Sei sulla pagina 1di 4

Maria Laura Coassin 4^B A.S.

2019/2020
PROVA IN ITINERE FILOSOFIA CLASSE 4B 03/04/2020

Analizzate la Questione "La natura: soggetto vivente o oggetto meccanico?", trattata dalla p. 172 alla p. 176 del
manuale e rispondete alle seguenti consegne:

1) Esponete  le due posizioni, arricchendole di riferimenti pertinenti ed organici anche ad altri  autori studiati.

2) Argomentate la posizione che considerate più affine, ispirandovi a considerazioni suggerite dalla situazione
attuale.

L’umanesimo, concentrando la sua attenzione sul mondo e soprattutto sul posto che in esso occupa l’uomo, andava
costruendo un tipo di sapere letterario-filosofico che, nonostante certe apparenze in contrario, preparava il terreno
ad un’osservazione più attenta e analitica del mondo della natura.
Le prime malcerte conquiste del '400 non sono facilmente individuabili nella cultura del tempo, perché si tratta
spesso di comprendere gli atteggiamenti di letterati-filosofi ancora legati a schemi mentali del passato, a un
linguaggio che se pur va mutando di significato, richiama ancora quello dei pensatori e degli uomini di cultura
dell'ultimo scorcio del medioevo; quello che con sicurezza possiamo dire è che si va delineando in questo secolo un
diverso senso della natura, un nuovo sentimento della collocazione dell'uomo in un universo che già non è più quello
di Dante o di Tommaso d'Aquino; nel giro di pochi decenni viene reinventata una scala di valori culturali, morali e
scientifici fortemente differenziati rispetto al passato e nasce una cultura densa di fermenti innovatori, di intuizioni
nuove e geniali che magari rimangono ancora imprecisate, come se il pensiero umano, posto improvvisamente di
fronte a prospettive inusitate e straordinarie, si muovesse fiducioso di sé, ma ancora indeciso sugli strumenti
concettuali capaci di sin tesi e prospettive sicure.
Si rinnova radicalmente in questa età la concezione della natura; questo mondo, che nella concezione teologica
medievale era sol tanto luogo di pena e di fatica dove l'uomo si doveva asceticamente guadagnare il premio di Dio,
adesso diviene il luogo per eccellenza congeniale alla creatività e allo spirito di iniziativa dell’uomo stessa maestà
divina nella prospettiva di qualche filosofo sembra addirittura come effondersi nella natura in una sorta di solidarietà
con l'uomo stesso.
La nascita della scienza, nel senso che noi diamo al termine, era ancora abbastanza lontana, ma già tra il ‘400 ed il
‘500 l’atteggiamento mentale dell’uomo di fronte al mondo fisico comincia sempre meno impercettibilmente a
variare. L’umanesimo letterario, nella sua riscoperta del mondo classico e nella ricerca dei testi greci e latini
dimenticati, si era imbattuto anche in quelli più strettamente scientifici che suscitarono un interesse per il pensiero
di alcuni scienziati dell’antichità che il medioevo aveva o dimenticato o sottovalutato; in tal modo gli umanisti
avevano stabilito una certa dimestichezza con la tradizione di Democrito, di Euclide, di Archimede e di altri pensatori
e scienziati che nell’antichità già avevano elaborato e maturato un consapevole metodo di approccio con il mondo
fisico. L’aristotelismo tradizionale, inoltre, pur con le sue incrostazioni ideologiche e scolastiche, aveva contribuito a
mantenere vivo il senso di una natura in cui i fenomeni hanno pur sempre una loro motivazione naturale e, infine, il
platonismo risorgente ribadiva l’idea che il cosmo, inteso come il frutto dell’intelligenza e creatività divina, doveva
rispecchiare in qualche modo la suprema razionalità di Dio che poteva essere intravista, proprio secondo la
concezione di Platone, nella prospettiva geometrico-matematica.
Queste prime avvisaglie sono soltanto vaghe anticipazioni, poiché l’umanesimo quattrocentesco è ancora propenso a
guardare il mondo della natura attraverso suggestioni di carattere magico e astrologico, nella fiducia di poter
stabilire immediate analogie pampsichistiche tra microcosmo e macrocosmo e di poter usare le matematiche
secondo l’astruso simbolismo della tradizione pitagorica. L’età umanistico-rinascimentale è in effetti caratterizzata da
una lenta e faticosa acquisizione dei criteri con cui la mente umana possa dare ordine all’infinita serie dei fenomeni
sensibili che circondano l’uomo, mediante l’applicazione di un’ordinata razionalità causale. E in un primo tempo
questa aspirazione appare animata dall’ingenua fiducia che effettivamente il pensiero umano possa affrontare e
risolvere rapidamente un problema di così ampia portata, e che tutto quanto il mondo dell’esperienza possa essere
inquadrato senza gravi difficoltà nei limiti di un disegno razionale. Ma per un lungo periodo, cioè fino agli inizi del
‘600, regnerà su tale questione metodologica una grande confusione e fino all’età di Galilei non si riuscirà a chiarire
Maria Laura Coassin 4^B A.S.
2019/2020
una questione di fondo, cioè che tutta la realtà fisica, quella inanimata e inorganica, e quella organica e animata, non
può essere studiata con gli stessi criteri, e che i diversi campi di ricerca abbisognano di volta in volta di metodi
particolari. La scarsa consapevolezza metodologica si risolve quindi in ingenue e generiche analogie tra l’uomo e la
natura; solo agli inizi del XVII secolo il pensiero comincerà ad elaborare un metodo rigoroso mirante a stringere il
mondo fisico nei ferri schemi di una prospettiva matematico-quantitativa, che però costringerà il procedimento
scientifico a ridurre il campo delle sue operazioni entro limiti ben precisi.
Ad ogni modo, lo svolgimento del pensiero umanistico quattrocentesco, nonostante certe premesse platoniche e
spiritualistiche, finisce col favorire nel XVI secolo l’affermazione di un atteggiamento filosofico e scientifico inteso a
studiare l’uomo e la natura da un punto di vista sempre più diretto immediato e schivo, per quanto possibile, di
giustificazioni metafisica, teologiche o comunque trascendenti il mondo naturale.

Il pensatore che più compiutamente di ogni altro nella seconda metà del ‘500 ha espresso i conflitti culturali e
spirituali del tempo e che è stato capace di rendere il nuovo senso dell’universo che nasceva dall’intuizione
copernicana, è stato Giordano Bruno il quale, pur rifacendosi al naturalismo del contemporaneo Telesio, si ispira al
neoplatonismo di Cusano, al materialismo atomistico di Democrito e di Lucrezio e al matematismo simbolico e
magico del pitagorismo.
Convinto dell’importanza e della validità, si batte energicamente a difesa e ad esaltazione della concezione
copernicana e mira anche ad oltrepassare la stessa, giungendo ad affermare audacemente l’infinità dei mondi in
base all’argomento per cui l’infinità della Causa prima, cioè di Dio, implica l’infinita dell’effetto, cioè del creato; da
questo punto di vista, che richiama quello del Cusano, l’universo infinito non ha né centro ne periferia, e di
conseguenza anche il rigido eliocentrismo viene superato in uno slancio appassionato ed entusiastico che rimane
una caratteristica costante del temperamento filosofico del nolano.
Si afferma spesso, e a mio parere non correttamente, che Bruno non aveva le cognizioni matematica adeguate per
approfondire ed allargare la concezione copernicana dell’universo; in effetti possedeva della matematica una
concezione arcaica, “numerologica” e pitagorica, ma anche se fosse stato un profondo cultore di questa scienza non
avrebbe potuto in alcun modo argomentare “scientificamente” la sua prospettiva sull’infinità dei mondi che nasceva
esclusivamente da un’intuizione. Del resto, nemmeno la scienza matematico-astronomica dei nostri giorni potrebbe
in alcun modo sostenere o confutare le affermazioni sull’infinità che è e rimane una ipotesi inverificabile.
L’interesse di Bruno si focalizza sulla φύσις nella sua ampiezza e complessità, non tanto sull’uomo in sé; ecco il
motivo per cui si parla, in questo caso, di tesi biocentrica (o ecocentrica). Ed l’affermazione della teoria copernicana
suscita non altro che entusiasmo nel filosofo. In un universo infinito, privo di centro e quindi senza un punto di
riferimento, la distinzione tra natura, ragione ed istinto non ha motivo d’esserci; l’uomo, dunque, non può ergersi
sopra la natura perché è anch’egli natura.

L’ultimo scorcio del ‘500 e i primi decenni del ‘600 costituiscono un momento di trapasso e di crisi in cui si delinea
l’esigenza di una nuova metodologia scientifica e in cui i filosofi e scienziati cominciano a modellare nuovi strumenti
intellettuali come la matematica e la geometria nella crescente fiducia che il mondo naturale possa essere colto
secondo prospettive razionali, fiducia che nonostante la polemica col passato nasceva pur sempre dal razionalismo
aristotelico, dal platonismo e dal neoplatonismo che, sia pure in forma fantastica, avevano insistito sulla
strutturazione matematico-geometrica dell’universo.
Il tipo di scienza che si va delineando agli inizi del Seicento non scaturisce quindi dal nulla, e nonostante la coscienza
in molti uomini di cultura del tempo di una vera e propria rottura col passato, quest’ultimo continua a gettare la sua
ombra sul presente per una logica storica della continuità sempre avvertibile all’interno dei caratteri dominanti della
cultura media e del senso comune dell’epoca.
Questa età storica è quindi un’età di trasformazione intellettuale, che al di là della stessa consapevolezza di coloro
che la vivono e la determinano, e col favore di concorrenti circostanze e storiche sociali, elabora teorie e ideali
destinati a caratterizzare i secoli XVII e XVIII.
Naturalmente occorrerà tempo prima che il metodo sperimentale (e matematico) raggiunga la sua piena maturità;
inizialmente, proprio con l’inglese Francesco Bacone, lo sperimentalismo è ancora rudimentale e improvvisato e a
volte assumerà anche aspetti persino cervellotici. Ma quello che importa sottolineare è che il nuovo atteggiamento
scientifico, superata l’arcaica concezione di una natura intesa come gerarchia di essenze, guarda il mondo fisico
Maria Laura Coassin 4^B A.S.
2019/2020
come ad una realtà spontanea e inesplorata che il ricercatore ha da affrontare con inventiva e coraggio.
E, coincidenza o no, quando nel febbraio del 1600 giordano Bruno testimoniava con la vita la sua passione
intellettuale e morale di irriducibile ribelle e innovatore, il secolo nuovo si apriva animato da ideali (quasi) opposti a
quelli del filosofo campano, e da profonde certezze, da contraddizioni più o meno latenti destinate ad affaticare le
coscienze più avvertite per un lungo arco di tempo; da una parte le grandi scoperte geografiche avevano rotto gli
antichi confini materiali e geografici del passato e gli europei, non solo metaforicamente, si preparavano ad
insignorirsi della terra; la filosofia bruniana, nella sua esaltante intuizione dell’infinità dei mondi, era stata la
coscienza più acuta di questa rottura col passato e di questa proiezione all’infinito che rifiutava ogni meschinità
antropocentrica e geocentrica; ma all’opposto, proprio questa nuova coscienza di un compito infinito dell’uomo
rendeva attuale la necessità di una più meritata riorganizzazione della società nelle sue strutture politico-
burocratiche, produttive.
Non è quindi a caso che le maggiori monarchie europee si stessero impegnando nello sforzo di concentrare il potere
nelle loro mani, di umiliare e sconfiggere ogni particolarismo politico, nobiliare, ecclesiastico o corporativo,
potenziando l’amministrazione, gli eserciti, le flotte, creando una burocrazia fedele al potere centrale sempre più
articolata e complessa.
Tutti questi obiettivi furono egregiamente raggiunti dalla Francia così come dall’Inghilterra, terra natìa di Sir Francis
Bacon, tipico intellettuale di questo periodo; dal punto di vista etico-culturale egli si portò addosso tutte le
contraddizioni e le ambiguità di un’epoca mutevole nei suoi orizzonti ideali, nelle sue aspirazioni e nelle sue certezze.
Entusiasta propugnatore di un nuovo metodo sperimentale, convinto assertore del valore pragmatico della ricerca
empirica che può dare all’uomo la possibilità di dominare il mondo della natura, questo tema divenne centrale nella
sua riflessione. È anche il tenace cultore di una illusione e metodologica che lo portò ad elaborare una tecnica di
indagine in gran parte fantasiosa, proprio quando già Galilei, suo contemporaneo, ideava un metodo matematico di
ricerca di interpretazione della natura su cui doveva fondarsi tutta la scienza moderna.
L’aspetto più sconcertante della fortuna di Bacone presso i posteri è proprio questo: infatti non è facile comprendere
come mai uno studioso che ha progettato un metodo di ricerca del tutto privo di efficacia, per certi aspetti
addirittura arbitrario e gratuito, abbia ugualmente potuto legare in modo definitivo il suo nome alla storia di uno dei
momenti più complessi della trasformazione del pensiero umano, e sia divenuto il simbolo ideale di quei gli scienziati
che alla metà del ‘600 fondarono la Società Reale delle Scienze in Inghilterra e degli Illuministi del secolo successivo,
che in lui vollero vedere l’antesignano dello spirito scientifico moderno, cui peraltro dovevano dare un ben più
nutrito contribuito uomini come Galilei, Cartesio o Pascal.
La ragione di questa apparente assurdità sta nel fatto che Bacone, pur non avendo realizzato concreti risultati con il
metodo da lui ideato, ha saputo individuare con acutezza le nuove esigenze tecnico-scientifiche della società del suo
tempo e il significato e la funzione che la ricerca doveva assumere, una ricerca giustamente non più intesa come
mera accettazione passiva di una tradizione già definita, ma come strumento nuovo di indagine e di reperimento di
modelli concettuali, atti a spiegare la natura alle esigenze del pensiero umano. E in questo senso Bacone è stato
veramente il buccinator o “araldo“ come lui stesso si è definito, annunciante una nuova età in cui l’uomo, non più
mistico contemplatore della natura, doveva diventare ardito e geniale manipolatore e operatore, per meglio
soddisfare le esigenze di una società ricca di prospettive e fermenti.
Bacone, che aveva beninteso le ragioni dello scetticismo e del punto di vista degli antiaristotelici, seppe però porsi
lucidamente il problema consistente nella necessità di approntare procedimenti ordinati e sistematici, cioè un vero e
proprio metodo, con i quali “costringere” la natura a dare una risposta chiara e univoca sui fenomeni, soprattutto i
più semplici e quotidiani che celano le loro ragioni più vere bene al di là della semplice apparenza sensibile, che
proprio perciò non può essere considerata la “verità” del fenomeno stesso.
Questa prospettiva, nonostante il conclamato rifiuto di ogni tradizione, deve pur sempre qualcosa al passato; in lui la
passione del ricercatore sembra animarsi della inesauribile avidità di ricerca dell’alchimista medievale, dell’astrologo
che scopre il segreto degli astri, e la sua appassionata indagine è particolarmente positiva proprio là dove sfrutta
abilmente gli errori del passato che lo inducono a ripensare il problema del sapere che, giustamente interpretando le
esigenze dei suoi tempi, egli intende come capacità di agire sulla natura in vista di precise finalità utilitarie e quindi
sociali, proprio secondo la logica che muove l’attività dei chimici, degli ingegneri, il cui lavoro collettivo ha portato a
risultati sorprendenti e fecondi in tutti i campi.
Nel celebre frammento incompiuto, intitolato Nuova Atlantide, esplicita chiaramente questo nuovo sentimento del
sapere inteso come sforzo collettivo mirante a migliorare le sorti dell’umanità, sottomettendo la natura, e
Maria Laura Coassin 4^B A.S.
2019/2020
affermando la tesi del modello antropocentrico: agli occhi dei viaggiatori stupiti, uno dei sapienti di questa terra
sconosciuta, appunto la Nuova Atlantide, illustra le invenzioni realizzate dall’Accademia scientifica del luogo, modello
ideale delle future Accademie che sorgeranno in Europa. In una specie di sogno anticipatore del futuro dell’Europa
industrializzata, Bacone parla delle nuove invenzioni già realizzate in questo fantastico paese, e accanto a varie
stravaganze descrive quelle che saranno le autentiche conquiste tecnologiche dell’avvenire: strumenti di
comunicazione a grande distanza, armi terrificanti, aerei, sottomarini, produzione artificiale di organismi viventi, che
rivelano una forte fantasia anticipatrice di un pensatore che con originalità giustificava il sapere come strumento
essenzialmente pratico-operativo. Per questo motivo è stato considerato un profeta della rivoluzione industriale, che
avrebbe preso avvio solo dopo un secolo e mezzo dalla sua morte proprio in Inghilterra.

Ad oggi, si può benissimo vedere come il pensiero del filosofo inglese sia stato accettato e metabolizzato, fino al
punto di averlo portato all’estremo: la natura è stata del tutto sottomessa ai bisogni dell’uomo, talora meschini. Il
comportamento “doloso” da parte della stessa nei confornti dell’uomo, dal punto di vista leopardiano, è stato
totalmente capovolto.
Di certo, per tutte le catastrofi che stanno avvenendo non si può parlare, come nel linguaggio giuridico, di concorso
di colpa; è evidente la nostra responsabilità circa il cambiamento climatico, culmine di un processo che non può
neanche essere definito graduale che partendo dalla semplice incuria arriva a terribili risultati quali il dissesto
idrogeologico, la scomparsa di specie animali, il rischio di completo scioglimento dei ghiacciai e dell’esaurimento
delle risorse; e ciò perché si è giunti nell’ottica che “tutto è mercificabile”. Compresa la natura.
Quindi il rapporto uomo-natura, considerando la spregiudicatezza con cui l’uomo abusa del territorio in cui vive, si è
modificato nella misura in cui l’interesse economico ha travisato sé stesso; e che fosse necessaria un’inversione di
tendenza appariva già chiaro, ma non abbastanza per alcuni potenti del mondo.
E ciò ha contribuito ad aggravare la furia della φύσις: mai come in questo momento si può pensare che il periodo che
stiamo vivendo ne sia una risposta. Perché si sa, è basato su fatti scientifici: ad azione corrisponde una reazione,
uguale e contraria.
Che questo virus sia un modo per ristabilire un ordine dal quotidiano, ormai invivibile caos?
Che sia, come ho già maturato nel mio pensiero, il vaccino contro il vero problema, rappresentato da questa umanità
che ormai ha messo le radici sulla società dello scarto e dell’insoddisfazione?
Questi nostri sacrifici, piccoli o grandi, che stiamo facendo, se serviranno a ridurre, così come pare nelle intese
internazionali, l’incidenza dei contagi, che ben vengano! E le nostre necessità, al contrario di chi soffre, intubato,
negli ospedali, in bilico tra la vita e la morte, sono del tutto irrisorie e sostenibili.
Allo stesso tempo, è ormai noto quanto i vari problemi legati all’industrializzazione siano diminuiti, in un lasso di
tempo brevissimo; la permanenza, seppur forzata, nelle nostre abitazioni, ha portato benefici inimmaginabili
all’ecosistema. E abbiamo ricominciato a cantare, a mancarci, a riscoprire i valori umani ed a renderci realmente
conto di quanto sia necessario non sorpassare certi limiti naturali, nel rispetto sia nostro che di quella forza
generatrice di cui mi sento di riproporre quanto già detto prima riguardo la visione di Bruno, ritenendola, per quanto
alcune idee di questo appassionato pensatore possano risultare discutibili, osservante di quel giusto confine
frapposto tra ἄνθρωποι e φύσις: sentiamoci parte viva dell’universo intero, non dimenticandoci che, essendone
parte integrante, non possiamo ergerci al di sopra; manteniamo un armonico equilibrio.

Limitare l’approccio antropocentrico non significa impedire lo sviluppo; e abbiamo ricominciato a cantare, a
mancarci, a riscoprire i valori umani ed a renderci realmente conto di quanto sia necessario non sorpassare certi
limiti naturali.

Potrebbero piacerti anche