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DELL’ANIMO
UMANO
pillole
SENECA
V I Z I E V I RT Ù
D E L L’ A N I M O
UMANO
Lucio Anneo Seneca
La provvidenza
La fermezza del saggio
L’ira
Sulla felicità
La vita ritirata
La tranquillità dell’animo
La brevità della vita
Proprietà letteraria riservata
© 2004 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-58-64758-5
Perché ancora oggi Seneca riscuote tanto successo? Che cosa af-
fascina in questo scrittore così cupo e rigoroso, che parla con gra-
zia mondana «di inerzia infelice» e di «tedio mortale»?
Seneca è prima di tutto uno scrittore straordinario, che con
l’intento affatto velato di «ammaestrare» i lettori descrive le an-
gosce, le sottili inquietudini, il profondo malessere che attana-
gliano l’amico, il familiare o l’uomo politico che a lui si rivolgo-
no. In questi Dialoghi, intensi e drammatici, in cui i protagonisti
mettono a nudo ogni più segreta piega dell’animo, Seneca, intel-
lettuale di successo e brillante filosofo, indaga i «mali dell’uo-
mo» e vi cerca una soluzione e una via di salvezza.
Dalla paura della morte al senso angoscioso del trascorrere
del tempo, dal timore di una divinità sconosciuta e inavvicinabi-
le alla delusione delle idealità frustrate, Seneca affronta temi e
problemi antichi e universali. Ma al «male di vivere», alle paure,
alla tensione profonda e sottile, tuttavia, non oppone i consigli di
una filosofia o di una morale codificata e immobile, in grado di
dare risposte e giustificazioni rassicuranti. Seneca infatti, scritto-
re e filosofo quanto mai originale nella storia della letteratura
latina, pur richiamandosi ai principi dello stoicismo, ne rielabora
le formulazioni e le fa proprie modificandole radicalmente, fino
quasi a creare un nuovo sistema di pensiero.
«La saggezza non è una conoscenza acquisita, ma una costante
disposizione dell’anima e una meditazione in continuo divenire.
Non trasmette conoscenze, ma impegna l’essere nella sua totalità.»
La conquista della serenità interiore e della «tranquillità del-
l’animo» è un lungo e sofferto cammino, un quotidiano esercizio
spirituale senza certezze e gratificazioni immediate: questa è l’u-
nica strada che conduce alla vera felicità, a quella somma beati-
tudine che avvicina l’uomo agli dèi, che nulla può intaccare o
scalfire. «Ecco una cosa grandiosa: – scrive Seneca – avere la de-
bolezza di un uomo e la tranquillità di un Dio.» «Se non sei mai
triste, se nessuna speranza ti inquieta nell’attesa del futuro, se
giorno e notte il tuo animo elevato e contento di sé si mantiene
in uno stato eguale e costante, sei giunto al culmine del bene
umano.»
Da qui i continui e affettuosi richiami all’amico o al familiare
a non lasciarsi distrarre dalle preoccupazioni della vita, dalle
emozioni instabili, dai falsi beni, dalle ambizioni mondane, dalle
infinite tentazioni quotidiane: chiuso nella «fortezza del suo ani-
mo», l’uomo deve trovare in sé la forza di esercitarsi alla virtù e
coltivare il vero bene. «L’uomo non deve lasciarsi corrompere
né sopraffare dalle cose esterne: deve puntare esclusivamente su
se stesso, fiducioso nelle sue capacità e pronto anche a risultati
indesiderati, ma artefice della sua vita.»
E in questa orgogliosa dichiarazione di distacco e di autosuf-
ficienza, in questo consapevole e tenace ripiegamento su se stes-
si consiste la grande forza e l’attualità dei Dialoghi morali. L’uo-
mo può raggiungere la piena realizzazione di sé in modo del tut-
to indipendente dagli eventi esterni. Conquistare la libertà e
l’autonomia intellettuale e spirituale, nel radicale rifiuto di valo-
ri morali precostituiti, diviene dunque lo scopo ultimo della filo-
sofia. Una filosofia che, svincolata da precetti normativi o da ri-
gorose partizioni dottrinarie, diventa negli scritti di Seneca una
forma di altissima saggezza, una profonda disciplina interiore, o,
come scrive Paul Veyne, «un’arte superiore del vivere», una sor-
ta di «ricetta di felicità individuale», a cui tutti, alla ricerca affan-
nosa di una via personale alla felicità, possono avvicinarsi e at-
tingere a piene mani.
SILVIA FABBRI
1
Catone l’Uticense, il santo dello stoicismo romano, dopo la definitiva
sconfitta dei pompeiani a Tapso (46 a.C.).
re di uno solo, la terra presidiata dalle legioni, il mare dalle flotte, i
soldati di Cesare blocchino le porte,2 Catone ha una via d’uscita:
basterà una sola mano ad aprirgli una larga via per la libertà. Que-
sto ferro, puro e incolpevole anche in una guerra civile, farà alla fi-
ne belle e gloriose azioni: la libertà, che non ha potuto dare alla
patria, la darà a Catone. Attua, mio cuore, il progetto a lungo me-
ditato, stràppati alle vicende umane. Già Petreio e Giuba si sono
affrontati e giacciono uccisi l’uno per mano dell’altro, raro ed eroi-
co patto di morte, ma indegno di noi: per Catone è tanto vergo-
gnoso chiedere ad altri la morte che la vita.» Sono certo che gli dèi
hanno assistito con grande gioia allo spettacolo di quell’uomo, or-
goglioso liberatore di se stesso, mentre provvede alla salvezza de-
gli altri e organizza la partenza dei fuggiaschi, mentre attende allo
studio anche nell’ultima notte, mentre si trafigge con la spada il
santo petto, mentre sparge le sue viscere e trae fuori con la mano
quell’anima divina e indegna di essere contaminata dal ferro. Per
questo, credo, il colpo fu poco fermo ed efficace: non bastava agli
dèi immortali essere spettatori di Catone una volta sola; la virtù fu
trattenuta e richiamata perché si mostrasse in una parte più diffici-
le: ci vuole un animo meno grande per andare che per tornare a
morire. E non dovevano assistere con piacere a una fine così glo-
riosa e memorabile del loro pupillo? La morte consacra quelli la
cui fine è lodata anche da chi la teme.
2
Di Utica, in Africa, dov’era assediato da Cesare.
vantaggio» obietti «che sono cacciati in esilio, ridotti in povertà,
seppelliscono figli, moglie, perdono l’onore, la salute?» Se ti mera-
vigli che tali fatti siano vantaggiosi, dovrai meravigliarti che certuni
siano curati col ferro e col fuoco, nonché con la fame e con la sete.
Ma se rifletterai che fu un rimedio per alcuni il raschio e l’estrazio-
ne delle ossa, l’estirpazione delle vene, l’amputazione di membra
che non potevano restare attaccate al corpo senza distruggerlo, ac-
cetterai anche la dimostrazione che certe avversità sono a vantag-
gio di chi le subisce: così come, per Ercole, certe cose lodate e ricer-
cate sono a danno di chi se ne è dilettato, come indigestioni, ubria-
cature e ogni altra intemperanza che uccide attraverso il piacere.
Fra i tanti detti magnifici del nostro Demetrio3 c’è anche questo,
che ho udito da poco – risuona ancora e vibra al mio orecchio –:
«Non c’è, mi sembra, essere più sventurato di chi non ha mai avuto
alcuna avversità». Perché non ha avuto la possibilità di mettersi al-
la prova. Posto che tutto gli sia andato secondo i suoi desideri, che
li abbia prevenuti, gli dèi tuttavia hanno dato di lui un cattivo giu-
dizio: non è parso degno di vincere una volta tanto la fortuna, che
fugge via da tutti i pusillanimi, come dicesse: «E io dovrei prender-
mi come avversario costui? Abbasserà subito le armi; contro di lui
non c’è bisogno di tutta la mia potenza, basterà fargli un po’ di pau-
ra, non può sostenere il mio aspetto. Si veda se c’è un altro con cui
battermi: mi vergogno di scontrarmi con un uomo già rassegnato
alla sconfitta». Il gladiatore reputa un disonore essere opposto a
uno inferiore e sa che si vince senza gloria chi si vince senza perico-
lo. Lo stesso fa la fortuna: cerca chi le stia a pari, i più coraggiosi,
certuni non li degna di uno sguardo. Assale tutti i più inflessibili e
irriducibili, contro i quali scaricare la sua violenza: sperimenta il
fuoco in Muzio,4 la povertà in Fabrizio,5 l’esilio in Rutilio,6 la tortu-
3
Filosofo cinico amato e ammirato da Seneca, che lo cita una dozzina
di volte: sarà presente alla morte di Trásea Peto (66 d.C.) ed esiliato da Ve-
spasiano per la sua aggressività verbale contro il potere.
4
Muzio Scevola si fece bruciare la destra per punirla di aver fallito il
colpo contro Porsenna.
5
Gaio Fabrizio Luscino, console e trionfatore nel 282 e 278, nel 279 non
si fece corrompere dall’oro di Pirro.
6
Publio Rutilio Rufo, uomo politico e filosofo stoico, esiliato nel 94
a.C. per aver represso le malversazioni degli appaltatori delle imposte in
Asia Minore, rifiutò la grazia di Silla.
ra in Regolo,7 il veleno in Socrate,8 il suicidio in Catone. Un
grande esempio non lo trova che la cattiva fortuna.
È sventurato Muzio perché preme la destra sul fuoco nemico
e paga lui stesso il fio del suo errore, perché mette in fuga con la
mano bruciata il re che non poté mettere in fuga con la mano ar-
mata? E di’: sarebbe più fortunato, se riscaldasse la mano nel se-
no dell’amante?
È sventurato Fabrizio perché vanga il suo campo tutto il tem-
po libero dalla vita pubblica? Perché fa guerra sia a Pirro che al-
la ricchezza? Perché accanto al focolare pranza con quelle stesse
radici ed erbe che ha estirpato, il vecchio ex-trionfatore, nel ri-
pulire il campo? E di’: sarebbe più fortunato se accumulasse nel
suo ventre pesci di lidi lontani e uccelli esotici, se stimolasse la
pigrizia di uno stomaco disgustato con ostriche dell’Adriatico e
del Tirreno, se circondasse con cataste di frutti selvaggina di
grossa taglia, catturata con molte perdite di cacciatori?
È sventurato Rutilio perché quelli che lo condannarono ne
dovranno rispondere a tutti i secoli? Perché gli fu più facile ri-
nunziare alla patria che all’esilio? Perché fu il solo a dire no al
dittatore Silla e, richiamato in patria, per poco non andò indietro
e fuggì più lontano?
«Se la veda» dice «chi fu colto di sorpresa a Roma dalla tua for-
tuna: veda il foro inondato di sangue, e sopra il bacino di Servilio
(dov’è il carnaio della proscrizione di Silla) le teste dei senatori, e
bande di assassini scorrazzare per la città, e molte migliaia di citta-
dini romani massacrati in uno stesso luogo dopo, anzi mediante la
parola data: veda tali spettacoli chi non sa essere esule.» E di’: è
fortunato Lucio Silla perché scendendo al foro gli si fa largo con
la spada, perché accetta che gli mostrino le teste degli ex-consoli e
paga il prezzo della strage tramite il questore e a spese dello sta-
to? E tutto questo chi lo fa? Chi ha presentato la legge Cornelia.
Veniamo a Regolo: che danno gli ha arrecato la fortuna fa-
cendone un modello di lealtà, un modello di resistenza? Chiodi
traffiggono la pelle e dovunque appoggia il corpo spossato, pre-
7
Marco Attilio Regolo, suppliziato dai Cartaginesi nel 250 a.C. per ave-
re sconsigliato il senato di accettare le loro proposte.
8
Socrate, condannato a bere la cicuta nel 399 a.C. per non aver rinne-
gato la sua predicazione filosofica.
me su una ferita; gli occhi senza palpebre vegliano ininterrotta-
mente: più grande è il tormento e più grande sarà la gloria. Vuoi
sapere come non si penta di aver pagato questo prezzo per la
virtù? Schiodalo e rimandalo in senato: il suo parere sarà lo stes-
so. Credi dunque più fortunato Mecenate,9 che, disperato per pe-
ne d’amore e per il quotidiano rifiuto di una moglie capricciosa,
chiede il sonno alla blanda musica di un’orchestra lontana? Cer-
chi pure di addormentarsi col vino e di distrarsi col mormorio di
fontane e di eludere l’ansia con mille piaceri, starà sveglio tra le
piume come quello sulla croce; ma quello si consola delle sue
sofferenze pensando che soffre per una buona causa, questo smi-
dollato dai piaceri e oppresso da una eccessiva fortuna, lo tor-
menta, più di ciò che soffre, la causa del suo soffrire. I vizi non si
sono impossessati del genere umano al punto di far dubitare che,
se si potesse scegliere il proprio destino, i più preferirebbero na-
scere Regoli che Mecenati; o, se ci sarà chi ha il coraggio di dire
che avrebbe preferito nascere Mecenate che Regolo, costui, an-
che se non lo confessa, avrebbe preferito nascere Terenzia.
Pensi che sia andata male a Socrate, perché trangugiò la be-
vanda somministratagli dallo stato come fosse un farmaco d’im-
mortalità e disputò sulla morte fino alla morte? Gli è stato fatto
torto perché il sangue si gelò e a poco a poco salendo il freddo, si
fermò la vita nelle vene? Quanto più è invidiabile di chi si fa ser-
vire in pietre preziose o liquefare la neve nell’oro da un ganzo
istruito a tutto patire, di recisa o dubbia virilità! Questi rimette-
ranno in vomiti quanto hanno bevuto, tetri e riassaporando la
loro bile: ma quello tracannerà lieto e di buona voglia il veleno.
Quanto a Catone, ne ho già detto abbastanza, e il mondo in-
tero converrà che è toccata la più grande fortuna a chi la natura
ha scelto come bersaglio dei suoi colpi più tremendi. «Le inimi-
cizie dei potenti sono gravose: sia opposto a Pompeo, a Cesare, a
Crasso10 contemporaneamente. È gravoso essere sorpassato nel-
le cariche da un inferiore: sia posposto a Vatinio.11 È gravoso
9
Gaio Cilnio Mecenate, di principesca famiglia etrusca, fu per Seneca
il prototipo dell’effeminato, nella vita e nei versi.
10
I triumviri del 60 a.C.
11
Publio Vatinio, candidato dei triumviri, batté Catone alle elezioni per
pretore del 55. Fu violentemente attaccato da Cicerone, Calvo e Catullo.
prender parte a guerre civili: corra in armi tutto il mondo per
una buona causa, con più tenacia che fortuna. È gravoso suici-
darsi: lo faccia. Che ne otterrò? Che tutti sappiano che non sono
mali, se ne ho giudicato degno Catone.»
12
Gladiatore famoso.
scere la tua fermezza di fronte al disonore, al discredito, all’im-
popolarità, se invecchi tra gli applausi, se ti segue inalterabile il
favore e la simpatia della gente? Come conosco la tua capacità
di sopportare serenamente la perdita dei figli, se ti vedi intorno
tutti quelli che ti sono nati? Ti ho ascoltato consolare gli altri; ma
avrei visto chi sei solo se avessi consolato te stesso, se ti fossi ini-
bito di soffrire. Non abbiate paura, vi scongiuro, di cotesti pati-
menti che gli dèi immortali usano come stimoli per i vostri cuori:
la sventura è occasione di virtù. Sarebbe giusto chiamare infelice
chi è snervato da un eccesso di prosperità, chi come in un mare
immobile è prigioniero della bonaccia: qualunque cosa gli capiti,
sarà una sorpresa. La vita è più crudele con chi non ne ha fatto
esperienza, il giogo pesa sulla nuca tenera: al pensiero di una fe-
rita la recluta impallidisce, ma guarda arditamente il suo sangue
il veterano che sa che spesso al sangue segue la vittoria. Così
questi che dio apprezza, che ama, li indurisce, li vaglia, non li la-
scia in pace; ma quelli cui sembra indulgere, che sembra rispar-
miare, li riserva indifesi ai mali futuri. Non illudetevi, non ci sono
eccezioni: anche all’uomo a lungo fortunato verrà la sua parte;
chiunque sembra congedato è solo rimandato.
Perché dio manda a tutti i migliori o cattiva salute o lutti o al-
tre avversità? Perché anche al campo alle azioni pericolose si co-
mandano i più coraggiosi: il capo invia il fiore dei suoi ad assalire
il nemico in imboscate notturne o a esplorare il cammino o a
sloggiare una postazione. Nessuno di quelli che vanno dice: «Il
generale mi ha reso un cattivo servizio», ma «mi ha dato una pro-
va di stima». Dicano lo stesso tutti quelli cui si comanda di soffri-
re cose da far piangere i paurosi e i vili: «siamo apparsi a dio de-
gni di saggiare la resistenza della natura umana al dolore».
Fuggite le mollezze, fuggite una prosperità che vi snerva e svi-
gorisce l’animo e, se non interviene qualcosa che gli ricordi la sor-
te umana, lo fa marcire come nel sopore di una continua ubria-
chezza. A chi i vetri hanno sempre protetto dalle correnti, a chi
tiene i piedi caldi con impacchi sempre rinnovati, a chi regola la
temperatura delle sale da pranzo con caloriferi inglobati nel pa-
vimento o nelle pareti, un soffio d’aria potrà far male. Tutti gli ec-
cessi sono dannosi, ma il più pericoloso è quello della prosperità:
va alla testa, fa vaneggiare, offusca la differenza tra il vero e il fal-
so. Non sarebbe meglio sopportare una continua sfortuna con
l’assistenza della virtù che crepare per beni senza fine e misura?
È più dolce la morte per inedia, l’indigestione fa scoppiare.
È dunque questa la regola che seguono gli dèi con gli uomini
buoni come coi loro allievi i precettori, che esigono più fatica da
chi dà più speranza. Credi forse che agli Spartani siano odiosi i
loro figli, di cui mettono alla prova il carattere con pubbliche fla-
gellazioni? I padri stessi li esortano a sopportare da forti i colpi,
e gli chiedono di continuare, straziati e semivivi, a patire ferite su
ferite. Che meraviglia, se dio mette a dura prova gli spiriti gene-
rosi? Non è mai indolore la lezione della virtù. Ci flagella e stra-
zia la fortuna: sopportiamo. Non è crudeltà, è lotta: più spesso
l’affronteremo e più forti saremo; la parte più solida del corpo è
la più esercitata. Ci si deve offrire alla fortuna, perché sia lei a
indurirci contro di lei: a poco a poco ci farà pari a sé, il continuo
esporci ai pericoli ce li farà disprezzare. Così i marinai hanno
corpi induriti dalla vita di mare, i contadini mani logorate, il
braccio dei soldati ha la forza di scagliare giavellotti, agili sono
le membra dei corridori: in ognuno la parte più solida è quella
che ha tenuto in esercizio. A non curarsi della sofferenza l’animo
giunge a forza di soffrire; quale ne sia l’effetto in noi lo saprai,
considerando quanto debbano alla fatica popoli privi di risorse e
fortificati dal bisogno. Esamina tutte le genti al di fuori della pa-
ce romana, i Germani e ogni tribù di nomadi intorno all’Istro:
pesa su essi un inverno continuo, un cielo grigio, una terra sterile
gli dà un nutrimento avaro; si riparano dalle intemperie con tetti
di paglia o di fronde; slittano su stagni ghiacciati, cacciano bestie
selvagge per cibo. Ti sembrano infelici? Nessuna infelicità in
un’abitudine divenuta natura; lentamente si fa piacere ciò che
all’inizio era necessità. Non hanno dimore né sedi se non quelle
imposte di giorno in giorno dalla stanchezza; cibo scadente e per
giunta da procacciarsi con le mani, orribile clima, corpi non co-
perti: a te sembra una disgrazia, ed è la vita di tanti popoli. E ti
meravigli che gli uomini buoni siano tribolati perché si fortifichi-
no? Saldo e forte è solo l’albero che subisce il frequente assalto
del vento; è il continuo scuotimento a dargli più robustezza, più
tenaci radici: sono fragili le piante cresciute in una valle solatia.
È dunque a vantaggio degli uomini buoni, perché siano senza
paura, trovarsi spesso in situazioni paurose e tollerare paziente-
mente quelli che non sono mali se non per chi mal li sopporta.
5. Aggiungi ora che è a vantaggio della collettività che tutti i mi-
gliori siano come soldati e in piena attività. Il fine di dio è quello
del saggio, mostrare che le cose agognate o paventate dalla gente
non sono beni né mali; ora sarà chiaro che sono beni, se dio non li
dispensa che ai buoni, e mali, se li infligge solo ai malvagi. La ce-
cità sarà detestabile, se perderà gli occhi solo chi se lo merita: sia-
no perciò privati della luce Appio13 e Metello.14 Le ricchezze non
sono un bene: le abbia perciò anche il lenone Elio,15 perché gli
uomini, dopo aver dedicato templi al denaro, lo vedano anche in
un bordello. Dio non potrebbe svalutare l’oggetto dei desideri
meglio che accordandolo ai peggiori, rifiutandolo ai migliori. «Ma
è ingiusto che l’uomo buono sia invalido o trafitto o incatenato, e
i malvagi se ne vadano fisicamente integri e liberi di spassarsela.»
Ma che? Non è ingiusto che i veri uomini prendano le armi e pas-
sino le notti al campo e stiano a difesa del vallo con le ferite ben-
date, mentre se ne stanno al sicuro in città i froci e i professionisti
del vizio? Ma che? Non è ingiusto che le più nobili vergini si alzi-
no di notte a fare i sacrifici, e le insozzate godano di un profon-
dissimo sonno? La fatica chiama i migliori: il senato tiene spesso
sedute di un giorno intero, nel tempo in cui tutti i più spregevoli o
si divertono nel campo Marzio o se ne stanno nascosti in taverne
o perdono tempo in qualche crocchio. Lo stesso accade in questo
stato più grande: gli uomini buoni faticano, prodigano, si prodiga-
no, e di buona voglia; non sono trascinati dalla fortuna, la seguo-
no e l’affiancano; se avessero saputo, l’avrebbero preceduta. Ri-
cordo di avere udito anche queste energiche parole dell’intrepi-
do Demetrio: «Una sola lagnanza, dèi immortali, potrei farvi, di
non avermi notificata in anticipo la vostra volontà: sarei venuto
io per primo a quelle prove cui ora sono chiamato. Volete pren-
dermi i figli? Li ho cresciuti per voi. Volete una parte del corpo?
Prendetela: non è un grande indugio, presto ve lo lascerò tutto.
Volete la vita? Perché dovrei ritardare la restituzione di quello
che mi avete dato? Soddisferò volentieri ogni vostra richiesta. E
allora? Avrei preferito offrire che consegnare. Che bisogno c’era
13
Appio Claudio Cieco, il censore del 312 a.C.
14
Lucio Cecilio Metello, pontefice massimo che nel 241 a.C. avrebbe
perso la vista per salvare gli oggetti sacri dall’incendio del tempio di Vesta.
15
Personaggio sconosciuto.
di togliere? Potevate ricevere; ma nemmeno ora toglierete, per-
ché nulla si strappa se non a chi fa resistenza».
Niente mi costringe, niente subisco che non voglia, e a dio non
servo ma acconsento, tanto più che so come tutto fluisce secondo
una legge immutabile ed enunciata per l’eternità. Sono i fati a con-
durci e quanto tempo resta a ciascuno l’ha programmato l’ora del-
la nascita. Una causa dipende dall’altra, una lunga catena di even-
ti determina le vicende private e pubbliche: si deve sopportare tut-
to coraggiosamente perché tutte le cose non, come crediamo, av-
vengono, ma vengono. Una volta per tutte fu stabilito l’oggetto
delle tue gioie, delle tue lacrime, e benché la vita degli individui
sembri differenziarsi per una grande varietà, tutto si riduce a que-
sto: effimeri riceviamo l’effimero. A che dunque protestiamo? Di
che ci lagniamo? Per questo siamo al mondo. La natura usi come
vuole dei corpi che sono suoi: noi gioiosi e coraggiosi in ogni eve-
nienza riflettiamo che nulla perisce di nostro. Cos’è proprio di un
uomo buono? Offrirsi al fato. È un grande conforto essere rapiti
assieme all’universo; qualunque sia la forza che determina la no-
stra vita, la nostra morte, con la medesima necessità lega anche gli
dèi. Un flusso irrevocabile trasporta egualmente umanità e divi-
nità: lui stesso, il fondatore e reggitore di ogni cosa, ha scritto sì i
fati, ma li segue; ubbidisce sempre, ha comandato una volta per
tutte. «Sì, ma perché dio è stato così ingiusto nella distribuzione
del destino da assegnare agli uomini buoni povertà e colpi e mor-
te prematura?» Non può l’artefice mutare la materia: così è stata
condizionata. Vi sono cose inseparabili, indissolubili, indivisibili.
Nature fiacche, destinate al sonno o a una veglia del tutto simile al
sonno, sono tramate di elementi inerti: per formare un uomo de-
gno di questo nome, ci vuole un destino più vigoroso. La sua vita
non sarà in piano: bisogna che vada su e giù, sballottato dai flutti e
piloti la nave nella tempesta. Deve tener la rotta contro la fortu-
na; gli capiteranno molte vicende dure e difficili, che sarà lui a mi-
tigare e appianare. Il fuoco mette alla prova l’oro, la sofferenza gli
uomini forti. Vedi a quale altezza deve salire la virtù: ti renderai
conto che il suo andare non è senza rischi.
16
Democrito di Abdera (V sec. a.C.).
17
Allusione a Bruto Maggiore e a Manlio Torquato, che condannarono
a morte i loro figli per il bene della patria.
18
Allusione non tanto a Rutilio Rufo, quanto a filosofi emigrati per
motivi di studio.
a soffrire: sono nati per servire da esempio. Immagina dunque
che dio dica: «Che avete da rimproverarmi, voi che avete fatto la
scelta giusta? Ho circondato gli altri di falsi beni e ho illuso quel-
le anime vuote come con un lungo e ingannevole sogno: le ho
ornate d’oro d’argento di avorio, ma dentro non c’è nulla di buo-
no. Costoro che guardi come fortunati, se li vedi non dal lato che
mostrano ma da quello che celano, sono miseri, squallidi, laidi, a
somiglianza delle loro pareti belli solo di fuori; non è cotesta una
felicità solida e genuina: è un intonaco e per giunta sottile. Fin-
ché possono star dritti e mostrarsi a loro grado, luccicano e gab-
bano; ma se capita qualcosa che li abbatta e scoperchi, allora ap-
pare che profonda e reale sozzura nascondesse quello splendore
d’accatto. A voi ho dato beni sicuri e duraturi, e quanto più li ri-
giri ed esamini da ogni parte, tanto migliori e maggiori; a voi ho
concesso il disprezzo dei timori e il disgusto dei piaceri; non bril-
late all’esterno, i vostri beni guardano all’interno. Così il cosmo
è indifferente a ciò che sta al di fuori, pago di contemplare se
stesso. Dentro ho posto ogni bene; non aver bisogno della feli-
cità è la vostra felicità.
“Ma càpitano molte vicende dolorose, orribili, dure a soppor-
tarsi.” Non potendo risparmiarvele, ho armato i vostri cuori con-
tro tutto: sopportate da forti. In questo superate dio: lui è fuori
della sofferenza, voi al di sopra. Non curatevi della povertà: nes-
suno vive così povero come è nato. Non curatevi del dolore: o si
estinguerà o vi estinguerà. Non curatevi della morte: che è o una
fine o un passaggio. Non curatevi della fortuna: non le ho dato
nessun’arma in grado di colpire l’animo. Prima di tutto ho prov-
veduto che nessuno vi trattenesse contro voglia; la porta è aper-
ta: se non volete lottare, è possibile fuggire. Perciò fra tutte le co-
se che ho voluto per voi inevitabili nulla ho reso più facile che
morire. Ho posto la vita su un piano inclinato. Si protrae? Basta
un po’ di attenzione per vedere come sia breve e agevole la via
che conduce alla libertà. Ho posto meno ostacoli alla vostra usci-
ta che al vostro ingresso: altrimenti la fortuna avrebbe avuto un
grande dominio su voi, se l’uomo ci mettesse tanto a morire
quanto a nascere. Ogni momento, ogni luogo può insegnarvi co-
me sia facile rompere con la natura e gettarle in faccia il suo do-
no; fra gli stessi altari e le solenni cerimonie sacrificali, mentre si
auspica la vita, imparate la morte. Corpi pingui di tori crollano a
un piccolo colpo e la mano di un uomo abbatte animali possenti;
da una lama sottile è troncata l’articolazione della nuca e quan-
do si recide la vertebra che congiunge il capo e il collo, quella
mole così grande rovina. Non si cela nel profondo il soffio vitale
e non è certo necessario il ferro per estirparlo; non è necessaria
una ferita profonda che metta a nudo i visceri: la morte è a por-
tata di mano. Non ho fissato un luogo per tali colpi: per dove
vuoi, c’è un passaggio. Quello stesso che si chiama morire, il di-
stacco dell’anima dal corpo, è troppo breve perché tanta rapidità
possa essere avvertita: sia che un nodo vi spezzi la gola, sia che
l’acqua vi ostruisca i polmoni, sia che, buttandovi, la durezza del
suolo vi sfracelli la testa, sia che il fuoco ingoiato vi interrompa il
respiro,19 qualunque cosa sia, agisce in fretta. E non arrossite?
Tanta paura per un evento così breve!».
19
Probabile allusione al suicidio di Porzia, figlia di Catone e moglie di
Bruto, che ingoiò carboni ardenti.
LA FERMEZZA DEL SAGGIO*
1. Non a torto, o Sereno,1 potrei dire che fra gli stoici e gli altri
maestri di filosofia2 sussiste una differenza tanto grande quanto
fra femmine e maschi,3 dato che entrambi i sessi in misura ugua-
le contribuiscono alla vita comune, ma una parte è nata per ob-
bedire, l’altra per comandare. Gli altri filosofi curano in modo
delicato e blando, non seguendo la via più efficace e più celere,
ma quella che è permessa, come fanno all’incirca i medici di casa
e intimi della famiglia con i corpi malati: invece gli stoici, che
hanno intrapreso una strada coraggiosa, hanno a cura non che
essa sembri piacevole a chi vi si avvia, bensì che ci salvi quanto
prima e ci conduca su quell’alta vetta che, inattaccabile da qual-
siasi freccia, tanto si erge da sovrastare la fortuna stessa. «Ma è
ardua e aspra la via per la quale siamo chiamati.» E che? si arri-
va in alto camminando in piano? Neppure, tuttavia, è tanto diffi-
cile quanto taluni pensano. Soltanto la prima parte ha sassi e ru-
pi e aspetto inaccessibile, così come la maggior parte delle alture
appare solitamente erta e compatta a coloro che guardano da
lontano, poiché la lontananza inganna la vista, ma poi, man ma-
* Tratto da: Seneca, La fermezza del saggio. La vita ritirata, Bur, Milano
2001. Traduzione e note di Nicola Lanzarone
1
Lucio Anneo Sereno, intimo amico di Seneca, nel 55 d.C. coprì la pas-
sione di Nerone per la liberta Acte, e fu perciò ricompensato con l’ufficio
di praefectus vigilum; morì per avvelenamento da funghi probabilmente
nel 62-63.
2
Gli altri filosofi sono soprattutto gli epicurei, la cui dottrina è comu-
nemente considerata l’esatto opposto del pensiero stoico, particolarmente
nell’ambito morale.
3
La scarsa considerazione della donna era un motivo cinico.
no che si accostano, esse stesse, che l’errore degli occhi aveva
ammassato in un blocco unico, si aprono a poco a poco, e allora
ritorna dolce il pendio di quelle alture, che per la distanza sem-
bravano scoscese.
Dal momento che – or non è molto tempo – era caduto il di-
scorso su M. Catone,4 eri sdegnato, siccome non tolleri l’ingiusti-
zia, del fatto che la sua epoca avesse capito poco Catone, che
avesse posto al di sotto dei Vatinii5 lui che si ergeva al di sopra
dei Pompei e dei Cesari, e ti sembrava vergognoso che gli fosse
stata strappata la toga nel foro mentre stava per combattere una
proposta di legge, e che, trascinato di mano in mano da una fazio-
ne sediziosa dai rostri fino all’arco Fabiano, avesse sopportato in-
vettive e sputi e tutte le altre contumelie di una folla dissennata.
4
Marco Porcio Catone Uticense (95-46 a.C.), pronipote di M. Porcio
Catone il Censore, partecipe della vita politica romana negli ultimi decen-
ni della repubblica, noto per il suo rigorismo morale d’impronta stoica,
nella guerra fra Cesare e Pompeo si schierò con quest’ultimo: dopo la di-
sfatta pompeiana, insieme con altri della sua parte resistette ancora in Uti-
ca (città dell’Africa settentrionale nei pressi di Cartagine), dove alla fine si
diede la morte.
5
P. Vatinio, sostenitore di Cesare, noto per le proposte di legge da lui
avanzate (ma su ispirazione di Cesare) quando, nel 59 a.C., fu tribuno del-
la plebe. Seneca vi accenna come a uno di quei sediziosi di cui fu ricca nel
I secolo a.C. la repubblica romana.
6
Publio Clodio Pulcro (92-52 a.C.), popularis, si segnalò come sosteni-
tore di Cesare e tribuno della plebe nel 59 a.C.
credere che il cielo fosse appoggiato sulle spalle di uno solo: do-
po che era stata rigettata l’antica credulità e l’umanità era giunta
ad un altissimo grado di cultura, Catone, che aveva lottato con-
tro l’ambizione, male multiforme, e contro la smisurata brama di
potenza, che il mondo intero, suddiviso in tre parti, non poteva
saziare, da solo si oppose ai vizi della città che degenerava e sta-
va andando a fondo per la sua grandezza, sorresse lo Stato in ro-
vina, per quel che una sola mano valesse a frenarlo, finché, strap-
pato all’opera sua, si diede come compagno alla rovina che pure
aveva a lungo sorretto, e insieme perirono quei due, che era im-
possibile venissero divisi; Catone, infatti, non sopravvisse alla li-
bertà, né la libertà a Catone. Credi tu che il popolo abbia potuto
fargli torto per il fatto che gli tolse la pretura o la toga, per il fat-
to che cosparse di sputi quel sacro capo? Il sapiente è al sicuro e
non può essere colpito da alcuna offesa o contumelia.
7
Si tratta di Serse, re dei Persiani dal 485 al 465 a.C., che guidò la se-
conda spedizione persiana contro la Grecia (480 a.C.), terminata con la
vittoria greca di Salamina.
L’offesa ha questa intenzione: fare il male a qualcuno; ma la
sapienza non lascia posto al male (per quella, infatti, uno solo è
il male, la disonestà, che non può accedere là dove già sono la
virtù e l’onestà); dunque, se non c’è alcuna offesa senza male, e
non è male se non ciò che è anche disonesto, e si sa che la diso-
nestà non può arrivare là dove c’è l’onestà, l’offesa non raggiun-
ge il sapiente. Difatti, se l’offesa consiste nel patire qualche ma-
le, e il sapiente, a sua volta, non patisce alcun male, nessuna offe-
sa riguarda il sapiente. Ogni offesa è una perdita per colui con-
tro il quale si scaglia, e nessuno può subire offesa senza qualche
danno o dell’onore o del corpo o delle cose poste all’infuori di
noi. Ma il saggio non può perdere nulla; tutto ha riposto in sé,
non affida nulla alla fortuna, ha i suoi beni al sicuro, appagato
della virtù, la quale non ha bisogno dei beni della fortuna e per-
ciò non può essere né arricchita né sminuita: infatti e ciò che ha
raggiunto l’apice non ha la possibilità di un ulteriore incremen-
to, e – dal canto suo – la fortuna nient’altro porta via se non quel
che prima ha dato. Ma la virtù non è un suo dono, perciò nem-
meno può toglierla: la virtù è libera, inviolabile, salda, incrollabi-
le, così indurita contro le disgrazie che non può essere neppure
piegata, tanto meno vinta; guarda a testa alta i preparativi di co-
se terribili, non muta per nulla il suo volto, qualunque realtà le si
mostri, sia dura sia favorevole. Il saggio, dunque, non perderà
nessuna di quelle cose che percepirà come effimere; è in posses-
so della sola virtù, da cui non può mai essere estromesso, dei re-
stanti beni fa uso come precari favori della sorte: chi è turbato
dalla perdita di cosa altrui? Se l’offesa non può danneggiare nul-
la che appartenga al sapiente, poiché, essendo salva la virtù, so-
no salvi tutti i suoi beni, al sapiente non può essere fatta offesa.
Demetrio, che ebbe il soprannome di Poliorcete,8 aveva con-
quistato Megara. Il filosofo Stilpone,9 al quale Demetrio aveva
8
Demetrio I di Macedonia, detto «Poliorcete», visse fra il 336 e il 283
a.C. ca.; ebbe una parte importantissima nelle lotte dei Diadochi, soste-
nendo, insieme col padre Antigono Monoftalmo, l’idea della unità dell’im-
pero di Alessandro, contro le tendenze separatiste e di equilibrio degli al-
tri generali di Alessandro.
9
Nativo di Megara e vissuto fra il 370 e il 290 a.C. ca., Stilpone fu allie-
vo di Eubulide e di Euclide, megarici; ascoltò anche Diogene di Sinope.
Dopo Ittia, divenne capo della scuola megarica.
chiesto se avesse perso qualcosa, così rispose: «Niente, tutte le
mie cose sono con me». Eppure, e il suo patrimonio era diventa-
to preda del nemico, e il nemico gli aveva rapito le figlie, e la pa-
tria era caduta sotto il dominio straniero e un re lo interrogava
dall’alto del suo seggio, attorniato dalle armi dell’esercito vinci-
tore. Ma Stilpone gli strappò la vittoria e, benché la città fosse
stata conquistata, si dimostrò non solo invitto, ma indenne; infat-
ti, aveva con sé i veri beni, dei quali nessuno può impadronirsi,
mentre quelli dispersi e saccheggiati non li considerava suoi, ma
esteriori e soggetti al capriccio della fortuna. Perciò non li aveva
amati come suoi propri; è incerto e malsicuro, infatti, il possesso
di tutto quel che ci viene dall’esterno.
10
Nel 331 a.C.
11
Cartagine fu espugnata e distrutta da Scipione Emiliano nel 146
a.C. (terza guerra punica); Numanzia, città della Hispania Tarraconensis,
subì la medesima sorte (per opera dello stesso condottiero romano) nel
133 a.C.
12
Seneca fa riferimento ai fatti del 390 a.C., allorquando i Galli Senoni,
guidati da un capo che i Romani chiamarono «Brenno», dopo aver vinto
l’esercito romano nella battaglia di Allia (18 giugno del 391 a.C.), cinsero
d’assedio Roma, priva di difesa, e – dopo sette mesi, secondo la tradizione
– espugnarono la rocca del Campidoglio (dove i cittadini romani si erano
asserragliati).
7. Non c’è motivo che tu dica, così come è tuo solito, che questo
nostro saggio non si trovi in nessun luogo. Noi non lo rappresen-
tiamo come ornamento della natura umana privo di consistenza,
né concepiamo un’immagine straordinaria di una cosa non vera,
ma l’abbiamo mostrato, e lo mostreremo, così come lo concepia-
mo, forse raramente, forse uno solo a grande distanza di tempo;
infatti non nascono di frequente le cose grandi, che oltrepassano
la misura ordinaria e comune. Del resto, temo che questo stesso
M. Catone, dalla cui menzione ha preso avvio la presente discus-
sione, sia superiore anche al nostro modello.
Infine, ciò che danneggia deve essere più forte di ciò che viene
danneggiato; ma la malvagità non è più forte della virtù; il saggio,
dunque, non può essere danneggiato. Soltanto i malvagi tentano
di offendere i buoni; tra i buoni c’è pace, mentre i malvagi sono
dannosi tanto ai buoni quanto – reciprocamente – a se stessi. Se
può essere leso solo chi è più debole, e – d’altra parte – il malvagio
è più debole del buono, e i buoni non hanno da temere offese se
non da chi è diverso da loro, l’offesa non colpisce il saggio. Ormai,
infatti, non ti si deve ricordare che nessuno è buono tranne il sag-
gio. «Se Socrate – si può dire – fu condannato ingiustamente, subì
offesa.» A questo punto bisogna capire che può accadere che uno
mi rechi offesa, e che io non la subisca: come se qualcuno, dopo
aver portato via dalla mia casa di campagna una cosa, la lasciasse
nella mia casa di città – in tal caso, quello avrebbe commesso il
furto, ma io non avrei perso nulla. Uno può diventare colpevole,
benché non abbia concretamente recato danno. Se qualcuno giace
con sua moglie pensando che sia un’altra donna, è adultero, ben-
ché quella non sia adultera. Uno mi ha somministrato un veleno,
ma questo, mescolato al cibo, ha perso la sua forza malefica: quel-
lo, dando il veleno, si è reso colpevole di un delitto, anche se non
ha recato danno. Non è meno criminale chi vede il suo pugnale
schivato per l’interposizione del vestito. Ogni delitto si può ritene-
re compiuto, relativamente a quanto basta per essere colpevoli,
anche prima della riuscita dell’azione. Certe cose hanno tale natu-
ra e si legano secondo tale relazione, che una può aver luogo sen-
za l’altra, ma non viceversa. Mi sforzerò di chiarire ciò che affer-
mo. Posso muovere i piedi anche senza correre: ma non posso cor-
rere senza muovere i piedi; posso, benché sia in acqua, non nuota-
re: se nuoto, non posso non essere in acqua. Di tal fatta è anche
ciò di cui trattiamo qui: se ho ricevuto un’offesa, è necessario che
sia stata compiuta; ma, se è stata compiuta, non necessariamente
io l’ho subita. Possono, infatti, accadere molte cose che respingano
l’offesa: come un qualche caso può abbassare la mano rivolta con-
tro e far deviare le frecce scagliate, così qualche cosa può respin-
gere offese di qualunque specie e bloccarle a metà strada, in mo-
do tale che, certo, sono state fatte, ma non subite.
13. D’altra parte, qual è il motivo per cui tu non credi che il sag-
gio sia capace di questa fermezza d’animo, benché tu possa nota-
re in altri la stessa virtù, anche se non per la stessa ragione? Qua-
le medico, infatti, si adira con il malato di mente? Chi la prende
male se è insultato da uno che è febbricitante e al quale è vietata
l’acqua fredda? Il saggio ha verso tutti gli uomini questa stessa
disposizione d’animo del medico verso i suoi ammalati, di cui
non sdegna né di tastare le vergogne – se hanno bisogno di cura
–, né di esaminare gli escrementi solidi e liquidi, né di sopportare
gli insulti, dovuti alla loro furia di deliranti. Il saggio sa che tutti
costoro che incedono avvolti nella toga e nella porpora, in buo-
na salute e di colorito sano, sono insensati, e li considera non al-
trimenti che malati intemperanti. Pertanto, neppure si irrita, se,
nella malattia, si sono permessi un’insolenza di troppo contro
chi li cura, e con lo stesso animo con cui non stima nulla i loro
onori, parimenti non tiene in alcun conto le loro azioni disono-
revoli. Come non si compiacerà dell’omaggio di un mendicante,
e non si riterrà offeso se uno dell’infima plebe non ricambierà il
suo saluto, così neppure si inorgoglirà se molti ricchi lo guarde-
ranno con ammirazione – sa, infatti, che essi non sono per niente
diversi dai mendicanti, anzi sono ancor più miseri; quelli hanno
bisogno di poco, questi di molto – e, d’altra parte, non sarà scos-
so se il re dei Medi o Attalo d’Asia,13 mentre lui saluta, passe-
ranno oltre in silenzio e con cipiglio arrogante. Egli sa che la lo-
ro condizione non è per nulla più invidiabile di quella di chi in
una grande famiglia ha avuto in sorte il compito di tenere a fre-
no gli ammalati e gli insani. Soffrirò, forse, se non mi ricambierà
il saluto uno di questi che presso il tempio di Castore commer-
ciano comprando e vendendo schiavi dappoco, le cui botteghe
sono riempite da una moltitudine di servi di pessima risma? No,
io penso; che cosa mai può avere di buono, infatti, chi ha alle sue
dipendenze tutti uomini malvagi? Pertanto, come il saggio tra-
scura la cortesia e la scortesia di costui, così anche quelle di un
re: «Hai sotto il tuo dominio i Parti e i Medi e i Battriani, ma li
tieni a freno con il terrore, ma a causa loro non ti è riuscito di al-
lentare l’arco, ma regni su nemici spaventosissimi, che si lasciano
comprare, che vanno in cerca di un nuovo signore». Non sarà
turbato, dunque, dalla contumelia di nessuno; per quanto siano
tutti diversi fra loro, il saggio, certo, li considera tutti uguali, per-
ché uguale è la loro stoltezza. Se, infatti, una sola volta si abbas-
serà a tal punto da lasciarsi turbare da offesa o contumelia, non
potrà mai essere sicuro; ma la sicurezza è il bene proprio del sag-
gio. Né farà in modo che, ritenendo di aver subìto una contume-
lia, tributi onore a colui che gliel’ha fatta; è inevitabile, appunto,
che si gioisca di essere guardati con rispetto da colui dal quale si
sopporta a malincuore di essere disprezzati.
13
Il re dei Medi, al quale Seneca si riferisce, è Serse. Attalo sta qui per
la ricca e fortunata dinastia ellenistica degli Attalidi, signori del regno di
Pergamo, alleati dei Romani a partire dalla prima guerra macedonica; l’ul-
timo sovrano della dinastia, Attalo III, quando morì (133 a.C.), lasciò il re-
gno in eredità ai Romani, che ne fecero la provincia d’Asia.
suoi orecchini, quanto ampia la sedia gestatoria? Rimane egual-
mente un essere senza senno e, se non sopravvengono scienza e
molta istruzione, selvaggio, impotente a frenare le sue brame.
Certuni non tollerano di essere stati urtati da un parrucchiere e
chiamano contumelia il carattere difficile di un portinaio, l’arro-
ganza di un nomenclatore,14 l’alterigia di un cameriere: oh che
ridere tra queste inezie! di che gran piacere si deve riempire l’a-
nimo di chi contempla la sua serenità nella confusione degli er-
rori altrui! «E che, dunque? Il saggio non si avvicinerà alla porta
sorvegliata da un portiere severo?» Egli, certo, se spinto a ciò da
una necessità, farà un tentativo, e lo placherà – chiunque sia –
gettandogli del cibo, come si fa con un cane aggressivo, né mal
sopporterà di sborsare qualcosa per oltrepassare la soglia, se
penserà che anche su alcuni ponti si paga un pedaggio per passa-
re. Dunque farà dono anche al portinaio – chiunque egli sia – che
si fa pagare la mancia per le visite al suo padrone: sa che col de-
naro si compra ciò che si vende. È di animo meschino chi si com-
piace del fatto che ha risposto con franchezza al portiere, ha
spezzato il suo bastone, è andato dal padrone e lo ha fatto basto-
nare; colui che combatte si fa avversario, e, benché vinca, si è co-
munque posto sullo stesso piano dell’altro.
«Ma che cosa farà il saggio, se sarà colpito da un pugno?»
Quello che fece Catone, quando subì un colpo in volto: non die-
de in escandescenze, non punì l’offesa, né la perdonò, ma negò
che gli fosse stata fatta; non la riconobbe, dimostrando un animo
ancor più grande che se l’avesse perdonata. Non a lungo rimar-
remo fermi su questo punto; chi ignora, infatti, che su nessuna
delle cose che si considerano mali o beni il saggio la pensa allo
stesso modo di tutti gli altri uomini? Non guarda che cosa gli uo-
mini giudichino turpe o misero, non segue la via della massa, ma,
come gli astri indirizzano il loro corso in senso contrario a quel-
lo del cielo, così egli procede contro l’opinione comune.
14
Era lo schiavo che diceva al padrone i nomi delle persone che incon-
trava. Durante i pranzi annunciava le pietanze che si servivano.
gente triviale? se ad un banchetto regale gli sarà ordinato di
sdraiarsi in fondo alla tavola e di mangiare con gli schiavi che
hanno avuto in sorte compiti disonorevoli? se sarà costretto a
sopportare qualcun’altra di quelle cose che possono essere esco-
gitate per far soffrire persone di nobile pudore?». Queste cose,
per quanto crescano o in numero o in grandezza, saranno pur
sempre della stessa natura: se non lo toccheranno le piccole, nep-
pure lo toccheranno le grandi; se non lo toccheranno poche co-
se, neppure molte. Ma voi vi immaginate la grandezza d’animo
sulla base della vostra debolezza, e, dopo aver meditato quanto
– a vostro parere – voi possiate sopportare, ponete un po’ più
avanti il limite della pazienza del saggio; ma il saggio è stato po-
sto dalla sua virtù in un’altra regione del cosmo, senza avere nul-
la in comune con voi. Ricerca pure le avversità e tutto ciò che è
pesante da sopportarsi e da cui rifuggono l’udito e la vista: egli
non sarà sopraffatto dalla loro massa, e resisterà alle singole dif-
ficoltà così come a tutte quante messe insieme. Fa male chi dice
che il saggio può tollerare questo, ma non quello, e tiene la gran-
dezza d’animo costretta entro limiti determinati: la fortuna ci
vince, se noi non la vinciamo nella sua totalità.
Perché tu non pensi che questa sia durezza stoica, considera
che Epicuro, che voi prendete a difensore della vostra pigrizia, e
ritenete maestro di vita molle e inoperosa, indirizzata ai piaceri,
afferma: «Raramente la fortuna ha a che fare col saggio». Quan-
to poco mancò perché pronunciasse parole degne di un uomo!
Vuoi tu profferire parole più forti e toglier di mezzo totalmente
la fortuna? Questa casa del saggio è angusta, senza eleganza,
senza frastuono, senza fasto, non è sorvegliata da alcun portiere
che ripartisca la folla con venale arroganza, ma la fortuna non
passa per questa soglia vuota e non occupata da portinai: sa che
per lei non c’è posto là dove non c’è nulla di suo.
17. Crisippo dice15 che un tale si indignò per essere stato chia-
mato «montone marino». Abbiamo visto piangere in senato Cor-
nelio Fido, genero di Ovidio Nasone, perché Corbulone16 lo ave-
va chiamato «struzzo spelacchiato»; di fronte ad altri insulti che
ferivano profondamente i suoi costumi e la sua vita egli si oppo-
se con fronte ferma, di fronte a questo così stravagante pianse:
così grande è la debolezza degli animi, quando la ragione viene
meno. E che dire del fatto che ci offendiamo, se qualcuno imita il
15
Crisippo di Soli (281/277-208/204 a.C.) fu il terzo scolarca della Stoa, e
diede un contributo di grandissima rilevanza e mole allo sviluppo e alla di-
fesa del pensiero stoico: perciò fu detto «secondo fondatore» della scuola.
16
Gneo Domizio Corbulone (morto suicida nel 67 d.C.), grande gene-
rale e abile diplomatico romano.
nostro modo di parlare, il nostro modo di camminare, se qualcu-
no riproduce un difetto del nostro corpo o del nostro linguag-
gio? Come se essi diventassero più noti per l’imitazione di un al-
tro che per la pratica che noi ne facciamo! Taluni malvolentieri
sentono parlare della loro vecchiaia e della canizie e di altro a
cui pur con gran voti si desidera giungere; ad alcuni brucia l’in-
sulto di essere in miseria che rinfaccia a se stesso chiunque cer-
chi di nasconderla: pertanto, si toglie materia agli insolenti e a
coloro che vogliono riuscire arguti ingiuriando, se spontanea-
mente e per primo te ne impossessi, prevenendo gli altri; non fa
ridere chi tragga da se stesso il motivo di riso. Si tramanda che
Vatinio, uomo di natura tale da essere sia deriso che odiato, fu
un buffone fine e mordace. Egli stesso sparlava moltissimo dei
suoi piedi e della sua gola tagliata: così aveva evitato l’arguzia
dei suoi nemici, che aveva in quantità superiore alle malattie, e
soprattutto di Cicerone. Se con l’impudenza fu capace di ciò quel
Vatinio, che a causa di offese continue aveva disimparato a ver-
gognarsi, perché non dovrebbe esserne capace chi con gli studi
liberali e la cultura filosofica ha conseguito qualche progresso?
Aggiungi, inoltre, che è un tipo di vendetta il togliere a chi ha in-
giuriato il piacere dell’ingiuria fatta; alcuni sono soliti dire: «Oh
misero me! non ha capito, suppongo»: sino a questo punto il frut-
to dell’ingiuria consiste nel fatto che la percepisca e si indigni
colui che la subisce. Poi non mancherà talvolta all’insolente chi
gli renda la pariglia; si troverà chi vendichi anche te.
18. Gaio Cesare,17 che, tra gli altri difetti – dei quali abbondava
–, aveva anche quello di essere ingiurioso, provava uno straordi-
nario piacere nel colpire tutti con qualche infamia, pur costi-
tuendo egli stesso ricca materia di riso: tanto ripugnante era il li-
vore che attestava la sua follia, così torvi gli occhi nascosti sotto
la fronte da vecchio, così deforme il capo calvo e sparso solo qua
e là di capelli posticci; aggiungi il collo coperto di peli e la sotti-
gliezza delle gambe e l’enormità dei piedi. Non finirei mai, se vo-
lessi raccontare una per una le contumelie che rivolse ai suoi ge-
nitori e ai suoi avi, a tutte quante le classi dello Stato: riferirò
quelle che lo portarono alla rovina.
17
Si tratta di Caligola, princeps dal 37 al 41 d.C.
Aveva tra i suoi amici intimi Valerio Asiatico,18 uomo fiero e
che a stento avrebbe sopportato con animo sereno le contumelie
fatte ad altri: proprio a costui in un banchetto, cioè in assemblea,
Gaio disse in faccia, con voce chiarissima, come si comportasse
sua moglie a letto. Oh dèi buoni, un marito che ascolta ciò, un
principe che lo sa! e fino a tal punto è giunta la licenza che il prin-
cipe racconta il suo adulterio e il suo disgusto non dico all’ex con-
sole, non dico all’amico, ma solo al marito! Il modo di parlare di
Cherea, tribuno dei soldati,19 invece, non era rapportato al suo
valore, debole nel suono e – se non avessi conosciuto le sue gesta
– alquanto sospetto. A questi, quando chiedeva la parola d’ordi-
ne, Gaio dava ora «Venere», ora «Priapo», rinfacciando in vari
modi al soldato la sua effeminatezza; rinfacciava ciò proprio lui
che indossava una veste trasparente, calzava sandali, ed era ag-
ghindato d’oro. Perciò lo costrinse a servirsi della spada, per non
chiedergli più la parola d’ordine: lui per primo tra i congiurati
alzò la mano, fu lui a troncargli il collo a metà con un sol colpo;
poi da ogni parte gli furono conficcate nel corpo moltissime spa-
de a vendicare offese pubbliche e private, ma il primo fu quel-
l’uomo che non sembrava affatto tale. Ma lo stesso Gaio vedeva
contumelie dappertutto, siccome mal sopportano di subirne colo-
ro che sono bramosissimi di farne agli altri: fu in collera con
Erennio Macro perché lo aveva salutato chiamandolo «Gaio», né
evitò la punizione un centurione primipilo20 per averlo chiamato
«Caligola»; così, infatti, veniva solitamente apostrofato lui che
era nato in accampamento ed era stato allevato dalle legioni, e
che non era mai divenuto più noto ai soldati con altro nome; ma
ora che calzava il coturno giudicava un insulto e un disonore es-
sere denominato «Caligola». Proprio questo, dunque, ci sarà di
18
Senatore della Gallia Narbonese, per due volte console, nel 47 d.C. fu
accusato di aver partecipato alla congiura contro Caligola (41 d.C.) e co-
stretto a uccidersi.
19
Tribuno di una delle coorti pretoriane, già distintosi nelle guerre in
Germania sotto Tiberio, fu, come ricorda qui Seneca, a capo di coloro che
uccisero Caligola: salutato, quindi, dal senato come restauratore della re-
pubblica, venne giustiziato poco dopo – insieme con altri congiurati – dal
nuovo imperatore Claudio.
20
Comandava la prima centuria della prima coorte: era il più anziano
della legione.
conforto – anche se la nostra indulgenza avrà tralasciato la ven-
detta –, che ci sarà pur sempre qualcuno che faccia pagare il fio
allo sfrontato, all’arrogante, a chi offende: questi vizi non si esau-
riscono mai in un solo uomo e in una sola contumelia.
Rivolgiamo lo sguardo agli esempi di coloro di cui lodiamo la
capacità di sopportazione, come Socrate, che prese bene le argu-
zie delle commedie rivolte contro di lui, divulgate e osservate a
teatro, e ne rise non meno di quando la moglie Santippe gli ver-
sò addosso acqua sporca. Ad Antistene21 si rinfacciava di avere
madre barbara, originaria della Tracia: lui rispose che anche la
madre degli dèi era originaria del monte Ida.22
19. Non si deve arrivare alla rissa e alla lotta. Dobbiamo allon-
tanarcene di molto e trascurare qualunque cosa di tal genere ci
sia fatta dagli stolti (d’altronde, non può essere fatta se non da
stolti), dobbiamo tenere nel medesimo conto gli onori e le offese
del volgo. E non bisogna dolersi di queste né compiacersi di
quelli; diversamente, tralasceremo molte cose necessarie per la
paura o il fastidio delle contumelie, e non ottempereremo ai do-
veri pubblici e privati, talvolta anche di rilevante utilità, mentre
ci angustia la preoccupazione donnesca di sentir dire qualcosa
contro di noi. Talvolta, adirati anche contro uomini potenti, ma-
nifesteremo questo sentimento con intemperante libertà. Ma la
libertà non consiste nel non patire alcunché, ci sbagliamo: la li-
bertà consiste nell’innalzare l’animo al di sopra delle offese e nel
formare se stesso in modo tale che soltanto da sé scaturisca tutto
il bene di cui bisogna gioire, nel separare da sé le cose esterne,
affinché non si debba condurre una vita inquieta temendo il riso
di tutti, la lingua di tutti. Chi è, infatti, che non possa insultarci,
se qualcuno può farlo? D’altra parte, il sapiente e colui che aspi-
ra alla sapienza si serviranno di rimedi diversi. Gli imperfetti, in-
21
Antistene (444-365 circa a.C.), ateniese, fu dapprima scolaro di Gorgia,
poi seguace di Socrate. Sua madre era originaria della Tracia; perciò, nella
cerchia socratica, alcuni di nobili natali lo chiamavano «semibarbaro». Egli
che ebbe grande interesse per la logica e la dialettica, è comunemente noto
per le sue rigorose posizioni morali: egli fu sostenitore di un’etica che propi-
gnava l’autosufficienza della virtù e l’indipendenza dai bisogni.
22
Si tratta di Cibele, originaria – secondo il mito – del monte Ida, in
Frigia. È detta magna mater.
fatti, e coloro che si regolano ancora secondo l’opinione comu-
ne, devono proporsi di trattenersi essi stessi tra le offese e le con-
tumelie: a chi se lo aspetta, tutto risulterà più lieve. Quanto più
uno è nobile per stirpe, fama, patrimonio, tanto più valorosa-
mente si comporti, ricordando che le centurie scelte stanno in
prima fila. Sopporti le contumelie e le parole infamanti e le igno-
minie e tutti gli altri atti disonoranti come il clamore dei soldati
nemici, come le frecce distanti e le pietre che fanno rumore in-
torno agli elmi senza ferire; non abbattuto, neppure mosso dalla
sua posizione, resista, inoltre, alle offese come se fossero colpi
inferti, alcuni all’armatura, altri al petto. Anche se sei incalzato e
oppresso da una forza ostile, è, tuttavia, una vergogna ritirarsi:
difendi il posto che la natura ti ha assegnato. Mi chiedi quale sia
questo posto? Quello di uomo. Il saggio ha un altro mezzo di sal-
vezza, opposto a questo: voi, infatti, combattete la battaglia, egli
ha già conseguito la vittoria. Non opponetevi al vostro bene, e,
mentre raggiungete la verità, nutrite negli animi questa speran-
za, accogliete volentieri i buoni precetti, e giovate a voi stessi con
il giudizio e con l’augurio: che vi sia qualcosa di invitto, che vi sia
qualcuno contro il quale la fortuna non abbia alcun potere, è nel-
l’interesse dell’umana società.
L’IRA*
LIBRO I
* Tratto da: Seneca L’ira, Bur, Milano 1998. Traduzione e note di Co-
stantino Ricci
1
Novato è il fratello di Seneca. Assunse il nome di Gallione dal suo
maestro di retorica che lo adottò.
sintomi delle persone adirate: gli occhi sono ardenti e accesi, in
tutto il volto si diffonde un intenso rossore, poiché il sangue ri-
bolle dal profondo del cuore, le labbra tremano, i denti si serra-
no, i capelli si levano ritti sul capo, il respiro è faticoso e rumoro-
so, si avverte il rumore delle articolazioni che si contorcono, un
gemere e un muggire, un parlare smozzicato con parole non
chiaramente espresse, un frequente batter di mani e calpestio di
piedi sul terreno, l’intero corpo agitato ed esprimente grandi e
irose minacce, l’aspetto sconcio a vedersi e spaventoso di chi
deforma i lineamenti e si gonfia di collera – è difficile dire se sia
un difetto più detestabile o brutto.
Le altre passioni si possono nascondere o nutrire in segreto,
l’ira invece si evidenzia chiaramente nell’aspetto, e ribolle in ma-
niera tanto più evidente quanto più è grande. Non vedi come tut-
ti gli animali, quando stanno per attaccare, offrono degli indizi
premonitori e smettono in tutto il loro corpo l’atteggiamento
abituale e tranquillo e inaspriscono la loro ferocia? I cinghiali
hanno la bava alla bocca e affilano i denti con lo sfregamento, i
tori menano cornate all’aria e smuovono il terreno con l’agitarsi
delle zampe, i leoni fremono, i serpenti, eccitati, gonfiano il collo,
le cagne in preda alla rabbia hanno un aspetto pauroso: nessun
animale è per natura tanto spaventoso e pericoloso da non la-
sciare apparire, quando è colto dall’ira, l’aggiunta d’una nuova
ferocia. So bene che anche le altre passioni si nascondono a fati-
ca, e si possono conoscere in anticipo libidine, paura e sfronta-
tezza, grazie ai sintomi che presentano, poiché ogni agitazione
d’una certa intensità produce un mutamento nello sguardo.
Dov’è allora la differenza? Le altre passioni si intravedono, que-
sta si impone con tutta evidenza.
2
Gli effetti funesti dell’ira sono qui elencati con espressioni generiche,
che consentono tuttavia di cogliere qualche precisa allusione: fra le città
famose di cui si vedono appena i resti, si può pensare a Troia, a Tebe di-
strutta da Alessandro, a Cartagine, sulle cui rovine fu sparso il sale; il co-
mandante ucciso nel suo letto potrebbe essere Scipione Emiliano; l’ucciso
«violando le sacre leggi del banchetto» è forse Clito; nel foro fu assassina-
to dagli usurai Sempronio Asellione come pure Tiberio e Gaio Gracco e
Seiano; per mano del figlio adottivo Bruto morì Cesare.
3
Posidonio, filosofo stoico (135-51 a.C.) ebbe fra i suoi discepoli a Ro-
di Cicerone, Pompeo e Varrone.
3. Dicono: «Spesso ce la prendiamo non con chi ci ha offeso, ma
con chi ne ha l’intenzione; dal che si può capire che l’ira non na-
sce dall’offesa». È vero che ce la prendiamo con coloro che han-
no l’intenzione di offenderci, ma essi ci offendono col loro stesso
proposito, e chi ha l’intenzione di fare un torto, è come se già lo
facesse. Dicono: «Che l’ira non sia brama di vendetta lo si capi-
sce dal fatto che i più deboli spesso s’arrabbiano con i più forti, e
non bramano una vendetta che giudicano impossibile». Innanzi
tutto abbiamo detto che è la brama, non la possibilità, di inflig-
gere una punizione; e gli uomini bramano anche al di là delle lo-
ro possibilità. In secondo luogo nessuno è tanto debole da non
sperare di poter punire anche un uomo potentissimo: a nuocere
siamo bravi tutti.
La definizione di Aristotele4 non si discosta molto dalla no-
stra; dice infatti che l’ira è il desiderio di ricambiare un dolore.
Sarebbe lungo spiegare che differenza ci sia tra questa e la nostra
definizione. Per confutarle entrambe, si dice che le fiere si adira-
no senza essere provocate da una offesa né per punire o recare
dolore altrui; infatti benché sia questo il risultato, non è questo il
loro proposito. Bisogna però dire che le fiere e ogni essere viven-
te eccetto l’uomo non conoscono l’ira, la quale, benché sia oppo-
sta alla ragione, nasce solo dove c’è spazio per la ragione. Le fiere
provano degli impulsi, la rabbia, la ferocia, l’assalto, ma non l’ira
e neppure la voglia di vita lussuosa, benché verso certi piaceri sia-
no più sregolate dell’uomo. Non devi credere a colui che dice:
4
Aristotele (384-322 a.C.), discepolo di Platone e fondatore del Peripa-
to, fu sommo fra i filosofi antichi e si interessò di logica, scienze naturali,
etica, politica, retorica e poetica.
5
I due esametri citati sono tratti da Ovidio, con cui Seneca polemizza.
tracce, ma sono beni e mali propri dell’animo umano. Prudenza,
preveggenza, scrupolo, riflessione sono concesse solo all’uomo, e
gli animali sono preclusi non solo alle virtù, ma anche ai difetti
dell’uomo. L’insieme del loro aspetto, sia esteriore sia interiore,
è diverso da quello dell’uomo: quel non so che di regale e di
principesco ha tutt’altra origine. Come hanno la voce, ma non
distintamente articolata, anzi confusa e non in grado di esprime-
re parole, come hanno la lingua, ma impacciata e non libera nei
movimenti, così la stessa funzione primaria è poco sottile, poco
perfetta. Colgono quindi la vista e l’aspetto delle cose che gli
danno lo stimolo e l’impulso, ma in modo torbido e confuso. Di
conseguenza i loro attacchi e le agitazioni sono impetuosi, ma
non sono paura, ansia, tristezza e ira, ma qualcosa di simile a tut-
to questo; perciò finiscono presto e si mutano nell’affezione op-
posta e, dopo aver infuriato e provato paura in modo assai inten-
so, pascolano, e al folle fremito e alla scorreria subito tien dietro
il riposo e l’assopimento.
10. Perciò la ragione non farà mai ricorso all’aiuto di istinti vio-
lenti e ciechi, sui quali non abbia essa stessa alcuna autorità, che
non possa mai soffocare se non contrapponendo a essi istinti
uguali e simili, come la paura all’ira, l’ira all’ozio, la cupidigia al
timore. Che la ragione non trovi mai rifugio nei vizi! Lungi dalla
virtù questo malanno! Non può un animo tale godersi un riposo
tranquillo, ma è inevitabilmente scosso e sballottato, protetto
com’è dai propri mali, incapace d’esser forte se non si adira, ino-
peroso se non desidera, quieto se non teme: deve vivere in un re-
gime dispotico, diventando schiavo di qualche passione. Non ci
vergogniamo di abbassare la virtù al rango di cliente dei vizi? E
poi la ragione cessa di avere alcun potere, se nulla può senza pas-
sione, e comincia a essere uguale e simile a essa. Giacché qual
differenza fa, se la passione è cosa avventata senza la ragione, e
la ragione è inconcludente senza passione? Le due situazioni so-
no uguali, l’una non può sussistere senza l’altra. Ma chi accette-
rebbe di uguagliare la passione alla ragione? «La passione è uti-
le» dicono «a patto che sia moderata.» Diciamo meglio: a patto
che sia utile per natura. Ma se non tollera i comandi della ragio-
ne, con la moderazione avrà come unico effetto di nuocere tanto
meno, quanto più sarà piccola; e così una passione moderata al-
tro non è che un male moderato.
6
I Teutoni e i Cimbri, alla loro prima comparsa nella storia della civiltà
mediterranea, furono battuti da Mario rispettivamente ad Aquae Sextiae
(102 a.C.) e ai Campi Raudii (101 a.C.). Il particolare che nessuno fu su-
perstite alla disfatta, ma solo la fama ne recò la notizia, è confermato da
tante fonti antiche.
ché in luogo d’esser valorosi erano adirati. Se è vero che l’ira tal-
volta rimuove e abbatte gli ostacoli, è pur vero che più spesso è
di rovina a se stessa. Nessuno è più coraggioso dei Germani, nes-
suno più accanito negli assalti, più amante delle armi fra le quali
nascono e crescono, delle quali soltanto si prendono cura trascu-
rando tutto il resto. Hanno fatto il callo a ogni sofferenza, poiché
per la maggior parte non possiedono indumenti o rifugi atti a
proteggerli da un clima sempre rigido. E tuttavia gli Ispani, i Gal-
li e gli abitanti d’Asia e di Siria, poco avvezzi alla guerra, li mas-
sacrano prima ancora che entrino in campo le legioni, poiché
scoprono il fianco ai colpi per nessun’altra ragione se non l’ira-
condia.7 Supponiamo dunque che diventino ragionevoli e disci-
plinati questi corpi e queste indoli che non conoscono raffina-
tezza, lusso e ricchezza; per non dire di più, noi dovremo perlo-
meno tornare ai costumi romani. Con quale altro espediente Fa-
bio ristorò le logore forze di Roma se non col saper temporeg-
giare, tirar le cose in lungo, indugiare?8 Attitudini tutte che non
si addicono alle persone adirate. L’impero, che era ormai sull’or-
lo dell’abisso, sarebbe bell’e finito, se Fabio avesse osato ciò che
l’ira suggeriva: tenne conto del destino dello Stato, e valutate le
forze superstiti, nessuna delle quali ormai poteva andar perduta
senza il crollo di tutto, mise in un canto il dolore e il desiderio di
vendetta, mirando unicamente all’utile e alle occasioni favore-
voli; prima di sconfiggere Annibale, sconfisse l’ira. E Scipione?9
Lasciò perdere Annibale, l’esercito cartaginese e tutti coloro con
cui avrebbe dovuto adirarsi, e trasferì la guerra in Africa, con
tanta lentezza da offrire ai malevoli il destro per accusarlo di dis-
solutezza e pigrizia. E il secondo Scipione?10 Restò a lungo ac-
campato presso Numanzia e sopportò serenamente che ci voles-
se più tempo a vincere Numanzia che Cartagine, motivo questo
7
Era consuetudine romana impiegare le legioni solo quando le truppe
ausiliarie (Ispani, Galli e gli abitanti d’Asia e di Siria) non avevano da sole
ragione del nemico.
8
Si tratta di Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore.
9
È Publio Cornelio Scipione l’Africano che, ancora presente Annibale in
Italia, concepì l’audace piano di sbarcare in Africa e trasferire colà la guerra.
10
Publio Cornelio Scipione Emiliano (figlio di Emilio Paolo ed entrato
per adozione nella famiglia degli Scipioni) distrusse Cartagine nel 146 a.C.
e Numanzia nel 133 a.C.
di dolore per sé e per tutti. Nel tempo che impiegò ad attuare il
blocco e a stringere d’assedio i nemici, li ridusse al punto di ucci-
dersi col loro stesso ferro. Pertanto l’ira non è utile neppure in
battaglia o in guerra: è infatti portata alla temerarietà e non evi-
ta i pericoli che vuol procurare al nemico. La virtù più infallibile
è quella che molto e a lungo esamina se stessa e si controlla e
procede lenta secondo i piani prestabiliti.
12. Dicono: «Ma come, l’uomo buono non si adira vedendo l’uc-
cisione del padre e il rapimento della madre?».11 Non si arrab-
bierà, ma li vendicherà e li difenderà. Perché temere che l’affet-
to filiale, senza l’ira, sia per lui uno stimolo poco efficace? Altri-
menti è lecito dire nello stesso modo: «Ma come, vedendo il pa-
dre o il figlio che subiscono un’operazione chirurgica, l’uomo
buono non piangerà e non si sentirà venir meno?». Questo è il
comportamento delle donne, tutte le volte che un lieve sospetto
di pericolo le coglie. L’uomo buono compirà i suoi doveri senza
incertezza e paura, e farà azioni degne d’un uomo dabbene in
modo da non commettere nulla che sia indegno dell’uomo. Verrà
ucciso mio padre: lo difenderò; è stato ucciso: lo vendicherò, per-
ché è necessario, non perché provo dolore. «Gli uomini buoni si
adirano per le offese ricevute dai propri congiunti.» Nel dir que-
sto, o Teofrasto,12 ti mostri avverso agli insegnamenti di fortezza
e lasciato il giudice ti presenti all’opinione del volgo: poiché
ognuno si adira in una simile sventura dei suoi, tu ritieni che gli
uomini penseranno che sia un dovere fare ciò che essi fanno; poi-
ché di norma ciascuno giudica giusta quella passione che ricono-
sce come sua. Ma fanno lo stesso se l’acqua non è preparata ben
calda, se si rompe un vaso di vetro, se le scarpe sono sporche di
mota. Non l’affetto, ma la debolezza suscita quest’ira, come ai
bimbi che piangeranno per la perdita dei genitori come per quel-
la delle noci. Arrabbiarsi per i propri congiunti non è segno d’a-
nimo affettuoso ma debole: è azione bella e degna scendere in
11
L’obiezione è di Teofrasto, nominato poco più oltre.
12
Teofrasto (371-286 a.C.), scolaro di Platone e di Aristotele, che lo de-
signò a succedergli nella scuola, si occupò di logica, metafisica, scienze na-
turali, politica, retorica, etica, psicologia. Della sua vasta produzione resta-
no a noi le Ricerche sulle piante, le Cause delle piante e i Caratteri.
campo in difesa dei genitori, dei figli, degli amici, dei cittadini,
sotto l’impulso del dovere stesso, con volontà, giudizio e preveg-
genza, senza passione e rabbia. Infatti nessuna passione è più
bramosa di vendetta dell’ira, e perciò stesso meno idonea alla
vendetta: è troppo precipitosa e folle, come di norma tutte le
brame, ed è di ostacolo a se stessa in ciò che si affretta a fare.
Perciò non è mai stata vantaggiosa né in pace né in guerra, giac-
ché rende la pace simile alla guerra, e dimentica che sul campo si
può vincere e si può perdere, e non essendo padrona di sé, fini-
sce sotto il dominio altrui.
E poi, se i vizi hanno talora sortito un qualche effetto, non per
questo vanno messi in pratica; anche la febbre allevia certi tipi di
malattia, ma ciò nonostante è meglio esserne del tutto liberi. È
un malaugurato tipo di cura quello d’essere debitori della salute
a una malattia. Ugualmente l’ira, sebbene talvolta sia stata im-
prevedibilmente di vantaggio come il veleno, una caduta preci-
pitosa, un naufragio,13 non per questo deve essere giudicata salu-
tare, poiché spesso furono causa di salute cose pestifere.
13
Vi è forse allusione alla cicuta bevuta da Socrate come farmaco di
immortalità, al naufragio che indusse Zenone a dedicarsi alla filosofia, e a
un tipo di suicidio di cui si parla in De ira III, 15, 4 come di espediente per
uscire dai mali della vita.
spingere al cimento anche i più fiacchi? Ma ira, ubriachezza,
paura e altri difetti di tal fatta sono stimoli vergognosi e passeg-
geri e non irrobustiscono la virtù, che non ha affatto bisogno dei
vizi, ma sollevano un tantino l’animo diversamente pigro e fiac-
co. Nessuno diventa più forte adirandosi, tranne colui che senz’i-
ra non sarebbe stato forte; essa pertanto non viene ad aiutare la
virtù, ma a prenderne il posto. E che dire del fatto che, se l’ira
fosse un bene, tutte le persone migliori vi sarebbero esposte?
Eppure i più iracondi sono i bimbi, i vecchi e i malati, e ogni es-
sere debole è per natura portato a lagnarsi.
14
Altre fonti riferiscono l’episodio ad Archita di Taranto, altre ancora
ad Aristotele.
sei tormentato, e dopo che ti sei rivoltato nei tuoi e negli altrui
supplizi, ti proporremo la morte, il solo bene che ti resta.» Per-
ché dovrei adirarmi con uno proprio nel momento in cui gli reco
giovamento? Talora uccidere è la miglior forma di pietà. Se en-
trassi da competente in un ospedale o nella casa di un ricco, non
prescriverei la stessa cura a chi soffre di disturbi diversi: vedo in
tanti animi difetti diversi e ho l’incarico di curare una città; si
cerchi la cura adatta al male di ciascuno, a guarir costui sia la ver-
gogna, quest’altro un viaggio in terra straniera, quest’altro il do-
lore, quest’altro ancora il bisogno, quest’ultimo il ferro. Pertanto,
se come magistrato dovrò indossare la veste nera15 e convocare
con la tromba l’assemblea, avanzerò sul palco non furioso né
ostile, ma col volto della legge, e pronuncerò quelle formule so-
lenni con voce calma e grave piuttosto che rabbiosa, e ordinerò
che si proceda secondo la legge, non adirato ma severo; e nel-
l’ordinare di tagliar la testa al colpevole e nel far cucire nel sacco
i parricidi16 e nell’inviare al supplizio dei soldati17 e nel precipi-
tare dalla rupe Tarpea i traditori o i pubblici nemici,18 libero dal-
l’ira avrò quel volto e quello stato d’animo con cui colpisco i ser-
penti e gli animali velenosi. «Per punire ci vuole l’ira.» Come? ti
pare che la legge si adiri con le persone sconosciute, mai viste,
che spera non esisteranno mai? Bisogna dunque assumere l’at-
teggiamento della legge, che non si adira ma stabilisce. Infatti se
all’uomo buono si addice adirarsi per le cattive azioni, dovrà pu-
re provare invidia per i successi dei malvagi. Che certuni siano in
auge e che godano dei favori della sorte coloro per i quali non si
potrebbe escogitare alcuna sorte abbastanza avversa, di questo
non c’è nulla di più ingiusto. Ma guarderà senza invidia i loro
successi e senza ira i loro delitti; il giudice giusto condanna le
azioni riprovevoli, non le odia. «Ma come! quando il saggio avrà
15
Il magistrato indossava l’abito a lutto quando doveva pronunciare
sentenza di morte.
16
I parricidi venivano gettati nel Tevere dentro un sacco, insieme a una
vipera, un gallo, un cane e una scimmia.
17
L’esecuzione dei soldati avveniva per decapitazione dopo la fla-
gellazione.
18
La rupe Tarpea, dalla quale si precipitavano i traditori, ebbe nome
dalla fanciulla che nella guerra fra Romani e Sabini, ai tempi di Romolo,
aprì le porte della rocca ai nemici.
fra le mani qualcosa di simile, l’animo suo non ne sarà impres-
sionato e agitato più del solito?» Lo ammetto: avvertirà un mo-
vimento leggero e sottile, poiché, per dirla con Zenone, anche
nell’animo del saggio, guarita la piaga, resta la cicatrice. Avver-
tirà quindi degli indizi e larve di passioni, ma di passioni vere e
proprie sarà privo.
17. Dice Aristotele che certe passioni, a farne buon uso, sono
come armi.19 Il che sarebbe vero se si potessero indossare e
smettere ad arbitrio di chi le indossa, come l’equipaggiamento
da guerra: queste armi che Aristotele assegna alla virtù, combat-
tono da sole, non attendono l’intervento della mano, e possiedo-
no, non sono possedute. Non c’è affatto bisogno di altri equipag-
giamenti, basta la ragione di cui la natura ci ha fornito. Ci ha da-
to quest’arma, salda, eterna, obbediente, né a doppio taglio né
tale che possa essere rilanciata contro il padrone. La ragione è di
per se stessa sufficiente non solo a prevedere, ma ad agire, e per-
ciò nulla è più stolto che essa, bene stabile, fidato e sano, chieda
aiuto all’ira, che è insicura, infida e malata. E che dire del fatto
che, persino in quelle nostre azioni in cui l’intervento dell’ira
sembra necessario, la ragione da sola è molto più forte? Quando
decide di dover fare qualcosa, è tenace nel proposito, poiché non
troverà nulla di meglio da sostituire a se stessa; per questo, una
volta presa una decisione, non la muta. L’ira spesso si lascia ri-
condurre indietro dalla compassione, poiché non ha salda robu-
stezza, ma vana gonfiezza, ed è violenta nell’inizio, come quei
venti che si levano da terra e raccolti nei fiumi e nelle paludi, so-
no impetuosi ma di breve durata. Comincia con grande slancio,
ma poi vien meno stancandosi prima del tempo, e benché non
abbia meditato altro che crudeltà e castighi inauditi, quando è il
momento di punire è ormai fiacca e lieve. Mentre la passione
svanisce presto, la ragione è costante. Del resto l’ira, anche quan-
do è persistente, se sono numerosi coloro che hanno meritato di
morire, talvolta smette di uccidere dopo aver versato il sangue di
due o tre persone. Sono duri i primi suoi colpi, come è mortale il
veleno dei serpenti allorché strisciano fuori dal covo, mentre i
19
Il paragone fra certe passioni e le armi non compare in Aristotele,
ma in Platone.
loro denti non recano più danno allorché si sono esauriti in con-
tinui morsi. Succede così che non scontano la stessa pena coloro
che hanno commesso lo stesso delitto, e spesso chi è meno col-
pevole è punito di più, perché ha dovuto affrontare un punitore
più fresco. Ed è sempre incostante: ora va oltre il lecito, ora si ar-
resta prima del dovuto: poiché è indulgente con se stessa e giudi-
ca secondo capriccio, e non vuol dare ascolto e non lascia spazio
alla difesa, non molla la presa e non consente che le si tolga la
facoltà di decidere, anche se decide male.
20
Gneo Pisone fu governatore della Siria sotto Tiberio.
ordinò di giustiziarli entrambi, sia il soldato che non aveva ucci-
so sia quello che non era morto. Si può immaginare qualcosa di
più ingiusto? Poiché uno era risultato innocente, morivano in
due. Pisone aggiunse anche un terzo: mandò a morte anche il
centurione che aveva ricondotto indietro il condannato. I tre fu-
rono condotti in quello stesso luogo a morire per l’innocenza di
uno. Come è pronta l’ira a inventare motivi di follia! «Quanto a
te» disse «ti mando a morte perché sei stato condannato; te, per-
ché hai causato la morte del tuo commilitone; te, perché, ricevu-
to l’ordine di uccidere, non hai obbedito al tuo comandante.»
Trovò il modo di commettere tre delitti poiché non ne aveva tro-
vato alcuno.
19. L’ira, lo ripeto, ha questo di male, che non vuol essere guida-
ta. Se la prende persino con la verità, se si manifesta contraria al
suo volere; perseguita le vittime che ha scelto con urla, confusio-
ne e agitazione di tutto il corpo, aggiungendo offese e impreca-
zioni. Non così agisce la ragione, ma, se è necessario, distrugge
dalle fondamenta case intere ed elimina con spose e figlioli le fa-
miglie rovinose per lo Stato, abbatte e rade al suolo le loro stesse
case, ed estirpa le casate ostili alla libertà, restando silenziosa e
tranquilla: non digrigna i denti, non scuote il capo e non fa nulla
di disdicevole per un giudice, il quale deve conservare lo sguar-
do pacato soprattutto quando pronuncia sentenze importanti.
«Che bisogno hai» dice Gerolamo21 «di mordere prima le tue
labbra, quando vuoi colpire qualcuno?» E che direbbe se avesse
visto un proconsole saltar giù dal palco e strappare i fasci al lit-
tore e lacerare le proprie vesti, perché quelle altrui venivano la-
cerate troppo lentamente? Che bisogno c’è di buttar all’aria la
mensa, rompere i bicchieri, dar di testa nelle colonne, strapparsi
i capelli, battersi il petto e i fianchi? Quanto ritieni grande quel-
l’ira che si rivolge contro se stessa, perché non riesce ad aggredi-
re velocemente come vorrebbe un altro? Ecco dunque che i pa-
renti trattengono gli adirati e li pregano di placarsi con se stessi.
Nulla fa di tutto questo colui che, libero dall’ira, irroga a cia-
scuno la pena meritata. Spesso lascia impunito colui che ha colto
21
Gerolamo di Rodi, vissuto nel III sec. a.C., fu filosofo peripatetico,
autore di un’opera Sul frenare l’ira.
in colpa: se il pentimento per il reato commesso consente di nu-
trir buone speranze, se si rende conto che la malvagità non ha
radici profonde ma è, come dicono, a fior di pelle, concederà
un’impunità che non recherà danno né a chi la riceve né a chi la
dà. Talvolta infliggerà ai grandi delitti pene minori che ai piccoli,
se i primi sono stati commessi per sbaglio e non per crudeltà,
mentre nei secondi v’è una malvagità nascosta, mascherata, in-
callita; castigherà in due persone lo stesso delitto in modo diver-
so, se l’una lo ha commesso per sbadataggine e l’altra si è propo-
sta il fine di recar danno. In ogni punizione sarà sempre consa-
pevole che l’una si applica per correggere i malvagi, l’altra per
eliminarli; in entrambi i casi non guarderà al passato ma al futu-
ro (infatti, come dice Platone, nessun saggio punisce perché si è
commesso un reato, ma perché non lo si commetta più; ciò che è
stato è irrevocabile, ciò che potrebbe accadere lo si può impedi-
re) e ucciderà pubblicamente coloro che vorrà proporre come
esempi di malvagità finita male, non solo perché muoiano essi
stessi, ma anche perché con la loro morte trattengano gli altri dal
delitto. Tu vedi come debba essere libero da ogni turbamento chi
deve soppesare e risolvere tali questioni accostandosi al potere
di vita e di morte, nel quale ci si deve regolare con sommo scru-
polo: non bisogna affidare un’arma a una persona adirata.
20. Non bisogna pensare neppure che l’ira dia un qualche con-
tributo alla grandezza d’animo; non è magnanimità quella, ma
orgoglio; quando un corpo si gonfia per abbondanza di umore
malsano, la malattia non lo fa crescere, ma costituisce una dilata-
zione funesta.22 Tutti coloro che l’animo folle esalta al di sopra
degli umani pensieri, credono di spirare un non so che di alto e
di sublime: ma sotto non c’è nulla di solido, e le costruzioni che
non hanno fondamenta sono pronte a franare. L’ira non ha una
base d’appoggio, né origini salde e durature, ma è ventosa e vana
ed è tanto lontana dalla magnanimità quanto la temerarietà dal
coraggio, l’arroganza dalla confidenza, il cipiglio burbero dal-
l’austerità, la crudeltà dalla severità. C’è molta differenza, lo ri-
peto, fra un animo sublime e uno superbo. L’iracondia non intra-
prende nulla di grande e dignitoso, anzi l’addolorarsi spesso mi
22
La malattia è evidentemente l’idropisia.
pare tipico d’un animo fiacco e infelice, consapevole della sua
debolezza, simile ai corpi piagati e malati che si lamentano al mi-
nimo tocco. Per questo l’ira è un difetto tipico delle donne e dei
bimbi. «Ma si verifica anche negli uomini.» Infatti anche certi
uomini hanno temperamento infantile e femmineo. «Ma gli irati
non pronunciano forse delle frasi che sembrano uscire da un ani-
mo grande?» Piuttosto da chi ignora la vera grandezza, come la
ben nota battuta, crudele e abominevole «mi odino, purché mi
temano».23 Si capisce che fu scritta ai tempi di Silla. Non so se si
sia fatto un peggior augurio nel chiedere di essere odiato o di es-
sere temuto. «Mi odino.» Fu per lui chiaro che l’avrebbero male-
detto, insidiato, eliminato: e che aggiunse? Che gli dèi gli diano il
malanno, poiché trovò un rimedio così degno dell’odio. «Mi odi-
no» e poi? «purché mi obbediscano?» No. «purché mi approvi-
no?» No. E allora? «purché mi temano». A questa condizione io
non vorrei neppure essere amato. Pensi tu che questa frase sia
stata pronunciata con grande coraggio? Ti sbagli; codesta non è
grandezza ma crudeltà. Non dar retta alle parole degli iracondi
che fanno un grande strepitare e minacciare, ma interiormente
sono pieni di paura. Non giudicar vero ciò che si legge in Tito Li-
vio,24 uomo eloquentissimo: «uomo di indole più grande che
buona». Grandezza e bontà non si possono separare: sarà anche
buono, o non sarà neppure grande, perché per grandezza d’ani-
mo intendo quella imperturbabile, interiormente salda, stabile e
robusta dalle fondamenta, che non può trovarsi in indoli malva-
gie. Esse possono essere spaventose, agitate e funeste, ma non
avranno mai la grandezza, di cui è sostegno e forza la bontà. Per
il resto con parole, tentativi e ogni apparato esteriore daranno
l’illusione della grandezza; diranno qualcosa che si può ritenere
tipico di un animo grande, come G. Cesare,25 il quale, prenden-
dosela col cielo perché venivano fischiati i pantomimi, di cui era
più appassionato imitatore che spettatore, e perché i fulmini
23
La citazione è da Accio: la frase, pronunciata dal tiranno Atreo, è ri-
cordata più volte da Cicerone ed era, al dire di Svetonio, frase abituale per
Caligola.
24
Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) fu il massimo annalista di Roma e narrò
in 142 libri (ne restano 35), la storia romana da Romolo ad Augusto.
25
Gaio Cesare è Caligola (37-41 d.C.) come in tutti i passi in cui viene
ricordato come mostro di crudeltà.
(ahimè! del tutto imprecisi) spaventavano le sue gozzoviglie,
sfidò Giove a battaglia, e per di più all’ultimo sangue, recitando
a gran voce il famoso verso d’Omero:
Quanto folle egli era! Pensò o che neppure Giove potesse recar-
gli danno, o di poter lui recar danno a Giove. Penso che questa
sua frase abbia contribuito non poco a stimolare l’animo dei
congiurati; poiché dovette sembrare il colmo della sopportazio-
ne sopportare colui che non poteva sopportare neppure Giove.
26
Probabile allusione a Serse che costruì i ponti sull’Ellesponto e tagliò
il monte Athos. Però la mania di costruire gettando dighe e terrapieni sul
mare era anche dei ricchi Romani.
27
Leandro, per raggiungere l’amata Ero, varcava a nuoto l’Ellesponto.
28
Probabile allusione a Messalina che, sposatasi pubblicamente con Si-
lio, fu fatta uccidere dal marito Claudio.
LIBRO II
1
Clodio fu tribuno focoso e violento che nel 58 a.C. presentò una legge
che prevedeva l’esilio per chi avesse fatto mettere a morte, senza processo,
dei cittadini romani. Il bersaglio da colpire era Cicerone (106-43 a.C.) che,
console nel 63, aveva ordinato l’esecuzione senza processo di alcuni catili-
nari arrestati a Roma.
2
Antonio formò con Ottaviano e Lepido il secondo triumvirato, e nel
clima torbido e confuso che si ebbe dopo il cesaricidio, pretese la testa di
Cicerone reo di aver pronunciato contro di lui le orazioni Filippiche.
3
Gaio Mario (157-86 a.C.) uomo politico e generale di parte democra-
tica, condusse a vittoriosa conclusione la guerra contro Giugurta (105),
batté i Teutoni (102) e i Cimbri (101) e fu protagonista, contro Silla, della
prima guerra civile, terminata con la sua sconfitta e il ripristino del potere
aristocratico.
4
Lucio Cornelio Silla (138-78 a.C.), questore di Mario in Numidia, con-
tribuì alla cattura di Giugurta; vincitore di Mario nella guerra civile, in-
staurò in Roma una dittatura personale che esercitò con particolare fero-
cia, con la proscrizione di quanti avevano militato nel partito avverso.
5
Teodoto e Achilla, insieme con Tolomeo XIV (il fanciullo che osò
compiere un’azione non da fanciullo) tradirono e fecero uccidere Pompeo
(48 a.C.).
trombe di guerra; ci impressiona un quadro a soggetto tragico e
la vista triste di giustissime esecuzioni; viene da qui che rispon-
diamo col riso a chi ride e ci rattrista una massa di persone afflit-
te e ci riscaldiamo alla vista dei duelli altrui. Ma questa non è ira,
come non è tristezza quella che ci fa aggrottare la fronte alla vi-
sta d’un finto naufragio, come non è paura quella che coglie l’a-
nimo dei lettori quando Annibale,6 dopo Canne,7 cinge d’asse-
dio le mura di Roma; tutte queste sensazioni sono movimenti
dell’animo che non vorrebbe muoversi, non sono passioni, ma
inizi che preludono alle passioni. Così il suono della tromba, an-
che in piena pace, impressiona le orecchie del soldato già messo
in congedo e i cavalli da guerra si impennano al fragore delle ar-
mi. Raccontano che mentre Senofanto8 cantava, Alessandro9 mi-
se mano alla spada.
6
Annibale Barca, cartaginese, fu l’irriducibile nemico di Roma. Contro
di lui Roma condusse la II guerra punica.
7
Canne è la località, in Apulia, in cui nel 216 a.C. Annibale annientò le
truppe consolari di Emilio Paolo e Terenzio Varrone.
8
Senofanto fu cantore e musico di Alessandro.
9
Alessandro Magno, salito al trono di Macedonia dopo la morte del
padre Filippo (336 a.C.), condusse una spedizione panellenica contro l’Im-
pero persiano, che fu sconfitto e sottomesso. Morì a Babilonia poco più
che trentenne nel 323 a.C.
corpo. L’ira non si limita a muoversi, ma arriva a correre, poiché
è uno slancio aggressivo, e lo slancio aggressivo non si dà mai
senza il consenso della mente, poiché non si può riflettere sulla
vendetta e il castigo senza che l’animo se ne accorga. Uno si ri-
tiene offeso e vuole vendicarsi, ma dissuaso da un qualche moti-
vo subito si placa; questa non la chiamo ira, ma impulso dell’ani-
mo che obbedisce alla ragione; ira è quella che travalica la ragio-
ne e la trascina con sé. Pertanto il primo disordine interiore pro-
vocato da una presunta offesa non è ira, come non lo è l’idea
stessa dell’offesa; è ira quell’impulso successivo, che non solo ha
ricevuto l’impressione dell’offesa ma l’ha anche confermata,
quell’agitazione dell’animo proteso volontariamente e consape-
volmente alla vendetta. Non c’è dubbio che la paura induca a
fuggire e l’ira ad attaccare; non pensi certo che si possa attaccare
o fuggire qualcosa senza l’assenso della mente.
10
Apollodoro fu tiranno di Potidea dal 279 al 276 a.C.; Falaride assunse
la tirannia di Agrigento verso il 570 a.C.
to un’offesa, ma pur di nuocere è disposta anche a riceverla, e
non fa ricorso alle frustate e allo strazio della carne a scopo di
vendetta, ma di piacere. Che dunque? Questo male ha origine
dall’ira, la quale, quando giunge attraverso il continuo esercizio
e la sazietà a dimenticare la clemenza e caccia dall’animo ogni
umano patto, da ultimo si trasforma in crudeltà;11 e così ridono e
godono e son pieni di immenso piacere e hanno un aspetto mol-
to diverso da quello degli irati, essi che sono crudeli per svago.
Raccontano che Annibale, vista una fossa piena di sangue uma-
no, esclamò: «Che bello spettacolo!». Quanto gli sarebbe sem-
brato più bello se di sangue avesse riempito un fiume e un lago!
Che tu goda soprattutto di questo spettacolo non è strano, visto
che sei nato nel sangue e fin da bimbo sei stato abituato ai mas-
sacri. Per vent’anni ti accompagnerà un destino favorevole alla
tua crudeltà e offrirà dovunque ai tuoi occhi uno spettacolo gra-
dito; lo vedrai al Trasimeno, a Canne12 e da ultimo nella tua Car-
tagine.13 Recentemente Voleso,14 proconsole d’Asia sotto il divo
Augusto, fece uccidere di scure trecento uomini in un sol giorno;
avanzando con sguardo arrogante fra i cadaveri, come se avesse
compiuto un’azione grandiosa e degna di essere contemplata,
esprimendosi in greco esclamò: «Che azione da re!». Che avreb-
be fatto costui se fosse stato re? Quella non fu ira ma un male
più grande e inguaribile.
11
Benché la crudeltà sia cosa diversa dall’ira, ha tuttavia origine dalla
pratica continua dell’ira.
12
Al Trasimeno (217 a.C.) e a Canne (216 a.C.) Annibale inflisse san-
guinose perdite ai Romani.
13
Si allude alla battaglia di Zama (202 a.C.), in cui Annibale fu sconfit-
to da Scipione.
14
Voleso, proconsole d’Asia nell’11-12 d.C. (quindi «recentemente» è
detto in senso vago), fu processato e condannato per iniziativa di Augusto.
nulla migliore, spesso anzi è addirittura peggiore di quei delitti
per i quali si scatena. Proprio e naturale della virtù è godere e
gioire: adirarsi non è conforme alla sua dignità, non più che esse-
re triste; eppure la tristezza è compagna dell’iracondia, e ogni
forma d’ira si risolve in essa, sia dopo il pentimento sia dopo l’in-
successo. E se è prerogativa del saggio arrabbiarsi con i peccati,
si arrabbierà di più con i più gravi, e si arrabbierà spesso: ne con-
segue che il saggio è non solo adirato ma anche irascibile. Ma se
noi pensiamo che nell’animo del saggio non debba aver posto né
un’ira grande né un’ira frequente, perché non lo liberiamo com-
pletamente da questa passione? Non ci può essere infatti senso
della misura se ci si deve adirare per l’azione di chicchessia; sarà
infatti ingiusto, se si adirerà in ugual misura per delitti di gravità
diversa, o sarà iracondo in sommo grado se darà in escandescen-
za ogni volta che i delitti richiederanno l’ira.
15
I versi citati sono di Ovidio.
Che parte è mai questa dei delitti? Il poeta non ha citato gli ac-
campamenti ostili, anche se formati di una sola parte, i giura-
menti opposti dei padri e dei figli, la patria incendiata per mano
d’un cittadino, gli squadroni dei cavalieri che scorrazzano ostil-
mente alla ricerca dei nascondigli dei proscritti, le sorgenti avve-
lenate, la peste provocata di proposito, il fossato scavato intorno
ai genitori assediati, le prigioni colme, gli incendi che devastano
intere città, tirannie luttuose, piani segreti che portano alla rovi-
na regni e popoli, e, tenute in conto di gloria, quelle azioni che
sono delitti finché possono essere soffocate, vale a dire rapimen-
ti e stupri e libidine che non risparmia neppure la bocca. Aggiun-
gi ora lo spergiuro pubblico di intere famiglie, la violazione dei
patti, il più forte che si prende come preda tutto ciò che non gli
oppone resistenza, raggiri, furti, inganni, diniego di depositi, cui
non basterebbero tre fori.16 Se pretendi che il saggio si adiri co-
me lo richiede l’enormità dei delitti, non adirarsi deve, ma im-
pazzire.
10. Rifletterai piuttosto che non ci si deve adirare con gli errori.
È possibile che ci si adiri con chi al buio ha un passo poco sicuro?
con i sordi che non sentono gli ordini? con i bimbi che non si cu-
rano dei loro doveri e guardano gli svaghi e i giochi sciocchi dei
coetanei? Ci si può mai adirare con le persone malate, vecchie,
stanche? Fra gli altri svantaggi della condizione mortale c’è an-
che la nebbia che offusca le menti, e non solo la necessità di pec-
care, ma anche l’amore per i peccati. Per non arrabbiarsi con i
singoli bisogna perdonare a tutti e concedere indulgenza al gene-
re umano. Se ti adiri con giovani e vecchi perché peccano, adirati
con i bambini: sono destinati a peccare. Ci si adira forse con i ra-
gazzi la cui età non ha ancora discernimento? È giustificazione
più valida e giusta essere uomo che ragazzo. A questi patti siamo
nati noi, animali esposti alle malattie dell’animo, che sono non
meno numerose di quelle del corpo; non siamo certo ottusi né
lenti a capire, ma facciamo cattivo uso della nostra intelligenza, e
siamo esempio di vizi l’uno all’altro: se chi ci precede sbaglia stra-
da, non meritiamo forse giustificazione noi che abbiamo sbaglia-
16
I tre fori sono: il vecchio foro romano, quello di Cesare e quello
d’Augusto.
to a seguire la via battuta da tutti? La severità dei comandanti si
rivolge contro i singoli, ma quando l’intero esercito ha disertato,
è necessario perdonare. Che cosa impedisce al saggio di adirarsi?
Il gran numero dei peccatori. Si rende conto che è ingiusto e peri-
coloso prendersela con una colpa che coinvolge tutti.
Eraclito,17 ogni volta che usciva e vedeva intorno a sé tanta
gente che viveva male, anzi tanta gente che faceva una brutta fi-
ne, piangeva e provava pietà per tutti quelli che incontrava lieti
e felici; aveva un animo mite ma troppo debole: era anch’egli tra
le persone da compiangere. Di Democrito18 si dice invece che
non si presentò mai in pubblico senza ridere; a tal punto nessuna
di quelle azioni che erano compiute seriamente gli pareva seria.
C’è forse qui spazio per l’ira? Tutto fa ridere o fa piangere.
Il saggio non si adirerà con i peccatori. Perché? perché sa che
nessuno nasce saggio, ma lo diventa, sa che in tutti i tempi si dan-
no pochissimi saggi, perché conosce a fondo la condizione della
vita umana; e nessuna persona assennata si adira con la natura.
C’è forse da meravigliarsi che i rovi selvatici non diano frutti?
che i cespugli e gli spini non si rivestano di una qualche messe
utile? Nessuno si adira quando è la natura a giustificare il vizio.
Pertanto il saggio, mansueto e comprensivo con i peccati, non
nemico ma emendatore dei peccatori, ogni giorno parte da que-
sto convincimento: «Troverò molti ubriaconi, molti libidinosi,
molti ingrati, molti avari, molti sconvolti dalle furie dell’ambi-
zione». Questo panorama lo guarderà con la stessa benevolenza
con cui il medico guarda i suoi pazienti. Il padrone d’una nave
che lascia entrare molta acqua dalle commessure allentate, se la
prende forse con i marinai e con la nave stessa? Piuttosto corre
ai ripari e una parte d’acqua la ferma, un’altra la sgotta, ottura le
falle evidenti, resiste con continuo impegno a quelle invisibili
che lasciano entrare acqua di nascosto, e non è indotto a fermar-
si dalla constatazione che, quanta acqua sgotta, altrettanta se ne
17
Eraclito di Efeso (535-? a.C.) fu grande spregiatore degli uomini e
delle loro radicate persuasioni. Considerò l’universo un unico tutto senza
principio né fine, in cui domina la legge eterna del divenire.
18
Democrito di Abdera (470-360 a.C.) fu col suo maestro Leucippo l’i-
niziatore della filosofia atomistica, che considerava ogni cosa come l’insie-
me di particelle indivisibili, dette appunto atomi.
riforma. Contro i mali continui e che si riproducono c’è bisogno
d’un soccorso persistente, non perché cessino, ma perché non ab-
biano la meglio.
È legge di natura che non sia sgombro di paura chi si fa potente in-
cutendo paura agli altri. Quanto sono timorosi i leoni al suono più
lieve! Un’ombra, una voce, un odore insolito mette in apprensione
le bestie più feroci: chi atterrisce è anche trepidante. Quindi nessun
saggio deve desiderare d’esser temuto, e non deve giudicar l’ira un
qualcosa di grande perché mette paura, visto che anche le cose più
spregevoli sono temute, come i veleni che i denti secernono nei
morsi mortali. Non c’è da stupirsi che a trattenere e spingere nella
trappola grandi greggi di fiere sia una fune cui sono legate delle
19
Laberio, vissuto in età cesariana, fu autore di mimi. Ostile a Cesare,
fu costretto dal dittatore a recitare uno dei suoi testi e a subire l’umiliazio-
ne di calcare, lui che era cavaliere, la scena.
piume, chiamata spauracchio dallo stato d’animo che determina;
ciò che è fatuo mette paura ai fatui. Il movimento del cocchio e la
vista delle ruote che girano risospinge i leoni nella gabbia, e il gru-
gnito del maiale spaventa gli elefanti. Quindi l’ira è temuta come il
buio dai bimbi e una piuma rossa dalle fiere. Essa non ha in sé al-
cunché di saldo o di forte, ma impressiona gli animi fatui.
16. Dicono: «Fra gli animali si giudicano più pregiati quelli più
facili all’ira». Sbaglia chi pone a confronto con gli uomini quegli
esseri che in luogo della ragione hanno l’istinto: l’uomo in luogo
dell’istinto ha la ragione. Ma neppure questi esseri hanno tutti la
stessa fonte da cui trarre vantaggio: l’ira giova ai leoni, la paura
ai cervi, l’assalto allo sparviero, la fuga alla colomba. Eppoi non
è neppure vero che gli animali più iracondi siano i migliori. Per
le bestie feroci, che traggono il sostentamento dalla rapina, pos-
so ammettere che sono tanto migliori quanto più sono irascibili:
ma nel caso dei bovi e dei cavalli che obbediscono al morso ap-
prezzerei piuttosto la docilità. E che ragione c’è di confrontare
l’uomo con esempi tanto infelici, avendo come termine di riferi-
mento l’universo e la divinità, che l’uomo solo, tra tutti gli esseri
viventi, è in grado di capire, sì da imitarla egli solo?
Dicono: «Gli iracondi sono considerati tra tutti i più sinceri».
Certo, perché vengono paragonati agli ingannatori e agli astuti, e
sembrano sinceri perché sono scoperti. Io non li chiamerei since-
ri ma imprudenti: con questo termine ci riferiamo agli sciocchi, ai
lussuriosi, agli scialacquatori, e a tutti i difetti poco accorti.
20
È qui ripresa, attraverso la rielaborazione fatta da peripatetici e stoi-
ci, la dottrina ippocratea dei quattro umori (sangue, flemma, bile gialla e
bile nera), dalla cui giusta mistura deriva la salute dell’uomo. Senonché in
luogo degli umori si citano gli elementi (fuoco, acqua, aria, terra) ciascuno
dei quali, per i suoi effetti, è rapportabile a un umore. Dalla prevalenza
d’un elemento sugli altri deriva il carattere d’un individuo. Dalla esempli-
ficazione che segue è evidente, per gli effetti prodotti, che il fuoco equiva-
le al sangue, l’acqua al flemma.
malati, i convalescenti e coloro che hanno perso calore per stan-
chezza o per salasso; nella stessa situazione si trovano le persone
consunte dalla sete e dalla fame e gli anemici che si nutrono in
misura scarsa e vengono meno. Il vino scatena l’ira, perché au-
menta il calore; alcuni si lasciano trasportare dalla collera quan-
do sono ubriachi, altri quando sono feriti, a seconda della natura
di ciascuno. I più iracondi sono i biondi e i rossicci, per la ragio-
ne che hanno per natura quel colorito che gli altri sogliono avere
in preda all’ira; essi hanno un sangue mobile e agitato.
20. Ma se alcuni sono proclivi all’ira per natura, è anche vero che
si danno molte cause che producono lo stesso effetto della natu-
ra: alcuni sono spinti all’ira da una malattia o da un’offesa fisica,
altri dalla fatica o da veglie ininterrotte e notti ansiose e rimpian-
ti e passioni amorose; quant’altro nuoce al corpo e all’animo, pre-
dispone ai lamenti una mente afflitta. Ma tutto ciò è il principio e
il motivo; grande rilievo ha l’abitudine, che se è inveterata, ali-
menta il vizio. Certo è difficile cambiare la natura e non è possi-
bile variare le dosi degli elementi mescolati una volta per tutte
all’atto della nascita; gioverà però sapere che si deve limitare il
vino ai caratteri ardenti, e Platone pensa che lo si debba negare
ai bimbi e vieta di attizzare il fuoco col fuoco. Non bisogna nean-
che rimpinzarli di cibo, poiché il corpo ingrasserà e col corpo si
gonfierà anche l’animo. Si allenino con fatica senza arrivare alla
spossatezza; affinché il caldo diminuisca ma non sia eliminato, e il
fervore eccessivo sbollisca. Gioveranno anche i giochi, poiché un
moderato piacere conferisce all’animo distensione ed equilibrio.
Non hanno da temere nulla dall’ira i temperamenti troppo umidi
e troppo secchi e quelli freddi, ma devono paventare vizi più fiac-
chi, come la paura, la difficoltà di carattere, la disperazione e i so-
spetti; pertanto tali temperamenti devono essere coccolati e ac-
carezzati e indotti alla letizia. E poiché sono diverse le terapie da
usare contro l’ira e contro la tristezza, e questi disturbi vanno cu-
rati con sistemi non solo molto divergenti ma opposti, affrontere-
mo sempre il disturbo che si è maggiormente sviluppato.
21
Il grande Cesare è il conquistatore della Gallia, il quale, vinta la guer-
ra civile contro il partito del senato rappresentato da Pompeo, ebbe la dit-
tatura a vita, esercitata dal 48 al 44 a.C., anno in cui fu ucciso da una con-
giura. La clemenza di Cesare è attestata da Plutarco, Svetonio, Plinio e
Cassio Dione: gli ultimi due confermano l’episodio delle lettere bruciate.
poco svelto, se l’acqua da bere non è abbastanza fresca, se il let-
to è in disordine o la mensa è stata imbandita con poca cura. È
malato e di poca salute colui che sta riguardato quando spira una
lieve brezza, sono malati gli occhi che soffrono l’abbaglio d’una
veste lucente, è snervato dalla dissolutezza chi avverte dolore al
fianco per la fatica d’un altro. C’era a Sibari, come si racconta,
un tal Mindiride;22 costui vide uno che lavorava la terra e levava
in alto il rastrello, si lamentò di sentirsi stanco e proibì al conta-
dino di lavorare in sua presenza; sempre lui si lamentò di sentir-
si peggio per esser giaciuto su petali di rosa piegati in due. Quan-
do i piaceri fiaccano nel contempo animo e corpo, nessuna prova
sembra sopportabile, non perché siano prove oggettivamente
dure, ma perché ad affrontarle è una persona fiacca. Dobbiamo
forse arrabbiarci se uno ha un colpo di tosse o uno sternuto, se
una mosca non viene cacciata con sufficiente attenzione, se ci si
para davanti un cane o lo schiavo distratto si lascia cadere la
chiave di mano? Sopporterà senza scomporsi un’offesa politica
e le ingiurie lanciategli in assemblea o in senato chi si sente l’o-
recchio offeso dal rumore d’una seggiola trascinata? Potrà sop-
portare la fame e la sete in una spedizione estiva colui che si adi-
ra con lo schiavo che non scioglie bene la neve? È chiaro che
nulla alimenta l’ira più del lusso sfrenato e incapace di soffrire:
se vogliamo che l’animo non avverta dolore se non a un colpo
duro, dobbiamo trattarlo duramente.
26. Ci adiriamo o con coloro dai quali non abbiamo neppur po-
tuto ricevere offesa, o con coloro dai quali abbiamo potuto rice-
verla. Al primo gruppo appartengono alcune cose che non han-
no sensibilità, come il libro che spesso abbiamo gettato perché
scritto in caratteri troppo piccoli, e abbiamo strappato perché
pieno d’errori, come le vesti che abbiamo lacerato perché non ci
piacevano: quanto è stolto arrabbiarsi con questi oggetti che non
hanno meritato la nostra ira e non la possono avvertire! «Ma
evidentemente ci offendono coloro che li hanno fatti.» In primo
luogo spesso ci arrabbiamo prima ancora di fare questa distin-
22
Di Mindiride di Sibari parla Erodoto (VI, 127) annoverandolo fra i
pretendenti della figlia di Clistene tiranno di Sicione; lo stesso aneddoto di
Seneca riferiscono Diodoro Siculo ed Eliano.
zione. In secondo luogo gli artigiani stessi addurranno plausibili
giustificazioni: uno non ha potuto far meglio di quello che ha fat-
to, e se è stato apprendista poco attento, non aveva intenzione di
offendere te, un altro non lo ha fatto al fine di offenderti. Infine
che c’è di più folle che sfogare sulle cose la bile nutrita contro gli
uomini? Orbene, come è da pazzi adirarsi con le cose inanimate,
così lo è con i muti animali, che non ci fanno torto alcuno, per-
ché non possono averne la volontà; non si dà infatti offesa se non
muove da una scelta consapevole. Perciò ci possono nuocere co-
me un pezzo di ferro o una pietra, ma non ci possono recare of-
fesa. Eppure alcuni si ritengono offesi se gli stessi cavalli, docili
con un cavaliere, sono bizzosi con un altro, quasi che con certuni
fossero mansueti di proposito, e non perché vi sono avvezzi e so-
no trattati con maggior perizia. E se è stolto arrabbiarsi con que-
sti, lo è pure arrabbiarsi con i ragazzi e con chi, per senno, non è
molto superiore ai ragazzi; infatti un giudice giusto, di fronte a
tutte queste colpe, darà alla sconsideratezza valore di innocenza.
27. Ci sono cose che non possono nuocere, anzi hanno solo ef-
fetto benefico e salutare, come gli dèi immortali, i quali né vo-
gliono né possono fare il male; la loro natura è mite e tranquilla,
tanto lontana dall’offendere gli altri quanto dall’offendere se
stessa. Perciò gli stolti e coloro che non conoscono la verità attri-
buiscono a loro colpa una burrasca di mare, le piogge eccessive,
la rigidità dell’inverno, mentre nessuno dei fenomeni che ci
nuocciono e ci giovano è indirizzato personalmente a noi. Non
siamo noi il motivo per cui l’universo ripropone l’inverno e l’e-
state: questi fenomeni hanno loro leggi, mediante le quali si rea-
lizza il volere divino; abbiamo un troppo alto concetto di noi, se
ci riteniamo meritevoli che sì grandi movimenti avvengano per
noi. Quindi nulla di tutto ciò accade per offenderci, al contrario
tutto accade per il nostro bene. Abbiamo detto che ci sono cose
che non possono nuocerci, altre che non vogliono. Appartengo-
no a quest’ultimo gruppo i buoni magistrati, i genitori, i maestri,
i giudici, il cui castigo va accettato come il bisturi, il digiuno e
quanto ci dà dolore al fine di giovarci. Se siamo stati puniti, non
pensiamo solo a ciò che subiamo, ma anche a ciò che abbiamo
fatto, diventiamo giudici della nostra vita. Se vorremo dirci la ve-
rità, la nostra colpa ci parrà più grave.
28. Se vogliamo essere giudici giusti d’ogni fatto, dobbiamo pri-
ma di tutto convincerci che nessuno di noi è senza colpa; poiché
lo sdegno maggiore ha origine dalla convinzione di non aver
mancato in nulla, di non aver fatto nulla di male. È più giusto di-
re che non confessiamo nulla. Ci sdegniamo di aver subìto un
rimprovero o una punizione, e in quel momento stesso pecchia-
mo, perché aggiungiamo alle nostre cattive azioni l’arroganza e
l’ostinazione. Chi è colui che si dichiara innocente di fronte a tut-
te le leggi? E quand’anche lo fosse, è una ben gretta innocenza il
non violare la legge. La norma dei doveri è molto più ampia di
quella del codice! Quanti obblighi impone l’affetto, l’umanità, la
generosità, la giustizia e la lealtà, obblighi tutti non contemplati
nelle tavole della legge! Ma non possiamo garantire di noi nep-
pure sulla base di quel ristrettissimo concetto di innocenza: alcu-
ni reati li abbiamo commessi, altri pensati, altri desiderati, altri
incoraggiati; in certi casi siamo innocenti perché le cose non so-
no andate come avremmo voluto. Riflettiamo su questo, mo-
striamoci benevoli con chi sbaglia, crediamo a chi ci rimprovera;
in ogni caso non prendiamocela con i buoni (altrimenti dovrem-
mo prendercela con tutti), meno che mai con gli dèi; non per col-
pa loro, ma per la nostra condizione di mortali soffriamo i guai
che ci capitano. «Ma ci colgono malattie e dolori.» Chi ha avuto
in sorte una dimora marcia, deve pur morire in qualche modo. Ti
diranno che qualcuno ha parlato male di te: rifletti se tu non sia
stato il primo a farlo, pensa di quanta gente parli male tu. Riflet-
tiamo, lo ripeto, che alcuni non fanno un’offesa ma la ricambia-
no, altri la fanno a nostro vantaggio, altri per costrizione, altri
senza accorgersene, e anche coloro che la fanno di proposito e
consapevolmente, pur offendendoci, non hanno il fine di offen-
derci: uno ha sbagliato per il gusto di fare una battuta di spirito,
o ha fatto qualcosa non per recare danno a noi, ma perché non
avrebbe potuto raggiungere il suo scopo se non ci avesse spinto
indietro; spesso a offendere è l’adulazione, mentre lusinga.
Chiunque ricorderà quante volte egli stesso si sia lasciato andare
a un sospetto infondato, a quanti suoi favori il destino abbia da-
to l’aspetto di un’offesa, quanta gente abbia egli cominciato ad
amare dopo averla odiata, potrà non arrabbiarsi subito, soprat-
tutto se in silenzio, a ogni offesa subita, dirà a se stesso: «Questo
l’ho fatto anch’io». Ma dove troverai un giudice tanto equilibra-
to? Chi desidera la donna d’altri e pensa di avere sufficienti ra-
gioni di amarla proprio perché è d’altri, non vuole che si rivolga
un’occhiata a sua moglie; il perfido è inflessibile nel pretendere
lealtà, e proprio lo spergiuro si accanisce contro le bugie, e il fal-
so accusatore non accetta affatto che gli si intenti un processo;
chi non ha tenuto conto della propria pudicizia non tollera che si
attenti a quella dei suoi schiavetti. Abbiamo sotto gli occhi i di-
fetti altrui, e dietro le spalle i nostri; da ciò deriva che il padre,
più corrotto del figlio, rimprovera i suoi prolungati banchetti, e
non concede nulla alla lussuria altrui colui che non ha negato
niente alla propria, e il tiranno se la prende con l’assassino, e il
sacrilego punisce i piccoli furti. C’è una gran parte di uomini che
ce l’ha non con i peccati, ma con i peccatori. Un esame di co-
scienza ci aiuterà a moderarci, se ci chiederemo: «Non abbiamo
forse fatto anche noi qualcosa di simile? Non abbiamo commes-
so un tale errore? Ci conviene forse condannare questo?».
29. La cura più efficace contro l’ira sta nel prender tempo. All’i-
nizio chiedile tempo, non perché perdoni ma perché giudichi:
impetuosi sono i suoi primi attacchi; cesserà se attende. Ma non
cercare di eliminare l’ira totalmente: sarà vinta tutta mentre è
assalita nelle singole parti; dei fatti che ci offendono, alcuni ci
vengono riferiti, altri li sentiamo e vediamo noi stessi. Non dob-
biamo dar subito credito a ciò che ci viene raccontato: molti
mentono per ingannare, molti perché sono stati ingannati; uno
cerca di conquistarsi la nostra simpatia con una calunnia e in-
venta un’offesa per dimostrare che ne ha provato dolore; un al-
tro è malevolo e vorrebbe dividere gli amici affiatati; un altro
ancora è un perdigiorno, e desidera far da spettatore a una lite e
osservare da lontano e al sicuro i due che ha messo in urto. Se ti
accingessi a far da giudice in una questione di pochi denari, non
giudicheresti senza un testimonio e il testimonio non avrebbe
valore senza giuramento, concederesti a entrambe le parti la di-
fesa, daresti del tempo, ascolteresti più d’una volta; poiché la ve-
rità è più chiara se la si esamina più spesso: un amico invece lo
condanni su due piedi? Ti adiri prima di udirlo, di interrogarlo,
prima che gli sia lecito sapere chi lo accusa e di che cosa? Hai
forse già ascoltato la tesi delle due parti? La stessa persona che
ti ha riferito, diventerà muta se dovrà testimoniare; dirà: «Non
mi tirare in ballo, perché, portato in giudizio, negherò: se no non
ti dirò più nulla». Nel medesimo tempo rinfocola e si sottrae al
confronto e al dibattito. Chi è disposto a parlare con te solo a
quattr’occhi, è come se non parlasse: che c’è di più ingiusto che
credere in segreto e adirarsi apertamente?
30. Di alcuni fatti siamo testimoni noi stessi: in questi casi dob-
biamo esaminare a fondo l’indole e la volontà di chi ha agito. Se
è un ragazzo, si perdoni alla sua età, poiché non sa se sbaglia. Se
è il padre, o ci ha giovato tanto da avere anche il diritto di offen-
derci, o forse la cosa stessa da cui ci sentiamo offesi è un suo be-
neficio. È una donna: sbaglia.23 Ha ricevuto un ordine: solo l’in-
giusto si adira per ciò che viene da uno stato di necessità. È stato
da noi offeso: non è offesa subire ciò che abbiamo fatto noi per
primi. È un giudice: dobbiamo credere di più alla sua sentenza
che alla nostra. È il re: se punisce un colpevole, ci si inchini alla
giustizia, se un innocente, alla sorte. È un animale muto, o simile
a un muto: se ci arrabbiamo gli assomigliamo. È una malattia o
una disgrazia: se la si affronterà con forza, passerà oltre gravan-
do meno. È la divinità: arrabbiandoti con lei non concludi nulla,
come pregandola che si adiri con un altro. Chi ci ha fatto torto è
un uomo buono: non dobbiamo crederci. È un malvagio: non
meravigliamocene; pagherà ad altri il fio di cui ci è debitore, e
chi ha peccato lo ha già pagato a se stesso.
31. Come ho detto, due sono i casi che scatenano l’ira: il primo,
quando abbiamo l’impressione di aver ricevuto un’offesa (e di
questo s’è detto a sufficienza); il secondo, se abbiamo l’impres-
sione di averla ricevuta ingiustamente (di questo bisogna ancora
parlare). Gli uomini giudicano ingiuste certe cose perché non
avrebbero dovuto subirle, altre perché non le avevano previste.
Riteniamo immeritato ciò che è imprevisto; pertanto ci impres-
siona di più ciò che è accaduto contro la nostra speranza e atte-
sa, né v’è altra ragione per cui, nei rapporti con le persone di ca-
sa, un nonnulla ci offende, e nei rapporti con gli amici chiamia-
mo offesa una disattenzione. Dicono: «Perché allora ci agitano le
23
Quasi l’errore fosse connaturato alla natura femminile! Di spunti mi-
sogini è piena la letteratura antica.
offese dei nostri nemici?». Perché non ce le aspettiamo, o perlo-
meno non in quella misura. E questo viene da un eccessivo amo-
re di noi stessi: pensiamo di dover essere inviolabili anche ai no-
stri nemici; ognuno nutre l’orgoglio di un re, per cui vuole libertà
d’azione per sé, non contro di sé. Quindi a renderci irascibili è o
l’ignoranza o l’arroganza. È forse strano che i malvagi compiano
azioni malvagie? È una novità, se il nemico nuoce, l’amico offen-
de, il figlio sbaglia, lo schiavo pecca? Fabio24 diceva che per un
comandante la giustificazione più disdicevole è «non l’avevo
previsto». Io la giudico la più disdicevole per un uomo. Tutto de-
vi prevedere e aspettarti: anche nelle indoli buone verrà fuori
qualche asprezza. La natura umana produce animi ingannatori,
ingrati, bramosi, empi. Prima di dare un giudizio sul carattere di
uno, dàllo su quello di tutti. Quando gioirai di più, temerai di più:
quando tutto ti sembra tranquillo, non manca il male, ma è solo
inattivo. Tieni presente che ci sarà sempre qualcosa che ti offen-
de: il pilota non dispiega mai tranquillamente l’intera velatura
senza aver prontamente disposto gli attrezzi per ridurla.
Prima di tutto rifletti che la volontà di nuocere è brutta, abo-
minevole e del tutto estranea all’uomo, il quale ammansisce per-
sino le bestie feroci con la sua bontà. Guarda gli elefanti che sot-
tomettono il collo al giogo e i tori che si lasciano saltare addosso
impunemente ragazzi e ragazze, e i serpenti che dispiegano le lo-
ro volute senza recar danno fra le coppe e le pieghe della veste, e
gli orsi e i leoni che entro casa presentano il muso alle carezze, e
le fiere che fanno le moine ai padroni: ti vergognerai d’aver dato
il tuo temperamento agli animali per prendere il loro. È un delit-
to nuocere alla patria; quindi anche a un concittadino che è par-
te della patria (le parti di un tutto venerabile sono sacre); quindi
anche all’uomo, che in una città più grande è tuo concittadino.25
Che diremmo, se le mani volessero nuocere ai piedi, e gli occhi
alle mani? Come tutte le membra vanno d’accordo fra di loro,
poiché è interesse del tutto che le singole parti siano salve, così
gli uomini risparmieranno i singoli perché sono nati per la vita
24
Si tratta di Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, ma la massi-
ma da Valerio Massimo è attribuita a Scipione Africano.
25
La città più grande è evidentemente il mondo, di cui l’uomo deve
sentirsi cittadino.
associata, e la società non può esser salva se non con la tutela e
l’amore delle parti che la compongono. Non sopprimeremmo
neppure le vipere e le natrici e quanti altri animali nuocciono
mordendo e colpendo, se potessimo renderle mansuete per il fu-
turo o fare in modo che non siano nocive a noi o agli altri; perciò
non nuoceremo neppure all’uomo per il fatto che ha peccato, ma
al fine che non pecchi più, e il castigo non guarderà mai al passa-
to ma al futuro; infatti non si adira ma sta in guardia. Si devono
punire tutti coloro che hanno indole prava e malefica? Nessuno
sarà esente da pena.
26
Marco Porcio Catone è qui, come negli altri passi dell’opera in cui
viene ricordato, Catone Uticense, il fiero e irriducibile difensore degli
ideali repubblicani contro lo strapotere di Cesare. Egli incarna per Seneca
la figura ideale del saggio stoico e viene spesso ricordato con termini di
grande ammirazione.
farvi ricorso senz’ira, convinti che l’esercizio della vendetta
non è dolce, ma utile; però spesso è stato preferibile lasciar per-
dere che vendicarsi. I torti fatti da chi è più potente di noi li
dobbiamo sopportare con volto giulivo, non solo con rassegna-
zione: faranno ancora torto se si convinceranno d’averlo fatto;
l’aspetto peggiore di un animo reso arrogante dal continuo fa-
vore della sorte è che arriva a odiare quelli che ha offeso. È as-
sai nota la risposta di quel tale che era invecchiato ossequian-
do i re; un tizio gli chiese come avesse potuto raggiungere a
corte un traguardo assai raro qual è la vecchiaia, ed egli rispo-
se: «Accettando le offese e ringraziando». Spesso non conviene
vendicare un’offesa, a tal segno che non conviene neppure ri-
conoscerla. G. Cesare aveva fatto imprigionare il figlio di Pa-
store27 gran cavaliere romano, ritenendosi offeso dalla sua raf-
finatezza e dalla sua capigliatura troppo curata. Il padre gli
chiese di risparmiargli il figlio ed egli, come se gli avesse ricor-
dato la pena capitale, ordinò che fosse subito condotto a mor-
te; e tuttavia, per non essere del tutto disumano nei riguardi del
padre, lo invitò a pranzo per quel giorno. Pastore venne, senza
alcun segno di biasimo sul volto. Cesare lo invitò a bere alla sua
salute un mezzo litro e gli mise a fianco un sorvegliante: l’infe-
lice tenne duro, era come se bevesse il sangue del figlio. Gli in-
viò profumi e corone e ordinò di controllare se le prendesse: le
prese. Nel giorno in cui aveva fatto il funerale del figlio, anzi
non lo aveva fatto, il povero vecchio gottoso era adagiato fra
cento altri commensali e tracannava calici appena convenienti
per il compleanno dei figli, senza versare una lacrima, senza
permettere che trasparisse alcun segno di dolore: pranzò come
se avesse ottenuto la grazia per il figlio. Mi domandi perché?
ne aveva un altro. E Priamo? Non trattenne forse l’ira e ab-
bracciò le ginocchia del re, impresse un bacio sulla mano fune-
sta e grondante del sangue del figlio, e si mise a tavola? Senza
profumo però, senza corone, e il crudelissimo nemico lo esortò
con molte parole di conforto a mangiare, non a tracannare
grandi coppe con un sorvegliante sopra la testa. Avrei disprez-
zato il genitore romano se avesse temuto per sé: fu invece l’af-
27
Questo Pastore, cavaliere romano che subisce la crudeltà di Caligola,
non ci è altrimenti noto.
fetto per il figlio a frenare l’ira. Meritò che gli si concedesse di
levarsi dal banchetto per andare a raccogliere le ossa del figlio:
neppure questo gli permise il giovane talora benevolo e corte-
se: sfotteva il vecchio con continui brindisi, invitandolo ad alle-
viare il dolore. Ma quello si mostrò lieto e dimentico di quanto
era accaduto quel giorno; sarebbe morto l’altro figlio, se come
commensale non fosse piaciuto al boia.
oppure:
28
Le due citazioni sono da Virgilio.
29
Quinto Sestio Niger e il figlio Quinto Sestio diressero in Roma fra il
40 a.C. e il 10 d.C. una scuola filosofica aperta all’influsso pitagorico, al di-
simpegno politico, a una pratica di vita ascetica.
alla pazzia e non recuperarono più il senno che avevano caccia-
to: Aiace30 dalla pazzia fu spinto al suicidio, dall’ira alla pazzia.
Gli irati imprecano morte ai figli, rovina alla casa, e non ammet-
tono di essere irati, come i forsennati non ammettono di essere
pazzi. Nemici degli amici più intimi, pericolosi per le persone più
care, immemori delle leggi, eccetto quelle che consentono di
nuocere, pronti a eccitarsi per inezie, difficili da avvicinare sia
con parole sia con cortesia, tutto compiono con violenza, dispo-
sti sia a combattere con la spada sia a trafiggersi. Li ha colti in-
fatti il male più grave, che supera tutti i vizi. Mentre altri mali
entrano in noi gradatamente, questo ha una violenza improvvisa
e totale. Infine sottomette ai suoi voleri tutte le altre passioni:
vince l’amore più ardente e perciò trafiggono le persone amate
per giacere poi tra le braccia delle loro vittime; l’ira si mette sot-
to i piedi l’avarizia, che pure è un male assai ostinato e per nulla
disposto a piegarsi, e la costringe a dilapidare i suoi beni e ad ap-
piccare il fuoco alla casa e al patrimonio ammucchiato. Non è
forse vero che l’ambizioso rifiuta con sdegno le insegne prima
tanto stimate, e la carica che gli viene offerta? Non c’è passione
sulla quale l’ira non la faccia da padrona.
30
Aiace Telamonio, il più forte fra i Greci dopo Achille, impazzì di do-
lore per non aver ottenuto qual premio del suo valore le armi di Achille,
che furono assegnate a Ulisse.
LIBRO III
1
L’intero capitolo, che introduce la materia del III libro, appare al-
quanto vago e confuso. L’autore non chiarisce se si tratti di soffocare l’ira
in noi stessi o negli altri; sembrerebbe privilegiato addirittura il secondo
tema e solo in seguito si scoprirà che a Seneca preme anche il primo.
persino d’una calamità che coinvolga anche loro, e non infuria
solo contro i bersagli prestabiliti ma anche contro quanto trova
al suo passaggio. Gli altri vizi sollecitano l’animo, l’ira lo travol-
ge. Anche se non si può opporre resistenza alle proprie passioni,
perlomeno si può affrontarle restando in piedi; l’ira, come i ful-
mini e le tempeste e quant’altro è irrevocabile perché non avan-
za ma cade dall’alto; accresce vieppiù la sua violenza. Gli altri vi-
zi si ribellano alla ragione, questo alla salute mentale; gli altri
hanno sintomi iniziali lievi e si sviluppano senza che uno se ne
accorga, mentre nell’ira è un vero precipitare dell’animo. Per-
tanto nulla incalza con maggiore stordimento e prontezza a di-
spiegare le sue forze; è arrogante quando ha successo, è folle
quando resta delusa; non prova disgusto neppure dopo l’insuc-
cesso, e quando la sorte le sottrae l’avversario, prende a morsi se
stessa. Né importa quanto rilievo abbia ciò che la scatena, ché
dai motivi più futili arriva alle conseguenze più gravi.
3. Mi dirai: «Non v’è dubbio che codesta sia una forza imponen-
te e rovinosa; perciò mostrami come vi si debba porre rimedio».
Eppure, come ho detto nei libri precedenti, Aristotele si erge a
difensore dell’ira e ci proibisce di sradicarla completamente da
noi: dice che è di sprone al valore, e che tolta questa l’animo risul-
ta disarmato e pigro e fiacco di fronte alle grandi imprese. È per-
tanto necessario mettere sotto accusa la sua bruttezza e ferocia
ed evidenziare quanto sia mostruoso un uomo che si avventa fol-
lemente contro un altro uomo, e con quanto slancio attacchi re-
cando rovina a se stesso nell’intento di recarla ad altri e di an-
nientare ciò che non può essere annientato senza il suo stesso an-
nientamento. E allora? Definisce qualcuno sano di mente costui
che, come travolto da una bufera, non avanza ma è sospinto e si
fa schiavo d’una malattia furiosa, né affida ad altri la sua vendet-
ta, ma facendosene egli stesso esecutore, trascende coll’animo in-
sieme e con la mano, assassino delle persone più care e di quelle
cose di cui piangerà tosto la perdita? Qualcuno assegna alla virtù
come aiutante e come compagna questa passione che obnubila le
idee senza le quali la virtù nulla può compiere? Se il malato riac-
quista energia in seguito a un attacco del suo male, si tratta
d’un’energia di breve durata, che non induce a nutrire buone spe-
ranze e che si risolve ancora nella malattia. Non pensare quindi
che io sprechi il tempo in argomenti superflui, se metto in cattiva
luce l’ira, come se gli uomini ne avessero un concetto incerto, vi-
sto che qualcuno, che per di più appartiene al novero dei grandi
filosofi, le conferisce incarichi, e la invoca come utile e fonte di
coraggio nelle battaglie, nelle azioni e per tutto ciò che si deve
compiere con un certo entusiasmo. Perché nessuno si inganni nel
credere che potrà giovare in qualche occasione e in qualche luo-
go, bisogna metterne in evidenza la rabbia sfrenata e stordita e
assegnarle il suo corredo costituito dai cavalletti di tortura, le cor-
de, le case di pena, le croci, il fuoco disposto attorno ai corpi in-
terrati, l’uncino che trascina persino i cadaveri, i vari tipi di carce-
re e di pena, lo strazio delle membra, il marchio inciso sulla fron-
te e le gabbie delle bestie feroci: fra questi attrezzi si collochi l’ira
col suo orrido e tremendo stridore, più spaventosa di tutti gli og-
getti mediante i quali impone la sua follia.
2
Allusione non tanto a Caligola già morto, quanto a Claudio.
felice, quella brama esser causa dell’infelicità altrui; queste pro-
vano gioia per i mali della sorte, quella non si rassegna ad atten-
dere la sorte, ma vuol recar danno essa alla persona che odia, e
non che le si rechi danno. Nulla è più grave della rivalità: è l’ira
che la procura. Nulla è più funesto della guerra: è l’ira dei poten-
ti che sfocia in essa; del resto persino l’ira privata della povera
gente è una guerra disarmata e senza forza. Inoltre l’ira, per non
parlare delle sue immediate conseguenze, come danni, agguati,
continua apprensione per attacchi reciproci, sconta la pena pro-
prio nel momento in cui la impone; rinnega la natura umana, che
esorta all’amore, mentre l’ira spinge all’odio; quella vuol giova-
re, questa nuocere. Per di più, poiché il suo sdegno proviene da
un’eccessiva stima di sé, per sembrare coraggiosa è meschina e
gretta, poiché tutti sono da meno di colui dal quale si sentono
offesi. Invece l’animo grande e giusto estimator di se stesso non
vendica l’offesa poiché non l’avverte. Come i dardi rimbalzano
su un bersaglio duro e gli oggetti compatti procurano dolore a
chi li percuote, così nessuna offesa riesce sensibile a un animo
grande, in quanto è più fragile di ciò che colpisce. Quanto è più
bello respingere tutti i torti e le offese mostrandosi impenetrabi-
le a ogni dardo! La vendetta è ammissione d’aver provato dolo-
re; non è grande l’animo che si lascia piegare da un’offesa. Chi ti
ha offeso o è più forte o più debole di te: se è più debole devi ri-
sparmiarlo, se è più forte risparmia te stesso.
3
Marco Celio Rufo fu partigiano di Cesare e grande oratore; era stato
amante di Clodia (la Lesbia di Catullo), e fu difeso da Cicerone nella Pro
Coelio dall’accusa di aver tentato di avvelenarla.
4
Pitagora fu filosofo e matematico del VI secolo a.C.
si e quant’altro inasprisce il nostro difetto, così come la spossa-
tezza fisica; essa annulla quanto c’è in noi di mite e tranquillo, ed
eccita i sentimenti violenti. Per questo coloro che soffrono di sto-
maco, quando si accingono a trattare affari di maggior impegno,
assumendo del cibo riducono la bile che è provocata soprattutto
dalla stanchezza, sia perché spinge all’interno il calore e nuoce
al sangue arrestandone il flusso nelle vene affaticate, sia perché
un corpo debilitato e stanco è di peso all’animo; senza dubbio
per lo stesso motivo sono più irascibili coloro che sono spossati
da una malattia o dall’età. Per le stesse ragioni bisogna evitare
anche la fame e la sete: esasperano e infiammano l’animo. È det-
to antico che l’uomo stanco cerca lite; come pure chi ha fame e
sete ed è incalzato da qualche fastidio. Come le piaghe fanno
male al minimo tatto e persino al sospetto del tatto, così un ani-
mo contrariato si offende per un nonnulla, tanto che certuni ar-
rivano a litigare per un saluto, una lettera, un discorso e una do-
manda: quando si tocca un malato, si odono sempre dei lamenti.
10. Alle prime avvisaglie del male la cosa migliore è pertanto cu-
rarsi, concedere la minor libertà possibile persino alle proprie pa-
role, e trattenere l’istinto. Ed è facile cogliere le proprie passioni
non appena sorgono; i sintomi dei mali arrivano in anticipo. Co-
me prima d’una tempesta e d’una pioggia ne arrivano gli indizi,
così ci sono dei segnali premonitori dell’ira, dell’amore e di tutte
codeste burrasche che sconvolgono l’animo. Coloro che soffrono
di epilessia si rendono conto che il male è in arrivo quando il ca-
lore abbandona le estremità, la vista è incerta e i nervi sono in-
quieti, la memoria vacilla e la testa gira; così prevengono il male
incipiente con i soliti espedienti, e quale che sia la causa che fa
perdere i sensi, essa viene combattuta annusando o gustando
qualcosa, o si fa fronte al freddo e alla rigidità con panni caldi; o
se la cura ha poco giovato, evitano la folla e stramazzano al suolo
senza testimoni. È utile conoscere la propria malattia e soffocar-
ne la virulenza prima che prenda campo; vediamo dunque che
cosa soprattutto ci turba: chi è scosso da un’offesa verbale, chi da
un’offesa di comportamento; uno vuole che si abbia rispetto del-
la sua nobiltà, un altro alla sua bellezza; chi vuole essere giudica-
to il più raffinato, chi il più dotto; c’è chi non sopporta l’arrogan-
za e chi l’ostinazione; uno non giudica gli schiavi degni della sua
ira, un altro è feroce in casa e dolce in pubblico, colui giudica of-
fesa che gli si chieda qualcosa, costui che non gliela si chieda. Non
tutti hanno lo stesso punto debole, e devi quindi conoscere quale
sia il tuo lato debole, per proteggerlo particolarmente.
5
Pisistrato conquistò il potere tirannico in Atene nel 561 a.C., nono-
stante la tenace opposizione di Solone, e lo tenne sino alla morte (528), ec-
cettuato un periodo trascorso in esilio dal 556 al 546.
nessuno valuta l’intenzione di chi agisce, ma l’azione in sé: eppure
bisogna osservare se la persona abbia agito di proposito o per ca-
so, costretta o ingannata, avendo di mira l’odio o una ricompensa,
se abbia assecondato il proprio carattere o abbia agito per conto
di altri. Di certe azioni è responsabile l’età di chi sbaglia, di altre la
condizione sociale, per cui la tolleranza e la sopportazione o sono
umane o sono utili. Mettiamoci nei panni di colui con cui ci adiria-
mo: ora invece ci rende irascibili una eccessiva stima di noi stessi e
non vogliamo subire ciò che vorremmo fare. Nessuno prende tem-
po, benché la cura più efficace contro l’ira sia la dilazione, in modo
che si plachi il suo primo bollore, e si dissolva o sia meno fitta la
nebbia che offusca la mente. Basterà non dico un giorno, ma un’o-
ra ad attenuare alcune delle ragioni che ti spingevano a capofitto,
altre svaniranno del tutto; se la chiamata a difesa richiesta non ser-
virà a nulla, sarà chiaro che ormai non si tratta di ira ma di un giu-
dizio. Se vorrai conoscere bene la natura di ogni azione, prendi
tempo: nello stato di agitazione non si osserva nulla con obietti-
vità. Platone,6 adirato con un suo schiavo, non riuscì a prender
tempo, ma gli ordinò di togliersi subito la veste e di offrire le spal-
le alle frustate, deciso a batterlo di propria mano; quando si rese
conto di essere arrabbiato, trattenne in alto la mano che aveva al-
zato e rimase fermo nell’atto di chi sta per colpire; arrivò per caso
un amico e gli chiese che stesse facendo. «Sto punendo» rispose
«un uomo irato.» Come intontito conservava quella positura, di-
sdicevole per un saggio, propria di chi sta per infierire, dimentico
ormai dello schiavo, perché aveva trovato un altro più meritevole
di castigo. Così abdicò al potere che aveva sui suoi, e troppo agita-
to per non so che mancanza, disse: «Tu, o Speusippo, punisci con
la frusta questo schiavetto, perché io sono arrabbiato». Non lo fru-
stò proprio per quella ragione per cui un altro lo avrebbe frustato.
«Sono arrabbiato» disse; «farò più del dovuto, lo farò troppo vo-
lentieri: questo schiavo non sia in potere di chi non è padrone di
se stesso.» Vorrà qualcuno affidare a una persona adirata il com-
pito di punire, visto che Platone rinunciò di proposito alla sua au-
torità? Nulla ti sia consentito mentre sei adirato. Perché? perché
vorresti che tutto ti fosse consentito.
6
Altre fonti sostituiscono a Platone il di lui nipote Speusippo, altre Se-
nocrate.
13. Lotta con te stesso: se vuoi vincere l’ira, essa non può vince-
re te. Cominci a vincere se la tieni nascosta, se non le dài il modo
di rivelarsi. Soffochiamo i suoi sintomi e teniamola il più possibi-
le nascosta e invisibile. Ci costerà molta fatica (poiché brama
balzar fuori e infiammare il nostro sguardo e mutare il nostro
aspetto), ma se le si concede di rivelarsi esteriormente, ha il so-
pravvento. La si tenga nascosta nel più profondo del petto e sia
sotto il nostro controllo, non noi sotto il suo. Anzi dobbiamo da-
re segno contrario a tutti i suoi indizi; lo sguardo si faccia sereno,
la voce più dolce, il passo più lento; a poco a poco anche il nostro
stato d’animo si adegua all’aspetto esteriore. In Socrate la voce
bassa e il controllo delle parole erano indizio d’ira; era evidente
allora che stava lottando con se stesso. Così veniva scoperto e
rimproverato da quelli di casa, e non lo contrariava il rimprove-
ro della sua ira nascosta. Perché non avrebbe dovuto esser lieto
che molti indovinassero la sua ira, senza che nessuno ne provas-
se le conseguenze? E le avrebbero sentite, se non avesse conces-
so agli amici il diritto di rimproverarlo, come egli stesso se lo era
preso nei confronti degli amici. Quanto più dobbiamo fare que-
sto noi! Chiediamo ai nostri più intimi di arrogarsi verso di noi
la massima franchezza proprio quando siamo meno disposti a
sopportarla, e di non dare la loro approvazione alla nostra ira;
chiamiamoli in soccorso, finché abbiamo senno e siamo padroni
del nostro controllo, contro un male potente che gode del nostro
favore. Quelli che reggono male il vino e temono la temerarietà
e l’arroganza della propria ebbrezza, danno ai congiunti l’incari-
co di portarli via da tavola; avendo fatto prova della propria in-
temperanza nel male, proibiscono che si dia loro obbedienza
quando sono in preda a esso. La cosa migliore è predisporre per
tempo uno sbarramento ai vizi conosciuti e anzitutto atteggiare
l’animo per modo che, benché scosso da eventi gravissimi e im-
previsti, o non avverta l’ira, o quando essa scoppia per la gran-
dezza di un’offesa inaspettata, la ritiri nel proprio intimo e non
manifesti il proprio dolore. Sarà chiaro che questo è possibile
dopo che avrò proposto pochi esempi fra i molti che ho a dispo-
sizione, dai quali si possono imparare due cose, quante sciagure
comporti l’ira quando si fa padrona assoluta di uomini strapo-
tenti, e quanto si possa controllare quando è tenuta a freno da
una paura più grande.
14. Il re Cambise amava troppo il vino e Pressaspe, uno dei suoi
intimi, lo esortava a controllarsi nel bere, affermando che l’u-
briachezza è vergognosa per un re che tutti guardano e tutti
ascoltano. A tali osservazioni egli replicò: «Perché tu sappia che
io non perdo mai il mio controllo, ti dimostrerò subito che dopo
aver bevuto ci vedo bene e le mani non mi tremano». Bevve
quindi più del solito in coppe più grandi e ormai appesantito ed
ebbro ordinò al figlio del suo censore di porsi oltre la soglia con
la mano sinistra sopra il capo. Allora tese l’arco e colpì proprio il
cuore del ragazzo (aveva detto di mirare a esso) e aperto il petto
mostrò il dardo conficcato nel cuore, e rivolto al padre gli chiese
se aveva la mano abbastanza ferma. E quello gli rispose che nep-
pure Apollo avrebbe potuto mirare con maggior precisione.7
Che gli dèi diano il malanno a costui, più schiavo di carattere che
di condizione! Lodò quel gesto di cui era già troppo essere stato
spettatore. Ritenne che il petto del figlio tagliato in due parti e il
cuore ancora palpitante sotto la ferita offrissero una buona oc-
casione alle sue piaggerie: avrebbe dovuto invece contestargli
quella millanteria e invitarlo a ripetere il colpo, affinché al re ve-
nisse l’uzzolo di mostrare polso più fermo nel padre stesso. Che
re sanguinario! Si sarebbe meritato che tutti i suoi uomini driz-
zassero l’arco contro di lui. Dopo aver maledetto quel re che
scioglieva i suoi banchetti straziando e uccidendo, dobbiamo tut-
tavia dire che fu azione più scellerata lodare quel colpo che ti-
rarlo. Vedremo in altra sede come avrebbe dovuto comportarsi il
padre ritto sul cadavere del figlio e su quell’assassinio di cui era
stato spettatore e causa: ora stiamo parlando dell’ira ed è evi-
dente che la si può soffocare. Non imprecò contro il re, non si la-
sciò neppure sfuggire una parola sulla sua infelicità, benché ve-
desse il suo cuore trafitto come quello del figlio. Si può dire ben
a proposito che ingoiò le parole, poiché se avesse detto qualcosa
da irato, non avrebbe potuto far nulla da padre. D’accordo, può
sembrare che in quella sventura si sia comportato con più sag-
gezza di quanto aveva fatto nel dar consigli sulla moderazione
nel bere a colui che sarebbe stato meglio bevesse vino anziché
7
Cambise, figlio di Ciro, alla cui morte (529 a.C.) salì al trono di Persia,
estese a occidente l’impero degli Achemenidi con la conquista dell’Egitto
(525).
sangue, le cui mani erano pacifiche finché erano impegnate coi
bicchieri. Si aggiunse così al numero di coloro che hanno dimo-
strato con gravi perdite quanto costino agli amici dei re i buoni
consigli.
8
Dario I, re dei Persiani (540-485 a.C.), represse la rivolta ionica ca-
peggiata da Mileto e promosse la prima invasione persiana della Grecia,
fallita con la sconfitta di Maratona (490).
9
Serse, figlio di Dario (485-465), dopo aver domato alcune rivolte in
province periferiche dell’Impero, fra cui l’Egitto, riprese la politica espan-
sionistica del padre verso occidente, invadendo con una poderosa spedi-
zione di terra e di mare la Grecia. L’impresa fallì a seguito delle sconfitte
dell’Artemisio, di Salamina, Platea e Micale.
sui due lati della strada, e con questa vittima purificò l’esercito.
Ebbe pertanto il risultato che si era meritato: sconfitto, sbara-
gliato d’ogni parte, con sotto gli occhi lo spettacolo del massa-
cro, marciò in mezzo ai cadaveri dei suoi.
18. Magari questa crudeltà fosse rimasta fra gli esempi stranie-
ri, e i costumi romani non avessero assimilato, con altri vizi ve-
nuti di fuori, anche questa barbara usanza di sfogare l’ira inflig-
gendo supplizi! A quel M. Mario,10 cui il popolo aveva eretto
statue in ogni quartiere, cui rivolgeva preghiere con offerta di
incenso e vino, L. Silla fece spezzare le gambe, cavare gli occhi,
tagliare la lingua e le mani e, come se lo uccidesse ogni volta che
lo colpiva, a poco a poco lo fece lacerare membro a membro.
10
Si tratta di Marco Mario Gratidiano, figlio adottivo del fratello di
Gaio Mario.
Chi era l’esecutore di quest’ordine? E chi mai, se non Catilina11
che già allenava le mani a ogni delitto? Ne faceva scempio da-
vanti alla tomba di Q. Catulo,12 recando offesa alle ceneri di
quell’uomo assai mite, presso le quali quel poco di buono, che
aveva tuttavia goduto del favore del popolo ed era stato amato
in maniera più eccessiva che immeritata, versava goccia a goc-
cia il suo sangue. Un tale supplizio si addiceva a Mario,13 un tale
ordine a Silla, una tale esecuzione a Catilina, ma lo Stato non
meritava che si affondassero nel suo corpo a un tempo le spade
dei nemici e quelle dei vendicatori. Ma perché vado a scovare
episodi antichi? Recentemente G. Cesare in un sol giorno fece
fustigare e torturare, non per un’inchiesta, ma per suo svago, Se-
sto Papirio, il cui padre era stato console, Betilieno Basso suo
questore, figlio di un suo procuratore, e altri senatori e cavalieri
romani; quindi gli fu così impossibile rinviare un piacere che la
sua crudeltà pretendeva intenso e senza rinvio, che passeggian-
do nel viale dei giardini materni,14 che divide il portico dalla ri-
va, fece decapitare al lume d’una torcia alcuni di loro con ma-
trone e altri senatori. Che fretta c’era? Quale pericolo pubblico
o privato una sola notte avrebbe comportato? Infine ci voleva
tanto ad attendere il giorno, per non uccidere dei senatori ro-
mani stando in ciabatte da notte?
11
Catilina, patrizio romano, già fautore di Silla, organizzò nel 63 a.C.
una congiura. Smascherato da Cicerone, scelse la via della rivolta armata e
morì combattendo contro le truppe consolari presso Pistoia.
12
Quinto Lutazio Catulo (150-87 a.C.) fu collega di Gaio Mario nel
consolato e con lui condusse la campagna vittoriosa contro i Cimbri.
13
Seneca condivide il giudizio negativo che l’oligarchia romana for-
mulò nei confronti degli avversari politici, non esclusi i Gracchi.
14
Madre di Caligola fu Agrippina Maior, figlia di Agrippa e Giulia, spo-
sa di Germanico.
obietterà: «Che sarà mai! se tre senatori, come schiavi malvagi,
furono squartati tra fiamme e frustate, da un uomo che aveva in
mente di massacrare l’intero senato, e desiderava che il popolo
romano avesse un solo collo, per condensare in un solo giorno e
in un solo colpo tanti suoi delitti separati nello spazio e nel tem-
po». S’è mai vista un’esecuzione consumata di notte? Gli atti di
brigantaggio sogliono nascondersi nelle tenebre, mentre le puni-
zioni hanno tanto maggiore efficacia d’esempio e di correzione
quanto più sono note. E a questo punto mi si dirà: «Ciò di cui
tanto ti stupisci, per questa belva è un’abitudine d’ogni giorno:
per questo vive, veglia, escogita». Senza dubbio non si troverà
nessun altro che abbia fatto chiudere con una spugna la bocca a
tutti coloro che condannava, perché non avessero la possibilità
di pronunciar parola. A chi mai in punto di morte non fu data la
possibilità di lamentarsi? Temeva che l’estremo dolore facesse
pronunciar loro qualche frase troppo franca, temeva di aver ad
ascoltare ciò che non avrebbe voluto; e sapeva che erano innu-
merevoli i rimproveri che gli potevano muovere solo in punto di
morte. Poiché non c’erano spugne a disposizione, ordinò di lace-
rare le vesti di quegli infelici e di ficcar loro in bocca i cenci. Che
crudeltà è codesta? Sia consentito di tirar l’ultimo respiro, con-
cedi all’anima una via d’uscita, sia consentito esalarla non attra-
verso la piaga della ferita. Sarebbe lungo aggiungere a ciò che
nella medesima notte fece massacrare anche i padri degli uccisi,
sguinzagliando nelle loro case i centurioni, vale a dire, da quel-
l’uomo pietoso che era, li liberò dal lutto; giacché è mio proposi-
to non descrivere la crudeltà di Gaio, ma l’ira, che non infierisce
solo su singoli individui, ma strazia interi popoli, e colpisce città
e fiumi e quanto è privo d’ogni sensazione di dolore.
22. Bisogna meditare sia su questi esempi che devono essere evi-
tati, sia sui seguenti, che devono essere imitati, esempi di equilibrio
e di pacatezza, di persone cui non mancò il motivo di arrabbiarsi
né la possibilità di vendicarsi. Per Antigono16 sarebbe stato molto
facile mandare a morte due soldati semplici, i quali, appoggiati alla
tenda del re, esprimevano giudizi pesanti sul loro sovrano, cosa che
gli uomini fanno con sommo rischio e piacere.Antigono aveva udi-
to tutto, poiché fra chi parlava e chi ascoltava non c’era che il telo
da tenda; egli lo scosse leggermente e disse: «Andate un po’ più in
là, che il vostro re non vi senta». Il medesimo una notte, uditi alcu-
ni suoi soldati che auguravano ogni male al re, perché li aveva gui-
dati in quella marcia in un pantano da cui era difficile togliere i pie-
di, si accostò a quelli che erano in maggior difficoltà e li trasse in
salvo senza che sapessero da chi erano aiutati, e soggiunse: «Ora
dite pur male di Antigono, per colpa del quale siete caduti in questi
disagi; ma augurategli anche del bene, poiché vi ha tratto fuori da
questo burrone». Egli sopportò con la stessa mitezza d’animo le
critiche dei suoi nemici e dei suoi concittadini. E così, poiché dei
Greci assediati in una piccola fortezza, nutrendo fiducia nella natu-
ra del luogo si facevano beffa dei nemici e lanciavano molti frizzi
sulla bruttezza di Antigono, canzonandone ora la bassa statura ora
il naso schiacciato, egli disse: «Sono contento e ho di che sperare
bene, avendo un Sileno17 nel mio accampamento». Vinti per fame
questi spiritosi, li fece prigionieri regolandosi in questo modo: asse-
gnò ai reparti quelli che erano idonei alle armi, e vendette all’asta
gli altri, e assicurò che non l’avrebbe fatto se non fosse tornato uti-
le avere un padrone a chi aveva una lingua così maldicente.
15
Sulla detenzione di Agrippina, madre di Caligola, in una villa in quel
di Ercolano, non abbiamo altre notizie. La donna fu comunque relegata da
Tiberio a Pandataria ed è ben probabile che nella sua traduzione da Roma
all’isola abbia sostato sotto custodia nella villa suddetta.
16
Si tratta di Antigono Gonata, re di Macedonia, figlio di Demetrio Polior-
cete e amico di pensatori stoici; ospitò alla sua corte, con altri poeti, Arato.
17
Sileno fa parte, in groppa all’asino, del seguito di Dioniso, ed è ma-
schera della commedia.
23. Nipote di costui era Alessandro,18 che scagliava la lancia
contro i suoi commensali e, fra i due amici poc’anzi ricordati, uno
lo espose a una belva, l’altro a se stesso. E fra questi due soprav-
visse quello che affrontò il leone. Questo difetto non gli veniva
dagli avi, e neppure dal padre, poiché fra le altre buone qualità
di Filippo ci fu anche la sopportazione delle offese,19 efficace
espediente per conservare un regno. Era giunto da lui, con altri
ambasciatori ateniesi, Democare detto il Parresiaste per l’ecces-
siva insolenza nel suo linguaggio. Ascoltata gentilmente l’amba-
sceria, Filippo disse: «Ditemi che cosa posso fare che riesca gra-
dito agli Ateniesi». Prese la parola Democare e rispose: «Impic-
carti». A una risposta così sgarbata scoppiò lo sdegno dei pre-
senti, ma Filippo li invitò al silenzio e congedò quel Tersite20 sen-
za torcergli un capello. «Ma voi altri ambasciatori» soggiunse
«riferite agli Ateniesi che è molto più arrogante chi si esprime in
codesta maniera, di chi lo ascolta senza punirlo.»
Anche il divo Augusto21 fece molti gesti e disse molte parole
degne di memoria da cui è evidente che non fu schiavo dell’ira.
Lo storico Timagene22 aveva fatto alcune maldicenze contro di
lui, la sua sposa e l’intera famiglia, e non le aveva fatte invano,
poiché una spiritosaggine avventata ha il privilegio di andare in
18
Alessandro non era nipote di Antigono, ma figlio di Filippo, figlio di
Aminta. L’esigenza di dimostrare che da antenati mansueti possono na-
scere uomini crudeli, induce forse Seneca all’errore.
19
Della mitezza di Filippo parlano Plutarco e Valerio Massimo; ritratto
negativo del personaggio ci fornisce invece Demostene.
20
Tersite è l’arrogante e maldicente personaggio omerico che tenta di
sobillare le truppe contro il re e viene percosso e zittito da Ulisse.
21
Augusto (63 a.C.-14 d.C.) figlio adottivo di Cesare, entrò giovanissi-
mo nella lotta politica e nelle guerre civili. Triumviro rei publicae consti-
tuendae con Antonio e Lepido, eliminò a Filippi (42 a.C.) le truppe dei ce-
saricidi e a Naucrati (36 a.C.) quelle di Sesto Pompeo, finché sbarazzatosi
di Antonio ad Azio (31 a.C.) divenne padrone di Roma e detenne il potere
per oltre un trentennio, in cui promosse le opere di pace e la poesia.
22
Timagene di Alessandria, portato a Roma da Pompeo nel 55 a.C.,
scrisse un’opera storica sui re, di carattere fieramente antiromano. La sua
amicizia con Augusto ebbe inizio forse prima di Azio, quando il futuro im-
peratore lo volle accanto a sé come esperto di cose orientali. La rottura fra
i due fu dovuta forse a divergenze di carattere, fra il principe austero e
contegnoso e l’amico avventuriero e scanzonato. La sposa di Augusto, vit-
tima delle frecciate di Timagene, è Livia madre di Tiberio.
giro sulla bocca delle gente. Cesare lo avvertì più d’una volta di
essere controllato nel parlare, ma poiché l’altro non la smetteva,
lo escluse dalla sua casa. In seguito Timagene godé fino alla vec-
chiaia dell’amicizia di Asinio Pollione,23 e fu conteso da tutta
Roma; il fatto che gli fosse interdetta la casa di Cesare non gli
chiuse nessuna porta. Diede pubblica lettura dell’opera storica
composta in seguito, e gettò sul fuoco i libri che narravano le im-
prese di Augusto;24 si permise d’essere nemico dell’imperatore e
nessuno ebbe paura di averlo amico, nessuno lo evitò come uo-
mo colpito dal fulmine, ci fu anzi chi gli spalancò le braccia, ben-
ché fosse caduto in disgrazia in così alto luogo. L’imperatore, co-
me ho detto, sopportò ciò con pazienza, e non perse la calma
neppure per il fatto che aveva attentato alla sua gloria e alle sue
imprese; non ebbe mai a lamentarsi con l’ospite del suo detrat-
tore. Si limitò a dire ad Asinio Pollione: «Tu nutri una belva»; e
lo interruppe, mentre abbozzava una scusa, dicendogli: «Godite-
lo pure, caro Pollione, goditelo!», e poiché Pollione disse: «Se me
lo imponi, o Cesare, gli chiuderò subito la porta in faccia», sog-
giunse: «Pensi davvero che farei questo proprio io che vi ho fat-
to far pace?». Infatti in passato Pollione era stato in rotta con Ti-
magene e aveva risolto i dissapori per il solo motivo che Cesare
aveva iniziato a essergli ostile.
23
Asinio Pollione (76 a.C.-4 d.C.), partigiano di Cesare prima e di An-
tonio poi, mantenne con Augusto una posizione di franca indipendenza.
24
Evidentemente l’opera storica di cui Timagene diede pubblica lettu-
ra era improntata a sentimenti antiromani, mentre quella sul conto di Au-
gusto, che fu arsa, riusciva a elogio del principe. Nei due gesti si coglie lo
spirito di rivalsa nei confronti di chi lo aveva messo alla porta.
25
Nel senso che sono altri a riferirmelo.
dovrei io perdonare ai pigri, agli sbadati, ai chiacchieroni? Un
ragazzo deve essere scusato per la sua età, una donna per il suo
sesso, un estraneo per la sua libertà di parola, uno di casa per la
sua confidenza. Mi ha offeso ora per la prima volta; riflettiamo
per quanto tempo è stato gentile; mi ha offeso spesso anche altre
volte; sopportiamo ancora ciò che abbiamo a lungo sopportato.
È un amico: ha fatto ciò che non avrebbe dovuto. È un nemico:
ha fatto quello che doveva. Fidiamoci di chi è assennato, perdo-
niamo lo sciocco; in difesa di ciascuno diciamo a noi stessi che
anche gli uomini più saggi commettono molti errori, nessuno è
tanto scrupoloso da non perdere qualche volta i suoi scrupoli,
nessuno è tanto serio che la sua austerità non sia spinta dal caso
a un qualche gesto troppo focoso, nessuno è tanto alieno dall’of-
fesa da non caderci proprio mentre tenta di evitarla.
28. Te la prendi con uno e poi con un altro; con gli schiavi e poi
con i liberti; con i genitori e poi con i figli; con i conoscenti e poi
con gli sconosciuti, poiché dappertutto ci sono in abbondanza
dei motivi, se non interviene l’animo a far da intercessore. La
follia ti trascinerà di qua e di là, e sorgendo continuamente nuo-
vi stimoli, la tua rabbia non avrà tregua: suvvia, disgraziato,
quando mai amerai? Quanto buon tempo perdi in una cattiva
azione! Quanto sarebbe stato meglio procurarsi amici, sedare
inimicizie, attendere alla vita pubblica, dedicar cura al patrimo-
nio, piuttosto che guardare intorno per vedere che male tu possa
fare a qualcuno, quale ferita infliggere al suo prestigio, o al suo
patrimonio, o al suo corpo, tanto più che non ci puoi riuscire sen-
za lotta e rischio, anche se entri in lizza con un inferiore!
Quand’anche tu lo trovi legato e disposto a tutto subire secondo
il tuo arbitrio, spesso l’eccesso di vigore sloga un’articolazione di
chi colpisce o trafigge un nervo tra quei denti che ha rotto; l’ira
ha storpiato e indebolito molti uomini, anche quando ha trovato
disponibilità a subire. Aggiungi che nessun essere è tanto debole
da soccombere senza rischio di chi lo sopprime; talvolta il dolo-
re, talaltra il caso uguaglia i deboli ai più forti. Che dire poi del
fatto che la maggior parte delle cose che ci fanno adirare, ci of-
fendono più che danneggiarci? C’è una bella differenza se uno si
oppone alla mia volontà o delude le mie attese, se mi strappa
qualcosa con la forza o non me la dà. Eppure, che uno ci tolga
qualcosa o ce la neghi, che tronchi la nostra speranza o la rinvii,
che agisca contro di noi o a suo vantaggio, per affetto verso un
altro o per odio verso di noi, tutto questo noi lo mettiamo sullo
stesso piano. Certuni poi, per schierarsi contro di noi, hanno mo-
tivi non solo giusti, ma anche dignitosi: chi protegge il padre, chi
il fratello, chi la patria, chi l’amico; e tuttavia non li perdoniamo
quando fanno ciò, e se non lo facessero li biasimeremmo, anzi,
cosa incredibile, spesso diamo un giudizio positivo sull’azione e
negativo su chi la compie. Eppure, per Ercole, l’uomo grande e
giusto guarda con rispetto i più forti fra i nemici e i più decisi a
combattere per la libertà e la salvezza della patria, e si augura di
avere concittadini e soldati di quella tempra.
31. Chi guarda alla roba altrui non è mai soddisfatto della sua;
per questo ce la prendiamo anche con gli dèi se qualcuno ci pre-
cede, dimenticandoci che molta gente viene dopo di noi, e che
26
Cimbro Tillio, benché commilitone e amico di Cesare, fu indotto a
congiurare dal fatto che Cesare aveva esiliato suo fratello.
chi invidia i pochi che precedono ha alle spalle tanta gente che
invidia lui. Tuttavia l’insaziabilità umana è tanto grande che, per
molto che ci sia stato dato, l’aver potuto ricevere di più diventa
un torto subìto. «Mi ha dato la pretura, ma io mi aspettavo il con-
solato; mi ha fatto avere i dodici fasci, ma non mi ha eletto con-
sole ordinario; ha fatto in modo che l’anno prendesse nome da
me, ma non mi ha sostenuto nella mia aspirazione al sacerdozio;
sono stato cooptato nel collegio sacerdotale, ma perché in uno
solo? Ha condotto a coronamento la mia carriera, ma non ha ag-
giunto nulla al mio patrimonio; mi ha dato ciò che doveva pur
dare a qualcuno, ma di tasca sua non ci ha messo niente.» Rin-
grazia piuttosto per ciò che hai ricevuto, aspetta il resto e gioisci
di non essere ancora soddisfatto, poiché fra i piaceri c’è anche
quello che ti resti qualcosa in cui sperare. Se hai vinto tutti, gioi-
sci di essere al primo posto nel cuore del tuo amico; se molti ti
superano, considera quanto più numerosi sono quelli che ti se-
guono di quelli che ti precedono. Vuoi sapere qual è il tuo difet-
to maggiore? Fai dei conti sbagliati, perché stimi molto ciò che
dài e poco ciò che ricevi.
36. Tutti i sensi devono essere guidati alla saldezza; essi sono re-
sistenti per natura, se smette di guastarli l’animo, che ogni gior-
no deve essere chiamato alla resa dei conti. Sestio, finita la gior-
nata, quando si ritirava per dormire, aveva l’abitudine di doman-
dare alla sua coscienza: «Quale tua malattia hai guarito oggi? A
qual vizio hai opposto resistenza? Sotto quale aspetto sei miglio-
re?». L’ira cesserà e sarà più misurata sapendo di doversi pre-
sentare ogni giorno in tribunale. Che c’è mai di più bello di que-
sta abitudine di pesare l’intera giornata? Che bel sonno viene
dopo l’esame di se stesso, quanto sereno, profondo e libero,
quando l’animo ha riscosso una lode o un biasimo, e fattosi os-
servatore e censore della sua condotta, ha fatto un’indagine sui
propri costumi! Mi avvalgo di questa facoltà e ogni giorno com-
paio al tribunale della mia coscienza. Allontanata dalla vista la
lucerna, quando mia moglie, che è ormai al corrente della mia
abitudine, fa silenzio, allora io esamino attentamente la mia inte-
ra giornata e passo in rassegna le mie azioni e le mie parole: nul-
la mi nascondo, su nulla chiudo un occhio. Perché dovrei temere
qualcuno dei miei errori, potendo dire: «Bada di non farlo più,
per questa volta ti perdono. In quella discussione sei stato trop-
po polemico: d’ora innanzi non venire a disputa con gli ignoran-
ti; chi non ha mai imparato non vuole imparare. Quel tale l’hai
redarguito con più franchezza del dovuto, e così non lo hai cor-
retto, ma offeso: per il futuro rifletti non solo se è vero quello
che dici, ma se è tollerante della verità colui al quale lo dici: il
buono gioisce d’essere ripreso, mentre la peggior feccia non sop-
porta affatto una guida».
27
Ennio (239-169 a.C.), autore di tragedie, commedie e d’un poema
epico-storico in 18 libri, gli Annales, che cantava la storia di Roma dalle
sue mitiche origini ai tempi del poeta.
28
Ortensio (114-56 a.C.), fu grande oratore di scuola asiana, amico di Ci-
cerone e suo avversario nel processo contro Verre, di cui sostenne la difesa.
29
Diogene di Babilonia, nato a Seleucia verso il 240 a.C., fu scolaro di
Crisippo. Si interessò di fonetica e linguistica, di logica e fisica. Fece parte,
con Carneade e Critolao, di una ambasceria che si recò a Roma nel 156 per
conto degli Ateniesi; contro i tre parlò Catone e ne ottenne l’espulsione.
30
Il Lentulo qui ricordato è Publio Cornelio Lentulo Sura, partigiano
di Catilina, arrestato e giustiziato a Roma per ordine di Cicerone.
Non oseremo ammansire con buone parole l’ira al suo primo
insorgere, quando è sorda e folle, ma le daremo tempo. I farmaci
giovano nella fase di rilassamento; così non curiamo gli occhi
gonfi muovendoli, poiché stimoleremmo la forza che li irrigidi-
sce, né gli altri malanni mentre sono nella fase acuta: il riposo è il
farmaco per i mali al loro inizio. «Bell’efficacia ha la tua cura»
dirai tu «se calma l’ira che già sta sbollendo di per sé!» Anzi tut-
to giova a farla smettere prima, poi evita che sia recidiva e vani-
ficherà quello stesso impulso che non osa placare: rimuoverà tut-
ti gli strumenti di vendetta, fingerà l’ira per avere, come aiutante
e compagno di dolore, maggior autorità nel dar consigli, tempo-
reggerà e, nel cercare una vendetta più grande, rimanderà quella
immediata. Con ogni ritrovato darà tregua alla follia: se sarà
troppo impetuosa, le incuterà un rispetto cui non possa resistere,
oppure paura; se alquanto debole, ricorrerà a discorsi graditi o
nuovi e la distrarrà facendo leva sul desiderio di conoscere. Si di-
ce che un medico, dovendo curare la figlia del re e non potendo-
lo fare senza intervento chirurgico, nel palpare dolcemente la
mammella gonfia, vi infilò il bisturi nascosto sotto la spugna; la
ragazza che si sarebbe opposta se quell’intervento fosse stato
scoperto, poiché non se l’aspettava, riuscì a sopportare il dolore.
Ci sono mali che si guariscono solo con l’inganno.
40. A uno dirai: «Bada che la tua irascibilità non rechi piacere ai
tuoi nemici», a un altro: «Bada di non compromettere la tua
grandezza d’animo e quella forza che i più ti riconoscono. Sono
davvero sdegnato e non trovo limite al dolore, ma bisogna dar
tempo al tempo; la pagherà. Ricordatene in cuor tuo e quando
potrai, lo ripagherai con gli interessi». Invece punire una perso-
na adirata è come spingerla ad adirarsi di più: la prenderai in
modo vario e affabile, a meno che tu non abbia una personalità
tale da poter distruggere la sua ira, come fece il divo Augusto in-
vitato a pranzo da Vedio Pollione. Uno schiavo aveva rotto un
vaso di cristallo; Vedio ordinò di prenderlo per sottoporlo a un
insolito tipo di morte, darlo cioè in pasto alle grosse murene che
allevava in una piscina. Si penserebbe che lo facesse a scopo di
lusso, ed era invece crudeltà. Lo schiavo si sottrasse all’arresto e
si rifugiò ai piedi di Cesare, per chiedere soltanto di poter mori-
re diversamente e di non fare da esca ai pesci. Cesare rimase im-
pressionato da quell’inaudita crudeltà, lo fece liberare e ordinò
di rompere in sua presenza tutte le coppe di cristallo e di riem-
pirne la piscina. L’imperatore doveva castigare l’amico in questo
modo e fece buon uso del suo potere: «Tu ordini che un essere
umano sia arrestato a tavola e straziato con una pena di nuovo
tipo? Per un tuo vaso rotto, verranno squarciate le viscere di un
uomo? Sarai dunque tanto pieno di te da condannare un uomo
in presenza di Cesare?». Chi ha tanto potere da attaccare l’ira
dall’alto in basso, la tratti male, ovviamente quando si tratta di
un tipo quale ho descritto, bestia feroce e sanguinaria, ormai in-
guaribile, se non prova paura di fronte a uno più potente.
43. Perché piuttosto non fai tesoro della breve vita e non la ren-
di serena a te e agli altri? Perché non ti mostri a tutti amabile
finché vivi, e degno di compianto dopo la morte? Perché tenti di
tirar giù quel tipo che ti tratta dall’alto in basso? Perché cerchi
di logorare con le tue forze quel tipo che ti abbaia dietro, indub-
biamente di bassa condizione e spregevole, ma aspro e fastidioso
con i superiori? Perché te la prendi con lo schiavo, col padrone,
col re, col cliente? Resisti un poco: ecco che viene la morte a ren-
dervi uguali. Siamo soliti vedere negli spettacoli antimeridiani
del circo la lotta del toro e dell’orso legati l’un l’altro; quando si
sono strapazzati a vicenda, li attende l’uomo destinato a finirli:
così facciamo noi, provocando qualcuno che è legato a noi, ben-
ché sul vinto e sul vincitore incomba la fine, per giunta imminen-
te. Vediamo invece di trascorrere tranquilli e pacifici quel po’ di
tempo che ci resta; nessuno guardi di malocchio il nostro cada-
vere. Spesso a sciogliere una rissa basta che si dia l’allarme per
un incendio scoppiato nelle vicinanze, e l’arrivo d’una fiera pone
fine alla zuffa fra viandante e borseggiatore; non c’è tempo per
affrontare i mali minori quando si presenta una paura maggiore.
Che ci importa di contese e agguati? Nulla più della morte puoi
augurare alla persona che è bersaglio della tua ira. Ebbene,
morrà anche se te ne stai con le mani in mano. Sciupi la tua fati-
ca se vuoi ciò che comunque accadrà. Mi dirai: «Ma io non vo-
glio proprio uccidere, ma colpire con l’esilio, con l’infamia, col
danno». Fra chi augura al suo nemico una ferita e chi una pusto-
la, preferisco perdonare il primo, poiché il secondo non solo è
malvagio ma anche meschino. Sia che tu abbia in programma i
castighi estremi, sia quelli più lievi, per quanto tempo mai colui
sarà tormentato dalla sua pena e tu coglierai una gioia maligna
della pena altrui! Ben presto esaleremo quest’anima. Intanto,
finché respiriamo e siamo tra gli uomini, mostriamoci umani e
non rechiamo paura e pericolo a chicchessia. Disprezziamo i
danni, le offese, gli insulti, le provocazioni, e sopportiamo con
animo grande le contrarietà di breve durata: nel tempo che ci
voltiamo indietro e ci rivoltiamo, come dicono, si compirà il no-
stro destino di mortali.
SULLA FELICITÀ*
* Tratto da: Seneca, Sulla felicità, Bur, Milano 1996. Traduzione e note
di Donatella Agonigi
1
Gallione è Anneo Novato, fratello maggiore di Seneca: aveva preso il
nome dal retore Giunio Gallione che lo adottò. Fece una brillante carriera
senatoria e morì fatto assassinare da Nerone nel 65 a.C. A lui Seneca de-
dicò anche il De ira.
comporti mali peggiori del conformarsi all’opinione pubblica,
considerando migliore quello che è accolto da più largo consen-
so. E siccome non ci mancano gli esempi, si finisce per vivere non
secondo ragione ma imitando gli altri. Per questo motivo è tanto
grande la massa di persone che crollano una sull’altra. Come
succede in una strage, quando la folla si schiaccia (nessuno, in-
fatti, cade senza trascinare almeno un altro e i primi sono la ro-
vina di quelli che seguono), così accade nella vita: nessuno sba-
glia soltanto per sé ma diventa motivo e occasione di errore per
altri. È pericoloso, infatti, appoggiarsi a chi precede e, dal mo-
mento che ciascuno preferisce affidarsi piuttosto che esprimere
un parere proprio, in particolare riguardo alla vita non si espri-
me mai un parere, ci si affida sempre. Così ci sconvolge e ci fa
precipitare un errore che passa di mano in mano. Ci roviniamo a
seguire l’esempio degli altri. Solo stando alla larga dalla folla po-
tremo salvarci. Ma ora il popolo, privo di buon senso, si fa difen-
sore del suo stesso male. Così capita come nei comizi, quando a
meravigliarsi che certuni siano stati eletti pretori sono gli stessi
che li hanno votati, una volta che il favore popolare (che è mute-
vole) è cambiato. Approviamo una cosa e la disapproviamo su-
bito dopo: ecco il risultato di un parere espresso in base all’opi-
nione della maggioranza.
2
La clamide era un mantello corto in uso presso i Greci.
torturandosi da solo, di certo ammetterà la verità e dirà: «non
avessi mai fatto quello che ho fatto, se ripenso a quello che ho
detto invidio i muti, ogni desiderio lo credo ora una maledizione
dei miei nemici, ogni timore, o dèi buoni, ha finito per essere più
tollerabile di ciò che ho bramato! Sono stato nemico di molti e,
se può esistere riconciliazione tra malvagi, mi sono riconciliato,
dopo tanto odio. Ma ancora non sono amico di me stesso. Ho fat-
to di tutto per distinguermi dalla massa e farmi notare per qual-
che merito e cos’altro ho ottenuto a parte essermi esposto alle
frecciate e offrire il fianco all’invidia? Li vedi questi che lodano
l’eloquenza, inseguono la ricchezza, accarezzano i favori, esalta-
no il potere? Tutti costoro o sono nemici o lo possono diventare,
che è lo stesso. Tanti sono gli ammiratori altrettanti gli invidiosi.
Perché piuttosto non ricerco un bene da godere, da sentire inti-
mamente invece che da ostentare? Tutte queste cose che attira-
no la nostra attenzione, davanti alle quali ci fermiamo e che, am-
mirati, ci mostriamo a vicenda, splendono di fuori ma dentro so-
no misere».
7. Anche quelli che hanno detto che il sommo bene risiede nei
piaceri vedono in quale posto vergognoso l’hanno relegato. Per
questo affermano che il piacere non può essere separato dalla
virtù e sostengono che non vive con onore chi non vive anche
con piacere e che non vive con piacere chi non vive anche con
onore. Non vedo come si possano accoppiare cose tanto diver-
se. Per quale ragione, vi chiedo, non si può separare il piacere
dalla virtù? Forse perché il principio di ogni bene deriva dalla
virtù e dalle sue radici nasce anche quello che voi amate e desi-
derate? Ma se piacere e virtù non fossero separati non esiste-
rebbero cose piacevoli ma disonorevoli né cose onorevolissime
ma difficili e che si raggiungono solo a prezzo di sofferenze.
Aggiungi poi che il piacere si accompagna anche alla vita più
vergognosa ma la virtù non ammette una vita disonesta, poi che
alcuni sono infelici non perché privi di piaceri ma proprio a
causa dei piaceri: cosa che non accadrebbe se il piacere fosse
mescolato alla virtù che spesso ne è priva ma mai ne ha biso-
gno. Perché volete mettere insieme cose diverse, anzi opposte?
La virtù è qualcosa di alto, eccelso, regale, invincibile, infatica-
bile, invece il piacere è una cosa bassa, servile, debole, effimera
e sta di casa nei bordelli e nelle taverne. La virtù la troverai nel
tempio, nel foro, nella curia, a difesa delle mura, impolverata,
accaldata e coi calli alle mani. Il piacere se ne sta quasi sempre
nascosto, in cerca del buio intorno ai bagni e alle stufe, nei luo-
ghi che hanno paura degli edili,3 fiacco, snervato, madido di vi-
no e di profumi, pallido, imbellettato e imbalsamato come un
cadavere. Il sommo bene è immortale, non conosce fine, non dà
sazietà né rimorso perché la mente retta non cambia, non pro-
va odio per se stessa, non modifica ciò che è già ottimo. Al con-
trario il piacere si esaurisce sul più bello, è limitato perciò sazia
subito, viene a noia e dopo il primo slancio si affloscia. Non può
3
Magistrati incaricati dell’ordine pubblico.
essere stabile quello che per natura è in movimento.4 Allo stes-
so modo non può avere nessuna consistenza quello che va e
viene in un baleno, destinato a finire nell’attimo stesso in cui si
consuma: infatti tende al punto in cui cessa e quando comincia
ha già presente la fine.
8. E poi perché mai il piacere esiste tanto tra i buoni che tra i
malvagi e gli scellerati godono della loro infamia come gli onesti
delle buone azioni? Per questo gli antichi ci hanno insegnato a
seguire la vita migliore e non la più piacevole, in modo che il pia-
cere sia compagno e non guida di una buona e retta volontà. È la
natura infatti che dobbiamo prendere come guida: a lei si rivolge
la ragione, a lei chiede consiglio. Allora vivere felici e secondo
natura è lo stesso. Ti spiego cosa intendo: se sapremo conservare
con cura e serenità le doti fisiche e le inclinazioni naturali come
beni di un solo giorno e fugaci, se non saremo loro schiavi né
soggetti al potere delle cose esterne, se le occasionali gioie del
corpo per noi avranno lo stesso posto che hanno le truppe ausi-
liarie e quelle armate alla leggera nell’esercito (devono servire
non comandare), allora di certo saranno utili alla mente. L’uomo
non deve lasciarsi corrompere e dominare dagli eventi esterni e
deve fare affidamento solamente su se stesso,
4
Epicuro distingueva tra un piacere in movimento e uno stabile che è
l’assenza di dolore.
5
Notevole l’accostamento Dio/ragione.
deve fare la nostra mente: anche quando seguendo i sensi si spin-
ge all’esterno deve avere il controllo su questi e su se stessa. In
questo modo si realizzerà una forza unica e un’armonia tra le
sue facoltà e nascerà quella razionalità sicura che è senza con-
traddizioni e che non ha incertezze sulle sue opinioni, conoscen-
ze e convinzioni, quella razionalità che, quando si è organizzata
ed è concorde in tutte le sue parti e, per così dire, agisce all’uni-
sono, allora ha toccato il sommo bene. Perché non c’è più niente
di riprovevole, niente di incerto, niente che la faccia inciampare
e scivolare. Farà tutto secondo il proprio volere e non gli capi-
terà nulla che non abbia previsto. Tutte le sue azioni avranno
buon esito in modo facile, agevole e senza ripensamenti: infatti,
pigrizia e indecisione denotano contrasto e incoerenza. Perciò si
può affermare senza esitazione che il sommo bene è l’armonia
dell’animo, infatti le virtù dovranno stare dove c’è accordo e
unità: sono i vizi che non vanno d’accordo.
9. «Ma anche tu» mi puoi dire «non coltivi la virtù per altro se
non perché speri di ricavarne qualche piacere.» Per prima cosa,
anche se la virtù procurerà piacere, non è per questo che la si
cerca. Infatti non procura piacere ma anche piacere e non si af-
fatica per questo ma la sua fatica, per quanto miri ad altro, ha
come conseguenza anche questo. Come in un campo seminato a
frumento nascono qua e là i fiori ma non è per queste piantine
(anche se sono belle da guardare) che è stata fatta tanta fatica
(diverso era il proposito di chi seminava, il resto è venuto da sé),
allo stesso modo il piacere non è il prezzo né la causa della virtù
ma un suo accessorio e non piace perché diletta, ma, se piace, al-
lora diletta. Il sommo bene consiste proprio nella convinzione e
nel comportamento di una mente perfetta che, quando ha com-
piuto il suo corso e fissati i suoi limiti, ha pienamente realizzato
il sommo bene e non desidera niente di più: fuori del tutto non
esiste nulla, nulla oltre la fine. Per questo sbagli a chiedere il mo-
tivo che mi spinge ad aspirare alla virtù: cerchi qualcosa al di so-
pra di ciò che è sommo. Vuoi sapere cosa mi aspetto dalla virtù?
La virtù. Infatti non ha nulla di più prezioso del suo stesso valo-
re. Ti sembra poco? Se ti dico: «il sommo bene è la fermezza di
un animo saldo e la sua previdenza e la sua elevatezza e il suo
equilibrio e la sua libertà e la sua armonia e la sua dignità», pre-
tendi ancora qualcosa di più grande cui riferire questi beni? Per-
ché mi nomini il piacere? Io cerco il bene dell’uomo non del ven-
tre che, del resto, è più capiente negli animali.6
11. Quando dico che non faccio nulla per il piacere mi riferisco
a quel sapiente al quale soltanto concediamo il piacere. Ma non
chiamo sapiente chi ha qualcosa sopra di sé, tantomeno il piace-
re. Perché, se è tutto preso da questo, come farà a resistere alla
fatica, al pericolo, alla povertà e alle tante minacce che strepita-
no intorno alla vita umana? Come potrà sopportare la vista del-
la morte, come i dolori, come il rumore del mondo e di nemici
tanto violenti se cede davanti a un avversario così debole?
«Farà tutto ciò che il piacere lo persuaderà a fare.» Ma via, non
6
Per gli epicurei il ventre era il centro di tutti i piaceri.
7
Arroganza e superbia erano vizi attribuiti agli epicurei.
vedi di quante cose lo persuaderà? «Non potrà persuaderlo di
niente di turpe» puoi dire «perché è unito alla virtù.» Ma anco-
ra non vedi che razza di sommo bene è se ha bisogno di un guar-
diano per essere un bene? Come potrà la virtù guidare il piace-
re mentre lo segue se è ai subordinati che tocca seguire e ai co-
mandanti guidare? Tu metti in coda chi comanda. Ha davvero
un illustre incarico la virtù secondo voi: assaggiare i piaceri! Ma
vedremo se la virtù, da loro così maltrattata, sarà ancora virtù
perché non può conservare il suo nome se ha abbandonato il
suo posto. Intanto, per restare in argomento, ti mostrerò molti
uomini assediati dai piaceri che la sorte ha coperto di tutti i suoi
doni ma che, devi riconoscere, sono malvagi. Guarda Nomenta-
no e Apicio8 che vanno a ricercare i beni (così li chiamano loro)
della terra e del mare e fanno sfilare sulla mensa animali di ogni
paese; li vedi che dal trono adorno di rose contemplano la loro
tavola e si deliziano le orecchie al suono dei canti, gli occhi con
spettacoli e il palato con ghiottonerie. Hanno tutto il corpo ca-
rezzato da stoffe morbide e delicate e, per evitare che le narici
nel frattempo restino inerti, viene impregnato dei più svariati
profumi il luogo dove la dissolutezza si celebra. Puoi dire che
sono in mezzo ai piaceri ma non ne ricaveranno un bene perché
non godono di un bene.
12. «Sarà male per loro» dirai «perché interverranno molte cose
a sconvolgere l’animo e le opinioni contrastanti renderanno in-
quieta la mente.» È così, te lo concedo. Comunque, anche se stol-
ti e volubili e soggetti al pentimento, proveranno grandi piaceri
al punto che si deve ammettere che sono lontani allo stesso mo-
do da qualsiasi inquietudine e serenità e, come succede ai più,
sono preda di un’allegra follia e impazziscono dalle risate. Al
contrario i piaceri dei saggi sono miti e pacati, quasi affievoliti,
controllati e appena percettibili in quanto sopraggiungono senza
che siano stati chiamati e, nonostante si presentino da sé, non so-
no accolti con onore né con particolare gioia da chi li riceve. In-
fatti il saggio li mescola con la vita come il gioco e il divertimen-
8
Cassio Nomentano dissipò milioni di sesterzi in cene. Apicio Celio fu
un famoso esperto di arte culinaria vissuto sotto Tiberio. Scrisse un tratta-
to, De re coquinaria, ricettario in dieci libri.
to con le cose serie. La devono smettere, allora, di associare cose
incompatibili e di confondere piacere e virtù. È con questo vizio
che lusingano gli uomini peggiori. Chi si è lasciato andare in
mezzo ai piaceri e va ruttando sempre ubriaco, siccome sa di vi-
vere col piacere, crede di vivere anche con la virtù: infatti sente
dire che virtù e piacere non possono essere separati e così fregia
i suoi vizi col nome di sapienza ed esibisce ciò che dovrebbe na-
scondere. Non è Epicuro che li spinge a essere dissoluti, sono lo-
ro che, dediti al vizio, nascondono in grembo alla filosofia la loro
dissolutezza e si precipitano dove sentono che si loda il piacere.
Non considerano però quanto sia sobrio e moderato il piacere di
Epicuro (questo, per Ercole, è quello che penso io) ma accorro-
no al solo nome, sperando di trovare giustificazione e copertura
per le loro dissolutezze. Così perdono anche l’unico bene che
possedevano fra tanti mali: il pudore del peccato. Infatti lodano
ciò per cui arrossivano e si vantano del vizio. E non può neppure
risvegliarsi il pentimento perché si è dato un nome nobile a una
turpe ignavia. Per questo è pericolosa l’esaltazione del piacere,
perché i nobili insegnamenti restano nascosti e le fonti di corru-
zione emergono.
14. La virtù vada avanti per prima e sia lei a portare le insegne.
Avremo comunque il piacere ma potremo dominarlo e farne uso
moderato: qualche volta ci indurrà a cedere ma mai potrà co-
stringerci. Quelli che invece hanno messo al primo posto il pia-
cere restano privi di tutti e due: la virtù la perdono e il piacere
non sono loro a tenerlo in pugno, al contrario è il piacere che tie-
ne in pugno loro perché se manca li tormenta, se è in eccesso li
soffoca. Infelici se li abbandona, ancor più infelici se li travolge.
Come chi viene sorpreso dalla tempesta nel mar delle Sirti,10 o
finisce come un relitto sulla riva o resta in balìa della violenza
delle onde. È questo il risultato della troppa intemperanza e del-
l’amore cieco per qualche cosa. Infatti chi preferisce il male al
9
Era il simbolo dei Galli sacerdoti della dea Cibele. Spesso evirati, usa-
vano indossare abiti femminili.
10
Si tratta di due grandi insenature sulle coste dell’Africa considerate
pericolose per i bassi fondali.
bene corre dei rischi se ottiene il suo scopo. Con fatica e non sen-
za pericolo andiamo a caccia di fiere e, anche dopo averle cattu-
rate, dobbiamo stare molto attenti perché spesso sbranano i pa-
droni; così sono i grandi piaceri: vanno a finire in grandi disgra-
zie e chi li possiede ne è posseduto. E poi, quanto più sono nu-
merosi e grandi tanto più è meschino e servo di più padroni l’uo-
mo che il volgo chiama felice. Mi sembra bello soffermarmi an-
cora su questa immagine di caccia: chi va a stanare belve e consi-
dera gran cosa
11
Rutilio Rufo (160-77 a.C.) fu uomo insigne per l’integrità dei costu-
mi e seguace dello Stoicismo. Esiliato ingiustamente, in segno di protesta
non volle tornare a Roma neanche quando Silla lo richiamò. Il suo nome è
più di una volta associato a quello di Catone nelle opere di Seneca.
12
Demetrio cinico, di lui Seneca cita spesso le massime.
13
Filosofo epicureo non altrimenti noto.
14
Epicuro non proibisce il suicidio al sapiente tuttavia non ne fa, come
gli stoici e Seneca in particolare, un cardine della sua dottrina.
tutta un’esistenza trascorsa ormeggiato nel porto. Ha pronuncia-
to parole che avete ascoltato malvolentieri, quasi vi si fosse chie-
sto di fare altrettanto:
20. «I filosofi non fanno quello che dicono.» E invece fanno già
molto a dire quello che dicono e che pensano onestamente. Se
poi il comportamento fosse all’altezza delle parole, chi sarebbe
più felice di loro? Intanto non sono da disprezzare le parole buo-
ne e l’animo colmo di buone intenzioni. Coltivare benefiche in-
clinazioni è comunque lodevole al di là del risultato. Niente di
strano se non arriva in cima chi ha tentato una scalata difficile.
Se sei un uomo guarda con rispetto a chi si cimenta in grandi
prove, anche se fallisce. Un animo nobile, senza contare sulle
proprie forze, ma su quelle che la sua natura gli può fornire, cer-
15
L’immagine non è chiara e tutto il brano di interpretazione incerta. Le
croci sono verosimilmente metafora degli attacchi contro chi coltiva la virtù.
ca di mirare in alto e di concepire progetti irrealizzabili per chi
non abbia un animo davvero grande. Chi si è proposto questo:
«guarderò in faccia la morte con lo stesso stato d’animo che ho
quando ne sento parlare, sopporterò qualsiasi fatica con forza
d’animo, disprezzerò le ricchezze, ci siano o non ci siano e non
sarò più triste o più superbo a seconda che brillino intorno a me
o altrove. Tratterò con indifferenza la sorte favorevole e quella
avversa. Guarderò tutte le terre come se fossero mie, le mie co-
me se fossero di tutti. Vivrò nella convinzione di essere nato per
gli altri e ringrazierò la natura per questo: come avrebbe potuto
agire meglio nel mio interesse? Ha dato me a tutti gli altri e tutti
gli altri a me solo. Se poi avrò qualcosa non sarò spilorcio ma
neanche scialacquatore. Crederò veramente mio quello che ho
fatto bene a donare e non valuterò i benefici dal numero o dal
peso ma dalla stima che avrò per chi li riceve: non sarà mai trop-
po quello che potrò dare a chi lo merita. Farò tutto secondo co-
scienza senza basarmi sull’opinione degli altri e, anche se sarò
solo io a sapere quello che faccio, mi comporterò come se tutti
mi potessero vedere. Mangerò e berrò soltanto per soddisfare i
miei bisogni naturali e non per riempirmi e svuotarmi lo stoma-
co. Sarò affabile con gli amici e mite e indulgente con i nemici.
Cercherò di prevenire ogni richiesta dignitosa e di anticipare
ogni preghiera. Considererò il mondo la mia patria e gli dèi la
mia guida, loro che sempre sono presenti e giudicano ogni mio
gesto e ogni mia parola. E quando la natura verrà a riprendersi
la mia anima o sarà la ragione a decidere di lasciarla libera,16 me
ne andrò potendo dire di aver sempre amato la rettitudine mo-
rale e i nobili intenti senza aver mai limitato la libertà di nessuno
e tanto meno la mia». Chi si prefiggerà questi obiettivi, deside-
rerà di raggiungerli e farà tutto il possibile, percorrerà la strada
che porta al cielo e, anche se non conquisterà la vetta,
Ma voi che odiate la virtù e chi la coltiva non fate davvero nien-
te di nuovo. Anche chi ha problemi agli occhi non sopporta la lu-
ce e gli animali notturni evitano lo splendore del giorno. Non ap-
16
Allusione al suicidio, ammesso dagli stoici.
pena sorge il sole corrono a nascondersi nelle loro tane e, per ti-
more della luce, si rifugiano in qualche fessura. Lagnatevi, spre-
cate il fiato a insultare i buoni, spalancate la bocca, mordete, vi
spezzerete i denti senza neppure lasciare il segno.
21. Com’è che quel tale è dedito alla filosofia eppure è tanto ric-
co? Perché dice che si devono disprezzare i beni materiali, però
ne ha, giudica spregevole la vita, però è vivo, spregevole la salu-
te, però cerca di preservarla con ogni riguardo e la desidera per-
fetta? E perché, ancora, giudica l’esilio una parola senza senso e
dice: «Che male c’è a cambiare paese?» però, se gli riesce, invec-
chia in patria? E ancora, sostiene che non c’è nessuna differenza
tra una vita lunga e una breve, però, se niente glielo impedisce,
cerca di vivere il più a lungo possibile e di mantenersi vigoroso e
sereno durante la lunga vecchiaia? Afferma che tutte queste so-
no cose spregevoli, non nel senso che non si debbano possedere
ma possedere senza ansie, non le respinge ma, se svaniscono, va
avanti tranquillo. D’altra parte la sorte dove meglio metterà al
sicuro le ricchezze se non dove potrà andarle a riprendere senza
che chi le restituisce si lamenti? Marco Catone, anche se lodava
Curio e Coruncanio17 e i bei tempi in cui possedere un po’ d’ar-
genteria era un reato punito dai censori, aveva di suo quattro mi-
lioni di sesterzi: senza dubbio meno di Crasso ma più di Catone
il censore. Per fare un paragone, aveva superato il bisnonno18 più
di quanto Crasso avesse superato lui e, se anche gli fosse capita-
to di entrare in possesso di altri beni, certo non li avrebbe rifiu-
tati. Infatti il saggio non crede di non meritare i doni della sorte:
non ama le ricchezze ma le accetta volentieri, le lascia entrare
nella sua casa non nella sua anima e non le respinge, anzi, le tie-
ne e fa in modo che offrano maggiori occasioni alla sua virtù.
17
Curio Dentato che sconfisse i Sanniti, i Sabini e Pirro divenne simbo-
lo di frugalità e di rispetto delle patrie virtù. Tiberio Coruncanio fu il pri-
mo pontefice massimo di origine plebea.
18
Catone il Censore (234-149) fu famoso per l’integrità dei costumi.
Era appunto il bisnonno di Catone l’Uticense.
povertà. Nella povertà l’unica possibile virtù sta nel non farsi
piegare o schiacciare, nella ricchezza, invece, hanno campo libe-
ro temperanza, generosità, accortezza, ordine e magnificenza. Il
saggio non avrà poca stima di sé se sarà di bassa statura, tuttavia
desidererà essere alto. Anche se gracile e privo di un occhio
manterrà la consapevolezza del suo valore, preferirà tuttavia es-
sere robusto, senza però dimenticare che i valori che ha in sé so-
no ben altri. Sopporterà la malattia ma si augurerà la salute. In-
fatti ci sono molte cose che, anche se nel complesso risultano di
poco conto e possono venire a mancare senza danno per il bene
principale, tuttavia procurano qualche vantaggio alla serenità
duratura che deriva dalla virtù. Così le ricchezze sono gradite al
saggio: come un vento favorevole ai naviganti, come una giorna-
ta di sole nel freddo dell’inverno. E poi nessuno tra i sapienti (in-
tendo fra i nostri per cui la virtù è l’unico vero bene) sostiene
che anche questi vantaggi, che definiamo indifferenti, non abbia-
no un loro proprio valore e che alcuni non siano preferibili ad
altri: li consideriamo di maggiore o minore pregio. Non ti ingan-
nare: la ricchezza è tra i vantaggi più desiderabili. «Allora» dirai
«perché mi deridi se per te ha la stessa importanza che per me?»
Vuoi vedere che non è proprio la stessa importanza? Se le mie
ricchezze dovessero svanire, non mi porteranno via altro che lo-
ro stesse, tu, invece, resterai stordito e ti sentirai privato di te
stesso, se ti dovessero abbandonare: per me le ricchezze hanno
una certa importanza, per te una grandissima. Infine le ricchezze
appartengono a me, tu, al contrario, appartieni a loro.
24. Sbaglia chi pensa che donare sia facile: tutt’altro, presenta
grandi difficoltà se lo si fa in modo sensato e non a caso o per
istinto. Con qualcuno vado a credito, con qualcun altro mi sdebi-
to, a questo vengo incontro, di questo, invece, ho compassione.
Do un aiuto a quell’altro che non merita che la fame gli impedi-
sca di pensare, a questo invece non darò proprio niente anche se
ne avrebbe bisogno perché, per quanto possa dargli, gli man-
cherà sempre qualcosa. Con qualcuno poi mi limiterò a offrire,
altri insisterò perché accettino. Non posso dare con leggerezza
perché quando dono faccio il mio migliore investimento. Dirai:
«Allora dai per ricevere?». «No, per non perdere»: si deve fare
in modo che un dono non debba essere rinfacciato ma possa es-
sere restituito. Il favore va trattato come un tesoro che si tiene
gelosamente nascosto e non si tira fuori se non è proprio neces-
sario. E poi anche la casa stessa dell’uomo ricco offre infinite oc-
casioni di fare del bene. Chi dice che bisogna essere generosi so-
lo con la gente di rango? La natura mi impone di fare del bene
agli uomini, schiavi o liberi che siano, nati liberi o no. Che diffe-
renza fa se è una libertà legale o concessa per amicizia? Dove
c’è un uomo c’è anche la possibilità di fare del bene. Si possono
fare elargizioni in danaro anche tra le mura di casa ed esercitare
la liberalità, che non si chiama così perché è rivolta a uomini li-
beri ma perché scaturisce da un animo libero. L’uomo saggio non
rivolge mai la sua generosità verso chi non la merita, ma la sua
fonte è inesauribile ogni volta che incontra qualcuno che invece
la merita. Pertanto, non è possibile che fraintendiate le parole
rette forti e coraggiose di colui che persegue la saggezza. Ma sta-
te bene attenti: una cosa è cercare di diventare saggi e un’altra
esserlo. Quello dirà: «Parlo bene ma mi dibatto ancora tra mol-
tissime difficoltà. Non mi puoi mettere a confronto con i miei
princìpi quando io faccio del mio meglio, cerco di migliorare e
aspiro a un ideale davvero grande. Solo quando avrò fatto i pro-
gressi che ho intenzione di fare potrai confrontare quello che di-
co con quello che faccio». Chi invece sarà arrivato alla perfezio-
ne parlerà diversamente: «Prima di tutto non ti puoi permettere
di dar giudizi su chi è migliore di te». Finisco per essere malvisto
dai malvagi e già questa è la prova che sono nel giusto. Ma per
darti una spiegazione, che non si nega a nessuno, ascolta quello
che sto per dirti e che valore do io a ciascuna cosa. Dico che le
ricchezze non sono beni: se lo fossero farebbero diventare buo-
ni. Ora, mi rifiuto di definire bene ciò che si può trovare anche
tra persone malvagie. D’altra parte sono convinto che posseder-
le sia lecito, utile e che migliori la qualità della vita.
19
Allusione al celebre trasformismo di Giove che sedusse Leda sotto le
spoglie di un cigno, Europa sotto quelle di un toro. Tra i numerosi adulteri
si ricorda quello con Alcmena da cui nacque Ercole. E ancora Giove rapi-
tore di Ganimede e usurpatore del trono e uccisore del padre Saturno.
20
Il sistro veniva usato nelle cerimonie in onore di Iside; i coribanti, se-
guaci di Cibele, si incidevano le braccia. Seneca rimpovera la stupidità del-
la superstizione.
27. Ed ecco Socrate che dal carcere purificato dalla sua presen-
za e reso più onorabile di qualsiasi curia, proclama: «Che follia è
questa, che istinto avverso agli uomini e agli dèi, di disonorare la
virtù e con voci maligne profanare cose sacre? Se potete lodate
le persone virtuose, se non potete astenetevi. Se però vi piace far
mostra della vostra vergognosa insolenza insultatevi fra voi.
Quando vi infuriate contro il cielo, non dico che commettete
un’empietà ma che sprecate fatica. Un tempo ho dato modo ad
Aristofane21 di prendersi gioco di me. Tutta quella banda di poe-
ti comici mi ha scagliato contro le sue battute velenose: ma la
mia virtù ha acquistato splendore proprio grazie ai colpi che
hanno cercato di ferirla. Infatti le ha giovato essere messa in mo-
stra e alla prova e nessuno ne ha capito il valore come chi, non
dandole tregua, ne ha sperimentato la forza. Nessuno come i ta-
gliapietre conosce la durezza della roccia. Dimostro di essere co-
me uno scoglio solo in mezzo a una secca che le onde flagellano
continuamente da ogni parte, ma neanche secoli di ripetuti as-
salti possono smuoverlo o scalfirlo. Assalitemi dunque, attacca-
temi: vi vincerò sopportandovi. Chi si scaglia contro uno scoglio
irremovibile e insuperabile rivolge la forza a suo danno. Perciò
cercate un bersaglio molle e cedevole dove conficcare le vostre
frecce. Ma voi avrete il tempo di andare a scovare i difetti degli
altri e di dar giudizi su chiunque: “Perché questo filosofo ha una
casa così grande? Perché questo offre pranzi così eleganti?”. Sta-
te a guardare i brufoli degli altri e voi siete pieni di piaghe. È co-
me se uno divorato da una scabbia tremenda deridesse nei e ver-
ruche in un corpo perfetto. Biasimate Platone perché ha mirato
al danaro, Aristotele perché lo ha accettato, Democrito perché
non l’ha tenuto in nessun conto, Epicuro perché ne ha fatto spre-
co. Anche a me rinfacciate Alcibiade e Fedro,22 però sareste feli-
cissimi appena vi capitasse di imitare i miei vizi. Perché piuttosto
non guardate ai vostri difetti che vi assillano, a volte colpendo
dall’esterno a volte bruciandovi nelle viscere. Non dura così a
21
È il più grande rappresentante della antica commedia greca (450-358
a.C.), che si prese gioco di Socrate, soprattutto nell’opera Le nuvole. Ana-
loghi attacchi gli furono mossi da Eupoli e da altri commediografi.
22
Discepoli di Socrate. Non risulta chiaro il rimprovero: si allude forse
all’omosessualità.
lungo la vita umana (anche se voi non siete consapevoli della vo-
stra condizione) da lasciare il tempo per dar fiato ai denti offen-
dendo chi è migliore di voi».
28. Questa è una cosa che voi non capite e assumete un atteg-
giamento che non si addice alla vostra condizione, come tutti
quelli che stanno senza far nulla al circo o a teatro e ancora non
sanno che, intanto, la loro casa è in lutto. Ma io, che guardo dal-
l’alto, vedo quante tempeste minacciano di rovesciarsi a mo-
menti su di voi con i loro nembi o, ormai vicinissime, stanno per
trascinare via voi e le vostre ricchezze. E non tra poco, già ora,
anche se non ve ne accorgete, un vortice travolge le vostre ani-
me che anche mentre cercano di sfuggire non rinunciano ai lo-
ro desideri e, ora vengono sollevate in alto, ora sprofondate
nell’abisso.23
23
L’ultima parte dell’opera è perduta.
LA VITA RITIRATA*
* Tratto da: Seneca, La fermezza del saggio. La vita ritirata, Bur, Milano
2001. Traduzione e note di Nicola Lanzarone
Mi dirai: «Che dici, Seneca? Abbandoni il tuo partito? Certo i
vostri stoici affermano: “Fino al termine ultimo della vita sare-
mo impegnati nell’agire, non smetteremo di servire il bene co-
mune, di aiutare i singoli, di portare aiuto anche ai nemici perso-
nali pur con la debole mano dei vecchi. Noi siamo quelli che non
danno il congedo a nessuna età della vita, e, come dice quell’uo-
mo dotato di grandissima eloquenza,
noi siamo quelli presso i quali non c’è spazio alcuno per l’ozio pri-
ma della morte fino a tal punto che, se le circostanze lo permetto-
no, neppure la morte è inoperosa”. Perché ci parli di precetti epi-
curei tra i princìpi stessi di Zenone? Perché, se ti rincresce il tuo
partito, non passi completamente all’altro piuttosto che tradir-
lo?». Per il momento ti risponderò così: «Pretendi forse da me an-
cor di più che mostrarmi simile alle mie guide? Che, dunque? Io
andrò non dove esse mi manderanno, ma dove mi condurranno».
1
Le Vestali erano sacerdotesse della dea Vesta, scelte dal pontefice
massimo tra le fanciulle dell’aristocrazia dai sei ai dieci anni di età. Il loro
sacerdozio durava trent’anni: dieci come allieve, dieci come ministre del
culto, dieci come maestre.
bo di Zenone o di Crisippo, ma perché l’argomento stesso mi
permette di aderire al loro parere, dato che, se si segue sempre
quello di uno solo, non si è più in senato, ma in una fazione. Vo-
lesse il cielo davvero che sapessimo già tutto e la verità fosse
chiara e indubitata e in nulla cambiassimo la dottrina! Ma ora
noi cerchiamo la verità con quelli stessi che la insegnano.
Le due scuole degli epicurei e degli stoici sono in grandissimo
dissenso anche su questo argomento, ma entrambe, per vie di-
verse, indirizzano alla vita appartata. Epicuro dice: «Il saggio
non prenderà parte alla vita dello Stato, a meno che non inter-
venga qualche novità straordinaria»; Zenone dice: «Prenderà
parte alla vita dello Stato, a meno che qualche ostacolo non glie-
lo impedisca». L’uno cerca la vita ritirata di proposito, l’altro per
un motivo particolare; ma quel motivo è molto ampio. Se lo Sta-
to è troppo corrotto perché lo si possa soccorrere, se è nelle ma-
ni dei malvagi, il saggio non si adopererà invano né si sacrifi-
cherà senza poter minimamente essere utile; se avrà poca auto-
rità o scarse forze e lo Stato non sarà intenzionato ad accoglier-
lo, se la cattiva salute lo ostacolerà, come non calerebbe in mare
una nave sconquassata, come non si arruolerebbe per il servizio
militare essendo invalido, così non intraprenderà una strada che
saprà essere per lui impraticabile. Anche colui, dunque, cui tutto
è ancora impregiudicato, prima di sperimentare alcuna sciagura,
può rimanere al sicuro e darsi subito alla virtù e trascorrere una
vita completamente ritirata, coltivando le virtù che possono es-
sere praticate pure da chi si tiene del tutto lontano dalla vita
pubblica. All’uomo si richiede appunto questo, che giovi agli al-
tri uomini; se è possibile, a molti, se no, a pochi, se neanche que-
sto può avvenire, giovi a chi gli è più vicino, se non è possibile, a
se stesso. Difatti, quando si rende utile agli altri, compie un’ope-
ra di interesse comune. Come chi diventa peggiore è dannoso
non solo a sé, ma anche a tutti coloro ai quali avrebbe potuto
giovare, se fosse diventato migliore, così chiunque renda un
buon servizio a sé, per ciò stesso giova agli altri, poiché prepara
un uomo che in futuro potrà essere loro utile.
2
I primi tre scolarchi della Stoa, tra l’altro, non potevano accedere alla
vita pubblica ateniese, poiché erano stranieri, originari rispettivamente di
Cizio, Asso, Soli.
3
Epicuro, come chiariscono le righe seguenti. I due precedenti riferi-
menti sono, rispettivamente, all’indirizzo accademico-peripatetico e a
quello stoico.
stessa scuola sostenitrice del piacere si impegna nell’agire. Per-
ché non dovrebbe farlo, visto che lo stesso Epicuro dice che
qualche volta rinuncerà al piacere, e si accosterà anche al dolo-
re, se il piacere sarà minacciato dal pentimento o se sceglierà
un dolore minore al posto di uno più gravoso? A quale scopo
mira questo discorso? A che diventi chiaro che tutti apprezza-
no la contemplazione; altri la ricercano per se stessa, per noi,
invece, essa è il luogo nel quale momentaneamente ci trovia-
mo, non il nostro approdo ultimo.
4
Nel 323 a.C., alla morte di Alessandro, si ebbe in Atene una reazione
antimacedone: Aristotele, considerato un collaboratore dei Macedoni, e
sentitosi, quindi, minacciato, lasciò Atene.
5
A differenza dei Romani, i Cartaginesi trattavano da schiave le città,
le comunità vinte, precludendo loro la possibilità di una integrazione, di
una parificazione con i vincitori, e sfruttandole senza limite dal punto di
vista economico.
6
Si può cogliere un accenno allo Stato ideale delineato da Platone.
ti, poiché non è in nessun luogo quella sola condizione che po-
teva essere preferita alla vita ritirata. Se qualcuno afferma che
la cosa migliore è navigare, e poi dice che non bisogna navigare
in quel mare nel quale avvengono di solito naufragi e spesso si
verificano improvvise tempeste che trascinano il timoniere in
direzione contraria, suppongo che costui mi proibisca di salpa-
re, benché elogi la navigazione. ***
LA TRANQUILLITÀ DELL’ANIMO*
2
Sono i padri dello stoicismo. Zenone, nato a Cizio nell’isola di Cipro,
e passato ad Atene, vi fondò attorno al 301 a.C. la scuola detta Stoà poikíle
(= portico variopinto), dal portico, appunto, sotto il quale si tenevano le le-
zioni. Cleante di Asso fu allievo e successore di Zenone come caposcuola;
a lui successe Crisippo di Soli nella medesima funzione.
3
Anche questo precetto, che Seneca include più volte nelle sue opere,
appartiene al patrimonio del pensiero cinico; è noto viceversa che per i
Romani l’aspirazione alla gloria rappresentava un ideale pienamente le-
gittimo, in quanto realizzazione di una forma laica di trascendenza.
ad uso personale, non perché si sappia in giro: occorre minor fa-
tica a coloro che si applicano per l’oggi». Ma di nuovo quando
l’animo si eleva per la grandezza delle cose che pensa, si fa am-
bizioso anche nella ricerca delle parole e cerca di respirare e di
parlare con maggiore sostenutezza e il discorso che vien fuori si
conforma alla grandezza dei concetti; allora, dimentico della re-
gola e del mio gusto più misurato mi faccio trasportare più in al-
to e «parlo con bocca non più mia».
Per non dilungarmi sui singoli aspetti, in tutte le occasioni mi
accompagna questa incostanza di senno. ... Temo di scivolare giù
a poco a poco o, cosa più preoccupante, di essere sempre in bili-
co come chi sta per cadere e che la situazione sia forse peggiore
di quella che vedo io; infatti guardiamo con bonomia le cose che
ci riguardano e la simpatia offusca sempre il giudizio. Penso che
molti avrebbero potuto raggiungere la saggezza, se non avessero
ritenuto di averla raggiunta, se non si fossero nascosti qualche
loro manchevolezza, se non avessero sorvolato su qualcosa chiu-
dendo gli occhi. Infatti non c’è ragione di credere che noi andia-
mo in rovina più per l’adulazione altrui che per la nostra. Chi è
che ha mai osato dirsi la verità? Chi è che posto tra branchi di
elogiatori e lusingatori non si è fatto tuttavia egli stesso grandis-
simo adulatore di sé? Ti prego dunque, se hai un qualche rime-
dio con cui tu possa por fine a questo mio fluttuare, di ritenermi
degno di dovere a te la mia tranquillità. Che non siano pericolo-
si questi moti dell’animo e che non portino con sé nessun vero
sconvolgimento lo so; per esprimerti ciò di cui mi lamento con
una similitudine appropriata, non sono tormentato da una tem-
pesta, ma dal mal di mare: toglimi dunque questo malessere,
quale che sia, e vieni in aiuto di un naufrago che ancora tribola
già in vista della terraferma.
4
Si è in dubbio sull’identificazione precisa di questo personaggio: c’è
chi pensa ad Atenodoro di Tarso, discepolo di Posidonio, frequentatore a
Roma della corte di Augusto; viceversa potrebbe trattarsi dell’omonimo
filosofo stoico, chiamato a Roma da Catone l’Uticense.
che promuove i candidati e difende gli accusati e decide della
pace e della guerra, ma anche colui che esorta i giovani, che in
tanta carenza di buoni insegnamenti instilla la virtù negli ani-
mi, che sa bloccare e tirare indietro quelli che si gettano di cor-
sa verso il denaro e il consumo sfrenato e, se non altro, almeno
li trattiene, costui in privato svolge un compito di ordine pub-
blico. Ma fa forse di più colui che tra i forestieri e i concittadini
o in qualità di pretore urbano5 a quanti gli si rivolgono pronun-
cia le parole di un assistente rispetto a chi dice che cosa sia la
giustizia, che cosa il senso del dovere, che cosa la sopportazio-
ne, che cosa la forza d’animo, che cosa il disprezzo della morte,
che cosa la nozione degli dèi, che bene sicuro e incondizionato
sia la buona coscienza? Dunque, se convertirai agli studi il tem-
po che avrai saputo sottrarre ai doveri pubblici, non avrai di-
sertato né ti sarai sottratto al tuo servizio. Infatti non milita sol-
tanto chi è sul campo e difende l’ala destra e quella sinistra, ma
anche chi sorveglia le porte e si vale di una postazione meno
pericolosa, ma non certo oziosa e osserva i turni di guardia e ha
la responsabilità dell’arsenale; i quali compiti, benché siano in-
cruenti, sono nel novero dei servizi militari. Se saprai richia-
marti agli studi, fuggirai ogni forma di fastidio della vita e non
desidererai che venga la notte per noia della luce, non sarai di
peso a te stesso né di troppo per gli altri; attrarrai molti nella
tua amicizia e tutti i migliori verranno da te. Infatti la virtù non
resta mai in incognito, per quanto nascosta, ma manda segni di
sé: chiunque ne sarà degno, la recupererà dalle tracce. Infatti se
eliminiamo ogni frequentazione degli altri e rinunciamo al ge-
nere umano e viviamo concentrati unicamente in noi stessi,
farà seguito a questo stato di solitudine priva di ogni interesse
la mancanza di cose da fare: cominceremo a costruire edifici e
a distruggerne altri, e a sconvolgere il mare e a condurre corsi
d’acqua contro le difficoltà dei luoghi e a distribuire male il
5
Il riferimento è alla figura del praetor urbanus che era incaricato di
amministrare la giustizia nelle questioni interne alla cittadinanza romana:
analogo ruolo per le questioni tra chi aveva la cittadinanza romana e chi
no era ricoperto dal praetor peregrinus. L’assistente, o adsessor, è una figu-
ra che compare, a quanto possiamo ricostruire dalle nostre testimonianze,
in età imperiale, sotto Claudio: suo compito era quello di preparare la sen-
tenza che il praetor avrebbe reso poi ufficiale, dandone lettura.
tempo che la natura ci ha dato da impiegare. Alcuni di noi ne
fanno uso con parsimonia, altri con prodigalità; alcuni di noi lo
spendono in modo da poterne rendere conto, altri in modo da
non lasciarne alcun residuo, cosa di cui niente è più vergogno-
so. Spesso una persona molto anziana non ha nessun altro ar-
gomento con cui provare di essere vissuta a lungo se non l’età.»
6
Con tribunal si intendeva propriamente il palco spettante ai magistra-
ti, i rostra erano invece le tribune destinate agli oratori e prendevano il no-
me dai rostri, appesi come trofeo, delle navi nemiche degli Anziati sconfit-
ti nel 338 a.C.; i comitia erano le assemblee del popolo: l’esclusione da que-
sti luoghi e occasioni pubblici vuole significare l’esclusione della vita poli-
tica nelle sue varie manifestazioni.
ti sarà mai preclusa una parte così grande che una più grande
non ti sia lasciata. Ma fa’ attenzione che tutto questo non sia
un tuo difetto; infatti non vuoi amministrare lo stato se non da
console o da pritano o da araldo o da suffete.7 Che dire se tu ri-
fiutassi di combattere se non da generale o da tribuno? Anche
se altri occuperanno la prima fila, e la sorte ti avrà posto fra i
triarii,8 combatti dunque con la voce, con l’esortazione, con l’e-
sempio, con il coraggio: anche con le mani tagliate colui che
tuttavia resiste e fa opera di sostegno con le grida trova nella
battaglia modo di aiutare il suo partito. Fa’ qualcosa di simile:
se la sorte ti allontanerà dalla posizione di primo piano nello
stato, resisti tuttavia e fa’ opera di sostegno con le grida e, se
qualcuno ti chiuderà la bocca, resisti tuttavia e fa’ opera di so-
stegno col silenzio. Non è mai inutile l’opera di un buon citta-
dino: ascoltato e visto, col volto col cenno con la tacita determi-
nazione e con la stessa andatura aiuta. Come certe cose saluta-
ri giovano indipendentemente dal gusto e dal tatto con l’odore,
così la virtù dispensa la sua utilità anche da lontano e di nasco-
sto. Sia che possa spaziare e disporre di sé a suo piacere, sia che
abbia sbocchi incerti e sia costretta a contrarre le vele, sia che
si trovi in ozio e muta e circoscritta in spazi ristretti, sia che ab-
bia libertà di espandersi, in qualsiasi condizione si trovi, giova.
Ritieni forse non abbastanza utile l’esempio di chi vive bene
stando appartato? Dunque è di gran lunga la cosa migliore me-
scolare l’ozio alle occupazioni, ogni volta che verrà preclusa la
vita attiva da impedimenti occasionali o dalla situazione della
città; mai infatti sono a tal segno impedite tutte le possibilità
che non ci sia spazio per alcuna azione onesta.
7
Il titolo di pritano, che poteva indicare genericamente chi ricopriva
una magistratura superiore, aveva avuto un significato particolare nella
Grecia arcaica e poi nell’Atene di Clistene, dove indicava uno dei rappre-
sentanti della sezione speciale della Boulé incaricata di preparare l’ordi-
ne del giorno. Gli araldi, già presenti in epoca omerica come aiutanti dei
re, conservarono anche in seguito in Grecia molta della loro originaria
importanza, assistendo i magistrati nelle assemblee e nei tribunali. Quan-
to ai suffeti, essi erano i due magistrati supremi, di incarico annuale, di
Cartagine.
8
Erano i soldati veterani, schierati in campo in terza fila, dietro gli ha-
stati e i principes.
5. Puoi forse trovare una città più infelice di quanto lo fu quella
degli Ateniesi, quando la dilaniavano i trenta tiranni?9 Avevano
ucciso milletrecento cittadini, tutti i migliori, e non per questo si
fermavano, ma era la stessa crudeltà che si fomentava da sola.
Nella città in cui si trovava l’Areopago,10 il più sacro dei tribuna-
li, nella quale si trovavano un senato e un popolo simile al sena-
to, si raccoglieva ogni giorno un tristo collegio di carnefici e la
curia infelice si faceva stretta per i tiranni che la affollavano:
avrebbe forse potuto vivere in tranquillità quella città in cui c’e-
rano tanti tiranni quanti avrebbero potuto essere gli sgherri?
Non si poteva presentare agli animi nemmeno un barlume di
speranza di riacquistare la libertà, né si profilava spazio ad alcun
rimedio contro tanta violenza di mali; da dove infatti recuperare
tanti Armodii11 per la povera città? Eppure c’era Socrate e con-
solava i senatori affranti, esortava quanti disperavano della re-
pubblica, ai ricchi che temevano a causa delle loro ricchezze rim-
proverava il tardivo pentimento di una cupidigia foriera di peri-
colo e a quanti erano desiderosi di imitarlo andava portando un
grande esempio, col suo incedere libero fra i trenta dominatori.
Tuttavia quest’uomo la stessa Atene lo uccise in carcere, e la Li-
bertà non tollerò la libertà di colui che aveva sfidato la schiera
compatta dei tiranni: sappi pure che anche in uno stato oppresso
c’è la possibilità per un uomo saggio di manifestarsi, e in uno fio-
rente e felice regnano la sfrontatezza l’invidia e mille altri vizi
che rendono inerti. Dunque, comunque si presenterà la repub-
blica, comunque lo permetterà la sorte, così o esplicheremo le
nostre possibilità o le contrarremo, in ogni modo ci muoveremo
e non ci intorpidiremo paralizzati nel timore. Anzi, sarà davvero
un uomo colui che, mentre incombono pericoli da tutte le parti,
9
Seguita alla sconfitta nella battaglia di Egospotami (404 a.C.) e alla
conseguente resa agli Spartani, la dominazione dei trenta tiranni fu segna-
ta da una sequela di atrocità e violenze senza precedenti, che ne provoca-
rono in breve la caduta.
10
Era l’antico tribunale ateniese competente dei processi per reati di
empietà e che fungeva da suprema corte costituzionale.
11
Armodio ed Aristogitone erano diventati un modello della ribellione
antitirannica, avendo ucciso Ipparco, uno dei figli del tiranno Pisistrato, e
provocato la fuga dell’altro, Ippia (510 a.C.), liberando così la città da una
dominazione violenta e ingiusta.
mentre intorno fremono armi e catene, non infrangerà la virtù
né la occulterà; nascondersi infatti non significa salvarsi. A buon
diritto, a quel che penso, Curio Dentato12 diceva di preferire la
morte alla vita: è l’estremo dei mali uscire dal novero dei vivi
prima di morire. Ma, se ti sarai imbattuto in un periodo meno
agevole della vita politica, dovrai fare in modo di rivendicare più
spazio per l’ozio e gli studi letterari, e da dirigerti immediata-
mente verso il porto non diversamente che in una navigazione
pericolosa, non aspettando che sia la situazione ad allontanarti
ma facendo in modo da separarti tu da essa, di tua volontà.
12
Grande modello eroico della tradizione romana, Curio Dentato è il
console che con una vittoria decisiva pose fine alle guerre coi Sanniti nel
290 a.C. e che sconfisse Pirro a Malevento-Benevento nel 275 a.C.
le non sia facile ritirarsi; bisogna mettere mano a quelle faccen-
de cui si può porre una fine o di cui si può almeno sperarla, tra-
lasciare quelle che si spingono sempre più in là con l’azione e
non finiscono là dove ci si era proposti.
13
Si tratta naturalmente di Marco Porcio Catone, pronipote del Censo-
re, uomo politico di spicco dell’ultima repubblica: fu detto l’Uticense per-
ché morì suicida ad Utica nel 46 a.C. per sfuggire a ritorsioni dei cesariani,
e divenne modello di martirio per la libertà antitirannica. Per gli stoici egli
era l’esempio per eccellenza del sapiens, che sa opporre alle crudeli forme
di schiavitù che la vita infligge all’uomo l’affermazione tragica della pro-
pria superiore indipendenza.
14
Bione di Boristene, filosofo cinico vissuto nel III sec. a.C., era consi-
derato già dagli antichi uno dei padri della diatriba. Era noto per il parti-
colare piglio polemico, per la critica pungente contenuta nei suoi discorsi.
ho detto, e più facile non acquistare che perdere, e perciò vedrai
più felici coloro che mai la fortuna si è voltata a guardare di
quelli che ha abbandonato. Se ne avvide Diogene,15 uomo di
grande animo, e fece in modo che nulla potesse essergli tolto. Tu
chiama questo povertà, miseria, indigenza, da’ alla mancanza di
preoccupazioni quel nome vergognoso che vorrai: penserò che
costui non sia felice, se mi saprai trovare qualcun altro che non
perda nulla. O io mi sbaglio o essere re significa, tra avidi, cir-
conventori, ladri, ricettatori di schiavi, essere il solo a cui non si
possa nuocere. Se qualcuno mette in dubbio la felicità di Dioge-
ne, può allo stesso modo dubitare anche della condizione degli
dèi immortali, se vivano poco felicemente per il fatto che non
hanno né poderi né giardini né campi resi preziosi dal lavoro di
coloni mercenari né grandi proventi dall’usura. Non ti vergogni
di ammutolire, chiunque tu sia, davanti alle ricchezze? Guarda
dunque l’universo: vedrai gli dèi nudi, che dispensano tutte le
cose, non possedendone nessuna. Giudichi tu povero o simile
agli dèi immortali chi si è spogliato di tutti i beni legati alla sor-
te? Chiami forse più felice Demetrio Pompeiano,16 che non si
vergognò di essere più ricco di Pompeo? A lui, per il quale già
avrebbero dovuto costituire ricchezze due schiavi vicari e una
cella un po’ più grande, ogni giorno veniva rifatto l’elenco degli
schiavi come a un generale quello delle truppe. A Diogene inve-
ce scappò via l’unico schiavo ed egli non ritenne cosa così im-
portante riportarlo indietro, mentre gli veniva mostrato. «È ver-
gognoso» disse «che Mane possa vivere senza Diogene, e Dioge-
ne senza Mane non possa.» Mi sembra che abbia detto: «Occu-
pati dei tuoi affari, fortuna, ormai da Diogene non c’è più nulla
di tuo: mi è scappato lo schiavo, anzi me ne sono andato io, libe-
ro». La servitù chiede il vestiario e il vitto, occorre prendersi cu-
ra di tanti ventri di animali avidissimi, bisogna comprare la veste
e sorvegliare mani rapacissime, e utilizzare i servigi di gente che
15
Diogene di Sinope, altro illustre rappresentante del cinismo, visse nel
IV sec. a.C. ad Atene, poi a Corinto. Il tratto che ha consacrato più di tutti
il personaggio alla storia è l’ostentazione polemica di un modo di vita as-
solutamente essenziale e duramente ascetico nella ricerca puntigliosa del-
l’autosufficienza.
16
Liberto di Pompeo, proveniente da Gadara: la sua raffigurazione fa
pensare al modello principe della categoria dei liberti arricchiti.
piange e maledice: quanto più felice colui che non deve nulla a
nessuno, se non a chi può rifiutare nel modo più facile, a se stes-
so! Ma dal momento che non abbiamo tanta forza, almeno dob-
biamo limitare i patrimoni, per esser meno esposti ai capricci
della sorte. Sono più adatti alla guerra i corpi che possono ran-
nicchiarsi al riparo delle loro armi di quelli sovrabbondanti e che
la loro stessa grandezza ha esposto da ogni parte alle ferite: la
migliore misura del denaro è quella che né precipita in povertà
né si allontana molto dalla povertà.
17
L’episodio è legato a una rappresaglia di Cesare ai danni della città
che era stata teatro di un’insurrezione contro di lui (48-7 a.C.): il fuoco ap-
piccato alle navi che stringevano in assedio Cesare nel palazzo si sarebbe
propagato a dei magazzini ospitanti anche libri.
che non sei in grado di sciogliere né di rompere: pensa che gli
schiavi in ceppi in un primo tempo mal sopportano i pesi e gli
impedimenti delle gambe; quindi, una volta che si sono proposti
di non indignarsi per essi, ma di sopportarli, la necessità insegna
loro a sopportarli con fermezza, l’abitudine con docilità. In qual-
siasi genere di vita troverai divertimenti, distensioni e piaceri, se
vorrai giudicare lievi i mali piuttosto di renderteli odiosi. A nes-
sun titolo ci trattò meglio la natura che per questo: sapendo per
quali sofferenze nasciamo, trovò come lenimento delle disgrazie
l’assuefazione, ponendoci subito in familiarità con le sventure
più gravi. Nessuno potrebbe resistere, se la continuità delle av-
versità conservasse la stessa violenza del primo colpo. Tutti sia-
mo legati alla fortuna: la catena degli uni è d’oro, lenta, quella di
altri stretta e spregevole, ma che importa? La medesima custo-
dia ha stretto tutti e si trovano legati anche quelli che hanno le-
gato, a meno che tu non ritenga più leggera una catena nella si-
nistra.18 Uno lo tengono avvinto gli onori, un altro il patrimonio;
alcuni sono schiacciati dalla nobiltà, alcuni dalla condizione umi-
le; alcuni sono soggiogati dall’altrui potere, alcuni dal loro pro-
prio; alcuni li confina in un unico luogo l’esilio, alcuni la carica
religiosa:19 ogni vita è una schiavitù. Occorre dunque assuefarsi
alla propria condizione e lamentarsi il meno possibile di essa e
afferrare tutto ciò di buono che ha intorno a sé: non c’è nulla di
così aspro in cui un animo obiettivo non sappia trovare un
conforto. Spesso aree esigue si sogliono aprire a molti utilizzi per
l’abilità di chi le dispone e una disposizione accorta suole rende-
re abitabile anche il più piccolo spazio. Usa la ragione di fronte
alle difficoltà: le durezze possono addolcirsi, le strettoie allentar-
si, le situazioni gravi opprimere di meno chi le sopporta con ac-
cortezza. I desideri non vanno indirizzati a obiettivi lontani, ma
dobbiamo permettere loro uno sbocco vicino, dal momento che
non sopportano di essere del tutto bloccati. Abbandonati quegli
obiettivi che o non possono realizzarsi o lo possono con diffi-
18
Allusione al fatto che prigioniero e guardia erano legati da un’unica
catena, che passava attorno al polso destro dell’uno e quello sinistro del-
l’altro, come ammanettati.
19
C’erano sacerdoti che, per esempio, non potevano lasciare la città
durante la notte (i flamines Diales), ma c’erano anche le Vestali che subi-
vano per tutta la vita una condizione di segregazione.
coltà, perseguiamo mete situate vicino e che arridono alla nostra
speranza, ma manteniamo la consapevolezza che tutte sono
ugualmente inconsistenti, e all’esterno hanno aspetto diverso,
mentre all’interno sono parimenti vane. E non invidiamo quelli
che stanno più in alto: quelle che sembravano vette si sono rive-
late dirupi. Per converso quelli che una sorte contraria ha posto
in situazione incerta saranno maggiormente sicuri togliendo su-
perbia a cose superbe di per sé e cercando di portare il più possi-
bile in piano la loro situazione. Ci sono molti che per necessità
devono tenersi attaccati al loro rango, dal quale non possono
scendere se non cadendone, ma attestano che proprio questo è il
loro maggior onere, il fatto che sono costretti a essere di peso ad
altri, e che non sono stati messi su un piedistallo ma ci sono stati
inchiodati; con giustizia, mitezza, benevolenza, con mano prodi-
ga e generosa dovrebbero apprestare molte difese per i momen-
ti favorevoli, alla speranza nei quali potrebbero attaccarsi con
più sicurezza. Nulla tuttavia ci saprà mettere al riparo da queste
fluttuazioni dell’animo quanto fissare sempre un qualche termi-
ne ai nostri successi, e non concedere alla sorte l’arbitrio di smet-
tere, ma fermarci noi stessi decisamente molto al di qua; in que-
sto modo sia alcuni desideri stimoleranno l’animo sia, delimitati,
non spingeranno verso l’infinito e l’incerto.
20
È Publilio Siro, autore di mimi vissuto nel I sec. a.C.
21
La toga pretesta, propria dei magistrati e dei giovani nobili fino al rag-
giungimento dell’età virile, era ornata da fregi di porpora; le cinghie alludo-
no al tipo di calzari proprio dei senatori (da cui l’espressione idiomatica
«cambiarsi i calzari» come segno dell’ammissione al rango senatorio): essi
erano muniti appunto di cinghie in pelle che si legavano a metà polpaccio.
22
Il personaggio è un Sesto Pompeo, discendente di Pompeo Magno e
imparentato con l’imperatore Caligola (Gaio) attraverso la nonna mater-
na, che a sua volta era stata zia di Augusto.
la sua, mancarono il pane e l’acqua. Pur possedendo molti fiumi
che nascevano sul suo territorio, che vi sfociavano, andò mendi-
cando qualche goccia d’acqua; morì di fame e di sete nel palazzo
del parente, mentre a lui che soffriva la fame l’erede appaltava
esequie pubbliche. Hai ricoperto le più alte cariche onorifiche:
forse tanto alte o tanto insperate o tanto totalizzanti quanto
quelle di Seiano?23 Il giorno che il senato lo aveva scortato il po-
polo lo fece a pezzi; di colui sul quale gli dèi e gli uomini aveva-
no accumulato quanto era possibile accumulare, non rimase nul-
la che il carnefice potesse strappare. Sei re: non ti rimanderò a
Creso,24 che dovette vedere da vivo il proprio rogo e accendersi
e spegnersi, fatto superstite non solo al proprio regno, ma anche
alla propria morte, non a Giugurta,25 che il popolo romano poté
contemplare a spettacolo entro l’anno in cui ne aveva avuto pau-
ra: vedemmo Tolemeo re dell’Africa,26 Mitridate re dell’Arme-
nia27 tra le guardie di Gaio; l’uno venne mandato in esilio, l’altro
si augurava di esservi mandato con migliore garanzia. In tanto
profondo sconvolgimento di situazioni che volgono in alto e in
basso, se non consideri come destinato a succedere tutto ciò che
può succedere, dai forza contro te stesso alle avversità, che so-
gliono essere sconfitte da chi le vede prima.
23
Prefetto del pretorio e poi di fatto plenipotenziario dell’imparatore
Tiberio, soprattutto a partire dal ritiro di questi a Capri.
24
L’episodio – avvenuto a seguito della sconfitta patita dai Lidi, di cui
Creso era re, nel 546 a.C. ad opera di Ciro, re dei Persiani – risale a Erodoto.
25
La guerra contro il re di Numidia Giugurta si protrasse con alterne
vicende propriamente dal 111 al 109 a.C., ma fu preceduta da vari episodi
di conflittualità anche negli anni precedenti: Seneca parla di un anno solo
perché nella topica retorizzata dei rovesci di fortuna occorre mettere in ri-
lievo il rapido avvidendarsi delle sorti.
26
Si tratta del Tolemeo figlio del re Giuba II e di Cleopatra Selene, fi-
glia di Marco Antonio.
27
Mitridate d’Armenia venne chiamato a Roma da Caligola, che poi lo
trattenne prigioniero, e fu rimandato in patria da Claudio: qui, durante
conflitti di potere di natura anche dinastica, malgrado in un primo tempo
riuscisse ad avere la meglio sulle opposizioni interne, venne tradito dal
prefetto della guarnigione romana e assassinato.
ottenuto quel che volevamo non comprendiamo troppo tardi do-
po molta fatica la vanità dei nostri desideri, cioè che non spre-
chiamo fatica vana senza risultato o che il risultato non sia de-
gno della fatica; infatti da queste cose per lo più scaturisce tri-
stezza, se non c’è stato successo o se ci si vergogna del successo
ottenuto. Bisogna limitare l’andare in giro di qua e di là, che è
proprio di gran parte degli uomini che vagano per case per teatri
e per fori: si offrono di occuparsi degli affari degli altri, sembra
che abbiano sempre qualcosa da fare. Se chiederai a qualcuno di
questi mentre esce di casa: «Dove vai? che pensi?», ti risponderà:
«Non lo so, per Ercole; ma vedrò qualcuno, farò qualcosa». Van-
no vagando senza un proposito cercando occupazioni e non fan-
no le cose che avevano deciso ma quelle in cui si sono imbattuti;
è insensata e vana la loro corsa, quale quella delle formiche che
si arrampicano su per gli alberi, che vanno su fino alla cima e poi
di nuovo giù in basso senza frutto: in modo simile a queste con-
ducono la loro vita molte persone, per le quali non senza motivo
qualcuno parlerebbe di inoperosità inquieta. Commisererai al-
cuni quasi che stessero correndo verso un incendio: tanto spin-
gono quelli che si parano loro davanti e travolgono sé e altri,
mentre sono corsi o a salutare qualcuno che non ricambierà il
loro saluto o a seguire il funerale di un uomo ignoto o al proces-
so di uno che è spesso in contesa o alle nozze di una che si sposa
spesso e, dopo aver seguito la lettiga, in alcuni luoghi l’hanno
persino portata; quindi, tornando a casa con la loro stanchezza
inutile, giurano che non sanno loro stessi perché sono usciti, do-
ve siano stati, già pronti il giorno dopo a girovagare su quegli
stessi passi. Dunque ogni fatica deve riferirsi a qualche scopo,
deve riguardare qualche scopo. Non è l’operosità che li agita
rendendoli inquieti, ma sono le false immagini delle cose che li
agitano come pazzi; infatti nemmeno i pazzi si muovono senza
una qualche speranza: li attrae l’aspetto di una cosa, la cui incon-
sistenza la mente, presa nel suo delirio, non è riuscita a cogliere.
Allo stesso modo ognuno di costoro che escono senza scopo per
ingrandire la folla viene condotto in giro qua e là da motivi futi-
li; non avendo niente a cui applicarsi, il sorgere della luce lo cac-
cia fuori e, dopo che, calcate invano le soglie di molti, ha salutato
i nomenclatori, da molti lasciato fuori, a casa non si incontra con
nessuno, tra tutti, con più difficoltà che con se stesso. Da questo
male deriva quel vizio tristissimo, l’origliare e il curiosare tra gli
affari pubblici e privati e il venire a conoscenza di molte cose
che né si raccontano né si ascoltano senza rischi.
28
È Teodoro di Cirene, detto l’Ateo, contemporaneo di Socrate: fu per
un certo tempo ad Atene dove fece conoscere la scuola cirenaica e godette
della protezione di Demetrio Falereo. L’originale coerenza del suo pensie-
ro che negava fermamente ogni tipo di soluzione religiosa gli costò l’accu-
sa di empietà e il bando dalla città di Atene, che lo costrinse a ritornare a
Cirene dove fondò una scuola di filosofia.
29
Gaio è naturalmente Caligola, che viene assimilato al ben noto tiran-
no Falaride di Agrigento, passato anzi nell’aneddotica come il più crudele
di tutti i tiranni.
dicendo che hai vinto»; poi, facendo segno al centurione, disse:
«Sarai testimone che vincevo io di una mossa». Pensi tu che Ca-
no con quella scacchiera abbia davvero giocato? Si prese gioco.
Erano tristi gli amici che sapevano di perdere un tale amico:
«Perché siete tristi?» disse. «Voi vi chiedete se le anime siano im-
mortali: io lo saprò tra poco». E non smise di scrutare la verità
nemmeno alla fine e di fare della sua morte un argomento di di-
scussione. Lo accompagnava il suo filosofo e ormai non era lon-
tano il tumulo sul quale tutti i giorni si svolgeva un sacrificio in
onore del nostro dio Cesare: egli disse: «Che pensi ora, Cano? o
che intenzione hai?». «Mi sono proposto», disse Cano, «di osser-
vare in quel momento fuggevole se l’animo avrà la sensazione di
uscir fuori» e promise, se avesse sperimentato qualcosa, che
avrebbe fatto il giro degli amici e avrebbe loro indicato quale
fosse lo stato delle anime. Ecco la tranquillità nel mezzo della
tempesta, ecco l’animo degno dell’eternità, che chiama la sua
morte a testimonianza del vero, che collocato su quell’ultimo fa-
tale gradino interroga la sua anima mentre questa esce dal corpo
e si mette a imparare non solo fino alla morte ma qualcosa an-
che dalla stessa morte: nessuno ha filosofato più a lungo. Non di-
menticheremo frettolosamente un grand’uomo e ne dovremo
parlare con cura: ti consegneremo alla memoria di tutti i tempi,
o uomo insigne, tu parte così importante della strage di Gaio.
15. Ma non giova per nulla rimuovere le cause del dolore priva-
to; infatti ci prende talvolta l’odio per il genere umano. Quando
avrai pensato quanto sia rara la franchezza e quanto sconosciuta
l’innocenza e come la lealtà non si trovi se non quando convie-
ne, e vengono in mente la massa di tanti crimini felici e guadagni
e perdite derivanti dal piacere parimenti insopportabili, e l’am-
bizione che ormai fino a tal punto non si contiene nei suoi limiti
che splende attraverso la vergogna, l’animo è spinto nella notte
e come fossero stati sconvolti i valori, che né è lecito sperare né
conviene avere, spuntano le tenebre. A questo dunque dobbia-
mo rivolgerci, a che tutti i vizi della gente ci sembrino non odiosi
ma ridicoli ed ad imitare piuttosto Democrito che Eraclito. Co-
stui infatti, ogni volta che era stato in pubblico piangeva, quello
invece rideva, a costui tutto ciò che facciamo sembravano disgra-
zie, a quello sciocchezze. Occorre dunque saper sdrammatizzare
ogni cosa e sopportarla con animo indulgente: è più degno di un
uomo ridere della vita che piangerne. Aggiungi che acquista me-
riti maggiori per il genere umano chi ride piuttosto che chi pian-
ge: quello lascia ad esso una qualche speranza, costui invece
piange stoltamente delle cose che dispera possano essere corret-
te; e per chi contempla le cose nel loro insieme è di animo più
forte chi non trattiene il riso di chi non trattiene le lacrime, dal
momento che suscita un’emozione piacevolissima e in mezzo a
tanto apparato non ritiene nulla grande, nulla serio, nemmeno
misero. Ciascuno si ponga davanti agli occhi ad una ad una le co-
se per le quali siamo lieti e tristi e saprà che è vero ciò che disse
Bione, che tutte le cose che riguardano gli uomini sono del tutto
simili a inizi e che la loro vita non è più sacra o seria del loro con-
cepimento, e che nati dal nulla sono ricondotti al nulla. Ma è me-
glio accettare le abitudini comuni e i difetti umani serenamente
senza cadere né nel riso né nelle lacrime; infatti tormentarsi per
le disgrazie altrui significa infelicità infinita, provar piacere delle
disgrazie altrui un piacere disumano, così come quell’inutile atto
di compassione che è piangere perché qualcuno porta a seppelli-
re il figlio, e adattare a questa circostanza la propria espressione.
Anche nelle proprie disgrazie occorre comportarsi in modo da
concedere al dolore solo quanto la natura richiede, non quanto
le convenzioni; molti infatti versano lacrime per ostentazione e
hanno gli occhi asciutti ogni volta che manca il pubblico, poiché
giudicano vergognoso non piangere quando lo fanno tutti: tanto
profondamente si è consolidato questo vizio, quello di dipende-
re dall’opinione altrui, che diventa finzione anche un sentimento
tra i più naturali, il dolore.
16. Segue la parte che non senza motivo suole rattristare e met-
tere in ansia. Laddove la sorte dei buoni è cattiva, laddove So-
crate viene costretto a morire in carcere, Rutilio30 a vivere in esi-
lio, Pompeo e Cicerone a offrire il collo ai loro clienti, e proprio
30
Il personaggio di Publio Rutilio Rufo, politico e filosofo stoico, è
presente varie volte nelle opere di Seneca, come modello romano di virtù
e di eroica sopportazione di un destino ingiusto: l’aver attaccato duramen-
te la cattiva amministrazione dei cavalieri durante il proconsolato in Asia
Minore gli costò un processo nel 93 a.C. e la pena dell’esilio, sotto l’accusa
falsa di aver commesso intrighi politici.
Catone, ritratto vivente della virtù, gettandosi sulla spada, a ren-
dere chiaro il destino suo e della repubblica, è inevitabile tor-
mentarsi per il fatto che la sorte paga compensi tanto iniqui; e
allora che cosa potrebbe sperare ognuno per sé, vedendo che i
migliori subiscono il peggio? Che significa dunque? Guarda co-
me ciascuno di loro abbia saputo sopportare e, se furono forti,
impara a rimpiangerli con il loro stesso animo, se morirono con
la debolezza di una donna, non andò perso nulla: o sono degni
della tua ammirazione per la loro virtù, o sono indegni del tuo
rimpianto per la loro ignavia. Che c’è infatti di più vergognoso
che se gli uomini più grandi morendo con coraggio rendono gli
altri vili? Lodiamo chi è degno tante volte di lodi e diciamo:
«Tanto più sei forte, tanto più sei felice! Sei scampato a ogni di-
sgrazia, all’invidia, alla malattia; sei uscito di prigione; tu non sei
apparso agli dèi degno di una cattiva sorte, ma indegno di essere
ormai soggetto a un qualche colpo della sorte». Bisogna invece
costringere coloro che cercano di sottrarsi e in punto di morte si
voltano a guardare la vita. Non piangerò nessuno che è lieto, nes-
suno che piange: quello mi ha terso di sua iniziativa le lacrime,
questo con le sue lacrime si è reso indegno di alcuna altra. Io do-
vrei piangere Ercole, per il fatto che viene bruciato vivo, o Rego-
lo perché è trafitto da tanti chiodi, o Catone, perché ferisce le
sue ferite? Tutti costoro trovarono col sacrificio di un breve spa-
zio di tempo in che modo diventare eterni, e con la morte per-
vennero all’immortalità.
31
È il celebre intellettuale e uomo politico di età augustea, noto come
oratore, storico, poeta, nonché amico e raffinato critico letterario di Virgi-
lio. Fondò la prima biblioteca pubblica di Roma nel 40 a.C. L’aneddotica
lo ricordava come un uomo morigerato e temperante.
32
Secondo il computo degli antichi, le quattro del pomeriggio.
33
L’etimologia qui proposta non ha valore scientifico, ma è quella che
più si attaglia alle necessità del contesto.
34
Il fondatore della Nuova Accademia, vissuto all’incirca tra il 315 e il
241/40 a.C. Sostenne una linea di pensiero polemicamente diretta contro
la teoria dogmatica della conoscenza sostenuta dagli stoici.
biano accondisceso al vino, a Catone fu rinfacciata l’ebbrezza:
chiunque gliela rinfacci, potrà rendere più facilmente onesto un
vizio che turpe Catone. Ma non bisogna farlo nemmeno spesso,
in modo che l’animo non prenda una cattiva abitudine, e tuttavia
talvolta occorre spingerlo all’esultanza e alla libertà, e la triste
sobrietà va per un po’ abbandonata. Infatti sia che diamo retta
al poeta greco: «Talvolta è piacevole anche fare follie», sia a Pla-
tone: «Invano chi è padrone di sé bussa alla porta della poesia»,
sia ad Aristotele: «Non ci fu nessun grande ingegno senza un piz-
zico di follia»: non può esprimere qualcosa di grande e superiore
agli altri se non una mente eccitata. Una volta che ha disprezza-
to le cose usuali e comuni e per divina ispirazione si è elevata
più in alto, allora infine suole cantare qualcosa di più grande del-
le capacità umane. Non può attingere qualcosa di sublime e di
elevato finché rimane in sé: è necessario si stacchi dal consueto e
scarti verso l’alto e morda i freni e trascini il suo auriga e lo con-
duca là dove da solo avrebbe avuto paura di salire.
Tu hai, carissimo Sereno, i mezzi che possono difendere la
tranquillità, che possono restituirla, che resistono ai mali stri-
scianti; sappi tuttavia che nessuno di loro è sufficientemente
efficace per coloro che salvaguardano una situazione di debo-
lezza, a meno che una cura sollecita e assidua non circondi l’a-
nimo vacillante.
LA BREVITÀ DELLA VITA*
* Tratto da: Seneca, La brevità della vita, Bur, Milano 1993. Traduzione
e note di Alfonso Traina
1
Ippocrate (V-IV sec. a.C.).
2. Perché ci lagniamo della natura? Si è comportata generosa-
mente: la vita, se sai usarne, è lunga. Uno è in preda a un’avidità
insaziabile, uno alle vane occupazioni di una faticosa attività; uno
è fradicio di vino, uno è abbrutito dall’ozio; uno è stressato dal-
l’ambizione, che dipende sempre dai giudizi altrui, uno dalla fre-
nesia del commercio è condotto col miraggio di guadagni di terra
in terra, di mare in mare; alcuni, smaniosi di guerra, sono conti-
nuamente occupati a creare pericoli agli altri o preoccupati dei
propri; c’è chi si logora in una volontaria schiavitù, all’ingrato ser-
vizio dei potenti; molti non pensano che ad emulare l’altrui bel-
lezza o a curare la propria; i più, privi di bussola, cambiano sem-
pre idea, in balia di una leggerezza volubile e instabile e sconten-
ta di sé; a certuni non piace nessuna meta, a cui dirigere la rotta,
ma sono sorpresi dalla morte fra il torpore e gli sbadigli, sicché
non dubito che sia vero ciò che in forma di oracolo si dice nel più
grande dei poeti: «piccola è la parte di vita che viviamo». Sì: tutto
lo spazio rimanente non è vita, ma tempo. Incalzano e assediano i
vizi da ogni parte e non li lasciano risollevarsi o alzare gli occhi a
discernere il vero, ma col loro peso li tengono sommersi e inchio-
dati al piacere. Non hanno mai la possibilità di rifugiarsi in se
stessi; se gli tocca per caso un momento di riposo, come in alto
mare, dove anche dopo la caduta del vento continua l’agitazione,
ondeggiano e non trovano mai pace dalle loro passioni. Credi che
io parli di costoro, i cui mali sono alla luce del sole? Guarda quel-
li, la cui fortuna fa accorrere la gente: sono soffocati dai loro beni.
Per quanti le ricchezze sono un peso! A quanti fa sputar sangue
l’eloquenza e la quotidiana ostentazione del proprio ingegno!
Quanti sono terrei per continui piaceri! A quanti non lascia re-
spiro la calca dei clienti! Insomma, passa in rivista tutti costoro
dai più piccoli ai più grandi: questo chiede assistenza, questo la
dà, quello è imputato, quello difensore, quello giudice, nessuno ri-
vendica per sé la sua libertà, ci si logora l’uno per l’altro. Infór-
mati di costoro, i cui nomi s’imparano a mente, e vedrai che si ri-
conoscono a tali segni: questo corre dietro a quello, quello a quel-
l’altro, nessuno appartiene a se stesso. E poi che c’è di più insen-
sato dello sdegno di certuni? Si lagnano della boria dei potenti,
che non hanno tempo di riceverli. Ha il coraggio di lagnarsi del-
l’altrui superbia uno che non ha mai tempo per sé? Lui almeno,
chiunque tu sia, ti ha rivolto uno sguardo, sia pure con aria arro-
gante, lui ha abbassato l’orecchio alle tue parole, lui ti ha ammes-
so al suo fianco: tu non ti sei degnato di guardare dentro di te, di
ascoltare te. Non hai dunque ragione di rinfacciare ad alcuno co-
testi servigi, giacché li hai resi non per il desiderio di stare con al-
tri, ma per l’impossibilità di stare con te stesso.
2
Bruto e Cassio, uccisori di Cesare.
3
Lepido, collega con Antonio del triunvirato.
4
Antonio, suo cognato.
eserciti stanchi di strage romana contro gli stranieri. Mentre pa-
cificava le Alpi e domava i nemici annidati nel cuore della pace e
dell’impero, mentre portava i confini oltre il Reno, l’Eufrate e il
Danubio, proprio a Roma si affilavano contro di lui i pugnali di
Murena, di Cepione, di Lepido, di Egnazio, di tanti altri. Non era
ancora sfuggito alle loro insidie, e la figlia e tanti nobili giovani
uniti dal vincolo dell’adulterio come da un giuramento ne im-
paurivano la già stanca età, e più di loro e per la seconda volta
una donna temibile con un Antonio. Aveva resecato queste pia-
ghe insieme alle membra: ne nascevano subito altre; come in un
corpo troppo sanguigno, si produceva sempre qualche emorra-
gia. E così desiderava il tempo libero, in questa speranza e in
questo pensiero si acquetavano le sue fatiche, questo era il voto
di chi poteva esaudire i voti altrui.
5
Tribuno nel 91 a.C., associato alla politica sociale dei Gracchi, che
portò a gravi disordini.
la sua vita senza pace fin dagli inizi, dicesse che a lui solo neppu-
re da piccolo erano toccate vacanze. Osò infatti ancor minoren-
ne raccomandare gli imputati ai giudici e far sentire la sua in-
fluenza nel foro, con tanta efficacia che alcune sentenze risulta-
no da lui estorte. Dove sarebbe andata a finire un’ambizione co-
sì prematura? C’era da immaginarselo che sarebbe sfociata in
un disastro privato e pubblico un’intraprendenza così precoce.
Troppo tardi si lagnava di non aver avuto vacanze, turbolento fin
da piccolo e nocivo alla giustizia. Si discute se si sia suicidato: fe-
rito da un colpo improvviso all’inguine si accasciò, e c’è chi dubi-
ta che la sua morte fosse volontaria, nessuno che fosse opportu-
na. È superfluo ricordare i tanti che, fortunatissimi agli occhi de-
gli altri, testimoniarono contro di sé il vero detestando tutta l’at-
tività dei loro anni: ma con questi lamenti non mutarono né gli
altri né se stessi, giacché volate via le parole, i sentimenti torna-
no quelli di prima. La vostra vita, perdiana, superasse pure i mil-
le anni, si ridurrà a un punto: questi vostri vizi divoreranno ogni
secolo; e questo spazio di tempo che la natura fa correre ma la
ragione dilata, è inevitabile che vi sfugga presto. Non afferrate
né trattenete o ritardate la più veloce di tutte le cose, ma la la-
sciate andar via come inutile e ricuperabile.
7. Fra i primi annovero quelli che hanno tempo solo per il vino
e la libidine: nessuna occupazione è più vergognosa. Gli altri an-
che se si perdono dietro un fantasma di gloria, salvano almeno
l’apparenza; enumerami pure gli avari, gli iracondi, gli ostinati in
un odio o in una guerra ingiusta, i peccati di tutti costoro sono
più virili: la colpa di chi si dà al ventre e alla libidine è indecoro-
sa. Fruga tutti i loro giorni, considera quanto tempo perdano nel
fare i conti, quanto nel tramare, quanto nel preoccuparsi, quanto
nel corteggiare, quanto nell’essere corteggiati, quanto li tengano
occupati gli impegni giudiziari, propri e altrui, quanto i pranzi,
che ormai sono obblighi sociali: vedrai come non li lascino respi-
rare i loro mali o beni.
Infine tutti sono d’accordo che nessuna attività può essere bene
esercitata da un uomo affaccendato, non l’eloquenza, non le pro-
fessioni liberali, dal momento che l’animo deconcentrato non rece-
pisce nulla in profondità, ma tutto rigetta come cibo ingozzato.
Nulla è più estraneo all’uomo affaccendato del vivere: di nulla è
meno facile la conoscenza. Di insegnanti delle altre scienze ce ne
sono tanti, e alcune di esse sembra che i ragazzi le abbiano assimi-
late al punto di poterle anche insegnare: ci vuole tutta una vita per
imparare a vivere, e, ciò che forse ti stupirà di più, ci vuole tutta
una vita per imparare a morire. Tanti grandi uomini, lasciati tutti i
bagagli, dopo aver rinunciato a ricchezze cariche piaceri, non eb-
bero altro scopo fino all’ultima ora che saper vivere; eppure molti
di essi se ne andarono confessando di non saperlo ancora: figurarsi
se lo sanno costoro! È cosa di uomo grande e al di sopra degli er-
rori umani non farsi sottrarre nulla del proprio tempo, e la sua vita
è lunghissima proprio perché, qualunque fu la sua durata, è stata
tutta per lui. Nessun istante ne restò inutilizzato e inattivo, nessuno
alla mercé di altri: perché non trovò nulla che meritasse di essere
scambiato col suo tempo, e ne fu risparmiatore attentissimo. Perciò
gli fu sufficiente. Ma è inevitabile che sia mancato a quelli, della cui
vita molto portò via la gente. Non credere che prima o poi non si
rendano conto della loro perdita; di sicuro udrai la maggior parte
di quelli, su cui pesa una grande fortuna, tra le caterve dei clienti e
la gestione delle cause e le altre onorifiche miserie esclamare di
tanto in tanto: «Non mi è consentito vivere». E perché dovrebbe
esserlo? Tutti quelli che ti chiedono di assisterli, ti allontanano da
te. Quell’imputato quanti giorni ti ha portato via? Quanti quel can-
didato? Quanti quella vecchia stanca di seppellire eredi? Quanti
quello che si è finto malato per stuzzicare le brame dei cacciatori
di eredità? Quanti quel potente amico, che vi tiene non per amici-
zia, ma per mostra? Fa’ il bilancio, ripeto, fa’ la rivista dei giorni
della tua vita: vedrai che te ne sono avanzati ben pochi e di scarto.
Quello, ottenuta la carica agognata, non vede l’ora di deporla e non
fa che ripetere: «Quando passerà quest’anno?». Quello organizza i
giochi cui tanto teneva e dice: «Quando ne verrò fuori?». Quell’av-
vocato è conteso in tutto il foro e per ascoltarlo si accalcano fin do-
ve non è possibile udirlo: «Quando» dice «ci saranno le ferie?».
Ognuno brucia la sua vita e soffre per il desiderio del futuro, per il
disgusto del presente. Ma chi sfrutta per sé ogni ora, chi gestisce
tutti i giorni come una vita, non desidera il domani né lo teme. Non
c’è ora che possa apportare una nuova specie di piacere.Tutto è già
noto, tutto goduto a sazietà. Del resto la sorte disponga come
vorrà: la vita è già al sicuro. Le si può aggiungere, non togliere, e
aggiungere come del cibo a uno già sazio e pieno, che non ne ha
più la voglia ma ancora la capienza. Non c’è dunque motivo di cre-
dere che uno sia vissuto a lungo perché ha i capelli bianchi o le ru-
ghe: non è vissuto a lungo, ma è stato al mondo a lungo. Come cre-
dere che ha molto navigato chi la tempesta ha sorpreso all’uscita
dal porto menandolo qua e là in un turbine di venti opposti e fa-
cendolo girare in tondo entro lo stesso spazio. Non ha navigato
molto, ma è stato sballottato molto.
6
Papirio Fabiano, declamatore e seguace della scuola neopitagorica
dei Sestii.
gerle in fuga non con piccoli colpi ma con un assalto frontale:
mazzate ci vogliono, non punzecchiature. E tuttavia per potergli
rinfacciare il loro errore si deve ammaestrarli, non darli per
spacciati. La vita si divide in tre tempi: passato, presente, futuro.
Di essi il presente è breve, il futuro incerto, il passato sicuro. So-
lo su questo la fortuna ha perduto il suo potere, solo questo non
può essere ridotto in balia di nessuno. E proprio questo perdono
gli affaccendati: non hanno tempo di voltarsi a guardare il passa-
to, e, se ne avessero, non è piacevole il ricordo di un’azione che
rimorde. Perciò richiamano contro voglia alla memoria un tem-
po male impiegato e non hanno il coraggio di rievocare fatti i cui
vizi, anche quelli sottratti alla vista dal belletto di qualche piace-
re, a ritornarci su si manifestano. Nessuno, se non chi ha agito
sempre sotto il controllo della sua coscienza, che mai s’inganna,
si volge volentieri al passato; ma quello che ha avuto mire ambi-
ziose, atteggiamenti insultanti, vittorie smodate, una condotta
subdola, un’avidità insaziabile, una prodigalità illimitata, non
può non temere la sua memoria. Eppure questa è la parte del
nostro tempo sacrosanta e inviolabile, al di là di tutte le vicissitu-
dini umane, fuori del regno della fortuna; inattaccabile dalla mi-
seria, dalla paura, dalle malattie; non può essere sconvolta né
strappata: perpetuo e tranquillo ne è il possesso. Solo a uno a
uno sono presenti i giorni, e momento per momento; ma quelli
del passato si presenteranno tutti al tuo comando, si faranno esa-
minare e trattenere a tuo piacere: gli affaccendati non hanno
tempo di farlo. È privilegio di una mente serena e tranquilla spa-
ziare in ogni parte della sua vita; l’animo degli affaccendati, co-
me sotto un giogo, non può voltarsi e guardare indietro. Se ne va
dunque la loro vita in un abisso, e come non serve a nulla cerca-
re di riempire un vaso, se manca un fondo che riceva e tenga
quello che ci metti, così non ha importanza la quantità di tempo
concessa, se non c’è dove si depositi: passa attraverso animi le-
sionati e bucati. Il presente è brevissimo, tanto breve che ad al-
cuni sembra inesistente; infatti è sempre in corsa, scorre e preci-
pita; finisce prima di giungere, e non tollera soste più che l’uni-
verso o le stelle, il cui incessante movimento non resta mai nel
medesimo punto. Agli affaccendati dunque spetta solo il presen-
te, che è così breve da non potersi afferrare, e un presente che si
sottrae a chi è diviso tra molte occupazioni.
11. Insomma, vuoi sapere quanto poco vivono? Guarda quanto
desiderano vivere molto. Vecchi decrepiti si augurano e mendica-
no l’aggiunta di pochi anni: si fingono più giovani; accarezzano bu-
giarde illusioni e si compiacciono d’ingannarsi come se al tempo
stesso gabbassero i fati. Ma quando qualche infermità gli ricorda
di essere mortali, come muoiono spaventati, quasi non uscissero
dalla vita, ma ne fossero tirati fuori! Van gridando di essere stati
stolti, tanto da non aver vissuto, e, se la scampano, di voler vivere
in pace; solo allora riflettono all’inutilità di essersi procurate cose
che non avrebbero goduto, alla vanità di ogni loro fatica. Ma per
quelli che conducono una vita lontana da ogni faccenda, perché
non dovrebbe essere ricca di spazio? Niente ne è affidato ad altri,
niente sparpagliato qua e là, niente dato alla fortuna, niente per-
duto per inerzia, niente dissipato per prodigalità, niente inutilizza-
to: tutta è, per così dire, a frutto. Per quanto breve, dunque, è più
che sufficiente, e perciò, quando che venga l’ultimo giorno, il sag-
gio non esiterà ad andare alla morte con passo fermo.
12. Chiedi forse chi chiamo affaccendati? Non credere che tali
io dica solo quelli che ci vogliono i cani sguinzagliati per slog-
giarli dalla basilica, quelli che vedi soffocare o con più lustro nel-
la folla dei propri clienti o in modo più umiliante in quella dei
clienti altrui, quelli che i doveri sociali fanno uscire di casa per
schiacciarli contro le porte degli altri, o che l’asta del pretore fa
penare con un lucro disonorevole e destinato prima o poi a far
cancrena. Il tempo libero di certuni è affaccendato: nella loro vil-
la o nel loro letto, nel cuore della solitudine, per quanto si siano
appartati da tutti, danno fastidio a se stessi: la loro non deve dir-
si una vita sfaccendata, ma un ozioso affaccendarsi. Tu chiami
sfaccendato chi con tormentosa pignoleria colleziona bronzi co-
rinzi, preziosi per colpa di pochi fanatici, e spreca la maggior par-
te dei suoi giorni fra lamine rugginose? Chi in palestra (che scan-
dalo! non sono neppur romani i vizi di cui soffriamo) se ne sta a
guardare lotte di ragazzi? Chi divide i branchi dei propri giu-
menti in coppie di eguale età e colore? Chi mantiene i campioni
del giorno? Di’ un po’, chiami sfaccendati quelli che trascorrono
molte ore dal barbiere, mentre si strappa un pelo spuntato nel-
l’ultima notte, mentre si tiene un consulto su ogni capello, men-
tre o si rimette a posto la chioma spettinata o si riporta da un la-
to e dall’altro sulla fronte stempiata? Come si arrabbiano, se il
barbiere è stato un po’ disattento, pensando di tosare un ma-
schio! Come danno in escandescenze, se si taglia qualcosa dalla
loro criniera, se c’è qualcosa fuori posto, se tutto non ricade in
anelli regolari! Chi c’è di costoro che non preferirebbe vedere in
disordine lo stato piuttosto che la loro pettinatura? Che non si
preoccupa più dell’aspetto che dell’incolumità della testa? Che
non preferisce uscire ben pettinato che ben costumato? E tu
chiami sfaccendati questi affaccendati tra il pettine e lo spec-
chio? E quelli dediti a comporre, ascoltare, imparare canzoni?
Spezzano e modulano in gorgheggi effeminati la voce, cui la na-
tura ha dato un andamento regolare, il migliore e il più semplice;
i loro diti battono sempre il ritmo di una melodia interiore; e
quando ci si rivolge a loro per cose serie, spesso anche tristi, can-
ticchiano a fior di labbro. Non hanno costoro mancanza di fac-
cende, ma faccende oziose. Né metterei i loro banchetti fra le ore
libere, quando vedo come sono solerti nel disporre l’argenteria,
con quanta cura sistemano le tuniche dei loro amasi, con che an-
sia osservano come esca il cinghiale dalle mani del cuoco, con
quanta sveltezza al segno dato i depilati corrano ai loro servizi,
con quanta arte si taglino i volatili in pezzi non irregolari, con
quanto zelo infelici servitorelli puliscano gli sputi degli ubriachi:
da qui si cerca fama di raffinatezza e di lusso, e a tal punto li se-
guono i loro mali in ogni angolo della vita, che non mangiano né
bevono senza esibizionismo. Neppure enumererei tra gli sfac-
cendati chi si fa portare qua e là sulla sedia o in lettiga ed è pun-
tuale alle sue passeggiate come se non gli fosse lecito disertarle,
chi si fa ricordare da un altro l’ora del bagno, del nuoto, del pran-
zo: e a tal punto li snerva un eccesso di raffinata fiacchezza, che
da sé non sono in grado di sapere se hanno fame. Sento che uno
di questi raffinati – se pure si può chiamare raffinatezza disim-
parare l’umano modo di vivere –, trasportato a braccia dal ba-
gno sulla sedia, chiese: «Sono già seduto?». E tu pensi che costui,
che non sa se è seduto, sappia se vive, se vede, se è sfaccendato?
Non mi è facile dire se mi fa più compassione se non lo sapeva o
se fingeva di non saperlo. Certo, di molte cose la dimenticanza è
reale, ma di molte è simulata: ci sono vizi che li allettano come
segni di distinzione; sembra spia di una condizione umile e bassa
sapere quel che fai: e ora va a credere che i mimi esagerano nel-
l’attaccare il lusso. Quello che tralasciano è più di quello che rap-
presentano, ed è spuntata tanta abbondanza di vizi nel nostro se-
colo, solo in questo ingegnoso, che ormai possiamo accusare i
mimi di sbadataggine. Sì, c’è qualcuno così smidollato dalla raffi-
natezza, da credere a un altro se è seduto! Non è dunque costui
sfaccendato, dagli un altro nome: è malato, anzi morto; è sfac-
cendato quello che ha anche la coscienza di esserlo. Ma questo
semivivo, che ha bisogno di chi gli suggerisca lo stato del suo cor-
po, come può costui essere padrone anche di un solo momento?
13. Sarebbe troppo lungo star dietro uno per uno a quanti gli
scacchi o il pallone o la cura del sole consumarono la vita. Non
sono sfaccendati quelli i cui piaceri costano fatica. Di essi nessu-
no dubiterà che fatichino a non far nulla, che si perdano in studi
inutili, e ce n’è già un bel numero anche fra i Romani. Fu malat-
tia dei Greci questa di ricercare quanti rematori ebbe Ulisse, se
fu scritta prima l’Iliade o l’Odissea, e se sono del medesimo au-
tore, e così via altre cose del genere, che, se le tieni per te, non ti
serviranno oltre al fatto di saperle, se le pubblichi, non apparirai
più colto ma più pedante. Ecco che ha invaso anche i Romani la
vana passione di una dottrina superflua. In questi giorni ho
ascoltato uno esporre quali cose ogni generale romano è stato il
primo a fare: primo Duilio7 a vincere una battaglia navale, primo
Curio Dentato8 a portare nel trionfo elefanti. Ancora coteste no-
zioni, anche se non mirano a una vera gloria, vertono almeno su
esempi di attività civili: non è giovevole tale conoscenza, è alme-
no capace di interessarci con vane apparenze. Perdoniamo an-
che la ricerca del primo che convinse i Romani a salire su una
nave – fu Claudio,9detto Codice perché la compagine di parec-
chie tavole in antico si chiamava «codice», per cui i registri pub-
blici si dicono «codici» e tuttora le navi, che trasportano le der-
rate lungo il Tevere, per antica consuetudine si chiamano «codi-
carie» –; sia giustificata anche la notizia che Valerio Corvino10 fu
7
Gaio Duilio vinse nel 260 a.C. i Cartaginesi a Milazzo.
8
Vinse Pirro a Benevento e trionfò nel 275 a.C.
9
Appio Claudio Caudice, console nel 264 a.C.
10
Vinse i Messinesi nel 263 a.C., ma la derivazione di Messalla da Mes-
sana è fasulla.
il primo a vincere Messina e il primo della gente Valeria a trasfe-
rire nel suo nome quello della città conquistata e ad essere chia-
mato Messana, e poi per progressiva alterazione della pronunzia
popolare Messalla: ma concederai anche che qualcuno si occupi
del fatto che Lucio Silla fu il primo a esibire nel circo leoni sciol-
ti e non legati come d’uso, e che a finirli furono mandati dal re
Bocco11 arcieri? E si perdoni anche questo: ma che Pompeo fos-
se il primo a organizzare nel circo una battaglia di diciotto ele-
fanti opposti come in combattimento a dei condannati, serve a
qualcosa di buono? Il primo della città e fra i primi del tempo
antico ricordato per la sua bontà eccezionale giudicò un memo-
rabile genere di spettacolo far morire degli uomini in modo nuo-
vo. «Combattono all’ultimo sangue? Non basta. Sono sbranati?
Non basta: siano schiacciati dalla mole di animali giganteschi.»
Era meglio che tali fatti andassero dimenticati, perché in seguito
nessun potente li imparasse e fosse invidioso di un atto così inu-
mano. Come offusca la nostra mente una grande fortuna! Si cre-
dette al di sopra della natura esponendo tante schiere di disgra-
ziati a bestie nate sotto un altro cielo, facendo combattere esseri
così dissimili, versando molto sangue alla presenza di quel popo-
lo romano, che avrebbe presto costretto a versarne di più; ma poi
tradito dalla perfidia alessandrina si fece trafiggere dall’ultimo
degli schiavi, solo allora comprendendo quanto fosse illusorio il
suo soprannome. Ma per tornare al punto di partenza e mostra-
re nella medesima materia l’inutile diligenza di certuni, quello
stesso raccontava che Metello,12 trionfando sui Cartaginesi vinti
in Sicilia, fu il solo fra i generali romani a condurre davanti al
suo cocchio centoventi elefanti prigionieri; che Silla fu l’ultimo
romano a estendere il pomerio, per antico costume esteso solo
con l’annessione di territorio mai provinciale, ma italico. Sapere
questo è più utile che sapere che il monte Aventino è fuori del
pomerio, come affermava quello, per uno dei due motivi: o per-
ché lì c’era stata la secessione della plebe, o perché, mentre Re-
mo vi prendeva gli auspici, gli uccelli non erano stati favorevoli,
e così via altre innumerevoli storie infarcite di panzane o simili a
11
Re della Mauretania (Africa settentrionale).
12
Lucio Cecilio Metello trionfò nel 250 a.C. sui Cartaginesi sconfitti a
Palermo.
panzane. Perché anche ammesso che dicano tutto in buona fede,
che siano garanti di quanto scrivono, di chi coteste cose sceme-
ranno gli errori? Di chi freneranno le passioni? Chi faranno più
forte, chi più giusto, chi più generoso? Diceva il nostro Fabiano
di dubitare a volte, se non fosse meglio non studiare affatto che
impegolarsi in tali studi.
14. Soli fra tutti sono sfaccendati quelli che dedicano il tempo
alla saggezza, solo essi vivono; né solo della loro vita sono at-
tenti custodi: vi aggiungono ogni età; tutti gli anni alle loro spal-
le sono un loro acquisto. Se non siamo mostri d’ingratitudine,
quei fari di luce, fondatori di sacre dottrine, sono nati per noi,
hanno predisposto la vita per noi. È la loro fatica a guidarci ver-
so luminose conquiste, dissepolte dalle tenebre; non siamo
esclusi da nessun secolo, a tutti abbiamo libero accesso, e, se ci
garba di evadere dalle angustie della debolezza umana con la
grandezza dello spirito, è molto il tempo per cui spaziare. Ci è
possibile disputare con Socrate, dubitare con Carneade, con
Epicuro starcene in pace, vincere con gli Stoici la natura umana,
con i Cinici oltrepassarla. Dato che la natura ci lascia condivi-
dere il possesso di ogni tempo, perché non elevarci con tutto l’a-
nimo da questo esiguo ed effimero volgere di tempo a quei pen-
sieri che sono immensi, sono eterni, sono comuni a chi è miglio-
re di noi? Costoro, che corrono da un impegno all’altro, che non
lasciano in pace né sé né gli altri, quando si sono ben bene am-
mattiti, quando hanno fatto il giro quotidiano di tutte le porte
senza trascurarne una aperta, quando hanno recato per le case
più distanti il saluto venale, quanto pochi potranno vedere di
una città così immensa e in preda a così varie passioni? Di quan-
ti il sonno o la dissolutezza o la maleducazione non li farà en-
trare? Quanti, dopo avergli inflitto il tormento di una lunga at-
tesa, passeranno oltre con finta fretta! Quanti eviteranno di far-
si vedere nell’atrio zeppo di clienti e se la svigneranno per usci-
te segrete, come se non fosse più offensivo ingannare che lasciar
fuori! Quanti mezzo addormentati e appesantiti dalla crapula
del giorno prima, a quei disgraziati che interrompono il proprio
sonno per aspettare l’altrui, renderanno il saluto pronunziando-
ne fra insolenti sbadigli il nome mille volte sussurrato a fior di
labbro dallo schiavo! Possiamo ben dire che sono veri impegni
quelli di chi vorrà ogni giorno essere il più possibile intimo di
Zenone,13 di Pitagora e di tutti gli altri sacerdoti della virtù, di
Aristotele e di Teofrasto. Non ci sarà nessuno di loro che non
avrà tempo per te, che, se ci vai, non ti farà tornare più felice e
affezionato, da nessuno te ne andrai a mani vuote: di notte, di
giorno è possibile a tutti incontrarli.
13
Zenone di Cizico, il fondatore della Stoa.
16. Brevissima e ansiosissima è la vita di quelli che dimenticano
il passato, non curano il presente, temono il futuro: giunti all’ulti-
ma ora, tardi comprendono, disgraziati, di essere stati tanto tem-
po occupati a non far nulla. Né si credano prova di lunga vita le
ripetute invocazioni alla morte: li tormenta l’ignoranza fra pas-
sioni incerte che incorrono proprio in quel che temono; si augu-
rano spesso la morte perché ne hanno paura. Non è prova che
vivono a lungo neppure il fatto che spesso il giorno gli sembra
eterno, che in attesa dell’ora convenuta per il pranzo, si lamenta-
no che il tempo non passa mai; se poi le loro occupazioni li ab-
bandonano lasciandogli disponibilità di tempo, ondeggiano e
non sanno come impiegarlo o trascorrerlo. Perciò si propongono
un’occupazione qualunque e tutto il tempo intercorrente gli pe-
sa, così come, quando si è fissato il giorno di uno spettacolo di
gladiatori, o quando si aspetta il momento stabilito per qualche
altro spettacolo o piacere, vorrebbero saltare i giorni di mezzo.
Per loro ogni rinvio di una cosa sperata è lungo: ma quel tempo,
che amano, è breve e corre a precipizio e ancor più si accorcia
per loro colpa: ché passano da una cosa all’altra e non possono
fermarsi in una sola passione. Per loro non sono lunghi i giorni,
ma odiosi; invece come gli sembrano corte le notti che passano
tra le braccia delle puttane o tra i bicchieri! Di qui anche il deli-
rio dei poeti che alimentano i traviamenti umani: a sentirli, Gio-
ve nell’ebbrezza del piacere avrebbe duplicato una notte d’amo-
re. Non significa dar esca ai propri vizi farne promotori gli dèi e
dare ai nostri mali con l’esempio della divinità la scusa per sfre-
narsi? Possono a costoro non sembrare cortissime notti pagate
così care? Perdono il giorno in attesa della notte, la notte per ti-
more del giorno.
17. Gli stessi loro piaceri sono ansiosi e senza pace per varie
paure, e proprio al culmine dell’ebbrezza subentra il pensiero
tormentoso: «Quanto durerà?». Per via di questo stato d’animo,
dei re piansero la loro potenza, né gli dava tanta gioia la gran-
dezza della loro fortuna quanto terrore la prospettiva della fine.
Schierando in grandi pianure l’esercito e non potendolo contare,
ma solo misurare, l’orgogliosissimo re di Persia versò lacrime,
perché di lì a cent’anni nessuno di tanti giovani sarebbe soprav-
vissuto: ma doveva abbreviarne la vita proprio lui che li piange-
va, doveva far perire chi in mare, chi in terra, chi in battaglia, chi
in fuga e in breve tempo annientare quelli per i quali temeva il
centesimo anno. E le loro gioie, non sono anch’esse ansiose?
Non hanno solide basi, ma soffrono della stessa inconsistenza da
cui nascono. Quali credi che siano le ore per loro stessa confes-
sione tristi, se anche queste, in cui insuperbiscono e si pongono
al di sopra dell’umanità, sono così poco genuine? Tutti i beni più
grandi sono fonte di ansia, e di nessuna fortuna è bene fidarsi
meno che della più prospera: c’è bisogno di sempre nuovo suc-
cesso per mantenere il successo, e si devono far voti proprio per
i voti che si sono realizzati. Tutto ciò che avviene per caso è in-
stabile; ciò che si è levato più in alto è più esposto alle cadute.
Ora a nessuno fanno piacere le cose caduche: è dunque inevita-
bile che sia dolorosissima, e non solo brevissima, la vita di chi ac-
quista con grande pena beni da possedere con pene maggiori.
Con fatica ottengono quello che vogliono, con ansia mantengo-
no quello che hanno ottenuto; non si fa intanto nessun conto del
tempo che non tornerà mai più: nuove faccende subentrano alle
vecchie, una speranza, un’ambizione ne risveglia un’altra. Non si
cerca la fine delle sofferenze, ma se ne cambia la materia. La no-
stra carriera ha cessato di tormentarci? Ci prende più tempo
quella degli altri. Abbiamo finito di penare come candidati? Ri-
cominciamo come sostenitori delle altrui candidature. Ci siamo
liberati dalla seccatura di essere accusatori? Incappiamo in quel-
la di essere giudici. Ha cessato di essere giudice? Istruisce pro-
cessi. È invecchiato amministrando a pagamento i beni altrui?
Ha mille brighe dalle sue sostanze. L’esercito ha congedato Ma-
rio?14 Lo fa tribolare il consolato. Quinzio15 non vede l’ora di de-
porre la dittatura? Lo richiameranno dall’aratro. Muoverà con-
tro i Cartaginesi Scipione16 non ancora in età per tanta impresa;
vincitore di Annibale, vincitore di Antioco, lustro del suo conso-
14
Gaio Mario.
15
Cincinnato, due volte dittatore (458 e 439 a.C.).
16
Publio Cornelio Scipione l’Africano, inviato nel 211 a.C. a ventiquat-
tr’anni, come proconsole in Spagna contro Asdrubale; vincitore di Anni-
bale a Zama nel 202; di Antioco, re di Siria, a Magnesia nel 190, ma come
consigliere del fratello Lucio. Si oppose che la sua statua fosse posta nel
tempio di Giove Capitolino; esposto agli attacchi dei tribuni della plebe, si
ritirò a Literno, in Campania.
lato, garante di quello fraterno, non fosse per la sua opposizione
avrebbe un posto accanto a Giove: salvatore dei cittadini, sarà
coinvolto in lotte civili e quel giovane che aveva sdegnato onori
pari agli dèi, da vecchio si compiacerà di ostentare un orgoglioso
esilio. Non mancheranno mai motivi lieti o tristi di preoccupa-
zione; la vita si caccerà da una faccenda in un’altra: il tempo libe-
ro non sarà mai una realtà, sarà sempre un sogno.