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el 1949 Joseph Campbell pubblica un testo destinato a rivoluziona-
re il lavoro di scrittori, registi e sceneggiatori nei decenni a seguire:
The hero with a thousand faces. In ambito mondiale, quantomeno
per ciò che concerne il ventesimo secolo, Campbell può essere considerato
il più grande studioso di mitologia comparata le cui teorie siano ancora se-
guite e applicate in numerosi campi, dalla letteratura al cinema. Stimato
professore universitario, consulente e ispiratore – a volte inconsapevole – di
affermati registi e teorici del cinema, egli porrà le basi per numerosi studi
sulla narrativa moderna di ogni genere e supporto. Tra questi, l’americano
Chris Vogler, story analyst per le più importanti major statunitensi, può es-
sere considerato il capostipite di quella nutrita categoria di critici, studiosi e
autori per i quali tali teorie hanno finito con l’essere folgorante e inaspettata
fonte d’ispirazione: è infatti il primo a compiere esplicitamente un accosta-
mento critico tra cinema e mito. Allo scopo di mostrare l’eterna efficacia delle
teorie di Campbell attraverso i mezzi d’intrattenimento di massa contempo-
ranei, Vogler (che definisce gli studi di Campbell «un lampo che spazzava via
improvvisamente le zone d’ombra in un paesaggio» 1 ) compie il primo vero
e proprio studio comparato di formule mitologiche e cinema hollywoodiano,
testandone e dimostrandone la funzionalità degli elementi in comune.
In quella che può essere definita la sua pubblicazione più importante,
Campbell attua un’opera di “riscoperta” di elementi ricorrenti in religioni e
miti da ogni parte del mondo, rivelando come questi non siano altro, dalla
notte dei tempi, che espressione e metafora della vita umana. In quanto tali,
essi possono ancora fungere da guida per l’uomo di ogni epoca, conducen-
dolo passo dopo passo alla riscoperta di se stesso e di valori universalmente
condivisi e mai davvero dimenticati. Dietro ogni divinità è celato un ri-
tratto amorevole dell’uomo comune, e ogni avventura o azione eroica porta
con sé il meraviglioso viaggio dall’infanzia all’adolescenza, dall’età adulta
fino alla morte, estremo dono del presente al futuro. Ecco perché, ci dice
Campbell, «In questo stesso momento, l’ultima incarnazione di Edipo, i mo-
derni protagonisti della favola della Bella e la Bestia, attendono all’angolo
della Quarantaduesima Strada con la Quinta Avenue che il semaforo cambi
colore» 2 .
Confrontando racconti, leggende, saghe e testi sacri, Campbell teorizza
allora quella che definisce la formula del “Monomito”, vicenda-base ricorrente
in una o più forme nell’immaginario di ogni cultura o religione, dagli scopi
1. C. Vogler, Il viaggio dell’eroe. La struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa
e cinema, Dino Audino, Roma 1998, p. 12.
2. J. Campbell, L’eroe dai mille volti (1949), tr. it. di F. Piazza, Feltrinelli, Milano
1958, p. 12.
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È, per chi sta per intraprendere tale percorso, un buon insegnante e, per
chi tale percorso l’ha presumibilmente già completato, un ottimo promemo-
ria: infatti «l’immagine ti aiuta a identificarti con la forza simboleggiata. È
molto difficile pensare che una persona possa identificarsi con qualcosa di in-
differenziato. Ma quando a questo qualcosa attribuisci qualità che si muovo-
no nella direzione di determinati scopi, la persona le può seguire» 8 . In parti-
colare, «se la storia rappresenta quella che potremmo chiamare un’avventura
archetipica (la storia di un bambino che diviene ragazzo, o del risveglio al
mondo che si apre nell’adolescenza) essa ci aiuterà a trovare un modello per
la realizzazione del nostro sviluppo» 9 .
5. Ibid., p. 12.
6. Ibid., p. 15
7. J. Campbell, Il potere del mito. Intervista di Bill Moyers (1988), tr. it. di A. Grieco
e V. Lingiardi, Guanda, Parma 2004, p. 196.
8. Ibid., p. 263.
9. Ibid., p. 169.
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Nei casi estremi, più grandi sono le qualità dell’eroe, più gravi e irrepara-
bili appariranno i suoi difetti, definiti non a caso da Vogler «difetti tragici»:
se il punto debole di un essere pressoché invulnerabile come Superman è la
Kriptonite, sarà proprio questa a metterlo costantemente alla prova fino a
metterne in dubbio la sopravivenza stessa in più di un’occasione. Invulnera-
bilità e infallibilità esauriscono infatti ben presto le proprie potenziali attrat-
tive presso il pubblico, che alla rassicurante immortalità di uomini d’acciaio
preferisce chi sbaglia, rischia, e impara dai propri errori, o chi da subito si fa
10. C. Vogler, op. cit., p. 39.
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Ecco allora che per Vogler la rottura imminente dell’ordine iniziale può
essere suggerita, e spesso sul grande schermo lo è, appena prima che questa
avvenga, attraverso un’estremizzazione della situazione di quiete (il Kansas
grigio e monotono de Il Mago di Oz) che faccia quasi desiderare da subito
allo spettatore stesso l’inevitabile fuga in un mondo del tutto differente, o at-
traverso quelli che Vogler definisce «presagi», disseminati già nel primo atto,
indizi della fragilità di un equilibrio decisamente precario, destinato a essere
di lì a poco spezzato. Quando tale situazione ha raggiunto il proprio climax,
e i segnali non possono più essere ignorati, si fa infatti largo prepotente-
mente nella vita ordinaria il «sincronismo», un’inarrestabile concatenarsi di
17. J. Campbell, L’eroe dai mille volti, cit., p. 53.
18. Ibid., p. 54.
19. Ibid., p. 57.
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Non v’è alcun dubbio: quei pericoli psicologici che le generazioni pas-
sate superavano con l’assistenza dei simboli e degli esercizi spirituali
delle loro mitologie e delle loro religioni, noi (poiché non siamo credenti
o, se lo siamo, la fede che abbiamo ereditata non risolve i problemi reali
della vita contemporanea) dobbiamo affrontarli da soli, o, nel migliore
dei casi, con un aiuto incerto, improvvisato, e raramente efficace. 23
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spazio per una scena d’amore, per un’ultima riconciliazione con un compa-
gno, o per architettare un piano, prima che il ritmo della narrazione divenga
quell’incalzante susseguirsi di concessioni alla suspense e colpi di scena che
è l’avvicinamento alla Prova Centrale. Gli ultimi passi del cammino sono
infatti disseminati di ulteriori prove, come una serie di scatole cinesi, attra-
verso le quali l’eroe potrà, con stratagemmi, mostrando ancora una volta il
suo valore e resistendo alle tentazioni e alle proprie paure, arrivare finalmen-
te preparato a dovere all’ultima sfida. Per quanto l’eroe possa giungere a un
passo dalla sconfitta nella Prova Centrale, il duro percorso che lo ha portato
fin qui fa sì che ora egli, e il pubblico con lui, sappia di non poter fallire.
Ciò non evita però che la prova centrale sia innegabilmente, secondo Vo-
gler, il momento in cui il trasporto emotivo da parte dello spettatore sta
per raggiungere il suo apice: è il momento culmine del processo di morte-
e-rinascita citato a più riprese da Campbell, e non a caso avviene proprio
quando il pubblico ha ormai proiettato completamente il proprio Io nel pro-
tagonista, e non può più separarsene per ripararsi dalla sofferenza della su-
spense. Per Vogler «è il momento in cui l’eroe ha un rovescio di fortuna e
guarda in faccia la sua paura più grande, nel senso che affronta con coraggio
la possibilità di morire e viene portato allo stremo in battaglia contro la for-
za ostile. La Prova Centrale è un “momento buio” per noi pubblico, poiché
ci tiene col fiato in sospeso, in tensione, visto che ancora non sappiamo se
l’eroe vivrà» 27 . Ma proprio nell’euforia derivante dalla vittoria finale, dalla
rinascita dopo la morte apparente, lo spettatore concluderà la propria avven-
tura parallela trasformato quanto l’eroe, e finalmente libero da ogni paura
di sconfitta.
Fulcro del passaggio centrale della vicenda è il nemico più temuto, il prin-
cipale antagonista della vicenda, spesso causa scatenante diretta o indiretta
della partenza del protagonista. Vogler si premura di sottolineare come una
storia in cui il “cattivo” risulti debolmente costruito o poco carismatico sia
una storia che appassionerà il pubblico la metà di quanto dovrebbe. Il cat-
tivo non deve mai essere un semplice bersaglio stereotipato, né votato alla
crudeltà senza motivazioni plausibili: «Ricordate che, mentre alcuni cattivi
o Ombre esultano della propria cattiveria, molti non si vedono affatto cat-
tivi. Secondo il loro punto di vista, hanno ragione e sono gli eroi delle loro
storie» 28 . E ancora, sostiene Vogler, «un Cattivo Galante, per alcuni aspetti
eroico e per altri spregevole, può risultare molto intrigante. In teoria, ogni
personaggio ben costruito dovrebbe rivelare un pizzico di ogni archetipo, per-
ché ognuno di questi è espressione delle parti che formano una personalità
compiuta» 29 .
Campbell riconduce il malvagio della storia a due diverse tipologie, delle
27. Ibid., pp. 27-28.
28. Ibid., p. 123.
29. Ibid., pp. 38-39.
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Il conflitto, anzi, più precisamente la guerra, è alla base sia della cul-
tura americana che della cultura greca classica. La loro Arte maggiore
(il Teatro allora ed il Cinema oggi) basa la propria capacità di rappre-
sentazione del mondo sulla guerra tra i personaggi e sulla impossibilità
etica del compromesso. Lo scontro, il conflitto, il dramma deve essere
vissuto fino in fondo e senza possibilità di mediazioni perché quello che
è in gioco tra i personaggi sulla scena è, molto spesso, la loro esistenza
stessa o comunque la modalità etica della loro esistenza sulla terra.
Forse l’Europa non ha più peso nel cinema mondiale perché non mette
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Non si vuole certo sostenere che il «viaggio dell’eroe» sia una struttura
a uso e consumo esclusivamente della platea statunitense, dopo quella della
Grecia antica. È però un dato di fatto, ed è ciò che sostiene Forlai, che
la cinematografia americana abbia eletto tale percorso di crescita e imme-
desimazione a proprio baluardo, molto più di quanto non abbia mai fatto
quella europea. Se da un lato in Europa si è sviluppato un cinema dalle for-
ti attinenze con il reale, un cinema ora impegnato socialmente, ora capace
di descrivere con grande maestria la travagliata psicologia dei propri perso-
naggi attraverso il ritmo e le immagini, in America si è scelta una strada
differente: quella dell’apparente distacco dalla quotidianità, per raccontare,
proprio come faceva il mito, l’ordinario attraverso lo straordinario. È dun-
que, quella americana, una ricerca dell’“altrove” funzionale al messaggio, e
(nella maggior parte dei casi) comunque densa di contenuti.
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Ogni regista è ben consapevole di questo, e dovrà fare di tutto per soddi-
sfare le aspettative del suo pubblico, per rispondere ai quesiti e alle esigenze
che ogni spettatore porta, legittimamente, nella sala cinematografica. Ogni
autore di cinema deve ricordare costantemente a se stesso che sono proprio
tali domande, aspettative e bisogni il motivo principale per cui il pubblico
va incontro al grande schermo.
Il sistema delle major hollywoodiano, d’altra parte, non ha mai schiac-
ciato l’artista, represso il genio, imprigionato l’originalità autoriale. Salvo le
eccezioni di pochi registi troppo “moderni” per un’industria in cui l’eccessiva
novità comporta sempre un rischio notevole (si pensi alle alterne fortune di
Welles in patria), l’abilità di ottimi narratori come John Ford, Frank Capra,
fino a Spielberg, Scorsese, Coppola o Lucas, è stata piuttosto convogliata in
un preciso canale dove potersi esprimere liberamente attraverso linee guida
prestabilite ma bisognose di un restyling: tale canale è il cinema di genere.
La codifica precisa di elementi narrativi irrinunciabili permette infatti di agi-
re, oltre che su un terreno già ampiamente collaudato, anche su strutture,
figure e metafore ben radicate nell’immaginario collettivo, consentendo di
lavorare su di una base comune da non dare per scontata, ma da rielaborare,
rinnovare e in ogni caso mettere in evidenza al fine di coinvolgere lo spet-
tatore adeguatamente, da più angolature, stimolandone sentimenti differenti
a seconda della forma di narrazione prescelta: una prima inquadratura su
di un cappello da cowboy, sulla targa di un investigatore privato, o sulla
sagoma di un pipistrello disegnata su una luna piena, è un segnale preciso
34. J. Nathan, “Voler raccontare una storia e saperla raccontare davvero”, in D. Audino
(a cura di), Il cinema è emozione ma l’emozione devi saperla costruire, Dino Audino,
Roma 1995, p. 61.
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a patto che chi racconta abbia preparato a dovere le fondamenta della pro-
pria storia, ponendo le giuste premesse e creando nel potenziale pubblico le
aspettative corrette. Citando Aristotele, il narratore potrà e dovrà, dunque,
«preferire l’impossibile verosimile al possibile incredibile» 39 , perché anche la
trama più realistica può risultare falsa se porta con sé buchi evidenti, balzi
narrativi non giustificati, o una caratterizzazione abbozzata e incostante dei
suoi protagonisti: «se anche il personaggio che è alla base dell’imitazione è
incoerente, e questo è dato come suo carattere, deve essere coerentemente
incoerente» 40 .
La continua spinta creativa verso la rappresentazione originale di stile-
mi ben consolidati, rischia tuttavia di dipingere il cinema d’avventura come
forma di schiavitù per l’artista, soggiogato alle rigide leggi di mercato. Al
contrario, il poter usufruire di una struttura narrativa da sempre radica-
ta nell’immaginario dell’uomo comune si rivelerà un aiuto importante per
chiunque serbi comunque una buona inventiva, idee mai sfruttate, e sappia
costellare uno schema classico di elementi o letture innovative, per convo-
gliare il messaggio, anch’esso in apparenza scontato – l’eterna lotta tra bene
e male, la crescita di chi impara dai propri errori, il superamento di limiti
e momenti di crisi – avendo prima efficacemente catturato l’attenzione dello
spettatore. Che siano seguiti alla lettera, o stravolti in modo intelligente, gli
stilemi e i luoghi comuni propri dell’adventure movie non devono necessaria-
mente essere visti come un punto d’arrivo obbligato, quanto piuttosto come
uno stimolante punto di partenza, e insieme compagni di viaggio dalle mille
risorse. Se è vero che uno spirito creativo lasciato libero può dare vita a
opere dal genio più sfrenato, è nell’inserimento della novità in ciò che appare
ovvio che si misura la genialità a prescindere, il talento che non può fare a
meno di emergere.
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suale solo in apparenza, del futuro eroe della storia. Dall’altro lato si ha il
momento in cui lo spettatore inizia davvero a sentirsi parte della vicenda,
attraverso l’immedesimazione nel personaggio principale. Infatti, se il pri-
mo incontro-scontro tra protagonista e antagonista può bastare a giustificare
l’inizio della concatenazione di eventi che costituirà la trama dell’opera, es-
so da solo non è sufficiente per garantire che questa coinvolga a dovere il
pubblico in sala. È necessario che il protagonista affronti una serie di «bi-
vi», ciascuno dei quali costituisce per certi aspetti un dilemma morale o una
prova di valore nelle intenzioni prima che nelle azioni.
Ancora una volta, non si può fare a meno di leggere in tali tappe di
crescita del personaggio e del pubblico ben più che semplici echi delle teorie
di Campbell. Ancora una volta il processo di identificazione avviene secondo
le modalità del monomito. Lo spettatore non si appassiona a chi non supera
le prove con difficoltà, a chi non cambia, a chi non progredisce.
D’altro canto, così come si deve evitare che l’eroe affronti i pericoli con
eccessiva facilità e senza esserne minimamente turbato, sarà bene far sì che
tale percorso non sia costituito da un susseguirsi crescente di difficoltà sen-
za pause di gratificazione, o la vicenda assumerà i connotati grotteschi del
percorso a “schemi” di un videogame. Al contrario, la strada da percorrere è
quella del giusto equilibrio tra momenti positivi e negativi, tra miglioramenti
e peggioramenti, successi ed errori, per scongiurare la noia della prevedibilità
di un processo dal ritmo e direzione troppo uniformi. Questo infatti permette
di «dare movimento a un ipotetico diagramma emozionale dello spettatore;
controllare, ritmare, orchestrare le reazioni di chi vive la storia seduto nella
sua poltrona, al buio: inchiodarlo al sedile, poi permettergli di rilassarsi, di
46. L. Aimeri, Manuale di sceneggiatura cinematografica, Utet, Torino 1998, pp. 172-73.
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in cui il narratore inizia a disporre i pezzi della storia sulla sua personale
scacchiera di celluloide. Spesso così i subplot, o gli “indizi” da essi disse-
minati nella trama, diventano parte dell’iconografia propria del cinema di
genere: il flash-back su eventi traumatici che hanno segnato la vita di un
personaggio scontroso, solitario o egoista, pronto però a tornare sui suoi pas-
si e soccorrere il protagonista nella battaglia finale, anche a costo della sua
stessa vita; o la semplice storia d’amore che sboccia, improvvisa e passio-
nale, tra i due protagonisti che fino a quel momento non avevano fatto che
bisticciare (e al risveglio il mattino dopo lei è sparita, rapita dal malvagio di
turno, costringendo l’eroe a intraprendere un lungo e periglioso viaggio. . . ).
Se sapientemente gestito, l’ordine delle scene, la loro concatenazione causale,
potrà giocare con le aspettative del pubblico, soddisfarle o sorprenderle per
crearne immediatamente di nuove, senza naturalmente che questi perda il filo
narrativo dell’intera vicenda. I sub-plot possono essere ottimi distributori di
indizi, piccoli focolai di stimolo della curiosità dello spettatore ad accompa-
gnare la tensione (in senso positivo) per l’andamento della trama principale,
la quale, a sua volta, dovrà evitare che la platea si smarrisca, guidandola se-
condo passaggi chiari, non necessariamente lineari sul piano cronologico (film
come Memento 57 di Christopher Nolan ne sono esempio lampante), purché
alla fine della proiezione al pubblico tutto sia stato spiegato o comunque reso
comprensibile, in maniera più o meno esplicita.
Ovviamente, non basta inserire tali elementi qua e là nel racconto per
renderlo appassionante, coinvolgente o più intenso e veritiero. Specialmente
nel cinema d’avventura, dove il rischio che il prodotto di genere sfori nel-
lo stereotipo (dunque nel ridicolo involontario, uno dei rischi peggiori per
un film d’azione) è più elevato, sono necessarie altre scelte, di carattere più
prettamente stilistico, che all’uso di figure appartenenti all’immaginario col-
lettivo coniughino un buon ritmo e giuste scelte di tempo nell’utilizzo di
trame principali e secondarie: è questo il compito fondamentale della sce-
neggiatura. Vi sono ad esempio momenti nei quali l’incrociarsi di trame e
sottotrame in immagini dal ritmo elevato assume l’aspetto di un crescendo,
57. Memento, regia di C. Nolan, Newmarket Films, USA 2000.
58. L Aimeri, Manuale di sceneggiatura cinematografica, cit., p. 123.
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3 Conclusioni
Dalle pitture rupestri a Star Wars, l’uomo ha sempre raccontato storie, af-
fascinato un pubblico, cercato risposte, e ogni volta lo ha fatto attraverso
le medesime figure, simboli e percorsi. Anche oggi, nel rocambolesco mon-
do dell’intrattenimento moderno, lo sceneggiatore ha sostituito lo sciamano,
62. R. Ballon, “L’ABC dello sceneggiatore esordiente”, in D. Audino (a cura di),
Impariamo a scrivere meglio le nostre storie, cit., pp. 55-56.
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Stefano Benedetti
Stefano Benedetti (Milano, 1982), si è laureato in Scienze dello Spettacolo e della Comu-
nicazione Multimediale presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi in Estetica
dello Spettacolo dal titolo L’eroe senza tempo. L’avventura nel cinema contemporaneo
americano tra mito e melodrammatico. Ha collaborato dal 2005 al 2007 con l’Università
degli Studi di Milano, lavorando insieme agli stagisti della scuola Centro Teatro Attivo di
Milano come assistente alla regia, con particolare attenzione allo studio e alla rielabora-
zione di testi drammaturgici. Attualmente insegna recitazione in alcune scuole elementari
ed è tra i coordinatori del progetto “Racconto Italiano” del teatro Franco Parenti.
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