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Dalla parte del pubblico.

Il viaggio dell’eroe tra mito e cinema


Stefano Benedetti

Sommario

Dalle prime forme di narrazione orale, fino al cinema blockbuster


contemporaneo, una struttura narrativa ricorrente ha attraver-
sato pressoché indenne l’evoluzione del racconto per il grande
pubblico. Il “monomito” teorizzato dallo studioso di mitologie
comparate Joseph Campbell segue un percorso, quello del viag-
gio dell’eroe, che appassiona ancora oggi lo spettatore, innescan-
do meccanismi di immedesimazione di sicuro successo. Le tap-
pe del processo di formazione dell’individuo comune destinato
(suo malgrado) a divenire eroe costituiscono infatti le fondamen-
ta dell’odierno cinema d’avventura hollywoodiano, con espedienti
narrativi ed elementi ricorrenti ormai consolidati, utilizzati non
per attirare (come sostenuto da una critica più snob) lo spetta-
tore medio, ma perché richiesti dallo stesso pubblico, dalla stessa
società. Il racconto d’avventura può così riscoprire un’utilità che
va oltre il fascino dell’effetto speciale, veicolando esempi positivi,
messaggi e principi alla base del vivere comune.

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ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura

1 Joseph Campbell e Chris Vogler: dal “monomito” a Hol-


lywood

N
el 1949 Joseph Campbell pubblica un testo destinato a rivoluziona-
re il lavoro di scrittori, registi e sceneggiatori nei decenni a seguire:
The hero with a thousand faces. In ambito mondiale, quantomeno
per ciò che concerne il ventesimo secolo, Campbell può essere considerato
il più grande studioso di mitologia comparata le cui teorie siano ancora se-
guite e applicate in numerosi campi, dalla letteratura al cinema. Stimato
professore universitario, consulente e ispiratore – a volte inconsapevole – di
affermati registi e teorici del cinema, egli porrà le basi per numerosi studi
sulla narrativa moderna di ogni genere e supporto. Tra questi, l’americano
Chris Vogler, story analyst per le più importanti major statunitensi, può es-
sere considerato il capostipite di quella nutrita categoria di critici, studiosi e
autori per i quali tali teorie hanno finito con l’essere folgorante e inaspettata
fonte d’ispirazione: è infatti il primo a compiere esplicitamente un accosta-
mento critico tra cinema e mito. Allo scopo di mostrare l’eterna efficacia delle
teorie di Campbell attraverso i mezzi d’intrattenimento di massa contempo-
ranei, Vogler (che definisce gli studi di Campbell «un lampo che spazzava via
improvvisamente le zone d’ombra in un paesaggio» 1 ) compie il primo vero
e proprio studio comparato di formule mitologiche e cinema hollywoodiano,
testandone e dimostrandone la funzionalità degli elementi in comune.
In quella che può essere definita la sua pubblicazione più importante,
Campbell attua un’opera di “riscoperta” di elementi ricorrenti in religioni e
miti da ogni parte del mondo, rivelando come questi non siano altro, dalla
notte dei tempi, che espressione e metafora della vita umana. In quanto tali,
essi possono ancora fungere da guida per l’uomo di ogni epoca, conducen-
dolo passo dopo passo alla riscoperta di se stesso e di valori universalmente
condivisi e mai davvero dimenticati. Dietro ogni divinità è celato un ri-
tratto amorevole dell’uomo comune, e ogni avventura o azione eroica porta
con sé il meraviglioso viaggio dall’infanzia all’adolescenza, dall’età adulta
fino alla morte, estremo dono del presente al futuro. Ecco perché, ci dice
Campbell, «In questo stesso momento, l’ultima incarnazione di Edipo, i mo-
derni protagonisti della favola della Bella e la Bestia, attendono all’angolo
della Quarantaduesima Strada con la Quinta Avenue che il semaforo cambi
colore» 2 .
Confrontando racconti, leggende, saghe e testi sacri, Campbell teorizza
allora quella che definisce la formula del “Monomito”, vicenda-base ricorrente
in una o più forme nell’immaginario di ogni cultura o religione, dagli scopi
1. C. Vogler, Il viaggio dell’eroe. La struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa
e cinema, Dino Audino, Roma 1998, p. 12.
2. J. Campbell, L’eroe dai mille volti (1949), tr. it. di F. Piazza, Feltrinelli, Milano
1958, p. 12.

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insieme rituali e didattici, le caratteristiche dei quali hanno attraversato più


o meno indenni ogni forma di narrazione per il pubblico medio.
Il Monomito racconta il viaggio dell’eroe, le origini umili o l’infanzia
trascorsa ignorando il proprio destino, fino alla rottura del precario e illusorio
equilibrio che ne aveva fino a quel momento regolato un’esistenza monotona.
Costretto a una partenza improvvisa quanto irrinunciabile, l’eroe intraprende
l’avventura in un mondo a lui estraneo, per uscirne trasformato.

La parabola dell’avventura dell’eroe costituisce la riproduzione ingi-


gantita della formula dei riti di passaggio: separazione-iniziazione-
ritorno: che potrebbe definirsi l’unità nucleare del monomito.
L’eroe abbandona il mondo normale per avventurarsi in un regno me-
raviglioso e soprannaturale; qui incontra forze favolose e riporta una
decisiva vittoria; l’eroe fa ritorno dalla sua misteriosa avventura dotato
del potere di diffondere la felicità fra gli uomini. 3

La necessità del ripetersi di tale struttura nei racconti fondanti di ogni


mitologia ha, secondo Campbell, una duplice giustificazione. Il primo ap-
proccio è di carattere psicanalitico, e risente dell’impostazione fortemente
junghiana dello studioso americano:

Appare evidente che attraverso i racconti fantastici – che narrano la


vita degli eroi leggendari, e parlano delle divinità della natura, degli
spiriti dei morti e degli antichi totem della razza – viene fornita una
descrizione simbolica dei desideri inconsci, delle paure, delle tensioni
che determinano il comportamento umano cosciente. La mitologia è,
in altre parole, psicologia scambiata per biografia, storia e cosmologia.
Lo psicologo moderno può ridarle il suo valore originario e fornire così
al mondo contemporaneo un documento ricco ed eloquente degli abissi
più profondi del carattere umano. 4

Riprendendo Jung, infatti, egli individua in schemi e figure mentali ricor-


renti nella psiche umana la fonte primaria di elementi comuni nelle mitologie
e nei racconti di fantasia, per quanto la forma possa variare in base al conte-
sto geografico o sociale in cui una determinata cultura si sviluppa, facendo sì
che certi simboli possano assumere sfumature o significati in parte differenti.
Rispetto alle teorie di Jung relative al mondo dell’inconscio e degli arche-
tipi, però, Campbell compie un significativo passo avanti, non più limitan-
dosi a descrivere forme ancestrali pressoché immutabili, e affidando invece al
racconto un compito essenziale. Associando a un’analisi di impronta psica-
nalitica considerazioni relative all’importante funzione sociale della formula
monomitica, sostiene l’esistenza e la necessità di uno stretto controllo del
contenuto, quando non addirittura della forma, in virtù dello scopo per cui
tale tipologia di racconto è creata, ovvero la trasmissione secondo strutture
3. Ibid., pp. 33-34.
4. Ibid., pp. 227-28.

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facilmente identificabili di schemi e indicazioni da rispettare per una corret-


ta crescita, sia individuale che come membro di una società dalle regole ben
codificate.
Società e psiche operano quindi attraverso il mito secondo un mecca-
nismo di supporto e sorveglianza reciproca. Se è vero che «in mancanza di
una effettiva mitologia generale, ciascuno di noi possiede il proprio personale,
intimo, elementare e tuttavia potente pantheon di sogni» 5 , è però fondamen-
tale che, al di là della psiche del singolo, il mito abbia una radice comune di
matrice sociale, e non sia piuttosto affidato esclusivamente a interpretazio-
ni personali di archetipi junghiani: se lasciate libere di agire, le «immagini
strane, irreali e terrificanti» 6 che popolano l’inconscio porterebbero a una
scoperta violenta, non controllata, dell’Io profondo di ogni essere umano,
nella ricerca di una libertà totale e distruttiva, incurante della necessità di
un compromesso tra pulsione e regole di convivenza.
Proprio per questi motivi, il viaggio introspettivo di cui il mito si fa
simbolo deve essere guidato, passo dopo passo, dalla nascita alla maturità:
il monomito è soprattutto una via per vivere, o rivivere, il percorso di crescita
che porta il bambino, con il suo mondo di egocentrismo e bisogni elementari,
a un inserimento non traumatico nella società degli adulti, fatta di norme,
valori e interazioni.

L’avventura è davvero premio a se stessa, ma è anche pericolosa, poiché


racchiude in sé possibilità tanto negative che positive, e in entrambi i
casi al di fuori di ogni controllo. Dobbiamo cercare la nostra strada,
non quella del papà o della mamma. In questo modo però restiamo
senza protezione, in un mondo di forze più potenti di quelle che co-
nosciamo. Bisogna saper percepire le possibilità di conflitto, e solo
qualche storia archetipica come questa potrà aiutarci a immaginare
che cosa ci aspetta. 7

È, per chi sta per intraprendere tale percorso, un buon insegnante e, per
chi tale percorso l’ha presumibilmente già completato, un ottimo promemo-
ria: infatti «l’immagine ti aiuta a identificarti con la forza simboleggiata. È
molto difficile pensare che una persona possa identificarsi con qualcosa di in-
differenziato. Ma quando a questo qualcosa attribuisci qualità che si muovo-
no nella direzione di determinati scopi, la persona le può seguire» 8 . In parti-
colare, «se la storia rappresenta quella che potremmo chiamare un’avventura
archetipica (la storia di un bambino che diviene ragazzo, o del risveglio al
mondo che si apre nell’adolescenza) essa ci aiuterà a trovare un modello per
la realizzazione del nostro sviluppo» 9 .
5. Ibid., p. 12.
6. Ibid., p. 15
7. J. Campbell, Il potere del mito. Intervista di Bill Moyers (1988), tr. it. di A. Grieco
e V. Lingiardi, Guanda, Parma 2004, p. 196.
8. Ibid., p. 263.
9. Ibid., p. 169.

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Naturalmente, fulcro fondamentale e imprescindibile del racconto d’av-


ventura che si prefigga tali scopi è la figura dell’eroe, in cui ogni spettatore
possa riconoscersi. Chris Vogler, a tale proposito, sottolinea e accentua an-
cora più esplicitamente la necessità che questi sia di natura umana quando
il destinatario è il grande pubblico moderno: il cinema e la narrativa odier-
na insegnano che il processo di immedesimazione, e l’apprendimento che ne
consegue, è tanto più efficace quanto più l’eroe si avvicinerà allo stereoti-
po dell’uomo comune, in grado di guadagnare la propria nomea attraverso
imprese portate a termine con l’astuzia o il coraggio, piuttosto che grazie
ad abilità innate o poteri sovraumani. Rispetto al remoto eroe primordia-
le, semi-dio, portatore fin dalla nascita dello straordinario potere creativo
del mondo – e della conoscenza assoluta che tale potere comporta – l’eroe
uomo affronta un percorso più lungo, poiché nulla gli è dovuto: egli dovrà
dunque affrontare prove, dimostrare il proprio valore, e persino sacrificarsi
nella sua forma terrena, per poter stabilire una relazione con l’infraumano. È
in questa seconda tipologia che riconosciamo gli eroi dei racconti moderni e
contemporanei: dipingere l’eccezionale protagonista come un uomo comune,
travolto dagli eventi e spinto a prendere parte a una serie di avventure che
ne consacrino lo status, fa di ogni uomo un potenziale eroe in attesa.
Il fatto che l’eroe stesso sia, almeno di partenza, un pressoché anonimo
simbolo del genere umano, con i pregi e i difetti che questo comporta, di-
viene allora un elemento irrinunciabile ai fini del coinvolgimento emotivo e
intellettuale:

I difetti contribuiscono a delineare l’andamento del cosiddetto “arco


del personaggio”, vale a dire quell’arco di trasformazione che compie il
personaggio evolvendo, nel corso della narrazione, per passare da una
certa condizione di partenza a quella di arrivo, attraverso una succes-
sione di fasi. E la sua imperfezione o incompletezza è la condizione
di partenza perché il personaggio possa evolversi. [. . . ] nella maggior
parte delle storie moderne, è la personalità dello stesso eroe a essere
rifondata del tutto o reintegrata di un elemento mancante, che può
essere un aspetto fondamentale della personalità, come la capacità di
amare o di fidarsi. 10

Nei casi estremi, più grandi sono le qualità dell’eroe, più gravi e irrepara-
bili appariranno i suoi difetti, definiti non a caso da Vogler «difetti tragici»:
se il punto debole di un essere pressoché invulnerabile come Superman è la
Kriptonite, sarà proprio questa a metterlo costantemente alla prova fino a
metterne in dubbio la sopravivenza stessa in più di un’occasione. Invulnera-
bilità e infallibilità esauriscono infatti ben presto le proprie potenziali attrat-
tive presso il pubblico, che alla rassicurante immortalità di uomini d’acciaio
preferisce chi sbaglia, rischia, e impara dai propri errori, o chi da subito si fa
10. C. Vogler, op. cit., p. 39.

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portatore di una «ferita psicologica» da sanare durante il viaggio, a rendere


il comportamento dell’eroe affascinante e imprevedibile.
Ma ancora più volentieri il pubblico seguirà e si appassionerà al percorso
di apprendimento che porta il suo alter-ego, consapevolmente o, più spesso,
inconsapevolmente, a correggere tali difetti attraverso l’esperienza, o meglio,
attraverso l’avventura: è questa l’eredità senza tempo del «viaggio dell’eroe»
di Campbell.

In ogni buona storia, l’eroe cresce e cambia, compiendo un cammino


da un modo di essere all’altro: dalla disperazione alla speranza, dalla
debolezza alla forza, dalla follia alla saggezza, dall’amore all’odio e
viceversa. Sono questi percorsi emozionali che avvincono gli spettatori
e rendono la storia interessante. Le fasi del viaggio possono essere
percorse in ogni genere di racconto, non solo in quelli che mettono in
risalto azioni e avventure “eroiche” o fisiche. Il protagonista di ogni
storia è l’eroe di un viaggio, anche se interiore o nella sfera dei suoi
rapporti. 11

La corrispondenza tra avventura eroica e processo di crescita dell’indivi-


duo, attraverso la costruzione di un efficace climax narrativo che coinvolga lo
spettatore favorendone l’immedesimazione, appare più chiaro nel momento
in cui si passa finalmente ad analizzare le singole tappe e caratteristiche del
viaggio archetipico.
Tale viaggio è, per Vogler, così trasportato sullo schermo cinematografico:
«i film sono spesso composti da tre atti, che possono essere ricondotti a tre
momenti: primo atto (la decisione dell’eroe di agire), secondo atto (l’agire
in sé) e il terzo atto (le conseguenze dell’agire). La Prima Soglia contras-
segna il punto di svolta tra primo e secondo atto». Tale punto di svolta
, o turning point, è «quell’evento che imprime alla storia un movimento in
avanti impedendo ogni possibile ritorno. Di solito si contano due punti di
svolta: il Primo Punto di Svolta (anche TP1), che introduce il Secondo Atto,
e il Secondo Punto di Svolta (anche TP2) che chiude il Secondo Atto per
introdurre il Terzo Atto» 12 .
In ogni caso, secondo una struttura e una suddivisione temporale sche-
matizzata dallo stesso Vogler, in un ipotetico racconto o sceneggiatura, due
quarti sarebbero occupati dal secondo atto, mentre i restanti due quarti della
stesura sarebbero rispettivamente dedicati al primo e al terzo atto, preveden-
do quindi soprattutto una parte centrale più lunga e densa di avvenimenti 13 .
Infatti in essa è contenuta l’anima stessa del racconto in rapporto allo spetta-
tore: al secondo atto spetta il gravoso compito di sostenere la storia, proprio
nel momento in cui è più facile che si verifichi un calo di attenzione da parte
del pubblico, tra i due punti di svolta previsti dalla trama. È quel «momento
11. Ibid., p. 22.
12. Ibid., p. 97.
13. Cfr. ibid., pp. 23, 26.

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centrale di tensione» 14 , susseguirsi di avvenimenti, prove e tappe interme-


die, che in un lungometraggio può quindi durare anche un’ora, puntellando
la vicenda e guidando il pubblico fino a ciò che la narrazione, attraverso la
risoluzione della vicenda, vuole insegnare.
Già il primo atto, tuttavia, non può essere affrontato alla leggera dal
narratore, ma, al contrario, va adeguatamente sottolineato fin dall’immediato
incipit:

L’inizio di ogni storia, sia essa mito, fiaba, sceneggiatura, romanzo,


novella o fumetto, ha degli obblighi precisi da rispettare: deve av-
vinghiare il lettore o lo spettatore, dare il tono alla storia, suggerire
una direzione e riuscire a comunicare una grande mole di informazioni
senza rallentare il ritmo. L’inizio è, effettivamente, un momento de-
licato. [. . . ] l’immagine iniziale può essere un potente strumento per
richiamare un’atmosfera e indicare la direzione della storia. Può essere
una metafora visiva che in una sola ripresa o scena evoca il Mondo
Stra-Ordinario del Secondo Atto, i conflitti e i dualismi che vi saranno
affrontati. Può suggerire il tema, allertando il pubblico sulle situazioni
che i personaggi affronteranno. La scena iniziale de Gli Spietati, di
Clint Eastwood, mostra un uomo davanti ad una fattoria che scava la
tomba di sua moglie appena morta. Il rapporto con sua moglie e il
modo in cui lei lo ha cambiato, sono i temi principali della storia. 15

Una struttura introduttiva del racconto “classica”, lineare, inizia inoltre


mostrando una situazione di quiete, in modo da presentare efficacemente il
protagonista nel suo habitat, e alimentare in questo modo la successiva sen-
sazione di contrasto e distacco dal mondo straordinario in cui l’eroe compirà
il proprio viaggio avventuroso.
È comunque fondamentale che venga favorita da subito l’immedesima-
zione nell’eroe, fin dalla prima apparizione sulla scena:

Come quando si è presentati in società, il Mondo Ordinario stabilisce


un legame tra le persone ed evidenzia alcuni interessi comuni in modo
che possa cominciare un dialogo. Dovremmo in qualche modo ricono-
scere che l’eroe è come noi. Una storia ci invita realmente a indossare
i panni dell’eroe, per vedere il mondo dal suo punto di vista. [. . . ]
Questo non vuol dire che gli eroi debbano essere sempre buoni o sim-
patici, ma deve essere possibile immedesimarcisi, come dicono gli exe-
cutive per intendere che il pubblico nei confronti dell’eroe deve provare
compassione o comprensione, per cui, anche se fosse subdolo o spre-
gevole, potremmo ugualmente capire la sua situazione e immaginarci
che ci comporteremmo allo stesso modo, dati i medesimi background,
circostanze e motivazioni. 16
14. Ibid., p. 119.
15. Ibid., pp. 67-68.
16. Ibid., p. 72.

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Inoltre, specifica Joseph Campbell, se la formula base di tale percorso


vede il ricorrere dei tre elementi separazione-iniziazione-ritorno, l’universo
che circonda l’avventura è in realtà costellato di numerosi passaggi intermedi
e figure di contorno, di ruolo e importanza fondamentali al fine di ottenere
il salvifico happy ending.
Il primo personaggio a presentarsi a un ancora inconsapevole eroe è so-
litamente quello che Campbell definisce «l’araldo», manifestazione prelimi-
nare delle forze che stanno per intervenire a turbare, nel bene e nel male,
l’equilibrio iniziale. È lui che reca al protagonista «l’appello», il richiamo
all’avventura, segnando il risveglio dell’io e sollevando «la cortina, sempre,
su un mistero di trasfigurazione – un rito, o un momento, di passaggio spiri-
tuale che, quand’è completo, assume il valore di una morte e di una nascita.
Viene superato il consueto orizzonte della vita; i vecchi principi, ideali, e sen-
timenti, non sono più validi; è giunto il momento di varcare una soglia» 17 .
Di norma, però, l’araldo è inizialmente respinto dal protagonista, in quanto
«rappresentante di quell’inconscio (‘così profondo che non se ne può vedere
il fondo’) in cui sono ammassati tutti i fattori, le leggi e gli elementi della
vita che furono rifiutati, repressi, disprezzati, ignorati o non sviluppati» 18 .
Campbell sostiene quindi che non importa quali siano le motivazioni fittizie
per le quali l’eroe in un primo momento rifiuta la chiamata: egli ha paura,
e l’abbandono della rassicurante routine quotidiana, così come il passaggio
dall’infanzia all’età adulta, pare un vero e proprio balzo nel vuoto. Ma dal
momento della prima apparizione dell’araldo, nulla pare più come prima:

Ciò che deve essere affrontato, e che è in qualche modo profondamente


familiare all’inconscio – anche se stranamente ignoto, e perfino spaven-
tevole per il conscio – si palesa; e ciò che prima era pieno di significato
diventa privo di valore. [. . . ] Per questo, anche se l’eroe ritorna per
un certo tempo alle sue solite occupazioni, esse gli appaiono inutili e
sterili. Si sussegue allora una serie di segnali sempre più chiari, fino a
che l’appello non può più essere frainteso. 19

Ecco allora che per Vogler la rottura imminente dell’ordine iniziale può
essere suggerita, e spesso sul grande schermo lo è, appena prima che questa
avvenga, attraverso un’estremizzazione della situazione di quiete (il Kansas
grigio e monotono de Il Mago di Oz) che faccia quasi desiderare da subito
allo spettatore stesso l’inevitabile fuga in un mondo del tutto differente, o at-
traverso quelli che Vogler definisce «presagi», disseminati già nel primo atto,
indizi della fragilità di un equilibrio decisamente precario, destinato a essere
di lì a poco spezzato. Quando tale situazione ha raggiunto il proprio climax,
e i segnali non possono più essere ignorati, si fa infatti largo prepotente-
mente nella vita ordinaria il «sincronismo», un’inarrestabile concatenarsi di
17. J. Campbell, L’eroe dai mille volti, cit., p. 53.
18. Ibid., p. 54.
19. Ibid., p. 57.

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episodi apparentemente casuali che danno all’eroe la definitiva spinta fuori


dalla soglia di casa, convincendo con forza lo spettatore della necessità di un
cambiamento.
L’inizio dell’avventura sarà così efficacemente evidenziato, avendo basi
causali solide e inconfondibili, alle quali si aggiungeranno determinati ac-
corgimenti stilistici ormai consolidati, dal metaforico passaggio di barriere
materiali (come il torrente nei pressi del quale Robin Hood conosce Little
John, o l’oceano de Le Crociate di Ridley Scott e de Il Tredicesimo Guerriero,
fino al primo viaggio interstellare del giovane Luke Skywalker sul Millenium
Falcon in Star Wars) all’uso di stacchi sonori, musiche particolarmente inci-
sive, o qualsiasi elemento visivo possa aiutare a sottolineare ed enfatizzare
l’ingresso nel mondo Straordinario.
Ma Campbell precisa anche che, per quanto l’eroe sia così quasi costretto
a compiere in prima persona il viaggio, non è d’altro canto detto che debba
farlo da solo: come supporto determinante, o come semplice rassicurazione
che lo spinga a compiere il primo passo in un mondo inesplorato, egli è
affiancato da un «aiuto soprannaturale», simbolo di un «destino benevolo e
protettore» 20 che, oltre ad accompagnare il protagonista della vicenda, ne
indichi il procedere nella giusta direzione. Il sovrannaturale soccorritore è
spesso lo stesso araldo, che diviene così, oltre che ambasciatore delle cause
scatenanti dell’avventura, guida e mentore dell’eroe in fieri: è lui il primo a
testarne le capacità per ottenerne il meglio, e far sì che egli possa giungere
preparato, ed eventualmente aiutato, a prove ben più terribili.
Così, con una guida adeguata, il giusto atteggiamento e una corretta
preparazione, l’eroe è finalmente pronto a varcare il confine tra i due mondi,
quello in cui ha vissuto fino al momento della partenza, e il nuovo, inesplora-
to, che lo attende. È la «prima soglia», spesso protetta da un «guardiano»,
ingresso nella zona delle potenze soprannaturali, dove «vi sono le tenebre, v’è
l’ignoto, il pericolo, così come per il bambino il pericolo è là dove non giunge
la protezione dei genitori, e per il membro della tribù là dove non giunge la
protezione della sua società» 21 . L’eroe diviene tale soltanto se, ancor prima
di iniziare l’avventura, è disposto a liberarsi della schiavitù del mondo fisico
e razionale: che la si veda come un’analisi introspettiva dell’essere umano nei
meandri della propria psiche o come il salto verso l’ignoto che è il passaggio
di crescita da un’infanzia legata al presente immediato a una maturità che
inevitabilmente volge costantemente lo sguardo al futuro, poco cambia: il
viaggio inizierà soltanto nella convinzione che ciò che finora si era considera-
to “normale” sta per essere stravolto. La normalità è ciò che già si conosce.
Per essere eroi serve ben altro. Accettato questo, superata la prima e forse
più difficile prova preliminare, l’avventura può cominciare:

Una volta varcata la soglia, l’eroe viene a trovarsi in un paese di sogno


20. Ibid., p. 71.
21. Ibid., p. 75.

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abitato da forme fluide e ambigue, dove deve superare un certo numero


di prove. È questa una delle fasi favorite del mito-avventura, che ha
ispirato in ogni parte della terra singolari descrizioni di prove e cimen-
ti. L’eroe è assistito dai consigli, dagli amuleti e dagli agenti segreti
del soprannaturale soccorritore che ha incontrato prima di entrare in
questa regione. A volte invece l’eroe scopre qui per la prima volta
che v’è ovunque una potenza benigna che lo soccorre nel suo viaggio
soprannaturale. 22

Ma soprattutto, attraverso tali nuove prove, l’eroe prosegue il suo cam-


mino di distacco da tutto ciò che un tempo riteneva egoisticamente indispen-
sabile, e che ora, vinto il timore del distacco, appare finalmente superfluo.
Egli acquista così coscienza del proprio ruolo di enorme utilità per la società
alla quale appartiene, ma anche la consapevolezza del rapporto costruttivo
con il mondo che lo circonda. Riconoscendo e sconfiggendo desideri e paure
diviene parte, salvatore ed esempio di una realtà più grande. Secondo Cam-
pbell, per l’uomo comune il mito è ancora aiuto e guida indispensabile, tanto
che oggi l’apparente mancanza di una mitologia abbastanza attuale rende
tale processo di liberazione e autocoscienza molto più arduo, se non in certi
casi addirittura impossibile:

Non v’è alcun dubbio: quei pericoli psicologici che le generazioni pas-
sate superavano con l’assistenza dei simboli e degli esercizi spirituali
delle loro mitologie e delle loro religioni, noi (poiché non siamo credenti
o, se lo siamo, la fede che abbiamo ereditata non risolve i problemi reali
della vita contemporanea) dobbiamo affrontarli da soli, o, nel migliore
dei casi, con un aiuto incerto, improvvisato, e raramente efficace. 23

Oltrepassato il confine tra mondo ordinario e avventura, sia Campbell sia


Vogler applicano alle prove affrontate dall’eroe nell’ambiente dell’avventura
una precisa distinzione, temporale e non solo. Entrambi separano infatti le
sfide sostenute subito dopo aver varcato la prima soglia e la prova centrale.
Le prime, secondo Vogler, fungerebbero quasi da “esame introduttivo”, ul-
teriore test delle abilità dell’eroe, spesso architettato o seguito dallo stesso
mentore, prima di dedicarsi in piena coscienza delle proprie capacità alla
sfida più importante. Sempre in questa fase al protagonista può capitare di
raccogliere, lungo il percorso, una serie di inaspettati alleati e armi, di com-
porre una squadra (come ne I Sette Samurai di Akira Kurosawa), ma anche
di farsi nuovi e pericolosi nemici che inevitabilmente rincontrerà prima della
fine del cammino.
Oppure, al termine di una concitata scena d’azione o comunque dal tas-
so spettacolare e coinvolgimento emotivo elevato, Vogler individua quelle
che definisce «scene da accampamento», secondo un immaginario simbolico
mutuato dai film western, i quali, secondo Vogler, contengono sempre un
22. Ibid., p. 91.
23. Ibid., p. 97.

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momento di riepilogo, dai fini non esclusivamente narrativi: riunendosi do-


po la battaglia, il gruppo di eroi (o l’eroe con i suoi aiutanti) ha modo di
rivelare al pubblico, più o meno indirettamente, i dubbi, le paure, se non ad-
dirittura dettagli scabrosi o drammatici riguardo al passato, anche in forma
di malinconico flash-back. Altre volte, sono i brevi istanti in cui il pubblico
comprende i princìpi che animano l’eroe, e decide se seguirlo o meno nel
processo d’immedesimazione.

Tali scene svolgono funzioni importanti per il pubblico. Ci consentono


di riprendere fiato dopo un’eccitante battaglia o prova. I personaggi
possono riepilogare la storia, dandoci la possibilità di rivederla e capire
il modo in cui loro stessi l’hanno vissuta. [. . . ]
In questi tranquilli momenti di riflessione o di intimità, conosciamo
meglio i personaggi. Un esempio famoso è la scena ne Lo Squalo in cui il
personaggio di Robert Shaw (Quint) racconta le sue orribili esperienze
con gli squali nel Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale. Gli
uomini confrontano le cicatrici e cantano una canzone da osteria. È
una scena alla “conosciamoci meglio”, costruita sull’intimità che nasce
dall’essere sopravvissuti a una Prova comune. 24

Ma quelli che potrebbero sembrare luoghi comuni della narrazione sono


in realtà valido aiuto nel far sì che la vicenda colpisca lo spettatore in mo-
do adeguato, e hanno una funzione narrativa ben precisa. Vogler, ancora
citando Campbell, li definisce «archetipi», elementi indispensabili per met-
tere lo spettatore in grado di comprendere la funzione dei singoli personaggi
all’interno della vicenda. L’abile narratore deve innanzitutto padroneggiare
al meglio tali elementi, poiché, prima ancora di ogni dettaglio o dello svi-
luppo della vicenda in sé, saranno proprio gli archetipi a colpire il pubblico:
«è l’universalità di questi modelli a rendere possibile che la narrativa diventi
un’esperienza comune; i narratori scelgono d’istinto personaggi e rapporti che
vibrano dell’energia degli archetipi, per creare esperienze drammaturgiche
riconoscibili a tutti» 25 .
Tra prove, conoscenze e confessioni, l’eroe e il suo pubblico possono così
giungere all’ultima sfida non solo preparati, ma anche finalmente completi,
avendo fatto tesoro dell’esperienza vissuta più o meno direttamente, e sco-
perto quasi ogni sfaccettatura del proprio essere: durante il cammino, infatti,
l’eroe «procede nel racconto raccogliendo e assimilando forza e caratteristi-
che di altri personaggi, impara da essi, li ingloba in un individuo completo
che ha raccolto qualcosa da ciascuno incontrato strada facendo» 26 . La prova
finale è però appena preceduta dall’«Avvicinamento alla Caverna più Recon-
dita», ultimo breve momento di quiete per il pubblico e per l’eroe, che trova
24. C. Vogler, op. cit., pp. 130-31.
25. Ibid., p. 33.
26. Ibid., p. 34.

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spazio per una scena d’amore, per un’ultima riconciliazione con un compa-
gno, o per architettare un piano, prima che il ritmo della narrazione divenga
quell’incalzante susseguirsi di concessioni alla suspense e colpi di scena che
è l’avvicinamento alla Prova Centrale. Gli ultimi passi del cammino sono
infatti disseminati di ulteriori prove, come una serie di scatole cinesi, attra-
verso le quali l’eroe potrà, con stratagemmi, mostrando ancora una volta il
suo valore e resistendo alle tentazioni e alle proprie paure, arrivare finalmen-
te preparato a dovere all’ultima sfida. Per quanto l’eroe possa giungere a un
passo dalla sconfitta nella Prova Centrale, il duro percorso che lo ha portato
fin qui fa sì che ora egli, e il pubblico con lui, sappia di non poter fallire.
Ciò non evita però che la prova centrale sia innegabilmente, secondo Vo-
gler, il momento in cui il trasporto emotivo da parte dello spettatore sta
per raggiungere il suo apice: è il momento culmine del processo di morte-
e-rinascita citato a più riprese da Campbell, e non a caso avviene proprio
quando il pubblico ha ormai proiettato completamente il proprio Io nel pro-
tagonista, e non può più separarsene per ripararsi dalla sofferenza della su-
spense. Per Vogler «è il momento in cui l’eroe ha un rovescio di fortuna e
guarda in faccia la sua paura più grande, nel senso che affronta con coraggio
la possibilità di morire e viene portato allo stremo in battaglia contro la for-
za ostile. La Prova Centrale è un “momento buio” per noi pubblico, poiché
ci tiene col fiato in sospeso, in tensione, visto che ancora non sappiamo se
l’eroe vivrà» 27 . Ma proprio nell’euforia derivante dalla vittoria finale, dalla
rinascita dopo la morte apparente, lo spettatore concluderà la propria avven-
tura parallela trasformato quanto l’eroe, e finalmente libero da ogni paura
di sconfitta.
Fulcro del passaggio centrale della vicenda è il nemico più temuto, il prin-
cipale antagonista della vicenda, spesso causa scatenante diretta o indiretta
della partenza del protagonista. Vogler si premura di sottolineare come una
storia in cui il “cattivo” risulti debolmente costruito o poco carismatico sia
una storia che appassionerà il pubblico la metà di quanto dovrebbe. Il cat-
tivo non deve mai essere un semplice bersaglio stereotipato, né votato alla
crudeltà senza motivazioni plausibili: «Ricordate che, mentre alcuni cattivi
o Ombre esultano della propria cattiveria, molti non si vedono affatto cat-
tivi. Secondo il loro punto di vista, hanno ragione e sono gli eroi delle loro
storie» 28 . E ancora, sostiene Vogler, «un Cattivo Galante, per alcuni aspetti
eroico e per altri spregevole, può risultare molto intrigante. In teoria, ogni
personaggio ben costruito dovrebbe rivelare un pizzico di ogni archetipo, per-
ché ognuno di questi è espressione delle parti che formano una personalità
compiuta» 29 .
Campbell riconduce il malvagio della storia a due diverse tipologie, delle
27. Ibid., pp. 27-28.
28. Ibid., p. 123.
29. Ibid., pp. 38-39.

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quali soprattutto la prima è facilmente riscontrabile nei moderni racconti


d’avventura: l’avversario dell’eroe può essere colui che, in precedenza po-
tenziale eroe, ha fallito le prove o si è opposto anche al secondo appello
all’avventura, rifiutando il sacrificio votato al cambiamento. Tale figura,
naturalmente destinata alla sconfitta, è indispensabile all’eroe quanto allo
spettatore della vicenda, rappresentando chiaramente tutto ciò che il prota-
gonista potrebbe diventare allontanandosi dalle tappe obbligate del proprio
percorso di crescita e apprendimento:

La figura del mostro-tiranno ricorre in tutte le mitologie, le tradizioni


popolari, le leggende, e persino gli incubi, e le sue caratteristiche sono
sempre essenzialmente le stesse. È l’incettatore di tutti i vantaggi della
comunità. È il mostro avido che tutto reclama per sé. Il suo malefico
influsso investe tutto il suo regno. [. . . ] Lo smodato egocentrismo del
tiranno è una maledizione per lui e per il suo mondo – anche quando
i suoi affari sembrano prosperare. Egli è un apportatore di sventure,
anche quando intende fare del bene, e vive nel terrore di se stesso e
degli altri, diffidando di tutti, costantemente assalito da immaginari
aggressori. Dovunque egli posi la mano, un grido s’alza (a volte chiaro
ed udibile, a volte dolorosamente represso) : un’invocazione all’eroe
che con la sua spada fiammeggiante, con il suo intervento, con la sua
vita, libererà la terra dal tiranno. 30

In questo caso, l’antagonista è il riflesso distorto dell’eroe stesso, è la metà


più recondita, oscura e malvagia della sua personalità, e incarna il timore
che questa possa prendere il sopravvento. È ciò che l’eroe sarebbe potuto
diventare compiendo scelte differenti, e l’errore è sempre in agguato: solo
affrontando e sconfiggendo il proprio avversario, superato l’iniziale momento
di crisi, l’eroe si libera di tale paura. Infatti, Vogler afferma che «le Ombre
creano conflitto e rivelano il meglio di un eroe, mettendo la sua vita in
pericolo. Spesso si è detto che la qualità di un racconto è pari all’efficacia
del Cattivo, perché un antagonista forte porta l’eroe a dimostrarsi all’altezza
della sfida» 31 . Tra l’altro, il fatto che l’antagonista sia un potenziale eroe
caduto, fa sì che questi sia personaggio abile e dotato, dalla personalità e
poteri pari a quelli del protagonista, se non superiori. Se il narratore è
magnanimo, con un ultimo coup de théâtre gli concederà la possibilità di
redimersi prima della fine, di concludere anch’egli il proprio viaggio nella
caverna, e di riappropriarsi del rango di eroe.
La seconda, e ben più impegnativa tipologia di antagonista indicata da
Campbell, risente di una concezione curiosamente e prepotentemente freu-
diana: è il padre il nemico archetipico, primo intruso nella pace dell’infanzia,
caratterizzata dal rapporto madre-figlio. Tuttavia, le cause di tale conflit-
tualità non sono da ricercarsi, per Campbell, nella sfera sessuale, quanto
30. J. Campbell, L’eroe dai mille volti, cit., p. 22.
31. C. Vogler, op. cit., p. 60.

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piuttosto nell’agire sociale dell’individuo: il padre rappresenta la vita adulta


tanto quanto la madre incarnava il mondo dell’infanzia. Ecco perché la figu-
ra paterna non è un nemico che va sconfitto, al contrario: l’aspetto, spesso
terrificante o mostruoso della figura paterna così come appare agli occhi del
figlio, altro non è che la proiezione di tutti i timori di chi è costretto ad
abbandonare il seno materno, la quiete e la sicurezza domestica, per varcare
la soglia del mondo e affrontare la vita di adulto, vita di cui proprio il padre
– che a suo tempo ha dovuto varcare la medesima soglia – ora è il ritratto.
Posto di fronte all’ultima prova, sia essa l’ultimo passo di un percorso di
crescita e affermazione di indipendenza, o consista piuttosto nell’affrontare
e sconfiggere la propria metà oscura, l’uomo comune abbandona definitiva-
mente le proprie spoglie terrene per divenire un simbolo. Davanti alla prova
più difficile, l’essere umano soccombe, per rinascere in una nuova forma uni-
versale, che trascenda la limitata visione personalistica dell’esistenza: se la
morte è staticità, la vita è cambiamento, e il cambiamento più grande porta
alla nascita di un nuovo eroe, pronto a fare dono di sé al resto del mondo,
scegliendo di tornare tra la gente comune con quanto conquistato: un og-
getto magico, un ricco bottino, oppure, premio ben più ambito, l’effettiva
conoscenza delle proprie qualità e del proprio valore.
La resurrezione, finora soltanto accennata o mostrata nel suo compiersi,
diviene infine conclusione del viaggio, ed è il ritorno da trionfatore alla vita
di tutti i giorni. Alla fine, se il viaggio dell’eroe è stato narrato con nobili
intenti, e il racconto – mito, romanzo o film che sia – è stato in grado di
veicolare in maniera efficace i propri contenuti, l’eroe avrà davvero imparato
qualcosa, e noi con lui.

2 L’avventura oggi: l’arte di porsi le domande giuste


Dovendo illustrare l’immortalità delle strutture basi del mito, e il legame di
queste con un cinema che abbia il totale coinvolgimento e immedesimazio-
ne dello spettatore come scopo ultimo, la scelta di dedicare nello specifico
l’analisi dei metodi di sceneggiatura al cinema americano d’avventura è una
scelta che ha nelle parole di Luigi Forlai – tra i primi a importare in Italia
le teorie di Chris Vogler – la spiegazione più efficace:

Il conflitto, anzi, più precisamente la guerra, è alla base sia della cul-
tura americana che della cultura greca classica. La loro Arte maggiore
(il Teatro allora ed il Cinema oggi) basa la propria capacità di rappre-
sentazione del mondo sulla guerra tra i personaggi e sulla impossibilità
etica del compromesso. Lo scontro, il conflitto, il dramma deve essere
vissuto fino in fondo e senza possibilità di mediazioni perché quello che
è in gioco tra i personaggi sulla scena è, molto spesso, la loro esistenza
stessa o comunque la modalità etica della loro esistenza sulla terra.
Forse l’Europa non ha più peso nel cinema mondiale perché non mette

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più in scena il conflitto radicale (la Guerra tra i personaggi, appun-


to) ma solo dei piccoli scontri tra dei poveretti che trovano sempre un
modo banale per raggiungere un compromesso tra di loro. A chi può
fregare niente di qualcuno che risolve il conflitto con un compromes-
so? Invece il pianeta intero assiste ammirato, allora con la Grecia e
oggi con l’America, alla messa in scena perfetta e strutturata di quello
che Eraclito definiva il principio di tutte le cose: “Polemos”. Il film
americano si presenta perciò come tentativo esplicito di far vivere allo
spettatore la “catarsi” attraverso l’esperienza della guerra o del conflit-
to. Per fare questo lo spettatore “deve” identificarsi con il personaggio
principale della storia (sia esso un uomo solo, una coppia o un gruppo)
cioè con quello che normalmente si definisce l’Eroe (anche se è, nella
sua storia, un personaggio normalissimo). 32

Non si vuole certo sostenere che il «viaggio dell’eroe» sia una struttura
a uso e consumo esclusivamente della platea statunitense, dopo quella della
Grecia antica. È però un dato di fatto, ed è ciò che sostiene Forlai, che
la cinematografia americana abbia eletto tale percorso di crescita e imme-
desimazione a proprio baluardo, molto più di quanto non abbia mai fatto
quella europea. Se da un lato in Europa si è sviluppato un cinema dalle for-
ti attinenze con il reale, un cinema ora impegnato socialmente, ora capace
di descrivere con grande maestria la travagliata psicologia dei propri perso-
naggi attraverso il ritmo e le immagini, in America si è scelta una strada
differente: quella dell’apparente distacco dalla quotidianità, per raccontare,
proprio come faceva il mito, l’ordinario attraverso lo straordinario. È dun-
que, quella americana, una ricerca dell’“altrove” funzionale al messaggio, e
(nella maggior parte dei casi) comunque densa di contenuti.

Identificazione con l’eroe e sospensione dell’incredulità bloccano la pos-


sibilità del pubblico di fare obiezioni razionali al messaggio che lo scrit-
tore di cinema vuole trasmettere. Il messaggio incorporato nel film
viene così assorbito dal pubblico in modo inconscio e quindi è più ef-
ficace. Il successo di pubblico del cinema americano è legato a questo
meccanismo: quello che si vuol dire lo si fa “vivere” al pubblico at-
traverso le sue emozioni inconsce ma lo si nasconde alla sua mente
razionale. [. . . ] Il grande vantaggio del cinema hollywoodiano su quel-
lo europeo è dato proprio dal fatto che l’uso massiccio delle tecniche
per ottenere l’identificazione del pubblico con l’eroe e la “sospensio-
ne dell’incredulità” permette di ottenere film che sono al tempo stesso
molto commerciali ma anche psicologicamente coinvolgenti. 33

La differenza non è di poco conto: si tratta di un cinema che, scelto il


proprio scopo, non si limita ad attendere speranzoso che il pubblico faccia
32. L. Forlai, “E se Terminator 2 fosse uguale a Lezioni di piano?”, in D. Audino (a
cura di), Contro l’ideologia del cinema d’autore, Dino Audino, Roma 1994, pp. 102-103.
33. L. Forlai, “Percorso dell’eroe e identificazione da parte del pubblico”, in D. Audino
(a cura di), Rocca e i suoi fratelli, Dino Audino, Roma 1996, pp. 60-62.

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capolino dalle tende della sala di proiezione. Si cerca piuttosto, innanzitutto,


di attirare il potenziale spettatore, di allargare la platea, e quindi trasmettere
un messaggio che non cada nel vuoto di una sala deserta.

In America il punto di partenza più comune è sapere cosa attirerà il


più largo pubblico possibile. Da ciò deriva il fatto che i personaggi e le
situazioni vengono sviluppate, non voglio dire soprattutto per far soldi,
ma tenendo conto dell’audience. Infatti, l’audience è enorme quando
si scrive a Hollywood e gli studi cercano film che facciano guadagnare
centinaia di milioni di dollari, perlomeno idealmente. Gli europei han-
no un certo vantaggio sugli americani in questo senso: i finanziamenti
dei loro film vengono da varie fonti quindi possono cominciare da una
base, diciamo, più autentica, e, di conseguenza, la differenza nelle sto-
rie tende a situarsi nel fatto che esse sono basate più sul personaggio
o hanno maggiori ambizioni intellettuali o politiche rispetto ad alcuni
film americani sui quali ho lavorato. [. . . ] Milos Forman raccontava
l’aneddoto del tipico regista indipendente europeo che presenta il suo
film e poi va ad una festa dove s’imbatte in una persona che gli dice:
“Ho visto il tuo film!” E il regista risponde: “Ah, eri tu!”. 34

Ogni regista è ben consapevole di questo, e dovrà fare di tutto per soddi-
sfare le aspettative del suo pubblico, per rispondere ai quesiti e alle esigenze
che ogni spettatore porta, legittimamente, nella sala cinematografica. Ogni
autore di cinema deve ricordare costantemente a se stesso che sono proprio
tali domande, aspettative e bisogni il motivo principale per cui il pubblico
va incontro al grande schermo.
Il sistema delle major hollywoodiano, d’altra parte, non ha mai schiac-
ciato l’artista, represso il genio, imprigionato l’originalità autoriale. Salvo le
eccezioni di pochi registi troppo “moderni” per un’industria in cui l’eccessiva
novità comporta sempre un rischio notevole (si pensi alle alterne fortune di
Welles in patria), l’abilità di ottimi narratori come John Ford, Frank Capra,
fino a Spielberg, Scorsese, Coppola o Lucas, è stata piuttosto convogliata in
un preciso canale dove potersi esprimere liberamente attraverso linee guida
prestabilite ma bisognose di un restyling: tale canale è il cinema di genere.
La codifica precisa di elementi narrativi irrinunciabili permette infatti di agi-
re, oltre che su un terreno già ampiamente collaudato, anche su strutture,
figure e metafore ben radicate nell’immaginario collettivo, consentendo di
lavorare su di una base comune da non dare per scontata, ma da rielaborare,
rinnovare e in ogni caso mettere in evidenza al fine di coinvolgere lo spet-
tatore adeguatamente, da più angolature, stimolandone sentimenti differenti
a seconda della forma di narrazione prescelta: una prima inquadratura su
di un cappello da cowboy, sulla targa di un investigatore privato, o sulla
sagoma di un pipistrello disegnata su una luna piena, è un segnale preciso
34. J. Nathan, “Voler raccontare una storia e saperla raccontare davvero”, in D. Audino
(a cura di), Il cinema è emozione ma l’emozione devi saperla costruire, Dino Audino,
Roma 1995, p. 61.

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a un particolare campo emozionale dell’immaginario personale e collettivo


del pubblico. Ogni genere porta con sé un codice ormai accettato e fatto
proprio dallo spettatore, tacita convenzione volta a far sì che, da subito, le
aspettative di chi entra in una sala cinematografica non restino del tutto di-
sattese. Ma non solo: la stessa definizione di genere, di cosa rientra o meno
in una precisa classificazione piuttosto che in un’altra, finisce con il dipen-
dere proprio da quel pubblico eletto a potenziale destinatario. È infatti lo
spettatore che, nel tempo, dona successo alle figure caratterizzanti di una
tipologia narrativa alle origini, perfezionandole, selezionando le più efficaci
eleggendole a figure di culto, e rendendole immortali, quasi richiedendone a
gran voce la ripetizione, alla ricerca di rassicuranti riconferme. Le icone di
una tipologia narrativa sono gli elementi che lo stesso pubblico ha promosso
a simboli.
Il genere dell’adventure movie, è tuttavia fortemente eterogeneo. Più
che un’unica tipologia, potrebbe essere definito un «genere-raccoglitore»,
che porta con sé elementi della fantascienza classica, del mito, dei film di
cappa e spada, del western, del fantasy e della fiaba. L’adventure movie è
una categoria che, più di ogni altra, fa uso di qualunque spunto, a livello
tematico o figurativo, che possa garantire il coinvolgimento dello spettatore.
Si tratti dell’uso sfacciato di stilemi ed elementi ormai noti (e per questo
rassicuranti e di sicuro successo), o dello stravolgimento degli stessi, è facile
vedere un film d’avventura che alterni magari combattimenti d’arti marziali,
duelli, scene d’amore, inseguimenti, indagini e sparatorie, seppure sempre
all’insegna di una sola, identica struttura di fondo.
E questa struttura, questo pattern è proprio quel «viaggio dell’eroe», quel
percorso di graduale apprendimento e sviluppo che lo spettatore compie in-
sieme alla sua immagine cinematografica, a quel protagonista che diventerà
eroe sconfiggendo i propri limiti e le proprie paure, armato ora di una spada
magica, ora di una pistola, ora del proprio coraggio e della «forza» nasco-
sta dentro di sé. La distinzione tra «Plot-driven stories», le storie in cui
«l’elemento centrale è l’intreccio stesso [. . . ] che il personaggio deve af-
frontare per raggiungere la meta» 35 , e «Character-driven stories», dove «il
vero nucleo/filtro drammatico della vicenda drammatica è rappresentato dal
personaggio, da come ostacoli e complicazioni si riflettono sulla sua interio-
rità» 36 non ha più ragione d’essere, poiché, paradossalmente, proprio negli
anni dell’effetto speciale senza confini, dove l’arte del mostrare non ha poten-
zialmente più alcun limite, ci si trova a dover affrontare un pubblico che, in
virtù di questo, ci dice Baudrillard 37 , fatica a emozionarsi, è disilluso. Anche
il più roboante film d’avventura, dunque, dovrà sempre assicurare contenuti
35. L. Aimeri e G. Frasca, Manuale dei generi cinematografici. Hollywood: dalle origini
a oggi, Utet, Torino 2002, pp. 122-23.
36. Ibid.
37. Cfr. J. Baudrillard, “Il complotto dell’arte”, in M. Mazzocut-Mis, Dal brutto al
kitsch. Percorso antologico-critico, Cuem 2003, pp. 260-61.

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oltre la seducente cortina della computer-grafica. Per quanto spettacolare


possa essere, l’azione pura, senza immedesimazione, appare fredda, mentre
anche il più ripetitivo dei videogiochi può emozionare nel momento in cui
riesce a creare l’atmosfera giusta, a coinvolgere.
Il pubblico eleggerà allora i propri modelli, dimostrando con l’affetto nei
confronti del personaggio principale e l’immedesimazione nelle sue peripezie,
di aver ben compreso l’insegnamento della storia, decidendo di farlo proprio.
Ovviamente è il protagonista, più di ogni altra figura, colui che incarna i
valori, i mutamenti e il percorso nel quale lo spettatore è chiamato, nelle
intenzioni dell’autore, a riconoscersi. In questo è aiutato, nel divenire parte
del mondo di fantasia creato dallo sviluppo della vicenda, dai personaggi
secondari, i quali dovranno in ogni caso essere altrettanto credibili e coerenti
con il filo della narrazione.
Dunque, per far sì che il personaggio appaia affidabile, solido e costrui-
to in maniera intelligente anziché stereotipato, fondamentale è il concetto
di «verosimile» perché la vicenda risulti credibile agli occhi dello spettatore.
Tale caratteristica non implica necessariamente l’attinenza con una realtà ge-
nerica, quanto piuttosto una coerenza con la realtà narrata nel film, qualun-
que essa sia; coerenza che riguarda il comportamento dei personaggi quanto
le scelte di matrice stilistica, poiché se è vero che il film, specialmente quello
di avventura e fantasia, è un’esperienza che miri a essere (quasi) totalmen-
te immersiva, un qualunque elemento dissonante avrebbe nello spettatore
l’effetto sgradevole di un brusco risveglio.

Il film di genere si adegua al verosimile per instaurare una sorta di


rapporto di complicità con il suo pubblico, il quale riconosce ciò che gli
viene proposto e lo assume come realtà referenziale assoluta, perché il
riferimento non è la realtà effettuale, ma la diegesi rappresentata nel
genere. Il verosimile si conforma quindi alle aspettative dell’audience,
per la quale saranno necessari un certo numero di tratti obbligatori ac-
cettati dalla codificazione (i numeri musicali nel musical, il duello finale
nel western, la strada perennemente umida e notturna del noir), ma
soprattutto, come afferma Marc Vernet, sono essenziali e discriminanti
per la creazione di verosimile gli elementi che un film di genere non
deve comprendere: «non potrebbe esserci, per esempio, in un film po-
liziesco un episodio cantato e danzato dal protagonista, oppure in una
commedia musicale una morte violenta particolarmente atroce». Si in-
staura una specie di patto tra il film e il suo pubblico e questo accordo
non dev’essere rotto, altrimenti verrebbe meno, con l’accettazione, lo
stesso piacere di fruizione filmica. 38

È un tacito accordo tra narratore e pubblico. Se nulla di sbagliato inter-


viene a rompere bruscamente il passaggio dell’Io dello spettatore dalla realtà
che lo circonda alla realtà fittizia dello schermo, la convenzione cinemato-
grafica si tradurrà in accettazione di qualsiasi elemento di fantasia proposto,
38. L. Aimeri e G. Frasca, op. cit., pp. 52-53.

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a patto che chi racconta abbia preparato a dovere le fondamenta della pro-
pria storia, ponendo le giuste premesse e creando nel potenziale pubblico le
aspettative corrette. Citando Aristotele, il narratore potrà e dovrà, dunque,
«preferire l’impossibile verosimile al possibile incredibile» 39 , perché anche la
trama più realistica può risultare falsa se porta con sé buchi evidenti, balzi
narrativi non giustificati, o una caratterizzazione abbozzata e incostante dei
suoi protagonisti: «se anche il personaggio che è alla base dell’imitazione è
incoerente, e questo è dato come suo carattere, deve essere coerentemente
incoerente» 40 .
La continua spinta creativa verso la rappresentazione originale di stile-
mi ben consolidati, rischia tuttavia di dipingere il cinema d’avventura come
forma di schiavitù per l’artista, soggiogato alle rigide leggi di mercato. Al
contrario, il poter usufruire di una struttura narrativa da sempre radica-
ta nell’immaginario dell’uomo comune si rivelerà un aiuto importante per
chiunque serbi comunque una buona inventiva, idee mai sfruttate, e sappia
costellare uno schema classico di elementi o letture innovative, per convo-
gliare il messaggio, anch’esso in apparenza scontato – l’eterna lotta tra bene
e male, la crescita di chi impara dai propri errori, il superamento di limiti
e momenti di crisi – avendo prima efficacemente catturato l’attenzione dello
spettatore. Che siano seguiti alla lettera, o stravolti in modo intelligente, gli
stilemi e i luoghi comuni propri dell’adventure movie non devono necessaria-
mente essere visti come un punto d’arrivo obbligato, quanto piuttosto come
uno stimolante punto di partenza, e insieme compagni di viaggio dalle mille
risorse. Se è vero che uno spirito creativo lasciato libero può dare vita a
opere dal genio più sfrenato, è nell’inserimento della novità in ciò che appare
ovvio che si misura la genialità a prescindere, il talento che non può fare a
meno di emergere.

Un’opera di genere deve contenere gli elementi di base, lo statuto in-


terno del genere cui appartiene, ma al tempo stesso non deve essere
la copia carbone di quanto già fatto. Deve operare qualche variazione
rispetto al modello oppure svilupparlo. Lo scrittore e il regista, il di-
rettore della fotografia e tutti gli altri tecnici che lavorano in un film di
genere, con il loro contributo creativo possono ridefinire qualche aspet-
to o contribuire a chiarificare il modello archetipico che sta dietro alla
storia. Non solo, ma soprattutto il regista può anche imprimere un
suo marchio personale al film pur narrando per l’ennesima volta una
vecchia storia. Spesso registi come Ford, Siegel e Leone hanno dato
il meglio di sé proprio attraverso il loro genere preferito. In tal modo
il film di genere diventa parte del folklore contemporaneo, parte della
nostra cultura popolare, ossia il modo in cui mettiamo ordine e diamo
senso alla nostra vita. 41
39. Arist., Poet., 24, 27-28.
40. Ibid., 15, 26-28.
41. S. Kaminsky, “E se l’autore non fosse quello che noi pensiamo?”, in D. Audino (a
cura di), Contro l’ideologia del cinema d’autore, cit., p. 56.

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Ma se è vero che il successo di tale prodotto dipende soprattutto dalla


sapiente miscela di elementi ormai affermati nell’immaginario collettivo e
originalità insita nella genialità autoriale, è altrettanto vero che un film che
non faccia altro che rispettare questi due criteri non ha ancora la garanzia
di impressionare positivamente il pubblico.
Certo, l’appartenenza a un genere specifico potrà attirare già da sé lo
spettatore amante di quella determinata tipologia narrativa, e l’indispensabile
dose di novità e qualità formale farà guadagnare al film il plauso della critica.
Ma il pubblico di tutte le epoche, insegna Du Bos, ha un unico, principale
criterio di valutazione dello spettacolo d’intrattenimento: l’emozione 42 .
Nella creazione di un buon film ecco allora apparire due nuovi elementi
da non sottovalutare, pena la realizzazione di un prodotto mediocre, senza
scopo o, nel migliore dei casi, terribilmente noioso: la trama e il ritmo, af-
fidati rispettivamente alla stesura del soggetto e, a partire da questo, della
sceneggiatura. Al primo va l’ideazione, specialmente in un film d’avventura,
del percorso dell’eroe in ogni sua tappa, le motivazioni, i cambiamenti, la
caratterizzazione dei personaggi e il loro punto d’arrivo, oltre alla costruzio-
ne di una serie di eventi che fornisca allo stesso tempo evasione e credibilità:
laddove il percorso risulterà credibile, il coinvolgimento – dunque, appunto,
l’evasione – dello spettatore sarà totale, evitando lo sgradevole effetto stra-
niante di difetti o “buchi” narrativi troppo evidenti per essere ignorati. Lo
straniamento, il costante richiamo alla realtà della sala, è il peggior nemico
del cinema d’avventura, che «predilige storie e personaggi di confine. Storie
e personaggi, cioè, che vivono in quella zona di frontiera che separa quello
che tutti noi siamo da quello che vorremmo essere. O da quello che abbiamo
paura di essere. O, ancora, da quello che mai e poi mai vorremmo esse-
re. È una zona assai ricca, questa, è una miniera inesauribile di immagini
e di emozioni, la natura della quale è intrinsecamente legata al cinema» 43 .
Ecco perché la maggior parte degli adventure movie predilige ambientazioni
non esplicitamente definite, stravolte, o addirittura ricreate ex novo, mondi
fantastici, universi a sé, come a sé è la vicenda narrata, dotata di equilibri
interni e avvenimenti allo stesso tempo eccezionali e perfettamente credibili.
È in tali settingche si muove l’elemento cardine dell’intera narrazione,
colui che sancirà o meno l’efficacia del prodotto: il protagonista. A lui spet-
ta il gravoso fardello di catturare fin dalla sua apparizione le simpatie e
la comprensione dello spettatore, chiamato a riconoscersi in tale figura, a
parteggiare per lui nei momenti di maggior tensione e a compiere, secondo
Campbell e i suoi discepoli più e meno espliciti, l’intero viaggio al suo fianco.
È quindi essenziale innanzitutto che la prima, importante funzione “didatti-
ca” del monomito venga rispettata: «eroe e spettatore devono innanzitutto
42. Cfr. J.B. Du Bos, Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura (1719), tr. it. di
M. Bellini e P. Vincenzi, Aesthetica, Palermo 2005, pp. 346-47.
43. S. Napolitano, “Rigenerare il genere”, in D. Audino (a cura di), Contro l’ideologia
del cinema d’autore, cit., p. 26.

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condividere almeno in parte i valori che sostanziano le azioni della storia» 44 .


Se è vero che il racconto monomitico, il viaggio dell’eroe, è appositamente
creato per tramandare valori e insegnare a sconfiggere le difficoltà attraverso
la presa di coscienza e il superamento dei propri limiti e paure, è altrettanto
vero che tale insegnamento non può nascere dal nulla, ma dovrà basarsi su
di un substrato di princìpi e bisogni già radicato nella platea a cui si rivolge.
La condivisione implicita del messaggio della storia è già di per sé, quin-
di, una buona base su cui costruire il rapporto spettatore-narratore, ma non
basta. Buona parte della morale è infatti veicolata soltanto attraverso la
conclusione della vicenda, così come la piena maturazione del personaggio
principale, per quanto le sue motivazioni possano essere chiare fin dal prin-
cipio (e spesso non è così). Occorre dunque che, insegnamento o meno, il
personaggio acquisti credibilità presso il pubblico, non soltanto attraversan-
do le tappe del viaggio come susseguirsi meccanico di livelli di difficoltà, ma
animato da un’idea che ne giustifichi costantemente l’agire: le sue motiva-
zioni potranno allora mutare nel corso della vicenda (il protagonista cerca
la vendetta e scopre il perdono, per esempio), ma di passo in passo, le sue
azioni non dovranno mai sembrare dettate esclusivamente da esigenze di
sceneggiatura.
Solo lavorando «sulla verità psicologica, con rispetto e attenzione verso i
personaggi, con competenza drammaturgica e conoscenza dell’animo umano,
e soprattutto senza la solita fretta di far capire le cose delegando tutto a dei
dialoghi didascalici, allora qualunque storia avrà delle buone possibilità di
arrivare al cuore degli spettatori e dunque sperare di imporsi sul mercato» 45 .
È il ritorno a ciò che si è già definito il «verosimile» nel cinema di genere:
obiettivo primario del narratore è proprio quello di convincere il pubblico,
prima ancora di stupirlo con virtuosismi di carattere formale, che altrimenti
resterebbero spettacolo magnifico per una sala vuota.
Una volta costruito un personaggio credibile, dotato di motivazioni al-
trettanto credibili, egli è infine pronto per iniziare il proprio viaggio. Ma
se ormai appare chiaro che il «viaggio dell’eroe» è per definizione un per-
corso di formazione, di perfezionamento, allora l’eroe stesso non è eroe fin
dal principio; certo, il pubblico è portato da subito a individuare nel per-
sonaggio principale il destinatario di tale importante carica, ma si tratta di
un’investitura tutta da guadagnare. Almeno in principio (e spesso fino alla
fine, per non risultare falso) l’eroe è specchio fedele dell’uomo comune, con
difetti e bisogni.
È d’obbligo dunque distinguere due differenti “origini” dello sviluppo del-
la storia: da un lato si ha la causa scatenante della vicenda, quell’iniziale
rottura dell’equilibrio che sarà causa più o meno diretta della partenza, ca-
44. A. Cometti, “Come verificare una storia rispetto al suo pubblico”, in D. Audino (a
cura di), Il cinema è emozione ma l’emozione devi saperla costruire, cit., p. 67.
45. R. Mazzoni, “Come far nascere un’emozione”, in D. Audino (a cura di), Contro
l’ideologia del cinema d’autore, cit., p. 77.

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suale solo in apparenza, del futuro eroe della storia. Dall’altro lato si ha il
momento in cui lo spettatore inizia davvero a sentirsi parte della vicenda,
attraverso l’immedesimazione nel personaggio principale. Infatti, se il pri-
mo incontro-scontro tra protagonista e antagonista può bastare a giustificare
l’inizio della concatenazione di eventi che costituirà la trama dell’opera, es-
so da solo non è sufficiente per garantire che questa coinvolga a dovere il
pubblico in sala. È necessario che il protagonista affronti una serie di «bi-
vi», ciascuno dei quali costituisce per certi aspetti un dilemma morale o una
prova di valore nelle intenzioni prima che nelle azioni.

A ogni divaricazione, davanti a lui: la possibilità di non reagire e quel-


la di reagire, principalmente; ma poi, in seconda battuta, come non-
reagire (tornare indietro e cambiare strada? Aspettare?) o come re-
agire (girandogli intorno? Scavalcandolo? Distruggendolo?). La scelta
svela il personaggio. [. . . ] In ogni caso è l’incontro con il bivio stesso
che implica conflittualità nel personaggio, rispetto al suo progetto di
viaggio verso la meta; è una complicazione: per quanto possa essere
di facile soluzione, l’incidente sarà comunque causa di un ritardo sulla
sua personale tabella. Si tratta di un conflitto e di un viaggio che vive
contemporaneamente il pubblico, per delega, attraverso il personaggio.
Ecco perché è così importante costruire il protagonista e selezionare at-
tentamente il momento e le modalità in cui entrerà a far parte della
diegesi, in funzione della creazione di un legame empatico con il pub-
blico nel minor tempo possibile (meglio, alla sua prima apparizione).
Il conflitto che il personaggio vive sullo schermo, articolato lungo il
viaggio, per il pubblico (nel pubblico) è emozione, coinvolgimento. È
un viaggio nel conflitto. 46

Ancora una volta, non si può fare a meno di leggere in tali tappe di
crescita del personaggio e del pubblico ben più che semplici echi delle teorie
di Campbell. Ancora una volta il processo di identificazione avviene secondo
le modalità del monomito. Lo spettatore non si appassiona a chi non supera
le prove con difficoltà, a chi non cambia, a chi non progredisce.
D’altro canto, così come si deve evitare che l’eroe affronti i pericoli con
eccessiva facilità e senza esserne minimamente turbato, sarà bene far sì che
tale percorso non sia costituito da un susseguirsi crescente di difficoltà sen-
za pause di gratificazione, o la vicenda assumerà i connotati grotteschi del
percorso a “schemi” di un videogame. Al contrario, la strada da percorrere è
quella del giusto equilibrio tra momenti positivi e negativi, tra miglioramenti
e peggioramenti, successi ed errori, per scongiurare la noia della prevedibilità
di un processo dal ritmo e direzione troppo uniformi. Questo infatti permette
di «dare movimento a un ipotetico diagramma emozionale dello spettatore;
controllare, ritmare, orchestrare le reazioni di chi vive la storia seduto nella
sua poltrona, al buio: inchiodarlo al sedile, poi permettergli di rilassarsi, di
46. L. Aimeri, Manuale di sceneggiatura cinematografica, Utet, Torino 1998, pp. 172-73.

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sistemarsi meglio, di appoggiare il gomito e la testa alla mano per fargliela


subito togliere facendolo nuovamente irrigidire» 47 .
Non si deve inoltre commettere l’errore di voler mostrare tutto e subito.
L’emozione dello spettatore medio va catturata gradualmente, attraverso
passaggi ben distinti, facendo sì che dapprima egli possa affezionarsi alle
peripezie dell’eroe, riconoscersi in lui e nelle sue azioni: solo a quel punto
sarà pronto per seguire il suo alter-ego di celluloide in quello che Luca Aimeri
definisce il “rollercoaster” emozionale degli accadimenti di un film 48 . Il già
citato Luigi Forlai, che si ispira apertamente a Vogler nel suo approccio
analitico alla struttura narrativa del film o del racconto d’avventura, opta,
come il suo modello, per una precisa divisione in tappe del plot, allo scopo
di monitorare costantemente il ritmo e lo sviluppo della vicenda, arrivando
alla costruzione di un crescendo che sia però nel contempo sapientemente
equilibrato. Il racconto è così costituito da quelle che definisce «Stazioni
Base», da seguirsi obbligatoriamente per garantire l’identificazione da parte
del pubblico in chi le attraversa.
Innanzitutto, il punto di partenza è un «Bisogno Inconscio»: «è neces-
sario che l’eroe non sia consapevole del suo bisogno inconscio ma il pubblico
ne deve essere consapevole. Solo in questo modo si genera un meccanismo
di ‘tenerezza’ ed ‘empatia’ verso l’eroe che permette al pubblico di seguir-
lo durante il suo percorso» 49 ; da tale bisogno ancora una volta dipende
«l’Obiettivo» del protagonista. Ma al contrario del Bisogno Inconscio, esso
è invece «molto specifico e definito. È importante che il pubblico alla fine
del conflitto sia in grado di stabilire senza ambiguità chi ha vinto: l’eroe o
l’Antagonista. L’obiettivo inoltre deve essere connesso in modo strutturale
con il Bisogno Inconscio perché questo permette di fare esplodere il conflitto
al suo massimo livello» 50 .
Ma si è già sostenuto che una vittoria troppo facile non comunica ciò
che comunica invece il trionfo del bene quando tutto sembra invece ormai
perduto. Quindi la vicenda non può fare a meno di colui il quale ha il compito
narrativo di far sì che l’eroe non porti a termine la propria missione:

Dopo la presentazione dell’Obiettivo viene presentato colui il quale


farà di tutto per impedire all’eroe di raggiungere l’obiettivo stesso:
l’Antagonista. Entrambi vogliono conquistare l’obiettivo e nessuno dei
due cederà sino a che l’altro non avrà perduto. [. . . ] L’antagonista de-
ve essere “necessario” cioè deve essere il personaggio che meglio di ogni
altro può colpire la debolezza (il bisogno inconscio) dell’Eroe. È pro-
prio il fatto che l’Antagonista sia necessario, cioè sia il peggior nemico
possibile per ogni specifico Eroe, che impedisce il compromesso di cui
parlavamo all’inizio. Eroe ed Antagonista “devono” combattersi fino
47. Ibid., pp. 189, 191.
48. Cfr. ibid., p. 210.
49. L. Forlai, “E se Terminator 2 fosse uguale a Lezioni di piano?”, cit., p. 104.
50. Ibid.

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alle estreme conseguenze perché solo in questo modo possono seguire


il loro destino interiore. La Guerra con l’Altro è perciò necessaria alla
loro stessa esistenza, alla loro stessa identità. 51

Ha così inizio l’appassionante crescendo del conflitto, in realtà composto


di due parti ben distinte. Inizialmente esso appare quasi come uno scon-
tro indiretto, una serie di azioni-reazioni in cui i contendenti possono anche
non incontrarsi, rendendo così ancora più forte l’attesa per lo scontro riso-
lutore. È la «Stazione Base della Guerra», durante la quale «ogni azione
del percorso può essere vista come una mossa dell’Eroe e una contromossa
dell’antagonista. Lo scontro è di tale livello che ad ogni attacco l’altro corri-
sponde con un innalzamento del livello dello scontro. Nessuno dei due cede
fino alla Battaglia Finale» 52 . Quando l’incontro tra le parti è infine inevita-
bile, poiché il climax del conflitto ha raggiunto il suo apice, è il momento della
«Battaglia Finale», alla quale corrisponde una battaglia ben più importan-
te, condizione essenziale per la vittoria, ovvero l’affermazione dell’effettiva
maturazione dell’eroe: «in questa Stazione si decide chi conquista l’obiettivo
concreto che i due duellanti vogliono ma in realtà si definisce anche l’ultimo
anello dei cambiamenti a cui è andato incontro l’eroe» 53 . Il trionfo del pro-
tagonista, e del pubblico con lui, avviene solamente una volta soddisfatta la
condizione essenziale che Forlai definisce «Auto-scoperta», ottenuta al ter-
mine di un percorso che culmini soltanto attraverso la risoluzione drastica
del conflitto che aveva originato l’intera vicenda, come dimostrazione ulti-
ma dell’avvenuto mutamento. L’eroe prende infine coscienza della necessità
di un cambiamento, trova in sé la forza per superare il Bisogno Inconscio
che ne aveva fino a quel momento rallentato il cammino, e trae da tutto
questo l’insegnamento necessario a mostrarsi migliore della sua controparte
malvagia, per sconfiggerla una volta per tutte.
Anche Dara Marks, script consultant al pari di Chris Vogler, parla di
«arco di trasformazione del personaggio»: tale teoria non è altro che la di-
mostrazione di come Hollywood si sia servita e si serva ancora stabilmente
di topoi propri del mito o della narrativa blockbuster di qualunque genere o
epoca. Ciò che per Campbell pareva nel contempo dimenticato e indimenti-
cabile poiché parte e simbolo del percorso di crescita personale di ogni essere
umano, è oggi insegnato nelle scuole di sceneggiatura, ed è il criterio fonda-
mentale su cui si basa chi è pagato per selezionare gli script e pronosticarne
il successo. Secondo Dara Marks, «l’arco di trasformazione prende le mosse
dal [. . . ] ‘fatal flaw’ del personaggio – la carenza essenziale, l’errore fatale
del personaggio – definita come ‘la condizione del personaggio se non cresce
e non cambia’» 54 .
51. Ibid., pp. 104-105.
52. Ibid., p. 105.
53. Ibid.
54. D. Costantini e G. Ventriglia, “Il film come arco di trasformazione del personaggio”,
in D. Audino (a cura di), Impariamo a scrivere meglio le nostre storie, Dino Audino, Roma

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Quel cambiamento che per Campbell era da un lato conseguenza natu-


rale del viaggio dell’eroe, dall’altro il significato che nella psiche umana tale
viaggio nascondeva – come metafora della crescita e del passaggio “eroico”
da infanzia a età adulta – ora è considerato addirittura condizione essenziale
perché l’eroe sopravviva. Non cambiare significa non sopravvivere: «il pro-
tagonista della storia viene a trovarsi in una situazione di crisi, il suo modo
di vita non gli permette né lo spinge ad uscirne: deve quindi affrontare, con-
sapevolmente o inconsapevolmente, la sfida del cambiamento – della propria
trasformazione – pena la propria ‘morte’, reale o metaforica» 55 .
Rispetto ai suoi colleghi, però, Dara Marks divide il percorso del pro-
tagonista in tre sole parti, questa volta non più successive ma sviluppate
in parallelo: una è la trama principale, che prevede le avventure vissute ef-
fettivamente dall’eroe, le prove affrontate, i nemici sconfitti, e tutti quegli
avvenimenti che a un’analisi di livello più superficiale sembrerebbero già di
per sé garantire l’immedesimazione dello spettatore. Ma la suspense natura-
le di concitate scene d’azione è ben diversa dal riconoscersi nel protagonista
di tali scene, e la trama principale non può fare a meno dei suoi subplot, sot-
totrame meno evidenti, ma altrettanto importanti a un livello più profondo:
esse infatti seguono lo sviluppo caratteriale ed emotivo del personaggio, e
sono la chiave perché lo spettatore possa immedesimarsi nell’eroe, nei suoi
pensieri, nelle sue preoccupazioni e nei suoi sentimenti.

La storia A, o trama (plot), è il “viaggio del protagonista nel mondo


esterno”,ossia ciò che il protagonista affronta (ostacoli, impedimen-
ti, complicazioni) per conseguire il suo obiettivo dichiarato [. . . ]. La
storia B, definita sottotrama (subplot) primaria, poggia su una dimen-
sione relazionale – amore, amicizia, famiglia, ambiente di lavoro – e
funziona da luogo in cui si innesca o si manifesta nelle storie A e C.
[. . . ] La storia C, o sottotrama (subplot) secondaria, è il percorso di
trasformazione interiore del personaggio, l’acquisizione della necessità
del cambiamento insieme con l’effettivo processo di mutamento. 56

È quindi assolutamente possibile, oltre che molto frequente, che i sub-


plot non abbiano esclusivamente la funzione di un approfondimento, di un
abbellimento alla trama principale, ma che finisca con l’intersecarsi con que-
sta, con l’imprimerle una direzione precisa, influenzandone l’andamento in
modo deciso e definitivo. Il particolare in apparenza più insignificante può,
in un secondo momento, rivelarsi la causa scatenante del conflitto che fa
da motore alla vicenda. Senza esagerare, un film si dimostrerà elaborato e
originale sul piano della costruzione della trama, quanto più saprà stupire il
pubblico con tali espedienti, costringendolo a porre una continua attenzio-
ne ai segnali disseminati soprattutto nella prima parte del racconto, quella
1997, p. 29.
55. Ibid.
56. Ibid., pp. 29-30.

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in cui il narratore inizia a disporre i pezzi della storia sulla sua personale
scacchiera di celluloide. Spesso così i subplot, o gli “indizi” da essi disse-
minati nella trama, diventano parte dell’iconografia propria del cinema di
genere: il flash-back su eventi traumatici che hanno segnato la vita di un
personaggio scontroso, solitario o egoista, pronto però a tornare sui suoi pas-
si e soccorrere il protagonista nella battaglia finale, anche a costo della sua
stessa vita; o la semplice storia d’amore che sboccia, improvvisa e passio-
nale, tra i due protagonisti che fino a quel momento non avevano fatto che
bisticciare (e al risveglio il mattino dopo lei è sparita, rapita dal malvagio di
turno, costringendo l’eroe a intraprendere un lungo e periglioso viaggio. . . ).
Se sapientemente gestito, l’ordine delle scene, la loro concatenazione causale,
potrà giocare con le aspettative del pubblico, soddisfarle o sorprenderle per
crearne immediatamente di nuove, senza naturalmente che questi perda il filo
narrativo dell’intera vicenda. I sub-plot possono essere ottimi distributori di
indizi, piccoli focolai di stimolo della curiosità dello spettatore ad accompa-
gnare la tensione (in senso positivo) per l’andamento della trama principale,
la quale, a sua volta, dovrà evitare che la platea si smarrisca, guidandola se-
condo passaggi chiari, non necessariamente lineari sul piano cronologico (film
come Memento 57 di Christopher Nolan ne sono esempio lampante), purché
alla fine della proiezione al pubblico tutto sia stato spiegato o comunque reso
comprensibile, in maniera più o meno esplicita.

La sceneggiatura, nel suo complesso, non deve essere giustapposizio-


ne di eventi, ma concatenazione; non deve essere paragonabile a una
cronistoria, in cui i fatti riportati non rispondono a criteri drammatici
nella loro correlazione: la sceneggiatura deve suscitare uno specifico
interrogativo nello spettatore, “Che cosa succederà adesso?”. Causa;
“Che cosa succederà adesso?”; Effetto. Ma non è sufficiente: l’effetto
deve a sua volta trasformarsi in causa che provochi altri effetti. La ca-
sualità deve essere rimpiazzata dalla causalità, la storia deve diventare
plot. 58

Ovviamente, non basta inserire tali elementi qua e là nel racconto per
renderlo appassionante, coinvolgente o più intenso e veritiero. Specialmente
nel cinema d’avventura, dove il rischio che il prodotto di genere sfori nel-
lo stereotipo (dunque nel ridicolo involontario, uno dei rischi peggiori per
un film d’azione) è più elevato, sono necessarie altre scelte, di carattere più
prettamente stilistico, che all’uso di figure appartenenti all’immaginario col-
lettivo coniughino un buon ritmo e giuste scelte di tempo nell’utilizzo di
trame principali e secondarie: è questo il compito fondamentale della sce-
neggiatura. Vi sono ad esempio momenti nei quali l’incrociarsi di trame e
sottotrame in immagini dal ritmo elevato assume l’aspetto di un crescendo,
57. Memento, regia di C. Nolan, Newmarket Films, USA 2000.
58. L Aimeri, Manuale di sceneggiatura cinematografica, cit., p. 123.

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di un incalzare emotivo, in cui si fa avanti il talento dell’autore non più so-


lamente nel decidere che cosa raccontare, ma anche come raccontarlo: sono
proprio tali possibili varianti a mostrare come un adventure movie destinato
a un pubblico di massa possa comunque essere allo stesso tempo fortemente
condizionato dalle scelte stilistiche e, dunque, anch’esso film “d’autore”.

Il suspense è prima di tutto la drammatizzazione del materiale narrati-


vo di un film o almeno la presentazione più intensa possibile delle situa-
zioni drammatiche. Un esempio: un personaggio esce di casa, sale sul
taxi e corre verso la stazione per prendere il treno. È una scena normale
all’interno di un film medio. Ora, se prima di salire sul taxi quest’uomo
guarda il suo orologio e dice: “Mio dio, è spaventoso, non prenderò mai
il treno”, il suo percorso diventa una pura scena di suspense, perché
ogni semaforo, ogni incrocio, ogni vigile, ogni movimento della leva del
cambio vanno a intensificare il valore emozionale (drammaturgico) del-
la scena. Una tale decisione di drammatizzazione non può funzionare
senza arbitrarietà, ma l’arte sta proprio nell’imporre questa arbitrarie-
tà. Aggiungo che ciò che rende una sequenza indimenticabile, spesso
sta nel plusvalore drammaturgico di un dettaglio. Dalla scelta di quel
dettaglio, sempre arbitraria, a volte dipende tutto un film. 59

Questo fa capire anche come, nella creazione di un racconto filmico (la


semplice parola “film” a questo punto suona come una limitazione del di-
scorso al piano tecnico-realizzativo) nulla sia lasciato al caso. Lo spettatore
pretende – e in questo, attenendosi a un punto di vista puramente narrativo,
non gli si può dar torto – che ogni scena, ogni inquadratura, abbia ragion
d’essere, un preciso significato e motivazioni forti ai fini dello sviluppo della
storia. È un passaggio che deve esser chiaro fin dalla stesura della sceneg-
giatura: «senza personaggio non c’è azione; senza azione, niente conflitto;
senza conflitto, niente storia, e senza storia, non c’è sceneggiatura» 60 , e so-
prattutto «L’azione è il personaggio, una persona è ciò che fa, non quello
che dice di essere» 61 .
Nella narrazione cinematografica non esistono spazi per riferire pensieri,
sentimenti o concetti astratti se non attraverso le immagini. Non possono
esistere immagini “inutili” in un racconto per immagini, perché il pubblico
si aspetta di trovarvi comunque un significato che aiuti a comprendere la
direzione presa dalla trama. Chiunque faccia cinema con scopi anche par-
zialmente diversi, non narrativi, farà bene a specificarlo, quindi, o incorrerà
nelle ire di un pubblico tradito.

Una scena, come una sceneggiatura, è composta da un inizio, una


parte centrale e una fine. Si può pensare a una scena come se fosse
59. D. Sacchetti, “Ripartiamo dai fondamentali”, in D. Audino (a cura di), Fare cinema
e TV di qualità e non d’élite, Dino Audino, Roma 1995, p. 90.
60. S. Field, La sceneggiatura. Il film sulla carta (1984), tr. it. di G. Lagomarsino,
Lupetti, Milano 1991, p. 42.
61. Ibid.

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una sceneggiatura in miniatura, composta da tutti gli stessi elementi.


In altre parole, la scena ha inizio in un punto dell’azione e porta verso
un altro, cioè il climax o la parte finale della scena stessa. Come per la
sceneggiatura, bisogna sapere in anticipo la fine prima di cominciare a
scriverla, poi si lavora all’indietro dalla parte finale della scena verso
quella iniziale. Ogni scena deve avere uno scopo. Senza uno scopo la
scena non funziona. [. . . ] Trovare qual è il fine della vostra scena vi
aiuterà a definirla meglio. Forse la scena ha lo scopo di introdurre una
storia d’amore, di far vedere un delitto, di piazzare un indizio che un
detective dovrà scoprire. Sapere qual è il vostro scopo vi aiuterà a
scrivere in maniera concreta e mirata e vi indicherà una direzione da
seguire. [. . . ] Ogni scena che non sia di raccordo ha un inizio, una
parte centrale, ed una fine, ma in più dovrebbe avere una direzione.
Quando una scena comincia deve portarci da qualche parte. Alla fine
della scena il personaggio deve aver raggiunto un punto drammatico più
alto rispetto all’inizio. Ogni scena deve avere un climax, che porterà
il personaggio verso la scena seguente, altrimenti la vostra scrittura
rimane episodica, senza né direzione né struttura. 62

Non necessariamente questo significa, opinione invece facilmente riscon-


trabile, la diffusione di film senza alcuna ambizione artistica. La ricerca di
un pubblico non deve corrispondere a una resa sul piano della qualità, e
l’universalità di temi ed elementi non deve comportare l’obbligo di adagiar-
si su di una eccessiva semplicità formale che, al contrario, non è mai vera
attrattiva per uno spettatore medio troppo spesso sottovalutato.
La vera sfida per il narratore moderno non è quindi la creazione di
un’opera inattaccabile perché troppo personale per essere giudicata obiet-
tivamente, quanto piuttosto il riuscire a coinvolgere attraverso l’uso di figure
e schemi ben collaudati, appassionare e insieme insegnare qualcosa, soddisfa-
re le richieste dello spettatore e insieme stupirlo con un prodotto originale.
Sta a ogni autore di cinema che voglia ottenere tale effetto il compito di
cercare di non complicare o turbare in alcun modo il processo di “immer-
sione” dello spettatore, facendo sì che proprio grazie a tale avvicinamento
totale alla vicenda narrata egli possa eludere la semplice fruizione passiva
dello spettacolo, per diventarne, almeno dentro di sé, parte attiva attraverso
la compassione e la partecipazione, e in definitiva velato e reale protagonista.

3 Conclusioni
Dalle pitture rupestri a Star Wars, l’uomo ha sempre raccontato storie, af-
fascinato un pubblico, cercato risposte, e ogni volta lo ha fatto attraverso
le medesime figure, simboli e percorsi. Anche oggi, nel rocambolesco mon-
do dell’intrattenimento moderno, lo sceneggiatore ha sostituito lo sciamano,
62. R. Ballon, “L’ABC dello sceneggiatore esordiente”, in D. Audino (a cura di),
Impariamo a scrivere meglio le nostre storie, cit., pp. 55-56.

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l’autore di best-seller il cantastorie, ma il protagonista di miti, favole e rac-


conti resta tutt’ora insostituibile. Perché dietro a Teseo smarrito nel labi-
rinto, dietro alla Passione di Cristo, dietro alla vendetta di Edmond Dantès,
dietro a Luke Skywalker e Han Solo si cela sempre lo stesso, irrinunciabile
personaggio principale, fedele ritratto del proprio pubblico: l’uomo.
Lo spiega efficacemente Jean-Baptiste Du Bos: la storia vera è scrit-
ta per il pubblico, il narratore trae successo e piacere dal coinvolgimento
emotivo dello spettatore, secondo canoni tanto individuali quanto univer-
sali, perché la passione non segue, a lungo termine, il giudizio elitario del
critico, ma nasce dall’esperienza emozionale del singolo 63 . Nel contempo,
pur nell’impossibilità di codificare regole certe d’immedesimazione, laddove
la storia riuscirà a comunicare princìpi primordiali e condivisi, mantenendo
un legame forte, per quanto indiretto, con la realtà quotidiana, essa avrà
di partenza tutte le possibilità di raggiungere il proprio scopo. L’abile nar-
ratore, sostiene infatti Du Bos, è colui il quale riesce a catturare per la
vicenda un’attenzione non fine a se stessa, ma che diventi mezzo efficace e
indispensabile per veicolare un preciso messaggio, un insegnamento 64 .
Lo scopo del racconto allora è duplice, e ognuna delle due declinazioni
è funzionale all’altra: chi racconta vuole e deve intrattenere, emozionare,
coinvolgere lo spettatore, tenerlo vicino a sé per tutta la durata della storia,
e solo alla fine liberarlo, per lasciarlo tornare a casa con qualcosa in più.
Ma proprio quel “qualcosa in più” è la seconda, fondamentale funzione della
narrazione: è un dono di riscoperta, poiché soltanto al termine dell’intero
viaggio lo spettatore è pronto a capire che il motivo per cui determinati
elementi lo hanno così colpito, facendo sì che si immedesimasse con tanto
trasporto nella figura del protagonista, è che tali figure giacevano sopite in
lui, in attesa di essere risvegliate da una storia in grado di toccare le corde
giuste.
E così ecco il mito, ecco la tragedia e la commedia, ecco il teatro, i ro-
manzi, i film. Oggi più che mai il cinema, soprattutto quello americano,
continua con rinnovato vigore a fabbricare sogni in formato kolossal a uso e
consumo dello spettatore medio, grazie ai costanti e inarrestabili progressi
nella realizzazione degli effetti speciali, condizione apparentemente irrinun-
ciabile per un prodotto cinematografico di sicuro intrattenimento: nulla è
impossibile e tutto appare, sul piano visivo, assolutamente credibile.
Ma anche nell’era della computer-grafica e delle favole ad alta tecnolo-
gia, la storia, la trama, il racconto in ogni sua tappa, occupano nella mag-
gior parte dei casi un posto di enorme rilevanza. Dimostrazione principale
dell’universalità del modello monomitico è allora proprio il suo persistere
in un genere come l’adventure movie, dove, puntando sulla semplice spetta-
colarità dell’immagine per affascinare uno spettatore senza eccessive prete-
63. Cfr. J.-B. Du Bos, op. cit., pp. 295-96.
64. Cfr. ibid., p. 51.

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se, si potrebbe in apparenza tranquillamente fare a meno di una struttura


narrativa ben studiata.
È invece proprio il film d’avventura, più di ogni altro genere cinema-
tografico, a offrirci oggi di frequente la possibilità di un salutare ripasso:
immagini spettacolari assicurano il fascino del momento nella singola scena,
mentre meccanismi di suspense ben congegnati garantiscono a lungo termine
l’attenzione dello spettatore, creando aspettative, stimolando affetti, giocan-
do con colpi di scena e climax di tensione. Il mestiere dello sceneggiatore
è ricco di spunti ed espedienti per spaventare, appassionare, commuovere
chi assiste alla narrazione filmica, in una dimensione che sia sempre più
immersiva, anche nella riproduzione credibile dell’incredibile.
Ma soprattutto, ogni giorno di più Hollywood sceglie di narrare le storie di
eroi in fieri, personaggi in apparenza comuni spinti da una serie di eventi ma-
gistralmente architettati ad abbandonare la comoda routine domestica, per
affrontare prove, nemici e, soprattutto, quella metà oscura nascosta in ogni
uomo, di cui il più classico degli antagonisti da film non è che la proiezione.
Al di là del setting spazio-temporale specifico della vicenda narrata, infat-
ti, ogni «viaggio dell’eroe» ci mantiene con il fiato sospeso e un vivo interesse
soprattutto in virtù di ciò che ci ripete costantemente: ciò a cui stiamo as-
sistendo potrebbe succedere a ciascuno di noi. Il coraggio, l’ottimismo, la
presa di coscienza dei propri difetti e la scoperta del modo migliore per su-
perarli, il valore dell’amicizia o dell’amore, sono grandi temi in cui è facile
riconoscersi, anche confinati nel mondo “altro” della sala di proiezione. È
così da sempre, dai racconti intorno al fuoco ai poemi epici, dall’Enrico V
a Matrix. Chi si farà prendere dalla storia sarà costantemente pungolato
dal ricorrere di mille domande: “Cosa farei io al posto suo? Come reagirei?
Scapperei? Mi batterei? Riuscirei a sconfiggere il drago? Troverei il coraggio
di salvare la principessa?”, e se lo spettatore potrà trovare in se stesso rispo-
ste soddisfacenti uscirà dalla sala trasformato. Chi invece riuscirà a cogliere
consapevolmente, oltre che inconsciamente, il messaggio nella metafora al di
là del racconto di fantasia, capirà ciò che ogni racconto eroico in realtà vuole
comunicare, e cioè che, attraverso piccoli eroismi quotidiani, anche vivere
può essere una grande avventura.
E se è vero che i film d’avventura utilizzano nella maggior parte dei ca-
si la formula narrativa del monomito teorizzata da Campbell, a sua volta
elaborazione fantastica delle tappe di crescita dell’uomo comune, allora si
potrebbe quasi affermare che in ogni potenziale destinatario tale consape-
volezza giaccia sopita, in attesa di essere risvegliata dall’opera giusta. Ecco
perché è bene fare molta attenzione a non sottovalutare l’impegno intrapreso
nella realizzazione di tali film.
Non sempre però questo succede: tale formula non deve diventare qual-
cosa su cui adagiarsi, dandola per scontata. Chiunque si limiti a elencare le
tappe del viaggio con la freddezza di un videogame produrrà film nel migliore
dei casi scontati, banali e prevedibili nella trama. E se è vero che lo spettato-

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re accetta, più o meno inconsciamente, la prevedibilità, in virtù di una tacita


convenzione basata sulla rassicurante ripetizione di determinate strutture, è
altresì vero che a tale percorso devono corrispondere credibilità, simpatia e
compassione, senza le quali anche gli effetti speciali non possono compiere
miracoli: come efficacemente ribadito da Baudrillard, l’illusione troppo rea-
listica e fine a se stessa porta alla disillusione, la ripetitività ingiustificata
provoca soltanto disinteresse.
Il ricorso a schemi narrativi consolidati deve essere allora sempre motivato
da un fine preciso, da un messaggio da veicolarsi attraverso i mutamenti
che caratterizzano il protagonista del viaggio. Cambiamenti troppo bruschi,
personaggi inespressivi o prigionieri di uno stereotipo, la mancanza di uno
scopo, faranno piuttosto apparire il racconto struttura una mera operazione
di marketing basata sul successo di una prima geniale intuizione, di cui si è
finito col perdere lo spirito originario. Proprio il freddo utilizzo di strutture
considerate di sicuro successo si rivela dunque, nelle mani di narratori senza
personalità, una prigione per lo slancio creativo, una gabbia per chi non vi
si sappia muovere con sufficiente disinvoltura e originalità.
Da un lato si può quindi affermare che la spettacolarità della forma, in
un adventure movie ben riuscito ed efficace, non è mai fine a se stessa, ma
è piuttosto un mezzo attraverso cui attirare l’attenzione dello spettatore e
coniugare intrattenimento e insegnamento morale. Dall’altro si osserva in-
vece come quello che in apparenza è cinema di puro divertimento risponda
piuttosto a una precisa domanda, più o meno consapevole, da parte del
pubblico medio, che avrà sempre bisogno di un rassicurante racconto che ri-
badisca periodicamente, seppure ogni volta in forma diversa, valori universali
e messaggi positivi, o, semplicemente, la possibilità di un lieto fine.

Stefano Benedetti
Stefano Benedetti (Milano, 1982), si è laureato in Scienze dello Spettacolo e della Comu-
nicazione Multimediale presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi in Estetica
dello Spettacolo dal titolo L’eroe senza tempo. L’avventura nel cinema contemporaneo
americano tra mito e melodrammatico. Ha collaborato dal 2005 al 2007 con l’Università
degli Studi di Milano, lavorando insieme agli stagisti della scuola Centro Teatro Attivo di
Milano come assistente alla regia, con particolare attenzione allo studio e alla rielabora-
zione di testi drammaturgici. Attualmente insegna recitazione in alcune scuole elementari
ed è tra i coordinatori del progetto “Racconto Italiano” del teatro Franco Parenti.

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