colpa. Sono io responsabile se l’allievo al quale ho
insegnato una quantità di cose utili, più tardi, nel corso della sua vita, fa cattivo uso delle sue
cognizioni?
Quante sofferenze umane trovano in ciò la loro origine! Quante volte gli uomini sono la
causa delle loro sventure! Quanti poveretti non sarebbero venuti al mondo paralitici, ciechi,
malaticci, nevrastenici, se uno dei loro avi non avesse, in gioventù, condotto una vita
depravata, e non avesse peccato contro il comandamento della purezza! Se fosse possibile
cacciare dal mondo tutte le amarezze e le catastrofi, tutti i furti e gli omicidi, tutte le guerre
che l’uomo infligge all’uomo, oh, come sarebbe sopportabile la vita! Dunque in verità non
abbiamo il diritto di rigettarne la responsabilità sopra Iddio.
«Ma - direte voi - se Dio realmente non vuole il male degli uomini, se la nostra cattiveria
lo addolora, Egli potrebbe almeno, Egli, il Dio Onnipotente, impedire i peccati degli uomini».
E’ vero; Egli potrebbe impedire i peccati; è per questo che dà la sua grazia; ma di forza non
interviene. Non infrange con la forza la libertà umana, poiché rispetta in noi ciò ch’Egli stesso
ha creato: rispetta la nostra «personalità».
2) Dio guarda forse passivamente il peccato? Oh, no! Dio non ci toglie la libera volontà
inerente alla natura umana, ma la libera volontà ha per conseguenza il fatto che vi saranno
sempre dei peccati nel mondo fin che vi saranno degli uomini. Solamente, Dio sa ricavare il
bene dal male.
Chi se ne rende conto? colui che, già incanutito dall’età, può riportar lo sguardo sulla sua
vita passata, oppure colui che ha studiato a fondo la storia. Quante volte non è accaduto in
passato e quante volte non accade anche attualmente che gli uomini, pur abbandonandosi ai
loro bassi e grossolani istinti e commettendo le loro opere malvage, favoriscano, senza
accorgersene, i disegni divini! Quanti uomini, arrivati a un’età avanzata, potrebbero dire agli
intriganti e ai cattivi quello che Giuseppe, venduto già dai fratelli, ricordava loro: «Voi faceste
cattivi disegni contro di me, ma Dio ha voluto convertirli in bene» (Genesi L, 20).
Nostro Signore Gesù Cristo era appena asceso al Cielo che già gli ebrei perseguitavano i
suoi discepoli. Ma Dio trasformò questo male in bene: i cristiani, fuggendo in tutte le direzioni,
portarono nel mondo intero la fede cristiana; la tempesta scuote l’albero, ma nello stesso tempo
sparge i suoi semi e dà così origine a nuove foreste.
Iddio dunque vuole realmente che l’uomo non usi, per fare il male, di quella libera
volontà che Egli gli ha concessa. Se tuttavia ne abusa per commettere i1 male e per fare dei
peccati, allora Iddio ancora si sforza a ricavare dal peccato un po’ di bene.
3) Certo, non è ancora questa una risposta che soddisfi pienamente alla domanda: «Perché
tace Iddio?». La vita è talmente satura di delitti umani, che perfino le anime pie dicono con
indignazione: «Signore, come potete voi ora starvene in silenzio? Come potete limitarvi ad
essere semplice spettatore?».
Sapete perché Iddio tace anche quando l’uomo gli dice ansiosamente: Signore, una sola
parola, un solo colpo di fulmine, un terremoto sotto i piedi dei cattivi?
Dio tace, perché non ha bisogno di parlare. Tutto quello che doveva dirci, per farci
conoscere i suoi pensieri, i suoi disegni e Se stesso, Egli ce lo ha comunicato in altri tempi per
mezzo dei profeti e del Figlio suo unigenito ed ora ce lo insegna chiaramente per mezzo della
Sacra Scrittura e della Chiesa.
Egli tace, perché il Dio eterno è padrone del tempo. I suoi mulini macinano lentamente,
ma sicuramente. Nessuno può nascondersi davanti a Lui, e, se si vuole sfuggirgli, presto o tardi
si finisce col cadere tra le sue braccia.
Iddio tace, perché sa di avere una messaggera che un giorno o l’altro toccherà sulla spalla
ciascun uomo per condurlo davanti al suo tribunale. Ma quella volta Iddio romperà il suo
silenzio.
«Uomo, fino a questo momento io sono stato calmo e muto; ora tocca a te tacere ed
ascoltare la sentenza dalla bocca del tuo Signore e tuo Dio».
Sì, fratelli, noi non possiamo conciliare le enormità della perfidia umana contro la bontà
divina altro che facendo questa riflessione: che Dio non è solamente buono, ma Egli è ancora un
giudice giusto e severo davanti al cui tribunale compariranno tutti gli uomini. E questo pensiero
ci conduce alla soluzione dell’altra questione della predica di oggi.
Finora abbiamo parlato del peccato e dei mali che siamo costretti a sopportare come
conseguenza della perversità umana. Certamente un gran numero delle nostre sofferenze
proviene dall’umana malvagità; non però tutte. Ci sono accidenti, malattie, ci sono colpi della
sorte che non vengono cagionati dall’uomo. Come possiamo conciliare ciò con la bontà di
Dio? Tale è la seconda domanda alla quale devo rispondere nel corso di quest’istruzione.

II.

La bontà di Dio e la sofferenza

«Giusto è il Signore in tutte le sue vie, e santo in tutte le opere sue», dice il Salmista
(Salmo CXLIV, 17). Ma quest’affermazione non è forse contraddetta dall’esperienza? Non è
contraddetta dai mali innumerevoli e da tutte le prove che fanno ininterrottamente salire il
lamento sulle labbra degli uomini? Il coltivatore si lagna perché il raccolto è cattivo; il povero
perche l’inverno è duro; il malato perché lo spasimo è intollerabile; il bambino perché non ha
di che coprirsi; il giovane perché non trova un impiego; il vecchio perché deve morire. Non ci
sono che lamenti e lagrime; dalla culla alla tomba tutto è sofferenza.
E le catastrofi! Un cinematografo s’incendia e un gran numero di bambini restano
bruciati, e si sentono i gemiti delle madri. Un’esplosione di dinamite si produ ce in una miniera
e tanti vi trovano la morte. Lo slittamento di una collina sconvolge strade intiere. E gli
investimenti, le esplosioni, ed altri accidenti che leggiamo ogni giorno nei giornali!
Ah! fratelli miei! come possiamo dare a tutte queste cose una risposta soddisfacente e
consolante?
Quanti uomini si rovinano malgrado le loro fatiche! quanti sono incompresi e perseguitati,
malgrado la loro innocenza! Quanti malati, quanti infermi sopportano delle sofferenze che non
meritano! Che cosa dobbiamo dire davanti a tutto ciò? Che cosa dobbiamo rispondere?
1) La nostra prima risposta sarà questa: molti mali, molti accidenti che si possono
chiamare semplicemente mali fisici, provengono dal fatto che il nostro mondo è un mondo
ristretto, limitato, sempre in evoluzione e per conseguenza in trasformazione perpetua.
Tutto incomincia, cresce ed invecchia a questo mondo, e questo cambiamento continuo è
legato a sofferenze indicibili.
Come posso io spiegarmi con maggiore chiarezza? Il male tiene per mano il mondo.
Non solamente la vita di un bimbo è causa di dolori per la madre sua ma ogni vita sopra la
terra nasce nella sofferenza. «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, resta infecondo;
ma se muore porta molto frutto» (S. GIOV. XII, 24).
2)Inoltre, la vita dell’uomo sopra la terra è inserita nel quadro delle leggi fisiche.
Queste leggi sono pure opera di Dio, la loro osservanza dà lode a Dio. Questa lode si realizza
anche allorquando, in virtù di tali leggi, questo o quel cuore cessa di battere. Qualcuno si
esercita sugli sci, ma salta goffamente, cade, si rompe una gamba e resterà forse storpio per
tutta la vita. Una tegola si stacca dal tetto; in virtù della legge di gravità essa cade con una
determinata forza di penetrazione. Se un bambino sta giocando proprio là sotto, vien colpito
mortalmente e il cuore dei parenti ne sanguinerà. Iddio potrebbe certo, con uno speciale
intervento, trattenere la tegola che cade o far deviare la sua traiettoria; ma io vi domando:
possiamo noi ragionevolmente chiedere ciò al Signore? Se Dio intervenisse nell’ordine del
mondo tutte le volte che il compimento delle leggi della natura potrebbe essere pericoloso o
spiacevole per l’uomo, l’ordine attuale non si trasformerebbe forse in disordine? Dio potrebbe
certo impedire ai cattivi di commettere il male; ma il mondo non sarebbe in questo caso un teatro
di marionette dove le lodi divine sarebbero cantate non più da uomini liberi, ma da personggi
fatti agire per mezzo di fili?
3)Una soluzione soddisfacente non la troveremo che guardando verso il cielo, non la
troveremo che levando gli occhi verso Dio e giudicando i mali che ci accadono non in
rapporto alla vita terrena, ma in rapporto alla vita eterna. Allora, ma allora soltanto, noi
non saremo schiacciati dai colpi della sorte.

***

Il piccolo mozzo era inetto ancora e disorientato al tempo della sua prima traversata.
«Figlio mio», gli chiede il capitano, «sei bravo ad arrampicarti?».
«Si!» rispose il fanciullo con fierezza. «Al mio paese mi arrampicavo sugli alberi più alti».
Ma quando fu in cima dell’albero maestro e la nave di sotto si mise a rollare e a
beccheggiare, il mozzo incominciò a tremare ed ebbe paura di cadere a capofitto. Frattanto
il capitano osservava tutti i movimenti del ragazzo; e quando lo vide col viso livido e
scomposto gli gridò: «Piccolo, guarda in alto, guarda in su!».
Il mozzo obbedì. Guardò in su, e la vertigine scomparve, la paura e l’angoscia erano
dissipate così.
Sì, guardate in alto, e troverete allora un appoggio al di sopra dell’agitato mare della
vita.
a) Colui che guarda in alto conosce la risposta a questo lamento mille volte ripetuto:
Tutto va bene per i cattivi quaggiù, mentre i buoni sono nell’affanno: ov’è dunque la bontà
di Dio?
Si tratta senza dubbio di un problema angoscioso, ma insolubile soltanto per coloro
che non guardano in alto, verso il destino futuro ed eterno dell’uomo! Difatti colui che
crede fermamente che la vita terrena non è il fine ultimo e definitivo dell’umanità, colui
che sa come tutte le ingiustizie e le disuguaglianze di questa vita si risolveranno
armoniosamente il giorno in cui il Giudice imparziale ed eterno renderà giustizia a tutti,
non può essere turbato dalla disuguale ripartizione della felicità sopra la terra.
b) Colui che guarda in alto non mormorerà: Perché proprio io? perché tocca a me
penare e soffrire, e non agli altri?
Agli altri no? Oh, voi non potete penetrare col vostro sguardo negli abissi degli umani
destini! Dei tappeti persiani, un magnifico appartamento di otto locali, un’automobile, delle
serate... voi credete che non vi siano là né sventura, né prove, non bambini malati, non
cattivo umore, non preoccupazioni, non tetre nuvole, né alcuna tempesta. Vi sono dunque
rose senza spine? V’è un raggio di sole senz’ombra? Un occhio umano senza lagrime?
«Voi siete tanto povero!». Non è povero chi ha pochi mezzi, ma chi ha troppi desideri. C’è
della gente che mangia in un piatto d’argilla e che pure è tanto felice come se mangiasse nel
vasellame d’argento; allo stesso modo che altri vi sono la cui tavola è coperta di ricchi servizi, e
sono invece assai più infelici che se mangiassero da umili piatti.
Non vi accadde mai di sentir dire che talvolta la felicità terrena pesa come una maledizione
sopra tutta una vita? Quinto Curzio rileva, ad elogio di Alessandro il grande, ch’egli si comportò
assai generosamente riguardo alla madre, alla moglie e a due figlie del re dei Persi, suo nemico,
che erano cadute nelle sue mani. E lo storico aggiunge questa osservazione: «Il suo cuore non
era ancora corrotto dalla fortuna. Ma tanta felicità egli non poté sopportare a lungo» e la
sua vita depravata lo condusse prematuramente alla tomba (St. di ALESS. III, 12).
Quanti, all’opposto, per mezzo della croce e della sofferenza ritornano a quel Dio ch’essi
avevano totalmente dimenticato! I guai dell’esistenza avevano schiacciato Simone il Cireneo;
egli tornava dal bosco portando un po’ di legna nella sua casa di Gerusalemme. Ed ecco che ai
suoi occhi si presenta un lagrimevole corteo: è Nostro Signore Gesù Cristo che trascina la sua
pesante croce verso il Calvario. I soldati romani ordinano a Simone di fermarsi e lo costringono
ad aiutare il Salvatore a portar la sua croce. Egli non lo fece di buon grado; «lo costrinsero», dice
la Scrittura. Ma la croce segnò per lui una svolta nella vita. O beneficio immenso della croce!
Nel chiudere la predica precedente vi ho letto qualche passo di due lettere; lettere di due
persone grandemente provate e proprio dalla sofferenza ricondotte a Dio. Ora io vi faccio
una sola domanda: Non vi son forse centinaia e migliaia di persone che potrebbero
scrivere lettere simili? Migliaia di anime che potrebbero dire: Eravamo lontane da Dio.
Grazie Gli siano rese per averci richiamato a Sé per mezzo della prova e della sofferenza.
Sì, Dio è infinitamente buono.
c) Ed ora gli enigmi sono risolti proprio tutti? Non ci sono altri problemi angosciosi?
Ahimé! Chi potrebbe mai dare una risposta piena e soddisfacente? E’ questo il problema
più difficile della nostra fede. Difatti da un lato io considero il mondo e vi scopro tanta
bellezza e grandezza, tanto ordine, e armonia, e perfezione che non ho alcun motivo di
non esser credente; ma dall’altro lato mi trovo davanti a tanti enigmi oscuri e senza
soluzione che sono costretto a dire: «Io non so. Io non posso dare una risposta. Non ci
siete che Voi, Dio Onnipotente, che possiate rispondere; Voi che tessete la trama della
storia del mondo».
Che cos’è la vita? L’uno dice: una commedia; l’altro dichiara: una tragedia. Colui che la
considera una commedia può subire una sorte tragica; all’opposto chi la riguarda come una
tragedia può essere chiamato a recitarvi una parte comica. Che cosa è dunque la vita? Un
mistero, un segreto al quale noi ci sforziamo di trovare una risposta, e una risposta
adeguata; ma la nostra sola risposta sarà quella del poeta:
Io credo nella bontà del cuore di Dio che regola i destini del mondo.

***

Miei fratelli, in tutto l’universo regna un’armonia meravigliosa. Senza dubbio qualche
dissonanza scoppia or qua or là, ma la grande opera del Compositore non ne viene distrutta. I
musicisti di genio possono talvolta permettersi di introdurre delle dissonanze nelle loro partiture,
ma gli ascoltatori non se ne impazientano, non esprimono scontento alcuno; attendono invece
tranquillamente la stretta finale, il momento cioè in cui la mano del maestro farà sparire ogni
nota discordante e terminerà l’opera sua in una magnifica armonia. E’ così che la mia anima
cristiana aspetta che, nell’eterna vita, ogni dissonanza della vita terrena si risolva in un inno di
lode davanti al trono di Dio, dell’Onnipotente che dirige il cammino del mondo.
Per finire non abbiamo da far nulla di meglio che ricorrere nuovamente al salmo
settantadue; e se al principio di questa predica ne ho detto la prima parte, nella quale il Salmista
è alle prese con la bontà di Dio e con la perfidia dell’uomo, ora di questo stesso salmo leggerò
l’ultima parte e la conclusione:
«... Signore, io mi tenni sempre con Te,
Perciò mi prendesti per la strada, mi conducesti secondo la tua volontà - e con amore mi
accogliesti.
Chi c’è per me in Cielo fuori che Tu? né sulla terra bramo altro.
La mia carne e il mio cuore vengono meno, - o Dio del mio cuore e mia porzione in eterno!
Perché ecco, coloro che si allontanano da Te periranno - Tu hai annientato tutti coloro che
si abbandonarono al male lontani da Te.
Ma il mio bene è di stare unito con Dio - e porre nel Signore Iddio la mia speranza: per
raccontare tutte le opere di Lui».

XI.

Iddio è verace e fedele

Nel benedetto volto del nostro Padre celeste si trovano alcuni tratti ai quali l’umano
linguaggio ha dato dei nomi distinti, per quanto in realtà essi non facciano che presentare aspetti
differenti d’un solo e medesimo attributo divino. I due tratti del volto divino su cui oggi vi
voglio intrattenere non differiscono che nel nome, ma sono una stessa cosa nella realtà.
La mia predica d’oggi sarà consacrata alla veracità e alla fedeltà di Dio. Veracità e fedeltà
sono, in Dio, tanto inseparabili quanto in un raggio di sole la luce e il calore. Se pensiamo alle
parole di Dio, noi diciamo tosto che Dio è verace; se pensiamo alle sue opere, diciamo che Dio è
fedele; ma queste due qualità non sono che le due facce d’una verità stessa.
Ma è realmente Iddio verace e fedele? Alla mia domanda la Sacra Scrittura fornisce più di
una magnifica risposta. Le pagine dell’Antico Testamento già parlano con rispetto e pietà della
veracità e della fedeltà di Dio. «II Signore è una roccia che dura in eterno», scrive il profeta Isaia
(ISAIA XXVI, 4). E’ come se dicesse: Quaggiù siamo travolti dal turbine di una vita che cambia
continuamente; nel vasto mondo Dio è il solo punto fisso: Iddio è una roccia. Ma le stesse rocce
si esauriscono e si spazzano sotto la sferza del tempo. Dio è «la roccia eterna» alla quale l’uomo
può avvinghiarsi. Poiché, come scrive lo stesso profeta, «La parola del Signore dura
eternamente» (ISAIA XL, 8).
Nostro Signore Gesù Cristo ha espresso il medesimo pensiero in una forma assai più
solenne, pronunciando queste parole sublimi: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole
non passeranno» (S. MARCO XII, 31). E con quale convinzione scrive S. Paolo: «Iddio è
verace; gli uomini tutti sono menzogneri!» (Ep. ai Rom. III, 4). In una parola, «come è possibile
che Dio mentisca?» (Ep. agli Ebr. VI, 18).
In realtà, Iddio è verace, Iddio è fedele. I. A che cosa mi obbliga la veracità divina? e II.
Quale consolazione mi dà la fedeltà di Dio? E’ in queste due domande che vorrei riassumere le
idee della mia predica d’oggi.

I.

A che cosa ci obbliga la veracità di Dio

1) Mi obbliga prima di tutto a prestare alle parole di Dio una fede senza riserve.
«Io sono la via, la verità e la vita» (S. GIOV. XIV, 6), ha detto di Se stesso il Salvatore.
Dunque Dio è la stessa verità, e tutta la mia fede riposa sul fatto che io tengo per vere le parole
di Dio.
La nostra santa religione insiste sull’importanza della fede, sulla forza della fede, sulla fede
che non lascia il minimo posto al dubbio. Ci sono, nella religione, molte cose che non
comprendo, eppure bisogna che io le creda. Perché dunque bisogna crederle? Perché non ho io il
diritto di dubitarne? Semplicemente perché non posso mettere in dubbio la parola del Dio
verace. Ecco il primo e il più solido fondamento della mia fede. Io non comprendo la tal cosa o
tal altra, pure ci credo. Ci credo perché il Dio verace non mi può ingannare.
Soltanto Iddio non s’inganna. Noialtri uomini ci inganniamo assai spesso, ma il più sovente
contro la nostra volontà.
Allorché dubbi contro la fede sorgono in me e minacciano di rodere l’anima mia come il
verme di una mela vermiglia (e nessuno è immune da tali giorni d’angoscia) come fa bene poter
dire: E’ vero, io non comprendo il tale o il tal altro articolo della nostra fede, ma è Dio che l’ha
detto e io lo credo. «So di chi mi sono fidato e mi sento sicuro» (II. Ep. a Tim. I, 12).
Io mi trovo nella vallata, Iddio è sulla montagna. Dal suo vertice Egli mi narra ciò che si
trova dietro la montagna, in quell’al di là che io non posso vedere in causa della montagna
stessa. Io credo alla sua parola, perché Egli è verace.
2) Ma la veracità e l’amore di Dio per la verità mi mettono sott’occhio un altro dovere.
Difatti, da quest’essere Iddio verace non risulta per me soltanto l’obbligo di credere alle sue
parole, di crederci sempre e in tutte le circostanze, ma risulta ancora quest’altra convinzione: che
la menzogna è in contraddizione con l’Essenza stessa di Dio, che Dio odia la menzogna; se
voglio diventare simile a Dio, mi è dunque necessario ancora evitare la menzogna.
a) La menzogna ripugna talmente a Dio che se la minima ombra di essa apparisse in Lui,
nello stesso istante Egli cesserebbe di esistere. Con quali occhi Iddio deve dunque
considerare l’uomo menzognero!
«Iddio è luce» dice la Sacra Scrittura, «e non v’è tenebra in Lui» (S. GIOV. I, 5). Se non vi
è tenebra in Lui, Egli nemmeno ne sopporta in me. Mentire cha cosa serve all’uomo? Un uomo
può ingannare un altro uomo, ma non potrà mai ingannare Iddio. Che figura ridicola deve mai
fare l’uomo quando si presenta con la maschera della menzogna davanti a Dio che tutto vede e
tutto sa! Se a un vetro sudicio e coperto di povere saltasse il ticchio di dire al sole: «Guarda
che magnifico specchio veneziano sono io!», il raggio di sole risponderebbe ridendo: «Che
faccia tosta! Io ti attraverso con la mia luce». E se una pozzanghera dicesse al sole: «Guarda
che lago limpido io sono», il sole sorriderebbe: «Quale audacia! Io scorgo il fango che sta in
fondo a te».
Fratelli miei, l’occhio di Dio ci penetra più che il sole non filtri attraverso il vetro, o il
raggio attraverso l’acqua.
b) «Oh, ma vi prego - ecco la scusa di molta gente - io non ho l’abitudine di mentire.
Prima di tutto per non far torto agli altri, ché sarebbe un’infamia. Ma, capite bene, tante
piccole bugie innocenti...: una piccola esagerazione, una leggera fanfaronata, una bugietta di
cortesia, una vanteria da nulla, una simulazione senza importanza, una lieve alterazione della
verità… Non è facile evitare tutto ciò. Né con questo io faccio torto ad alcuno. Ditemi dunque
come mai una menzogna di tal genere può essere un peccato, visto che non offende nessuno?».
Vi rispondo all’istante. Una menzogna come dite voi non esiste. Voglio dire una
menzogna innocente, che non faccia male a nessuno, non ve n’è; poiché: non fa torto a
nessuno, ne fa certamente molto a voi stessi.
Come può darsi ciò?
Seguendo il precetto di Nostro Signore, noi dobbiamo sforzarci d’imitare il Padre celeste,
di rassomigliargli nella perfezione dell’anima (S. MATT. V, 48); di conseguenza anche
nell’amore alla verità, nella sincerità, nella bontà. Io sarò simile a Dio, al Dio verace, tanto
quanto saprò evitare la menzogna.
Nella verità c’è una divina impronta; e chi volontariamente pecca contro la verità, pecca
contro Dio quand’anche non nuocesse agli altri.
Noi comprendiamo adesso perché S. Paolo dia ai suoi fedeli di Efeso questo fermo
avvertimento: «Rivestitevi dell’uomo nuovo, creato secondo Dio, nella giustizia e nella vera
santità. Per tal modo, rigettata la menzogna, parli ciascuno secondo la verità al prossimo suo»
(Ep. agli Ef. IV, 24-25).
Dite la verità. Perché? Perché ogni menzogna eleva una barriera tra Dio e l’anima, e mutila
l’anima umana con lo strapparle questo tratto di rassomiglianza divina.
Miei fratelli, rispettate la verità. L’anima di colui che mente è sommersa da un’onda di
fango. Ma chi ha l’abitudine della menzogna e ci vive, può dire di vivere come nel Mar Morto,
se pure quella è degna di essere chiamata una vita; e quell’acqua corrosiva e bruciante logorerà
quell’anima fino a tanto che l’avrà ridotta una rovina.
E poi non dimentichiamo: quali siamo durante la vita, tali saremo nell’eternità. La nostra
anima sarà eternamente quale noi l’avremo formata. L’anima verace e leale brillerà come il
diamante; il mentitore, all’opposto, si troverà in un’oscurità simile a quella di una notte nera e
senza speranza.
Né mi sarà sufficiente diventar simile al Dio verace nel senso di starmene lontano dalla
menzogna; ma mi bisognerà ancora oltrepassare quest’atteggiamento negativo e forgiare in
modo positivo la divina rassomiglianza dell’anima mia: infiammandomi d’amore per la verità.
L’amore della verità.
E’ una felicità inesprimibile quella di poter fare qualche cosa per la verità, per farla
conoscere, per difenderla e propagarla. Col fatto di dover rassomigliare al Dio verace ed amare
la verità, si spiega il sublime entusiasmo degli antichi martiri che hanno dato la loro vita per la
verità divina. Si spiega così l’entusiasmo dei valorosi missionari che, penetrati dalla verità
della loro religione, s’impongono privazioni e sacrifici senza nome per propagare questa verità
tra i popoli pagani. Si spiega così l’entusiasmo di quelle anime eroiche che non sono nate nella
nostra santa religione ma che, a un’età più avanzata, hanno scoperto la perfezione della verità
cristiana e vi hanno aderito al prezzo di sacrifici immensi. Si spiega così lo zelo apostolico di
quelle sante anime che non possono tener rinchiusa in sé la felicità di conoscere la verità
religiosa, ma vogliono ancora condividere la loro gioia col maggior numero possibile di
uomini.
Sapete a che cosa faccio allusione in questo momento? Alla santa gioia, all’istante felice
in cui un prete vede queste anime innamorate d’uno zelo ardente per la vertà che gli recano
qualche felice notizia: «Signor parroco, ho un amico all’Università che, abbandonato a se
stesso, ha lottato con innumerevoli dubbi contro la fede, ed ora ho potuto deciderlo a venir alla
chiesa», come sono contento! Ma eccone un altro che arriva: «Nel mio vicinato si trova una
famiglia dove marito e moglie vivevano così da dodici anni senz’essere stati religiosamente
uniti, e dopo molte parole ieri li ho fatti sposare in chiesa». E io ne sono felice. Arriva un
terzo: «Ricordate quel giovane che venne a cercar di voi in sacrestia dopo la predica di
domenica scorsa per esporvi le lotte dell’anima sua? Sono stato io a ridargli un po’ di
coraggio, e adesso me ne è tanto riconoscente!». Quanto me ne rallegro! Ma c’è ancora
qualcuno: «Ho una vecchia amica che conosco da molti e molti anni; un’anima bella; soltanto
non si confessa più da gran tempo, dall’epoca del suo matrimonio; finalmente ho potuto
deciderla e verrà a confessarsi domani». E io ne gioisco.
Perché dunque ho aggiunto al racconto di ciascuno di questi episodi la formula: come ne
sono contento? Di che cosa sono dunque tanto felice? Perché questa gioia senza nome? Ma è
perché l’anima vostra è divenuta tanto più simile al Dio verace quanto più avrete guidato agli
altri alla verità; poiché le verità religiose non sono mai fortemente radicate in noi che quan do
noi stessi persuadiamo gli altri della verità di esse.
Sì, io voglio rassomigliare al Dio che ama la verità, che diffonde la verità.
Divenuto simile a Dio verace, ho il diritto di contare sulle premesse del Dio fedele.
Poiché se la sua veracità ci impone numerosi e penosi doveri, la sua fedeltà ci riconforta
con numerose e incoraggianti promesse.
Eccomi dunque davanti alla seconda domanda:

II.

Quale consolazione mi dà la fedeltà di Dio?

1) Dal momento che vi è Qualcuno che non m’inganna, la fedeltà di Dio mi allieta e
mi consola. Se ho sofferto quaggiú tutti i disinganni e tutte le delusioni, se ho visto
l’inanità dei miei sogni, mi resta pur sempre un amico fedele che non m’ingannerà mai:
quest’amico fedele è Dio.
«Iddio non è un uomo per mentire, dice la Sacra Scrittura, né un figlio d’uomo per pentirsi.
Forse ch’Egli dice e non fa? parla e non eseguisce?» (Numeri XXIV, 19).
E in Isaia Dio dice di Se stesso: «Può una donna scordarsi del suo bambino tanto da
non aver pietà del frutto delle sue viscere? Quand’anche le madri dimenticassero, Io non
saprei scordarmi di te» (ISAIA XLIX, 15).
Chi conosce la natura umana può comprendere quanto noi diciamo: Dio è un amico
perfettamente fedele che non ha mai ingannato nessuno.
L’uomo è capriccioso, volubile, mal sicuro, schiavo delle proprie impressioni...
L’uomo non è fedele. Quanti delusi, quanti abbandonati, quanti sfruttati condivideranno la
mia opinione: in verità, è proprio così: non ci si può fidare dell’uomo.
Ma il cuore umano è di tale natura che ha sete di anime fedeli, sete di una fiducia in
cui poter riposare senza timore di restar deluso. E se qualcuna ne esiste, cosa rara, se
davvero qualcuna se ne trova, sembra allora che un raggio della fedeltà eterna di Dio sia
disceso in quel cuore umano. Poiché senza Dio non vi può essere umana fedeltà. C’è
l’interesse, la ricerca dei propri comodi, la corsa al piacere; ma non c’è la fedeltà.
2) Ed ecco un’altra consolazione: Se Dio è fedele vuol dire che mantiene la sua
parola; io posso quindi basarmi sulle sue promesse e su di esse pienamente contare.
L’Antico Testamento fa un grande elogio del Signore, perché ha vegliato con tanto
amore sul popolo eletto. «Simile all’aquila che eccita la covata e volteggia al di sopra dei
suoi piccoli, Egli ha spiegato le ali, ha preso Israele e lo ha portato sulle sue piume » (Deut.
XXXII, 11). Sulla strada della vita eterna, la veracità e la fedeltà di Dio sono le due ali con
le quali Egli volteggia al di sopra del nostro capo e ci incoraggia a non esitare.
Se Dio è fedele, s’Egli mantiene ciascuna delle sue parole, allora le sue consolanti
promesse non sono come il fugace bagliore di un fuoco d’artificio, ma una vivificante
realtà che mi consente la possibilità di trovare un conforto in tutte le prove di questa vita.
Quello che il Dio fedele promette, Egli lo mantiene.
L’uomo non è onnipotente. L’uomo dimentica, o non vede, o non ode. Di conseguenza può
succedere che, pur con la migliore volontà, egli s’inganni parlando o agendo. Ma Iddio non
dimentica. Iddio non è né miope, né sordo. Io posso sempre contare sulle promesse divine.
Posso contare anche nella pena. Il peso spaventevole del destino mi schiaccia, ma io
mi ricordo di queste parole di Dio: «Quella che è leggera tribolazione del momento
presente, produce per noi un eterno e smisurato peso di gloria» (II Ep. ai Cor. IV, 17).
Posso restare fermo nella sofferenza se mi ricordo della promessa divina, che vi è un luogo
dove «Dio asciugherà tutte le lagrime dei loro occhi, e la morte non sarà più, né più vi sarà
lutto, né gemito, né dolore» (Apocalisse XXI, 4).
Che cosa sarà la vita eterna? «Vedremo Dio». Come ci renderà felici la vista di Dio
infinitamente buono, se già fin da questo mondo noi chiamiamo minuti di felicità quegli
istanti che passiamo in compagnia d’una persona buona e amabile! Ci sarà forse per me un
sacrificio troppo grande, se per mezzo di esso mi è dato raggiungere il Bene supremo ? Posso
io lamentarmi di essere costretto a serbarmi fedele ai comandamenti di Dio, dal momento
che so che la perseveranza mi procurerà eternamente il Bene supremo? Senza dubbio non
cederò perché Dio è fedele. «Sappi dunque che il Signore Iddio tuo è un Dio forte e fedele»
(Deuter. VII, 9).
3) Dalla fedeltà divina deriva ancora una conseguenza che non posso passare sotto
silenzio. Se Dio è davvero fedele, se mantiene la sua parola e le sue promesse, allora Egli
manterrà pure le sue minacce.
Gli uomini promettono facilmente, e piú facilmente ancora non mantengono le loro
promesse; minacciano facilmente, ma spesso non hanno il potere di mettere in esecuzione le loro
minacce. Ma la Sacra Scrittura ci dice di Dio: «Il Signore è Dio vero; Egli è il Dio vivo e il Re
eterno; la terra trema davanti all’ira sua» (GER. X, 10). E per non dover temere le minacce del
Dio vendicatore non vi è che un mezzo solo: esser fedeli a Dio, fedeli e osservanti dei suoi
comandamenti.
E’ tanto più necessario parlarne in quanto che noi sentiamo tutti che le mille
preoccupazioni e le prove della nostra vita terrena nuocciono sovente alla fedeltà verso
Dio.
Miei fratelli, vive forse in noi la fedeltà ardente alla nostra patria eterna, lassù oltre le nubi,
come vive nel cuore degli emigrati italiani d’America il ricordo della loro patria su questa terra?
Recentemente gli emigranti americani hanno innalzato a Roma, al Gianicolo, un faro la cui luce
sarà testimonio dell’amore e della santa fedeltà dei loro compatrioti disseminati all’estero. Vive
in me, in me esiliato sopra questa terra, una tale fedeltà al Dio eterno?
Quante volte ci lamentiamo che il prossimo ci ha ingannati, ci è stato infedele, e
dichiariamo di sentirci disillusi a suo riguardo. Non lagniamoci tanto, e pensiamo piuttosto
a noi stessi. Quante infedeltà non abbiamo commesse verso Dio eternamente fedele!
Pensiamo alle numerose nostre confessioni, pensiamo che ogni volta abbiamo promesso a
Dio di essere fedeli e di emendarci; che cosa è avvenuto delle nostre promesse?
Ricordiamoci di tante nostre risoluzioni di evitare con ogni cura il peccato; che cosa è stato
del nostro fermo proposito?
Signore, Iddio fedele, rendete più vivo nelle nostre anime il fuoco di una santa fedeltà
verso di Voi.

***

Miei fratelli, abbiamo parlato della veracità e della fedeltà divina. Ed ora, nel
concludere, mi rammento d’un’osservazione che ho letta non so più dove. C’è un fiorellino
azzurro che è il simbolo delle fedeltà: la miosotide. Ma sembra che i botanici abbiano
notato che la miosotide sta sparendo dalla terra.
Similmente sembra che la schiera delle anime fedeli a Dio stia assottigliandosi e
minacci di sparire, mentre con essa diminuirebbero a vista d’occhio sulla terra il calore, la
bontà e la vita. L’uomo, man mano che si allontana da Dio, si fa sempre più duro e senza
cuore riguardo al suo prossimo. Dove non c’è bontà non può esistere né veracità, né
fedeltà, poiché queste due virtù sono sorelle tra loro, e sono figlie della bontà.
Ma Dio è verace, io credo in Lui; Dio è fedele, io spero in Lui; Dio è buono, io Lo
amo.
«Conserviamo senza vacillare la professone della nostra speranza poiché fedele è
colui che ha promesso» (E. agli Ebrei X, 23); tali sono le parole di S. Paolo che risuonano
al mio orecchio.
Questa speranza cristiana mi diffonde nel cuore un calore dolcissimo quando pure il mondo
intorno a me non fosse che un blocco di ghiaccio. Quando tutti gli uomini mi ingannassero,
Iddio non m’ingannerà. Quando tutti mi abbandonassero, Iddio non mi abbandonerà. Quando
tutti mi fossero infedeli, Iddio non lo sarà; soltanto... soltanto se non sarò nemmeno io infedele
verso di Lui. E in me risuonerà costantemente questo monito del Signore: «Sii fedele fino alla
morte, e io ti darò la corona della vita» (Apocalisse II, 10). Amen.

XIII.

Iddio è presente dappertutto

Leggevo recentemente un’ingenua storiella a proposito di un caro bimbetto. Egli vedeva


spesso il babbo prendere in mano il ricevitore del telefono e iniziar così la conversazione:
«Pronto? Pronto! parla il signor X…». Una sera il babbo vide il suo piccolino che
s’inginocchiava serio serio a’ piedi del letto, e poté sentire che incominciava così la sua
preghiera: «Pronto? Pronto, buon Dio! Parla Paolino. Padre nostro che sei nei cieli…».
Nell’ascoltare questa storiella uno non può impedirsi di sorridere. Di che sorridiamo?
Dell’ingenuità di un bambino! Telefonare al buon Dio? Al Dio che circonda l’universo, che
è presente dappertutto e riempie di Sé il cielo e la terra (GER. XXIII, 24). Chiamare Iddio che,
secondo la Sacra Scrittura, è più alto del cielo, più profondo dell’inferno, più esteso della terra,
più vasto del mare (GIOBBE XI, 8-9), e che «né il cielo, né il cielo dei cieli possono contenere»
(III Lib. dei Re VIII, 27). Chiamare Iddio che «va dall’una al1’altra estremità del mondo, e, tutto
dispone con dolcezza» (Sap. VIII, 1).
Sì, era un’ingenuità quel modo di pensare del bambino. Noi sappiamo bene che
Iddio è presente dappertutto, che il cielo e la terra sono riempiti da Dio, che nel mondo
intiero non esiste un solo punto, per quanto nascosto, dove Dio non sia presente; che sulla terra,
nel sole o tra le stelle che brillano a distanze vertiginose non c’è un luogo ove ci si possa
nascondere davanti a Lui. Noi sappiamo che per misurare Iddio non v’è altra misura che
l’infinito, e che Dio non ha altro limite che Se stesso. Noi sappiamo che tutto ció che esiste al
mondo altro non è che il pensiero e l’opera di Dio; quindi in qualsiasi posto si trovi qualche cosa
Iddio è necessariamente presente.
Sì, noi sappiamo bene tutto ciò, lo riconosciamo con la nostra fede; ma viviamo noi proprio
secondo la fede, regolando su di essa la nostra esistenza? Forse che, molto spesso, nel nostro
modo di agire, di parlare, di pensare, non ci comportiamo come se Dio fosse lontano lontano da
noi, in capo al mondo? Ma se abbiamo una giusta idea dell’onnipresenza di Dio, dobbiamo
anche ricavarne delle lezioni e delle conclusioni pratiche per la vita. E sono appunto
queste lezioni che dobbiamo considerare.
Anzitutto sforziamoci: 1) di comprendere bene questa onnipresenza di Dio; quindi
consideriamo, II) la forza ch’essa ci consente nelle tentazioni e, III) la consolazione che ci reca
nella sofferenza.

I.

Iddio è presente dappertutto

In primo luogo ci è necessario esaminare un po’ più da vicino come si debba comprendere
questa formula: Iddio è presente dappertutto.
a) Ed ecco la nostra prima domanda: Possiamo noi rapprensentarci l’onnipotenza di
Dio? Certamente no, con questa nostra facoltà di pensare tanto limitata. Forse possiamo
meglio comprendere pensando all’anima nostra che, presente in tutto il nostro corpo, si
trova pure tutta intiera in ogni parte di esso, agisce dappertutto, e non v’è nessun organo
del quale si possa dire: l’anima non si trova che là.
Il bimbetto si stringe al petto di sua madre, e domanda spalancando gli occhioni
meravigliati: - Di’, mamma, dove abita dunque il buon Dio? - E la madre risponde con gli occhi
rivolti al cielo: - Lassù, bimbo mio, nel cielo stellato.
In questo momento degli adulti sono invece davanti a me e domandano: - Diteci dunque,
Iddio dov’è? - Ed io non posso dare risposta migliore di questa: Guardate intorno a voi
nell’universo e dappertutto troverete Iddio.
Nel cielo stellato si muovono milioni di astri giganteschi. Chi ha dato l’impulso
iniziale a questa forza titanica? Chi ha tracciato le invisibili strade ov’essi circolano? Ma
soprattutto chi ha stabilito le leggi per le quali queste masse, smisurate di forze e di materie, che
noi chiamiamo l’universo, compiono, senza mai fermarsi, senza mai urtarsi, le loro rivoluzioni
nello spazio da migliaia a migliaia di secoli? E’ l’Altissimo, il Dio che è presente dappertutto.
b) Ora s’affaccia un’altra riflessione: Dio è presente in tutto l’universo, ma Dio è più
grande del mondo. «Forse che io non riempio il cielo e la terra?» : dice il Signore per
bocca di Geremia (XXIII, 24). Dio è più grande del cielo e della terra, il mondo intero non
è abbastanza vasto per Lui; Dio è tanto grande che non trova abbastanza posto se non in Se
stesso.
E’ dunque assai più esatto non già dire: Iddio è nel mondo intero; ma piuttosto affermare: il
mondo intero è in Dio. In quale sublime maniera San Paolo ha espresso quest’idea davanti ai
greci nell’areopago di Atene! «Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che racchiude, essendo il
Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti dalla mano dell’uomo, e non può
essere servito da mano umana come se avesse bisogno di qualche cosa, Egli che dà a tutti la vita,
il respiro a tutte le cose... poiché in Lui abbiamo la vita, il movimento e l’essere» (Atti XVII, 24,
25, 28).
Parole inaudite! «In Dio noi abbiamo la vita, il movimento e l’essere». Non è dunque Iddio
che è in noi, ma noi che siamo in Lui. Non è il Grande che è nel piccolo, ma il piccolo che si
trova nel Grande. Non già l’Infinito si trova nel finito, ma il finito nell’Infinito. Iddio è in tutte le
cose come la radice nella pianta, come l’anima nel corpo. E chi volesse separarsi da Lui non
riuscirebbe a farlo che nel caso di poter creare per se stesso un mondo completamente
nuovo.
«E’ in Lui che abbiamo la vita, il movimento e l’essere». Vale a dire ogni essere è in Dio e
Dio è in ogni essere. Badate bene: sono dei termini molto importanti. Noi non diciamo che ogni
essere e Dio (è questo l’errore dei panteisti), ma diciamo che non v’è nulla nel mondo, né
montagna, né fiume, né mare, né canto d’uccello, né cuore umano dietro ai quali non si
nasconda, come il frutto dietro la corteccia, come i1 viso dietro un velo, il Dio presente
dappertutto.
In realtà, Dio si lascia scorgere attraverso il velo delle creature: quale privilegio per le
anime ferventi e pie! San Paolo difatti così scrive di Dio: «Le sue perfezioni invisibili, la
sua eterna potenza e la sua divinità sono, dopo la creazione del mondo, rese visibili
all’intelligenza per mezzo delle sue opere» (Ep. ai Rom. I, 20).
Che sublime pensiero: Iddio è dappertutto! Quando nella notte calma e tutta sparsa di stelle
una meteora scintillante solca il cielo, quando le foglie ingiallite dell’autunno frusciano sotto i
vostri piedi, quando andate a passeggio lungo un viale fiorito, abbiate questo pensiero: Iddio è
presente.
Quando nel silenzio e nella calma della notte una impressione misteriosa afferra
l’anima vostra..., quando il sentimento doloroso della solitudine vi stringe..., quando
deluso da tutti, da tutti abbandonato, vi accasciate piangendo sulla sponda del vostro letto,
oh, pensate solo: Iddio è presente.
Voi non potete essere nel medesimo tempo qui e altrove; quando vogliamo andare in
qualche luogo, a noi è necessario cambiar di posto: Iddio non è fisso in nessuna località.
Non è possibile misurarlo: Iddio è dappertutto.
c) Le persone che meglio conoscono la Sacra Scrittura mi faranno forse l’obiezione
seguente: Nei nostri Libri Santi troviamo delle espressioni che contraddicono quanto è
stato affermato in precedenza. La Bibbia dice senza dubbio che Dio è presente dappertutto.
Ma dice pure che il cielo è il trono di Dio (S. MATT. V, 34) e Nostro Signore Gesù Cristo
similmente ha detto: «Padre nostro che sei nei cieli» (S. MATTEO VI, 9). Dunque Dio è
nel cielo. Per il Salmo CXXXI Iddio è nel Tempio. Secondo altre parole del Salvatore, Egli
abita nell’anima dei giusti (S. GIOV. XIV, 23). Come bisogna dunque comprendere queste
espressioni, se Dio è dappertutto? E come afferrare il senso della Sacra Scrittura che dice
come Iddio apparisca alla preghiera di colui che lo implora, mentre s’allontana dall’anima
peccatrice? E come possiamo noi dire che l’empio si è staccato da Dio? «Coloro che si
allontanano da Te periranno» dice parlando di Dio il Salmo LXX (26). Ma com’è possibile
allontanarsi, com’è possibile scostarsi da Dio, se è presente dappertutto?
Certo, non è possibile. Né questo modo di parlare puramente umano, né le altre espressioni
della Sacra Scrittura possono intendersi come se Dio non fosse presente in ogni luogo. In realtà,
Iddio è presente dappertutto, ma vi sono dei luoghi dove la sua presenza è molto più sensibile,
molto più afferrabile, e dove noi proviamo assai più profondamente l’impressione di questa
presenza, cioè davanti alle tracce tangibili della divina attività. L’anima umana è presente in
tutto il corpo eppure se qualcuno parla con grande entusiasmo, si dice che i suoi occhi
scintillano di spirito… che gli occhi sono il riflesso dell’anima. Iddio, Essere infinito, è
presente dappertutto, ma la sua grazia e i suoi richiami non dappertutto trovano una
comprensione sufficiente.
Nella Chiesa e nelle anime dei giusti la sua presenza e l’azione della sua grazia si fanno
sentire; all’opposto si dice dell’anima peccatrice che «Dio 1’ha abbandonata», non nel senso che
l’uomo possa scostarsi, da Dio, allontanarsene, ma nel senso che la grazia divina non può più
agire in lui. Nessuno spazio ci separa da Dio, come non ve n’è alcuno che a Lui ci leghi; ma ci
avviciniamo a Lui quando l’anima nostra Gli rassomiglia, e da Lui ci allontaniamo quando
l’anima nostra non Gli rassomiglia più. La grandezza e la libertà di Dio appariscono
precisamente nel fatto che, per quanto Egli sia e possa essere dappertutto, in certi luoghi Egli
compie in un modo particolare quello che vuole. E’ a tale proposito che di questi luoghi si dice
che «Iddio vi abita».
II.

La forza nelle tentazioni

a) Quante volte il peccato ci mormora all’orecchio questa perfida insinuazione! «Di


che temi? di che hai paura? Coraggio, nessuno ti vede, qui non c’è nessuno... In questo
momento sei libero; via, non c’è nessuno. Fa notte nera, adesso; coraggio, non c’è nes suno.
Eccoti solo dietro a queste porte chiuse; via, non c’è nessuno».
E' proprio vero che non ci sia nessuno a scorgere i nostri atti?
Le grandi compagnie delle ferrovie americane ci tengono moltissimo ad avere degli
impiegati coscienziosi, e a questo scopo li fanno sorvegliare da una sezione speciale di agenti di
polizia. Un giorno un impiegato chiese un permesso dicendo che gli era morta una persona di
famiglia. Quando, il giorno dopo, riprese il lavoro, il suo capo-ufficio gli fece vedere una
fotografia: l’impiegato in questione vi era rappresentato non già al seguito di un funerale, ma in
allegra compagnia. Gli agenti lo avevano fotografato. Se il disgraziato avesse saputo che tutti i
suoi passi erano controllati e tutti i suoi fatti e le sue gesta fotografate, si sarebbe senza fallo
comportato in un modo assai diverso. L’occhio di Dio è più sensibile di una lastra fotografica; se
sopra una buona lastra il minimo oggetto appare visibile, quanto più anche la più insignificante
delle nostre buone o cattive azioni resterà fissata nell’occhio di Dio!
Nel purgatorio di Dante, Virgilio dice al poeta:

... «Se tu avessi cento larve


sovra la faccia non mi sarien chiuse
le tue cogitazion, quantunque parve...»
(Purg. XV, 127-129).

Il minimo dei tuoi pensieri non mi sfuggirebbe, portassi tu pure cento maschere... Ogni
volta dunque che la tentazione vi sussurra all’orecchio: «Coraggio, non c’è nessuno», pensate
precisamente il contrario: Iddio è presente. Il Dio Onnipotente che mi ha creato, è presente. Il
Dio Santo che dal peccato è infinitamente offeso, è presente. Il Dio Giusto che sarà un giorno il
mio giudice, è presente.
«Coraggio, non c’è nessuno». Io voglio, all’opposto, camminar sempre davanti a Dio.
Realmente noi viviamo in Dio come nell’aria che ci sta intorno, come nel raggio di sole che ci
rischiara. Non v’è che un solo pensiero ch’Egli non conosca, una sola parola ch’Egli non oda.
«Coraggio, non c’è nessuno». Davanti alla tenda di Antigone, racconta Seneca, due soldati
conversavano imprecando contro il loro capo. Antigone sollevò la tenda con mossa rapida e
disse ai soldati sgomenti: «Andate un po’ più lontano, che io non vi senta». I1 mondo della
materia rappresenta quella tenda tra Dio e me. Io non posso vedere Dio, ma Egli mi vede e mi
sente. Ed io non posso andare «un po’ più lontano». Dove potrei fuggire, dove potrei
nascondermi davanti a Dio per poter commettere il peccato? In nessun luogo. Il Signore conosce
ogni mia azione, ogni mia parola, ogni mia intenzione, ogni mio pensiero più segreto.
Quando vi trovate solo e la tentazione, per farvi consentire al peccato, vi insinua
all’orecchio: «Via, commetti soltanto questo peccato, nessuno ti vede», bisogna che allora
replichiate: «Signore, anche se nessuno mi vede, Voi, Voi mi vedete, e io non sarò infedele».
Quando il fuoco divorante della concupiscenza si accenderà in voi, chinate la testa e
inginocchiatevi: «Signore, Voi siete presente e vedete la mia aspra lotta: non mi abbandonate».
Quando constatate che, come un tempo la moglie di Putifarre, creature impudenti cercano
di trascinarvi al male, esclamate sull’esempio di Giuseppe: «Come potrei fare un sì gran male,
e come peccherei davanti a Dio?» (Gen. XXXIX, 9).
E quando il peccato vi attira suggerendovi, come l’attestano i nostri Saliti Libri: «Chi mi
vede? Le tenebre mi circondano, le muraglie mi coprono e nessuno mi scorge: di che temerò
io?» (Eccli. XXIII, 25-26), bisogna allora che rispondiate con quest’altre parole della
Scrittura: «Gli occhi del Signore vedono tutto. Essi sono mille volte più splendenti del sole;
guardano tutte le vie dell’uomo, e penetrano fin nei luoghi più nascosti» (Eccli. X X I I I , 27-
28).
b) Felice l’uomo che sente Iddio dappertutto, e sa vedere in ogni cosa l’impronta delle
mani di Dio! Felici i giovani che hanno costantemente questo pensiero: che ovunque si trovino
sono sotto gli occhi di Dio!
Io non considererei come fuori di posto il sistema di un professore di scienze naturali
che, parlando delle leggi della natura e del movimento grandioso dell’universo, dicesse di
tanto in tanto una parola riguardo al Creatore. Nelle altre materie una tal cosa viene trovata
naturalissima. Non vi è corso di tedesco dove si parli di Goethe o di Schiller senza trattare nel
medesimo tempo della vita e della personalità del poeta, se si vuole che l’insegnamento riesca
davvero vantaggioso. E la sinfonia di Beethoven non sarà mai ben compresa, e i lavori di
Mozart, Schubert, Haydn non potranno mai esser bene interpretati se non da chi conosca la
vita e gli sforzi di questi grandi compositori. Non è dunque evidente che se si vuol trattare
delle meraviglie dell’universo bisogna anche dire una parola del Dio Creatore che riempie il
mondo e lo tiene tra le mani? Quanto maggiore diverrebbe allora la forza educativa della
scuola! Poiché colui che vive con questa profonda fede di parlare, d’agire davanti al Lui,
possiede una grande forza per lottare contro la tentazione.

III.

La consolazione nella pena

Ci fermeremmo a mezza strada se restassimo su quest’idea: che non si ha il diritto di


commettere il peccato davanti a Dio presente dappertutto.
Dal fatto che Iddio è presente dappertutto io non traggo soltanto la conclusione che devo
restar forte nel momento della tentazione, ma ancora quest’altro sublime e consolante
pensiero: Se Dio è presente dappertutto, vuol dire che io non sono mai solo nelle pene, che
non sono abbandonato.
a) «Padre nostro che sei nei cieli!». Ecco la nostra preghiera in tutte le nostre necessità, in
tutte le nostre lotte, in tutte le nostre sventure. Ora però, non è vero?, ora comprendo bene
queste parole. Nei cieli! Come sono lontani da noi i cieli! E’ questo il pensiero di molti. Così
lontani che non si può neanche misurare questa distanza in chilometri e che ci è necessario
valutarla in anni-luce; e quanti ce ne vogliono di questi anni-luce per arrivare soltanto alla Via
Lattea, 1a nebulosa più vicina a noi? Ed è là che si trova Iddio? domanda sgomento l’uomo
che lotta. Così lontano da noi? E come verrà Dio in mio soccorso?
No, fratelli. Un tal modo di pensare sarebbe troppo astronomico. Dov’è il cielo? «Lassù»
diciamo noi, e non ne sappiamo di più; ma gli uomini che vivono agli antipodi dicono pure:
«Lassù», ciò che per noi vorrebbe invece dire: «Laggiù». Dunque, né con la geografia, né con
l’astronomia ci è dato di determinare il soggiorno di Dio. Ma possiamo farlo molto facilmente
con quelle poche parole della Sacra Scrittura. «Egli non è lontano da noi; è in Lui che noi
abbiamo la vita, il movimento e l’essere».
Parole sorprendenti, commovente dottrina. Il pesce vive nell’acqua: è il suo elemento.
L’uccello vive nell’aria: e il suo elemento. La rosa, il giglio vivono al sole: è il loro elemento. E
l’uomo? L’uomo vive in Dio: è il suo elemento. Se non ci fosse Dio, io non esisterei.
E a quel modo che l’acqua avvolge il pesce, che l’aria circonda l’uccello e che la rosa
s’immerge nel sole, a quello stesso modo Iddio mi avvolge, mi circonda e io mi immergo in
Lui, ho in Lui la vita, il movimento e l’essere!
b) Ah! che dite mai? geme l’infelice. Se almeno io potessi aver la sensazione di esser
circondato da Dio, di vivere in Dio!
Miei fratelli, ma in qual modo volete sentirlo? Con un corpo materiale sentire Iddio, che è
spirito? C’è chi lo pretenderebbe. Sono i teosofi, gli antroposofi che insegnano 1’esistenza,
accanto al corpo materiale, di un corpo astrale, di un corpo etereo, col quale dicono di sentire e
di toccare direttamente Dio; ma essi sono o vittime di un’allucinazione, o sulla strada della
pazzia.
E’ dunque impossibile sentire la vicinanza di Dio?
Oh, no.
Quando siete alla vostra scrivania davanti a un lavoro difficile e stentate a raccogliere le
idee nel cervello affaticato, risollevatevi allora e dite guardando in alto... In alto? ma no; dite a
Dio che vi sta vicino vicino: «Signore, io so che Voi siete qui; so che siete mio e che io sono
vostro». Niente di più. Quale semplice, ingenua preghiera, e quale forza sublime ne sgorga!
Quando una sventura vi colpisce e siete triste, e l’anima vostra è nell’angoscia: «Signore,
Voi mi siete accanto, e non mi lascerete solo, non è vero?».
Quando siete sul punto di prendere una decisione importante domandate a Dio: «Signore,
ecco quelle che vorrei fare. Ne sarete contento? Sì? allora datemi la vostra benedizione...». E
se rinunciaste a qualsiasi atto per il quale non osereste implorare la benedizione divina, come
in verità la vostra vita sarebbe totalmente cambiata!
Quando una malattia dolorosa vi costringe a letto, quando nell’agitazione febbrile vi
destate alle due, allorché tutti dormono, e vi sentite le tempie strette come in una morsa, dite
allora: «Signore, tutti dormono, tutti mi hanno abbandonato, ma Voi, Voi mi siete vicino, Voi
siete qui, accanto a me».
E quando i vostri peccati d’un tempo si drizzano davanti a voi... peccati commessi nella
follìa della giovinezza, peccati che avete già confessati ma che non vi dànno pace: «Signore, Voi
siete qui con me, Voi ora vedete che io voglio essere un altro uomo da quello che fui per il
passato. Il vostro perduto figliolo, rientrato nell’ovile, vi supplica: Perdonateci i nostri debiti».
Comprendete dunque bene il significato di questo dogma: Iddio è dappertutto, e io sono
sempre e dappertuto in Dio.
Io sono in Dio. Anche quando, secondo le apparenze, Egli sembra a migliaia e migliaia di
chilometri da me. Talvolta il cammino della vita spirituale passa attraverso un arido deserto.
Talvolta abbiamo dei giorni, delle settimane, degli anni durante i quali piomba sull’anima nostra
il velo nero dell’abbandono e della desolazione. Il passato ci spaventa, il presente ci appare
tetro… Nessuno è al mio fianco... la preghiera è meccanica, non dà conforto... è proprio come se
Iddio mi avesse abbandonato.
Proprio in quei momenti, fratelli, stiamo in guardia. In quei momenti siamo fedeli e
sentiamoci persuasi che Dio è sempre con noi. Con noi, poiché Dio ci sta più vicino della veste
che portiamo, più vicino dell’ombra che ci segue, più vicino dell’aria che respiriamo.
San Giovanni Crisostomo, minacciato d’esilio dall’imperatrice Eudossia, in conseguenza
del suo incrollabile coraggio, rispondeva: «Voi non potreste farmi paura che se poteste esiliarmi
in un luogo ove Dio non fosse presente». Quanta forza non dà mai questo pensiero nelle più
difficili prove! Qualunque sia il luogo ove vi troviate, pensate sempre che il vostro Padre celeste,
il vostro Dio è con voi.
Io credo al Padre celeste che è presente dappertutto.

***

Ho incominciato quest’istruzione con l’ingenua storia del bimbetto che telefonava al buon
Dio; la finisco con un altro aneddoto infantile.
Federico il Grande visitava un giorno una scuola rurale nel Brandeburgo. II maestro stava
facendo una lezione di geografia, e il re domandò agli allievi dove si trovasse il loro villaggio.
«In Prussia», rispose un ragazzo. «E dove si trova la Prussia?» continuò il monarca. «In
Germania». «E la Germania?». «In Europa». «E l’Europa?». «Nel mondo». «E il mondo dove si
trova?» chiese finalmente il re. Il ragazzo rifletté un istante; poi rispose in tono deciso: «Il
mondo? il mondo è nelle mani di Dio».
Sì, il mondo intiero è nelle mani di Dio. E la maestà infinita di Dio mi domina, mi copre,
mi nasconde, mi anima. Egli accaparra la mia intelligenza, la mia volontà, il mio cuore; mi
affascina, m’incatena.
Quando pure lo volessi, non potrei nascondermi davanti a Lui. Ma non lo voglio.
All’opposto, nel momento della prova, io poso il capo, il mio povero capo affranto, nelle mani
paterne di Dio; avvicino il cuore, il mio povero cuore afflitto, al cuore paterno di Dio, e allora !a
mia vita ha di nuovo uno scopo; poiché a colui che si dona a Dio, Dio similmente si dona, ridà la
vita e il gusto del lavoro.
Sempre, dunque, io respiro Iddio: apro l’anima mia, apro il mio cuore: Egli è la mia
atmosfera, la mia luce vivificante. Così possa esserlo sempre: non un minuto senza di Lui, non
un minuto lontano da Lui, non un minuto nel peccato!
Padre mio, Voi che siete presente dappertutto, fate che osservando i vostri
comandamenti io possa essere vostro dovunque e sempre. Amen.

XIII.

Iddio sa tutto

Nella Sacra Scrittura (Lib. III dei Re, XVIII) leggiamo del profeta Elia che era
profondamente addolorato nel vedere il suo popolo abbandonarsi al culto degli idoli. E
per distorglielo definitivamente provocò i sacerdoti del dio pagano Baal, a una lotta
singolare.
Innalzate un altare a Baal, diss’egli ai quattrocentocinquanta preti pagani, io pure ne
innalzerò uno al vero Dio; metteremo le nostre vittime sopra ciascun altare e si vedrà
quale sia il vero Dio, il Dio vivo; sarà il Dio verace colui, il cui altare verrà colpito dal
fuoco del cielo. Sarà questa la prova che Dio ha accettato il sacrificio.
Tutto il popolo si radunò e i preti di Baal danzarono intorno al loro altare dal mattino a
mezzogiorno senza cessare d’invocare il loro dio; ma non venne alcuna risposta. A mezzodì Elia
gridò loro: Gridate più forte; il vostro dio sta probabilmente meditando, o è in viaggio, o dorme.
E quelli a gridare ancora più forte, a incidersi le carni con dei coltelli così da sanguinare: invano;
nessuna risposta si fece sentire. Allora il profeta si mise a pregare il Signore, il Dio vivo, il Dio
verace, ed ecco che sull’istante cadde il fuoco dal cielo sopra l’altare e la vittima fu bruciata... Il
popolo si gettò umilmente in ginocchio davanti al vero Dio e fece questa preghiera: «Vero Dio è
il Signore, vero Dio è il Signore» (III Lib. dei Re, XVIII, 39).
In realtà, fratelli, Iddio non può essere un idolo muto, il vero Dio non può essere una statua
sorda, inerte, priva di ragione. «Essi hanno una bocca e non parlano; hanno occhi e non
vedono...; hanno mani e non toccano; hanno piedi e non camminano», dice il Salmo CXIII
esprimendo il disprezzo per gli idoli. II vero Dio non ha mani, eppure è Onnipotente; non ha
piedi, eppure è presente dappertutto; non ha occhi, eppure vede e sa tutto.
Dio è presente dappertutto; tale è stato l’argomento della predica di domenica
scorsa. Iddio sa tutto; questo sarà l’argomento dell’istruzione d’oggi.
I. Che cosa sa Dio? e II. Che cosa vede Dio? Ecco le due domande alle quali
vogliamo rispondere. Vedremo i nuovi lineamenti che faranno apparire in modo anche
più perfetto il santo volto del nostro Patire celeste.

I.

Che cosa sa Dio?

Ci è necessario confessare immediatamente che la risposta a tale domanda è quanto mai


primitiva e generale. Che cosa sa Dio? Rispondiamo: «Iddio sa tutto». Ma che cosa vuole dire
«tutto»? Cerchiamo di entrare in qualche particolare.
1. Vediamo anzitutto il lato negativo. Dio sa tutto, cioè non è mai costretto a rispondere:
Non so. L’uomo sì, è molto spesso obbligato a dire: non so. Anche il piú sapiente. Anche l’uomo
più sapiente del mondo. Conducetelo alla biblioteca dell’Università, e chiedetegli le idee che son
contenute in quelle centinaia di migliaia di volumi; chiedetegli quante tra quelle idee son giuste e
quante false; chiedetegli in quante mani la tale o tal altra opera abbia già circolato, ed egli
risponderà: «Non ne so nulla».
Conducetelo all’osservatorio del monte San Giovanni, mostrategli la capitale e
domandategli a che cosa pensi in questo momento il milione dei suoi abitanti, e ciò che faranno
domani a quest’ora, ed egli vi risponderà: «Non ne so nulla».
Portate l’uomo piú sapiente del mondo sulla riva del mare e domandategli il numero dei
granellini di sabbia della spiaggia, il numero delle gocce d’acqua e dei pesci dell’oceano, il
numero delle foglie degli alberi, il numero di vermiciattoli che strisciano sopra la terra, il
numero degli uccelli dell’aria, e la risposta sarà sempre la medesima: «Non lo so, non lo so».
Vero è, miei fratelli, che la scienza dell’uomo più istruito non è che un granellino di sabbia
sulla riva del mare, mentre ciò ch’egli ignora ha la vastità dell’oceano.
Ma Iddio sa tutto: Egli non è costretto a dire: Non lo so.
2. Guardiamo ora un po’ più da vicino, considerandolo nel suo lato positivo, quello che Dio
sa. Anzitutto Egli conosce Se stesso, perfettamente; sa che cosa Egli è, e chi Egli è.
Ancora, Egli conosce tutto ciò che esiste al di fuori di Lui: anche le cose più piccole e le più
nascoste.
Iddio conosce il mondo intero. «Chi può numerare i granellini di sabbia del mare, le gocce
della pioggia, i giorni del passato? Chi può misurare l’altezza del cielo, la vastità della terra e la
profondità dell’abisso?» domanda la Sacra Scrittura (Eccl. I, 2). Iddio conosce l’uomo. Al dir di
Geremia, Egli scruta le reni e i cuori (GER. XVII, 10), Egli sa tutto quello che noi pensiamo.
La sua scienza non è limitata dalla distanza: «Di lontano Tu scopri i miei pensieri», dice il
Salmista (Salmo CXXXVIII, 2). Né la limita il tempo. Difatti il Salmista similmente dice: «Tu
conosci tutte le cose, le nuove e le antiche» (Salmo CXXXVIII, 4).
«Iddio conosce tutto, Egli sa tutto, Egli racchiude tutta la scienza»; ecco quello che noi
diciamo. Ma chi può concepire, chi può affermare l’estensione immensa della scienza, della
sapienza di Dio?
Quale scienza e quali cognizioni non erano dunque indispensabili per ideare ed eseguire il
disegno di questa macchina meravigliosa che è il mondo visibile! Il regno immenso delle
forze motrici del mondo, le meraviglie geometriche dei cristalli, lo splendore di milioni
d’esseri viventi…, tutto ciò è il risultato dei disegni e della scienza di Dio.
E l’anima umana! Prendete accanto a voi un fanciullo, guardatelo bene negli occhi, e vi
scorgerete l’anima sua; guardate poi in fondo a quell’anima e vi scoprirete Iddio. L’opera
grandiosa della mente umana, la tecnica, la civilizzazione, il progresso... tutto ciò non è che una
scintilla sprizzata dalla scienza di Dio, uno sprazzo di luce scaturito dall’infinita scienza
dell’Altissimo.
Ed ora possiamo noi dire di conoscere in tutta la sua pienezza la scienza divina?
Niente affatto. Un giorno che San Paolo rifletteva su questo punto, sgorgò dalle sue
labbra questo grido di stupore: «O profondità inesauribile della sapienza e della scienza
di Dio, quanto incomprensibili sono i suoi giudizi e imperscrutabili le sue vie! » (Lett. ai
Rom. XI, 33).
3. Iddio sa tutto? domanda qualcuno.
Ma allora ne deriva una cosa spaventevole, una disgrazia immensa!
Quale?
Se Dio sa tutto in anticipo, allora Egli sa pure quale sarà la fine della mia vita
terrena. Egli sa cioè se sarò salvo o dannato.
Certamente, lo sa.
Ma allora la mia volontà non è più 1ibera. Bisogna chi io agisca, bisogna che io
cammini a quel modo che Iddio, in anticipo, già conosce a mio riguardo. Dio sa se io sarò
salvo o dannato. Ma se fin d’ora lo sa, è chiaro che ogni mio sforzo è vano, che tutto è
inutile. Allora gli uomini hanno ragione di dire, con un fatalismo che abbatte: La tal cosa
doveva succedere. Era scritto nel libro del destino.
Questione difficile, fratelli, ma che io non voglio scansare. Non voglio scansarla, perché il
problema della scienza divina e del libero arbitrio dell’uomo è sempre stato estremamente
difficile, e ancor oggi lo è, per ogni anima che pensi.
Il pensiero del mio destino eterno stabilito in anticipo, senza che io vi possa mutar nulla,
sarebbe bastante a gelarmi il sangue nelle vene. Ogni fibra del mio cuore non si rivolterebbe
forse contro un’idea simile? Non arriveremmo forse in tal modo a negare la giustizia di Dio?
potremmo noi chiamar giusto un Dio, che anticipatamente, senza ascoltarci, emettesse la sua
sentenza contro di noi?
Ma, Dio sia lodato! le cose non stanno affatto così. E come allora?
a) L’uomo non sa tutto, perché vive nel tempo. Non vede che il momento presente,
poco sa delle cose del passato e indovina pochissimo dell’avvenire.
Ma agli occhi del Dio eterno non c’è passato né futuro: non c’è che il presente. Ciò
che noi chiamiamo futuro e non vediamo ancora, Iddio lo vede come se si trattasse di
cosa presente; ma questa visione divina non influisce per nulla sul futuro svolgersi degli
avvenimenti.
Voi forse direte che ciò è completamente incomprensibile. Un paragone renderà la
cosa più chiara. Raffigurativi un guardiano in cima ad una torre, e voi stessi in mezzo a
una lunga fila di gente. Che cosa vedete voi? Qualche persona davanti a voi, qualche
altra ai lati, qualche altra dietro, ed è tutto; del corteo non vedete nulla. Molto simili sono le
vostre cognizioni sul passato, il presente e l’avvenire. II guardiano, dall’alto della torre, vede
tutta la filata: vede lontano davanti a voi, cioè l’avvenire; vede lontano dietro a voi, cioè il
passato. Vede il passato, il presente, l’avvenire in un colpo solo; vede, e nondimeno non è causa
di quanto succede. Iddio vede così tutto quello che esiste sopra la terra. Perciò San Girolamo ha
ben ragione di dire: «Non è perché Dio lo sa in anticipo che una cosa accade; ma è perché
accade che Egli lo sa» (In Ier. XXVI, 3). Dunque, in realtà, Iddio sa tutto; sa se mi salverò o se
sarò dannato.
b) «L’avvenire non è dunque più in mano mia?».
Ma sì.
E come?
Semplicemente perché non so quello che Iddio sa di me. Se lo sapessi anticipatamente, tutto
il mio ardore alla lotta sarebbe paralizzato. Ma io non lo so. E’ per questo che lavoro, è per
questo che lotto per l’anima mia, per questo che faccio la guerra al peccato: io voglio salvarmi, e
Dio vede allora che sarò salvo. Io dunque non sarò salvo perché Iddio mi vede tale (questo
sarebbe negare il libero arbitrio), ma Iddio mi vede salvo perché lo sarò in forza della mia lotta
accanita.
Qualcuno mi vorrà obiettare: Permettete, non è che un gioco di parole: «Una data cosa non
succede già perchè Iddio la vede, ma Iddio la vede perché quella data cosa succederà». In luogo
d’una risposta seria noi ci troviamo davanti a un semplice giro di frasi.
Non è un gioco di parole, fratelli miei. Quando il baleno lacera il cielo, noi abbiamo la
certezza che il tuono scoppierà. Lo sappiamo tanto bene che vi sono certuni che subito pensano a
tapparsi gli orecchi.
Adesso fate bene attenzione a quello che sto per dirvi. Che ora è in questo momento? Le 10
e 47. Alle 11 e 7 minuti il direttissimo di Kosice arriva alla stazione Est... ed ora... ora è
precisamente davanti Rakos. Io lo so benissimo. Ma il treno è forse lì perché io lo so? E sta per
arrivare perché io lo so? Ma niente affatto. E’ proprio il contrario: io lo so perché in realtà in
questo momento è laggiù, lo so perché sta realmente per arrivare. E a quel modo che nessuno
direbbe che il direttissimo sta per arrivare alla stazione Est perché io lo so, allo stesso modo non
si ha il diritto di dire che s’arriverà alla stazione ultima della vita eterna o dell’eterna dannazione
perchè Iddio lo sapeva anticipatamente. Sì, lo sapeva, perché sa tutto; ma la scienza divina non è
causa della dannazione.
c) La nostra natura umana tutta insorgerebbe contro una tale idea di predestinazione: e si
osserva che coloro che ammettono in teoria la dottrina della predestinazione, nella pratica
agiscono altrimenti. Uno dei più sottili teologi del XIII secolo, Duns Scoto, s’imbatté un giorno
in un contadino che lavorava in un campo e gli rivolse qualche parola d’edificazione. Il
contadino gli rispose: «Perché raccomandarmi di vivere nel timor di Dio? Se Iddio prevede che
io mi salvi, mi salverò, tanto che io sia buono, quanto che io sia cattivo; ma se Egli vede che io
debba essere dannato, allora nulla mi potrebbe salvare». II grande teologo gli replicò: «Perché
lavori? perché semini il tuo campo con tanta fatica e con tanto sudore? Se Iddio ha previsto che
qui nascerà del grano, il grano nascerà certamente, che tu lo semini o no; ma se Egli ha previsto
che ciò non sia, allora nulla spunterà malgrado ogni tuo sforzo». Il contadino non seppe, che
cosa rispondere e si limitò a continuare il suo lavoro.
Io non pretendo che si possa risolvere completamente e chiaramente questo problema
del quale i più alti ingegni del cristianesimo hanno cercato una soluzione; di esso rimarrà
pur sempre qualche cosa di misterioso e d’impenetrabile. Tuttavia anche con la nostra
piccola e limitata intelligenza possiamo riuscire a infrangere le punte più acute di tale
problema, e ad affidare tranquillamente il nostro avvenire e la nostra vita eterna nelle
mani benedette del Dio che tutto sa.

II.

Che cosa vede Iddio?

E’ questa la questione proposta, e ancora una volta il nostro povero linguaggio umano non
può dare che una risposta generale. Che cosa vede Iddio ? voi domandate.
L’occhio di Dio vede tutto. Questa convinzione si basa sopra i numerevoli passi
della Sacra Scrittura. In verità, i nostri Santi Libri sono ricchissimi dei più bei pensieri sul
Dio che vede tutto.
«Non vi è niente di nascosto davanti ai suoi occhi», dice un passo dell’Ecclesiastico
(XXXI, 24). E altrove leggiamo riguardo a Dio: «Egli vede fino all’estremo limite della terra;
scorge ogni cosa che stia sotto il cielo» (GIOBBE XXVIII, 24). La Sacra Scrittura ha
pure un’espressione ancor più stupenda: «L’occhio di Dio è più chiaro del sole» (Eccli.
XXIII, 28). Eppure il sole è abbagliante di luce. E quante cose vede il sole in
ventiquattr’ore, mentre risplende sopra la terra: quante angosce, quante lotte, quante
bassezze, quanti peccati, quanti delitti!... Ma l’occhio di Dio vede più di tutto ciò.
All’osservatorio del Monte Wilson, in California, c’è un telescopio gigantesco, col
quale si può persino fotografare la superficie della luna. Esso vien chiamato, con grande
fierezza «l’occhio del mondo». Fratelli miei, il vero occhio del mondo è Dio che vede nel
passato, che vede nel segreto dei cuori, che vede nella notte più oscura ogni pensiero e
ogni azione.
Ma se è vero che «l’occhio di Dio vede tutto», non ne risultano soltanto degli
ammonimenti, ma ancora tutto un insieme di pensieri salutari, incoraggianti, consolanti,
fortificanti.
2) Prima d’ogni altra cosa ne deriva quest’avvertimento gravissimo: « Attenzione, voi
siete dappertutto sotto l’occhio di Dio».
I nostri vecchi si compiacevano di rappresentare Iddio sotto forma di un triangolo,
avente nel mezzo un grand’occhio aperto: i tre lati del triangolo significano le tre divine
persone, l’occhio aperto rappresenta la SS. Trinità che tutto vede.
In qualunque luogo noi ci troviamo, qualunque cosa facciamo, Iddio ci vede. Ah! se
non l’avessimo mai dimenticato, quante lagrime e quanti rimpian ti amari ci sarebbero stati
risparmiati nella vita. Se in ciascuna delle nostre tentazioni ci si presentasse quest’ammonimento
del Signore: «Cammina dinanzi alla mia faccia e sii perfetto»! (Gen. XVII, 1). Se ci venisse
questo pensiero che diede a Giuseppe, prigioniero in Egitto, una sì grande energia in mezzo agli
adescamenti del peccato: «Come farò io un sì gran male, come potrò peccare davanti al mio
Dio» (Gen. XXXIX, 9)!
Sì, noi siamo sempre sotto l’occhio di Dio.
E quando m’inginocchio al confessionale e la vergogna mi stringe alla gola, perché quel
peccato così grave... non oso confessarlo… che sollievo per me se posso dirmi: Mi riuscirà
d’ingannare questo confessore, ma non ingannerò mai Dio che tutto sa e tutto vede! Che sollievo
se mi ricordo di quelle parole di Sant’Agostino: «Vuoi peccare? Ebbene! cerca un luogo dove
Dio non ti veda; là farai quello che vorrai». Trovatelo se ne siete capaci.
3) Il pensiero di Dio che vede ogni cosa è un avvertimento per il peccatore, ma è pure un
grande conforto per i buoni. Che consolazione sapere che Iddio mi conosce bene e mi
comprende sempre! Poiché spesso gli uomini non mi comprendono; le mie migliori intenzioni
sono male interpretate. Ma Dio che vede tutto non s’inganna mai sul conto mio.
Dio conosce tutto il mio essere, tutta la mia persona; sa di che cosa sono capace, conosce i
miei difetti contro i quali io stesso non posso nulla, perché provengono dalla natura perversa.
Iddio mi conosce meglio di quanto mi conosca io stesso.
Di tanto in tanto io mi sento abbattuto dagli insuccessi: non so più pregare con quel fervore
che vorrei... non riesco a fare un passo innanzi nella vita spirituale pur lavorando del mio
meglio... non arrivo a liberarmi del mio difetto dominante, pur cercando di mettermici con ogni
cura. Che gioia poter dire allora: «Signore, Voi vedete bene, non ne posso più». Gli uomini non
se ne accorgono perché non vedono nell’intimo dell’anima mia, ma Dio vede, e vede che sono
all’estremo.
4) Dal fatto che Iddio vede ogni cosa io non attingo soltanto ammaestramento e
consolazione, ma deduco pure questa constatazione assai triste: Che deve mai vedere, in un’ora
sola, sopra questa terra di peccato, il Dio che tutto vede? «Nessuna creatura è nascosta davanti a
Dio, ma tutto è a nudo e allo scoperto agli occhi di Colui al quale dobbiamo rendere conto» (Ep.
agli Ebrei IV, 13) dice la Sacra Scrittura.
Noi siamo dunque, tutti, davanti a Dio, senza velo, senza truccatura. Che cosa vedrà Dio in
noi? Quali pensieri, quali disegni, quali desideri? Ah, Signore! se ogni anima umana è senza
velo davanti a Voi, se ogni cuore è davanti a Voi bene aperto, che cosa siete costretto dunque a
vedere, giorno per giorno, minuto per minuto, che marea tumultuosa di sozzure e di delitti! «Io
non conosco il cuore di uno scellerato, diceva un giorno un grande psicologo, conosco soltanto il
cuore d’un onest’uomo: ed è orribile».
Che cosa scorge il Dio che tutto vede, quando dall’alto del suo trono celeste, come dice la
Sacra Scrittura nel suo linguaggio immaginoso (Salmo XIII, 2), Egli guarda proprio in questo
momento l’umanità? Che brulichio d’uomini! Nascono, muoiono, ridono, piangono; pregano,
bestemmiano; operano il bene e s’ingolfano nel peccato. Egli vede quella finciulla che, invece
d’assistere alla messa, parte di buon mattino per una escursione in motocicletta con un giovane
sconosciuto. Vede quei marinai ubriachi che schiamazzano in una taverna del porto. Vede quel
fannullone che si rivoltola nel letto, fabbricando progetti per trascorrere nel peccato la notte
prossima... Che cosa vedrà Iddio in questo momento?
Dell’altro ancora Egli vede, ed è per me la cosa piú importante. Dell’altro vede: Egli vede
me. E vede voi pure, o fratelli, vede lo stato attuale dell’anima vostra, i suoi meandri più
segreti, i suoi disegni, i suoi pensieri. Egli vede da quanto tempo trascurate l’anima vostra, da
quanto tempo non vi siete confessati, non vi siete accostati alla Comunione. Ditemi, potete voi
sopportare tranquillamente lo sguardo di Dio che tutto vede? Che cosa vede Iddio in voi? Un
caos, un disordine estremo? l’anarchia di passioni sfrenate? abbattute le colonne del tempio?
Egli vede l’immagine di Dio trascinata nel fango! qualche buona risoluzione e delle
innumerevoli cadute!
Miei fratelli, rispondetemi: Non avete pietà di questo Dio che vede ogni cosa? Non volete
adoperarvi per quanto sta in voi per far scomparire dalla terra una parte almeno di questo fango,
di questa mota che Iddio è costretto a vedere? Se non potete avere influenza su alcuno, avete pur
sempre l’anima vostra: occupatevi almeno di questa.
Però, Iddio non vede soltanto il male; Egli vede pure il bene. Vede i fedeli che pregano in
questa chiesa, ne vede altre centinaia di migliaia che pregano in tutte le chiese del mondo... Vede
con quale innocenza piena di gioia quella piccolina riceve la santa Comunione... Vede
centinaia e migliaia di morenti con lo sguardo rivolto al Crocifisso... Vede la Religiosa
adoratrice in ginocchio davanti al Santissimo Sacramento... Vede il missionario delle Indie che
lotta eroicamente contro le mille insidie della tentazione.
Non è vero, fratelli? Iddio ci fa pietà... Che almeno quando guarda a noi Egli possa
trovare nelle anime nostre motivo di consolazione e di gioia; Egli, il Dio che tutto vede.

***
Fratelli miei, vi ho parlato di Dio che vede ogni cosa; e nel chiudere la mia predica mi
rammento di un particolare, minimo, se si vuole, ma interessante.
Non avete notato che il numero delle persone che portano gli occhiali è sempre in
aumento? Eppure è un fatto; quanto più i nostri occhi diventano cattivi, tanto più è grande in
mezzo a noi la quantità dei miopi e dei presbiti, e non soltanto dal punto di vista fisico. Ci
sono ancora molte persone quaggiù che godono una vista normale; ma ve ne sono pochissime
che abbiano gli occhi abbastanza buoni per guardare nella loro stessa anima. Per fare ciò, gli
uomini, per la maggior parte, sono miopi o presbiti. Miopi, non sanno riconoscersi alcun
difetto, non vedono quanto sono insopportabili, capricciosi, pigri nel bene, nemici di ogni
sforzo, sensuali, orgogliosi... Presbiti, scorgono facilmente negli altri tutti i difetti che non
vedono in se stessi.
Ma Iddio non è né miope né presbite. Iddio vede tutto e bene.
Supplichiamo il Signore di migliorare gli occhi dell’anima nostra, affinché possiamo vedere
noi stessi con gli occhi Suoi. Padre mio, aiutatemi a vivere, a parlare, a pensare in modo che
l’occhio Vostro che tutto vede si posi con compiacenza sopra l’anima, candida come la neve,
del Vostro figlio che lotta e combatte, ma vi resta sempre fedele.
«Signore, tu mi hai saggiato e mi hai conosciuto, tu sai quando io mi fermo e quando mi
rialzo.
Tu scorgesti da lungi i miei pensieri - investigasti i miei passi e il mio cammino.
Le mie vie tutte prevedi - prima che la parola sia sulla mia lingua.
Signore, le cose tutte tu hai conosciute, le future e le passate - tu mi formasti e ponesti sopra
di me la tua mano.
Mirabile si è resa in me la tua sapienza: è tanto elevata che non potrò mai raggiungerla.
Dove andrò io per sottrarmi al tuo spirito? e dove fuggirò per evitare la tua presenza?
Se salirò al cielo, è quella la tua dimora; se scenderò all’inferno, ancor là tu sei presente.
Se prenderò le ali dal mattino ed eleggerò la mia dimora all’estremità del mare,
Colà pure mi condurrà la tua mano e la tua destra mi dominerà.
Io dissi: Forse le tenebre mi copriranno: ma la notte stessa è luce nei miei piaceri.
Poiché le tenebre non sono oscure per te, e la notte splende per te come il giorno: le tenebre
e la luce sono la stessa cosa davanti a Dio…
... Provami, o Signore, e scruta il mio cuore: interrogami e riconosci i1 mio cammino.
Vedi se vi sia in me inclinazione all’iniquità, e guidami nella vita eterna» (Salmo
CXXXVIII, 1-12, 22-23).

XIV.

Iddio è infinitamente saggio

Il re di Sicilia Gerone, nel III° secolo a. C., aveva fatto costruire una nave tanto grande che,
quando fu finita e si volle metterla in mare, una folla di operai, di cavalli e di macchine non
riuscì a spostarla da qua a là. In tanta difficoltà, il re si rivolse all’illustre matematico Archimede
perché gli venisse in aiuto. Arcimede promise di costruire una macchina congegnata in modo da
permettere a un uomo solo di mettere in movimento la nave. La gente, incredula, tentennò la
testa... La macchina fu costruita: si trattava di un paranco, e Archimede invitò il re a mettere egli
stesso la nave in movimento. E il monarca, alla presenza di tutto il popolo, la spinse facilmente
nel mare. Nella sua gioia promulgò la strana ordinanza che ognuno doveva trovar saggio e ben
fatto tutto ciò che Archimede dicesse o facesse.
Grazie a quella piccola macchina, Archimede s’era guadagnato una distinzione
straordinaria.
Ma allora che diremo noi di Dio, il costruttore di quella meravigliosa macchina che è il
mondo? Come ammiriamo la sua sapienza quando, col microscopio o col telescopio, penetriamo
negli ammirabili misteri dell’universo! Guardiamo, e ci sentiamo presi da vertigine. Il decreto
del re di Sicilia esigeva che ciascuno considerasse Archimede come saggio. La Sacra Scrittura e
le leggi del meccanismo dell’universo esigono che noi consideriamo Iddio, Creatore e custode
del mondo, come infinitamente saggio, come la sorgente della sapienza, come la Sapienza
perfetta.
Iddio è la stessa Sapienza. A chi, tra gli uomini, diamo noi il nome di saggio? Senza
dubbio a colui che ha del mondo la più esatta concezione teorica, a colui che sa adattare il suo
modo di pensare e il suo modo d’agire agli eterni principi. Ma quando noi diamo a Dio il nome
di saggio, noi proclamiamo in Lui l’identità della cognizione teorica e della cognizione pratica,
vale a dire ciò ch’Egli pensa o fa è sempre il miglior pensiero e l’atto più saggio.
Parlerò dunque della sapienza divina, dividendo il tema in due parti.
I. Che cos’è che proclama la sapienza di Dio?
II. Che cos’è che nega la sapienza di Dio?

I.

I. Che cos’è che proclama la sapienza di Dio?

«Quanto sono grandi le tue opere, o Signore! ogni cosa Tu hai fatto con sapienza» (Sal.
CIII, 24), canta il Salmista, e in un altro passo aggiunge con semplicità: «La sapienza di Dio
non ha misura» (Sal. CXLVI, 5).
E in verità questa constatazione meravigliosa esce da ogni labbro, solo che si sappia
osservare, coi propri occhi, come dappertutto vi siano tracce della sapienza di Dio. I più
eminenti scienziati sono spesso colti, nel corso delle loro osservazioni, da un sentimento
straordinario analogo a quello che dominava l’anima del fondatore della elettro-dinamica,
Ampère, quando interrompendo le sue ricerche, si prendeva il viso tra le mani esclamando:
«Quant’è grande Iddio! Quant’è grande Iddio!».
1) Consideriamo gli esseri più minuscoli. Dei milioni di esserini invisibili a occhio nudo,
formicolano in un bicchier d’acqua e lo scienziato scopre nella struttura e nell’attività anche
dei più piccoli tra di essi, tutta una serie di miracoli della sapienza infinita. E’ morto
recentemente in Germania un vecchio Padre Gesuita (P. Wasmann) che ha lasciato un nome
assai conosciuto nel mondo della scienza, e che ha consacrato tutta la sua vita allo studio delle
formiche; e l’anima nostra è presa d’ammirazione alla vista della sapienza che si rivela nelle
vita individuale, nell’organizzazione sociale e nel modo di combattere di questi insetti. Come
dunque dev’essere saggio Iddio, il Creatore del mondo!
2) Considerati gli esseri minimi, volgiamoci verso la terra. Le stagioni dell’anno non
rivelano forse la più saggia organizzazione? A primavera l’anno rinasce come un bambino che
viene al mondo; in estate si sviluppa come un lavoratore robusto; nell’autunno raccoglie i frutti
della propria attività; e nella sua vecchiaia, l’inverno, scende nella tomba: che deliziosa
varietà! che saggia e gradevole sollecitudine! tutto ciò verrebbe annientato in un batter
d’occhio se l’asse della terra venisse a spostarsi sia pur leggerissimamente, o se la posizione
della terra in rapporto al sole si trovasse modificata anche di pochissimo. Come dev’essere
saggio Iddio, il Creatore del mondo che tutto ha organizzato perché ogni cosa sia al posto
preciso in cui si trova!
Pure ci sono degli uomini che credono di poter fare delle critiche alla creazione perché essi
«avrebbero saputo ordinar meglio ogni cosa». Ma è un fatto: più si esamina l’ordine del mondo,
e più si deve curvar la testa davanti alla sapienza di Dio; e inversamente, più si esaminano le
cose alla leggera, più facilmente si critica il mondo.
I grandi pensatori sono d’accordo con Keplero, l’illustre astronomo, che, nella prefazione
della sua opera «Astronomia nova», così si rivolge ai lettori: Ed ora, caro lettore, obbediamo
all’invito del Salmista e, ricordandoci della grande bontà di Dio verso gli uomini, facciamo
l’elogio della sua sapienza e della sua potenza. Io pure voglio rivelare la meravigliosa sapienza
del Creatore, voglio mostrarvi che perfino nel movimento più misterioso degli astri, la sapienza
onnipotente di Dio risplende sopra di noi» (KEPL. Opera omnia, ediz. Frisch III, 146).
Sì, è così che pensa il saggio. E, l’uomo superficiale, quello che critica con tanta facilità?
Pensa come quel tal viaggiatore della storiella.
Estenuato dalla fatica, un viaggiatore sedette all’ombra di una magnifica quercia e si mise a
filosofare: «Curioso questo mondo! Non vi è proprio nulla di organizzato bene. Ecco qui una
quercia gigantesca dai rami possenti che pure non sostengono altro che ghiande piccoline. Ed
ecco dei poponi dal gambo fragile come un asparago; eppure, sottile com’è, deve portare il
peso di frutti enormi. Proprio, il mondo non è organizzato bene». Era arrivato a questo punto
delle sue riflessioni, quando si levò un grande vento che gli fece cadere una ghianda sulla
punta del naso. Sobbalzò di paura e si affrettò ad aggiungere: «Devo proprio dire che il mondo
e organizzato bene, poiché chissà che cosa sarebbe accaduto se i poponi crescessero sopra
quest’albero!?» Il mondo è ben ordinato, ci persuaderemo di ciò pensando a noi stessi, alla
vita umana, alle splendide testimonianze della meravigliosa sapienza del Creatore, all’uomo
che si tiene diritto, all’uomo dalle mani diafane, all’uomo dagli occhi profondi come il mare,
all’uomo dallo sguardo regale, all’uomo la cui fronte risplende d’intelligenza.
Tuttavia noi non vediamo ancora che l’uomo esteriore. Che sarebbe se potessimo
contemplare l’anima sua? la forza, il talento, la raggiante bellezza di un essere spirituale simile
a Dio? Guardate un bambino in fondo agli occhi, e vi scorgerete la sapienza del Creatore.
Presi da meraviglia davanti alle mille e mille prove della sapienza divina di cui è pieno il
mondo, noi con Aristotele ci domandiamo che cosa sarà adunque l’intera verità e l’infinita
sapienza di Dio, se il suo solo riflesso nelle creature tanto ci rapisce!

II.

Obiezioni alla sapienza di Dio

Non ho più bisogno di cantare le lodi della sapienza di Dio, ma devo ora occuparmi
della sua difesa. Difatti, se le parole della Sacra Scrittura e l’armonia dell’universo sono
altrettanti inni di lode alla divina sapienza, non è meno vero che dalla miseria, dai mali,
dalle sofferenze dell’umanità noi sentiamo salire il doloroso lamento del «De profundis».
Può davvero essere infinitamente saggio il Creatore che tollera tante sofferenze senza
scopo, tanti incomprensibili rovesci della sorte, nell’opera delle sue mani, nel mondo?
Non meravigliatevi, fratelli miei, se ancora una volta mi trovo davanti al problema
della sofferenza. Durante questa serie d’istruzioni ho sollevato tale questione non so più
quante altre volte, ma non posso fare diversamente. Bisogna pur parlare con molta
frequenza di ciò che più preoccupa l’anima umana nel momento attuale. Ora, chi non
s’accorge che le onde della sofferenza minacciano di sommergerci?
1) In realtà l’uomo ha una quantità di lagni e di obiezioni contro la sapienza di Dio.
Ma alla maggior parte di questi lamenti Aristotele ha già anticipatamente risposto:
L’anima umana non ha che un’idea molto confusa della sapienza divina, proprio come il
pipistrello non ha che una debolissima idea delle splendore del sole. Questo significa che
i nostri lamenti provengono dal non aver noi altro che i nostri deboli occhi umani e dal
non poter vedere il flusso e il riflusso degli avvenimenti del mondo con gli occhi di Dio.
Se noi avessimo gli occhi simili a quelli di Dio, tutti i nostri lamenti tacerebbero, poiché nel
mondo vedremmo ogni cosa diversamente. Diversamente affatto anche in noi stessi.
Ecco per esempio il mio proprio destino. Quanti enigmi davanti a me, quante tristezze,
quante nuvole cupe! Ma tutto ciò è chiaro davanti a Dio; Egli dirige tutto con mano benevola e
tutto regola con sapienza.
Al mio fianco vive della gente frivola, gaia e sorridente nella sua stessa frivolezza,
ma Iddio vede quei cuori sanguinare in segreto, vede quelle anime sospirare verso più
nobili scopi. Ecco altri uomini, uomini dabbene che versano in silenzio lacrime di
sangue; ma Iddio vede che ogni goccia di quel pianto acquista un valore eterno, alla
fiamma del sacrificio offerto a Dio.
Ecco ciò che scorge l’occhio di Dio; ma come l’occhio umano vede tutto diversamente!
Il mondo è pieno di gente che si diverte, si stordisce e cerca di godere; ah, quanti invidiano
costoro! ma l’occhio di Dio non vede in essi altro che delle foglie secche staccantisi dall’albero.
Nel più completo abbandono una vedova lotta eroicamente per i suoi cinque bambini; in mezzo a
ogni specie di privazioni coraggiosamente sopportate, innumerevoli fanciulle perseverano sulla
via della onestà e della purezza mentre potrebbero ottenere ogni cosa a prezzo del loro onore;
oh, quanti si burlano di loro! ma l’occhio di Dio, quell’occhio che tutto sa, le guarda con
amore. E’ quell’occhio che sotto il vestito da società, sotto lo sparato impeccabile a piegoline
minute, scorge la corruzione interiore e se ne ritrae, per posarsi invece con intensità d’amore
sopra un cuore nobile, per quanto strappata sia la veste, per quanto misero l’aspetto esteriore.
Quante teste orgogliose dovrebbero abbassarsi davanti al povero; e quanti vorremmo sollevare
se avessimo gli occhi simili a quelli di Dio, di quel Dio che misura tutti gli avvenimenti del
mondo sull’orizzonte infinito dell’eternità!
2) E’ soltanto se penso in tal modo della sapienza di Dio, se credo che tutto ció che Iddio
fa è la cosa più giusta e la più saggia, è soltanto allora che potrò avere sull’ efficacia della
preghiera un’idea ben differente e sarò preservato dall’illusione di trovarvi una prova contro la
sapienza divina.
«Ho pregato per questa o per quell’intenzione; quante volte ho supplicato Iddio ed Egli
non mi ha esaudito! Perché dunque Iddio ha ordinato di pregare, se poi non esaudisce?».
Miei fratelli, non è vero: Iddio ci esaudisce sempre. Soltanto non sempre come lo
vorrebbe il nostro occhio umano dalla vista d’una spanna, ma come conviene alla Sapienza
Sua che lavora nei riguardi dell’eternità. In questo momento la ferita brucia l’anima vostra, in
questo momento la prova vi schiaccia, ma tempo verrà, presto o tardi, in cui comprenderete:
Iddio aveva realmente regolato con grande sapienza d’amore tutto quello che v’era successo.
«Iddio non mi esaudisce». Forse così può dire chi crede che esaudire una preghiera
consista nel fatto che Iddio risponda a tutte le nostre domande come noi le avevamo formulate;
ma un’anima di tal sorta non sa lo scopo della preghiera e non comprende Iddio. «I miei pens-
eri non sono i vostri», dice il Signore; uno degli scopi della preghiera è precisamen te quello di
riportare a Dio i nostri pensieri che se ne scostavano, e di riavvicinare a noi il pensiero di Dio.
Una grande sventura mi colpisce, il mio sposo è ammalato... io prego». E’ possibile che la
disgrazia succeda ugualmente; ma io non ho pregato soltanto perché non accadesse, ma anche
perché, se accade, io possa aver abbastanza forza, abbastanza lucidità di spirito per metterla
insieme coi disegni di Dio, e per saperla sopportare con gli occhi rivolti al Calvario.
Voi conoscete senza dubbio il senso d’abbandono, di depressione che pesava sull’anima
delle pie donne che, la mattina di Pasqua, si recavano al sepolcro di Nostro Signore per
imbalsamare il suo Corpo con profumi preziosi.
Non è notevole il fatto che il cammino delle pie donne, che ebbe il suo termine nella gioia
del giorno di Pasqua, si fosse invece iniziato nell’oscurità della notte? L’oscurità si stendeva
ancora sulla città addormentata e, con gli occhi annebbiati dalle lagrime, le donne si recavano
al sepolcro. Tutto era annientato, tutto era disperato... ma nei loro cuori ardeva un’ultima
speranza: la fede al di là della tomba. E questa fede trovò la sua ricompensa.
Forse che le tenebre del Venerdì Santo non si accomulano di tanto in tanto sopra le nostre
teste? Non ci accade talvolta di credere, nell’intimo di noi stessi, che tutto è perduto? Dense
tenebre scendono sopra di noi e c’impediscono di vedere a un passo di distanza. Ci sembra che
la fede piena di sole della nostra giovinezza sia scomparsa per sempre. Non proviamo più
alcuna gioia nel pregare, e nemmeno nel frequentare la chiesa; non a lottare contro le
tentazioni né a vivere. E’ come se Iddio ci avesse abbandonati; come se Iddio ancora una volta
fosse morto.
Fratelli, non avete voi già vissuto delle ore, delle giornate, delle settimane così orrende?
Bisogna resistere, e resistere energicamente. Può darsi che non possiate più pregare, ma
sforzatevi almeno di credere. Se non potete più credere, ma vivete almeno come quando eravate
credenti, come se foste ancora ugualmente convinti riguardo a Dio, all’anima, alla vita eterna
come lo eravate in passato. E se non potete nemmeno questo? Ah, piangete allora e dite al
Signore: «Mio Dio, che cosa sarà di me? Vorrei pregare, e non posso. Vorrei credere, e non
posso. Mio Signore, aiutatemi».
Le pie donne passarono per le stesse tenebre, e finalmente... finalmente arrivarono al
sepolcro vuoto, glorioso, consolante. Tutto ciò non fu che un brutto sogno, pensarono
certamente. Voi pure direte un giorno la stessa cosa, se persevererete nell’amore del Dio
infinitamente saggio.
Per giungere a tanto è necessario un certo tempo; poiché per le opere di Dio avviene in noi
quello che avviene per le opere dei sommi pittori: da troppo vicino, non si può contemplarle ed
ammirarle; bisogna mettersi a una certa distanza per avere una buona prospettiva. Le decisioni di
Dio sembrano forse confuse a guardarle troppo daccosto; ma nella prospettiva dell’eternità noi
sentiamo battere dietro di esse un cuore paterno.
3) Quando io studio nella sofferenza le sagge intenzioni di Dio, il cielo coperto di nuvole si
rischiara d’un tratto sopra la mia testa. E’ vero, ci sono molte sofferenze nel mondo, nessuna
però contraddice alla sapienza divina; solo una sofferenza cieca e senza scopo potrebbe
contraddire.
Iddio permette la sofferenza a) per amore e b) perché le assegna sempre uno scopo.
a) «Come mai il Dio di bontà può permettere che io soffra tanto?» ecco il lamento abituale.
E sapete che cosa bisogna rispondere? «Lo permette precisamente perché è buono».
«Padre nostro». Dunque noi siamo suoi figli. Io non potrei far del male a un bambino senza
motivo, senza scopo. Mi vergognerei di abusare in tal modo della superiorità della mia forza. Ma
non è una bestemmia il pensare che Iddio abusi della sua forza e abbandoni alla sofferenza i suoi
figli senza scopo e senza ragione, senza pietà e senza cuore?
Ma è proprio così che stanno le cose? Si può dunque far del male a qualcuno per amore?
Certamente. Quando il bimbetto, correndo dietro una farfalla, minaccia d’incespicare sull’orlo di
un burrone, con quale vigore lo afferra la madre sua! Quella stretta fa male al bimbo, per quanto
la madre non abbia agito in tal modo che per amore, salvandogli così la vita. Quando i genitori
tolgono un coltello dalle mani del bambino, questi brontola, fa il broncio, e piange; pure i
genitori non gli hanno dato quella pena se non perché l’amano. Durante un’operazione la madre
tien fermo il suo piccolo malato che si dibatte e strepita contro di lei; tuttavia, soltanto per amore
la mamma lo costringe così, e il suo cuore soffre ancor più di quanto non soffra il bambino.
No, Iddio non si diverte a vedere soffrire i suoi figli; ma se permette che soffrano ha sempre
in vista un alto scopo.
b) Ma a quale scopo può mirare Iddio con la sofferenza?
Non è curioso il constatare che gli animali, quando prevedono istintivamente grandi
catastrofi nella natura, si ritraggono pian piano accanto all’uomo, dimostrando in tal modo di
mettere l’ultima loro speranza in colui che, di nascita, è il re della creazione? Similmente
l’uomo, quando le strette della sorte lo afferrano, leva in alto lo sguardo: verso Dio; ciò significa
che nelle ore della sventura, soltanto in Lui può trovare la calma.
Perché la sofferenza? Se la terra fosse un paradiso, dimenticheremmo il cielo. Se non ci
fosse la notte, non sapremmo apprezzare la luce del giorno.
Perché la prova? Perché la valle deserta? E’ là che spunta l’umile violetta.
Perché la sventura? Perché la china rocciosa e dirupata? E’ là che il grappolo si fa biondo
sotto l’ardente sole.
Come sappiamo pregar meglio dopo un’umiliazione! Quando gli uomini si mostrano cattivi
con me, come comprendo meglio quanto è buono Iddio! Quando la terra è più desolata, come il
cielo è più consolante!
Fratelli miei, diciamolo pure: Iddio è infinitamente saggio. E soprattutto diciamo: le ore
della sofferenza sono le ore della grazia e della misericordia divina.
Ah, se mi riuscisse d’incidere queste parole nel mio cuore! Le ore della sofferenza sono le
ore della grazia e della misericordia divina, perché sono le ore della riparazione.
Il giusto cade sette volte al giorno (Prov. XXIV, 16) e, secondo San Giovanni, mente colui
che afferma di essere senza peccato (I Ep. di S. GIOV. I, 8 ) . Io dunque ho qualche cosa da
riparare; e, senza dubbio, più amerò Iddio e p i ù mi sarà facile notare i difetti dell’anima mia, e
tutto ciò che ha bisogno di riparazione. Le anime che si confessano più di frequente sono forse le
più grandi peccatrici? Ma niente affatto. Sono invece anime che si trovano p i ù vicine a Dio, e
che notano di conseguenza fin le più piccole loro macchie. E le persone che sopportano con più
coraggio la sofferenza sono precisamente quelle che, secondo il nostro povero modo di pensare
all’umana, meno l’hanno meritata. Ma la sopportano perché credono che Dio, qualunque cosa
operi o pensi, tutto fa e tutto vuole per il meglio.
Di fatto, coloro che mettono in dubbio la sapienza divina a motivo del male che esiste nel
mondo, farebbero assai bene a leggere quest’opportuna osservazione di Sant’Agostino: «Quando
un profano visita un’officina, vi scorge ogni sorta di utensili dei quali ignora l’uso; se è di
cervello limitato li giudicherà addirittura inutili. Se si scotterà, o se si ferirà maneggiando uno
strumento tagliente, li dichiarerà nocivi. Ma il capo-officina, che conosce il loro impiego,
riderà dell’insensato e, senza darsi pensiero delle sue critiche pazze, continuerà il suo lavoro.
Ed ecco la stoltezza degli uomini: quando si tratta di un operaio di quaggiù non si osa
criticare quello che non si comprende della sua officina, ma si crede invece che tutto ciò che
si trova in essa ha uno scopo determinato. Davanti alla grande opera dell’universo, di cui Dio
è costruttore e custode, ci si permette di criticare molte cose che non si comprendono:
davanti al capolavoro e agli strumenti dell’Onnipotente ci si atteggia a intenditori, quando
invece l’ignoranza esce per così dire da tutto il nostro essere» (De Gen. c. Manich. I, 16, 25).
No, no, noi non vogliamo giudicare così. Noi crediamo al Cuore amante e
infinitamente saggio del Padre nostro che è nei cieli.

***

Fratelli miei; c’era una volta un ragazzetto che possedeva un grazioso agnellino. La bestiola
si sbizzarrì così a lungo tra i cespugli che alla fine si impigliò in un arbusto spinoso e, ferita e
insanguinata, si mise a belare lamentosamente. Il ragazzetto corse in cerca di suo padre e gli
disse: «Babbo, vieni dunque a strappare quel brutto arbusto. Perché ha fatto tanto male al mio
agnellino?». Il padre andò a mettersi col bambino accanto all’arbusto, e tutti e due presero ad
osservarlo. Dopo un po’ venne un uccellino e si posò sull’arboscello; quindi dopo aver rallegrato
il ragazzetto col suo canto, staccò i bioccoli di lana impigliati nelle spine e 1i portò nel suo nido.
«Vedi, bambino mio, disse il padre, la lana del tuo agnello va a riscaldare gli uccellini
che avrebbero avuto freddo nel loro nido. Dimmi ora se sia proprio necessario strappare
l’arbusto».
No, il bambino non volle più strappare l’arbusto, perché il suo piccolo cuore aveva
sentito che nel mondo, anche dietro le sofferenze e il dolore, si scorge il volto benedetto del
Padre infinitamente saggio che sta nel cielo.
Padre, Dio di sapienza, fate che io, figliolo vostro, non dimentichi mai quello che
avete detto nella Sacra Scrittura: «Quelli che amo io riprendo e castigo» (Apoc. III, 19).
Amen.

XV.

Iddio è infinitamente giusto

Ogni anno, d’estate, gli stranieri arrivano a migliaia a Salisburgo per assistere alle
rappresentazioni teatrali di quella città; grandi rappresentazioni tra le quali occupa un posto
notevolissimo l’impressionante mistero di Ugo von Hofmannsthal che s’ intitola «Jedermann»;
mistero che, se il tempo è bello, viene rappresentato all’aperto, sulla piazza, davanti alla
cattedrale.
Che cosa vuol dire questo «Jedermann»? Tradotto in italiano significa «ognuno», «ogni
uomo», ogni uomo ricco che conduce una vita di spensieratezza e di dissipazione, fin che un
giorno, proprio mentre siede a una tavola riccamente imbandita insieme coi suoi compagni di
bagordo, sente d’improvviso una voce che viene non si sa di dove e che grida con una lentezza
da mettere spavento: «Jeeeedeeeer-maaaaaaaaann!». Jedermann ascolta. Ed ecco che ode di
nuovo, proveniente di qua, di là, d’ogni parte, la voce della morte che chiama: «Jeeeedeeeer-
maaaaaaann!».
E’ Dio che ha mandato la morte, Jedermann deve comparire davanti a Dio. Con quale
faccia stravolta implora una dilazione! Partire così? Comparire davanti a Dio a mani vuote?
Accordami soltanto un paio di giorni di respiro; non più di un paio di giorni, chiede egli alla
morte. Finalmente ottiene un’ora di grazia. «Cerca ora, gli dice la morte, dei compagni che
vengano con te davanti a Dio».
Jedermann incomincia a cercare; ma che delusione per lui! Egli chiede ai suoi compagni di
piaceri di condurlo davanti a Dio. «Ma come? ah, no davvero!» e scappan via spaventati. Lo
chiede ai suoi parenti più prossimi, che gli negano quel favore; lo chiede alla disgraziata che
vive con lui nel peccato, e la vede squagliarsi pazza di terrore. «Il mio scrigno almeno, il mio
scrigno così ben fornito: quello sì verrà con me ». Nemmeno. Ormai anche il demone dell’oro
gli rifiuta quel favore.
Frattanto l’ora passa. Non resta più che qualche minuto. Finalmente Jedermann si
confessa con cuore pentito, ed ecco avanzarsi due figure deboli e vacillanti: sono due opere
buone ch’egli ha compiuto alla meno peggio nel corso della sua vita. E quelle, quelle soltanto
si offrono per accompagnarlo davanti a Dio, al Dio infinitamente giusto.
Il dramma è finito... il pubblico si disperde... e riflette: E’ davvero la sola, infinita giustizia
divina quella che può dare una risposta alle angosciose domande riguardo alle ingiustizie della
vita di quaggiù.
E’ della giustizia divina che intendo parlare oggi; del Dio giusto e imparziale che non
premia ne punisce sopra semplici apparenze di bellezza o di fortuna, ma secondo il valore
interno, in base al diritto e alla giustizia.
Oggi dunque v’intratterrò di Dio: I. che giudica senza preferenza per nessuno; II. che
premia; III. che punisce secondo giustizia.

I.
Iddio non ha preferenza per nessuno

1) Nell’affermare che Dio è giusto, noi pensiamo prima di tutto che Egli non giudica
secondo le apparenze, ma in base al valore intimo dell’anima; non secondo la bellezza, la
ricchezza, la felicità e nemmeno secondo il successo, ma in rapporto all’intenzione che ha
informato il lavoro. San Paolo ce l’ha detto chiaramente: «Presso Dio non v’è eccezione di
persone» (Ep. ai Rom. II, 11).
Iddio non fa parzialità: quest’affermazione ci tranquillizza. Davanti a Lui, poco importa che
siate mendicante o milionario, debole o forte, ammalato o di sana costituzione; la decisione
dipenderà dall’uso che avrete fatto di ciò che avete ricevuto da Lui.
Iddio non dà a tutti gli uomini in uguale misura; ma dà a ciascuno quanto gli è necessario
per raggiungere il fine ultimo nell’eternità; dà a ciascuno quello che gli è necessario per
realizzare i disegni divini. E’ su questa base che Egli giudicherà, senza domandare a tutti la
stessa cosa. A chi ha dato cinque talenti, Egli ne domanderà altri cinque; mentre non ne
reclamerà che altri due da chi soltanto due ne avrà ricevuti (S. MATT. XXV, 15).
2) Ma in altro senso si può dire all’opposto che Dio fa parzialità; e questo ci
tranquillizza ancora di più. Egli è giusto, vale a dire giudica ciascuno individualmente
secondo i suoi meriti. Egli sa, e lo sa Lui solo, con quali inclinazioni siete venuto al mondo,
e con qual forza e con quale eroismo avete cercato di affrancarvi da quei vincoli ereditari;
quindi non vi chiederà conto che dei vostri propri errori, quelli di cui portate tutta la
responsabilità. Egli sa che, durante la vostra infanzia, a casa vostra nessuno si è occupato di
voi, che la vostra educazione è stata trascurata; e tutto ciò rappresenterà per voi altrettante
circostanze attenuanti. Egli sa a quante gravi tentazioni foste esposto nel vostro impiego,
quanti discorsi cattivi siete costretto a sentire, quanti cattivi esempi vi stanno continuamente
sott’occhio. Egli sa tutto ciò e lo metterà nella bilancia, prima di giudicare.
Il miglior giudice di questo mondo può ingannarsi nel giudicare: Iddio non s’inganna.
Di ogni cosa Egli giudica con equità; è il solo che possa giudicare le nostre azioni con
giustizia. Voi potete essere ingiusto riguardo agli altri; lo stesso confessore non legge
chiaramente nelle anime... voi stesso non potete sempre discernere fino a qual punto abbiate
peccato... ma il Dio infinitamente giusto giudica secondo la verità e l’equità.
Quale consolazione per me il sapere che Iddio conosce meglio di qualsiasi uomo,
meglio anche di me stesso ogni mio atto, e tutti li giudica con maggiore giustizia! Egli ha
visto quanto ho lottato per evitare la caduta.
La giustizia di Dio mi consola perfino nei miei traviamenti. Quanti lottano contro il
peccato con un coraggio sovrumano, combattono, cadono, si rialzano, ricadono! Non ho
paura per essi. Iddio che ci chiede di perdonare ogni giorno al nostro prossimo pentito non
già sette volte, ma settanta volte sette, Iddio non si mostrerà spietato verso di noi. Solo chi
ama il peccato, e vi attacca l’anima sua, quello soltanto sarà abbandonato da Dio nel suo
indurimento.
Posto che Iddio è imparziale, ne risulta che Egli premia e punisce secondo giustizia.

II.

Iddio premia secondo giustizia

Nostro Signore Gesù Cristo ha giudicato opportuno d’insistere su questo punto e sotto
forme diverse. Egli sa molto bene quale forza conferisca il pensiero di un Dio rimuneratore, per
l’osservanza dei comandamenti di Dio. Perciò, in una delle sue parabole, Egli parla del Padre
celeste che, venuta la sera, chiama tutti i suoi operai per versar loro il salario stabilito (S. MATT.
XX, 8). In altro luogo fa dire dal Padre a un servo fedele, parlando di una resa di conti: «Bene,
servo buono e fedele, poiché sei stato fedele nel poco, ti darò autorità sul molto; entra nella gioia
del tuo padrone» (S. MATT. XXV, 21 e 23).
Il divino Maestro ha pure insegnato questa cosa ancora più straordinaria, che Iddio non
dimentica nemmeno la più piccola opera buona, quale può essere l’offerta di un bicchier
d’acqua: «Chi avrà dato un bicchier d’acqua fresca a uno di questi piccoli, per questo motivo,
che è dei miei discepoli, in verità vi dico, non perderà la sua ricompensa» (S. MATT. X, 42).
Anche San Paolo similmente esorta i suoi fedeli a vivere una vita cristiana: «Iddio non è
ingiusto per dimenticare le vostre opere e la carità che avete dimostrata per il suo nome» (Ep.
agli Ebrei VI, 10).
E alla fine della sua vita di lavoro e di fatica, così trova di che consolare se stesso: «Ho
combattuto la buona battaglia, ho finito la mia corsa, ho conservato la fede; non mi resta più che
da ricevere la corona di giustizia che il Signore, giusto Giudice, mi darà in quel giorno (II Ep. a
Tim. IV, 7-8).
Ma mi piacerebbe particolarmente insistere su quel dogma tanto consolante della nostra
fede che Iddio tien conto della minima buona azione compiuta in segreto. Nessuno sa quello che
forse avete fatto decine d’anni or sono e che voi stesso avete dimenticato, quando, in silenzio,
doveste lottare aspramente contro la vostra natura inclinata al male, o contro la perversione di
coloro che vi stavano intorno... Iddio conosce tutto questo, e per tutto questo il Dio di giustizia vi
ricompenserà. Ascoltate ancora le parole di Nostro Signore: «Io conosco le tue opere, la tua
fatica e la tua pazienza; e so che non puoi sopportare i cattivi» (Apoc. II, 2). E ancora queste: «Io
so dov’è 1a tua dimora, là dove si trova il trono di Satana, ma tu sei fermamente attaccato al mio
nome e non hai rinnegato 1a mia fede» (Apoc. II, 13). E finalmente: «Io conosco le tue opere, la
tua fede, la tua carità, la tua beneficenza e la tua pazienza» (Apoc. II, 19).
Ecco la nostra più grande consolazione: la giustizia di Dio.
Non è forse necessario che vi sia un Dio giusto per manifestare un giorno la sua
giustizia infinita?
Due pugili si battono e i giornali consacrano loro intiere colonne..., migliaia e migliaia di
suore di carità trascorrono tutta la vita a vegliare la notte presso gli ammalati, e non si scrive di
esse una sola parola. Non è fosse necessario che vi sia Dio giusto?
Un uomo enormemente ricco viene a morte; il suo palazzo, le sue proprietà, le sue
automobili sono frutto d’inganni, di raggiri e d’usura; ma il mondo non ne sa nulla e il defunto
viene sotterrato con grande pompa. Poco dopo muore un padre di famiglia che si è logorato
giorno e notte perché i suoi non morissero di fame. Sarebbe bastato, perché le cose andassero
diversamente, che chiudesse un tantino gli occhi sul capitolo dell’onestà...; invece ha voluto
restare un galantuomo... Ed ora ha lasciato la famiglia nelle strettezze. Non è forse necessario
che vi sia un Dio giusto?
Sì, per quanto numerose possano essere le tentazioni contro le quali lottiamo nel corso della
nostra vita, e per quanto grande sia la difficoltà nell’osservare i comandamenti di Dio,
l’incoraggiamento del Dio infinitamente giusto risuona al nostro orecchio: «Rallegratevi ed
esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli» (S. MATT. V, 12). Sì, io credo in un
Dio infinitamente giusto, cioè io credo che ogni opera buona che io faccio in questa vita in
unione con Dio, ogni rinuncia, ogni atto di fedeltà al dovere, ogni vittoria morale, brilleranno
un giorno come diamanti fulgidissimi nel diadema che adornerà la mia fronte per la vita eterna.
Ecco quello che io credo, perché credo in Dio che ricompensa secondo giustizia.

III.
Iddio punisce secondo giustizia

Tuttavia, miei fratelli, non dobbiamo perdere di vista il secondo aspetto del volto del Dio di
giustizia; ed ecco perché io sono ora costretto ad aggiungere: io credo in Dio che punisce
secondo giustizia.
L’argomento non è piacevole, lo so. Ci sono in Dio degli attributi ai quali si pensa con
rispetto nella preghiera, per esempio la sua santità e la sua eternità. Altri ve ne sono ai quali si
pensa con amore: la bontà e l’amore di Dio. Altri che ci riempiono di stupore: la sua potenza e la
sua sapienza.
Ma vi è pure in Dio un attributo che fa battere il cuore umano, attributo il cui nome desta
nell’anima umana una legittima paura: la giustizia punitiva di Dio. Molti son quelli che
fremono davanti ad essa, e molti ne tremano; si vorrebbe negarla e si vorrebbe discuterla.
Una cosa che fa stupore è il vedere gli uomini servirsi in tale questione di una doppia
misura. Come rivendicano i loro diritti, anche i più piccoli, riguardo gli altri! Come reclamano
un equo trattamento là dove sono in gioco i loro vantaggi! Ma quando si tratta di Dio, dei diritti
di Dio contro di loro stessi, come lasciano facilmente da un lato la giustizia, e con quanta
disinvoltura si affrancano dai divini comandamenti! Per quanto questa terza parte della nostra
predica ci possa turbare, noi non abbiamo il diritto di passarla sotto silenzio: il Dio giusto
punisce il male secondo giustizia.
Nostro Signore Gesù Cristo, ogni volta che lo poteva, parlava sempre di Dio
rimuneratore; ma quando tale concetto non gli sembrava abbastanza forte contro le tempeste
della tentazione, o quando si urtava con l’ostinazione dei peccatori, allora, con la stessa
fermezza, predicava il Dio che punisce. «Io vi dico: nel giorno del giudizio gli uomini
renderanno conto di ogni parola inutile che avranno pronunciata» (S. MATT. XII, 36). E
altrove: «Non temete quelli che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima; temete
piuttosto quelli che possono far perdere nella geenna e l’anima e il corpo » (S. MATT. X,
28). E sappiamo poi quali dure parole siano, in diverse riprese, uscite dalle sue labbra: «Guai
a voi, Scribi e Farisei ipocriti!» (S. MATT. XXIII, 13 e 16). E quanta amarezza in queste
parole dette riguardo a Giuda: «Meglio per lui, che non fosse mai nato!» (S. MATT. XXVI,
24).
Ah! se ad ogni tentazione passasse davanti a me, con la rapidità del baleno, il volto di Dio
infinitamente giusto! Ah, se negli spaventevoli istanti in cui mi sento attratto dal peccato, e sopra
di me incombe la minaccia di una caduta, o quando tutti i demoni si lanciano d’un tratto contro
di me, quando il peccato mi lusinga, mi fa delle promesse, bisbiglia, grida, mi fa violenza, mi
persuade, mi attrae, ah! se allora mi ritornassero alla memoria queste parole di Nostro Signore:
«Il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli e allora renderà a ciascuno
secondo le sue opere» (S. MATT. XVI, 27). Ah! se mi venisse allora in mente il momento del
Giudizio, quando mi troverò ritto davanti al Giudice!

Quid sum miser tunc dicturus,


Quem patronum rogaturus,
Cum vix justus sit securus?

Che dirò allora, chi chiamerò in mio aiuto, quando gli stessi giusti tremeranno davanti a Dio
che giudica secondo giustizia?
2) Da questa idea che Dio giudica secondo giustizia scaturisce pure una grande
consolazione in mez zo alle crudeli ingiustizie della vita di questo mondo. Quante volte si sente
sospirare: «Ma Dio è proprio veramente giusto?». La vita non è forse colma di inaudite
ingiustizie? E’ proprio giusto, Iddio? Ma allora com’è possibile che i cattivi godano di tutti i
loro agi, mentre gli onesti muoiono di fame? E’ proprio giusto, Iddio? Ma allora come può
guardare con indifferenza il trionfo del peccato e l’oppressione della virtù?
E’così che si stilla il cervello e si tortura lo spirito l’uomo che soffre, fino a tanto ch’egli
non si ricordi che Dio, secondo l’insegnamento della nostra fede, «renderà a ciascuno secondo le
sue opere» (Ep. ai Rom. II, 6). Se dunque incontro un cattivo nella prosperità su questa terra, la
mia fede non ne sarà scossa. Mi ricorderò che Dio è giusto, e che il giudizio di Dio sopra
quest’uomo è riportato nell’al di là. Ma non c’è nessun uomo, per quanto cattivo possa essere,
che, in vita sua, non abbia fatto qualche buona azione e il Dio giusto lo ricompensa di quel poco
di bene in questa vita, poiché Egli non potrà più ricompensarlo nell’altra. E se incontro un
onest’uomo nell’indigenza e nella pena, la mia fede non ne sarà scossa. Mi ricorderò che non vi
è uomo sulla terra che non abbia commesso qualche cattiva azione, e il Dio giusto gli fa espiare
quaggiù quella colpa, per poterlo invece ricompensare nell’altra vita.
Sì, ogni volta che io vedo un cattivo nella gioia, mi rammento queste parole, forse un po’
dure, di Pazmany: «Quando destinate un bue al macello, voi non lo fate più lavorare, ma lo
conducete a pascere in una ricca pastura e lo lasciate in libertà; quello invece che riservate al
vostro servizio, voi lo aggiogate con una certa frequenza, lo attaccate al carro e all’aratro, gli fate
fare ogni specie di lavori. Ah! se sapeste perché quel ricco ingiusto è nell’opulenza, perché quel
cattivo signore è potente! ne avreste pietà e non invidiereste quella sorte».
Ogni volta che vedo la felicità del malvagio, mi ricordo queste parole del Salmista:
«Non voler imitare i maligni - e non portare invidia a coloro che operano l’iniquità.
Poiché si disseccheranno ben presto come il verde fieno - e come la tenera erbetta
appassiranno rapidamente...
...Sta soggetto al Signore e pregalo.
Non inquietarti per invidia verso colui che è prospero nelle sue vie...
...Ancora un po’ e il peccatore non sarà più - cercherai del luogo dov’egli stava e non
lo troverai...
...Poiché i peccatori periranno.
E i nemici del Signore, appena saranno messi in onore ed esaltati - mancheranno e
spariranno come fumo... » (Salmo XXXVI).
3) Sì, fratelli, se un giorno foste tentati di mormorare contro la giustizia di Dio a
motivo della terrena ingiustizia, andate in un cimitero e là, tra le tombe, l’anima vostra
indignata ritroverà la sua pace. Difatti la giustizia divina non può essere compiutamente
compresa che nell’impressionante silenzio del campo santo.
Per quanti sforzi si facessero per conciliare le ingiustizie inaudite di questo mondo con la
giustizia di Dio, chi mai potrebbe dire di aver risolto a fondo tale problema? Noi non lo
comprenderemo mai totalmente se non nell’altra vita, davanti al tribunale di Dio.
Nella vita presente, ahimé, quante ne abbiamo delle domande che restano senza risposta!
Perché il sole risplende anche sui malvagi e non solamente sui giusti? Perché la grandine ha
devastato la messe di quel servo di Dio, mentre quell’avaro senza cuore ha avuto un
magnifico raccolto? Perché quella giovane madre è morta lasciando cinque orfanelli?
Perché non si spalanca la terra sotto i piedi di quel bestemmiatore? e tanti altri nostri
continui «perché?»... Chi potrà dare una risposta per ciascuno di essi?
Nessuno può rispondere salvo la messaggera di Dio, la morte, che un giorno poserà
la sua mano gelida sopra la spalla di ciascuno di noi e ci griderà: Jeeee-deeeer-
maaaaann! Chiunque tu sia, vieni, adesso... vieni davanti al tribunale di Dio,
infinitamente giusto. E allora i piedi che danzavano così agilmente restano paralizzati,
le mani avide si fanno rigide, gli occhi seduttori e tentatori diventano vitrei, le labbra
dipinte illividiscono, e conta poco che abbiate un’automobile, del denaro, una casa, un
podere; tutto ciò non vale più nulla; una sola cosa è quella che importa: Durante la
vostra vita, avete fatto la volontà di Dio? E i cattivi «se ne andranno all’eterno supplizio,
e i gusti alla vita eterna» (S. MATT. XXV, 46).
Allora avrà luogo la rappresentazione finale, e la giustizia divina sarà totalmente
conosciuta.

***

Miei fratelli, il pensiero della giustiza divina si presenta come un dogma che commuove
profondamente. L’anima cristiana vi trova ad un tempo fiducia e amore. La fede incrollabile
nella giustizia divina è sempre stata il segno distintivo dei cristiani singoli e dei popoli. Ogni
volta che un cristiano era perseguitato, tormentato, vittima di un’ingiustizia, si consolava così:
«La giustizia di Dio me ne risarcirà». E ogni volta che il nemico vittorioso trattava crudelmente
un popolo vinto, si sentivano sempre sulle labbra della gente oppressa queste consolanti parole:
«Il Giudice eterno manifesterà la sua giustizia verso di noi... Abbiamo fiducia nell’eterna
giustizia di Dio».
Se la buona volontà non mi manca, se davvero intendo di fare ogni sforzo per serbarmi
fedele a Dio, la giustizia divina non mi farà paura, ma mi incoraggerà e mi ispirerà amore e
confidenza... Ecco una maniera di pensare veramente cristiana.
Certo, noi conosciamo pure il timore di Dio, ma questo non vuol dire per noi «tremare
davanti a Dio». C’è qualcuno che trema davanti a Dio come davanti a un gendarme. E anch’io
temo Iddio che punisce; ma anche più lo amo, amo cento volte di più il Dio che ricompensa
secondo giustizia. Amo il Dio giusto che non lascia senza ricompensa il bicchier d’acqua offerto
a chi ha sete e durante questa vita io spargo, io semino le piccole sementi d’invisibili opere
buone, con la santa fiducia che la più minuta di esse, all’aurora della vita eterna, si svilupperà
per dar vita a un fiore dai colori magnifici, per la corona di vittoria dell’eternità beata (Ep. ai
Gal. VI, 8-9).
Fratelli miei, Iddio è giusto, Iddio è severo, ma... ma non crudele, non è spietato. Il suo
volto non mostra i gelidi lineamenti di un tiranno, ma quelli misericordiosi di un Padre, pronto, a
perdonare, poiché «Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio suo unigenito affinché
chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna» (S. GIOV. III, 16).
Se talvolta il pensiero del giudice severo mi spaventasse, io mi inginocchierei, col cuore
pieno di umile fiducia e farei questa preghiera: Io credo in Dio. Credo nella Patria eterna. Credo
nella divina ed eterna verità. Credo all’eterna felicità che mi aspetta. Amen.

XVI.

Iddio è misericordioso

Il 4 Aprile dell’anno 397, nella notte dal Venerdì al Sabato Santo, rendeva l’anima a Dio
uno dei più infaticabili apostoli che la storia della Chiesa possa vantare: Sant’Ambrogio,
vescovo di Milano.
Molto commoventi sono le parole d’addio ch’egli rivolse ai suoi in quel punto; e la dottrina
racchiusa in quell’estremo commiato ci offre una santa consolazione. Era l’ultima predica del
grande vescovo: «Sono vissuto in mezzo a voi in modo da non essere costretto a vergognarmi se
ancora dovessi rimanere tra voi per qualche tempo. Ma non temo la morte, perché il nostro buon
Maestro è con noi».
Miei fratelli, potremmo noi augurarci, quando siamo ammalati, un pensiero più confortante
di questo? «Signore, se volete che io viva più a lungo, voglio passare gli anni che ancor mi
darete sul cammino penoso, ma benedetto, dei vostri comandamenti, sul cammino della fede
cristiana, dell’amore, della pazienza e della lotta. Ma se fin d’ora mi richiamate a Voi, io non
temo di comparire al Vostro cospetto, perché non siete un tiranno, proprietario di schiavi, né un
despota crudele; siete il mio buon Maestro, il mio Dio pieno di misericordia».
E’ vero: il nostro Dio non è soltanto giusto, ma è pure misericordioso; e se nella nostra
ultima predica il pensiero della giustizia divina ci ha commossi e forse anche impauriti, credo
che l’argomento di quest’istruzione, che tratta della divina misericordia, ci risolleverà, ci
incoraggerà e ci consolerà.
I. Quale consolazione ci reca la misericordia di Dio? II. Quale dovere ci impone la
maericordia di Dio? Ecco le due questioni che vorrei oggi mettere in luce.

I.

Quale consolazione ci reca la misericordia di Dio?

Non so se esista in Dio un attributo che, in numerose pagine della Sacra Scrittura e dagli
avvenimenti notevoli in essa riportati, sia più chiaramente insegnato della misericordia; ma è
certo che nulla vi è, più del pensiero della misericordia di Dio, che sia capace di consolare gli
uomini che lottano, soffrono e vacillano.
1) Essere uomo, infatti, è un tragico destino. Essere uomo significa: amare il bene, ed essere
non di meno inclinato al male. Essere uomo significa: prendere con entusiasmo delle nobili
risoluzioni, e non aver la forza di metterle in pratica. Essere uomo significa: slanciarsi verso Dio,
e rimanere nel fango.
a) Che cosa sarebbe di noi, se Dio non fosse misericordioso?
Che cosa sarebbe di noi se non leggessimo riguardo a Dio, nel libro dei salmi, che «la sua
misericordia si stende su tutte le opere sue»? (Salmo CXLIV, 9).
Che cosa sarebbe di noi, se Dio stesso non avesse detto per bocca del profeta Ezechiele: «Io
non voglio la morte del peccatore, ma che egli si converta e viva»? (EZECH. XXXIII, 11).
Che cosa sarebbe di noi se, dopo tante cadute nostre, non ci restasse Iddio quale nostra
ultima àncora di salvezza? Iddio, di cui San Paolo dice che «è il Padre delle misericordie» (II Ep.
ai Corinti I, 3) e che «è ricco in misericordia»? (Ep. agli Efes. II, 4).
Sì, noi uomini continuamente vacillanti, non abbiamo che questa consolazione: la
misericordia divina di cui ci parla Nostro Signore Gesù Cristo: «Io vi dico: si farà più festa in
cielo per un peccatore che fa penitenza, che non per novantanove giusti...» (San LUCA XV, 7).
E’ così che si rallegra il Dio di misericordia quando ritrova la pecorella smarrita e quando il
figliuol prodigo ritorna a Lui.
b) Ma questa misericordia divina noi non la vediamo solamente a parole, la vediamo
ancora nei fatti. Quanti mezzi Iddio mette in opera per salvare il peccatore dall’indurimento e
dalla conseguente sua perdita! Prima di mandare le acque del diluvio sopra la terra colpevole,
Egli delega Noè per predicare agli uomini: se almeno si convertissero! Prima di distruggere
Sodoma e Gomorra, quanta condiscendenza per il mercanteggiare di Abramo! Se si
trovassero solo cinquanta giusti, in quelle città, o trenta, o venti, o dieci, Egli farebbe loro
grazia: se almeno si convertissero! Ogni volta che il popolo d’Israele insorge contro Dio,
Egli manda a lui dei profeti: se almeno si convertisse!
E siccome tutto ciò non serve a nulla e l’umanità va sempre più sprofondandosi nel
peccato, ecco che Iddio le manda ancora il Figlio suo unigenito: si convertisse almeno la
disgraziata umanità!
Ecco la nostra consolazione: la misericordia infinita.
2) Dopo tutto quello che la Sacra Scrittura c’insegna della misericordia divina, dopo le
innumerevoli prove che la storia ci offre, l’anima nostra pentita si schiude alla speranza del
perdono dei nostri peccati. Perciò la fede cristiana non esita a promulgare
quest’affermazione quasi incredibile: Ogni peccato può essere perdonato. Non vi è peccato
quaggiù, fosse pure il delitto più orrendo, che la misericordia divina non voglia perdonare al
peccatore che si pente. Non vi è esistenza, quando pure non si trattasse che di un lungo
susseguirsi d’anni trascorsi nel peccato, che la misericordia divina non voglia perdonare al
peccatore risoluto ad emendarsi. D’un peccatore solo Nostro Signore ha detto che non
sarebbe perdonato: il peccatore indurito. Ma questi non vuole essere perdonato.
Miei fratelli, la nostra anima abbattuta, in lotta con gli spiriti del male, sente
profondamente quale potenza vivificatrice sgorghi da quest’articolo di fede: ogni peccato può
essere perdonato.
Difatti, quale anima non è immersa nella tristezza quando pensa al suo passato? Chi
dunque, dopo matura riflessione, non si sentirebbe sgomento davanti alla massa di follie, di
leggerezze, di errori, di passi falsi, di cadute, accumulati nel corso della vita? Chi non
implorerebbe col Salmista: «Non ricordare, o Signore, le colpe della mia giovinezza e le mie
ignoranze?» (Salmo XXIV, 7).
Ma quando il disgusto della vita e la disperazione minacciano di schiacciarci, allora appare
davanti a noi il dolce volto del Dio infinitamente misericordioso, del Dio di misericordia che non
ha scagliato la pietra contro la peccatrice che si pentiva; del Dio di misericordia che ha gettato
uno sguardo di compassione su Pietro che l’aveva rinnegato; che non ha scostato dai suoi piedi
Maddalena, la peccatrice in pianto; che è entrato nella casa del pubblicano; che ha accolto nel
suo paradiso il buon ladrone convertito nell’ultima sua ora.
Tale è la misericordia di Dio. Un giorno un adulatore diceva a Cesare: «Signore, non v’è
cosa che tu dimentichi nella tua vita, se non le ingiurie che ti sono state fatte». Era un’adulazione
nei riguardi di Cesare, ma è una santa realtà nei riguardi di Dio. Non solamente Egli perdona il
peccato, ma ne cancella il ricordo nella generosità del suo amore. E se rifletto a ciò, l’anima mia
inondata di gioia esclama col Salmista: «Lodate il Signore perché è buono, perché la sua
misericordia è eterna» (Salmo CXXXV, 1).
3) Se pensiamo in tal modo, fratelli, riguardo alla misericordia di Dio, non potremo essere
scandalizzati da un articolo di fede, in apparenza troppo austero, della religione cristiana.
Si trova molto spesso chi osserva con indignazione: C’è nel cristianesimo un dogma
spaventoso: la dannazione di coloro che muoiono in istato di peccato mortale. Tutto dipende
dall’ultimo minuto: ho io un peccato grave oppure no? E se in tutta la mia vita sono stato onesto,
e se ho sempre osservato i comandamenti di Dio, ed ho commesso una sola volta un peccato
grave, e in quell’istante muoio, sono dannato per l’eternità. Non è questo un dogma orrendo:
essere dannati per un solo peccato mortale?
Molti ci sono che levano tali indignati lamenti; che cosa risponderemo loro? Che il
cristianesimo non insegna affatto un dogma simile? Non ne abbiamo il diritto, poiché lo insegna
realmente.
Allora che dire?
Che chiunque muore avendo sull’anima un peccato mortale è dannato.
«E’ una dottrina crudele ed ingiusta, si replica allora. Se sono stato onesto per tutta la mia
vita, e infine son caduto nel peccato mortale...».
Aspettate, fratelli, aspettate. Sono costretto a contraddirvi perché voi non siete nel vero.
Proprio non ci siete affatto. Il peccato mortale non è un tranello nascosto nel quale si possa
cadere senza rendersene conto. Il peccato mortale non è un fulmine a ciel sereno. II peccato
mortale non è una cosa campata in aria. Prima che l’uomo abbia commesso un peccato grave, un
peccato mortale, c’è stata una lunga catena di colpe p i ù o meno gravi. Quindi chi ha servito il
Signore tutta la vita è, per così dire, psicologicamente incapace di commettere un peccato
mortale.
Sì, chi muore in peccato mortale è dannato, ma soltanto Iddio può giudicare se il peccato
di quell’uomo era un peccato mortale.
4) Riflettendo, noi afferriamo allora subito l’essenziale della misericordia divina, e
possiamo conciliare la giustizia di Dio con la sua misericordia.
Noi tutti conosciamo la raffigurazione della giustizia umana; figura dagli occhi bendati, per
cui si vuol significare che la giustizia non guarda né a destra né a sinistra, che è imparziale, e che
non usa preferenze verso nessuno.
Ma se esaminiamo più a fondo questa riproduzione simbolica, noi le troviamo subito un
difetto grave al quale, quest’è vero, noi altri uomini non possiamo mettere rimedio. Noi
rappresentiamo la giustizia con gli occhi bendati; eppure bisognerebbe piuttosto rappresentarla
con gli occhi bene aperti, con occhi che vedessero chiaramente, profondamente e dappertutto,
come i raggi X. Difatti potrà esercitare integralmente la giustizia solo quel giudice che tutto
veda, che scorga i motivi più segreti di ogni atto, che penetri fin nel profondo di un’anima
d’accusato: in quale ambiente uno sia cresciuto, a quali cattive influenze sia stato esposto, contro
quali cattive tendenze ereditarie abbia dovuto lottare, e dopo tutto questo definisca la parte di
responsabilità personale del colpevole.
In realtà, che cosa vede di tutto ciò sia pure il giudice più perspicace della terra? Assai
poco; e qualche volta assolutamente nulla. E’ precisamente per questo che un giudice
coscienzioso nel corso di un dibattimento è spesso in preda a una vera tortura morale quando
deve pronunciare un giudizio in un affare penale importante. Quanto è ristretta e limitata la
nostra giustizia umana! Disgraziatamente essa appartiene alla nostra unità anche tanto
limitata.
Ma è tutt’altra cosa in Dio «che scruta le reni e i cuori», in Dio che tutto sa. E appunto per
questo noi siamo sicuri che, all’ultima seduta del grande processo dell’umanità, il giorno del
Giudizio Universale, vi saranno per il mondo delle grandissime sorprese. Allora sentiremo
condanne senza possibilità d’appello contro uomini il cui nome quaggiù era aureolato di gloria,
mentre risplenderanno e si rallegreranno per l’eternità molte anime che il mondo aveva
misconosciute e disprezzate.
E noi abbiamo una risposta consolante da opporre ai nostri contradditori: è proprio
perché Dio pronuncia i suoi giudizi con gustizia, basandosi sopra la sua scienza infinita, che
Egli non è solamente giusto, ma è pure misericordioso. L’uomo, spessissimo, non è
misericordioso, non è indulgente, perché non conosce le circostanze attenuanti. Ma Iddio sa
tutto e in Lui la giustizia e la misericordia sono in perfetta armonia: Iddio è giusto,
senz’essere troppo severo; misericordioso, senz’essere troppo indulgente. Iddio non giudica
dunque nessuno più severamente di quanto meriti, ma piuttosto con una bontà, con una cari-
tà, con una sollecitudine tali che il più misericordioso degli uomini non le potrebbe
manifestare.
5) La nostra santa religione l’ha sempre saputo e proclamato. E appunto perché l’ha
sempre creduto e pubblicato, noi comprendiamo questa cosa singolare, e cioè che Chiesa
cattolica non si sia mai pronunciata sulla dannazione d’alcuno.
Non è sorprendente, fratelli, che la Chiesa cattolica abbia proclamato ufficialmente
riguardo a migliaia e migliaia di persone, per mezzo della così detta canonizzazione, che
esse sono certamente in cielo, e che questa stessa Chiesa non abbia ancora dichiarato di
nessun uomo che sia all’inferno, che sia dannato? Questa stessa Chiesa cattolica che insegna
come coloro che muoiono in stato di peccato mortale sono dannati e che non permette di
celebrare la Messa per i dannati, questa stessa Chiesa offre il Santo Sacrifico per non importa
quale defunto, anche per il criminale appena giustiziato, perché essa lascia alla misericordia
di Dio la cura di pronunciare il giudizio, nella misura per la quale l’uomo è responsabile del
suo delitto, e tenuto conto di tutte le attenuanti del suo peccato, favorito forse da una
costituzione assai incline al male, da un’educazione malsana, da un ambiente impregnato dal
male o da una triste eredità. Noi non lo sappiamo... nessuno al mondo lo sa... Iddio che tutto
conosce invece lo sa. Conducete i più grandi criminali del mondo, conducete i tiranni che si
sono lordati di sangue, conducete i carnefici dei primi martiri cristiani e domandate alla
Chiesa: «Sono essi stati dannati?». La risposta della Chiesa sarà questa: «Non lo sappiamo,
non lo sappiamo».
A Roma viveva un tempo un sacerdote molto pio che il popolo chiamava «il santo» e
che aveva già operato dei miracoli. Egli volle un giorno intraprendere la conversione di un
malfattore condannato a morte, ma ogni sforzo fu vano. Per tre giorni non gli diede tregua
facendo appello a tutti i suoi mezzi di persuasione per impedirgli di morire nell’indurimento, ma
tutto fu inutile: quello non faceva che bestemmiare ancor più, e con buffonerie piene di cinismo
rifiutava di confessarsi. Mentre veniva condotto al luogo d’esecuzione, il prete l’accompagnò
ancora, ma invano; anche là il condannato lo respinse. Allora il prete perdette la pazienza ed
esclamò, rivolto agli astanti: «Venite a vedere come muore un dannato!». Ebbene, fratelli, sapete
quale doveva essere la conseguenza di quest’apostrofe? Quarant’anni più tardi s’introduceva la
causa di canonizzazione di quel sacerdote. I miracoli ch’egli aveva operato vennero provati, e
tuttavia il prete non fu canonizzato per causa di quelle parole che vi ho riportate un momento fa.
Queste parole infatti non erano degne di un santo, né della fede cattolica (GRATRY, La
Philosiphie du Credo, Paris, p. 188).
Ah! la verità è che Dio è la misericordia infinita. Di Giuda soltanto sappiamo che è
dannato, ed e la Sacra Scrittura che lo dice. Ma se questo disgraziato apostolo, nell’ultimo
momento, avesse avuto il dolore dei suoi peccati e, gettata la corda con la quale si voleva
impiccare, si fosse inginocchiato ai piedi di San Pietro dicendo: «Fratello, ascolta la mia
confessione; ho commesso un peccato infinitamente grave; ho tradito il Maestro», sapete che
cosa avrebbe risposto San Pietro? «Fratello, io sono un peccatore ancora piú grande, perché l’ho
rinnegato tre volte. Pentiti della tua colpa. Io ti perdono nel nome di Gesù misericordioso».
Di Giuda soltanto sappiamo che è dannato. E’ dannato perchè l’ha voluto.
E queste parole sono per noi una grande consolazione, un balsamo e un sollievo per la
nostra povera anima angosciata. Sì, Iddio è severo e giusto, ma è pure misericordioso, ed è per
questo che nessuno è dannato a meno che non lo voglia. Come è commovente sentire sulle
labbra di Nostro Signore con quanto amore Egli voleva salvare Gerusalemme! ma non vi riuscì,
perchè i suoi abitanti non vollero. «Gerusalemme, Gerusalemme!» son queste le parole di
rimprovero di Nostro Signore (e tali sono per ogni anima dannata) «quante volte ho voluto
radunare i tuoi figli…, e non hai voluto» (S. MATT. XXIII, 37).
Dio di misericordia, fate che io non senta sulle vostre labbra, nel giorno del giudizio: Sei
tu che non hai voluto.

II.

Nostri doveri verso la misericordia di Dio

Ho talmente indugiato, miei fratelli, sull’idea delle consolazioni a noi recate dalla
misericordia divina che mi resta appena il tempo sufficiente per trattare i doveri che la
misericordia di Dio ci impone. Pure, se è naturale di fermarci più volentieri sulle consolazioni
della misericordia divina, non per questo abbiamo il diritto di lasciare da un lato l’altra
conseguenza della misercordia di Dio.
E’ vero, Dio è «ricco in misericordie» (Ep. agli Efes. II, 4), ma questo implica una
condizione molto seria che Nostro Signore ha proclamata chiaramente e apertamente in una
parabola molto significativa. E questa condizione, eccola: Se vogliamo che Iddio sia
misericordioso verso di noi, bisogna che anche noi siamo misericordiosi verso il nostro prossimo.
Quando il servo iniquo venne gettato in prigione, Gesù ne trasse la conclusione
seguente: «Così farà anche con voi il Padre mio celeste, se non perdonerete di cuore ciascuno
al proprio fratello» (S. MATT. XVIII, 35). Ed io confesso di non poter capire che qualcuno
legga queste parole decisive e nondimeno seguiti a dire: «No, quell’uomo mi ha offeso a morte.
Non gli perdono più». Non avete inteso, fratelli?: «Così farà anche con voi il Padre mio
celeste, se non perdonate».
Nostro Signore ci fa domandare nelle nostre preghiere che Iddio ci perdoni le nostre
offese, come noi perdoniamo a coloro che ci hanno offeso (S. MATT. VI, 12). E ci sono
uomini che portano in fondo al cuore per anni ed anni il veleno e la fiamma della collera e
dell’odio: «No, non gli perdonerò mai».
Il Divino Maestro ci dice ancora: «Se perdonate agli altri le offese, il Padre vostro
celeste perdonerà anche a voi. Ma se non perdonate agli altri, nemmeno il Padre vostro
perdonerà le vostre offese (S. MATT. VII, 12). E ci sono uomini che possono dire pensando
ai loro simili: «No, non gli perdonerò mai»?
Miei fratelli, non facciamoci illusioni. Se vogliamo che Iddio sia misericordioso verso di
noi, non abbiamo allora il diritto di essere spietati per il nostro prossimo. In questo mondo non vi
è ricco che non abbia bisogno di misericordia, e non vi è povero che la misericordia non
possa praticare.
Gettiamo uno sguardo a ritroso sopra la nostra via; quante volte avremmo dovuto
umilmente batterci il petto dicendo: «Signore, abbiate pietà di me che sono un peccatore!» E
non è necessario andar a cercare nel nostro passato delle enormità come sarebbero degli
omicidi, dei furti, degli spergiuri, delle infedeltà, dei peccati d’impurità. No, basterà che ci
ricordiamo delle nostre molte ingratitudini, delle nostre vanità, dei nostri capricci, del nostro
egoismo, delle nostre mancanze al dovere; tutto ció sarà sufficiente per farci chinar la testa
così fiera davanti a Dio.
E quando l’uomo si trova così a nudo davanti a Dio, senza velo, nella sua vergogna, oserà
egli ancora inorgoglirsi, giudicare temerariamente degli altri, essere suscettibile, portare odio,
essere spietato? Oserà scorgere la paglia nell’occhio altrui? Oserà scopare davanti alla porta
degli altri? Oserà essere il rospo che riempie l’aria del suo vociare e della sua indignazione
contro il fango, mentre dimentica di sprofondare nella mota egli stesso? Oserà dire con orgoglio,
come il fariseo nel tempio: «Signore, io ti ringrazio perché non sono un peccatore come quel
pubblicano… »? Miei fratelli, raffiguratevi qualcuno che sia veramente buono, raffiguratevi un
santo: forse che potrebbe parlare in tal modo? I santi erano sempre umili, pregavano sempre
per il loro prossimo, erano sempre misericordiosi, sempre pronti a perdonare.
Voi mi direte forse: «Ma io non sono un santo». Senza dubbio, non siete un santo.
Disgraziatamente noi tutti non siamo dei santi. Ma appunto perché non siamo che dei
pover’uomini, peccatori e inclinati al male, appunto perché abbiamo di continuo bisogno
della misericordia divina, siamo dunque indulgenti, pronti a perdonare al nostro prossimo, e
ricordiamoci di queste parole dell’apostolo San Giacomo: «Il giudizio sarà senza
misericordia per colui che non avrà usato misericordia» (Ep. di S. GIAC. II, 13).

***

Miei fratelli, le mie due ultime prediche hanno trattato della giustizia e della
misericordia di Dio. Vi sono uomini per i quali è arduo problema conciliare la giustizia di
Dio con la sua misericordia. E si stillano il cervello su questa domanda: Quale è il più
grande di questi due attributi divini: la giustizia o la misericordia?
Se vogliamo dare una risposta precisa, possiamo soltanto dire: l’uno non è più grande
dell’altro, perché Dio è infinito in tutte le perfezioni.
Ma se pensiamo al modo degli uomini, possiamo allora rispondere: la misericordia di
Dio è più grande della sua giustizia, o per lo meno più grande ci appare. Difatti, quando la
giustizia di Dio ci punisce e ci rimette sulla buona strada, essa agisce in tal modo soltanto
per farci approfittare della divina misericordia.
Noi abbiamo del resto un segno infallibile della misericordia divina: il fatto che il
Figlio di Dio si è fatto uomo perché Dio manifesti la sua misericordia verso di noi.
Poiché abbiamo sollevato la questione, sforziamoci di trarne un insegnamento. La
misericordia di Dio è più grande della sua giustizia (per lo meno ai nostri occhi); dunque io
voglio rassomigliare al Dio di misericordia, per mezzo dalla mia condotta nei riguardi del mio
prossimo: verso di esso io voglio essere misericordioso piuttosto che duro, voglio perdonargli
invece di odiarlo, testimoniargli comprensione e indulgenza invece di offenderlo. «Beati i
misericordiosi perché otterranno misericordia» (S. MATT. V, 7), queste parole del Maestro
risuonano al mio orecchio; «Siate misericordiosi com’è misericordioso il Padre vostro. Non
giudicate e non sarete giudicati... Perdonate e vi sarà perdonato» (S. LUCA VI, 36-37). Se sono
misericordioso per il mio prossimo, allora, ma allora soltanto, scorgerò io pure il volto benedetto
di Dio nella luce più consolante, più confortante che l’uomo possa desiderare, nella luce che più
lo solleva e lo esalta: vedrò il Dio della misericordia.
Non c’è vita umana, per quanto malvagia, sopra la quale non possa esercitarsi la
misericordia divina, quando si ritorni a Dio col pentimento dei propri peccati. Non v’è
peccatore, per quanto vecchio e indurito, che non possa ottenere il perdono, se a Dio si
rivolge con cuore addolorato.
Dio di misericordia, io non domando che una cosa sola. Non permettete che il gelo del
peccato mortale prenda l’anima mia. Ma se un giorno, in un modo qualunque, io ne fossi colpito,
non vorrei durare un minuto solo in tale stato, non potrei vivere senza pentirmi nell’indurimento.
Per questo, o Padre, mi precipito verso di Voi, mi afferro a Voi. Aiutatemi ad arrivare fino al
vostro cuore tanto buono e misericordioso, dove reciterò questa preghiera per l’eternità: «Sia
benedetto il Signore..., il Padre delle misericordie, e il Dio d’ogni consolazione» (II Ep. ai Cor.
I, 3). Amen.

XVII.

Dio è paziente

Un poeta francese (Jean Richepin) ha pubblicato una raccolta di poesie piena delle più
orrende bestemmie. Una di queste poesie ha per titolo: «Preghiera di un ateo».
Che cosa troviamo in questa poesia? Una spaventosa provocazione contro Dio. Non
vogliate scandalizzarvi se ve ne riassumo brevemente il contenuto.
Entrai in una chiesa - è il poeta che parla - e là inginocchiato sulla fredda pietra, rivolsi a
Dio questa preghiera: «Io nego la tua esistenza e non curverò mai la testa sotto il tuo giogo. Ma
voglio ancora rivolgerti un’ultima preghiera. Eccomi in ginocchio davanti a te, nella tua Casa.
Guardami e metti termine alle lotte dell’anima mia. Se esisti veramente, fa dunque discendere un
fulmine assassino sulla mia testa per punirmi della mia incredulità. Io aspetto ormai il tuo fuoco
vendicatore, fatto cadere sopra di me. E se la folgore cade sopra di me, se l’anima mia si dispone
ad abbandonare questo corpo mortale, il mio ultimo anelito sarà per gridare che tu veramente
esisti, e che era temerità da parte mia il rinnegarti. Ma il fulmine non piomba sopra di me, io mi
rialzo in ottima salute e lascio la tua casa. In poche parole: tu non esisti».
E’ così che bestemmia l’infelice poeta e l’anima del lettore si ribella ed esclama con
amarezza: «Signore, potete Voi sopportare un linguaggio simile? Non avete più folgori? la
vostra mano vendicatrice non può dunque ridurre in cenere quell’empio?».
Così si manifesta l’indignazione dell’uomo.
E Iddio che cosa pensa di tutto ciò?
Che cosa sia successo del poeta che ha scritto questi versi, non lo sappiamo. Ignoriamo
quello che gli può essere accaduto negli anni seguenti.
Se Iddio non fosse così straordinariamente paziente, lo avrebbe senz’altro fulminato nello
stesso istante in cui scriveva quei versi blasfemi. Se Iddio non fosse così paziente, da un gran
pezzo quell’uomo sarebbe preda dell’Inferno. Lui e, ahimé! con lui forse molti altri... se Iddio
non fosse paziente.
Ma Dio è paziente, infinitamente paziente; è questa una grande consolazione per noi, ed
anche un serio avvertimento.
I. Che cosa è la pazienza divina? II. Quale avvertimanto ci dà la pazienza di Dio? Sono
queste le due domande alle quali vorrei rispondere nella presente istruzione.

I.

Che cosa è la pazienza divina?

Sia che leggiamo le parole della Sacra Scrittura, sia che consideriamo la longanimità
manifestata da Dio nel governare il mondo, noi siamo stupiti dalla meravigliosa pazienza
di Dio; e lo siamo a tal punto che, nella nostra impazienza di uomini, spesso ce ne
sentiamo scandalizzati.
1) Difatti, la Sacra Scrittura non cessa di proclamare la grandezza della pazienza
divina.
a) Nel libro dell’Esodo, Mosè così parla di Dio: «Dio misericordioso e clemente,
lento all’ira e che conserva la sua grazia fino a mille generazioni» (Esodo XXXIV, 6).
Un’altra volta Mosè esprime ancora lo stesso pensiero: «Il Signore è lento all’ira, e ricco
di misericordia; Egli perdona l’iniquità e il peccato» (Numeri XIV, 18). Il profeta Isaia
dice dal canto suo: «Il Signore attende per farvi grazia» (Is. XXX, 18). Il profeta Giona
fa alla sua volta questa preghiera: «Io so che tu sei un Dio misericordioso e clemente,
lento all’ira e ricco di grazia» (GIONA IV, 2). Ma tutte queste parole sono sorpassate da
quelle di San Pietro: «Il Signore usa pazienza verso di voi, perché non vuole che alcuno
perisca, ma che tutti vengano a penitenza» (II Ep. di S. PIETRO III, 9).
Noi uomini siamo impazienti, perché abbiamo poco tempo. Chi manca di tempo non
è forse inquieto, agitato, nervoso, impaziente? Ma Iddio è paziente, perché è eterno. Per
Lui un secondo ha la stessa durata di un secolo per noi.
b) Ah, quale fortuna per noi, quale immensa fortuna che Iddio sia così paziente verso
di noi! Che cosa sarebbe di noi se Iddio fosse tanto impaziente quanto noi uomini
abbiamo l’abitudine di esserlo?
Ecco qui una madre di famiglia in lagrime.
«Padre mio, non posso più tollerare quello che il mio figliolo maggiore mi fa
soffrire. E’ sempre la stessa commedia: debiti, creditori e... belle promesse. Io pago, e la
settimana successiva ricomincia la medesima storia. Non ne posso più... i miei nervi sono
esauriti».
Certo, chi non avrebbe pietà di questa madre desolata? Noi sappiamo bene quale
deplorevole destino sia l’obbligo di sopportare il peso della vita con una persona della
quale si debba tollerare le mille imperfezioni, le mutabilità dell’umore, e tanti altri
difetti. Ma ricordiamoci, miei fratelli, che Iddio tollera ben di più nel sopportare l’uomo.
E’ così ch’Egli tollera la nostra incostanza e quella volubilità che spinge l’anima nostra
di qua e di là, di secondo in secondo, come un pendolo. Ora siamo di Dio, ora siamo del
peccato; ora abbiamo fede, ora ci sentiamo vacillanti. Ora prendiamo lo slancio
volonterosi, ora le nostre ali si afflosciano tristemente. Ora preghiamo davanti al trono di
Dio, ora precipitiamo schiantati in un cupo abisso.
E allora, dopo l’orrenda caduta, una grande amarezza s’impadronisce di noi: «No, non si
può andare avanti così. Mi rialzerò e ritornerò dal Padre mio». Cambiate allora condotta, ma la
settimana dopo ricadete per trovarvi allo stesso punto di prima. E si ricomincia, ma sempre senza
successo. Per molti uomini il libro della vita non fa che presentare un succedersi di nuovi
capoversi, dei tragici frammenti non finiti.
In verità la pazienza divina è tanto grande quanto incomprensibile; anzi è quasi
inconcepibile.
2) Ma se così penso di me stesso, non mi scandalizzerò di questa pazienza divina così
frequentemente incomprensibile; all’opposto, la benedirò.
Molti, difatti, se ne scandalizzano. Noi avremmo voluto annientare sull’atto il poeta
bestemmiatore. Noi vorremmo che la terra ingoiasse i ladri sacrileghi che disperdono e
calpestano le Sacre Specie. Come gli apostoli, noi siamo spesso indignati contro i Samaritani
inospitali: «Signore, vuoi tu che invochiamo il fuoco che scenda dal cielo e li consumi?» (S.
LUCA IX, 54). Ma Nostro Signore li richiama all’ordine: «Non sapete di che spirito siete. II
Figlio dell’uorno non è venuto a perdere le anime, ma a salvarle» (S. LUCA, IX, 55-56).
Quale fortuna che Iddio non sia così impaziente e non colpisca il peccatore nello stesso
istante in cui commette il peccato!
Iddio ritarda il castigo nell’interesse dei peccatori e in quello di chi li circonda.
a) Che ne sarebbe del mondo, se Dio non fosse tanto paziente? Il pubblicano Levi avrebbe
forse potuto diventare un San Matteo? E la peccatrice avrebbe potuto diventare una santa
Maddalena? E Saullo, i1 persecutore dei cristiani, sarebbe diventato San Paolo? E Agostino, il
peccatore, sarebbe Sant’Agostino? Ma a che mettere in campo tante domande? Che cosa sarebbe
stato di me, dove si troverebbe ora la povera anima mia, se Iddio non fosse stato paziente verso
di me, se mi avesse punito fin dal mio primo peccato più grave?
b) E sapete perché Iddio ritarda il castigo? E’ non soltanto nell’interesse del peccatore, ma
ancora perché la punizione del malvagio non colpisca nello stesso tempo anche degli innocenti.
Non esiste uomo al mondo che viva completamente solo; ciascuno fa parte di una famiglia,
d’una società. Buoni e cattivi vivono sotto lo stesso tetto, puri e impuri nella medesima famiglia;
se il Signore punisse immediatamente il colpevole, colpirebbe anche l’innocente. Egli dunque
attende fino alla messe, fino al giorno del Giudizio; e preferisce dire: «Lasciate crescere l’uno e
l’altro sino alla mietitura; quando poi sarà tempo di mietere, io dirò ai mietitori: Raccogliete
prima il loglio, legatelo in fasci per bruciarlo, poi radunate il grano nel mio granaio» (S.
MATTEO XIII, 30).
Quanto è grande, quasi incomprensibilmente grande la pazienza di Dio!

II.

Quali doveri ci impone la pazienza divina?

Se Iddio mostra tanta pazienza verso le nostre perpetue cadute e le nostre imperfezioni, noi
dobbiamo dedurne due conseguenze importantissime; due lezioni che sono per noi un grave
avvertimento.
1) Dio è paziente, dunque bisogna che io pure lo sia.
Bisogna che io sia paziente a) verso me stesso; b) verso il mio prossimo e c) nelle
vicende della vita.
a) Essere pazienti verso se stessi. Non potete immaginare quanto l’uomo sia paziente
verso se stesso. Perché ci troviamo noi sulla terra? Qual è il nostro compito in questa
vita? Utilizzare i mille avvenimenti dell’esistenza in vista dell’eternità, diventare sempre
più simili a Dio. Io gli rassomiglierò se saprò considerare le possibilità che mi vengono
offerte dalla vita, il mio ambiente, la mia sposa, il mio marito, i miei figlioli, i miei
conoscenti, i doveri del mio stato, le mie lotte, le mie difficoltà; se saprò considerare
tutto questo come materia viva che mi è stata data da Dio per ricavarne, mediante una
lunga e grande pazienza, il capolavoro della mia vita. Contro tutto quello che potrebbe
distogliermi da ciò, contro tutto quello che mi spinge al peccato, contro tutto quello che è
senza valore, io ho il dovere di combattere. Non con ira, non con amarezza, non
straziandomi fino al sangue, ma con pazienza e perseveranza. Le tentazioni non mi danno
pace?... il peccato di continuo mi spia? tante cose m’irritano?... Non importa, non mi
lascerò confondere, le onde non penetreranno nelle profondità dell’anima mia: sarò
paziente verso me stesso.
La mia fede era salda, e un giorno, non so come, vengo assalito da dubbi angosciosi,
l’anima mia ha la impressione di essere abbandonata. La mia vita morale è pura, e un
giorno sorgono davanti a me, non so come, delle immagini frivole. Che cosa sarà di me?
Ma se sono paziente con me stesso, anche in mezzo a quei pensieri empi, distoglierò da
essi la mia intelligenza dirigendola verso altri oggetti. Se invece non ho pazienza? In tal
caso sobbalzerò, trasalirò, mi tormenterò da me stesso, e il mio stato d’animo sarà ancora
più insopportabile. Pazienza verso noi stessi.
Pazienza verso noi stessi sopratutto nelle malattie. So che molte cose sono facili a dirsi e
difficili a farsi; tuttavia bisogna pur mettercisi. Come ci scappa presto la pazienza quando siamo
ammalati! Eppure la impazienza non ha mai guarito nessuno; ma la pazienza, sì. Essa procura
gioia e consolazione all’anima calma, e dispone così il corpo a trovare la sanità. Un ammalato
d’indole tranquilla, calma, gaia vince assai piú presto la malattia di quel che lo faccia un
ammalato ombroso, di cattivo umore, scontento di Dio e di tutto ció che gli sta intorno. Guardate
solo come un ammalato si sente subito più sollevato e più quieto quando ricevuti i sacramenti
della Penitenza, dell’Eucaristia, dell’Estrema Unzione l’anima sua ha trovato la pace.
b) Pazienza nei riguardi del nostro prossimo. Ahimé! L’uomo d’oggi non lo vuol
comprendere. La pazienza è viltà», dice l’uomo moderno, «la pazienza è debolezza».
Invece chi sa essere paziente verso chi lo insulta è più forte dell’insultatore. La sposa che
sa mostrarsi paziente di fronte ai mille capricci del marito, è più forte di lui e non può
essere completamente infelice. I genitori che sanno restar pazienti davanti alle numerose
scapestrataggini del loro figliolo non si lascieranno prendere la mano dal ner vosismo. Non
è forse necessario, al giorno d’oggi, consigliare la pazienza all’uomo nervoso e febbrile?
Consigliare la pazienza al capo-fabbrica riguardo ai suoi operai; consigliarla ai passeggeri che
prendono il tram; al sottufficiale verso le sue giovani reclute; agli sposi facilmente irritabili; ai
genitori facilmente esasperati; a tutti coloro, infine, che sono sempre pronti a inquietarsi, a
giudicare, a criticare? « Non vogliate giudicare di nulla prima del tempo fino a tanto che venga il
Signore: Egli metterà in luce quello che è nascosto nelle tenebre e manifesterà i disegni dei
cuori» (I Ep. ai Cor. IV, 5).
c) E finalmente pazienza non solo riguardo al prossimo, ma anche di fronte alle
vicissitudini dell’esistenza. Parlare di pazienza in quest’epoca di records, di velocità e di
imprese sportive? Pure, chi semina al mattino non penserà di raccogliere la sera. Chi si dispone a
scalare una montagna non giungerà in un attimo alla cima. Dunque pazienza di fronte alle .
difficoltà della vita.
Dopo una lunga e faticosa ascensione, l’escursionista arriva alla cima della montagna e là, a
quell’altezza vertiginosa, davanti allo spettacolo della magnifica natura di Dio, l’anima sua è
inondata d’una tale gioia che una simile non l’ha ancor provata. Ormai non si ricorda più del
duro cammino percorso. Non pensa più che a tutte le bellezze che si stendono a’ suoi piedi: alle
foreste incantevoli, alle gole, alle rocce, ai ruscelli che gli sono stati di grave ostacolo lungo la
via e che bisognò superare a prezzo di una grande pazienza. Di tutto ciò egli non sa più nulla.
Tutto si fonde davanti ai suoi occhi in un quadro di meravigliosa bellezza.
Precisamente come se fossimo sulle sommità della vita eterna, contempliamo la nostra
esistenza terrena. Con quanta gioia vedremo che in mezzo alle amarezze, agli ostacoli e agli
insuccessi della vita la nostra fedeltà verso Dio e la nostra pazienza hanno realmente «fatto
sbocciare delle rose»: le rose di quella corona che non appassirà in eterno.
Iddio è paziente; sarò paziente anch’io.
Iddio è paziente, è certo; ma guardiamoci bene dall’abusare della pazienza di Dio.
Quante volte la longanimità divina riguardo ai peccatori ci sembra veramente
incomprensibile! Quante volte la sua potenza, la sua giustizia e la santità impallidiscono davanti
a noi per causa sua! Ma com’è terribile la sorte di coloro che abusano della pazienza divina e
osano farne pretesto per continuare nella loro vita di peccato! La Sacra Scrittura dà
quest’avvertimento: «Non dire: La misericordia è grande, Egli perdonerà la moltitudine dei miei
peccati;... non tardare a convertirti al Signore, e non differire da un giorno all’altro» (Eccli. V, 6
e 8).
a) Talvolta fin dalla vita terrena si scorgono segni impressionanti del castigo dei peccatori
che abusano della pazienza di Dio. Iddio, infatti, non è soltanto paziente e misericordioso. Egli è
pure altrettanto giusto e la storia è piena di fatti che attestano come la giustizia colpisca il
colpevole fin da questo mondo. Come motto alla storia universale si potrebbero mettere queste
parole: «I mulini di Dio macinano lentamente, ma sicuramente».
L’omicida Erode ha potuto insozzarsi di sangue per anni e anni quanto ha voluto, ma
venne infine colpito da una malattia talmente orrenda che non se ne conosce alcun altro caso
nel mondo.
Uno dei più accaniti avversari del cristianesimo, Voltaire, scriveva il 25 febbraio 1758 al
suo amico d’Alembert: «Ancora vent’anni e l’Infame avrà buon gioco». Esattamente vent’anni
piú tardi, lo stesso giorno, il 25 febbraio 1778, il medico dichiarava a Voltaire, gravemente
inferme, che il suo stato era disperato. Voltaire domandò allora che gli si andasse a chiamare
un prete; ma lo circondava un’accolta di empi che non lo permise. E Voltaire a supplicare
disperatamente che gli si conducesse un confessore ma invano. Un urlo spaventevole, e
moriva. Dopo vent’anni aveva buon gioco... ma chi? Il buon Dio.
E Chaumette, uno dei membri più fanatici della Comune di Parigi, al tempo della
rivoluzione francese, aveva, durante la festa della «dea Ragione», proferito questa bestemmia:
«Dio, prova la tua esistenza scagliando la folgore sulla mia testa». La folgore non scoppiò, ma
qualche giorno dopo (il 24 marzo 1794) la testa di quell’empio cadeva sul patibolo.
E Napoleone che per dieci anni si sforzò di «frantumare» la Chiesa di Dio, fu poi
frantumato lui in quel mulino di Dio che si chiamò Sant’Elena.
E Nietzsche che esclama: «Il vecchio Dio è morto, noi lo abbiamo ucciso!» Nietzsche
finisce i suoi giorni nella pazzia.
Sì, Dio è paziente, ma è giusto, e alla resa dei conti rende giustizia a tutti. Dio è paziente
perché non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (EZECH. XXXIII, 11); è
paziente (se non lo fosse che cosa sarebbe di noi?) ma finalmente regola le partite. Non le
regola tutti i giorni, ma le tiene esattissimamente e un momento o l’altro rimette le cose a
posto.
Tutto per tutti.
b) E questo Dio che regola i conti nell’altro mondo è la risposta esatta e completa al
problema sollevato all’inizio di questa predica. Perché Iddio tace così, mentre l’uomo aspetta
ch’Egli incenerisca i peccatori?
Finora vi ho già dato parecchie risposte, ma nessuna ancora di definitiva. E’ già una
risposta dire che Iddio è misericordioso e vuol dare il tempo di pentirsi. E ancora che non vuol
punire gl’innocenti coi colpevoli; e che non vuol fare violenza alla libera volontà dell’uomo,
perché Egli stima troppo la natura umana per far ciò. Sì, ognuna di queste risposte costituisce
una spiegazione; ma una spiegazione incompleta. Io non comprendo ancora a fondo la
longanimità di Dio. Non la comprenderò che il giorno in cui il Signore leverà la sua voce e
dirà l’ultima parola. Quando? Quando, dopo la nostra morte, saremo davanti a Lui e il
Signore prenderà a parlare; non sarà più il Dio paziente, sarà il Dio giusto che dirà: Ascolta
ora la sentenza meritata dalla tua vita.
Aspettate, aspettate, uomini impazienti. Aspettate. L’ultima parola non appartiene che a
Dio. Noè ha impiegato quasi cent’anni a costruire l’arca e a predicare la penitenza. Geremia ha
annunciato per anni e anni la rovina del regno di Giuda, prima che questa acca desse. Nella
parabola di Nostro Signore, il proprietario del fico sterile aspetta più anni prima di abbatterlo.
Nessuno potrà dire, quando verrà il giorno della resa dei conti e il Signore avrà detto l’ultima
sua parola, che il giudizio di Dio è stato ingiusto per lui.
c) Quale follia e quale temerità da parte di coloro che abusano della pazienza di Dio, e
rimettono la loro conversione al minuto estremo!
«Iddio certamente mi perdonerà; è il suo mestiere» diceva celiando il poeta tedesco Enrico
Heine. Gli uomini non osano generalmente ripetere questa bestemmia, ma molti vivono come se
condividessero tale sicurezza. Perché Dio è paziente, abusano della sua pazienza, finché un
giorno la morte arriva all’improvviso, li sorprende ebbri di peccato, e li getta in braccio al
Giudice divino.
Sì, Dio è paziente; ma che sorte spaventosa sarà quella di coloro che abusano della sua
pazienza!
Chi abusa della sua pazienza? Colui che conta sul minuto estremo per riparare tutta una vita
guasta. Chi può garantire che quest’ultima ora non vi prenderà alla sprovvista? Chi vi può
assicurare che avrete il tempo per riparare ogni cosa? Che ci sarà qualcuno che andrà a chiamare
un confessore? E che il vostro pentimento sarà una vera e profonda contrizione?
«Bisogna godere la vita fin che si è giovani», questa è la funesta massima che si sente su
troppe labbra. «Approfitto dell’esistenza fino a tanto che mi sento gagliardo. Quando poi sarò un
vecchio di novant’anni con tanto di barba bianca, allora avrò pur sempre il tempo di darmi alla
pietà. L’essenziale è che io mi confessi prima di morire. La Chiesa ci insegna infatti che anche
chi abbia condotto una vita di peccato, può essere salvo se fa penitenza prima di morire».
Ma come? E’ proprio questo che la Chiesa ci insegna?
Certo, fratelli, insegna proprio così. Insegna che Iddio è talmente misericordioso che
perdona anche a chi, nell’ultimo istante, a Lui si rivolge con l’anima pentita; gli perdona proprio
come il Cristo ha perdonato al buon Ladrone convertito al termine di una vita di peccato.
Sì, il buon Dio è tanto misericordioso. Ma quale follia credersi autorizzati da questo
insegnamento a continuare a vivere nel peccato!
Dopo essere vissuto nel peccato sarete salvo se all’ultimo momento vi potrete pentire. Se
potrete fare penitenza... Se ancora vi potrete pentire. Ma si tratta quasi di una impossibilità
psicologica.
Nell’ultima mia istruzione ho rassicurato quelli che dicono con ansietà: «Se ho trascorso
tutta la mia vita nel bene e nell’onestà, e all’ultimo minuto mi accade di commettere un peccato
mortale, sarò dannato per l’eternità... Che dottrina crudele!». Costoro li ho tranquillizzati: Se
durante tutta la vostra vita siete stati fedeli a Dio, è quasi un’impossibilità psicolgica che
all’ultimo istante dobbiate cadere nel peccato grave e siate dannati. Ma nella predica d’oggi sono
costretto ad aggiungere: E’ vero, Iddio, nella sua misericordia, perdona anche all’ultimo
momento al peccatore che si pente; ma se qualcuno per tutta la vita si è dissetato al peccato, ha
ingoiato il peccato, si è compiaciuto nel peccato, è quasi psicologicamente impossibile che
quest’uomo, nei suoi ultimi istanti, nei dolori della malattia, nelle strette dell’agonia, sia
capace di eccitare in se stesso una vera contrizione. Miei fratelli, sono prete da vent’anni, ho
passato quindici mesi al fronte, in Serbia, nei Carpazi, in Galizia, in Russia, ho assistito
innumerevoli morenti, e tremo in tutta l’anima mia quando penso alla sorte eterna di coloro
che vogliono convertirsi soltanto nel minuto estremo.
Ah! non abusiamo mai della pazienza di Dio che aspetta la nostra conversione! Non
dimentichiamo mai quest’avvertimento di San Paolo: «Disprezzi tu le ricchezze della sua bontà,
della sua pazienza, della sua longanimità? e non sai tu che la bontà di Dio t’invita a penitenza? A
motivo del tuo indurimento e del tuo cuore impenitente tu ti accumuli un tesoro d’ira per il
giorno dell’ira e della manifestazione del giusto giudizio di Dio» (Ep, ai Rom. II, 4-5).

***

Miei fratelli, Nostro Signore Gesù Cristo, in una parabola molto significativa, ha parlato
della longanimità di Dio e anche dei suoi limiti.
Il divino Maestro racconta: «Un uomo aveva un fico piantato nella sua vigna e, venuto a
cercarvi dei frutti, non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: - Ecco, sono già tre anni che vengo a
cercare frutti da questo fico e non ne trovo; taglialo, dunque; perché deve stare a ingombrare il
terreno? - Ma l’altro gli rispose: - Lascialo ancora per quest’anno...; se mai farà frutto, bene; se
no, lo taglierai» (S. LUCA XIII, 6-9).
Il proprietario dei fico accordò all’albero ancora un anno di dilazione dopo aver già atteso
tre anni. Il Signore attende forse da più decine d’anni, con pazienza, che portiate dei frutti; ma
nessuno può dire se la sua pazienza durerà un anno ancora. Essa dura però in questo momento;
e qualunque sia il passato che sta dietro a voi, non è ancora troppo tardi per convertirvi. Nella
nostra vita terrena molto spesso siamo costretti a dire: Adesso è tutto inutile; ormai è troppo
tardi. Ma il Dio delle misericordie ha esaudito la supplica del pentimento del malfattore
crocefisso con Lui; dunque non è troppo tardi per convertirci in vista della vita eterna, quando
pure i nostri capelli si siano fatti bianchi.
Fratelli miei, che la conversione del buon Ladrone ci consoli, ma che non ci renda
presuntuosi! La Sacra Scrittura parla di un malvagio convertito all’ultimo momento, perché
nessuno debba cadere nella disperazione; ma essa parla di uno soltanto, perché nessuno possa
mostrarsi presuntuoso.
Sarebbe un giocar d’azzardo la vita eterna, se si volesse contare unicamente sull’ultima ora;
se non si trascorresse ogni nostra giornata come se dovesse essere l’ultima; se ogni sera non
posassimo la nostra povera testa nelle mani del nostro misericordioso Padre celeste, come se non
ci dovesse essere più risveglio per noi.
Sarebbe grande presunzione.
Ora, non è presunzione ma una santa abitudine cristiana quella di domandare ogni giorno
nelle nostre preghiere la grazia di una buona morte. Preghiamo perché Iddio non ci lasci morire
in peccato mortale, perché alla nostra ultima ora Egli guidi accanto al nostro letto un santo prete
che rechi sopra il suo cuore il Cuore amante del Cristo, che deponga sulle nostre labbra il Corpo
sacro del Salvatore, e che diriga l’ultimo nostro sguardo verso la croce, verso Gesù Crocifisso.
Che la mia ultima preghiera quaggiù sia rivolta a Gesù in croce: «Signore, io mi sono
sforzato di essere, in questa mia vita terrena, quale Voi mi volevate secondo i vostri eterni
disegni... ed ora mi presento in pace davanti al vostro volto augusto e misericordioso. Amen».

XVIII.

Dio è immutabile

Una scena magnifica dell’Antico Testamento è quella che ci rappresenta Mosè mentre sale
il monte Sinai per andare a ricevere le due Tavole dei comandamenti scritti dalla mano di Dio.
Ai piedi della montagna, le mille e mille tende del popolo ebreo; sulla sommità della
montagna, Mosè, invisibile. Ma quando il Signore appare in mezzo alle nuvole e consegna a
Mosè i comandamenti, la montagna è tutta avvolta in una nube di fumo e «la gloria del Signore
apparve ai figli d’Israele come un fuoco divorante in cima alla montagna» (Esodo XXIV, 17).
Celebri pattori hanno perpetuato sulla tela questa scena grandiosa: la maestosa apparizione di
Dio in mezzo alla folgore e al tuono.
Ma come? domanda l’uomo d’oggi; forse che Iddio può montare in collera? Gli occhi di
Dio possono mandare dei lampi? La mano di Dio può sterminare? Non è tutto ciò una maniera di
parlare troppo umana? Ora diciamo: «Dio è in collera», ora: «E’ placato». «Il peccato lo
addolora» o «Si rallegra di coloro che si convertono». Un giorno «Iddio si volge verso di noi»;
un’altra volta «Distoglie da noi il Suo sguardo» e così via. Iddio è dunque mutevole? Ma è
un’assurdità pensare così di Dio, mi risponderete voi. E avete ragione.
Iddio, infatti, non è come l’uomo che ora è di buon umore e ora d’umore cattivo. Non è
l’uomo che, secondo il capriccio, è ora severo e ora indulgente. No, Iddio non è capriccioso, non
è schiavo delle proprie impressioni. E’ sempre lo stesso, è immutabile.
Ma se Iddio è immutabile, noi parliamo tuttavia di cambiamenti d’animo in Lui; diciamo
che Dio si rallegra della bontà degli uomini, che si affligge della loro cattiveria; che è irritato
contro il peccatore, ma perdona a chi fa penitenza; che esaudisce la preghiera del giusto, ma
distoglie lo sguardo dal malvagio. A buon diritto noi parliamo di tutto ció; e nondimeno Dio è
immutabile.
Com’è possibile questo? Verrei dedicare a tale studio la predica d’oggi. Vorrei
dimostrare in primo luogo che Dio è veramente immutabile; quindi vorrei esporre che
abbiamo il diritto di parlare di Dio «che si sdegna» o «che perdona», e chiedermi: Esiste in
Dio diversità di sentimenti e di passioni?

I.

Iddio è immutabile

1) Di tutti gli attributi divini, l’immutabilità è il meno comprensibile. Noi non


comprendiamo bene che Iddio sia «eterno», ma la nostra stessa ragione esige che veramente
sia così; Iddio non può aver principio. Se non afferriamo bene l’«onnipotenza» e
l’«ubiquità» di Dio, pure comprendiamo che bisogna che sia così. Ma l’«immutabilità»
divina è talmente contraria alla nostra essenza, alla personalità umana, che non possiamo
rappresentarcela.
Che cos’è mai l’uomo? Un cambiamento continuo: nasce, cresce e muore. In capo a un
minuto io non sono più quello che ero un momento fa; oggi non penso più a quello a cui
pensavo ieri; sono un cambiamento continuo, una velleità, un abbozzo, un capriccio. Ma non
io soltanto sono trasportato da questo moto perpetuo; lo sono ancora tutte le persone che mi
circondano. Torno nella mia città natale dove ho trascorso gli anni della mia infanzia, dove
conoscevo tanta gente, tutte le case, tutte le strade, e adesso? adesso la città stessa mi sembra
straniera e una folla di persone sconosciute passano davanti a Me. Io cambio, il mondo cambia
intorno a me, tutto cambia; Iddio soltanto è immutabile. Iddio non cambia porché è eterno e
infinitamente perfetto. Non è obbligato a pensare ansiosamente all’avvenire né ad architettar
progetti; poiché in Lui non vi è né avvenire né passato, ma solo un eterno presente.
Noi così diciamo e crediamo; lo comprendiamo noi anche? Niente affatto. Tutto quello che
io dico dell’immutabilità divina non è che un balbettare incerto, un simbolo. Allora non ne
dovremmo parlare? Ma sì, poiché se io posso soltanto parlarne simbolicamente, darò per ciò
stesso un magnifico slancio alle ali dell’anima mia.
Iddio è immutabile. Io non comprendo. Di conseguenza cerco delle indagni nel mondo
creato. Mi trovo ritto in cima alle montagne coperte di neve e sento passare il soffio
dell’eternità: città sorgono e spariscono, popoli arrivano e se ne vanno, ma la montagna resta
nella sua austera grandezza. Mi trovo sulla riva del mare immenso e immobile;
l’immutabilità divina gli rassomiglia forse? Per niente, per niente. Tutto cambia; la
montagna e il mare cambiano. Le montagne si consumano, le foreste vergini spariscono, le
acque dell’oceano si spostano. Niente dura nel mondo; tutto incomincia e finisce, tutto
germoglia e appassisce, tutto nasce e muore, tutto cresce e invecchia: Dio solo è immutabile
ed eterno.
2) Ma come sappiamo noi che Dio è immutabile?
Noi non lo sappiamo, perché in mezzo al muggir tumultuoso dell’onda rapida e
incessante del mondo risuona la parola divina: «Io sono il Signore e sono immutabile»
(MALACHIA III, 6); risuona la parola dell’apostolo San Paolo che ripete quella del Salmista:
«E tu, Signore, in principio gettasti i fondamenti della terra; e opera delle tue mani sono i cieli.
Questi periranno, ma tu durerai; e tutti invecchieranno come un vestito. E quasi veste li rivolterai
e saranno cambiati; ma tu, tu rimani ognora uguale a te stesso, e gli anni tuoi non verranno mai
meno» (Ep. agli Ebrei I, 10-12); risuona la parola dell’apostolo S. Giacomo il quale ripete che
in Dio «non esiste alcun mutamento, né alcuna alternativa di adombramento» (Ep. di S. GIAC.
I, 17).
Non ve ne può esistere, poiché Iddio possiede sempre la pienezza dell’essere; non può
dunque diventare né più saggio, né più buono, né più santo, né più potente, perché già possiede
tutte queste qualità in grado eminente, da sempre. Della sua azione e della sua volontà la Sacra
Scrittura dice che resteranno eternamente. Nostro Signore dice la medesima cosa: «Il cielo e la
terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (MATT. XXIV, 35).
Quando il viaggiatore visita le tombe e percorre i corridoi del Pantheon a Parigi, la guida lo
fa fermare a un dato momento e dice indicando un punto preciso: «Su questo punto si appoggia
l’immenso peso di questo gigantesco edificio». Ebbene l’unico punto d’appoggio dell’universo è
Dio, l’immutabile.
Quant‘è incoraggiante per me questo pensiero: Iddio è immutabile! Con quale sicurezza
posso affidarmi a Dio che non cambia mai! A Dio, che non ha capricci, che non si lascia guidare
dalle disposizioni e dalle impressioni del momento. Quale possente conforto per la nostra debole
volontà il trovare in mezzo all’incostanza della nostra natura e alle vicissitudini della vita
un’isola che domina i flutti impetuosi delle lotte di partito, delle passioni e degli odi! E
quest’isola è l’immutabilità divina.

II.

Ci sono passioni in Dio?

L’immutabità di Dio solleva tuttavia in noi una quantità di questioni e di obiezioni delicate
alle quali consacro la seconda parte di quest’istruzione. Se Iddio è realmente sempre il
medesimo, se è sempre identico a Se stesso, se è sempre immutable, a qual titolo possiamo noi
attendere che Egli esaudisca le nostre preghiere, che modifichi cioè i suoi primitivi disegni? E
ancora con quale diritto parliamo noi di passioni in Dio, di Dio che si affligge per i nostri pec-
cati, di Dio irritato contro il peccatore, e di Dio che si rallegra di ogni conversione? Sì
veramente: ecco delle questioni che bisogna esaminare con la massima franchezza.
1) La prima obiezione è dunque la seguente: Se Dio è veramente immutabile, perché
preghiamo? perché lo imploriamo? Se Dio non cambia né di volontà né d’idea, se è sempre
conseguente con Se stesso, se è sempre il medesimo nei suoi disegni e nelle sue vedute, il
cumulo di pregliere, di sacrifici, di mortificazioni con i quali l’uomo si rivolge a Dio e per
mezzo dei quali si sforza di modificare la volontà divina e il pensiero divino, ha veramente
un significato? In altre parole: se Dio è immutabile, possiamo noi comprendere la preghiera?
A noi che siamo in qualche modo rinchiusi nella stretta cornice del pensiero umano, questo
appare come un problema difficilissimo. Pure se riflettiamo che Dio non soltanto è immutabi1e,
ma ancora sa tutto, la questione è risoluta immediatamente. Non dobbiamo considerare la cosa
in modo infantile; allora soltanto la difficoltà potrà svanire d’un tratto.
Non abbiamo il diritto di pensare che Dio è, per così dire, tirato a destra e a sinistra
dalle nostre preghiere, e che noi possiamo mutare le sue intenzioni. Iddio sa tutto; sa dunque
in anticipo quello di cui abbiamo bisogno; lo sa prima ancora che abbiamo formulato le
nostre preghiere. Iddio che tutto sa, ha visto in anticipo quello che io, debole fanciullo, gli
chiederò nella calma di una preghiera serale, nel tal giorno, nel tal posto, in chiesa o a casa
mia; e fin d’allora ha fatto un posto, nel corso della mia vita, per la realizzazione e il
compimento della mia preghiera. S’Egli dunque ha sempre saputo quello che io gli domando
ora e se di conseguenza ha regolato in anticipo il piano della mia esistenza, non è davvero
ch’ Egli abbia mutato le sue vedute, per quanto, usando un’espressione umana, noi sogliamo
dire: «Adesso Iddio ha esaudito la mia preghiera». Per me, è come se io fossi esaudito
«adesso», cioè come se avessi fatto modificare i pensieri e i disegni divini: in realtà Iddio
sapeva anticipatamente quello che io gli avrei domandato durante la mia vita, e
conseguentemente ha disposto in anticipo il corso della mia esistenza.
Iddio non si decide via via e non agisce come fanno gli uomini; Iddio vede tutto; con uno
sguardo solo vede tutti gli avvenimenti del mondo. Egli regola tutto con una decisone sola e fa
regnare un’armonia perfetta tra lo scopo e i mezzi, tra ciascun essere e ciascun avvenimento.
Nessun episodio può prender posto nella storia universale, nessuna preghiera può uscire da
labbra umane, senza che Iddio li abbia previsti, senza che, in anticipo, Egli abbia organizzato in
conseguenza di essi il cammino del mondo fin dal primo istante della creazione. Iddio ha tutto
previsto, tutti i bisogni dell’umanità, tutte le sue richieste; non ha dunque bisogno di migliorarne
o di modificarne il cammino.
Possiamo dunque continuare tranquillamente a rivolgere a Dio le nostre preghiere, le nostre
domande e le nostre suppliche. Quant’è più cristiano e più dolce, quanto è più umano rivolgervi
a Dio in ogni circostanza piuttosto che, nel dolore, abbandonarci al furore fatalista, attendere
cinicamente la nostra rovina!
Un veliero che, salpato dal Brasile, si dirigeva verso la Spagna, fu colto nella sua rotta
da una tempesta così violenta che minacciava ogni momento di farlo affondare. Sulla nave si
trovavano alcuni religiosi che si misero a pregare; vi si trovavano pure degli increduli che
presero a canzonarli; infine erano pure a bordo degli uccelli che, proprio nel furore della
tempesta, fischiettavano e cantavano allegramente. Voi vedete ben come lo stesso
avvenimento produceva tre diversi effetti. Gli uccelli cantavano nella sciagura, perché sono
privi di ragione; gli increduli si burlavano, perché mancanti di fede; ma i cristiani pregavano
perché avevano e la fede e l’intelligenza. Senza dubbio credevano nell’immutabilità di Dio,
ma sapevano pure che Egli aveva previsto il valore della loro preghiera nel corso della loro
vita.
2) Quest’idea ci conduce a dare una risposta a un’altra obiezione. Se Dio non cambia
mai, com’è che noi possiamo dire ora che Egli «è irritato» contro di me, perché ho
commesso un peccato grave, ora che perdona le mie colpe e «mi ama» di nuovo, se mi vado
a confessare? Ieri era irritato contro di me, oggi mi ama; bisogna dunque che Iddio cambi,
bisogna ammettere che vi siano in Lui sentimenti mutevoli e vari.
Ma chi pensa in tal modo ragiona con un’intelligenza umana assai limitata. Poiché la realtà
non è altro che questa: Se dico che Iddio è irritato contro di me e poi dico che mi ama, Iddio non
si è tuttavia mutato. Chi ha cambiato dunque? Io. Io che ieri amavo il peccato mentre oggi me ne
pento, e quantunque sia lo stesso immutabile Iddio che mi guardava ieri e che mi guarda oggi,
pure il risultato di questo sguardo sarà oggi diverso perché sono io che ho cambiato.
Già Sant’Agostino diceva: «La medesima luce stanca un occhio debole mentre rallegra
l’occhio sano» (Serm. XXII, 6); non è dunque la luce che è cambiata, ma l’occhio.
Se esco al sole, sento caldo; se mi metto al riparo dal sole, sento freddo; due effetti opposti
del medesimo sole: ma il sole è forse cambiato?
Se i raggi del sole battono in pieno sulla cera dura, questa diventa molle; se colpiscono un
oggetto molle, questo si solidifica; due effetti opposti del medesimo sole: è forse cambiato?
Se verso dell’olio sul fuoco, il fuoco si estende; se ne verso sull’acqua spumosa, la
spuma scompare: è l’olio che è cambiato?
E’ cosi che bisogna pensare di Dio.
Iddio rimane sempre lo stesso, anche quando io sono cattivo, ma il suo sguardo diventa
per me uno sguardo di collera. Quando mi pento del mio peccato, il suo sguardo diventa uno
sguardo di perdono. Proprio allo stesso modo che i medesimi raggi del sole hanno un effetto
distruttore quando agiscono sopra muffe o microbi, mentre all’opposto hanno un effetto
vivificante quando agiscono sui bocci i cui petali formeranno la profumata rosa, così il Dio che
non cambia mai mi guarda sia che l’anima mia sia coperta di muffe, sia che rassomigli al boccio
che si schiude; ma nel primo caso io affermo che è «irritato» contro di me, vale a dire che non
può ridestare dentro di me la vita; nel secondo caso dico che «mi ama», che «è contento» di
me, cioè che può agire in me.
Dunque che io sia buono o cattivo, Iddio, immutabile, non cambia; é soltanto in me che
cambia l’azione divina. Anche del sole noi diciamo che oggi splende mentre un altro giorno
non risplenderà; eppure, in realtà, il sole splende sempre; sono le nubi che spesso
impediscono ai suoi raggi di arrivare fino a noi. L’amore di Dio risplende sempre, e
risplenderebbe in modo uguale per tutti gli uomini; ma se la nube del peccato discende
sull’anima, l’amore di Dio non può arrivare fino ad essa. Di conseguenza l’anima si
raffredda, s’incupisce, si oscura, perde la pace e noi diciamo che «Dio è irritato contro di
noi». Mentre invece non lo è. Iddio, immutabile, non cambia ogni minuto. Egli è il sole che
brilla con una bontà celeste, con un incessante amore. Non è Dio che cambia, bensì l’uomo
nei riguardi di Dio. Non è Dio che distoglie il suo sguardo dal peccatore, bensì il peccatore
che si scosta da Dio. E quando noi domandiamo, quando preghiamo, quando facciamo dei
sacrifici, non lo facciamo come se Iddio ne avesse bisogno, ma perché noi abbiamo bisogno
di questa lotta per maturare l’anima nostra; tutto ciò infatti ci conduce al sole eterno,
immutabile, dell’amore divino.
3) Dopo questa considerazione possiamo tentare di rispondere all’obiezione più difficile
relativa alla «collera divina».
a) Vi sono molti che si ribellano e protestano al solo pensiero che si possa parlare della
«collera di Dio», della «vendetta di Dio» o dei «castighi divini».
No, è un linguaggio troppo umano, essi dicono, non si ha il diritto di parlare in tal modo
di Dio.
E’ fuori dubbio, fratelli, che in tali proteste c’è parte di verità. Non è quasi una specie di
bestemmia, un tentativo di abbassare Iddio al livello dell’uomo, questo parlare di collera, di
gelosia, di vendetta di Dio? Tutto dipende dall’intenzione che mettiamo nell’impiegare
questi modi di dire. Essi infatti possono inculcarci il comandamento incrollabile di Dio, che
prescrive come l’uomo non debba scostarsi dallo scopo che gli è stato fissato, e questo scopo
è di dare all’anima nostra la rassomiglianza divina.
Se comprendiamo così la cosa, non saremo scandalizzati da quest’espressione dei
«castighi divini», perché «il Dio che punisce» e «il Dio che ama» appariscono davanti a noi
come un solo e medesimo Dio. Noi possiamo dunque parlare con la medesima tranquillità
della «collera di Dio», che è unicamente irritato contro di noi, perché molto ci ama. Noi
possiamo parlare della «vendetta» divina, perché Egli ci minaccia dei suoi fulmini,
unicamente per attirare la nostra attenzione sui nostri peccati e così convertirci.
Allora le piú spaventose catastrofi, quelle che abbiamo l’abitudine di chiamare «castighi
di Dio» saranno una prova dell’amore di Dio che ci vuol condurre a una vita migliore.
Lo «Jahvè» dell’Antico Testamento è tutt’uno col «Padre celeste» del Testamento
Nuovo. E se l’idea di Dio presentata dall’Antica Legge resta così in arretrato rispetto a
quella esposta dal Nuovo Patto, è perché nella prima l’idea del Dio che punisce lasciava
nell’ombra quella del Dio che ama, e perché l’Antico Testamento non ha dato sufficiente
rilievo al fatto che, in Dio il castigo e l’amore sono uniti nel tempo e che, in Lui, lo stesso
atto che costituisce una punizione è ad un tempo un atto d’amore. In una parola, il Dio che
s’irrita è lo stesso del Dio che ama.
b) Da questa convinzione deriva una conclusione molto importante per l’anima nostra.
E’ il continuo sorriso, la continua luminosità dell’anima cristiana.
Per chi pensa in tal modo di Dio, la vita non può essere un timore perpetuo, una
perpetua angoscia. Io vi vedo sorridere sempre, diceva Sant’Ignazio di Loyola, il fondatore
della Compagnia di Gesù, e me ne rallegro». Difatti chi s’è consacrato a Dio non ha alcun
motivo di essere triste, ma piuttosto ne ha d’essere lieto.
Come sono confortanti queste parole! Sant’Ignazio non conosceva dunque le austere e
impressionanti verità cristiane? Non credeva nel Giudice eterno che esige da ciascuno conti
severi? Non conosceva il Dio che s’incollerisce e castiga? Ma certo! E con tutto ció proclama
che chi si consacra seriamente a Dio non ha ragione di temere né di vivere nell’ansietà.
E’così che comprendiamo il perpetuo sorriso dei grandi santi, sorriso luminoso come un
raggio di sole. E’ così che comprendiamo Santa Elisabetta la quale d’un religioso dalla faccia
arcigna e sgradevole diceva che aveva l’aria di voler far paura a Dio.
Permettetemi di rivolgere qualche parola affettuosa e confortante alle anime trepide che
lavorano con buona volontà nel condurre una vita che piaccia a Dio, che prendono sul serio tutti
i loro doveri, che sono benevoli e caritatevoli verso il prossimo e che tuttavia non riescono a
difendersi contro lo scrupolo e la perpetua paura di essere in peccato, di aver abbandonato Iddio,
di essere dannate.
Voi, fratelli, che siete continuamente nell’ansia e nel timore, voi che tremate davanti a
Dio, non vogliate diventare una ragione di discredito per la vita cristiana. Voi che continuamente
tremate, voi che vi logorate nel farvi di Dio delle idee meschine, leggete dunque le parole
sublimi di Nostro Signore al VI capitolo del Vangelo secondo San Giovanni. Leggetele e siate
più coraggiosi: «La volontà del Padre che mi ha mandato è che io non perda nulla di quanto Egli
mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. E questa è pure la volontà del Padre che mi ha
mandato, che chiunque conosce il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna» (S. GIOV. VI, 39-
40). Ora l’anima vostra non è forse impregnata da questa forza vivificante del misericordioso
amore divino che si diffonde da queste parole, proprio come l’aria pura e vivificatrice che viene
da una foresta di pini? Ah! davanti a un tal Padre non ha proprio motivo di tremare chi vuol
essere tutto Suo.
E’ vero: Iddio è un Giudice severo, un Giudice che tutto vaglia, un Giudice che punisce; ma
fintanto che io sono in vita, Egli non è solamente il mio Giudice, è anche il Padre
misericordioso, al quale io posso sempre dire col pubblicano pentito: «Signore, abbi
misericordia di me peccatore» (LUCA XVIII, 14), e verso cui posso sempre rivolgermi con le
parole del buon Ladrone: «Signore, ricordati di me...» (LUCA XXIII, 42).
Miei fratelli, perché avete tanta paura del Dio che s’irrita e punisce? Nessuno sarà mai
dannato se non lo vuole. Osservate i comandamenti di Dio, compite i doveri del vostro stato, e
non avrete allora nulla da temere. Poco importa dove passate la vostra vita, importa come la
passate. Se Iddio vi ha dato cinque talenti, ve ne reclamerà dieci; se ve ne ha dati due, ve ne
ridomanderà quattro; se ve ne ha dato uno soltanto, dovrete comparire con due davanti a Lui.
Non ha motivo di aver paura chi lotta e combatte, trasformando la propria vita in una guerra
contro il peccato, neanche se, comprendetemi bene, di tanto in tanto incespica nella fatica della
mischia; può soltanto aver paura chi persiste in una vita di godimento; chi, dopo il peccato,
compiacendosi della propria caduta, ha tutta l’aria di ridersene e dice: «Ebbene! che dunque mi è
accaduto di male?» (Eccli. V, 4). Sì, chi vive in tal modo tema pure il Dio irritato che punisce.

***
Miei fratelli, uno dei più grandi pensatori dell’umanità, sant’Agostino, che, per trentatré
anni, non avendo ricevuto il battesimo, si smarrì sul cammino del male, descrive in un modo
incisivo la via percorsa nell’uscire dalle tenebre del paganesimo per arrivare alla luce della fede:
«Io domandavo alla terra: sei tu il mio Dio? E la terra rispondeva: no, non lo sono. Interrogavo il
mare e i suoi abissi: Noi non siamo il tuo Dio; cercalo in alto in alto, cercalo al di sopra di noi.
Lo domandavo al vento, all’aria e a tutti i suoi abitanti, e dicevano: Non siamo il tuo Dio. Cerca
al di sopra di noi. Interrogavo il sole, la luna, le stelle: Siete voi il mio Dio? E tutti rispondevano:
Cerca più in alto, cerca al di sopra di noi. Gridai allora a tutti gli esseri che i miei sensi potevano
percepire: Se non siete voi il mio Dio, parlatemi di Dio. Ed essi proclamarono ad alta voce: E’
Lui che ci ha creati. Sali più in alto. Cerca al di sopra di noi».
E allora i pensieri di Sant’Agostino si elevarono verso il cielo, al di sopra di tutte le cose
create, fino al trono di Dio, e in una santa preghiera si prostrò davanti al volto maestoso
dell’eterno e immutabile Signore.
Ah! che felicità per me poter appoggiarmi sul Dio onnipotente! Le incessanti
trasformazioni del mondo ci scuotono tutti. Gli uomini nascono e muoiono; arrivano sulla terra e
scendono nella tomba. Vi sono popoli che sorgono e popoli che scompaiono... Non importa. «Il
mondo passa e così pure la sua concupiscenza. Ma chi fa il volere di Dio dura in eterno» (I Lett.
di S. GIOV. II, 17). Iddio è il principo ed è il fine, e la vita di questa terra non è che un episodio,
un breve intermezzo, che seguiterà poi nel regno eterno di Dio, sempre uguale a Se stesso e che
non può cambiare.
«Coloro che confidano nel Signore sono come il monte di Sion; né vacillerà in
eterno chi abita in Gerusalemme» (Salmo CXXIV, 1), dice il Salmista. Con una fedeltà
incrollabile io resterò avvinto a Dio nelle vicissitudivi della vita terrena, per poter in seguito
trovarmi davanti a Lui come una montagna incrollabile, per tutta l’eternità. Amen.

XIX.

Dio è eterno

Fra le montagne più alte della Svizzera, due ve ne sono che drizzano le loro teste nevose al
di sopra delle altezze: la Jungfrau e il Finsteraarhorn; tutt’e due superano i quattromila metri di
altezza.
In un libro dello scrittore russo Tourgueniew, le due montagne s’intrattengono in
un’nteressante conversazione.
Al di sopra di esse sta il firmamento, muto, dai riflessi verdastri; al di sotto, un freddo che
morde e la neve scintillante. Sotto la neve, dei cumuli di pietre coperti di ghiaccio. Un giorno la
Jungfrau dichiarò al suo vicino:
Tu sei più grande di me e vedi più lontano. Dimmi dunque: che cosa c’è di nuovo laggiù?
Cupe nuvole coprono la terra, risponde il Finsteraarhorn.
Dopo qualche migliaio d’anni, che tutt’insieme fanno forse un minuto nella vita
dell’universo, la Jungfrau chiede nuovamente:
Vedi qualche cambiamento, adesso?
In basso tutto è come al solito, replica l’interpellato. La buia foresta si è fatta vecchia, e
così pure le pietre grige; vedo soltanto correre di qua e di là una quantità d’insettucci a due
gambe.
Ed ora che c’è di nuovo, s’informa la Jungfrau alcune migliaia d’anni più tardi.
Sempre le stesse cose; soltanto il numero degli insetti va facendosi più considerevole.
Vi sono mutamenti? interroga un’altra volta dopo mille anni ancora.
Mi sembra di vedere meno insetti, dichiara il Finsteraarhorn. Tutto si rischiara. Le acque si
sono raccolte; le foreste sono diventate più rade.
Nell’intervallo altre migliaia d’anni trascorsero, fin che la Jungfrau cominciò a chiedere:
E adesso?
Adesso io vedo dovunque un gran bianco, risponde il Finsteraarhorn. Dappertutto ghiaccio
e neve. Tutto è gelato. Non c’è che da dormire tranquilli.
E le gigantesche montagne ripiombano nel loro sonno; il firmamento scintillante si spegne
per sempre; tace ogni cosa, per sempre, sopra la terra.
Questa, la conversazione delle due montagne nell’opera dello scrittore russo. E noi uomini
sentiamo un brivido che passa in ogni nostra fibra: E’ un sogno, o una realtà? E’ frutto di
fantasia o si tratta di una verità in via di realizzazione? Noi, gli «insetti a due gambe», ci
dimeniamo, ci agitiamo, costruiamo, distruggiamo, ci bisticciamo, ci ammazziamo, ci facciamo
la guerra... e sempre... da secoli... da magliaia di anni. Ma un giorno tutti gli orologi si
fermeranno, un giorno tutte le migliaia di anni saranno esaurite, un giorno il tempo non esisterà
più. Sì, tutto passerà ma Dio vive eternamente.
L’eternità divina. L’eternità di Dio è l’ultimo tocco di pennello che vorrei dare all’effigie
del nostro Padre celeste. Ho serbato questo attributo divino per la fine della mia serie
d’istruzioni, per servire di cornice al quadro che ho tracciato di Dio.
L’eternità divina. I. Che cosa diciamo dell’eternità di Dio? II. Che cosa ci dice l’eternità
di Dio?
La nostra prima domanda è dunque la seguente:
I.

Che cosa diciamo dell’eternità di Dio?

A) Se volessi rispondere brevemente in modo negativo, dovrei dire: Iddio è eterno, vale a
dire: il tempo non esiste per Lui; l’Essere divino non ha né principio, né fine, né successione. In
poche parole, come abbiamo appreso dal catechismo, Iddio non ha avuto principio e non finirà
mai; è sempre stato, e sempre sarà.
Se, all’opposto, volessi rispondere in modo positivo, dovrei dire brevemente: Iddio è
eterno, vale a dire che è il Creatore del tempo e che tutto quello che vi è di positivo nel
tempo si trova totalmente in Lui. In altri termini: Iddio possiede nello stesso punto,
perfettamente e completamente, una vita senza fine.
«Prima che fossero fatti i monti e formata la terra e il mondo, da tutta l’eternità e per
tutta l’eternità, o Dio, sei tu» (Salmo LXXXIX, 2), dice il Salmista. In un altro salmo,
esprime così lo stesso pensiero: «Dal principio, o Signore, tu fondasti la terra, e opera delle
tue mani sono i cieli. Essi periranno, ma tu sei immutabile; essi invecchieranno tutti come un
vestito. E come un mantello li cambierai, e saranno cambiati; ma tu sei sempre lo stesso e gli
anni tuoi non verranno meno» (Salmo CI, 26, 28). Iddio «era, è, e sarà » (Apoc. I, 8) e «vive
eternamente» (Apoc. V, 14).
Iddio è dunque al di sopra del tempo. Non vi è tempo in Lui, né passato né futuro. Egli è un
continuo presente.
Io sento bene, fratelli, che questo concetto non forma che l’ossatura, le basi della risposta
desiderata e che per far apparire con una più grande chiarezza la figura del Dio eterno sono
costretto a frammentare la mia risposta.
B) Cerchiamo dunque di vedere particolareggiatamente quello che vogliamo dire quando
parliamo dell’eternità divina.
Prima di rispondere sarà bene che facciamo qualche considerazione filosofica.
Una delle caratteristiche particolari dell’uomo è la sua tendenza a ricercare gli
avvenimenti passati e a scrutare gli avvenimenti futuri, allo scopo di formarsi in tal modo
una veduta d’insieme comprendente tutte le epoche. Questa tendenza è una manifestazione
del nostro sforzo per rassomigliare a Dio.
Ma che cosa sappiamo noi del passato, e che cosa indoviniamo dell’avvenire? Poco,
pochissimo. Soltanto Iddio possiede una veduta completa dell’universo, poiché non
solamente vede quello che si trova nello spazio, ma ancora quello che succede nel tempo.
Dunque allorquando noi diciamo che Iddio è eterno, vogliamo dire che Dio è il Padrone e il
Creatore del tempo, di tutto ciò che esiste e di tutti gli avvenimenti del mondo. Allo stesso
modo che Egli è dappertutto, perché ha creato lo spazio (posto che Egli ha creato qualche
cosa), Egli è pure sempre, perché ha creato il tempo (posto che con la creazione s’è prodotto
un avvenimento sul quale si può misurare il tempo).
Ed ora cerchiamo di farci un’idea dell’eternità di Dio che non ha né principio né fine, e
pel quale il tempo non esiste.
1) Iddio eterno non ha né principio né fine, ma possiede sempre la pienezza dell’essere.
a) Iddio eterno non ha principio.
Qualunque sia l’argomento delle nostre conversazioni nel mondo creato, noi siamo
costretti a dire a proposito di ogni cosa: dal principio alla fine, dalla nascita alla morte. Per
l’uomo si dice: dalla culla alla tomba. Per una torre si dice: dalla base alla cima. Del mondo
intiero si dice: dalla creazione al Giudizio finale. Non facciamo che una sola eccezione: ed è
quando parliamo di Dio. La Sacra Scrittura così parla di Lui: «Da tutta l’eternità e per tutta
l’eternità, o Dio, sei tu» (Salmo LXXXIX, 2). Nel celebrare, il sacerdote canta: «per omnia
saecula saeculorum», «per tutti i secoli dei secoli» E il cristiano credente a Lui rivolge questa
preghiera: «Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo, come era in principio, ed ora e
sempre nei secoli dei secoli».
Iddio è l’eterno che è sempre stato prima che alcuno esistesse; che non ha avuto principio,
perché non fu fatto da alcuno, ma è stato sempre, è, e sarà; che non conobbe infanzia, né
giovinezza, né vecchiaia, ma fu sempre identico a Se stesso nella pienezza della perfezione; che
non ha avuto principio, perché è il principio di tutto, come Egli dice di Se stesso in Isaia: «Dal
principio ordinai tutte le generazioni; io, il Signore, il primo e l’ultimo son io» (ISAIA XLI, 4).
b) Il Dio eterno che non ha fine.
Iddio non è soltanto il principio, ma è pure la fine; come Egli ancora dice in Isaia: «Io sono
il principio e la fine (ISAIA XLIV, 6). Ma se Iddio è il principio e la fine di tutte le cose, ne
consegue che tutto ciò che da Dio ha ricevuto l’esistenza, in una parola il mondo intero, ritornerà
un giorno verso di Lui. Quando? Quando il mondo creato avrà raggiunto quel fine per il quale è
stato creato: la gloria del Creatore: «... affinché Iddio sia tutto in tutte le cose» (I Ep. ai Cor. XV,
28).
c) II Dio eterno che possiede sempre la pienezza dell’essere.
«Io sono Colui che sono» (Esodo III, 14), Egli ha detto di Se stesso. Nessuno può dare a
Dio, nessuno può togliergli nulla. Nessuno può farlo più grande, nessuno può farlo più piccolo.
Iddio non può né crescere, né diminuire. Egli non ha bisogno di nulla, non manca di nulla. Iddio
è in Se stesso e di Se stesso l’eterna perfezione. S’incalzano i flutti omicidi del diluvio, ma tra le
nubi e i baleni si erge il monte Sinai; risuonano le trombe del Giudizio finale, e Dio resta sempre
Colui che è, e davanti a Lui mille anni sono come un istante.
Ecco il Dio eterno che non ha né principio né fine.
2) Ma l’eternità divina significa altro ancora: Davanti all’eternità divina il tempo non
esiste.
Che cosa vuol dire: davanti a Dio il tempo non esiste? Bisogna anzitutto ch’io sappia che
cosa sia il tempo.
a) Che cos’è il tempo? Si tratta forse di qualche cosa di tangibile, come un oggetto?
Certamente no. E’ un oceano dove il mondo si trovi a galleggiare? E’ un fiume impetuoso che
tutto trascini verso l’eternità? No. Tutte queste non sono definizioni esatte. Noi ci avviciniamo
un po’ alla verità dicendo che il tempo non è una cosa, ma la relazione degli avvenimenti tra
loro: qualche cosa è successo, oppure qualche cosa succederà. E forse comprenderemo ancor
meglio dicendo: Il tempo è la successione ininterrotta delle cose, dal presente al passato.
«Tempus rerum imperator», dice un vecchio proverbio, «il tempo è il padrone delle cose».
Sì, ed è un padrone crudele: senza tregua né riposo, spinge tutto in avanti... nessuna sosta,
nessuna stabilità, non un minimo di sollievo... tutto si muove, si tramuta e scompare. E al di
sopra di questo movimento continuo, al di sopra di questa instabilità agitata e febbrile, al di
sopra di questo passato che fugge, s’erge il Dio eterno; il Dio «nel quale non esiste alcun
mutamento né alcuna ombra di successione» (Lett. di San GIACOMO I, I7). «Io sono il
Signore e sono immutabile», Egli dice di Se stesso per bocca del profeta (MALACCHIA III,
6). «Non habet tempus per quem factum est tempus», dice sant’Agostino, «Non è sottomesso
al tempo Colui dal quale il tempo è stato fatto».
b) Ma io posso ancora comprendere altrimenti il tempo. Io posso comprenderlo come una
durata, come l’età delle cose.
E se lo comprendo in tal modo, allora il tempo di tutte le cose di questo mondo è limitato,
la vita è breve. E’ breve, sì, la vita dell’uomo, è tanto breve! Ci sono delle stelle la cui luce, in
causa della lontananza vertiginosa, impiega migliaia e migliaia di anni per arrivare fino alla
terra; e tuttavia la durata del loro cammino è limitata. Ci sono vette coperte di neve che si
alzano verso il cielo da migliaia e migliaia di anni, quando ancora nessun essere vivente era
sopra la terra, e tuttavia anche quegli ammassi di granito si sgretolano, i mari si disseccano a
poco a poco... tutto passa. Ma nel turbine del passato domina l’eternità divina..
c) Io posso ancora considerare altrimenti il tempo. Posso dire: il tempo è quell’atmosfera
che ci sta intorno, quello stato di spirito che noi introduciamo in noi stessi e che ha per risultato di
farci dire di noi stessi che «siamo i figli del nostro tempo».
In realtà, noi non siamo soltanto i figli dei nostri geniiori, ma ancora quelli della nostra
epoca; noi siamo legati al nostro secolo da migliaia e migliaia di figli. «Tale il tempo, tale la
gente», dice un proverbio tedesco. E davvero noi che viviamo tra continui mutamenti in piena
evoluzione dell’umanità, stentiamo a constatare quanto il nostro modo di pensare, di agire, di
comportarci sia penetrato dall’atmosfera dell’epoca nostra. Quanto cambia il mondo intorno a
noi da un secolo all’altro! Quanto è difficile, e forse quasi impossibile, ai vecchi di
comprendere i giovani! «Non sono più del loro tempo», dicono i giovani parlando dei vecchi e
li guardano come avanzi d’un’altra età. Ma al di sopra dello spirito del secolo e del
cambamento, al di sopra di ogni relazione del tempo vi è il Dio eterno, che ci comprende tutti, e
vecchi e giovani, che non muta col tempo e che col tempo non sarà mai travolto.
Possiamo forse dire che Dio è «vecchio», oppure che è «giovane»? Possiamo dire e l’uno
e l’altro, ma soltanto all’umana, in rapporto a noi stessi. Anche la Sacra Scrittura dice che Dio
è vecchio (DANIELE VII, 9), perché esiste anteriormente a milioni di anni; ma Egli è pure
giovane, più giovane d’un bimbo appena nato, perché dalla vita di quest’ultimo qualche ora è
già scomparsa, mentre nulla sparirà mai da Dio.
Cosa strana: se vogliamo determinare l’età di un uomo, che cosa facciamo? Indichiamo il
numero di anni che il tempo ha già portati via dalla sua vita; «un uomo di trent’anni» vuol dire
che già trent’anni della sua vita appartengono al passato. Ma non è così che determiniamo l’età
di Dio. Di Lui diciamo: è eterno, cioé v’è in Lui ad ogni istante la pienezza dell’esistenza.
Ecco tutto ciò che affermiamo, quando riconosciamo che Dio è eterno.
Ed ora possiamo noi affermare di sapere completamente quali sono le immense profondità
nascoste in seno all’eternità divina?
Niente affatto. Tutto quanto abbiamo detto fin qui, cioé tutta la bellezza, tutta la grandezza
che abbiamo incontrato nel mondo creato, non è che un filo di luce della grandezza eterna di
Dio, un fil di luce che s’insinua tra le fessure di una finestra. Che gioia per me, povero e debole
uomo sempre incalzato da molteplici cure, il poter calmare i miei nervi doloranti e sovraeccitati
nella santa pace dell’eternità divina! Miei fratelli, voi che l’andar febbrile della vita schianta o
consuma, accorrete per riposarvi sul placido cuore dell’eterno Iddio.
Ma eccomi giunto alla seconda domanda della mia istruzione: Che cosa ci dice l’eternità
divina? quale forza, quale divina consolazione ci dà?

II.

Che cosa ci dice l’eternità di Dio?

Chi spesso pensa, e con amore, al Dio eterno, già può attingere da questo solo pensiero una
forza di resistere contro le tentazioni e una vera consolazione nelle vicissitudini del mondo.
1) Il pensiero dell’eternità di Dio è una forza nelle tentazioni. L’oceano di felicità infinita
che colma l’eternità divina sarà un giorno cosa nostra, nostro bene, se passiamo fedelmente la
nostra vita terrena. Non varrà dunque la pena, per questo, di restar fedele nel momento della
tentazione? Non sarebbe follìa sacrificare quella felicità al godimento breve e futile promesso
dal peccato?
Tommaso Moro, il grande consigliere inglese, fu condannato a morte a causa della sua
fedeltà alla fede cattolica. Il re d’Inghilterra, Enrico VIII, aveva ripudiato la moglie legittima e
sposata un’altra donna. Il cancelliere rifiutò di riconoscere come vero matrimonio quella
colpevole relazione del monarca, e rifiutò pure di considerare Enrico VIII come capo supremo
della Chiesa d’Inghilterra. Fu quindi rinchiuso nella Torre di Londra e condannato a morte. Il
Sovrano cercò dapprima di spezzare con le sofferenze del carcere la resistenza del cancelliere
che era rispettato in tutto il regno. Gli venne mandata perfino la sua preferita figliola;
Margherita, per deciderlo a cedere. Ma a nulla valse. Finalmente prima dell’esecuzione della
sentenza capitale, venne la moglie stessa a trovarlo nella prigione e lo supplicò con lacrime di
aver pietà della famiglia e di salvarsi la vita per amore di lei. Tommaso Moro le domandò
placidamente: Dimmi, quanto tempo ci resterebbe ancora da vivere insieme? La moglie rispose:
Potrebbe restarci ancora una ventina d’anni. Vedi, replicò il marito, se tu avessi detto: almeno
mille anni, sarebbe stato, qualche cosa. Ma per vent’anni dovrò io forse sacrificare l’eternità?
E Tommaso Moro andó incontro alla morte. Il pensiero dell’eternità lo aveva preservato
dalla caduta. Ah! se anch’io pensassi frequentemente all’eternità divina! Quaggiù si parla del
«mare infinito», delle «montagne eterne»; ma tutto ció, voi lo sapete, non è che esagerazione
umana. Di eterno non v’è che Uno solo: Iddio, del quale così parla la Sacra Scrittura: «Prima
che fossero fatti i monti e formata la terra e il mondo, da tutta l’eternità e per tutta l’eternità,
o Dio, sei tu» (Salmo LXXXIX, 2).
Ma la montagna e il mare sono per me un saggio avvertmento. In forza del mio carattere,
della mia onestà, della mia virtù, bisogna che io stia incrollabile, immutabile come le montagne
«eterne», e allora glorificherò io pure il Dio eterno. Infuriano le tempeste, e la montagna non si
muove; cade il fulmine, e la montagna non si muove. Ai suoi piedi turbinano la schiuma e il
fango della vita quotidana, ma il fango non arriva alle sue cime; come un altare dal candor di
neve, la montagna s’erge verso il cielo.
E l’infinito mare! Quanti popoli ha sostenuto sopra i suoi flutti! I Fenici, i Cartaginesi, i
Greci, i Persiani, i Romani, i Normanni, i mercanti di Venezia e di Genova, gli esploratori, i
missionari... e dove sono? Il mare infinito continua la sua canzone. Io mi trovo sulla spiaggia...
Una furiosa tempesta sferza l’enorme massa liquida e solleva la superficie delle onde, ma la
superficie soltanto: giù giù nel profondo regna la calma. Come dovrebbero sorgere dalle
profondità della mia vita, dalla mia speranza nell’eternità divina, fiducia e pace, anche quando le
tempeste della vita agitino la superficie.
Ecco, fratelli, quello che c’insegna l’eternità di Dio.
2) Ma essa dà pure una consolazione più elevata: consolazione nelle vicissitudini del
mondo che passa.
A capo d’anno io metto un nuovo calendario sopra la mia scrivania. I giorni vi si
succedono dal gennaio al dicembre; vi trovo scritto in anticipo, all’ora esatta e al minuto
preciso, quando il sole e la luna si levano e quando si coricano. Ma i foglietti del calendario
non dicono niente di me: né io posso annotarvi quello che mi succederà il mese venturo e
nemmeno quello che mi succederà domani; neppure so se domani sarò ancora in vita.
Ah! come comprendo, davanti all’eternità divina, la mia instabilità di effimero insetto!
E quando, d’anno in anno, io constato con terrore che la vita mi sfugge, quando giorno per
giorno vedo che il mondo intiero è pieno di rovine e rassomiglia a un grande cimitero; quando il
timore della morte mi rende malinconico, che sollievo per me alzare gli occhi verso l’eterno
Iddio!
Come trema il povero pulcino quando scorge sopra di sé lo sparviero! Di che teme? Teme
l’artiglio assassino; se ne è colto, è finita per lui. Come trema la foglia quando il vento d’autunno
soffia tra i rami che si vanno sguarnendo! Perché tanto sgomento? per il vento che infuria,
poiché se la travolge è finita per lei. E come trema l’uomo quando la morte batte alla sua porta!
Perché trema? Perché teme l’istante doloroso della sua fine. Tutto passa, tutto scompare... ma
Dio vive sempre, Dio solo è eterno. Dio solo è grande, perché Egli soltanto è eterno.
C’è qualcun altro che è grande... E’ grande l’uomo che sa tenersi stretto al Dio eterno, e che
imprime quaggiù nell’anima sua un’immagine sempre più bella di Lui.
Commovente e sublime contrasto: il Dio eterno e l’uomo d’un istante.
Il Dio eterno. In una pace che ignora il tempo Egli sta davanti a’ miei occhi: in una pace
che nasconde una pienezza di vita e una ricchezza d’atti infiniti. Miliardi d’angeli e d’anime
umane trasfigurate cantano le sue lodi attraverso una catena infinita di secoli, «per omnia saecula
saeculorum».
Iddio eterno.
E io sono qua, io, l’uomo d’un istante, gettato in mezzo alle onde tumultuose del tempo.
Che cos’è la mia vita? Un minimo risucchio sull’oceano senza rive del tempo. Una foglia che
cade nell’immensa foresta vergine. Un minuscolo grano di sabbia nel deserto illimitato. Che
cos’è la mia vita? «E’ come l’erba che spunta al mattino e nel mattino cresce e si copre di fiori;
ma alla sera ricade, arida e senza vita». Ciascuno dei miei minuti è un incresparsi d’acqua,
ciascuno dei miei giorni è un’onda, ciascuno dei miei anni è una parte del fiume che un giorno,
al momento della mia morte, si getterà nell’oceano sconfinato dell’eternità.
Quando? Io non lo so, ma questo non ha importanza. E che altro avrà importanza allora? La
maniera con la quale il fiume si getterà nel mare. Sarà come un’acqua povera e quasi esaurita,
stagnante, fangosa, paludosa che rechi al mare soltanto alghe e immondizie? Ovvero sarà come
una massa d’acqua che scorre precipitandosi trionfalmente, e che trasporta all’oceano tesori
preziosi e ricche mercanzie?
Come sarà il nostro arrivo al mare «dell’eternità»?
Come volete arrivar accanto a Dio, l’Eterno? Fratelli, questo dipende da voi.

***

Abbiamo parlato dell’eternità divina noi che pur sappiamo essere la nostra vita soltanto
un’ombra, un po’ di fumo. Abbiamo parlato dell’immortalità divina noi che riconosciamo essere
la nostra vita cangiante quanto la luna.
Noi siamo travolti dal tempo e trascinati nel turbine della vita. E dove mai? Verso il mare
dell’eternità, poiché noi tutti siamo i figli dell’eternità.
Quando i mercenari greci, sfiniti da un viaggio lungo e penoso, scorsero il mare,
esclamarono con giubilo: «il mare, il mare».
Miei fratelli, sapete quale sia la più bella ricompensa d’una vita passata conformemente alla
volontà di Dio? E’ la gioia santa che ci inonderà l’anima nei nostri ultimi istanti. Mentre i nostri
parenti staranno, con occhi ansiosi, intorno al letto di morte, e noi comprenderemo dalle loro
lacrime difficilmente trattenute, come il fiume della nostra esistenza sia prossimo a gettarsi nel
mare, nel seno dell’eternità divina, noi allora esclameremo così:

Salve, mare eterno, che ho tanto desiderato nelle tempeste della vita.
Vita che non ha fine.
Felicità senza nube.
Regno che ha per re Iddio, l’Eterno.
«Al Re dei secoli, immortale, invisibile, al solo Dio onore e gloria nei secoli dei secoli!
Amen» (I Ep. a Tim. I, 17).

XX.

Te Deum laudamus!

Nella magnifica piazza del Municipio, a Vienna, venne eretta un giorno una grande croce
recante a lettere luminose la seguente iscrizione: «Salva l’anima tua».
Come mai questa croce poteva trovarsi in pieno centro di Vienna la Rossa? E di dove
veniva la folla che si pigiava nella piazza?
Da qualche anno esiste in Austria una società che viene così chiamata: «I Commedianti
del Buon Dio». Essa rappresenta in tutto il paese delle produzioni a scopo moralizzatore. In
occasione della millesima recita, gli attori volevano recitare davanti al gran pubblico, in piena
Piazza del Municipio a Vienna.
Questo lavoro giubilare (LUX: «Das Spiel von Satans Weltgericht») rappresenta in modo
drammatico la lotta accanita di Satana contro Dio.
Ci troviamo alla riunione generale del Gran Consiglio dell’Inferno, e il diavolo ne è il
presidente. Non è un diavolo da medio evo: con tanto di corna, di coda e d’artigli; si tratta di
un diavolo molto moderno, e vestito alla moda. Attorno alla tavola seggono i suoi
collaboratori: l’Orgoglio, l’Avarizia e la Lussuria; e il Gran Consiglio infernale prende innanzi
tutto la risoluzione seguente: «L’ultima ora di Dio è suonata. Iddio è vinto». Ma nell’istante
medesimo in cui il Consiglio dell’Inferno prendeva questa risoluzione temeraria, ecco apparire
un inviato di Dio a intavolar con Satana una impressionante discussione.
- Credi proprio di riportar vittoria? Ma guarda dunque tutto quello che v’è di bene
noscosto tra gli uomini. Quanta onestà! Quanta virtù! dice al diavolo l’inviato del cielo.
E il demonio risponde in tono di canzonatura: - E’ mera illusione. Tutto appartiene a me:
il teatro, la radio, il disco, il film, la Borsa, la stampa... Tutto è al mio servizio.
La rappresentazione continua. Chi sarà il vincitore? si domanda tremando il pubblico
angosciato. Sarà di Dio la vittoria? Ma quando il dramma arriva alla fine, gli spettatori
respirano liberamente: Iddio ha vinto. Gli intemperanti, i gaudenti, gli assassini vengano
all’ultimo minuto, gli uni dopo gli altri, a riconoscere a loro confusione, che Dio è ben vivo e
non può fuggire davanti a l’uomo.
Iddio è vivo. Iddio è vincitore; tale è l’insegnamento finale di questo dramma: tale il . tema
più profondo della storia dell’umanità e della storia del mondo; tale anche l’idea fondamentale
della mia predica d’oggi.
Da piú tempo ho incominciato la spiegazione del Simbolo; tutto quello che ho detto si
riduce unicamente a questa prima frase del Simbolo: «Io credo in Dio».
Da quando l’uomo è sulla terra, popoli e individui credono tutti in Dio; e quantunque si
trovino sempre degli uomini che vorrebbero realizzare la risoluzione presa dal Gran Consiglio
infernale, quella cioè di abbattere Dio, il trono divino oggi ancora rimane incrollabile; oggi
ancora gli uomini s’inginocchiano a pregare davanti al Padre celeste. Vi sono, è vero, uomini
che bestemmiano Iddio e che corrono in tal modo a perdizione; ma ve ne sono ancora che lodano
Iddio e in Lui trovano la loro felicità. Nella presente istruzione parlerò dunque, I. di coloro che
bestemmiano Iddio e, II. di coloro che lodano Iddio.

I.

Coloro che bestemmiano Iddio

Una prova sorprendente della malvagità umana, è l’odio feroce la cui fiamma livida, ora in
un paese ora in un altro, s’innalza contro il culto divino. Sembra che la produzione teatrale
rappresentata a Vienna si realizzi parola per parola. Sembra davvero che innumerevoli scrittori e
artisti, sembra che il teatro, il film, la radio, la stampa si siano messi al servizio di Satana, il
ribelle. Poiché non è soltanto chi nega Dio o lo bestemmia che combatte contro di Lui; ma
chiunque rovini nell’anima umana l’onestà, la purezza e il sentimento del dovere, chiunque tenti
scalzare la fede religiosa.
Da anni ormai ci arrivano dall’oriente spaventose notizie che rivelano il metodo infernale
adoperato per fare la guerra a Dio.
In Russia, nel corso degli ultimi tre anni, quattordicimila chiese sono state chiuse a forza.
L’ateismo è propagato ufficialmente da un’associazione speciale, «la lega dei senza-dio», che
conta tra i suoi membri diciassette milioni di adulti e diciotto milioni di fanciulli dagli otto ai
quattordici anni, e i cui giornali hanno una tiratura di un mezzo milione di esemplari. E nello
stesso tempo che nelle università russe venivano erette trentacinque nuove cattedre per la
propagazione dell’ateismo, a Minsk (nella Russia bianca) si inaugurava una università
organizzata al completo allo scopo di combattere esclusivamente la religione; nella stessa epoca
(a datare dal I° Novembre 1930) era stata ritirata la tessera del pane, cioè la più elementare
possibilità di vivere, a tutti coloro che in un modo o nell’altro, fossero in relazione con la
religione. Non esistono più tessere del pane per i preti (a qualsiasi religione appartengano) né per
gli organisti, per i cantori, per i sacrestani, né per i redattori di giornali religiosi, né per gli artisti
che si occupano di oggetti sacri. In verità, sembra già di vedere la vittoria della risoluzione del
Gran Consiglio dell’inferno.
I giovani membri della «lega dei senza-dio» davano l’assalto sghignazzando
diabolicamente alle chiese rimaste aperte, e penetravano perfino nelle case private per asportarne
a migliaia le immagini sacre e poi bruciarle nelle strade con grida di trionfo; per le vie, tra le risa
della plebaglia, si profanavano con orge sacrileghe la Santa Messa e il Battesimo, e venivano
cantate, su antiche melodie di inni ecclesiastici, delle strofette blasfeme; si facevano
eseguire da preti esiliati nelle isole dei Mar Bianco dei lavori inumani che duravano dalle
dodici alle diciasette ore, con mezza razione di viveri; e non passava giorno in cui non ne
morissero. Molti preti, per essere stati sorpresi ad ascoltare la confessione dei loro
confratelli moribondi, furono condannati a penosi lavori nelle foreste, con una razione
ridotta al terzo (Bayr. Kurier, 8 ag. 1930). In verità, sembra già di scorgere la vittoria
della decisione del Gran Consiglio dell’inferno. La propaganda dell’ateismo ingoia
un’enorme quantità di carta: per questo venne promulgato l’ordine di consegnare e
mandare al macero tutti i libri religiosi, Bibbie, Messali, che si potessero trovare nel
paese, e con la pasta così ricavata fabbricar nuova carta per opere di propaganda
bolscevica.
Ma i senza-dio mancano, a quanto sembra, non solamente di carta, ma anche di
pietre. A Mosca i lastricati troppo consumati vengono riparati con lastre di marmo
trafugate nei cimiteri, e sopra molte delle quali ancor oggi si possono leggere le antiche
iscrizioni.
Non lontano da noi vive attualmente un popolo che non ha domenica (poiché perfino
la settimana venne soppressa); e colà vivono dei milioni di bimbi che non sanno che cosa
sia Natale. In verità noi là crediamo quasi di scorgere il trionfo del Gran Consiglio
dell’inferno.
E quando, giorno per giorno, leggiamo queste mostruosità che gridano vendetta al
cielo, proviamo per un attimo l’impressione sentita già dagli spettatori del dramma
rappresentato a Vienna: Che cosa sta succedendo? Iddio sarà davvero il vincitore?
Ma chi conosce la storia dell’umanità e non ignora quante volte la malizia infernale
si è eretta contro il trono di Dio, non ha il minimo timore per l’avvenire; perché sa che
fin che vivrà sopra la terra un popolo che pensi logicamente e senta umanamente, la fede
in Dio non potrà essere strappata dall’anima sua; sa che alla chiusa del dramma, alla fine
della storia del mondo, Iddio sarà pur sempre il vincitore. E con Lui saranno vincitori
quelli che credono in Dio e cantano le sue lodi.

II.

Coloro che cantano le lodi divine

A) C’è un Dio? tale è la questione che abbiamo studiata nella prima parte della
nostra serie di prediche.
1) Abbiamo interrogato il mondo immenso fisico e il mondo intimo dell’anima
umana, la natura vivente e l’inanimata; l’ordine ammirabile e la finalità dell’universo ci
hanno risposto in accordo con le aspirazioni dell’anima umana verso la verità e la
giustizia. C’è un Dio. La ragione mi costringe a credere in Lui. La grandezza del mondo
creato grida verso Dio, e grida pure verso Dio la profondità dell’anima umana.
Difatti, se non v’è Dio, la macchina dell’universo che funziona con una così
incomparabile precisione non ha Creatore; e, se non vi è Dio, la vita umana non ha scopo
alcuno. Ma sarebbe possibile? Dal momento che non osiamo dire di una penna da scrivere o
d’una ruota di macchina ch’esse esistono di per se stesse e non hanno chi le ha fabbricate,
oseremmo noi pretendere ciò del meraviglioso universo? E se non una foglia pende dal ramo
senza una ragione di essere, se non un filo d’erba spunta nel prato, non una goccia d’acqua si
trova nel mare senza ragione di essere, noi avremmo dunque soltanto l’uomo che esiterebbe
senza uno scopo? Lo stesso Tolstoi s’era posta questa domanda e rispondeva così: Milioni e
milioni di uomini vivono soddisfatti, lavorano, soffrono e lottano su questa terra, e non viene
mai loro in mente di fare tutto ciò senza uno scopo. Dove attingono dunque la loro gioia, la loro
forza, e la loro vitalità? E Tolstoi non vede altra ragione che la seguente: la fede in un Dio
saggio e giusto. E allora, durante una passeggiata primaverile, dall’anima sua, quasi a
rivelazione, sfuggì quest’affermazione: C’è un Dio. Voi non potete veramente vivere che
credendo in Dio (TOLSTOI, Le mie confessioni).
Sì, non possiamo vivere davvero che credendo in Dio.
Il buon Dio, diciamo nella nostra lingua. Ma gli altri popoli dicono in modo diverso la
medesima cosa. Adonai, dice l’Ebreo. Kyrios, dice il Greco. Dominus, dice il Latino. Non c’è
popolo che non abbia la nozione di un Dio Creatore e Provvidenza del mondo. Dappertutto
l’uomo rivolge preghiere a Dio: il suo nome è la parola che più frequentemente si pronuncia su
tutto il globo. Quando i raggi del sole che sorge vengono a dorare la finestra dell’uomo ancora
addormentato, ecco che colui che si riposava si desta per rimettersi al lavoro in nome del buon
Dio. Le anime pie lo pregano, i poveri domandano l’elemosina in nome Suo, i malati mettono in
Lui ogni loro fiducia, i morenti ripongono in Lui la loro speranza. Non esiste né luogo, né
tempo, né circostanza in cui l’anima umana possa non pensare a Dio, non credere in Dio.
2) Ma è pure l’organizzazione della vita umana che l’obbliga a questa fede, poiché senza la
fede in Dio la vita della società sarebbe impossibile.
Si può forse costruire una vita umana sulla negazione di Dio? Senza la fede in Dio si può
forse parlare di sentimento del dovere, di doveri verso la famiglia, di premure riguardo al
prossimo? La società ci impone degli obblighi, dei doveri che molto spesso equivalgono a
rinuncia e a sacrificio per l’individuo. La fedeltà inviolabile, la sincerità, l’amore al lavoro,
l’onestà, la coscienza ecc., sono le basi della vita sociale che alla fin fine riposa sopra la fede in
Dio. Di conseguenza l’ateismo scuote i fondamenti stessi dell’ordine sociale. Una voce si leva
qua e là nel mondo: Iddio non esiste. Chi soffre, sente ed esclama: La vita umana non ha ragione
di essere. Il criminale ascolta anche lui e rincara la dose: Non esiste il peccato. La gioventù ha
pure udito ed afferma: La virtù è una chimera. Ode lo sposo e risponde: Non c’è fedeltà
coniugale. Il fanciullo sente e proclama: Non esiste autorità paterna.
Un paese senza Dio è un paese maledetto. Un popolo senza Dio è un’orda selvaggia,
indisciplinata, assetata di sangue. L’uomo potrà forse onorare il padre e la madre sopra la terra,
se non onora il Padre suo che sta nel cielo? Potrà rispettare le leggi terrene, se non rispetta
il Legislatore eterno? Sarà proprio in grado di amare il prossimo chi crede che siamo tutti
venuti dal nulla e che nel nulla ritorneremo, e che in questa vita dobbiamo procurarci il
maggior godimento possibile?
E se un giorno la rivelazione celeste fosse incapace di dimostrare all’uomo
l’esistenza di Dio, certo la rivelazione dell’inferno col dominio del male fornirebbe la
prova della sua esistenza. Difatti se non c’è Dio, la verità non è che un enigma, il diritto
e la giustizia sono inesplicabili, l’ordine morale è una convenzione, e ogni uomo ha il
diritto di agire secondo il proprio capriccio. Se non c’è Dio, non c’è nemmeno libertà,
poiché la libertà non è basata che sulla legge, la legge sulla morale, la morale sulla
religione e sopra lo stesso Dio.
Conoscete l’iscrizione che sta sulla porta dell’università mussulmana del Cairo? Ripeto,
con una certa invidia e non senza un po’ di vergogna, dell’università mussulmana: «La scienza è
importante, Iddio è più importante», ecco che cosa vi sta scritto.
Sì, abbiamo bisogno della chimica, della tecnica, dell’industria, abbiamo bisogno
dell’agricoltura e del pane, abbiamo bisogno dell’igiene, abbiamo bisogno del sole, ma
soprattutto: abbiamo bisogno di Dio. Difatti chi attende la luce soltanto dal sole, ogni sera
si ritrova nell’ombra; chi invece per suo sole ha Dio, gode dell’eterna luce.
Noi siamo ammalati; ne abbiamo tutti l’esatta percezione. Ma non siete persuasi che
il mondo attuale sia ammalato perché si è scostato e separato da Dio? Quando nei paesi
del Nord, durante settimane e settimane gli uomini restano privi del sole che si è
inclinato sotto l’orizzonte, l’abbattimento e la malinconia s’impadroniscono di loro. La
stessa, deprimente malinconia rode ai nostri giorni l’umanità, che si è scostata dal Sole di
vita.
Gli Arabi hanno una curiosa leggenda sul pianto del Sahara. Quando in una chiara e
tranquilla notte d’estate un soffio leggero passa sullo sconfinato deserto di sabbia,
sollevandone a miliardi i granellini, sembra d’udire quasi il gemito di un gigantesco
animale ferito a morte. «Sentite?», dice la guida alla carovana, «è il deserto che piange».
Si lamenta perché è diventato una steppa sterile; piange i giardini in fiore, i campi di
spighe ondeggianti alla brezza, la copia meravigliosa di frutti che produceva in un’epoca
lontana lontana, prima di venir tramutato in questa distesa arida e infeconda».
L’uomo che non ha la fede porta egli pure un’anima arida e infeconda. E’ possibile che,
esteriormente, tutto sembri in odine. Ma quando nella calma notturna, egli siede pensoso sulla
sponda del suo letto, l’anima sua, resa arida come un deserto dall’incredulità, singhiozza
pensando al suo fiore avvizzito, alle sue gioie appassite.
Sì, io credo in Dio... io credo in Dio.
B) La prima parte del mio ciclo di prediche si è occupata di questa domanda: C’è un
Dio? Nella seconda metà siamo andati più lontano e ci siamo sforzati, in una serie
d’istruzioni, di sollevare il velo posto davanti al volto di Dio, allo scopo di sempre
meglio conoscere che cosa è Dio.
Ed ora che, dopo aver tanto parlato di Dio, vorrei riassumere in poche idee l’insieme delle
mie prediche, mi ricordo della storia di Mosè e del roveto ardente. Mosè sente la parola del
Signore, ma non vede Iddio. Chiede dunque con qualche esitazione: «Andrò dai figli
d’Israele... Ma se mi demandano: Qual è il suo nome? che cosa risponderò?» (Esodo III, 13).
E il Signore rispose a Mosè: «Tu dirai ai figli d’Israele: Colui che è mi manda a voi»
(Esodo III, 14).
Che cosa diremo dunque di Dio per concludere? Che cosa è Dio?
Dio! Parola sublime! Al solo pronunciarla un oceano infinito si svolge davanti a noi: un
oceano infinito di maestà, di bellezza, di bontà, di perfezioni. Dio la cui grandezza è
incommensurabile, onnipotente la forza, eterna la durata, e la cui dimora è una luce
inaccessibile (I Ep. a Tim. VI, 16).
Che cosa è Dio? Che cosa dirò di Dio? Dirò forse: E’ l’Oceano infinito di ogni essere?
Sarà sufficiente esprimersi così? No.
Oppure: Ci sono in Lui tutta la bellezza e tutta l’armonia che risplendono nella calma di
una notte stellata? C’è in Lui tutta la maestà delle cime nevose delle montagne gigantesche?
C’è in Lui tutta la grazia che appare sul volto innocente di un bambino? Basterà questo? No.
E ancora: C’è in Lui ogni giustizia, ogni dolcezza e ogni bontà? Ho detto abbastanza? No.
Che cosa è dunque Dio? La Sacra Scrittura dipinge in tratti magnifici la bellezza di Dio;
ve ne presenterò due che riassumono tutti gli attributi divini: Iddio è luce, Iddio è amore.
«Iddio è luce» (I Ep. di S. GIOV. I, 5). Se è luce, Egli vede tutto, illumina tutto, né vi
sono tenebre in Lui. Se è luce, Egli sa tutto, in Lui non c’è errore. Se è luce, Egli è la santità, e
in Lui non v’è né macchia, né difetto, né mancanza, né peccato. Se è luce, Egli è l’eterna
armonia, la sorgente di ogni bellezza, l’origine prima della bellezza nella natura, nell’arte,
l’anima della bellezza morale, della bellezza dei colori, delle tonalità e delle forme. Se è luce,
non v’è in Lui né tristezza, né pena, né dolore.
«Iddio è amore» (I Ep. di S. GIOV. IV, 8). Se è amore, ogni amore procede dunque da
Lui: l’amore materno, la devozione del figlio, il generoso amore del prossimo. Se è amore,
Egli è la bontà, la benevolenza, la sollecitudine. Se è amore, Egli è ancora ben degno di essere
amato.
Infine, che dirò dunque di Dio in uno sguardo d’insieme? Quello che sant’Ambrogio dice
di Lui: «Volete guarire le vostre ferite? Egli è medico. Vi sentite arso dalla febbre? Egli è la
sorgente d’ogni freschezza. Siete schiacciato sotto il peso delle vostre azioni? Egli è la
misericordia. Avete bisogno d’aiuto? Egli è l’Onnipotonte. Avete paura della morte? Egli è la
vita. Desiderate il cielo? Egli è il Signore. Volete fuggire le tenebre? Egli è la luce. Avete
fame? Egli è il pane di vita» (De virginitate XVI).
Io credo in Dio Padre Onnipotente, Creatore del cielo e della terra.

***

Ecco, fratelli, la via che insieme abbiamo percorsa durante questi mesi. Molte cose ho detto
riguardo a Dio. Ed ora sappiamo noi che cosa è Dio? Abbiamo sollevato il velo della statua di
Sais? Possiamo dire di conoscere Iddio completamente?
Come oserei affermarlo? Come oserei contraddire la Sacra Scrittura che ci dice: «Vediamo
adesso per enigma, per mezzo di uno specchio; allora poi vedremo faccia a faccia»? (I Ep. ai
Cor. XIII, 12).
Avete udito bene, fratelli? Allora vedremo Iddio a faccia a faccia. Quando sarà questo
«allora»? Quando cadrà il velo dell’anima mia, cioè il mio corpo. Ma una volta che il velo sia
caduto e che l’anima sia partita dal corpo, in quell’istante preciso vedremo Iddio. Fate attenzione
a quanto vi dico: Ogni uomo lo vedrà per un istante; ma vi sono uomini che non lo vedranno se
non un istante. Sono coloro che hanno bestemmiato Iddio; lo hanno bestemmiato con la loro
maniera di vivere, con la loro empietà, con la loro negazione; dopo quell’istante del Giudizio,
andranno alla dannazione eterna. Ma quelli che sono vissuti in modo conforme alla volontà
divina, quelli rimarranno eternamente presso di Lui.
Sì, io amo Dio.
Amo Dio, il Creatore infinitamente potente e saggio, il cui sguardo può annientare o creare
migliaia di mondi, e misurare l’immenso fiume del tempo.
Amo Dio, il Padre infinitamente buono, la cui maestà mi schiaccia, ma non mi spaventa;
apro largamente l’anima mia, stendo le braccia e mi slancio verso Dio con la stessa fiducia con
la quale il bimbo va verso la madre, anche se questa fosse una regina.
Amo Dio, così pieno di sollecitudine per il mondo; amo anche quando mi conduce lungo
strade penose.
Amo Dio, Oceano di vita, donde proviene tutto ciò che c’è di bello e di buono, di dove esce
ogni anima, dove s’infiamma ogni cuore, di dove risuona ogni inno di vittoria.
Amo Dio, lodo Dio, adoro Dio. E credo, credo che un giorno vedrò Iddio per l’eternità.
Signore, io sono una pianta che langue, ma Voi, Voi siete il sole che vivifica.
Signore, io sono povero, Voi siete la ricchezza eterna.
Signore, io sono stanco, Voi siete l’eterno riposo. Signore, io sono debole, Voi siete la
forza.
Io sono peccatore, Voi siete il perdono.
Io sono abbandonato, Voi siete il braccio protettore.
Io sono desolato, Voi siete il Cuore che compatisce.
Io ho sete, Voi siete la sorgente dell’acqua eterna.
Io ho fame, Voi siete il Pane di vita.
Io sono la notte, Voi siete il giorno che risplende.
Io sono un uomo... un uomo... e Voi, Voi siete il mio Signore e il mio Dio per l’eternità.
Te Deum laudamus...
O Dio, noi ti lodiamo e ti confessiamo Signore.
Te, eterno Padre, tutta la terra venera.
A Te gli Angeli tutti, a Te i Cieli e tutte le Potestà,
A Te i Cherubini e i Serafini ad una voce cantano instancabilmente:
Santo, santo, santo è il Signore, Iddio degli eserciti.
Il Cielo e la terra sono pieni della maestà della tua gloria.
Il coro glorioso degli Apostoli,
La schiera venerabile dei Profeti,
Il candido esercito dei Martiri cantano lodi a Te.
Per tutta la terra la Santa Chiesa ti celebra.
Padre d’infinita maestà...
... Noi ti supplichiamo di soccorrere a’ tuoi servi che hai redenti col tuo Sangue prezioso.
Fa che siano annoverati nell’eterna gloria insieme co’ tuoi Santi.
Fa salvo, o Signore, il tuo popolo, e benedici la tua eredità.
Governalo ed esaltalo fino all’eternità.
Per ogni singolo giorno, noi ti benediciamo.
E lodiamo il tuo nome nei secoli, e nei secoli dei secoli.
Degnati, o Signore, di custodirci in questo giorno senza peccato.
Abbi pietà di noi, Signore, abbi di noi pietà.
Venga, o Signore, sopra di noi la tua misericordia in ugual misura a quella della speranza
riposta in Te.
In Te, o Signore, sperai; ch’io non venga confuso in eterno! Amen.

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