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VIZI E VIRTÙ

DELL’ANIMO
UMANO

pillole 

SENECA
V I Z I E V I RT Ù
D E L L’ A N I M O
UMANO
Lucio Anneo Seneca
La provvidenza
La fermezza del saggio
L’ira
Sulla felicità
La vita ritirata
La tranquillità dell’animo
La brevità della vita
Proprietà letteraria riservata
© 2004 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88-58-64758-5

Titolo originale delle opere:


De providentia – De constantia sapientis – De ira – De vita beata
De otio – De tranquillitate animi – De brevitate vitae

Traduzioni di Alfonso Traina, Nicola Lanzarone, Costantino


Ricci, Donatella Agonigi, Caterina Lazzarini

Prima edizione digitale pillole BUR luglio 2013

Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu.


INTRODUZIONE

Perché ancora oggi Seneca riscuote tanto successo? Che cosa af-
fascina in questo scrittore così cupo e rigoroso, che parla con gra-
zia mondana «di inerzia infelice» e di «tedio mortale»?
Seneca è prima di tutto uno scrittore straordinario, che con
l’intento affatto velato di «ammaestrare» i lettori descrive le an-
gosce, le sottili inquietudini, il profondo malessere che attana-
gliano l’amico, il familiare o l’uomo politico che a lui si rivolgo-
no. In questi Dialoghi, intensi e drammatici, in cui i protagonisti
mettono a nudo ogni più segreta piega dell’animo, Seneca, intel-
lettuale di successo e brillante filosofo, indaga i «mali dell’uo-
mo» e vi cerca una soluzione e una via di salvezza.
Dalla paura della morte al senso angoscioso del trascorrere
del tempo, dal timore di una divinità sconosciuta e inavvicinabi-
le alla delusione delle idealità frustrate, Seneca affronta temi e
problemi antichi e universali. Ma al «male di vivere», alle paure,
alla tensione profonda e sottile, tuttavia, non oppone i consigli di
una filosofia o di una morale codificata e immobile, in grado di
dare risposte e giustificazioni rassicuranti. Seneca infatti, scritto-
re e filosofo quanto mai originale nella storia della letteratura
latina, pur richiamandosi ai principi dello stoicismo, ne rielabora
le formulazioni e le fa proprie modificandole radicalmente, fino
quasi a creare un nuovo sistema di pensiero.
«La saggezza non è una conoscenza acquisita, ma una costante
disposizione dell’anima e una meditazione in continuo divenire.
Non trasmette conoscenze, ma impegna l’essere nella sua totalità.»
La conquista della serenità interiore e della «tranquillità del-
l’animo» è un lungo e sofferto cammino, un quotidiano esercizio
spirituale senza certezze e gratificazioni immediate: questa è l’u-
nica strada che conduce alla vera felicità, a quella somma beati-
tudine che avvicina l’uomo agli dèi, che nulla può intaccare o
scalfire. «Ecco una cosa grandiosa: – scrive Seneca – avere la de-
bolezza di un uomo e la tranquillità di un Dio.» «Se non sei mai
triste, se nessuna speranza ti inquieta nell’attesa del futuro, se
giorno e notte il tuo animo elevato e contento di sé si mantiene
in uno stato eguale e costante, sei giunto al culmine del bene
umano.»
Da qui i continui e affettuosi richiami all’amico o al familiare
a non lasciarsi distrarre dalle preoccupazioni della vita, dalle
emozioni instabili, dai falsi beni, dalle ambizioni mondane, dalle
infinite tentazioni quotidiane: chiuso nella «fortezza del suo ani-
mo», l’uomo deve trovare in sé la forza di esercitarsi alla virtù e
coltivare il vero bene. «L’uomo non deve lasciarsi corrompere
né sopraffare dalle cose esterne: deve puntare esclusivamente su
se stesso, fiducioso nelle sue capacità e pronto anche a risultati
indesiderati, ma artefice della sua vita.»
E in questa orgogliosa dichiarazione di distacco e di autosuf-
ficienza, in questo consapevole e tenace ripiegamento su se stes-
si consiste la grande forza e l’attualità dei Dialoghi morali. L’uo-
mo può raggiungere la piena realizzazione di sé in modo del tut-
to indipendente dagli eventi esterni. Conquistare la libertà e
l’autonomia intellettuale e spirituale, nel radicale rifiuto di valo-
ri morali precostituiti, diviene dunque lo scopo ultimo della filo-
sofia. Una filosofia che, svincolata da precetti normativi o da ri-
gorose partizioni dottrinarie, diventa negli scritti di Seneca una
forma di altissima saggezza, una profonda disciplina interiore, o,
come scrive Paul Veyne, «un’arte superiore del vivere», una sor-
ta di «ricetta di felicità individuale», a cui tutti, alla ricerca affan-
nosa di una via personale alla felicità, possono avvicinarsi e at-
tingere a piene mani.

Pur denunciando il pericolo di lasciarsi sopraffare dagli inte-


ressi particolari e dalle occupazioni quotidiane, Seneca tuttavia
non ha mai parole di dura e definitiva condanna nei confronti
dell’attività politica o della partecipazione alla vita sociale. La
storia della sua vita, infatti, si intreccia spesso in modo dramma-
tico con la storia di Roma, e non si spiegherebbe parte della sua
opera senza considerare i difficili compromessi e le inevitabili
contraddizioni a cui lo spinse la carriera pubblica e una così
stretta familiarità con le più alte posizioni di potere. Ricchissimo
possidente e influente senatore, affascinante oratore e brillante
conversatore, Seneca fu sempre legato, come uomo di potere e
consigliere privilegiato, alle alterne fortune della dinastia giulio-
claudia. Dopo gli anni difficili di Caligola e il duro esilio sotto
Claudio, raggiunse i vertici del potere con l’ascesa al trono di Ne-
rone, di cui divenne il precettore e il consigliere privato. Ma do-
po un primo periodo felice, in cui l’influenza moderatrice e illu-
minata di Seneca ebbe la meglio sugli intrighi di corte e segnò la
condotta politica dell’imperatore, la situazione cambiò. La rottu-
ra divenne progressivamente irrimediabile: il distacco di Nerone
dalla guida politica e dagli ideali senecani fu definitiva e, dopo
un breve periodo di ritiro dorato dalla vita politica, Seneca, ac-
cusato di essere stato coinvolto in una congiura contro l’impera-
tore, fu costretto al suicidio.
Nel corso di questi anni tormentati, in un arco di tempo piut-
tosto ampio, Seneca scrisse i Dialoghi morali, in cui spesso si in-
tuisce nella scelta dell’argomento, nel richiamo perentorio alla
gravità di un errore o nell’atteggiamento più condiscendente e
conciliante, la storia e la situazione personale dell’autore. È diffi-
cile, se non quasi impossibile, tuttavia, stabilire una cronologia
certa di questi scritti filosofici, poiché sono piuttosto rare le allu-
sioni a fatti storici precisi e talvolta di dubbia interpretazione. Si
tratta di colloqui che si immaginano svolti con un amico, un fami-
liare, un uomo politico, che l’autore si propone di istruire ed edu-
care a una migliore vita spirituale. Ogni dialogo si sviluppa intor-
no a un tema ben definito, una virtù o un difetto dell’animo uma-
no, che viene elaborato e sviluppato nelle sue infinite sfaccettatu-
re e adattato alla sensibilità e alla personalità del destinatario.
Nel dialogo sull’Ira – definita dall’autore «una follia di breve
durata» – vengono descritti gli effetti nefasti della collera, con
frequenti allusioni alle crudeltà e alle stravaganze di Caligola, al
suo carattere irascibile, dispotico e tirannico. Al fratello Novato,
destinatario dell’opera, Seneca si propone di insegnare a con-
trollare le esposioni d’ira e gli accessi di collera cieca e sregolata,
tra tutte le passioni «la più turpe e rabbiosa». Scritto sicuramen-
te dopo la morte di Caligola, avvenuta nel 41 d.C., quando il cli-
ma a corte si era ormai rasserenato, questo dialogo in tre libri si
colloca agli inizi della produzione senecana, probabilmente nei
primi anni del regno di Claudio.
Un senso angoscioso del trascorrere del tempo e della fuga-
cità delle cose attraversa il dialogo La brevità della vita, scritto
presumibilmente intorno al 49 d.C. e dedicato a Paolino, un alto
funzionario imperiale. In questo breve dialogo Seneca accusa gli
uomini di lasciarsi travolgere dall’azione del tempo, «un fiume
che incalza e distrugge», e di essere incapaci di amministrare la
propria esistenza: «Non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo
perduto molto». Agli uomini affaccendati, sempre persi in nuove
occupazioni, contrappone la figura del vero saggio, «dominatore
del tempo», che in aristocratica solitudine «ha accesso a tutti i
secoli e ha tutto il tempo per cui spaziare».
La tranquillità dell’animo, di alcuni anni posteriore, è un dia-
logo sull’irrequietudine, l’insoddisfazione di sé, sulla noia morta-
le di un animo che non trova mai pace e serenità. In una lunga
confessione Anneo Sereno, amico fedele e protégé di Seneca, de-
scrive l’abbattimento profondo e la prostrazione di chi, «agitato
come le onde di un mare in tempesta», cerca inutilmente di sfug-
gire a se stesso, oppresso da un oscuro malessere di cui non rie-
sce a intuire la causa. Da questo piccolo, soffocante «inferno» si
può fuggire, risponde Seneca all’amico, e raggiungere grazie alla
filosofia e a una sofferta meditazione la serenità interiore e un’i-
nattaccabile armonia con il mondo e il proprio io.
Ad Anneo Sereno sono dedicati anche altri due dialoghi, La
fermezza del saggio e La vita ritirata. Nel primo, composto pro-
babilmente intorno al 54-55 d.C., viene descritta la condizione
superiore del saggio che, simile quasi agli dèi, non può essere
scalfito dalle offese né dalle avversità della sorte o dai capricci
del caso. Con il grande Catone, reso famoso già nell’antichità dal
suo rigore morale, si incarna la figura del saggio perfetto, che in-
differente e impavido alle offese e agli insulti, lotta per i suoi
ideali fino al supremo sacrificio: «Catone non sopravvisse alla li-
bertà, né la libertà a Catone». Nel secondo dialogo invece, scrit-
to presumibilmente intorno al 62 d.C., quando Seneca si ritirò a
vita privata, si sostiene la necessità per il vero filosofo di non
partecipare alla vita politica attiva, per dedicarsi completamente
alla cura dell’animo. Ma un invito così pressante all’otium, al ri-
piegamento nella vita privata, più volte smentito negli scritti pre-
cedenti, è strettamento legato alla situazione di profonda crisi
che Seneca viveva in quegli anni. Relegato da Nerone ai margini
del potere e osteggiato dall’ambiente di corte divenuto a lui or-
mai ostile, il filosofo fu costretto ad abbandonare la politica. Di
questo ritiro forzato il dialogo fornisce un’articolata giustifica-
zione e ne spiega le motivazioni ideologiche ed etiche.
Un tono polemico e particolarmente acceso caratterizza il dia-
logo Sulla felicità, in cui Seneca si difende dall’accusa, realmente
mossagli, di aver accumulato una ricchezza eccessiva grazie alla
sua stretta amicizia con Nerone e di non condurre una vita in ac-
cordo con i precetti filosofici che andava affermando. Mai tutta-
via, si difende il filosofo, egli si è proposto come modello di inde-
flettibile virtù, poiché il saggio assolve alla missione di educare
alla virtù, indipendentemente dalle sue azioni e dai risultati che
riesce a ottenere. Da alcune velate allusioni a una situazione poli-
tica compromessa in cui non è possibile agire e comportarsi libe-
ramente e secondo i dettami della virtù, si può, con una certa ap-
prossimazione, collocare questo trattato intorno al 58-59 d.C.
Scritta al tempo del suo ritiro dalla vita politica, La provvi-
denza viene considerata una tra le ultime opere di Seneca, che
qui affronta il delicatissimo e inestricabile problema della giusti-
zia di dio e del suo rapporto con la presenza del male nel mon-
do. Concepito come una requisitoria in difesa degli dèi, per cui
nessuna colpa può essere imputata alla divinità, questo trattato
si concentra sulla responsabilità umana. L’uomo è messo quoti-
dianamente alla prova e sta solo in lui rendersi impermeabile e
mostrare forza e indifferenza contro gli assalti della fortuna.
L’ultimo dono della provvidenza, la suprema garanzia di libertà,
ricorda con parole appassionate Seneca, è la possibilità e la faci-
lità del suicidio, che assicura all’uomo la più alta delle vittorie.

SILVIA FABBRI

In questo volume la successione dei dialoghi senecani è quella seguita


dalla raccolta della tradizione manoscritta intitolata Dialogorum libri.
CRONOLOGIA

Ultimi anni a.C. Nasce in Spagna, a Cordova, città di tradizione


repubblicana: il padre, Seneca il Retore, appartiene al ceto
equestre. Dei due suoi fratelli, il minore, Marco Anneo Mela,
sarà il padre del poeta Lucano.
Primi anni dell’era volgare. La famiglia si trasferisce a Roma
dove il futuro filosofo riceve i primi insegnamenti dallo stoico
Attalo, da Sozione e da Papirio Fabiano, appartenente alla
setta stoico-pitagorica dei Sestii, caratterizzata da tendenze
ascetiche.
14 d.C. Morte di Augusto e successione di Tiberio.
26 Terminati gli studi, Seneca si reca in Egitto, presso uno zio
materno, governatore di quella provincia.
31 Ritorno dall’Egitto e inizio del cursus honorum con la que-
stura.
37-41 Principato di Caligola.
39 Un discorso forense troppo libero (per alcuni troppo bello)
di Seneca irrita Caligola: lo salva dalla morte una amante del-
l’imperatore indicando nella cagionevole salute dell’oratore i
segni di una morte imminente. La malattia doveva essere reale
perché lo stesso Seneca la ricorda nelle Epistulae ad Lucilium.
40 (?) Scrive la Consolatio ad Marciam (figlia dello stoico Cre-
muzio Cordo) cui era morto un figlio. Sono gìà evidenti i temi
esistenziali comuni alle altre due Consolationes (caducità e
precarietà della vita, inevitabilità e liberazione della morte,
ecc.) con una clausola di grande respiro cosmico.
41-54 Principato di Claudio.
41-49 Esilio in Corsica di Seneca coinvolto dall’imperatrice
Messalina, moglie di Claudio, nell’accusa di adulterio con
Giulia Livilla, figlia di Germanico e sorella di Caligola, donna
fascinosa nonché promotrice di una forte e autorevole oppo-
sizione politica all’imperatore.
41-48 Agli anni dell’esilio risalgono, alcune con certezza – pur
rimanendo fluida la datazione precisa – altre solo ipotetica-
mente, non poche opere:
– iniziati forse prima dell’esilio, scritto il terzo libro a distanza
dai primi due, ma pubblicati forse solo nel 41, anno della mor-
te di Caligola, sono i tre libri del De ira, in cui si studiano i
meccanismi delle passioni umane (l’ira viene analizzata in
particolare nel libro III) e i rimedi per controllarle.
– Ai primi anni dell’esilio sembrano appartenere la Consolatio
ad Helviam matrem (42), che intende tranquillizzare la madre
esaltando il valore della vita contemplativa, e la Consolatio
ad Polybium (43), l’influente liberto di Claudio cui Seneca si
rivolge per consolarlo della morte del fratello e fors’anche
per ottenere il ritorno a Roma con adulazioni indirette all’im-
peratore.
49 Per intervento di Agrippina (divenuta moglie di Claudio),
Seneca ottiene il ritorno dall’esilio a Roma, ove inizia la sua
attività di pedagogo del giovane e futuro imperatore Nerone.
49-54 A questi anni di propedeutica senecana al principato ne-
roniano appartengono il De constantia sapientis e, forse, il De
brevitate vitae (che altri però datano intorno al 62).
54 Morte di Claudio e inizio del principato di Nerone: Seneca
scrive, forse anonimamente, la satira menippea (in prosa al-
ternata a versi in vari metri) Apokolokyntosis (= Zucchifica-
zione, paronomasia di Apotheosis) che i codici hanno traman-
dato col titolo Ludus de morte Claudii. È la rivincita del filo-
sofo nei confronti dell’imperatore che lo aveva esiliato e un
preparare il terreno al futuro imperatore.
54-59 I primi cinque anni dell’impero neroniano sono forte-
mente influenzati, in positivo, dalla figura pedagogica e intel-
lettuale di Seneca: sono forse di questi anni il De tranquillita-
te animi (per altri l’opera è più tarda), il De clementia, il De
vita beata e l’inizio del De beneficiis, terminato nel 64.
59 Uccisione di Agrippina da parte di Nerone: da questo mo-
mento, se non proprio per questo episodio, i rapporti fra il fi-
losofo e l’imperatore si vanno sempre più deteriorando.
62 Dopo la morte di Burro, con ormai Nerone nelle mani di
Poppea, Seneca si ritira a vita privata, divenuto sempre meno
influente come consigliere dell’imperatore.
62-65 Gli anni del ritiro sono caratterizzati da un’intensa atti-
vità culturale: De otio, Naturales quaestiones, Epistulae ad Lu-
cilium, De providentia, continuazione e conclusione del De
beneficiis.
65 Suicidio di Seneca, impostogli da Nerone che lo ritiene
coinvolto nella «congiura dei Pisoni», di cui Seneca era forse
solo informato. La morte di Seneca è notoriamente descritta
in una delle più suggestive pagine di Tacito (Ann. 15, 62-64).
LA PROVVIDENZA*

PERCHÉ CAPITANO AGLI UOMINI BUONI DELLE DISGRAZIE,


DAL MOMENTO CHE C’È LA PROVVIDENZA

1. Mi hai chiesto, Lucilio, perché mai, se l’universo è amministra-


to dalla provvidenza, molti mali càpitano agli uomini buoni. La
risposta sarebbe più a suo luogo in un’opera organica, dove di-
mostrassi che la provvidenza presiede a tutte le cose e che dio
s’interessa di noi; ma poiché si è deciso di stralciare dal tutto una
piccola parte e di risolvere una sola obiezione, lasciando impre-
giudicata la causa, farò una cosa non difficile, l’avvocato degli dèi.
È superfluo per il momento mostrare che un’opera così gran-
de non può sussistere senza guardiano e che questo convergere
e divergere di stelle non è un moto casuale; i movimenti dovuti
al caso spesso provocano disordine e presto cozzano tra loro,
mentre procede al comando di una legge eterna questa velocità
che porta senza scosse tante cose per terra e per mare, tante luci
di stelle armoniosamente splendenti; non è effetto di una mate-
ria errabonda quest’ordine, e aggregati fortuiti non potrebbero
restare sospesi con tanto equilibrio che la massa pesante della
terra stia immobile al centro e contempli intorno a sé la fuga vor-
ticosa del cielo, che i mari penetrando nei golfi ammorbidiscano
la terra senza sentire l’apporto dei fiumi, che da semi minuscoli
nascano cose di grandi dimensioni. Neppure i fenomeni che ap-
paiono caotici e irregolari, cioè le piogge e le nuvole e gli scoppi
dei fulmini e le eruzioni vulcaniche, le scosse dei terremoti e le
altre manifestazioni della fascia turbolenta attorno alla terra, av-
vengono senza una ragione, per quanto siano imprevedibili, ma
hanno anch’esse le loro cause non meno di quei fenomeni che,

* Tratto da: Seneca La provvidenza, Bur, Milano 1997. Traduzione e no-


te a cura di Alfonso Traina
se osservati fuori delle loro sedi naturali, ci fanno l’effetto di un
miracolo, come le correnti calde in mezzo ai flutti e l’emergere
di nuove isole nella vastità del mare. Chi poi osservi che le spiag-
ge si scoprono al rifluire del mare ed entro breve tempo tornano
a coprirsi, crederà che un cieco ondeggiamento faccia ora con-
centrare e ritirare i flutti in se stessi, ora prorompere e rioccupa-
re impetuosamente le loro sedi, quando invece essi crescono re-
golarmente aumentando o diminuendo a giorni e ore fisse se-
condo la forza di attrazione della luna, da cui dipende il traboc-
care dell’oceano. Di questo si tratterà a suo tempo, tanto più che
tu non dubiti della provvidenza, ma te ne lamenti.
Ti riconcilierò con gli dèi, buoni verso i buoni. Infatti la natura
non tollera che il bene possa mai nuocere ai buoni: fra gli uomini
buoni e gli dèi c’è amicizia, tramite la virtù. Ho detto amicizia? No,
di più, parentela e somiglianza, dal momento che l’uomo buono
differisce da dio solo per la temporalità, è suo discepolo ed emulo
e vera prole, che quel sublime genitore, esigente maestro di virtù,
educa senza mollezza, come i padri severi. Perciò quando vedrai
uomini buoni e cari agli dèi penare, sudare, faticare in salita, i catti-
vi invece spassarsela e nuotare nei piaceri, pensa che noi godiamo
del ritegno dei figli e dell’impertinenza dei piccoli schiavi, che quel-
li sono tenuti a freno da una disciplina severa, di questi s’incorag-
gia l’insolenza. Lo stesso ti sia chiaro di dio: non vizia l’uomo buo-
no, lo mette alla prova, lo tempra, lo predispone per sé.

2. «Perché càpitano molte avversità agli uomini buoni?» Nessun


male può capitare all’uomo buono: non si mescolano i contrari.
A quel modo che tanti fiumi, tanti rovesci di pioggia dall’alto,
tanta abbondanza di fonti minerali non alterano il sapore del
mare, e neppure lo mitigano, così l’assalto delle avversità non
smuove il cuore dell’uomo forte: rimane com’era e ogni avveni-
mento lo assimila a sé, perché è più potente di tutte le cose ester-
ne. Non dico che non le sente, ma le vince, e, normalmente paci-
fico e tranquillo, insorge contro ciò che lo assale. Tutte le avver-
sità le considera esercizi. Chi poi, purché sia un uomo e abbia
senso morale, non è desideroso di una giusta fatica e pronto a
pericoli per il dovere? Per quale persona attiva l’inattività non è
un castigo? Gli atleti, che si curano del loro fisico, li vediamo
combattere con tutti i più forti ed esigere dagli allenatori che li
impegnino con tutte le loro forze: si fanno colpire e malmenare
e, se non trovano un loro pari, ne affrontano più d’uno alla volta.
Infrollisce la virtù senza avversario: la sua grandezza e il suo vi-
gore si manifestano solo quando essa mostra la sua capacità di
sopportazione. Sappi pure che lo stesso devono fare gli uomini
buoni, non spaventarsi delle asprezze e difficoltà e non lamen-
tarsi del fato, prendere bene e volgere in bene ogni avvenimen-
to: importa non quello che sopporti, ma come lo sopporti.
Non vedi come si esprime diversamente l’affetto dei padri e
delle madri? Quelli svegliano e mandano di buon’ora al lavoro i fi-
gli, anche nei giorni di vacanza non gli permettono di non far nul-
la, spremono sudore e talvolta lacrime: le madri invece vogliono
tenerseli stretti, al caldo e al chiuso, mai causargli dispiaceri, mai
lacrime, mai fatiche. Dio ha cuore di padre verso gli uomini buoni
e li ama virilmente: «Siano sempre alle prese» dice «con lavori, do-
lori, privazioni, per acquistare la vera forza». Infiacchiscono nell’o-
zio i corpi impinguati e li spossa non solo la fatica, ma il movimen-
to e il loro stesso peso. Non regge a nessun colpo una prosperità
incontrastata; ma chi ha dovuto sostenere una lotta continua con
le sue disgrazie, ha fatto il callo alle avversità e non cede a nessun
male, ma anche caduto combatte in ginocchio. E tu ti meravigli se
quel dio che ama tanto i buoni, che li vuole i migliori e i più perfet-
ti possibile, gli assegna la fortuna contro cui esercitarsi? Io davve-
ro non mi meraviglio se ogni tanto agli dèi viene il desiderio di ve-
dere grandi uomini in lotta con qualche disgrazia. A noi talvolta fa
piacere se un giovane di cuore saldo affronta col ferro in mano la
carica di una belva, se sostiene senza paura l’assalto di un leone, e
tale spettacolo è tanto più gradito quanto più nobile è chi lo dà.
Ma non sono queste le cose che possono far volgere su di sé lo
sguardo degli dèi, ragazzate e passatempi della frivolezza umana.
Ecco uno spettacolo degno di attirare l’attenzione di dio intento al
suo compito, ecco una coppia degna di dio: l’uomo forte opposto
alla cattiva fortuna, soprattutto se l’ha sfidata. Non vedo, lo ripeto,
cos’abbia di più bello in terra Giove, se vuole farvi attenzione, che
vedere Catone,1 dopo le ripetute sconfitte del suo partito, star tut-
tavia dritto fra le rovine dello stato. «Sia pure tutto» dice «in pote-

1
Catone l’Uticense, il santo dello stoicismo romano, dopo la definitiva
sconfitta dei pompeiani a Tapso (46 a.C.).
re di uno solo, la terra presidiata dalle legioni, il mare dalle flotte, i
soldati di Cesare blocchino le porte,2 Catone ha una via d’uscita:
basterà una sola mano ad aprirgli una larga via per la libertà. Que-
sto ferro, puro e incolpevole anche in una guerra civile, farà alla fi-
ne belle e gloriose azioni: la libertà, che non ha potuto dare alla
patria, la darà a Catone. Attua, mio cuore, il progetto a lungo me-
ditato, stràppati alle vicende umane. Già Petreio e Giuba si sono
affrontati e giacciono uccisi l’uno per mano dell’altro, raro ed eroi-
co patto di morte, ma indegno di noi: per Catone è tanto vergo-
gnoso chiedere ad altri la morte che la vita.» Sono certo che gli dèi
hanno assistito con grande gioia allo spettacolo di quell’uomo, or-
goglioso liberatore di se stesso, mentre provvede alla salvezza de-
gli altri e organizza la partenza dei fuggiaschi, mentre attende allo
studio anche nell’ultima notte, mentre si trafigge con la spada il
santo petto, mentre sparge le sue viscere e trae fuori con la mano
quell’anima divina e indegna di essere contaminata dal ferro. Per
questo, credo, il colpo fu poco fermo ed efficace: non bastava agli
dèi immortali essere spettatori di Catone una volta sola; la virtù fu
trattenuta e richiamata perché si mostrasse in una parte più diffici-
le: ci vuole un animo meno grande per andare che per tornare a
morire. E non dovevano assistere con piacere a una fine così glo-
riosa e memorabile del loro pupillo? La morte consacra quelli la
cui fine è lodata anche da chi la teme.

3. Ma nel seguito del discorso dimostrerò come non siano mali


quelli che tali sembrano; per ora dico solo che questi eventi che tu
chiami duri, dolorosi, detestabili, in primo luogo sono a vantaggio
proprio di quelli a cui càpitano, poi della totalità degli uomini, che
agli dèi sta più a cuore degli individui, poi che gli càpitano col loro
consenso e che i mali se li meriterebbero se non vi consentissero.
Aggiungerò che il corso di questi eventi è predestinato e che essi
càpitano ai buoni per quella stessa legge per cui sono buoni. Per
concludere, ti persuaderò a non aver mai compassione di un uo-
mo buono: perché può dirsi infelice, non esserlo.
La più difficile delle argomentazioni sopra esposte sembra es-
sere quella che ho detta per prima, cioè che sono a vantaggio di chi
vi incorre cotesti fatti di cui abbiamo orrore e timore. «È a loro

2
Di Utica, in Africa, dov’era assediato da Cesare.
vantaggio» obietti «che sono cacciati in esilio, ridotti in povertà,
seppelliscono figli, moglie, perdono l’onore, la salute?» Se ti mera-
vigli che tali fatti siano vantaggiosi, dovrai meravigliarti che certuni
siano curati col ferro e col fuoco, nonché con la fame e con la sete.
Ma se rifletterai che fu un rimedio per alcuni il raschio e l’estrazio-
ne delle ossa, l’estirpazione delle vene, l’amputazione di membra
che non potevano restare attaccate al corpo senza distruggerlo, ac-
cetterai anche la dimostrazione che certe avversità sono a vantag-
gio di chi le subisce: così come, per Ercole, certe cose lodate e ricer-
cate sono a danno di chi se ne è dilettato, come indigestioni, ubria-
cature e ogni altra intemperanza che uccide attraverso il piacere.
Fra i tanti detti magnifici del nostro Demetrio3 c’è anche questo,
che ho udito da poco – risuona ancora e vibra al mio orecchio –:
«Non c’è, mi sembra, essere più sventurato di chi non ha mai avuto
alcuna avversità». Perché non ha avuto la possibilità di mettersi al-
la prova. Posto che tutto gli sia andato secondo i suoi desideri, che
li abbia prevenuti, gli dèi tuttavia hanno dato di lui un cattivo giu-
dizio: non è parso degno di vincere una volta tanto la fortuna, che
fugge via da tutti i pusillanimi, come dicesse: «E io dovrei prender-
mi come avversario costui? Abbasserà subito le armi; contro di lui
non c’è bisogno di tutta la mia potenza, basterà fargli un po’ di pau-
ra, non può sostenere il mio aspetto. Si veda se c’è un altro con cui
battermi: mi vergogno di scontrarmi con un uomo già rassegnato
alla sconfitta». Il gladiatore reputa un disonore essere opposto a
uno inferiore e sa che si vince senza gloria chi si vince senza perico-
lo. Lo stesso fa la fortuna: cerca chi le stia a pari, i più coraggiosi,
certuni non li degna di uno sguardo. Assale tutti i più inflessibili e
irriducibili, contro i quali scaricare la sua violenza: sperimenta il
fuoco in Muzio,4 la povertà in Fabrizio,5 l’esilio in Rutilio,6 la tortu-

3
Filosofo cinico amato e ammirato da Seneca, che lo cita una dozzina
di volte: sarà presente alla morte di Trásea Peto (66 d.C.) ed esiliato da Ve-
spasiano per la sua aggressività verbale contro il potere.
4
Muzio Scevola si fece bruciare la destra per punirla di aver fallito il
colpo contro Porsenna.
5
Gaio Fabrizio Luscino, console e trionfatore nel 282 e 278, nel 279 non
si fece corrompere dall’oro di Pirro.
6
Publio Rutilio Rufo, uomo politico e filosofo stoico, esiliato nel 94
a.C. per aver represso le malversazioni degli appaltatori delle imposte in
Asia Minore, rifiutò la grazia di Silla.
ra in Regolo,7 il veleno in Socrate,8 il suicidio in Catone. Un
grande esempio non lo trova che la cattiva fortuna.
È sventurato Muzio perché preme la destra sul fuoco nemico
e paga lui stesso il fio del suo errore, perché mette in fuga con la
mano bruciata il re che non poté mettere in fuga con la mano ar-
mata? E di’: sarebbe più fortunato, se riscaldasse la mano nel se-
no dell’amante?
È sventurato Fabrizio perché vanga il suo campo tutto il tem-
po libero dalla vita pubblica? Perché fa guerra sia a Pirro che al-
la ricchezza? Perché accanto al focolare pranza con quelle stesse
radici ed erbe che ha estirpato, il vecchio ex-trionfatore, nel ri-
pulire il campo? E di’: sarebbe più fortunato se accumulasse nel
suo ventre pesci di lidi lontani e uccelli esotici, se stimolasse la
pigrizia di uno stomaco disgustato con ostriche dell’Adriatico e
del Tirreno, se circondasse con cataste di frutti selvaggina di
grossa taglia, catturata con molte perdite di cacciatori?
È sventurato Rutilio perché quelli che lo condannarono ne
dovranno rispondere a tutti i secoli? Perché gli fu più facile ri-
nunziare alla patria che all’esilio? Perché fu il solo a dire no al
dittatore Silla e, richiamato in patria, per poco non andò indietro
e fuggì più lontano?
«Se la veda» dice «chi fu colto di sorpresa a Roma dalla tua for-
tuna: veda il foro inondato di sangue, e sopra il bacino di Servilio
(dov’è il carnaio della proscrizione di Silla) le teste dei senatori, e
bande di assassini scorrazzare per la città, e molte migliaia di citta-
dini romani massacrati in uno stesso luogo dopo, anzi mediante la
parola data: veda tali spettacoli chi non sa essere esule.» E di’: è
fortunato Lucio Silla perché scendendo al foro gli si fa largo con
la spada, perché accetta che gli mostrino le teste degli ex-consoli e
paga il prezzo della strage tramite il questore e a spese dello sta-
to? E tutto questo chi lo fa? Chi ha presentato la legge Cornelia.
Veniamo a Regolo: che danno gli ha arrecato la fortuna fa-
cendone un modello di lealtà, un modello di resistenza? Chiodi
traffiggono la pelle e dovunque appoggia il corpo spossato, pre-

7
Marco Attilio Regolo, suppliziato dai Cartaginesi nel 250 a.C. per ave-
re sconsigliato il senato di accettare le loro proposte.
8
Socrate, condannato a bere la cicuta nel 399 a.C. per non aver rinne-
gato la sua predicazione filosofica.
me su una ferita; gli occhi senza palpebre vegliano ininterrotta-
mente: più grande è il tormento e più grande sarà la gloria. Vuoi
sapere come non si penta di aver pagato questo prezzo per la
virtù? Schiodalo e rimandalo in senato: il suo parere sarà lo stes-
so. Credi dunque più fortunato Mecenate,9 che, disperato per pe-
ne d’amore e per il quotidiano rifiuto di una moglie capricciosa,
chiede il sonno alla blanda musica di un’orchestra lontana? Cer-
chi pure di addormentarsi col vino e di distrarsi col mormorio di
fontane e di eludere l’ansia con mille piaceri, starà sveglio tra le
piume come quello sulla croce; ma quello si consola delle sue
sofferenze pensando che soffre per una buona causa, questo smi-
dollato dai piaceri e oppresso da una eccessiva fortuna, lo tor-
menta, più di ciò che soffre, la causa del suo soffrire. I vizi non si
sono impossessati del genere umano al punto di far dubitare che,
se si potesse scegliere il proprio destino, i più preferirebbero na-
scere Regoli che Mecenati; o, se ci sarà chi ha il coraggio di dire
che avrebbe preferito nascere Mecenate che Regolo, costui, an-
che se non lo confessa, avrebbe preferito nascere Terenzia.
Pensi che sia andata male a Socrate, perché trangugiò la be-
vanda somministratagli dallo stato come fosse un farmaco d’im-
mortalità e disputò sulla morte fino alla morte? Gli è stato fatto
torto perché il sangue si gelò e a poco a poco salendo il freddo, si
fermò la vita nelle vene? Quanto più è invidiabile di chi si fa ser-
vire in pietre preziose o liquefare la neve nell’oro da un ganzo
istruito a tutto patire, di recisa o dubbia virilità! Questi rimette-
ranno in vomiti quanto hanno bevuto, tetri e riassaporando la
loro bile: ma quello tracannerà lieto e di buona voglia il veleno.
Quanto a Catone, ne ho già detto abbastanza, e il mondo in-
tero converrà che è toccata la più grande fortuna a chi la natura
ha scelto come bersaglio dei suoi colpi più tremendi. «Le inimi-
cizie dei potenti sono gravose: sia opposto a Pompeo, a Cesare, a
Crasso10 contemporaneamente. È gravoso essere sorpassato nel-
le cariche da un inferiore: sia posposto a Vatinio.11 È gravoso

9
Gaio Cilnio Mecenate, di principesca famiglia etrusca, fu per Seneca
il prototipo dell’effeminato, nella vita e nei versi.
10
I triumviri del 60 a.C.
11
Publio Vatinio, candidato dei triumviri, batté Catone alle elezioni per
pretore del 55. Fu violentemente attaccato da Cicerone, Calvo e Catullo.
prender parte a guerre civili: corra in armi tutto il mondo per
una buona causa, con più tenacia che fortuna. È gravoso suici-
darsi: lo faccia. Che ne otterrò? Che tutti sappiano che non sono
mali, se ne ho giudicato degno Catone.»

4. Le fortune piovono anche sulla plebe e le nature volgari; ma


far passare sotto il giogo le disgrazie che terrorizzano i mortali è
cosa di un uomo grande. Essere sempre fortunato e trascorrere
la vita senza il morso del dolore significa ignorare l’altra faccia
della natura. Sei un uomo grande: ma come faccio a saperlo, se la
fortuna non ti offre la possibilità di mostrare il tuo valore? Hai
gareggiato alle Olimpiadi, ma senza concorrenti: hai la medaglia,
non la vittoria; non mi rallegro come con un uomo forte, ma co-
me con uno che ha ottenuto il consolato o la pretura: ti hanno
fatto un onore. Lo stesso posso dire all’uomo buono, se una cir-
costanza difficile non gli ha dato un’occasione in cui mostrare la
sua forza d’animo: «Ti reputo infelice, perché non sei stato mai
infelice. Hai trascorso la vita senza avversari; nessuno saprà quel
che potevi, neppure tu stesso». C’è bisogno di una prova per co-
noscersi; nessuno sa quel che può se non sperimentandosi. Per-
ciò taluni si offrirono spontaneamente a mali che tardavano, e a
una virtù prossima a eclissarsi cercarono un’occasione di metter-
si in luce. Lo ripeto, gli uomini grandi godono talora delle avver-
sità, non meno che i soldati valorosi della guerra; ho udito il mir-
millone Trionfo12 sotto Tiberio lamentarsi della rarità dei giochi:
«Che bell’epoca» diceva «se ne è andata!».
Il valore è avido di pericoli, pensa a dove vuol giungere e non
a ciò che soffrirà, perché anche tali sofferenze sono una parte
della sua gloria. Gli uomini d’arme si gloriano delle ferite, sono
fieri di mostrare il sangue più felicemente versato; siano pur sta-
te identiche le azioni di quelli che tornano sani e salvi, attira di
più gli sguardi chi ritorna ferito. Dio, lo ripeto, pensa proprio al
bene degli uomini, che vuole più onorati, ogni volta che gli offre
la materia di un’azione animosa e coraggiosa, che ha bisogno di
qualche difficoltà: il pilota lo vedrai nella tempesta, il soldato
nella mischia. Come posso conoscere la tua forza d’animo di
fronte alla povertà, se nuoti fra le ricchezze? Come posso cono-

12
Gladiatore famoso.
scere la tua fermezza di fronte al disonore, al discredito, all’im-
popolarità, se invecchi tra gli applausi, se ti segue inalterabile il
favore e la simpatia della gente? Come conosco la tua capacità
di sopportare serenamente la perdita dei figli, se ti vedi intorno
tutti quelli che ti sono nati? Ti ho ascoltato consolare gli altri; ma
avrei visto chi sei solo se avessi consolato te stesso, se ti fossi ini-
bito di soffrire. Non abbiate paura, vi scongiuro, di cotesti pati-
menti che gli dèi immortali usano come stimoli per i vostri cuori:
la sventura è occasione di virtù. Sarebbe giusto chiamare infelice
chi è snervato da un eccesso di prosperità, chi come in un mare
immobile è prigioniero della bonaccia: qualunque cosa gli capiti,
sarà una sorpresa. La vita è più crudele con chi non ne ha fatto
esperienza, il giogo pesa sulla nuca tenera: al pensiero di una fe-
rita la recluta impallidisce, ma guarda arditamente il suo sangue
il veterano che sa che spesso al sangue segue la vittoria. Così
questi che dio apprezza, che ama, li indurisce, li vaglia, non li la-
scia in pace; ma quelli cui sembra indulgere, che sembra rispar-
miare, li riserva indifesi ai mali futuri. Non illudetevi, non ci sono
eccezioni: anche all’uomo a lungo fortunato verrà la sua parte;
chiunque sembra congedato è solo rimandato.
Perché dio manda a tutti i migliori o cattiva salute o lutti o al-
tre avversità? Perché anche al campo alle azioni pericolose si co-
mandano i più coraggiosi: il capo invia il fiore dei suoi ad assalire
il nemico in imboscate notturne o a esplorare il cammino o a
sloggiare una postazione. Nessuno di quelli che vanno dice: «Il
generale mi ha reso un cattivo servizio», ma «mi ha dato una pro-
va di stima». Dicano lo stesso tutti quelli cui si comanda di soffri-
re cose da far piangere i paurosi e i vili: «siamo apparsi a dio de-
gni di saggiare la resistenza della natura umana al dolore».
Fuggite le mollezze, fuggite una prosperità che vi snerva e svi-
gorisce l’animo e, se non interviene qualcosa che gli ricordi la sor-
te umana, lo fa marcire come nel sopore di una continua ubria-
chezza. A chi i vetri hanno sempre protetto dalle correnti, a chi
tiene i piedi caldi con impacchi sempre rinnovati, a chi regola la
temperatura delle sale da pranzo con caloriferi inglobati nel pa-
vimento o nelle pareti, un soffio d’aria potrà far male. Tutti gli ec-
cessi sono dannosi, ma il più pericoloso è quello della prosperità:
va alla testa, fa vaneggiare, offusca la differenza tra il vero e il fal-
so. Non sarebbe meglio sopportare una continua sfortuna con
l’assistenza della virtù che crepare per beni senza fine e misura?
È più dolce la morte per inedia, l’indigestione fa scoppiare.
È dunque questa la regola che seguono gli dèi con gli uomini
buoni come coi loro allievi i precettori, che esigono più fatica da
chi dà più speranza. Credi forse che agli Spartani siano odiosi i
loro figli, di cui mettono alla prova il carattere con pubbliche fla-
gellazioni? I padri stessi li esortano a sopportare da forti i colpi,
e gli chiedono di continuare, straziati e semivivi, a patire ferite su
ferite. Che meraviglia, se dio mette a dura prova gli spiriti gene-
rosi? Non è mai indolore la lezione della virtù. Ci flagella e stra-
zia la fortuna: sopportiamo. Non è crudeltà, è lotta: più spesso
l’affronteremo e più forti saremo; la parte più solida del corpo è
la più esercitata. Ci si deve offrire alla fortuna, perché sia lei a
indurirci contro di lei: a poco a poco ci farà pari a sé, il continuo
esporci ai pericoli ce li farà disprezzare. Così i marinai hanno
corpi induriti dalla vita di mare, i contadini mani logorate, il
braccio dei soldati ha la forza di scagliare giavellotti, agili sono
le membra dei corridori: in ognuno la parte più solida è quella
che ha tenuto in esercizio. A non curarsi della sofferenza l’animo
giunge a forza di soffrire; quale ne sia l’effetto in noi lo saprai,
considerando quanto debbano alla fatica popoli privi di risorse e
fortificati dal bisogno. Esamina tutte le genti al di fuori della pa-
ce romana, i Germani e ogni tribù di nomadi intorno all’Istro:
pesa su essi un inverno continuo, un cielo grigio, una terra sterile
gli dà un nutrimento avaro; si riparano dalle intemperie con tetti
di paglia o di fronde; slittano su stagni ghiacciati, cacciano bestie
selvagge per cibo. Ti sembrano infelici? Nessuna infelicità in
un’abitudine divenuta natura; lentamente si fa piacere ciò che
all’inizio era necessità. Non hanno dimore né sedi se non quelle
imposte di giorno in giorno dalla stanchezza; cibo scadente e per
giunta da procacciarsi con le mani, orribile clima, corpi non co-
perti: a te sembra una disgrazia, ed è la vita di tanti popoli. E ti
meravigli che gli uomini buoni siano tribolati perché si fortifichi-
no? Saldo e forte è solo l’albero che subisce il frequente assalto
del vento; è il continuo scuotimento a dargli più robustezza, più
tenaci radici: sono fragili le piante cresciute in una valle solatia.
È dunque a vantaggio degli uomini buoni, perché siano senza
paura, trovarsi spesso in situazioni paurose e tollerare paziente-
mente quelli che non sono mali se non per chi mal li sopporta.
5. Aggiungi ora che è a vantaggio della collettività che tutti i mi-
gliori siano come soldati e in piena attività. Il fine di dio è quello
del saggio, mostrare che le cose agognate o paventate dalla gente
non sono beni né mali; ora sarà chiaro che sono beni, se dio non li
dispensa che ai buoni, e mali, se li infligge solo ai malvagi. La ce-
cità sarà detestabile, se perderà gli occhi solo chi se lo merita: sia-
no perciò privati della luce Appio13 e Metello.14 Le ricchezze non
sono un bene: le abbia perciò anche il lenone Elio,15 perché gli
uomini, dopo aver dedicato templi al denaro, lo vedano anche in
un bordello. Dio non potrebbe svalutare l’oggetto dei desideri
meglio che accordandolo ai peggiori, rifiutandolo ai migliori. «Ma
è ingiusto che l’uomo buono sia invalido o trafitto o incatenato, e
i malvagi se ne vadano fisicamente integri e liberi di spassarsela.»
Ma che? Non è ingiusto che i veri uomini prendano le armi e pas-
sino le notti al campo e stiano a difesa del vallo con le ferite ben-
date, mentre se ne stanno al sicuro in città i froci e i professionisti
del vizio? Ma che? Non è ingiusto che le più nobili vergini si alzi-
no di notte a fare i sacrifici, e le insozzate godano di un profon-
dissimo sonno? La fatica chiama i migliori: il senato tiene spesso
sedute di un giorno intero, nel tempo in cui tutti i più spregevoli o
si divertono nel campo Marzio o se ne stanno nascosti in taverne
o perdono tempo in qualche crocchio. Lo stesso accade in questo
stato più grande: gli uomini buoni faticano, prodigano, si prodiga-
no, e di buona voglia; non sono trascinati dalla fortuna, la seguo-
no e l’affiancano; se avessero saputo, l’avrebbero preceduta. Ri-
cordo di avere udito anche queste energiche parole dell’intrepi-
do Demetrio: «Una sola lagnanza, dèi immortali, potrei farvi, di
non avermi notificata in anticipo la vostra volontà: sarei venuto
io per primo a quelle prove cui ora sono chiamato. Volete pren-
dermi i figli? Li ho cresciuti per voi. Volete una parte del corpo?
Prendetela: non è un grande indugio, presto ve lo lascerò tutto.
Volete la vita? Perché dovrei ritardare la restituzione di quello
che mi avete dato? Soddisferò volentieri ogni vostra richiesta. E
allora? Avrei preferito offrire che consegnare. Che bisogno c’era

13
Appio Claudio Cieco, il censore del 312 a.C.
14
Lucio Cecilio Metello, pontefice massimo che nel 241 a.C. avrebbe
perso la vista per salvare gli oggetti sacri dall’incendio del tempio di Vesta.
15
Personaggio sconosciuto.
di togliere? Potevate ricevere; ma nemmeno ora toglierete, per-
ché nulla si strappa se non a chi fa resistenza».
Niente mi costringe, niente subisco che non voglia, e a dio non
servo ma acconsento, tanto più che so come tutto fluisce secondo
una legge immutabile ed enunciata per l’eternità. Sono i fati a con-
durci e quanto tempo resta a ciascuno l’ha programmato l’ora del-
la nascita. Una causa dipende dall’altra, una lunga catena di even-
ti determina le vicende private e pubbliche: si deve sopportare tut-
to coraggiosamente perché tutte le cose non, come crediamo, av-
vengono, ma vengono. Una volta per tutte fu stabilito l’oggetto
delle tue gioie, delle tue lacrime, e benché la vita degli individui
sembri differenziarsi per una grande varietà, tutto si riduce a que-
sto: effimeri riceviamo l’effimero. A che dunque protestiamo? Di
che ci lagniamo? Per questo siamo al mondo. La natura usi come
vuole dei corpi che sono suoi: noi gioiosi e coraggiosi in ogni eve-
nienza riflettiamo che nulla perisce di nostro. Cos’è proprio di un
uomo buono? Offrirsi al fato. È un grande conforto essere rapiti
assieme all’universo; qualunque sia la forza che determina la no-
stra vita, la nostra morte, con la medesima necessità lega anche gli
dèi. Un flusso irrevocabile trasporta egualmente umanità e divi-
nità: lui stesso, il fondatore e reggitore di ogni cosa, ha scritto sì i
fati, ma li segue; ubbidisce sempre, ha comandato una volta per
tutte. «Sì, ma perché dio è stato così ingiusto nella distribuzione
del destino da assegnare agli uomini buoni povertà e colpi e mor-
te prematura?» Non può l’artefice mutare la materia: così è stata
condizionata. Vi sono cose inseparabili, indissolubili, indivisibili.
Nature fiacche, destinate al sonno o a una veglia del tutto simile al
sonno, sono tramate di elementi inerti: per formare un uomo de-
gno di questo nome, ci vuole un destino più vigoroso. La sua vita
non sarà in piano: bisogna che vada su e giù, sballottato dai flutti e
piloti la nave nella tempesta. Deve tener la rotta contro la fortu-
na; gli capiteranno molte vicende dure e difficili, che sarà lui a mi-
tigare e appianare. Il fuoco mette alla prova l’oro, la sofferenza gli
uomini forti. Vedi a quale altezza deve salire la virtù: ti renderai
conto che il suo andare non è senza rischi.

«Ripida all’inizio è la via, tanto che a fatica s’inerpicano


i cavalli freschi al mattino; a metà altissima è nel cielo
e molte volte io stesso mi spavento a guardare di lassù
il mare e la terra, col cuore che batte di paura e sgomento;
l’ultimo tratto è una china a strapiombo, che richiede mano
[ferma:
allora perfino Teti, che mi accoglie in fondo alle onde,
teme sempre ch’io possa a picco giù precipitare.»

Udite queste parole il generoso giovane: «Mi garba» disse «di


andare: salgo; il viaggio vale il rischio di cadere». Tenta e ritenta
(il padre) di impaurirne il forte cuore:

«e per quanto tu segua la via giusta senza mai sbagliare,


dovrai pure avventurarti tra le corna del Toro che hai di fronte,
contro l’arciere di Emonia, tra le fauci violente del Leone».

E lui per tutta risposta: «Aggioga i cavalli al cocchio che mi hai


concesso: le parole con cui cerchi di dissuadermi mi spronano;
ho voglia di star saldo là dove al Sole stesso batte il cuore». È di
animo basso e pigro cercare il sicuro: la virtù va per le vette.

6. «Sì, ma perché dio permette che agli uomini buoni accada


qualcosa di male?» Lui no, non lo permette. Ha allontanato da
essi tutti i mali, delitti e infamie e cattivi pensieri e ambizioni
smodate e la cieca passione e l’avidità anelante all’altrui; li pro-
tegge e tutela: o si esige da dio pure questo, che custodisca anche
i bagagli degli uomini buoni? Sono loro a risparmiare a dio que-
sta bega: non curano le cose esteriori. Democrito16 gettò via le
ricchezze, reputandole un peso per l’animo virtuoso: perché dun-
que ti meravigli, se dio permette che càpiti all’uomo buono quel-
lo che l’uomo buono talora vuole che gli càpiti? Perdono figli gli
uomini buoni: perché no, se talvolta arrivano a ucciderli?17 Sono
esiliati: perché no, se talvolta sono loro a lasciare la patria per
non tornarvi più?18 Sono uccisi: perché no, se talvolta sono loro a
suicidarsi? Perché subiscono sofferenze? Per insegnare agli altri

16
Democrito di Abdera (V sec. a.C.).
17
Allusione a Bruto Maggiore e a Manlio Torquato, che condannarono
a morte i loro figli per il bene della patria.
18
Allusione non tanto a Rutilio Rufo, quanto a filosofi emigrati per
motivi di studio.
a soffrire: sono nati per servire da esempio. Immagina dunque
che dio dica: «Che avete da rimproverarmi, voi che avete fatto la
scelta giusta? Ho circondato gli altri di falsi beni e ho illuso quel-
le anime vuote come con un lungo e ingannevole sogno: le ho
ornate d’oro d’argento di avorio, ma dentro non c’è nulla di buo-
no. Costoro che guardi come fortunati, se li vedi non dal lato che
mostrano ma da quello che celano, sono miseri, squallidi, laidi, a
somiglianza delle loro pareti belli solo di fuori; non è cotesta una
felicità solida e genuina: è un intonaco e per giunta sottile. Fin-
ché possono star dritti e mostrarsi a loro grado, luccicano e gab-
bano; ma se capita qualcosa che li abbatta e scoperchi, allora ap-
pare che profonda e reale sozzura nascondesse quello splendore
d’accatto. A voi ho dato beni sicuri e duraturi, e quanto più li ri-
giri ed esamini da ogni parte, tanto migliori e maggiori; a voi ho
concesso il disprezzo dei timori e il disgusto dei piaceri; non bril-
late all’esterno, i vostri beni guardano all’interno. Così il cosmo
è indifferente a ciò che sta al di fuori, pago di contemplare se
stesso. Dentro ho posto ogni bene; non aver bisogno della feli-
cità è la vostra felicità.
“Ma càpitano molte vicende dolorose, orribili, dure a soppor-
tarsi.” Non potendo risparmiarvele, ho armato i vostri cuori con-
tro tutto: sopportate da forti. In questo superate dio: lui è fuori
della sofferenza, voi al di sopra. Non curatevi della povertà: nes-
suno vive così povero come è nato. Non curatevi del dolore: o si
estinguerà o vi estinguerà. Non curatevi della morte: che è o una
fine o un passaggio. Non curatevi della fortuna: non le ho dato
nessun’arma in grado di colpire l’animo. Prima di tutto ho prov-
veduto che nessuno vi trattenesse contro voglia; la porta è aper-
ta: se non volete lottare, è possibile fuggire. Perciò fra tutte le co-
se che ho voluto per voi inevitabili nulla ho reso più facile che
morire. Ho posto la vita su un piano inclinato. Si protrae? Basta
un po’ di attenzione per vedere come sia breve e agevole la via
che conduce alla libertà. Ho posto meno ostacoli alla vostra usci-
ta che al vostro ingresso: altrimenti la fortuna avrebbe avuto un
grande dominio su voi, se l’uomo ci mettesse tanto a morire
quanto a nascere. Ogni momento, ogni luogo può insegnarvi co-
me sia facile rompere con la natura e gettarle in faccia il suo do-
no; fra gli stessi altari e le solenni cerimonie sacrificali, mentre si
auspica la vita, imparate la morte. Corpi pingui di tori crollano a
un piccolo colpo e la mano di un uomo abbatte animali possenti;
da una lama sottile è troncata l’articolazione della nuca e quan-
do si recide la vertebra che congiunge il capo e il collo, quella
mole così grande rovina. Non si cela nel profondo il soffio vitale
e non è certo necessario il ferro per estirparlo; non è necessaria
una ferita profonda che metta a nudo i visceri: la morte è a por-
tata di mano. Non ho fissato un luogo per tali colpi: per dove
vuoi, c’è un passaggio. Quello stesso che si chiama morire, il di-
stacco dell’anima dal corpo, è troppo breve perché tanta rapidità
possa essere avvertita: sia che un nodo vi spezzi la gola, sia che
l’acqua vi ostruisca i polmoni, sia che, buttandovi, la durezza del
suolo vi sfracelli la testa, sia che il fuoco ingoiato vi interrompa il
respiro,19 qualunque cosa sia, agisce in fretta. E non arrossite?
Tanta paura per un evento così breve!».

19
Probabile allusione al suicidio di Porzia, figlia di Catone e moglie di
Bruto, che ingoiò carboni ardenti.
LA FERMEZZA DEL SAGGIO*

IL SAGGIO NON PATISCE NÉ OFFESA NÉ CONTUMELIA

1. Non a torto, o Sereno,1 potrei dire che fra gli stoici e gli altri
maestri di filosofia2 sussiste una differenza tanto grande quanto
fra femmine e maschi,3 dato che entrambi i sessi in misura ugua-
le contribuiscono alla vita comune, ma una parte è nata per ob-
bedire, l’altra per comandare. Gli altri filosofi curano in modo
delicato e blando, non seguendo la via più efficace e più celere,
ma quella che è permessa, come fanno all’incirca i medici di casa
e intimi della famiglia con i corpi malati: invece gli stoici, che
hanno intrapreso una strada coraggiosa, hanno a cura non che
essa sembri piacevole a chi vi si avvia, bensì che ci salvi quanto
prima e ci conduca su quell’alta vetta che, inattaccabile da qual-
siasi freccia, tanto si erge da sovrastare la fortuna stessa. «Ma è
ardua e aspra la via per la quale siamo chiamati.» E che? si arri-
va in alto camminando in piano? Neppure, tuttavia, è tanto diffi-
cile quanto taluni pensano. Soltanto la prima parte ha sassi e ru-
pi e aspetto inaccessibile, così come la maggior parte delle alture
appare solitamente erta e compatta a coloro che guardano da
lontano, poiché la lontananza inganna la vista, ma poi, man ma-

* Tratto da: Seneca, La fermezza del saggio. La vita ritirata, Bur, Milano
2001. Traduzione e note di Nicola Lanzarone
1
Lucio Anneo Sereno, intimo amico di Seneca, nel 55 d.C. coprì la pas-
sione di Nerone per la liberta Acte, e fu perciò ricompensato con l’ufficio
di praefectus vigilum; morì per avvelenamento da funghi probabilmente
nel 62-63.
2
Gli altri filosofi sono soprattutto gli epicurei, la cui dottrina è comu-
nemente considerata l’esatto opposto del pensiero stoico, particolarmente
nell’ambito morale.
3
La scarsa considerazione della donna era un motivo cinico.
no che si accostano, esse stesse, che l’errore degli occhi aveva
ammassato in un blocco unico, si aprono a poco a poco, e allora
ritorna dolce il pendio di quelle alture, che per la distanza sem-
bravano scoscese.
Dal momento che – or non è molto tempo – era caduto il di-
scorso su M. Catone,4 eri sdegnato, siccome non tolleri l’ingiusti-
zia, del fatto che la sua epoca avesse capito poco Catone, che
avesse posto al di sotto dei Vatinii5 lui che si ergeva al di sopra
dei Pompei e dei Cesari, e ti sembrava vergognoso che gli fosse
stata strappata la toga nel foro mentre stava per combattere una
proposta di legge, e che, trascinato di mano in mano da una fazio-
ne sediziosa dai rostri fino all’arco Fabiano, avesse sopportato in-
vettive e sputi e tutte le altre contumelie di una folla dissennata.

2. Allora io ti risposi che tu avevi ben motivo di essere preoccu-


pato per lo Stato, che da una parte P. Clodio,6 dall’altra Vatinio e
tutti i peggiori mettevano in vendita, e, presi da cieca cupidigia,
non si rendevano conto che, mentre vendevano, essi stessi erano
venduti: relativamente alla persona di Catone, ti dissi di stare
tranquillo: il saggio, infatti, non può patire alcuna offesa né alcu-
na contumelia, d’altro canto gli dèi immortali hanno dato a noi
Catone quale esempio più veritiero che non Ulisse ed Ercole per
le generazioni precedenti. I nostri stoici li proclamarono sapien-
ti, non vinti dalle fatiche e spregiatori del piacere e vincitori di
tutte le paure. Catone non venne alle mani con animali feroci –
cacciarli è compito di cacciatori e contadini –, né combatté mo-
stri col ferro e col fuoco, né capitò in quei tempi in cui si potesse

4
Marco Porcio Catone Uticense (95-46 a.C.), pronipote di M. Porcio
Catone il Censore, partecipe della vita politica romana negli ultimi decen-
ni della repubblica, noto per il suo rigorismo morale d’impronta stoica,
nella guerra fra Cesare e Pompeo si schierò con quest’ultimo: dopo la di-
sfatta pompeiana, insieme con altri della sua parte resistette ancora in Uti-
ca (città dell’Africa settentrionale nei pressi di Cartagine), dove alla fine si
diede la morte.
5
P. Vatinio, sostenitore di Cesare, noto per le proposte di legge da lui
avanzate (ma su ispirazione di Cesare) quando, nel 59 a.C., fu tribuno del-
la plebe. Seneca vi accenna come a uno di quei sediziosi di cui fu ricca nel
I secolo a.C. la repubblica romana.
6
Publio Clodio Pulcro (92-52 a.C.), popularis, si segnalò come sosteni-
tore di Cesare e tribuno della plebe nel 59 a.C.
credere che il cielo fosse appoggiato sulle spalle di uno solo: do-
po che era stata rigettata l’antica credulità e l’umanità era giunta
ad un altissimo grado di cultura, Catone, che aveva lottato con-
tro l’ambizione, male multiforme, e contro la smisurata brama di
potenza, che il mondo intero, suddiviso in tre parti, non poteva
saziare, da solo si oppose ai vizi della città che degenerava e sta-
va andando a fondo per la sua grandezza, sorresse lo Stato in ro-
vina, per quel che una sola mano valesse a frenarlo, finché, strap-
pato all’opera sua, si diede come compagno alla rovina che pure
aveva a lungo sorretto, e insieme perirono quei due, che era im-
possibile venissero divisi; Catone, infatti, non sopravvisse alla li-
bertà, né la libertà a Catone. Credi tu che il popolo abbia potuto
fargli torto per il fatto che gli tolse la pretura o la toga, per il fat-
to che cosparse di sputi quel sacro capo? Il sapiente è al sicuro e
non può essere colpito da alcuna offesa o contumelia.

3. Mi sembra di vedere il tuo animo irritato ed infiammato, sei


sul punto di gridare con disapprovazione: «Questo è ciò che to-
glie autorevolezza ai vostri precetti: promettete grandi cose, tali
che non possono essere neppure desiderate, ancora meno credu-
te. Poi, parlando di cose straordinarie, dopo che avete negato che
il sapiente sia povero, affermate che di solito gli mancano e ser-
vo e tetto e cibo; dopo che avete negato che il sapiente impazzi-
sca, dite che esce di senno ed emette parole poco assennate e osa
tutto ciò cui la forza della malattia lo costringe; dopo che avete
negato che il sapiente sia schiavo, ammettete la medesima cosa,
cioè che sarà venduto, eseguirà gli ordini e presterà al suo pa-
drone i servigi propri degli schiavi: così altezzosi vi piegate a ciò
cui soggiacciono gli altri, dopo aver cambiato il nome delle cose.
Pertanto, sospetto qualcosa del genere anche a proposito di que-
sta massima, che a prima vista è bella e grandiosa, ossia che il sa-
piente non patirà né offesa né contumelia. Ma c’è grande diffe-
renza tra il ritenere il sapiente estraneo al provare sdegno o, in-
vece, al soffrire offesa. Se dici, infatti, che egli sopporterà con
animo sereno, non gode di alcun privilegio, ma ottiene una cosa
ordinaria e che si impara con la stessa persistenza delle offese,
cioè la pazienza; se dici che non riceverà offesa, cioè che nessuno
tenterà di arrecargliela, abbandono tutte le mie faccende e di-
vento stoico».
In realtà io non ho deciso di insignire il sapiente di un onore
immaginario fatto di parole, ma di porlo in quella condizione in
cui non sia permessa alcuna offesa contro di lui. «E che, dunque?
Non ci sarà nessuno che lo provochi, che lo aggredisca?» Nulla
in natura è tanto sacro da non trovare un sacrilego, ma non per
questo gli esseri divini sono meno in alto, se esiste chi cerchi di
assalire una grandezza posta di molto oltre sé, anche se non la
toccherà; è invulnerabile non quel che non viene colpito, ma quel
che non viene leso: ti presenterò un sapiente di questo conio. È
forse dubbio che la forza più sicura è quella che non è vinta piut-
tosto che quella che non è messa alla prova, dato che sono dub-
bie le forze non sperimentate, mentre a ragione è considerata as-
solutamente salda quella fermezza che respinge tutti gli attac-
chi? Così sappi tu che il sapiente è di migliore qualità, se nessu-
na offesa gli nuoce, piuttosto che se non gliene viene fatta nessu-
na; e io dirò uomo valoroso quello che non è domato dalle guer-
re e non è impaurito dalla forza del nemico che si avvicina, non
quello che si gode un pingue ozio tra popoli inoperosi. Questo,
dunque, affermo: il sapiente non è soggetto ad alcuna offesa; per-
tanto non importa quante frecce siano scagliate contro di lui, dal
momento che è del tutto invulnerabile. Come la durezza di talu-
ne pietre non può essere vinta dal ferro né il diamante può esse-
re tagliato o rotto o logorato, ma – per giunta – rende spuntato
ciò che lo attacca, come alcune cose non possono essere consu-
mate dal fuoco, ma, pur essendo circondate dalle fiamme, con-
servano la propria durezza e il proprio stato, come certi scogli
protesi verso il mare profondo fanno sì che questo vi si infranga,
ed essi, pur colpiti per tanti secoli, non mostrano alcun segno
della furia marina, così l’animo del sapiente è saldo e racchiude
in sé tale vigore da essere al riparo dall’offesa come lo sono
quelle cose che ho citato.

4. «Che dire, quindi? Non vi sarà qualcuno che tenti di recare


offesa al sapiente?» Lo tenterà, ma essa comunque non gli giun-
gerà; dal contatto con le cose inferiori, infatti, lo separa una di-
stanza troppo grande perché alcuna forza dannosa possa far ar-
rivare fino a lui i suoi attacchi. Anche quando uomini potenti,
posti in alto per il potere di cui dispongono e forti del consenso
dei sottomessi, si proporranno di nuocergli, i loro assalti verran-
no meno prima di raggiungere il sapiente così come i proiettili
che vengono lanciati in alto dalla corda dell’arco o dalle macchi-
ne da guerra, pur quando si siano innalzati all’infuori della vista
umana, ricadono, tuttavia, senza raggiungere il cielo. E che? Tu
credi che, quando quello stolto re oscurò il giorno con una gran
quantità di frecce, qualche saetta cadde allora sul sole, oppure
che, quando calò in profondità le catene, Nettuno poté essere
preso?7 Come i celesti sfuggono alle mani degli uomini e nessun
danno può venire alla divinità da quelli che distruggono i templi
e fondono le statue, così qualunque sia l’azione compiuta contro
il sapiente con impudenza, insolenza, arroganza, essa è tentata
invano. «Ma sarebbe stato meglio che non vi fosse alcuno che la
volesse fare.» Auguri una cosa difficile al genere umano, l’inno-
cenza; ma che un’offesa non sia fatta riguarda coloro che hanno
intenzione di farla, non chi non può soffrirne, neppure qualora
gli sia fatta. Anzi non so se la calma tra le provocazioni non mo-
stri maggiormente le forze della sapienza, così come una sicura
tranquillità in terra nemica è la più grande prova della potenza,
di armi e soldati, che ha il comandante.

5. Separiamo, se ti sembra opportuno, o Sereno, l’offesa dalla


contumelia. La prima è per sua natura più grave, la seconda è
più lieve e gravosa soltanto per le persone sensibili; gli uomini
non ne sono lesi, ma si sentono da essa mortificati. Tuttavia, è
tanto grande la mollezza e la frivolezza degli animi che alcuni
non considerano nulla più doloroso; così troverai uno schiavo
che preferisca essere percosso con la sferza piuttosto che con i
pugni, e che giudichi la morte e la flagellazione più tollerabili
delle parole ingiuriose. Siamo giunti a tanto meschine insulsag-
gini che ci tormenta non solo il dolore, ma il pensiero del dolore,
come accade solitamente ai bambini, i quali sono spaventati dal-
l’ombra, dalla bruttezza di una maschera e da una faccia sfigura-
ta, ai quali, inoltre, suscitano il pianto nomi poco graditi alle
orecchie e movimenti di dita e altro che essi cercano di evitare
sotto l’impulso – diciamo – di uno sciocco errore.

7
Si tratta di Serse, re dei Persiani dal 485 al 465 a.C., che guidò la se-
conda spedizione persiana contro la Grecia (480 a.C.), terminata con la
vittoria greca di Salamina.
L’offesa ha questa intenzione: fare il male a qualcuno; ma la
sapienza non lascia posto al male (per quella, infatti, uno solo è
il male, la disonestà, che non può accedere là dove già sono la
virtù e l’onestà); dunque, se non c’è alcuna offesa senza male, e
non è male se non ciò che è anche disonesto, e si sa che la diso-
nestà non può arrivare là dove c’è l’onestà, l’offesa non raggiun-
ge il sapiente. Difatti, se l’offesa consiste nel patire qualche ma-
le, e il sapiente, a sua volta, non patisce alcun male, nessuna offe-
sa riguarda il sapiente. Ogni offesa è una perdita per colui con-
tro il quale si scaglia, e nessuno può subire offesa senza qualche
danno o dell’onore o del corpo o delle cose poste all’infuori di
noi. Ma il saggio non può perdere nulla; tutto ha riposto in sé,
non affida nulla alla fortuna, ha i suoi beni al sicuro, appagato
della virtù, la quale non ha bisogno dei beni della fortuna e per-
ciò non può essere né arricchita né sminuita: infatti e ciò che ha
raggiunto l’apice non ha la possibilità di un ulteriore incremen-
to, e – dal canto suo – la fortuna nient’altro porta via se non quel
che prima ha dato. Ma la virtù non è un suo dono, perciò nem-
meno può toglierla: la virtù è libera, inviolabile, salda, incrollabi-
le, così indurita contro le disgrazie che non può essere neppure
piegata, tanto meno vinta; guarda a testa alta i preparativi di co-
se terribili, non muta per nulla il suo volto, qualunque realtà le si
mostri, sia dura sia favorevole. Il saggio, dunque, non perderà
nessuna di quelle cose che percepirà come effimere; è in posses-
so della sola virtù, da cui non può mai essere estromesso, dei re-
stanti beni fa uso come precari favori della sorte: chi è turbato
dalla perdita di cosa altrui? Se l’offesa non può danneggiare nul-
la che appartenga al sapiente, poiché, essendo salva la virtù, so-
no salvi tutti i suoi beni, al sapiente non può essere fatta offesa.
Demetrio, che ebbe il soprannome di Poliorcete,8 aveva con-
quistato Megara. Il filosofo Stilpone,9 al quale Demetrio aveva

8
Demetrio I di Macedonia, detto «Poliorcete», visse fra il 336 e il 283
a.C. ca.; ebbe una parte importantissima nelle lotte dei Diadochi, soste-
nendo, insieme col padre Antigono Monoftalmo, l’idea della unità dell’im-
pero di Alessandro, contro le tendenze separatiste e di equilibrio degli al-
tri generali di Alessandro.
9
Nativo di Megara e vissuto fra il 370 e il 290 a.C. ca., Stilpone fu allie-
vo di Eubulide e di Euclide, megarici; ascoltò anche Diogene di Sinope.
Dopo Ittia, divenne capo della scuola megarica.
chiesto se avesse perso qualcosa, così rispose: «Niente, tutte le
mie cose sono con me». Eppure, e il suo patrimonio era diventa-
to preda del nemico, e il nemico gli aveva rapito le figlie, e la pa-
tria era caduta sotto il dominio straniero e un re lo interrogava
dall’alto del suo seggio, attorniato dalle armi dell’esercito vinci-
tore. Ma Stilpone gli strappò la vittoria e, benché la città fosse
stata conquistata, si dimostrò non solo invitto, ma indenne; infat-
ti, aveva con sé i veri beni, dei quali nessuno può impadronirsi,
mentre quelli dispersi e saccheggiati non li considerava suoi, ma
esteriori e soggetti al capriccio della fortuna. Perciò non li aveva
amati come suoi propri; è incerto e malsicuro, infatti, il possesso
di tutto quel che ci viene dall’esterno.

6. Pensa ora se un ladro o un calunniatore o un vicino prepoten-


te o qualche ricco che si fa forte come un re della sua vecchiaia
senza prole possa recare offesa a colui al quale la guerra e il ne-
mico e quello che esercitava l’arte egregia di squassare le città,
non hanno potuto togliere niente. Un solo uomo godeva della
sua pace tra spade che scintillavano da ogni parte, nella confu-
sione dei soldati dediti al saccheggio, tra le fiamme e il sangue e
la devastazione della città abbattuta, tra il fragore dei templi che
cadevano sulle proprie divinità. Non c’è motivo, dunque, che tu
giudichi ardita la promessa, della quale, se io ho poca credibilità,
ti presenterò un garante. Credi a stento che un uomo sia capace
di tanta fermezza o così grande forza d’animo; ma si fa avanti
uno che ti dice: «Non c’è ragione che tu dubiti che chi nasce uo-
mo possa elevarsi al di sopra dell’umano, assistere tranquillo a
dolori, danni, piaghe, ferite, grandi movimenti di cose rumoreg-
gianti intorno a sé, e sopportare con serenità le avversità e acco-
gliere con moderazione le circostanze favorevoli, e – senza cede-
re a quelle e senza confidare in queste – possa restare sempre lo
stesso pur in situazioni diverse, non considerando suo nient’altro
che sé, e sé – ancora – limitatamente a quella parte nella quale è
migliore. Eccomi qua a dimostrarvi che sotto questo distruttore
di tante città vengono sì fatte cadere le fortificazioni a colpi d’a-
riete, e d’un tratto sprofondano le alte torri minate da gallerie e
fossati nascosti, e s’ingrandisce il terrapieno che eguaglierà ele-
vatissime rocche, ma non si può trovare alcuna macchina che
scuota un animo ben saldo. Or ora mi sono tratto fuori dalle ro-
vine della casa e, mentre da ogni parte risplendevano gli incendi,
ho evitato le fiamme passando in mezzo alla strage; non so quale
sia la sorte delle mie figlie, se peggiore di quella capitata alla
città; solo e alquanto vecchio, e pur vedendo intorno a me solo
cose nemiche, dico apertamente, tuttavia, che il mio patrimonio
è perfettamente integro: conservo, possiedo tutto quel che di mio
avessi prima. Non c’è ragione che tu creda me vinto e te vincito-
re: semplicemente la tua fortuna ha vinto la mia. Non so dove
siano quei beni caduchi, i quali cambiano sempre padrone: per
quanto concerne le mie cose, esse sono con me, con me saranno
in futuro. Codesti ricchi hanno perso i loro patrimoni, i libidinosi
hanno perso i loro amori e le sgualdrine amate a scapito dell’o-
nore, gli ambiziosi hanno perso la curia e il foro e i luoghi desti-
nati alla pratica pubblica dei vizi; gli usurai hanno perso i regi-
stri, in base ai quali un’avidità a torto lieta si prefigura ricchezze:
io, certo, mantengo tutti i miei beni intatti e inviolati. Interroga,
dunque, questi che piangono e si lamentano, che in difesa del de-
naro oppongono i corpi nudi alle spade sguainate, che cercano di
fuggire il nemico con la borsa colma».
Quindi convinciti di questo, Sereno, che non perde nulla quel-
l’uomo perfetto, pieno di virtù umane e divine. I suoi beni sono
protetti da baluardi solidi e invincibili. Ad essi non potresti para-
gonare le mura di Babilonia, nelle quali Alessandro penetrò,10
non le mura di Cartagine o di Numanzia,11 conquistate dalla
stessa mano, non il Campidoglio o la rocca12 – queste fortifica-
zioni recano l’impronta del nemico: quelle che difendono il sa-
piente sono al sicuro sia da incendi che da irruzioni, non offrono
alcun accesso, sono elevate, inespugnabili, all’altezza degli dèi.

10
Nel 331 a.C.
11
Cartagine fu espugnata e distrutta da Scipione Emiliano nel 146
a.C. (terza guerra punica); Numanzia, città della Hispania Tarraconensis,
subì la medesima sorte (per opera dello stesso condottiero romano) nel
133 a.C.
12
Seneca fa riferimento ai fatti del 390 a.C., allorquando i Galli Senoni,
guidati da un capo che i Romani chiamarono «Brenno», dopo aver vinto
l’esercito romano nella battaglia di Allia (18 giugno del 391 a.C.), cinsero
d’assedio Roma, priva di difesa, e – dopo sette mesi, secondo la tradizione
– espugnarono la rocca del Campidoglio (dove i cittadini romani si erano
asserragliati).
7. Non c’è motivo che tu dica, così come è tuo solito, che questo
nostro saggio non si trovi in nessun luogo. Noi non lo rappresen-
tiamo come ornamento della natura umana privo di consistenza,
né concepiamo un’immagine straordinaria di una cosa non vera,
ma l’abbiamo mostrato, e lo mostreremo, così come lo concepia-
mo, forse raramente, forse uno solo a grande distanza di tempo;
infatti non nascono di frequente le cose grandi, che oltrepassano
la misura ordinaria e comune. Del resto, temo che questo stesso
M. Catone, dalla cui menzione ha preso avvio la presente discus-
sione, sia superiore anche al nostro modello.
Infine, ciò che danneggia deve essere più forte di ciò che viene
danneggiato; ma la malvagità non è più forte della virtù; il saggio,
dunque, non può essere danneggiato. Soltanto i malvagi tentano
di offendere i buoni; tra i buoni c’è pace, mentre i malvagi sono
dannosi tanto ai buoni quanto – reciprocamente – a se stessi. Se
può essere leso solo chi è più debole, e – d’altra parte – il malvagio
è più debole del buono, e i buoni non hanno da temere offese se
non da chi è diverso da loro, l’offesa non colpisce il saggio. Ormai,
infatti, non ti si deve ricordare che nessuno è buono tranne il sag-
gio. «Se Socrate – si può dire – fu condannato ingiustamente, subì
offesa.» A questo punto bisogna capire che può accadere che uno
mi rechi offesa, e che io non la subisca: come se qualcuno, dopo
aver portato via dalla mia casa di campagna una cosa, la lasciasse
nella mia casa di città – in tal caso, quello avrebbe commesso il
furto, ma io non avrei perso nulla. Uno può diventare colpevole,
benché non abbia concretamente recato danno. Se qualcuno giace
con sua moglie pensando che sia un’altra donna, è adultero, ben-
ché quella non sia adultera. Uno mi ha somministrato un veleno,
ma questo, mescolato al cibo, ha perso la sua forza malefica: quel-
lo, dando il veleno, si è reso colpevole di un delitto, anche se non
ha recato danno. Non è meno criminale chi vede il suo pugnale
schivato per l’interposizione del vestito. Ogni delitto si può ritene-
re compiuto, relativamente a quanto basta per essere colpevoli,
anche prima della riuscita dell’azione. Certe cose hanno tale natu-
ra e si legano secondo tale relazione, che una può aver luogo sen-
za l’altra, ma non viceversa. Mi sforzerò di chiarire ciò che affer-
mo. Posso muovere i piedi anche senza correre: ma non posso cor-
rere senza muovere i piedi; posso, benché sia in acqua, non nuota-
re: se nuoto, non posso non essere in acqua. Di tal fatta è anche
ciò di cui trattiamo qui: se ho ricevuto un’offesa, è necessario che
sia stata compiuta; ma, se è stata compiuta, non necessariamente
io l’ho subita. Possono, infatti, accadere molte cose che respingano
l’offesa: come un qualche caso può abbassare la mano rivolta con-
tro e far deviare le frecce scagliate, così qualche cosa può respin-
gere offese di qualunque specie e bloccarle a metà strada, in mo-
do tale che, certo, sono state fatte, ma non subite.

8. Inoltre la giustizia non può subire niente di ingiusto, poiché i


contrari non sono compatibili; ma l’offesa non può essere fatta
se non ingiustamente; dunque al saggio non può essere fatta of-
fesa. Né hai motivo di meravigliarti, se nessuno può offenderlo:
nessuno può neppure giovargli. Al saggio non manca nulla che
possa ricevere in dono, e il malvagio non può donare niente che
sia degno del saggio; infatti, prima di dare, deve avere, ma non
ha nulla che farebbe gioire il saggio se gli venisse portato.
Nessuno, dunque, può recare danno o giovamento al saggio,
poiché gli esseri divini né desiderano essere aiutati né possono
essere danneggiati, e il saggio è vicino, è prossimo agli dèi, simile
a dio, eccezion fatta per la mortalità. Tendendo ed avviandosi
verso quelle realtà eccelse, ordinate, esenti da turbamenti, che
procedono secondo un corso uniforme e armonico, tranquille,
benefiche, nate per il bene universale, utili e a sé e agli altri, non
desidererà niente di modesto, non rimpiangerà alcunché. Chi,
basandosi sulla ragione, procede con animo divino attraverso le
vicende umane, non offre minimamente il fianco all’offesa che
gli possa venire – dall’uomo soltanto pensi che io dica? neppure
dalla fortuna, la quale, ogniqualvolta si sia scontrata con la virtù,
si è sempre ritirata sconfitta. Se accettiamo con animo piena-
mente sereno quella pena massima oltre la quale le leggi severe
e i tiranni più crudeli non hanno nient’altro da minacciare, in cui
la fortuna esaurisce tutto il suo potere, e sappiamo che la morte
non è un male, perciò nemmeno l’offesa, molto più facilmente
sopporteremo le altre pene – danni e dolori, oltraggi, esilii, per-
dite di persone care, separazioni –, che non opprimono il saggio,
anche qualora tutte insieme lo assalgano: tanto meno questi si
affligge di fronte ai singoli attacchi. E se sopporta con equilibrio
le offese della fortuna, quanto più quelle degli uomini potenti,
che sa essere strumenti della fortuna!
9. Tutto, dunque, tollera così come i rigori invernali e il cattivo
tempo, come la febbre e le malattie e gli altri eventi casuali, e di
nessuno ha un giudizio così positivo da ritenere che abbia fatto
qualcosa secondo ragione, il che è proprio soltanto del saggio.
Per tutti gli altri uomini non si può parlare di propositi razionali,
ma di inganni e insidie e inconsulti moti dell’animo, che il saggio
annovera fra gli accidenti possibili; d’altronde tutto ciò che è ca-
suale infuria intorno a noi e contro le cose vili.
Pensa anche che la materia delle offese si estende smisurata-
mente in quelle cose con cui si cerca di minacciarci, come un ac-
cusatore subornato o una falsa accusa o gli odi dei potenti aiz-
zati contro di noi e tutte le altre prepotenze che hanno luogo
tra gli uomini in toga. È un’offesa frequente anche quella di sot-
trarre a qualcuno il guadagno o un premio a lungo inseguito, di
stornare altrove un’eredità che è stata inseguita con grande fa-
tica, di portar via il favore di una casa da cui si ricavavano van-
taggi: il saggio, che non sa vivere né nella speranza né nel timo-
re di qualcosa, evita tutto questo. Aggiungi ora che nessuno ri-
ceve un’offesa con animo sereno, ma si turba non appena la per-
cepisce; invece, l’uomo libero da errori, che domina se stesso e
vive in una profondissima serenità, è privo di turbamento. Di-
fatti, se l’offesa tocca qualcuno, nel contempo lo turba e lo ecci-
ta; ma il saggio è esente dall’ira, la quale è suscitata dall’idea di
aver subìto offesa, né, diversamente, sarebbe esente dall’ira se
non anche dall’offesa, che sa non può essergli fatta. Perciò è
tanto fiero e lieto, perciò è orgoglioso della sua gioia ininterrot-
ta; d’altra parte, di fronte alle offese provenienti dalle cose e da-
gli uomini, fino a tal punto non si rattrista che gli è di utilità l’of-
fesa stessa, attraverso la quale sperimenta se stesso e mette alla
prova la sua virtù.
Assecondiamo – vi prego – questo proposito, e con animo e
orecchio favorevole prestiamo attenzione al saggio che si sottrae
all’offesa. Né per questo si riducono minimamente la vostra in-
solenza o le vostre avide brame o la vostra cieca sconsideratezza
e arroganza: fatti salvi i vostri vizi, per il saggio ricerchiamo que-
sta libertà. Noi non facciamo in modo che voi non possiate arre-
care offese, ma che il saggio le lasci cadere e si difenda con pa-
zienza e grandezza d’animo. Così nelle gare sacre i più vinsero
stancando con ostinata resistenza le mani di chi li percuoteva:
pensa che il saggio è dello stesso genere di quelli che con lungo e
tenace esercizio hanno conseguito la forza di sopportare e di
spossare ogni forza nemica.

10. Poiché abbiamo svolto la prima parte, passiamo alla seconda,


nella quale confuteremo la contumelia con taluni argomenti spe-
cifici, ma per lo più con argomenti comuni ad entrambe. È meno
grave dell’offesa, possiamo lamentarcene più che perseguirla; an-
che le leggi non l’hanno ritenuta meritevole di punizione. Questo
sentimento è suscitato dalla meschinità di un animo che si rattri-
sta per una parola o un’azione non onorifica: «Quello oggi non
mi ha lasciato entrare, pur accogliendo altri», «Ha respinto con
arroganza il mio discorso o lo ha apertamente deriso», «Non mi
ha posto nella parte mediana, ma in quella inferiore del letto tri-
cliniare», e altre cose di questo tipo: come dovrei definirle se non
lagnanze di un animo schizzinoso? In esse incappano quelli che
sono in generale raffinati e beati; non ha tempo, infatti, di notarle
chi ha preoccupazioni più gravi e pressanti. I caratteri fiacchi a
causa di un ozio eccessivo, effeminati, che vivono spensierata-
mente per mancanza di offese vere, sono turbati da questi insulti,
la maggior parte dei quali consiste in un errore di interpretazio-
ne. Pertanto, chi è turbato dalla contumelia mostra di non avere
né saggezza né fiducia in se stesso; infatti, si considera senza dub-
bio disprezzato, e questa afflizione ha luogo non senza una certa
meschinità dell’animo che si deprime e si abbatte. Il saggio, inve-
ce, non è disprezzato da nessuno, conosce la sua grandezza e pen-
sa che a nessuno è concesso osare tanto nei suoi riguardi, e tutti
questi che io chiamerei fastidi, non pene dell’animo, non ha biso-
gno di vincerli, perché neppure li percepisce.
Sono altre le cose che feriscono il saggio, anche se non lo ab-
battono, come il dolore e la debolezza del corpo, o la perdita di
amici e figli, e la rovina della patria incendiata dalla guerra: non
nego che il saggio avverta tutto ciò, poiché non gli attribuiamo la
durezza della pietra o del ferro. Non è virtù sopportare quello
che non senti. Che è, dunque? Il saggio riceve taluni colpi, ma,
una volta ricevutili, li vince, fa guarire e chiude le ferite; questi
colpi minori, invece, neppure li sente, e contro di essi non si av-
vale di quella solita virtù che consiste nel sopportare le avver-
sità, ma o non li rileva o li considera risibili.
11. Inoltre, poiché gli autori di gran parte delle contumelie sono
gli arroganti e gli sfacciati e quelli che si comportano male nella
loro condizione felice, il saggio dispone del mezzo con cui re-
spingere codesto tronfio sentimento, la magnanimità, la virtù più
bella di tutte: essa sorvola su tutte le meschinità di questo tipo
che le si presentino, come fossero vuote apparenze oniriche e vi-
sioni notturne che non hanno nulla di reale e di vero. Nello stes-
so tempo ritiene che sono tutti troppo piccoli per avere la teme-
rarietà di guardare con disprezzo chi è tanto più elevato. La con-
tumelia è così detta da contemptus [= disprezzo], poiché si insul-
ta in questo modo solo chi si disprezza; ma nessuno disprezza
uno più grande, migliore, anche se compie gli stessi atti che di so-
lito compiono coloro che disprezzano. Difatti, i fanciulli colpi-
scono il volto dei genitori, il bambino scompiglia e strappa i ca-
pelli della madre, e sputa, o sotto gli occhi dei suoi denuda parti
del corpo che devono essere coperte e non si astiene da un lin-
guaggio alquanto osceno: eppure non chiamiamo contumelia
nessuno di questi atti. Per quale ragione? Perché chi li compie
non è in grado di disprezzare. Identico è il motivo per cui l’argu-
zia ingiuriosa dei nostri schiavi nei confronti dei padroni ci pro-
cura diletto; la loro audacia acquista il diritto di manifestarsi ver-
so i commensali a questa sola condizione, che cominci dal padro-
ne; e quanto più sono spregevoli, tanto più sciolta hanno la lin-
gua. Certuni acquistano ragazzi sfacciati proprio a tal fine, sti-
molano la loro sfrontatezza e li fanno ammaestrare affinché lan-
cino insulti a proposito, eppure non chiamiamo queste contume-
lie, bensì arguzie: ma che grande demenza è ora divertirsi ora of-
fendersi per le stesse cose, e chiamare ingiuria un’espressione se
detta da un amico, insulto scherzoso se detta da uno schiavetto!

12. La medesima disposizione d’animo che noi abbiamo verso i


ragazzi, ha il saggio nei riguardi di tutti, i quali rimangono pueri-
li anche dopo la giovinezza e la vecchiaia. O hanno forse fatto
qualche progresso quelli il cui animo è ammalato e i cui errori
sono vieppiù cresciuti, che sono diversi dai ragazzi soltanto in
grandezza e conformazione corporea, mentre per il resto sono
non meno incostanti e incerti, bramosi di piaceri senza discerni-
mento, agitati, e calmi non per carattere ma per timore? Non si
potrebbe dire che ci sia qualche differenza tra loro e i ragazzi,
per il fatto che questi sono avidi di dadi o noci e di piccole mo-
nete, quelli di oro, di argento e di tavoli rotondi; i ragazzi tra di
loro – per gioco – esercitano le magistrature e riproducono la
pretesta, i fasci e il tribunale, gli adulti nel Campo Marzio e nel
foro e nella curia seriamente praticano i medesimi giochi; i ra-
gazzi sulle spiagge ergono finte case accumulando sabbia, gli
adulti, occupati nel metter su pietre e pareti e tetti come se stes-
sero facendo qualcosa di grande, hanno trasformato in pericolo
ciò che era stato inventato per la difesa del corpo. Dunque l’er-
rore degli adulti è uguale a quello dei ragazzi, ma riguarda altre
e più grandi cose. Non a torto, pertanto, il saggio prende per
scherzi le loro contumelie, e talvolta li biasima e li castiga, non
perché ha subìto un’offesa, ma perché essi l’hanno compiuta, e
affinché cessino di compierne; così, infatti, anche le mandrie so-
no domate con le bastonature, e non ci adiriamo con loro quan-
do rifiutano il cavaliere, ma le teniamo a freno, affinché il dolore
vinca la loro ostinazione. Vedrai, quindi, risolta anche quell’obie-
zione che ci viene opposta: «Se il saggio non ha subìto offesa né
contumelia, per quale ragione punisce coloro che l’hanno com-
messa?». Perché egli non vuole vendicare se stesso, ma corregge-
re quelli.

13. D’altra parte, qual è il motivo per cui tu non credi che il sag-
gio sia capace di questa fermezza d’animo, benché tu possa nota-
re in altri la stessa virtù, anche se non per la stessa ragione? Qua-
le medico, infatti, si adira con il malato di mente? Chi la prende
male se è insultato da uno che è febbricitante e al quale è vietata
l’acqua fredda? Il saggio ha verso tutti gli uomini questa stessa
disposizione d’animo del medico verso i suoi ammalati, di cui
non sdegna né di tastare le vergogne – se hanno bisogno di cura
–, né di esaminare gli escrementi solidi e liquidi, né di sopportare
gli insulti, dovuti alla loro furia di deliranti. Il saggio sa che tutti
costoro che incedono avvolti nella toga e nella porpora, in buo-
na salute e di colorito sano, sono insensati, e li considera non al-
trimenti che malati intemperanti. Pertanto, neppure si irrita, se,
nella malattia, si sono permessi un’insolenza di troppo contro
chi li cura, e con lo stesso animo con cui non stima nulla i loro
onori, parimenti non tiene in alcun conto le loro azioni disono-
revoli. Come non si compiacerà dell’omaggio di un mendicante,
e non si riterrà offeso se uno dell’infima plebe non ricambierà il
suo saluto, così neppure si inorgoglirà se molti ricchi lo guarde-
ranno con ammirazione – sa, infatti, che essi non sono per niente
diversi dai mendicanti, anzi sono ancor più miseri; quelli hanno
bisogno di poco, questi di molto – e, d’altra parte, non sarà scos-
so se il re dei Medi o Attalo d’Asia,13 mentre lui saluta, passe-
ranno oltre in silenzio e con cipiglio arrogante. Egli sa che la lo-
ro condizione non è per nulla più invidiabile di quella di chi in
una grande famiglia ha avuto in sorte il compito di tenere a fre-
no gli ammalati e gli insani. Soffrirò, forse, se non mi ricambierà
il saluto uno di questi che presso il tempio di Castore commer-
ciano comprando e vendendo schiavi dappoco, le cui botteghe
sono riempite da una moltitudine di servi di pessima risma? No,
io penso; che cosa mai può avere di buono, infatti, chi ha alle sue
dipendenze tutti uomini malvagi? Pertanto, come il saggio tra-
scura la cortesia e la scortesia di costui, così anche quelle di un
re: «Hai sotto il tuo dominio i Parti e i Medi e i Battriani, ma li
tieni a freno con il terrore, ma a causa loro non ti è riuscito di al-
lentare l’arco, ma regni su nemici spaventosissimi, che si lasciano
comprare, che vanno in cerca di un nuovo signore». Non sarà
turbato, dunque, dalla contumelia di nessuno; per quanto siano
tutti diversi fra loro, il saggio, certo, li considera tutti uguali, per-
ché uguale è la loro stoltezza. Se, infatti, una sola volta si abbas-
serà a tal punto da lasciarsi turbare da offesa o contumelia, non
potrà mai essere sicuro; ma la sicurezza è il bene proprio del sag-
gio. Né farà in modo che, ritenendo di aver subìto una contume-
lia, tributi onore a colui che gliel’ha fatta; è inevitabile, appunto,
che si gioisca di essere guardati con rispetto da colui dal quale si
sopporta a malincuore di essere disprezzati.

14. Alcuni sono presi da così grande demenza che pensano di


poter ricevere contumelie da una donna. Che importa quanto sia
agiata, quanti portatori di lettiga abbia, quanto pesanti siano i

13
Il re dei Medi, al quale Seneca si riferisce, è Serse. Attalo sta qui per
la ricca e fortunata dinastia ellenistica degli Attalidi, signori del regno di
Pergamo, alleati dei Romani a partire dalla prima guerra macedonica; l’ul-
timo sovrano della dinastia, Attalo III, quando morì (133 a.C.), lasciò il re-
gno in eredità ai Romani, che ne fecero la provincia d’Asia.
suoi orecchini, quanto ampia la sedia gestatoria? Rimane egual-
mente un essere senza senno e, se non sopravvengono scienza e
molta istruzione, selvaggio, impotente a frenare le sue brame.
Certuni non tollerano di essere stati urtati da un parrucchiere e
chiamano contumelia il carattere difficile di un portinaio, l’arro-
ganza di un nomenclatore,14 l’alterigia di un cameriere: oh che
ridere tra queste inezie! di che gran piacere si deve riempire l’a-
nimo di chi contempla la sua serenità nella confusione degli er-
rori altrui! «E che, dunque? Il saggio non si avvicinerà alla porta
sorvegliata da un portiere severo?» Egli, certo, se spinto a ciò da
una necessità, farà un tentativo, e lo placherà – chiunque sia –
gettandogli del cibo, come si fa con un cane aggressivo, né mal
sopporterà di sborsare qualcosa per oltrepassare la soglia, se
penserà che anche su alcuni ponti si paga un pedaggio per passa-
re. Dunque farà dono anche al portinaio – chiunque egli sia – che
si fa pagare la mancia per le visite al suo padrone: sa che col de-
naro si compra ciò che si vende. È di animo meschino chi si com-
piace del fatto che ha risposto con franchezza al portiere, ha
spezzato il suo bastone, è andato dal padrone e lo ha fatto basto-
nare; colui che combatte si fa avversario, e, benché vinca, si è co-
munque posto sullo stesso piano dell’altro.
«Ma che cosa farà il saggio, se sarà colpito da un pugno?»
Quello che fece Catone, quando subì un colpo in volto: non die-
de in escandescenze, non punì l’offesa, né la perdonò, ma negò
che gli fosse stata fatta; non la riconobbe, dimostrando un animo
ancor più grande che se l’avesse perdonata. Non a lungo rimar-
remo fermi su questo punto; chi ignora, infatti, che su nessuna
delle cose che si considerano mali o beni il saggio la pensa allo
stesso modo di tutti gli altri uomini? Non guarda che cosa gli uo-
mini giudichino turpe o misero, non segue la via della massa, ma,
come gli astri indirizzano il loro corso in senso contrario a quel-
lo del cielo, così egli procede contro l’opinione comune.

15. Smettetela di dire: «Il saggio, dunque, non riceverà offesa, se


verrà percosso, se gli sarà cavato un occhio? Non riceverà contu-
melia, se per il foro gli saranno rivolte parole sconvenienti da

14
Era lo schiavo che diceva al padrone i nomi delle persone che incon-
trava. Durante i pranzi annunciava le pietanze che si servivano.
gente triviale? se ad un banchetto regale gli sarà ordinato di
sdraiarsi in fondo alla tavola e di mangiare con gli schiavi che
hanno avuto in sorte compiti disonorevoli? se sarà costretto a
sopportare qualcun’altra di quelle cose che possono essere esco-
gitate per far soffrire persone di nobile pudore?». Queste cose,
per quanto crescano o in numero o in grandezza, saranno pur
sempre della stessa natura: se non lo toccheranno le piccole, nep-
pure lo toccheranno le grandi; se non lo toccheranno poche co-
se, neppure molte. Ma voi vi immaginate la grandezza d’animo
sulla base della vostra debolezza, e, dopo aver meditato quanto
– a vostro parere – voi possiate sopportare, ponete un po’ più
avanti il limite della pazienza del saggio; ma il saggio è stato po-
sto dalla sua virtù in un’altra regione del cosmo, senza avere nul-
la in comune con voi. Ricerca pure le avversità e tutto ciò che è
pesante da sopportarsi e da cui rifuggono l’udito e la vista: egli
non sarà sopraffatto dalla loro massa, e resisterà alle singole dif-
ficoltà così come a tutte quante messe insieme. Fa male chi dice
che il saggio può tollerare questo, ma non quello, e tiene la gran-
dezza d’animo costretta entro limiti determinati: la fortuna ci
vince, se noi non la vinciamo nella sua totalità.
Perché tu non pensi che questa sia durezza stoica, considera
che Epicuro, che voi prendete a difensore della vostra pigrizia, e
ritenete maestro di vita molle e inoperosa, indirizzata ai piaceri,
afferma: «Raramente la fortuna ha a che fare col saggio». Quan-
to poco mancò perché pronunciasse parole degne di un uomo!
Vuoi tu profferire parole più forti e toglier di mezzo totalmente
la fortuna? Questa casa del saggio è angusta, senza eleganza,
senza frastuono, senza fasto, non è sorvegliata da alcun portiere
che ripartisca la folla con venale arroganza, ma la fortuna non
passa per questa soglia vuota e non occupata da portinai: sa che
per lei non c’è posto là dove non c’è nulla di suo.

16. Se anche Epicuro, che fu molto accondiscendente verso il


corpo, insorge contro le offese, a noi stoici che cosa può sembrare
incredibile o smisurato rispetto alla natura umana? Egli afferma
che le offese sono tollerabili per il saggio, noi che non sono offe-
se. Né vi è motivo che tu dica che ciò contrasti con la natura: non
neghiamo che sia cosa molesta essere fustigato e spintonato e
mutilato, ma neghiamo che tutte queste siano offese; non toglia-
mo ad esse la sensazione di dolore, ma il nome di offese, che non
può essere ammesso senza con ciò pregiudicare la virtù. Vedremo
chi dei due si avvicini di più alla verità: entrambi concordiamo
nel non tenere in considerazione l’offesa. Mi domandi che diffe-
renza ci sia tra i due? Quella che c’è tra due fortissimi gladiatori,
dei quali uno stringe la ferita e sta fermo nella propria posizione,
l’altro, volgendo lo sguardo al popolo vociante, fa segno che non
è nulla e non permette che si intervenga in suo favore. Non c’è
ragione che tu ritenga grande la diversità d’opinione tra noi: en-
trambi gli esempi esortano a ciò di cui qui trattiamo, che solo vi
riguarda, cioè a non tenere in alcun conto le offese e le contume-
lie, che potrei denominare ombre e supposizioni di offese; a di-
sprezzare queste, non occorre un uomo sapiente, ma soltanto uno
che sia in sé, il quale possa dire a se stesso: «A ragione o a torto
mi capitano queste cose? Se a ragione, non è una contumelia, ma
un giusto giudizio; se a torto, deve vergognarsi chi compie l’ingiu-
stizia». E che cos’è ciò che si definisce contumelia? Ci si è preso
gioco della mia calvizie e della malattia degli occhi e della graci-
lità delle gambe e della statura: che contumelia è mai sentir dire
ciò che è evidente? Ridiamo di qualche cosa se detta a tu per tu,
ci indigniamo se detta in presenza di più persone, e ad altri non
lasciamo la libertà di dire quello che noi stessi ci siamo abituati a
dire contro di noi; ci procurano diletto gli scherzi misurati, quelli
smodati ci fanno adirare.

17. Crisippo dice15 che un tale si indignò per essere stato chia-
mato «montone marino». Abbiamo visto piangere in senato Cor-
nelio Fido, genero di Ovidio Nasone, perché Corbulone16 lo ave-
va chiamato «struzzo spelacchiato»; di fronte ad altri insulti che
ferivano profondamente i suoi costumi e la sua vita egli si oppo-
se con fronte ferma, di fronte a questo così stravagante pianse:
così grande è la debolezza degli animi, quando la ragione viene
meno. E che dire del fatto che ci offendiamo, se qualcuno imita il

15
Crisippo di Soli (281/277-208/204 a.C.) fu il terzo scolarca della Stoa, e
diede un contributo di grandissima rilevanza e mole allo sviluppo e alla di-
fesa del pensiero stoico: perciò fu detto «secondo fondatore» della scuola.
16
Gneo Domizio Corbulone (morto suicida nel 67 d.C.), grande gene-
rale e abile diplomatico romano.
nostro modo di parlare, il nostro modo di camminare, se qualcu-
no riproduce un difetto del nostro corpo o del nostro linguag-
gio? Come se essi diventassero più noti per l’imitazione di un al-
tro che per la pratica che noi ne facciamo! Taluni malvolentieri
sentono parlare della loro vecchiaia e della canizie e di altro a
cui pur con gran voti si desidera giungere; ad alcuni brucia l’in-
sulto di essere in miseria che rinfaccia a se stesso chiunque cer-
chi di nasconderla: pertanto, si toglie materia agli insolenti e a
coloro che vogliono riuscire arguti ingiuriando, se spontanea-
mente e per primo te ne impossessi, prevenendo gli altri; non fa
ridere chi tragga da se stesso il motivo di riso. Si tramanda che
Vatinio, uomo di natura tale da essere sia deriso che odiato, fu
un buffone fine e mordace. Egli stesso sparlava moltissimo dei
suoi piedi e della sua gola tagliata: così aveva evitato l’arguzia
dei suoi nemici, che aveva in quantità superiore alle malattie, e
soprattutto di Cicerone. Se con l’impudenza fu capace di ciò quel
Vatinio, che a causa di offese continue aveva disimparato a ver-
gognarsi, perché non dovrebbe esserne capace chi con gli studi
liberali e la cultura filosofica ha conseguito qualche progresso?
Aggiungi, inoltre, che è un tipo di vendetta il togliere a chi ha in-
giuriato il piacere dell’ingiuria fatta; alcuni sono soliti dire: «Oh
misero me! non ha capito, suppongo»: sino a questo punto il frut-
to dell’ingiuria consiste nel fatto che la percepisca e si indigni
colui che la subisce. Poi non mancherà talvolta all’insolente chi
gli renda la pariglia; si troverà chi vendichi anche te.

18. Gaio Cesare,17 che, tra gli altri difetti – dei quali abbondava
–, aveva anche quello di essere ingiurioso, provava uno straordi-
nario piacere nel colpire tutti con qualche infamia, pur costi-
tuendo egli stesso ricca materia di riso: tanto ripugnante era il li-
vore che attestava la sua follia, così torvi gli occhi nascosti sotto
la fronte da vecchio, così deforme il capo calvo e sparso solo qua
e là di capelli posticci; aggiungi il collo coperto di peli e la sotti-
gliezza delle gambe e l’enormità dei piedi. Non finirei mai, se vo-
lessi raccontare una per una le contumelie che rivolse ai suoi ge-
nitori e ai suoi avi, a tutte quante le classi dello Stato: riferirò
quelle che lo portarono alla rovina.

17
Si tratta di Caligola, princeps dal 37 al 41 d.C.
Aveva tra i suoi amici intimi Valerio Asiatico,18 uomo fiero e
che a stento avrebbe sopportato con animo sereno le contumelie
fatte ad altri: proprio a costui in un banchetto, cioè in assemblea,
Gaio disse in faccia, con voce chiarissima, come si comportasse
sua moglie a letto. Oh dèi buoni, un marito che ascolta ciò, un
principe che lo sa! e fino a tal punto è giunta la licenza che il prin-
cipe racconta il suo adulterio e il suo disgusto non dico all’ex con-
sole, non dico all’amico, ma solo al marito! Il modo di parlare di
Cherea, tribuno dei soldati,19 invece, non era rapportato al suo
valore, debole nel suono e – se non avessi conosciuto le sue gesta
– alquanto sospetto. A questi, quando chiedeva la parola d’ordi-
ne, Gaio dava ora «Venere», ora «Priapo», rinfacciando in vari
modi al soldato la sua effeminatezza; rinfacciava ciò proprio lui
che indossava una veste trasparente, calzava sandali, ed era ag-
ghindato d’oro. Perciò lo costrinse a servirsi della spada, per non
chiedergli più la parola d’ordine: lui per primo tra i congiurati
alzò la mano, fu lui a troncargli il collo a metà con un sol colpo;
poi da ogni parte gli furono conficcate nel corpo moltissime spa-
de a vendicare offese pubbliche e private, ma il primo fu quel-
l’uomo che non sembrava affatto tale. Ma lo stesso Gaio vedeva
contumelie dappertutto, siccome mal sopportano di subirne colo-
ro che sono bramosissimi di farne agli altri: fu in collera con
Erennio Macro perché lo aveva salutato chiamandolo «Gaio», né
evitò la punizione un centurione primipilo20 per averlo chiamato
«Caligola»; così, infatti, veniva solitamente apostrofato lui che
era nato in accampamento ed era stato allevato dalle legioni, e
che non era mai divenuto più noto ai soldati con altro nome; ma
ora che calzava il coturno giudicava un insulto e un disonore es-
sere denominato «Caligola». Proprio questo, dunque, ci sarà di

18
Senatore della Gallia Narbonese, per due volte console, nel 47 d.C. fu
accusato di aver partecipato alla congiura contro Caligola (41 d.C.) e co-
stretto a uccidersi.
19
Tribuno di una delle coorti pretoriane, già distintosi nelle guerre in
Germania sotto Tiberio, fu, come ricorda qui Seneca, a capo di coloro che
uccisero Caligola: salutato, quindi, dal senato come restauratore della re-
pubblica, venne giustiziato poco dopo – insieme con altri congiurati – dal
nuovo imperatore Claudio.
20
Comandava la prima centuria della prima coorte: era il più anziano
della legione.
conforto – anche se la nostra indulgenza avrà tralasciato la ven-
detta –, che ci sarà pur sempre qualcuno che faccia pagare il fio
allo sfrontato, all’arrogante, a chi offende: questi vizi non si esau-
riscono mai in un solo uomo e in una sola contumelia.
Rivolgiamo lo sguardo agli esempi di coloro di cui lodiamo la
capacità di sopportazione, come Socrate, che prese bene le argu-
zie delle commedie rivolte contro di lui, divulgate e osservate a
teatro, e ne rise non meno di quando la moglie Santippe gli ver-
sò addosso acqua sporca. Ad Antistene21 si rinfacciava di avere
madre barbara, originaria della Tracia: lui rispose che anche la
madre degli dèi era originaria del monte Ida.22

19. Non si deve arrivare alla rissa e alla lotta. Dobbiamo allon-
tanarcene di molto e trascurare qualunque cosa di tal genere ci
sia fatta dagli stolti (d’altronde, non può essere fatta se non da
stolti), dobbiamo tenere nel medesimo conto gli onori e le offese
del volgo. E non bisogna dolersi di queste né compiacersi di
quelli; diversamente, tralasceremo molte cose necessarie per la
paura o il fastidio delle contumelie, e non ottempereremo ai do-
veri pubblici e privati, talvolta anche di rilevante utilità, mentre
ci angustia la preoccupazione donnesca di sentir dire qualcosa
contro di noi. Talvolta, adirati anche contro uomini potenti, ma-
nifesteremo questo sentimento con intemperante libertà. Ma la
libertà non consiste nel non patire alcunché, ci sbagliamo: la li-
bertà consiste nell’innalzare l’animo al di sopra delle offese e nel
formare se stesso in modo tale che soltanto da sé scaturisca tutto
il bene di cui bisogna gioire, nel separare da sé le cose esterne,
affinché non si debba condurre una vita inquieta temendo il riso
di tutti, la lingua di tutti. Chi è, infatti, che non possa insultarci,
se qualcuno può farlo? D’altra parte, il sapiente e colui che aspi-
ra alla sapienza si serviranno di rimedi diversi. Gli imperfetti, in-

21
Antistene (444-365 circa a.C.), ateniese, fu dapprima scolaro di Gorgia,
poi seguace di Socrate. Sua madre era originaria della Tracia; perciò, nella
cerchia socratica, alcuni di nobili natali lo chiamavano «semibarbaro». Egli
che ebbe grande interesse per la logica e la dialettica, è comunemente noto
per le sue rigorose posizioni morali: egli fu sostenitore di un’etica che propi-
gnava l’autosufficienza della virtù e l’indipendenza dai bisogni.
22
Si tratta di Cibele, originaria – secondo il mito – del monte Ida, in
Frigia. È detta magna mater.
fatti, e coloro che si regolano ancora secondo l’opinione comu-
ne, devono proporsi di trattenersi essi stessi tra le offese e le con-
tumelie: a chi se lo aspetta, tutto risulterà più lieve. Quanto più
uno è nobile per stirpe, fama, patrimonio, tanto più valorosa-
mente si comporti, ricordando che le centurie scelte stanno in
prima fila. Sopporti le contumelie e le parole infamanti e le igno-
minie e tutti gli altri atti disonoranti come il clamore dei soldati
nemici, come le frecce distanti e le pietre che fanno rumore in-
torno agli elmi senza ferire; non abbattuto, neppure mosso dalla
sua posizione, resista, inoltre, alle offese come se fossero colpi
inferti, alcuni all’armatura, altri al petto. Anche se sei incalzato e
oppresso da una forza ostile, è, tuttavia, una vergogna ritirarsi:
difendi il posto che la natura ti ha assegnato. Mi chiedi quale sia
questo posto? Quello di uomo. Il saggio ha un altro mezzo di sal-
vezza, opposto a questo: voi, infatti, combattete la battaglia, egli
ha già conseguito la vittoria. Non opponetevi al vostro bene, e,
mentre raggiungete la verità, nutrite negli animi questa speran-
za, accogliete volentieri i buoni precetti, e giovate a voi stessi con
il giudizio e con l’augurio: che vi sia qualcosa di invitto, che vi sia
qualcuno contro il quale la fortuna non abbia alcun potere, è nel-
l’interesse dell’umana società.
L’IRA*

LIBRO I

1. Hai insistito, o Novato,1 ch’io scrivessi come si possa placare


l’ira, e mi pare che tu abbia buone ragioni per temere in partico-
lare questa passione, che è fra tutte la più turpe e rabbiosa. Men-
tre nelle altre c’è una certa calma e compostezza, questa è inte-
ramente agitata e pronta all’attacco, ed è portata alla follia da un
desiderio, in tutto indegno dell’uomo, di dolore, di armi, di san-
gue, di torture; incurante di sé, pur di nuocere al prossimo, si av-
venta persino sulle armi puntate contro, e brama una vendetta
destinata a coinvolgere anche il vendicatore.
Per questo alcuni filosofi hanno definito l’ira come una follia
di breve durata; infatti è ugualmente incapace di controllarsi, di-
mentica del buon contegno e dei vincoli di parentela, cocciuta-
mente impegnata a dar compimento alle proprie iniziative, chiu-
sa ai consigli della ragione, sconvolta da motivi futili, incapace di
distinguere la giustizia e la verità, in tutto simile alle frane che si
infrangono su ciò che travolgono. Del resto per convincerti che
non sono sani di mente coloro che sono in preda all’ira, osserva
attentamente il loro aspetto; come infatti sono precisi sintomi di
follia lo sguardo sfrontato e minaccioso, la fronte accigliata, il
volto torvo, l’andatura concitata, le mani sempre in movimento,
il colorito alterato, il respiro affannoso e profondo, tali sono i

* Tratto da: Seneca L’ira, Bur, Milano 1998. Traduzione e note di Co-
stantino Ricci
1
Novato è il fratello di Seneca. Assunse il nome di Gallione dal suo
maestro di retorica che lo adottò.
sintomi delle persone adirate: gli occhi sono ardenti e accesi, in
tutto il volto si diffonde un intenso rossore, poiché il sangue ri-
bolle dal profondo del cuore, le labbra tremano, i denti si serra-
no, i capelli si levano ritti sul capo, il respiro è faticoso e rumoro-
so, si avverte il rumore delle articolazioni che si contorcono, un
gemere e un muggire, un parlare smozzicato con parole non
chiaramente espresse, un frequente batter di mani e calpestio di
piedi sul terreno, l’intero corpo agitato ed esprimente grandi e
irose minacce, l’aspetto sconcio a vedersi e spaventoso di chi
deforma i lineamenti e si gonfia di collera – è difficile dire se sia
un difetto più detestabile o brutto.
Le altre passioni si possono nascondere o nutrire in segreto,
l’ira invece si evidenzia chiaramente nell’aspetto, e ribolle in ma-
niera tanto più evidente quanto più è grande. Non vedi come tut-
ti gli animali, quando stanno per attaccare, offrono degli indizi
premonitori e smettono in tutto il loro corpo l’atteggiamento
abituale e tranquillo e inaspriscono la loro ferocia? I cinghiali
hanno la bava alla bocca e affilano i denti con lo sfregamento, i
tori menano cornate all’aria e smuovono il terreno con l’agitarsi
delle zampe, i leoni fremono, i serpenti, eccitati, gonfiano il collo,
le cagne in preda alla rabbia hanno un aspetto pauroso: nessun
animale è per natura tanto spaventoso e pericoloso da non la-
sciare apparire, quando è colto dall’ira, l’aggiunta d’una nuova
ferocia. So bene che anche le altre passioni si nascondono a fati-
ca, e si possono conoscere in anticipo libidine, paura e sfronta-
tezza, grazie ai sintomi che presentano, poiché ogni agitazione
d’una certa intensità produce un mutamento nello sguardo.
Dov’è allora la differenza? Le altre passioni si intravedono, que-
sta si impone con tutta evidenza.

2. Infine, a voler considerare i suoi effetti e i danni che produce,


nessun malanno costò di più all’umanità. Vedrai massacri, avvele-
namenti, gramaglie reciproche di accusati, distruzioni di città, ge-
nocidi, uomini eminenti venduti all’asta, case incendiate, incendi
non trattenuti entro la cerchia muraria, ma vaste regioni illuminate
dal fuoco nemico. A stento si scorgono le fondamenta di famosissi-
me città: è stata l’ira a distruggerle. Si vedono spazi di terreno ab-
bandonati senza abitanti per un tratto di molte miglia: è stata l’ira
a spopolarli. Il ricordo di tanti condottieri è sopravvissuto come
esempio d’un avverso destino: l’ira trafisse uno nel suo letto, uccise
un altro violando le sacre leggi del banchetto, straziò un altro al co-
spetto delle leggi nel foro affollato, a un altro comandò di offrire il
suo sangue al parricidio, a un altro di farsi sgozzare da uno schiavo,
a un altro di fiaccarsi il corpo sulla croce.2 Finora ho parlato di sup-
plizi di singole persone: lasciati da parte coloro che l’ira travolse
uno alla volta, che dirai se ti verrà voglia di considerare assemblee
passate a fil di spada, la plebe massacrata da un’irruzione di solda-
ti, e interi popoli mandati a morte in strage confusa?
L’ira trasforma nel suo contrario tutto ciò che è ottimo e giu-
stissimo. Non consente che si ricordi di alcun dovere colui che da
essa è posseduto: fa di un padre un avversario, d’un figlio un par-
ricida, d’una madre una matrigna, d’un cittadino un nemico, d’un
re un tiranno. L’ira è la brama di vendicare un’offesa o, come di-
ce Posidonio,3 la brama di punire colui dal quale ti ritieni ingiu-
stamente offeso. Alcuni l’hanno definita l’impulso dell’animo a
recar danno a chi ci ha recato danno o ne ha avuto il proposito.
... come se abbandonassero la nostra cura o disprezzassero la
nostra autorità. Ma perché la folla si adira con i gladiatori e giu-
dica tanto ingiustamente un’offesa il fatto che non affrontano
volentieri la morte? Si ritiene disprezzata, e con lo sguardo, i ge-
sti, la passione da spettatore si muta in nemico. Tutto ciò non è
ira ma qualcosa che le si avvicina, come quella dei bimbi che, se
cadono, pretendono che si frusti la terra e spesso neppure sanno
perché si adirano, ma si adirano così, senza che ve ne sia una ra-
gione e che abbiano subìto un’offesa, non senza però una qual-
che parvenza d’offesa e una qualche brama di vendetta. Son così
beffati con busse finte e si lasciano chetare dalle finte lacrime di
chi li scongiura e una finta vendetta elimina il loro falso dolore.

2
Gli effetti funesti dell’ira sono qui elencati con espressioni generiche,
che consentono tuttavia di cogliere qualche precisa allusione: fra le città
famose di cui si vedono appena i resti, si può pensare a Troia, a Tebe di-
strutta da Alessandro, a Cartagine, sulle cui rovine fu sparso il sale; il co-
mandante ucciso nel suo letto potrebbe essere Scipione Emiliano; l’ucciso
«violando le sacre leggi del banchetto» è forse Clito; nel foro fu assassina-
to dagli usurai Sempronio Asellione come pure Tiberio e Gaio Gracco e
Seiano; per mano del figlio adottivo Bruto morì Cesare.
3
Posidonio, filosofo stoico (135-51 a.C.) ebbe fra i suoi discepoli a Ro-
di Cicerone, Pompeo e Varrone.
3. Dicono: «Spesso ce la prendiamo non con chi ci ha offeso, ma
con chi ne ha l’intenzione; dal che si può capire che l’ira non na-
sce dall’offesa». È vero che ce la prendiamo con coloro che han-
no l’intenzione di offenderci, ma essi ci offendono col loro stesso
proposito, e chi ha l’intenzione di fare un torto, è come se già lo
facesse. Dicono: «Che l’ira non sia brama di vendetta lo si capi-
sce dal fatto che i più deboli spesso s’arrabbiano con i più forti, e
non bramano una vendetta che giudicano impossibile». Innanzi
tutto abbiamo detto che è la brama, non la possibilità, di inflig-
gere una punizione; e gli uomini bramano anche al di là delle lo-
ro possibilità. In secondo luogo nessuno è tanto debole da non
sperare di poter punire anche un uomo potentissimo: a nuocere
siamo bravi tutti.
La definizione di Aristotele4 non si discosta molto dalla no-
stra; dice infatti che l’ira è il desiderio di ricambiare un dolore.
Sarebbe lungo spiegare che differenza ci sia tra questa e la nostra
definizione. Per confutarle entrambe, si dice che le fiere si adira-
no senza essere provocate da una offesa né per punire o recare
dolore altrui; infatti benché sia questo il risultato, non è questo il
loro proposito. Bisogna però dire che le fiere e ogni essere viven-
te eccetto l’uomo non conoscono l’ira, la quale, benché sia oppo-
sta alla ragione, nasce solo dove c’è spazio per la ragione. Le fiere
provano degli impulsi, la rabbia, la ferocia, l’assalto, ma non l’ira
e neppure la voglia di vita lussuosa, benché verso certi piaceri sia-
no più sregolate dell’uomo. Non devi credere a colui che dice:

Né il cinghiale ricorda l’ira, né la fiducia nella velocità


la cerva, né gli orsi gli assalti ai robusti armenti.5

Per ira intende assalto, attacco; quanto all’ira, non la conoscono


più del perdono. I muti animali ignorano le passioni umane, ma
hanno degli impulsi simili a esse; altrimenti se ci fosse in loro l’a-
more e l’odio, ci sarebbero anche l’amicizia e l’avversione, il dis-
senso e la concordia; di tutto ciò emergono anche in essi alcune

4
Aristotele (384-322 a.C.), discepolo di Platone e fondatore del Peripa-
to, fu sommo fra i filosofi antichi e si interessò di logica, scienze naturali,
etica, politica, retorica e poetica.
5
I due esametri citati sono tratti da Ovidio, con cui Seneca polemizza.
tracce, ma sono beni e mali propri dell’animo umano. Prudenza,
preveggenza, scrupolo, riflessione sono concesse solo all’uomo, e
gli animali sono preclusi non solo alle virtù, ma anche ai difetti
dell’uomo. L’insieme del loro aspetto, sia esteriore sia interiore,
è diverso da quello dell’uomo: quel non so che di regale e di
principesco ha tutt’altra origine. Come hanno la voce, ma non
distintamente articolata, anzi confusa e non in grado di esprime-
re parole, come hanno la lingua, ma impacciata e non libera nei
movimenti, così la stessa funzione primaria è poco sottile, poco
perfetta. Colgono quindi la vista e l’aspetto delle cose che gli
danno lo stimolo e l’impulso, ma in modo torbido e confuso. Di
conseguenza i loro attacchi e le agitazioni sono impetuosi, ma
non sono paura, ansia, tristezza e ira, ma qualcosa di simile a tut-
to questo; perciò finiscono presto e si mutano nell’affezione op-
posta e, dopo aver infuriato e provato paura in modo assai inten-
so, pascolano, e al folle fremito e alla scorreria subito tien dietro
il riposo e l’assopimento.

4. Abbiamo chiarito a sufficienza che cosa sia l’ira. Fra di essa e


l’iracondia c’è evidentemente la stessa differenza che fra l’ubria-
co e il beone, fra lo spaventato e il timido. Uno può essere adira-
to senza essere iracondo, e l’iracondo talora può non essere adi-
rato. Tralascerò le altre definizioni che con vari termini greci di-
vidono l’ira in diversi aspetti, poiché non hanno nella nostra lin-
gua vocaboli loro propri, anche se parliamo di persone irritabili,
aspre, come pure di colleriche, rabbiose, brontolone, intrattabili,
ruvide, termini tutti che indicano diverse gradazioni dell’ira; fra
costoro possiamo mettere i bisbetici, che rappresentano un tipo
raffinato d’iracondia. C’è infatti un’ira che si placa prima di arri-
vare all’urlo, ce n’è una non meno ostinata che frequente, una
selvatica nel far uso delle mani, ma più controllata nelle parole,
una che si lascia andare a espressioni e offese acerbe, una che
non va oltre i lamenti e le manifestazioni di avversione, una
profonda e grave e che si agita nell’intimo: ci sono altri infiniti ti-
pi di questa complicata malattia.

5. Abbiamo indagato che cosa sia l’ira, se sia tipica di qualche


altro animale diverso dall’uomo, in che cosa differisca dall’ira-
condia, quanti siano i suoi tipi: vediamo ora se l’ira abbia fonda-
mento naturale e se sia utile e debba perciò in qualche misura
essere conservata.
Esaminando l’uomo si vedrà chiaramente se abbia fonda-
mento naturale. Nessun essere è più mite dell’uomo, finché il suo
stato d’animo è nel giusto, e nulla è più crudele dell’ira. Nessun
essere, più dell’uomo, ama il prossimo, e nulla è più ostile dell’i-
ra. L’uomo è nato per darsi reciproco aiuto, l’ira mira alla rovi-
na; egli vuole vivere in comunità, essa starsene isolata, l’uno gio-
vare, l’altra nuocere, l’uno portare aiuto anche agli sconosciuti,
l’altra aggredire persino le persone più care, l’uno è pronto addi-
rittura a sacrificarsi per il bene altrui, l’altra è pronta a scendere
in campo, pur di trascinare giù altri. Pertanto chi ignora la natura
più di colui che assegna alla sua creatura migliore e più perfetta
questo difetto feroce e rovinoso? L’ira, come abbiamo detto, è
bramosa di punire, e non è affatto conforme alla natura dell’uo-
mo che una tal brama egli nutra nel suo cuore mansueto. La vita
dell’uomo si fonda sulle buone azioni e sulla concordia, ed è
spinta al patto di comune aiuto non dalla paura ma dall’amore
reciproco.

6. «E allora? non è forse necessario talvolta il castigo?» Certa-


mente, ma deve attuarsi senza ira, alla luce della ragione, poiché
non nuoce, ma cura, benché sembri nuocere. Come trattiamo col
fuoco certi pali contorti per raddrizzarli e, messi in opera i cunei,
vi facciamo pressione non per romperli ma per liberarli dalle no-
dosità, così correggiamo con dolore del corpo e dell’animo le in-
doli depravate dal vizio. Il medico per l’appunto, nei disturbi di
poco conto, cerca dapprima di non allontanarsi molto dalle abi-
tudini giornaliere e di dare regolare scansione a cibi, bevande ed
esercizi fisici, e di consolidare la salute mutando semplicemente
il ritmo della vita. Il passo successivo è fare in modo che la misu-
ra adeguata rechi giovamento. Se la giusta misura e la regolare
scansione non giovano, toglie e riduce alcuni alimenti; se il mala-
to non reagisce positivamente neppure a ciò, gli proibisce di nu-
trirsi e libera il corpo col digiuno; se il trattamento blando risulta
inutile, pratica il salasso e interviene chirurgicamente sulle mem-
bra, se le parti vicine recano danno e propagano la malattia; e
nessuna cura sembra crudele quando ha per effetto il consegui-
mento della salute. Allo stesso modo si conviene che il legislato-
re e il capo della comunità curino, finché è possibile, le indoli con
sole parole, e per di più affabili, per indurre al dovere e insinua-
re nei cuori l’amore per ciò che è onesto e giusto e l’odio contro
i vizi; passino poi a un discorso più severo, che sia ancora di av-
vertimento e di rimprovero; quindi facciano ricorso a castighi
pur sempre lievi e suscettibili d’esser revocati: infliggano infine
le pene più gravi ai delitti più gravi, di modo che muoia solo co-
lui la cui morte si risolve a suo stesso vantaggio. In questo sol-
tanto saranno diversi dai medici: questi ultimi procurano facile
morte a coloro cui non hanno potuto garantire la vita, i primi in-
vece tolgono la vita ai condannati con disonore e vilipendio pub-
blici, non perché la pena di qualcuno dia loro gioia (il saggio è li-
bero da sì disumana ferocia), ma perché siano di insegnamento a
tutti, e poiché non hanno voluto essere utili da vivi, la comunità
si giovi almeno della loro morte.
Dunque l’umana natura non è portata al castigo, e pertanto
non è conforme all’umana natura neppure l’ira, visto che è por-
tata al castigo. E voglio proporre la dimostrazione di Platone
(nulla vieta che ci serviamo del pensiero altrui in ciò che ha di
comune col nostro): «L’uomo dabbene» dice «non fa del male».
Il castigo fa del male e perciò non si addice all’uomo dabbene, e
quindi neanche l’ira, poiché il castigo si addice all’ira. Se l’uomo
buono non gode del castigo, non godrà neppure di quello stato
d’animo cui il castigo reca piacere; quindi l’ira non ha fondamen-
to naturale.

7. Benché l’ira non abbia fondamento naturale, non si deve forse


mettere in pratica, visto che spesso è riuscita utile? Essa solleva e
stimola gli animi, e senza l’ira il coraggio in guerra non compie
nulla di grandioso, se non viene di qui il fuoco e se questo sprone
non pungola e lancia nei pericoli gli audaci. Pertanto alcuni pen-
sano che la cosa migliore sia controllare l’ira, non sopprimerla, e
toltone ogni eccesso ridurla alla misura salutare, conservando
però quella passione senza la quale l’azione sarà fiacca e la forza
e l’energia dell’animo si dissolveranno. Innanzi tutto è più facile
tener fuori di noi ciò che è dannoso che controllarlo, e non farlo
entrare in noi che porgli un freno una volta che sia entrato; infat-
ti quando i vizi diventano padroni, sono più forti di chi vorrebbe
governarli, né tollerano d’essere troncati o ridotti. In secondo
luogo la ragione stessa, cui vengono affidate le redini, è padrona
di sé finché è libera dalle passioni; se si mescola e si inquina con
esse, non può tenere a freno quelle passioni che avrebbe potuto
respingere. Infatti la mente, una volta scossa e spodestata, è schia-
va della passione che la spinge. Mentre certi eventi, al loro inizio,
sono in nostro potere, procedendo oltre ci trascinano con la loro
forza e non ci lasciano la possibilità di tornare indietro. I corpi
che cadono nel vuoto non hanno alcun controllo di sé e non pos-
sono, una volta lasciati cadere, fermarsi o indugiare, ma una ca-
duta che non consente ritorno tronca ogni proposito e impedisce
il ravvedimento e non è possibile non arrivare a quella meta dove
sarebbe stato possibile non andare; allo stesso modo l’animo, se
si abbandona all’ira, all’amore e ad altre passioni, non ha la fa-
coltà di arrestare lo slancio; è giocoforza che lo trascini e lo porti
al fondo il suo peso e la natura disposta a cedere ai vizi.

8. La cosa migliore è disprezzare subito i primi sintomi dell’ira e


opporci al suo stesso nascere e impegnarci a non cadere in suo
possesso. Poiché se comincia a portarci fuori strada, è difficile il
ritorno alla salvezza, in quanto la ragione non ha voce una volta
che la passione è entrata in noi e la nostra volontà le ha ricono-
sciuto qualche diritto: essa farà per il resto tutto ciò che vorrà e
non ciò che le permetterai. Lo ripeto, il nemico va arrestato al
confine, poiché quando ha varcato le porte ed è entrato, non sop-
porta che i prigionieri gli fissino dei limiti. L’animo infatti non è
separato dalle passioni e non le osserva dal di fuori, sì da non per-
mettere che esse avanzino più del giusto, ma si incarna nella pas-
sione stessa e non riesce a richiamare quella sua energia utile e
salutare. Passione e ragione non hanno, come ho detto, loro sedi
separate e diverse, ma sono il cambiamento dell’animo in meglio
e in peggio. Come potrà dunque risorgere la ragione che ha cedu-
to all’ira, dominata e oppressa dai vizi? o come potrà liberarsi da
un disordine in cui la parte cattiva ha la meglio? «Ma alcuni» si
dice «riescono a controllarsi nell’ira.» Sì da non fare nessuna di
quelle azioni che l’ira impone, o da farne qualcuna? Se non ne
fanno alcuna, è chiaro che per le nostre attività non è necessaria
l’ira, che voi invocate come se avesse una forza maggiore della
ragione. Io chiedo infine: è più forte o più debole della ragione?
Se è più forte, come potrà la ragione porle un freno, visto che suo-
le obbedire solo la parte più debole? Se è più debole, la ragione
basta da sola, senza l’ira, a compiere le azioni, e non ha bisogno
dell’aiuto della più debole. «Ma alcuni, in preda all’ira, si sanno
dominare e contenere.» Quando? Quando l’ira ormai svanisce e
se ne va spontaneamente, e non quando è al massimo del bollore;
allora infatti è più potente. «E allora? non è forse vero che talora,
anche in preda all’ira, lasciano andare incolumi e indenni quelli
che odiano e si astengono dal nuocere?» È vero, ma quando?
Quando una passione ne respinge un’altra, e la paura o il deside-
rio hanno ottenuto qualcosa. In quel caso l’ira si placa non per i
benefici effetti della ragione, ma grazie a una pace delle passioni,
pace male intenzionata su cui non si può fare affidamento.

9. Inoltre non ha in sé nulla di utile né stimola l’animo alle im-


prese di guerra: la virtù, che è di per sé sufficiente, non richiede
l’aiuto del vizio. Ogni volta che c’è bisogno di slancio, non si adi-
ra ma sorge e si eccita e si placa nella misura che giudica oppor-
tuna; così la gittata dei proietti scagliati dalle artiglierie dipende
dalla volontà dell’artigliere. «L’ira» dice Aristotele «è necessa-
ria, nulla senza di essa si può ottenere, se non riempie l’animo e
infiamma lo spirito: bisogna però usarla non come se fosse un
comandante, ma un soldato.» Questo ragionamento è errato,
poiché se dà ascolto alla ragione e la segue dove la guida, non è
più ira, la cui caratteristica è l’ostinazione; se invece è riottosa e
non dà retta all’ordine di placarsi, ma si lascia travolgere dal ca-
priccio e dalla baldanza, è per l’animo un servitore inutile, come
il soldato che non dà ascolto al segnale della ritirata. Perciò, se
consente che le si fissi un limite, deve essere chiamata con altra
parola, non è più ira, che io intendo sfrenata e indomabile; se
non lo consente, è rovinosa e non può essere annoverata fra gli
aiuti; concludendo, o non è ira, o è inutile. Infatti se uno preten-
de la punizione, non perché sia bramoso della punizione in sé,
ma perché così è giusto, non deve essere annoverato fra gli irati.
Sarà soldato utile chi sa dar retta alla ragione; le passioni sono
funeste sia quando fanno da serve sia quando comandano.

10. Perciò la ragione non farà mai ricorso all’aiuto di istinti vio-
lenti e ciechi, sui quali non abbia essa stessa alcuna autorità, che
non possa mai soffocare se non contrapponendo a essi istinti
uguali e simili, come la paura all’ira, l’ira all’ozio, la cupidigia al
timore. Che la ragione non trovi mai rifugio nei vizi! Lungi dalla
virtù questo malanno! Non può un animo tale godersi un riposo
tranquillo, ma è inevitabilmente scosso e sballottato, protetto
com’è dai propri mali, incapace d’esser forte se non si adira, ino-
peroso se non desidera, quieto se non teme: deve vivere in un re-
gime dispotico, diventando schiavo di qualche passione. Non ci
vergogniamo di abbassare la virtù al rango di cliente dei vizi? E
poi la ragione cessa di avere alcun potere, se nulla può senza pas-
sione, e comincia a essere uguale e simile a essa. Giacché qual
differenza fa, se la passione è cosa avventata senza la ragione, e
la ragione è inconcludente senza passione? Le due situazioni so-
no uguali, l’una non può sussistere senza l’altra. Ma chi accette-
rebbe di uguagliare la passione alla ragione? «La passione è uti-
le» dicono «a patto che sia moderata.» Diciamo meglio: a patto
che sia utile per natura. Ma se non tollera i comandi della ragio-
ne, con la moderazione avrà come unico effetto di nuocere tanto
meno, quanto più sarà piccola; e così una passione moderata al-
tro non è che un male moderato.

11. «Ma contro i nemici» dicono «l’ira è necessaria.» In nessun


caso lo è di meno, poiché qui gli istinti non devono essere sfrena-
ti ma controllati e obbedienti. Quale altro motivo, se non un’ira
molto pericolosa a se stessa, indebolisce i barbari, tanto più ro-
busti nel fisico e tanto più resistenti? Anche i gladiatori si difen-
dono con la tecnica della scherma, e si scoprono quando sono in
preda all’ira. Eppoi, che bisogno c’è dell’ira, quando la ragione
coglie gli stessi risultati? Pensi tu forse che il cacciatore si adiri
con le fiere? Eppure ne sostiene gli assalti e le insegue quando
fuggono, e tutto questo ottiene la ragione senza l’ira. Tante mi-
gliaia di Cimbri e di Teutoni, tracimate al di qua delle Alpi, subi-
rono un massacro tale che a portare ai loro consanguinei notizia
di tanta disfatta non fu un messaggero ma la fama.6 Perché? Per-

6
I Teutoni e i Cimbri, alla loro prima comparsa nella storia della civiltà
mediterranea, furono battuti da Mario rispettivamente ad Aquae Sextiae
(102 a.C.) e ai Campi Raudii (101 a.C.). Il particolare che nessuno fu su-
perstite alla disfatta, ma solo la fama ne recò la notizia, è confermato da
tante fonti antiche.
ché in luogo d’esser valorosi erano adirati. Se è vero che l’ira tal-
volta rimuove e abbatte gli ostacoli, è pur vero che più spesso è
di rovina a se stessa. Nessuno è più coraggioso dei Germani, nes-
suno più accanito negli assalti, più amante delle armi fra le quali
nascono e crescono, delle quali soltanto si prendono cura trascu-
rando tutto il resto. Hanno fatto il callo a ogni sofferenza, poiché
per la maggior parte non possiedono indumenti o rifugi atti a
proteggerli da un clima sempre rigido. E tuttavia gli Ispani, i Gal-
li e gli abitanti d’Asia e di Siria, poco avvezzi alla guerra, li mas-
sacrano prima ancora che entrino in campo le legioni, poiché
scoprono il fianco ai colpi per nessun’altra ragione se non l’ira-
condia.7 Supponiamo dunque che diventino ragionevoli e disci-
plinati questi corpi e queste indoli che non conoscono raffina-
tezza, lusso e ricchezza; per non dire di più, noi dovremo perlo-
meno tornare ai costumi romani. Con quale altro espediente Fa-
bio ristorò le logore forze di Roma se non col saper temporeg-
giare, tirar le cose in lungo, indugiare?8 Attitudini tutte che non
si addicono alle persone adirate. L’impero, che era ormai sull’or-
lo dell’abisso, sarebbe bell’e finito, se Fabio avesse osato ciò che
l’ira suggeriva: tenne conto del destino dello Stato, e valutate le
forze superstiti, nessuna delle quali ormai poteva andar perduta
senza il crollo di tutto, mise in un canto il dolore e il desiderio di
vendetta, mirando unicamente all’utile e alle occasioni favore-
voli; prima di sconfiggere Annibale, sconfisse l’ira. E Scipione?9
Lasciò perdere Annibale, l’esercito cartaginese e tutti coloro con
cui avrebbe dovuto adirarsi, e trasferì la guerra in Africa, con
tanta lentezza da offrire ai malevoli il destro per accusarlo di dis-
solutezza e pigrizia. E il secondo Scipione?10 Restò a lungo ac-
campato presso Numanzia e sopportò serenamente che ci voles-
se più tempo a vincere Numanzia che Cartagine, motivo questo

7
Era consuetudine romana impiegare le legioni solo quando le truppe
ausiliarie (Ispani, Galli e gli abitanti d’Asia e di Siria) non avevano da sole
ragione del nemico.
8
Si tratta di Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore.
9
È Publio Cornelio Scipione l’Africano che, ancora presente Annibale in
Italia, concepì l’audace piano di sbarcare in Africa e trasferire colà la guerra.
10
Publio Cornelio Scipione Emiliano (figlio di Emilio Paolo ed entrato
per adozione nella famiglia degli Scipioni) distrusse Cartagine nel 146 a.C.
e Numanzia nel 133 a.C.
di dolore per sé e per tutti. Nel tempo che impiegò ad attuare il
blocco e a stringere d’assedio i nemici, li ridusse al punto di ucci-
dersi col loro stesso ferro. Pertanto l’ira non è utile neppure in
battaglia o in guerra: è infatti portata alla temerarietà e non evi-
ta i pericoli che vuol procurare al nemico. La virtù più infallibile
è quella che molto e a lungo esamina se stessa e si controlla e
procede lenta secondo i piani prestabiliti.

12. Dicono: «Ma come, l’uomo buono non si adira vedendo l’uc-
cisione del padre e il rapimento della madre?».11 Non si arrab-
bierà, ma li vendicherà e li difenderà. Perché temere che l’affet-
to filiale, senza l’ira, sia per lui uno stimolo poco efficace? Altri-
menti è lecito dire nello stesso modo: «Ma come, vedendo il pa-
dre o il figlio che subiscono un’operazione chirurgica, l’uomo
buono non piangerà e non si sentirà venir meno?». Questo è il
comportamento delle donne, tutte le volte che un lieve sospetto
di pericolo le coglie. L’uomo buono compirà i suoi doveri senza
incertezza e paura, e farà azioni degne d’un uomo dabbene in
modo da non commettere nulla che sia indegno dell’uomo. Verrà
ucciso mio padre: lo difenderò; è stato ucciso: lo vendicherò, per-
ché è necessario, non perché provo dolore. «Gli uomini buoni si
adirano per le offese ricevute dai propri congiunti.» Nel dir que-
sto, o Teofrasto,12 ti mostri avverso agli insegnamenti di fortezza
e lasciato il giudice ti presenti all’opinione del volgo: poiché
ognuno si adira in una simile sventura dei suoi, tu ritieni che gli
uomini penseranno che sia un dovere fare ciò che essi fanno; poi-
ché di norma ciascuno giudica giusta quella passione che ricono-
sce come sua. Ma fanno lo stesso se l’acqua non è preparata ben
calda, se si rompe un vaso di vetro, se le scarpe sono sporche di
mota. Non l’affetto, ma la debolezza suscita quest’ira, come ai
bimbi che piangeranno per la perdita dei genitori come per quel-
la delle noci. Arrabbiarsi per i propri congiunti non è segno d’a-
nimo affettuoso ma debole: è azione bella e degna scendere in

11
L’obiezione è di Teofrasto, nominato poco più oltre.
12
Teofrasto (371-286 a.C.), scolaro di Platone e di Aristotele, che lo de-
signò a succedergli nella scuola, si occupò di logica, metafisica, scienze na-
turali, politica, retorica, etica, psicologia. Della sua vasta produzione resta-
no a noi le Ricerche sulle piante, le Cause delle piante e i Caratteri.
campo in difesa dei genitori, dei figli, degli amici, dei cittadini,
sotto l’impulso del dovere stesso, con volontà, giudizio e preveg-
genza, senza passione e rabbia. Infatti nessuna passione è più
bramosa di vendetta dell’ira, e perciò stesso meno idonea alla
vendetta: è troppo precipitosa e folle, come di norma tutte le
brame, ed è di ostacolo a se stessa in ciò che si affretta a fare.
Perciò non è mai stata vantaggiosa né in pace né in guerra, giac-
ché rende la pace simile alla guerra, e dimentica che sul campo si
può vincere e si può perdere, e non essendo padrona di sé, fini-
sce sotto il dominio altrui.
E poi, se i vizi hanno talora sortito un qualche effetto, non per
questo vanno messi in pratica; anche la febbre allevia certi tipi di
malattia, ma ciò nonostante è meglio esserne del tutto liberi. È
un malaugurato tipo di cura quello d’essere debitori della salute
a una malattia. Ugualmente l’ira, sebbene talvolta sia stata im-
prevedibilmente di vantaggio come il veleno, una caduta preci-
pitosa, un naufragio,13 non per questo deve essere giudicata salu-
tare, poiché spesso furono causa di salute cose pestifere.

13. Inoltre le cose buone sono tanto più buone e desiderabili


quanto più sono grandi. Se la giustizia è un bene, nessuno dirà
che diventerà migliore se le si toglierà qualcosa; se la fortezza è
un bene, nessuno vorrà che subisca una qualche diminuzione.
Quindi anche l’ira è tanto migliore quanto più è grande; chi in-
fatti potrebbe rifiutare l’incremento d’un qualche bene? Ma il
suo accrescimento è inutile; quindi anche la sua esistenza; non è
un bene ciò che sviluppandosi diventa un male.
Dicono: «L’ira è utile perché rende più combattivi». In code-
sta maniera anche l’ubriachezza, che rende protervi e audaci;
molti da ubriachi sono stati migliori nella pratica delle armi; in
codesta maniera bisogna riconoscere che anche la frenesia e la
follia sono necessarie alla forza, perché spesso la follia rende più
forti. E con questo? non è forse vero che qualche volta la paura
rende per contrasto uno coraggioso, e la paura della morte suole

13
Vi è forse allusione alla cicuta bevuta da Socrate come farmaco di
immortalità, al naufragio che indusse Zenone a dedicarsi alla filosofia, e a
un tipo di suicidio di cui si parla in De ira III, 15, 4 come di espediente per
uscire dai mali della vita.
spingere al cimento anche i più fiacchi? Ma ira, ubriachezza,
paura e altri difetti di tal fatta sono stimoli vergognosi e passeg-
geri e non irrobustiscono la virtù, che non ha affatto bisogno dei
vizi, ma sollevano un tantino l’animo diversamente pigro e fiac-
co. Nessuno diventa più forte adirandosi, tranne colui che senz’i-
ra non sarebbe stato forte; essa pertanto non viene ad aiutare la
virtù, ma a prenderne il posto. E che dire del fatto che, se l’ira
fosse un bene, tutte le persone migliori vi sarebbero esposte?
Eppure i più iracondi sono i bimbi, i vecchi e i malati, e ogni es-
sere debole è per natura portato a lagnarsi.

14. Dice Teofrasto: «È impossibile che l’uomo dabbene non si


adiri con i malvagi». In codesta maniera, quanto più uno è buo-
no, tanto più sarà irascibile: al contrario sarà invece più calmo e
libero dalle passioni, e non nutrirà odio per nessuno. E quale ra-
gione ha di odiare i peccatori, dato che è un errore a spingerli a
sbagli di tal fatta? Non è da uomo assennato odiare chi sbaglia,
altrimenti odierà se stesso. Rifletta quante azioni egli compia
contro la morale, quante delle sue azioni passate richiedano per-
dono: finirà per arrabbiarsi anche con se stesso. Poiché il giudice
giusto non pronuncia sul suo conto una sentenza diversa da
quella che pronuncia sul conto degli altri. Non si troverà nessu-
no, lo garantisco, che possa assolversi, e ciascuno si dichiara in-
nocente perché non ci sono testimoni, non perché abbia la co-
scienza a posto. Quanto è più umano comportarsi verso i pecca-
tori con animo indulgente e paterno, e non perseguitarli ma ri-
chiamarli indietro! Se uno erra per i campi perché non conosce
la strada, è meglio riportarlo sulla strada giusta che cacciarlo.

15. Pertanto il peccatore va corretto, sia col rimprovero sia con


la forza, sia dolcemente sia aspramente, e deve essere reso mi-
gliore sia verso se stesso sia verso gli altri, non senza il castigo,
ma senza l’ira: nessuno infatti si adira con colui che ha in cura.
Se poi i colpevoli non sono suscettibili di correzione e non v’è in
loro alcuna mansuetudine né spiragli che consentano di ben spe-
rare, siano eliminati dalla società umana, poiché sono destinati a
rendere peggiore tutto ciò che toccano, e cessino d’esser malvagi
nel solo modo possibile, ma questo si faccia senza odio. Che mo-
tivo ho io di odiare colui al quale giovo soprattutto quando lo
tolgo a se stesso? C’è forse qualcuno che odia le sue membra nel
momento in cui se le taglia? Non è ira quella, ma cura dolorosa.
Sopprimiamo i cani rabbiosi e uccidiamo il bove ombroso e in-
domito, e procediamo col ferro sul bestiame malato, perché non
contagi il gregge; eliminiamo i neonati mostruosi; perfino i figli,
se vengono alla luce deboli e deformi, li affoghiamo; e non è ira,
ma scelta razionale separare ciò che è inutile da ciò che è sano.
Nessun sentimento si addice a chi punisce meno dell’ira, poiché
il castigo corregge tanto più efficacemente se viene inflitto con
criterio. È per questo che Socrate disse al suo schiavo: «Ti puni-
rei se non fossi adirato».14 Rimandò a tempo più opportuno il
rimprovero dello schiavo, sul momento rimproverò se stesso. Chi
avrà mai una passione moderata, visto che Socrate non osò la-
sciarsi prendere dall’ira?

16. Quindi per correggere i peccatori e i delinquenti non c’è bi-


sogno d’un punitore adirato; essendo l’ira una colpa dell’anima,
non conviene che a correggere i peccati sia un peccatore. «E al-
lora? non dovrei adirarmi con un brigante, con un avvelenato-
re?» No, poiché non mi adiro con me stesso quando pratico un
salasso. Applico ogni tipo di castigo a scopo curativo. «Tu stai
commettendo ancora peccati lievi, le tue cadute non sono gravi
ma numerose; cercherà di correggerti un rimprovero prima a
quattr’occhi, poi in pubblico. Tu ti sei spinto troppo in là per es-
sere guarito con le parole: sarai tenuto a freno con l’infamia. Tu
devi esser marchiato con più energia, in modo da provar dolore:
sarai esule in luoghi sconosciuti. Nel tuo caso, la tua malvagità
ormai incallita richiede trattamento più duro: si farà ricorso al-
l’arresto e alla prigione. Tu hai un animo inguaribile, che passa
da un delitto all’altro, e ormai non sei più spinto al reato da dei
motivi, che peraltro non verranno mai meno a un malvagio, ma il
reato stesso è per te un motivo abbastanza valido per peccare;
hai profondamente assorbito la malvagità, ne hai le viscere a tal
punto intrise, che essa non può uscire da te se non con le viscere
stesse: disgraziato qual sei, è un pezzo che chiedi di morire: ti fa-
remo un favore, ti toglieremo codesta follia con cui tormenti e

14
Altre fonti riferiscono l’episodio ad Archita di Taranto, altre ancora
ad Aristotele.
sei tormentato, e dopo che ti sei rivoltato nei tuoi e negli altrui
supplizi, ti proporremo la morte, il solo bene che ti resta.» Per-
ché dovrei adirarmi con uno proprio nel momento in cui gli reco
giovamento? Talora uccidere è la miglior forma di pietà. Se en-
trassi da competente in un ospedale o nella casa di un ricco, non
prescriverei la stessa cura a chi soffre di disturbi diversi: vedo in
tanti animi difetti diversi e ho l’incarico di curare una città; si
cerchi la cura adatta al male di ciascuno, a guarir costui sia la ver-
gogna, quest’altro un viaggio in terra straniera, quest’altro il do-
lore, quest’altro ancora il bisogno, quest’ultimo il ferro. Pertanto,
se come magistrato dovrò indossare la veste nera15 e convocare
con la tromba l’assemblea, avanzerò sul palco non furioso né
ostile, ma col volto della legge, e pronuncerò quelle formule so-
lenni con voce calma e grave piuttosto che rabbiosa, e ordinerò
che si proceda secondo la legge, non adirato ma severo; e nel-
l’ordinare di tagliar la testa al colpevole e nel far cucire nel sacco
i parricidi16 e nell’inviare al supplizio dei soldati17 e nel precipi-
tare dalla rupe Tarpea i traditori o i pubblici nemici,18 libero dal-
l’ira avrò quel volto e quello stato d’animo con cui colpisco i ser-
penti e gli animali velenosi. «Per punire ci vuole l’ira.» Come? ti
pare che la legge si adiri con le persone sconosciute, mai viste,
che spera non esisteranno mai? Bisogna dunque assumere l’at-
teggiamento della legge, che non si adira ma stabilisce. Infatti se
all’uomo buono si addice adirarsi per le cattive azioni, dovrà pu-
re provare invidia per i successi dei malvagi. Che certuni siano in
auge e che godano dei favori della sorte coloro per i quali non si
potrebbe escogitare alcuna sorte abbastanza avversa, di questo
non c’è nulla di più ingiusto. Ma guarderà senza invidia i loro
successi e senza ira i loro delitti; il giudice giusto condanna le
azioni riprovevoli, non le odia. «Ma come! quando il saggio avrà

15
Il magistrato indossava l’abito a lutto quando doveva pronunciare
sentenza di morte.
16
I parricidi venivano gettati nel Tevere dentro un sacco, insieme a una
vipera, un gallo, un cane e una scimmia.
17
L’esecuzione dei soldati avveniva per decapitazione dopo la fla-
gellazione.
18
La rupe Tarpea, dalla quale si precipitavano i traditori, ebbe nome
dalla fanciulla che nella guerra fra Romani e Sabini, ai tempi di Romolo,
aprì le porte della rocca ai nemici.
fra le mani qualcosa di simile, l’animo suo non ne sarà impres-
sionato e agitato più del solito?» Lo ammetto: avvertirà un mo-
vimento leggero e sottile, poiché, per dirla con Zenone, anche
nell’animo del saggio, guarita la piaga, resta la cicatrice. Avver-
tirà quindi degli indizi e larve di passioni, ma di passioni vere e
proprie sarà privo.

17. Dice Aristotele che certe passioni, a farne buon uso, sono
come armi.19 Il che sarebbe vero se si potessero indossare e
smettere ad arbitrio di chi le indossa, come l’equipaggiamento
da guerra: queste armi che Aristotele assegna alla virtù, combat-
tono da sole, non attendono l’intervento della mano, e possiedo-
no, non sono possedute. Non c’è affatto bisogno di altri equipag-
giamenti, basta la ragione di cui la natura ci ha fornito. Ci ha da-
to quest’arma, salda, eterna, obbediente, né a doppio taglio né
tale che possa essere rilanciata contro il padrone. La ragione è di
per se stessa sufficiente non solo a prevedere, ma ad agire, e per-
ciò nulla è più stolto che essa, bene stabile, fidato e sano, chieda
aiuto all’ira, che è insicura, infida e malata. E che dire del fatto
che, persino in quelle nostre azioni in cui l’intervento dell’ira
sembra necessario, la ragione da sola è molto più forte? Quando
decide di dover fare qualcosa, è tenace nel proposito, poiché non
troverà nulla di meglio da sostituire a se stessa; per questo, una
volta presa una decisione, non la muta. L’ira spesso si lascia ri-
condurre indietro dalla compassione, poiché non ha salda robu-
stezza, ma vana gonfiezza, ed è violenta nell’inizio, come quei
venti che si levano da terra e raccolti nei fiumi e nelle paludi, so-
no impetuosi ma di breve durata. Comincia con grande slancio,
ma poi vien meno stancandosi prima del tempo, e benché non
abbia meditato altro che crudeltà e castighi inauditi, quando è il
momento di punire è ormai fiacca e lieve. Mentre la passione
svanisce presto, la ragione è costante. Del resto l’ira, anche quan-
do è persistente, se sono numerosi coloro che hanno meritato di
morire, talvolta smette di uccidere dopo aver versato il sangue di
due o tre persone. Sono duri i primi suoi colpi, come è mortale il
veleno dei serpenti allorché strisciano fuori dal covo, mentre i

19
Il paragone fra certe passioni e le armi non compare in Aristotele,
ma in Platone.
loro denti non recano più danno allorché si sono esauriti in con-
tinui morsi. Succede così che non scontano la stessa pena coloro
che hanno commesso lo stesso delitto, e spesso chi è meno col-
pevole è punito di più, perché ha dovuto affrontare un punitore
più fresco. Ed è sempre incostante: ora va oltre il lecito, ora si ar-
resta prima del dovuto: poiché è indulgente con se stessa e giudi-
ca secondo capriccio, e non vuol dare ascolto e non lascia spazio
alla difesa, non molla la presa e non consente che le si tolga la
facoltà di decidere, anche se decide male.

18. La ragione dà tempo a entrambi i contendenti, quindi chie-


de un rinvio anche per se stessa, per avere il tempo di appurare
la verità: l’ira ha fretta. La ragione vuol pronunciare un verdetto
giusto, l’ira vuole che sembri giusto il verdetto che ha pronuncia-
to. La ragione valuta unicamente la questione di cui si tratta, l’i-
ra si lascia impressionare da cose futili ed estranee alla causa. La
esasperano uno sguardo troppo sereno, una voce troppo sonan-
te, una battuta troppo franca, un abbigliamento troppo raffinato,
una trattazione della causa un tantino intrigante, il favore popo-
lare; spesso condanna l’accusato perché odia il difensore; anche
se la verità balza agli occhi, ama e difende l’errore; non vuole es-
sere confutata, e nelle iniziative sbagliate le sembra più dignito-
sa la testardaggine del ravvedimento.
Ai nostri tempi Gn. Pisone20 era uomo libero da molti difetti,
cattivo però e tale da preferire la crudeltà alla fermezza. In pre-
da all’ira ordina di condurre a morte un soldato che era tornato
dalla licenza senza il compagno, pensando che l’avesse ucciso, vi-
sto che non poteva farlo comparire. Il poveretto chiedeva un po’
di tempo per cercarlo, ma non glielo concesse. Il condannato fu
condotto fuori dalla palizzata e già stava porgendo il collo alla
scure, quando all’improvviso comparve il commilitone che si cre-
deva ucciso. Allora il centurione preposto all’esecuzione ordinò
alla guardia di riporre la spada, ricondusse il condannato da Pi-
sone, per procurare a Pisone l’innocenza che la buona fortuna
aveva procurato al soldato. I due commilitoni, abbracciandosi
l’un l’altro, erano accompagnati dalla truppa in massa, mentre
l’accampamento era in festa. Ma Pisone salì infuriato sul palco e

20
Gneo Pisone fu governatore della Siria sotto Tiberio.
ordinò di giustiziarli entrambi, sia il soldato che non aveva ucci-
so sia quello che non era morto. Si può immaginare qualcosa di
più ingiusto? Poiché uno era risultato innocente, morivano in
due. Pisone aggiunse anche un terzo: mandò a morte anche il
centurione che aveva ricondotto indietro il condannato. I tre fu-
rono condotti in quello stesso luogo a morire per l’innocenza di
uno. Come è pronta l’ira a inventare motivi di follia! «Quanto a
te» disse «ti mando a morte perché sei stato condannato; te, per-
ché hai causato la morte del tuo commilitone; te, perché, ricevu-
to l’ordine di uccidere, non hai obbedito al tuo comandante.»
Trovò il modo di commettere tre delitti poiché non ne aveva tro-
vato alcuno.

19. L’ira, lo ripeto, ha questo di male, che non vuol essere guida-
ta. Se la prende persino con la verità, se si manifesta contraria al
suo volere; perseguita le vittime che ha scelto con urla, confusio-
ne e agitazione di tutto il corpo, aggiungendo offese e impreca-
zioni. Non così agisce la ragione, ma, se è necessario, distrugge
dalle fondamenta case intere ed elimina con spose e figlioli le fa-
miglie rovinose per lo Stato, abbatte e rade al suolo le loro stesse
case, ed estirpa le casate ostili alla libertà, restando silenziosa e
tranquilla: non digrigna i denti, non scuote il capo e non fa nulla
di disdicevole per un giudice, il quale deve conservare lo sguar-
do pacato soprattutto quando pronuncia sentenze importanti.
«Che bisogno hai» dice Gerolamo21 «di mordere prima le tue
labbra, quando vuoi colpire qualcuno?» E che direbbe se avesse
visto un proconsole saltar giù dal palco e strappare i fasci al lit-
tore e lacerare le proprie vesti, perché quelle altrui venivano la-
cerate troppo lentamente? Che bisogno c’è di buttar all’aria la
mensa, rompere i bicchieri, dar di testa nelle colonne, strapparsi
i capelli, battersi il petto e i fianchi? Quanto ritieni grande quel-
l’ira che si rivolge contro se stessa, perché non riesce ad aggredi-
re velocemente come vorrebbe un altro? Ecco dunque che i pa-
renti trattengono gli adirati e li pregano di placarsi con se stessi.
Nulla fa di tutto questo colui che, libero dall’ira, irroga a cia-
scuno la pena meritata. Spesso lascia impunito colui che ha colto

21
Gerolamo di Rodi, vissuto nel III sec. a.C., fu filosofo peripatetico,
autore di un’opera Sul frenare l’ira.
in colpa: se il pentimento per il reato commesso consente di nu-
trir buone speranze, se si rende conto che la malvagità non ha
radici profonde ma è, come dicono, a fior di pelle, concederà
un’impunità che non recherà danno né a chi la riceve né a chi la
dà. Talvolta infliggerà ai grandi delitti pene minori che ai piccoli,
se i primi sono stati commessi per sbaglio e non per crudeltà,
mentre nei secondi v’è una malvagità nascosta, mascherata, in-
callita; castigherà in due persone lo stesso delitto in modo diver-
so, se l’una lo ha commesso per sbadataggine e l’altra si è propo-
sta il fine di recar danno. In ogni punizione sarà sempre consa-
pevole che l’una si applica per correggere i malvagi, l’altra per
eliminarli; in entrambi i casi non guarderà al passato ma al futu-
ro (infatti, come dice Platone, nessun saggio punisce perché si è
commesso un reato, ma perché non lo si commetta più; ciò che è
stato è irrevocabile, ciò che potrebbe accadere lo si può impedi-
re) e ucciderà pubblicamente coloro che vorrà proporre come
esempi di malvagità finita male, non solo perché muoiano essi
stessi, ma anche perché con la loro morte trattengano gli altri dal
delitto. Tu vedi come debba essere libero da ogni turbamento chi
deve soppesare e risolvere tali questioni accostandosi al potere
di vita e di morte, nel quale ci si deve regolare con sommo scru-
polo: non bisogna affidare un’arma a una persona adirata.

20. Non bisogna pensare neppure che l’ira dia un qualche con-
tributo alla grandezza d’animo; non è magnanimità quella, ma
orgoglio; quando un corpo si gonfia per abbondanza di umore
malsano, la malattia non lo fa crescere, ma costituisce una dilata-
zione funesta.22 Tutti coloro che l’animo folle esalta al di sopra
degli umani pensieri, credono di spirare un non so che di alto e
di sublime: ma sotto non c’è nulla di solido, e le costruzioni che
non hanno fondamenta sono pronte a franare. L’ira non ha una
base d’appoggio, né origini salde e durature, ma è ventosa e vana
ed è tanto lontana dalla magnanimità quanto la temerarietà dal
coraggio, l’arroganza dalla confidenza, il cipiglio burbero dal-
l’austerità, la crudeltà dalla severità. C’è molta differenza, lo ri-
peto, fra un animo sublime e uno superbo. L’iracondia non intra-
prende nulla di grande e dignitoso, anzi l’addolorarsi spesso mi

22
La malattia è evidentemente l’idropisia.
pare tipico d’un animo fiacco e infelice, consapevole della sua
debolezza, simile ai corpi piagati e malati che si lamentano al mi-
nimo tocco. Per questo l’ira è un difetto tipico delle donne e dei
bimbi. «Ma si verifica anche negli uomini.» Infatti anche certi
uomini hanno temperamento infantile e femmineo. «Ma gli irati
non pronunciano forse delle frasi che sembrano uscire da un ani-
mo grande?» Piuttosto da chi ignora la vera grandezza, come la
ben nota battuta, crudele e abominevole «mi odino, purché mi
temano».23 Si capisce che fu scritta ai tempi di Silla. Non so se si
sia fatto un peggior augurio nel chiedere di essere odiato o di es-
sere temuto. «Mi odino.» Fu per lui chiaro che l’avrebbero male-
detto, insidiato, eliminato: e che aggiunse? Che gli dèi gli diano il
malanno, poiché trovò un rimedio così degno dell’odio. «Mi odi-
no» e poi? «purché mi obbediscano?» No. «purché mi approvi-
no?» No. E allora? «purché mi temano». A questa condizione io
non vorrei neppure essere amato. Pensi tu che questa frase sia
stata pronunciata con grande coraggio? Ti sbagli; codesta non è
grandezza ma crudeltà. Non dar retta alle parole degli iracondi
che fanno un grande strepitare e minacciare, ma interiormente
sono pieni di paura. Non giudicar vero ciò che si legge in Tito Li-
vio,24 uomo eloquentissimo: «uomo di indole più grande che
buona». Grandezza e bontà non si possono separare: sarà anche
buono, o non sarà neppure grande, perché per grandezza d’ani-
mo intendo quella imperturbabile, interiormente salda, stabile e
robusta dalle fondamenta, che non può trovarsi in indoli malva-
gie. Esse possono essere spaventose, agitate e funeste, ma non
avranno mai la grandezza, di cui è sostegno e forza la bontà. Per
il resto con parole, tentativi e ogni apparato esteriore daranno
l’illusione della grandezza; diranno qualcosa che si può ritenere
tipico di un animo grande, come G. Cesare,25 il quale, prenden-
dosela col cielo perché venivano fischiati i pantomimi, di cui era
più appassionato imitatore che spettatore, e perché i fulmini

23
La citazione è da Accio: la frase, pronunciata dal tiranno Atreo, è ri-
cordata più volte da Cicerone ed era, al dire di Svetonio, frase abituale per
Caligola.
24
Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) fu il massimo annalista di Roma e narrò
in 142 libri (ne restano 35), la storia romana da Romolo ad Augusto.
25
Gaio Cesare è Caligola (37-41 d.C.) come in tutti i passi in cui viene
ricordato come mostro di crudeltà.
(ahimè! del tutto imprecisi) spaventavano le sue gozzoviglie,
sfidò Giove a battaglia, e per di più all’ultimo sangue, recitando
a gran voce il famoso verso d’Omero:

O uccidimi tu, o io ucciderò te.

Quanto folle egli era! Pensò o che neppure Giove potesse recar-
gli danno, o di poter lui recar danno a Giove. Penso che questa
sua frase abbia contribuito non poco a stimolare l’animo dei
congiurati; poiché dovette sembrare il colmo della sopportazio-
ne sopportare colui che non poteva sopportare neppure Giove.

21. Pertanto nell’ira non v’è nulla di grande e di nobile, neppure


quando sembra impetuosa e sprezzante degli uomini e degli dèi.
Se poi taluno crede che l’ira generi un animo grande, deve cre-
derlo anche del lusso: vuol sedere su seggi d’avorio, indossare
vesti di porpora, ricoprirsi d’oro, mutare la disposizione del suo-
lo, imprigionare il mare, costruire cascate artificiali nei fiumi e
giardini pensili;26 deve crederlo anche dell’avarizia: si adagia su
mucchi d’oro e d’argento, coltiva poderi vasti come province e
possiede sotto singoli fattori appezzamenti più vasti di quelli che
venivano assegnati per sorteggio ai consoli. Deve crederlo anche
della passione amorosa: passa a nuoto il mare,27 fa castrare schie-
re di fanciulli, disprezzando la morte affronta la spada del mari-
to;28 deve crederlo anche dell’ambizione; non le bastano le cari-
che annuali; se fosse possibile vorrebbe che le liste dei magistra-
ti recassero solo il suo nome, che il mondo intero fosse pieno del-
le sue iscrizioni onorifiche. Ma tutto ciò, a prescindere dalla sua
estensione e dimensione, è gretto, misero e basso; la sola virtù è
sublime ed eccelsa, e non v’è nulla di grande che non sia nel con-
tempo sereno.

26
Probabile allusione a Serse che costruì i ponti sull’Ellesponto e tagliò
il monte Athos. Però la mania di costruire gettando dighe e terrapieni sul
mare era anche dei ricchi Romani.
27
Leandro, per raggiungere l’amata Ero, varcava a nuoto l’Ellesponto.
28
Probabile allusione a Messalina che, sposatasi pubblicamente con Si-
lio, fu fatta uccidere dal marito Claudio.
LIBRO II

1. La materia del primo libro, o Novato, è stata più agevole, poi-


ché è facile mostrare la caduta rapida dei vizi lungo funesti pen-
dii. Ora bisogna affrontare temi più sottili; ci domandiamo se l’i-
ra prenda le mosse a ragion veduta o d’istinto, vale a dire se si
muova di sua iniziativa o, come molti sentimenti che nascono in
noi, con la nostra consapevolezza. L’indagine deve abbassarsi a
questi problemi per potersi poi levare ad affrontare quelli più al-
ti; anche nel nostro corpo trovano la loro ordinata disposizione
prima le ossa, i nervi e le articolazioni, che costituiscono la robu-
stezza e la vitalità dell’intero organismo, e poi quegli elementi
da cui deriva ogni bellezza al volto e all’aspetto; dopo tutto que-
sto, quando il corpo è ormai ultimato, vi si infonde per ultimo il
colorito che in massimo grado attira lo sguardo.
Non v’è dubbio che l’ira sia mossa da una presunta offesa da
noi subita. Ma noi ci domandiamo se l’ira segua immediatamen-
te l’offesa presunta e proceda senza che l’animo l’accompagni, o
si muova col suo consenso. Io son d’avviso che l’ira non osi nulla
da sola, ma con l’approvazione dell’animo; poiché aver la sensa-
zione di aver ricevuto un’offesa, bramare di vendicarsene e sta-
bilire un legame tra la convinzione che non avremmo dovuto es-
sere offesi e quella che dobbiamo vendicarci, non è tipico di
quell’impulso che si scatena senza la nostra volontà. Quest’ulti-
mo è semplice, l’altro è composto e passa attraverso varie fasi:
ha capito qualcosa, s’è sdegnato, ha condannato, si vendica: tutto
ciò non è possibile se l’animo non dà il suo assenso alle sensazio-
ni che l’hanno colpito.
2. Mi dirai: «A che mira questa indagine?». A farci capire che
cosa sia l’ira; poiché se nasce contro la nostra volontà, non si ar-
renderà mai alla ragione. Tutte le reazioni che avvengono al di
fuori della nostra volontà sono invincibili e inevitabili, come il
brivido per chi viene spruzzato d’acqua fredda, un senso di repu-
gnanza a taluni contatti; alle brutte notizie vien la pelle d’oca, il
volto si macchia di rossore di fronte a parole di rimprovero e a
guardare nei precipizi viene la vertigine; poiché nulla di tutto ciò
è in nostro potere, nessun ragionamento può impedire che ciò
accada. L’ira è messa in fuga dai buoni consigli, perché è un vizio
volontario dell’animo, non di quelli che si danno per una certa
condizione dell’umano destino e perciò accadono anche ai più
sapienti, fra cui va messo anche quel primo colpo al cuore che
proviamo alla sensazione d’aver subìto un’offesa. Ciò si verifica
anche assistendo a uno spettacolo teatrale e leggendo la storia
antica. Spesso abbiamo l’impressione di prendercela con Clodio1
che cacciò in esilio Cicerone e con Antonio2 che lo uccise. Chi
non si sente ribollire il sangue contro le truppe di Mario3 e le
proscrizioni di Silla?4 Chi non è ostile a Teodoto e ad Achilla e
persino al fanciullo che osò compiere un’azione non da fanciul-
lo?5 Talora ci stimola il canto e la musica vivace e il suono delle

1
Clodio fu tribuno focoso e violento che nel 58 a.C. presentò una legge
che prevedeva l’esilio per chi avesse fatto mettere a morte, senza processo,
dei cittadini romani. Il bersaglio da colpire era Cicerone (106-43 a.C.) che,
console nel 63, aveva ordinato l’esecuzione senza processo di alcuni catili-
nari arrestati a Roma.
2
Antonio formò con Ottaviano e Lepido il secondo triumvirato, e nel
clima torbido e confuso che si ebbe dopo il cesaricidio, pretese la testa di
Cicerone reo di aver pronunciato contro di lui le orazioni Filippiche.
3
Gaio Mario (157-86 a.C.) uomo politico e generale di parte democra-
tica, condusse a vittoriosa conclusione la guerra contro Giugurta (105),
batté i Teutoni (102) e i Cimbri (101) e fu protagonista, contro Silla, della
prima guerra civile, terminata con la sua sconfitta e il ripristino del potere
aristocratico.
4
Lucio Cornelio Silla (138-78 a.C.), questore di Mario in Numidia, con-
tribuì alla cattura di Giugurta; vincitore di Mario nella guerra civile, in-
staurò in Roma una dittatura personale che esercitò con particolare fero-
cia, con la proscrizione di quanti avevano militato nel partito avverso.
5
Teodoto e Achilla, insieme con Tolomeo XIV (il fanciullo che osò
compiere un’azione non da fanciullo) tradirono e fecero uccidere Pompeo
(48 a.C.).
trombe di guerra; ci impressiona un quadro a soggetto tragico e
la vista triste di giustissime esecuzioni; viene da qui che rispon-
diamo col riso a chi ride e ci rattrista una massa di persone afflit-
te e ci riscaldiamo alla vista dei duelli altrui. Ma questa non è ira,
come non è tristezza quella che ci fa aggrottare la fronte alla vi-
sta d’un finto naufragio, come non è paura quella che coglie l’a-
nimo dei lettori quando Annibale,6 dopo Canne,7 cinge d’asse-
dio le mura di Roma; tutte queste sensazioni sono movimenti
dell’animo che non vorrebbe muoversi, non sono passioni, ma
inizi che preludono alle passioni. Così il suono della tromba, an-
che in piena pace, impressiona le orecchie del soldato già messo
in congedo e i cavalli da guerra si impennano al fragore delle ar-
mi. Raccontano che mentre Senofanto8 cantava, Alessandro9 mi-
se mano alla spada.

3. Nulla di ciò che muove casualmente l’animo si deve chiamare


passione: queste situazioni l’animo, per così dire, le subisce più
che produrle. Pertanto non è passione sentirsi sollecitato dall’a-
spetto che viene offerto delle cose, ma lasciarsi trascinare da es-
se e assecondare quest’impulso casuale. Se qualcuno interpreta
come indizio di passione e manifestazione dell’animo il pallore e
le lacrime che sgorgano copiose e la secrezione disgustosa di ba-
va e un sospiro profondo e lo sguardo improvvisamente più ar-
dente e altri fenomeni simili a questi, si sbaglia e non si rende
conto che questi sono impulsi del corpo. Così più di una volta un
uomo di grande coraggio impallidisce mentre si arma, e al segna-
le della battaglia anche il soldato più fiero ha il tremito alle gi-
nocchia, e il grande generale ha palpitazioni di cuore prima che
le opposte schiere si scontrino e l’oratore più eloquente, mentre
si prepara a prender la parola, sente irrigidirsi le estremità del

6
Annibale Barca, cartaginese, fu l’irriducibile nemico di Roma. Contro
di lui Roma condusse la II guerra punica.
7
Canne è la località, in Apulia, in cui nel 216 a.C. Annibale annientò le
truppe consolari di Emilio Paolo e Terenzio Varrone.
8
Senofanto fu cantore e musico di Alessandro.
9
Alessandro Magno, salito al trono di Macedonia dopo la morte del
padre Filippo (336 a.C.), condusse una spedizione panellenica contro l’Im-
pero persiano, che fu sconfitto e sottomesso. Morì a Babilonia poco più
che trentenne nel 323 a.C.
corpo. L’ira non si limita a muoversi, ma arriva a correre, poiché
è uno slancio aggressivo, e lo slancio aggressivo non si dà mai
senza il consenso della mente, poiché non si può riflettere sulla
vendetta e il castigo senza che l’animo se ne accorga. Uno si ri-
tiene offeso e vuole vendicarsi, ma dissuaso da un qualche moti-
vo subito si placa; questa non la chiamo ira, ma impulso dell’ani-
mo che obbedisce alla ragione; ira è quella che travalica la ragio-
ne e la trascina con sé. Pertanto il primo disordine interiore pro-
vocato da una presunta offesa non è ira, come non lo è l’idea
stessa dell’offesa; è ira quell’impulso successivo, che non solo ha
ricevuto l’impressione dell’offesa ma l’ha anche confermata,
quell’agitazione dell’animo proteso volontariamente e consape-
volmente alla vendetta. Non c’è dubbio che la paura induca a
fuggire e l’ira ad attaccare; non pensi certo che si possa attaccare
o fuggire qualcosa senza l’assenso della mente.

4. E perché tu sappia come le passioni abbiano inizio, si sviluppi-


no e si esaltino, il primo impulso non è volontario, ma è per così
dire preparazione e minaccia di passione; il secondo è sorretto da
volontà non ostinata, in quanto è bene che io mi vendichi perché
sono stato offeso, o che paghi il fio chi ha commesso un delitto; il
terzo impulso è ormai sfrenato, vuole vendicarsi in ogni caso, pre-
scindendo dall’opportunità, e ha debellato la ragione. Non possia-
mo sfuggire con la ragione a quel primo colpo dell’animo, come
neppure a quelle manifestazioni che abbiamo detto capitare al
corpo; non possiamo impedire che lo sbadiglio altrui ci stimoli a
sbadigliare, né che gli occhi si chiudano all’improvviso avvicinarsi
delle dita: la ragione non può impedire ciò, lo può forse attenuare
l’abitudine e il continuo controllo. Il secondo impulso che nasce
per nostra scelta, per nostra scelta può essere soppresso.

5. Dobbiamo ancora esaminare se coloro che sono normalmen-


te crudeli e godono del sangue umano, si adirino quando uccido-
no persone da cui non hanno ricevuto offesa e non pensano nep-
pure loro di averla ricevuta. Tali furono Apollodoro e Falaride.10
Questa non è ira ma crudeltà, non nuoce infatti per aver ricevu-

10
Apollodoro fu tiranno di Potidea dal 279 al 276 a.C.; Falaride assunse
la tirannia di Agrigento verso il 570 a.C.
to un’offesa, ma pur di nuocere è disposta anche a riceverla, e
non fa ricorso alle frustate e allo strazio della carne a scopo di
vendetta, ma di piacere. Che dunque? Questo male ha origine
dall’ira, la quale, quando giunge attraverso il continuo esercizio
e la sazietà a dimenticare la clemenza e caccia dall’animo ogni
umano patto, da ultimo si trasforma in crudeltà;11 e così ridono e
godono e son pieni di immenso piacere e hanno un aspetto mol-
to diverso da quello degli irati, essi che sono crudeli per svago.
Raccontano che Annibale, vista una fossa piena di sangue uma-
no, esclamò: «Che bello spettacolo!». Quanto gli sarebbe sem-
brato più bello se di sangue avesse riempito un fiume e un lago!
Che tu goda soprattutto di questo spettacolo non è strano, visto
che sei nato nel sangue e fin da bimbo sei stato abituato ai mas-
sacri. Per vent’anni ti accompagnerà un destino favorevole alla
tua crudeltà e offrirà dovunque ai tuoi occhi uno spettacolo gra-
dito; lo vedrai al Trasimeno, a Canne12 e da ultimo nella tua Car-
tagine.13 Recentemente Voleso,14 proconsole d’Asia sotto il divo
Augusto, fece uccidere di scure trecento uomini in un sol giorno;
avanzando con sguardo arrogante fra i cadaveri, come se avesse
compiuto un’azione grandiosa e degna di essere contemplata,
esprimendosi in greco esclamò: «Che azione da re!». Che avreb-
be fatto costui se fosse stato re? Quella non fu ira ma un male
più grande e inguaribile.

6. Dicono: «La virtù, come è favorevole alle buone azioni, così


deve essere adirata con le cattive». È come dire che la virtù deve
essere misera e grande. Eppure lo afferma chi la vuole innalzare
e abbassare, poiché la gioia per una buona azione è chiara e
splendida, l’ira per un peccato altrui è gretta e di animo limitato.
La virtù non arriverà mai a imitare i vizi mentre cerca di repri-
merli; pensa che si debba castigare proprio l’ira, che non è per

11
Benché la crudeltà sia cosa diversa dall’ira, ha tuttavia origine dalla
pratica continua dell’ira.
12
Al Trasimeno (217 a.C.) e a Canne (216 a.C.) Annibale inflisse san-
guinose perdite ai Romani.
13
Si allude alla battaglia di Zama (202 a.C.), in cui Annibale fu sconfit-
to da Scipione.
14
Voleso, proconsole d’Asia nell’11-12 d.C. (quindi «recentemente» è
detto in senso vago), fu processato e condannato per iniziativa di Augusto.
nulla migliore, spesso anzi è addirittura peggiore di quei delitti
per i quali si scatena. Proprio e naturale della virtù è godere e
gioire: adirarsi non è conforme alla sua dignità, non più che esse-
re triste; eppure la tristezza è compagna dell’iracondia, e ogni
forma d’ira si risolve in essa, sia dopo il pentimento sia dopo l’in-
successo. E se è prerogativa del saggio arrabbiarsi con i peccati,
si arrabbierà di più con i più gravi, e si arrabbierà spesso: ne con-
segue che il saggio è non solo adirato ma anche irascibile. Ma se
noi pensiamo che nell’animo del saggio non debba aver posto né
un’ira grande né un’ira frequente, perché non lo liberiamo com-
pletamente da questa passione? Non ci può essere infatti senso
della misura se ci si deve adirare per l’azione di chicchessia; sarà
infatti ingiusto, se si adirerà in ugual misura per delitti di gravità
diversa, o sarà iracondo in sommo grado se darà in escandescen-
za ogni volta che i delitti richiederanno l’ira.

7. Che lo stato d’animo del saggio dipenda dall’iniquità altrui è


cosa davvero indegna. Il grande Socrate non potrà più tornare a
casa con lo stesso volto con cui ne era uscito? Ma se il saggio deve
adirarsi per le brutte azioni e agitarsi e rattristarsi per i delitti, nes-
suno è più travagliato del saggio: tutta la sua vita trascorrerà nel-
l’ira e nell’afflizione. Ci sarà mai un istante in cui non veda azioni
riprovevoli? Ogni volta che uscirà di casa, dovrà farsi strada fra
scellerati, avari, prodighi, impudenti, fortunati per questi loro vizi;
dovunque rivolgerà lo sguardo, troverà di che sdegnarsi: verrà me-
no se si sentirà in dovere di arrabbiarsi tutte le volte che ve ne sarà
motivo. Queste numerose migliaia di persone che si recano nel fo-
ro alle prime luci del giorno, quali cause vergognose promuovono
e quanto più vergognosi sono i loro avvocati! Uno contesta il cat-
tivo giudizio che ha di lui il padre, che sarebbe stato meglio non
meritare, un altro ha come controparte nel processo la madre, un
altro viene a denunciare un reato di cui è egli stesso manifesto col-
pevole; e si sceglie un giudice che condannerà azioni che lui stesso
ha commesso, e fanno ressa spettatori corrotti, dalla bella voce
dell’avvocato, a parteggiare per una cattiva causa.

8. A che passare in rassegna i singoli casi? Nel vedere il foro


stracolmo di folla e i recinti pieni di gente di ogni risma, e quel
circo in cui si mette in mostra la maggior parte del popolo roma-
no, sappi che qui ci sono tanti vizi quanti uomini. Fra costoro che
vedi vestiti con la toga non c’è nessuna pace; l’uno è indotto da
esiguo compenso a procurar rovina all’altro; tutti guadagnano
da un’offesa fatta al prossimo; odiano il fortunato, disprezzano il
disgraziato; sopportano a fatica il superiore e sono insopportabi-
li con l’inferiore; sono spronati da brame opposte e per un piace-
re e una preda di poco conto accetterebbero la fine del mondo.
La vita è simile a quella di una scuola di gladiatori, in cui con le
stesse persone si vive e si combatte. Codesta è un’accozzaglia di
belve, con la differenza che quelle tra di loro sono mansuete e
non mordono i propri simili, questi invece si saziano sbranando-
si a vicenda. Differiscono dagli animali muti nel senso che questi
sono mansueti con chi li nutre, mentre gli uomini divorano rab-
biosamente chi li ha nutriti.

9. Una volta che abbia cominciato, il saggio non smetterà mai di


arrabbiarsi. Dappertutto ci sono delitti e vizi in gran quantità;
troppo si pecca perché vi si possa porre rimedio con la repressio-
ne; è una grande gara di malvagità. Ogni giorno cresce la brama
di peccare e diminuisce la vergogna; eliminata la considerazione
per ciò che è migliore e più giusto, il capriccio si avventa dovun-
que gli paia, e i delitti non sono più occulti; sono sotto gli occhi
di tutti, e la malvagità s’è presentata alla luce e ha preso il so-
pravvento nel cuore di tutti a segno che l’innocenza è non dico
rara ma inesistente. La legge è violata forse da singoli o da po-
chi? Come a uno squillo di tromba, muovono da ogni parte a
confondere il lecito e l’illecito:

non son fra loro gli ospiti sicuri,


non dal genero il suocero; i fratelli
raramente si apprezzano; il marito
attende che la sposa sia esiliata,
questa il marito; approntan le matrigne
tremende lor pozioni velenose
e il figlio conta gli anni di suo padre
volendone la morte pria del tempo.15

15
I versi citati sono di Ovidio.
Che parte è mai questa dei delitti? Il poeta non ha citato gli ac-
campamenti ostili, anche se formati di una sola parte, i giura-
menti opposti dei padri e dei figli, la patria incendiata per mano
d’un cittadino, gli squadroni dei cavalieri che scorrazzano ostil-
mente alla ricerca dei nascondigli dei proscritti, le sorgenti avve-
lenate, la peste provocata di proposito, il fossato scavato intorno
ai genitori assediati, le prigioni colme, gli incendi che devastano
intere città, tirannie luttuose, piani segreti che portano alla rovi-
na regni e popoli, e, tenute in conto di gloria, quelle azioni che
sono delitti finché possono essere soffocate, vale a dire rapimen-
ti e stupri e libidine che non risparmia neppure la bocca. Aggiun-
gi ora lo spergiuro pubblico di intere famiglie, la violazione dei
patti, il più forte che si prende come preda tutto ciò che non gli
oppone resistenza, raggiri, furti, inganni, diniego di depositi, cui
non basterebbero tre fori.16 Se pretendi che il saggio si adiri co-
me lo richiede l’enormità dei delitti, non adirarsi deve, ma im-
pazzire.

10. Rifletterai piuttosto che non ci si deve adirare con gli errori.
È possibile che ci si adiri con chi al buio ha un passo poco sicuro?
con i sordi che non sentono gli ordini? con i bimbi che non si cu-
rano dei loro doveri e guardano gli svaghi e i giochi sciocchi dei
coetanei? Ci si può mai adirare con le persone malate, vecchie,
stanche? Fra gli altri svantaggi della condizione mortale c’è an-
che la nebbia che offusca le menti, e non solo la necessità di pec-
care, ma anche l’amore per i peccati. Per non arrabbiarsi con i
singoli bisogna perdonare a tutti e concedere indulgenza al gene-
re umano. Se ti adiri con giovani e vecchi perché peccano, adirati
con i bambini: sono destinati a peccare. Ci si adira forse con i ra-
gazzi la cui età non ha ancora discernimento? È giustificazione
più valida e giusta essere uomo che ragazzo. A questi patti siamo
nati noi, animali esposti alle malattie dell’animo, che sono non
meno numerose di quelle del corpo; non siamo certo ottusi né
lenti a capire, ma facciamo cattivo uso della nostra intelligenza, e
siamo esempio di vizi l’uno all’altro: se chi ci precede sbaglia stra-
da, non meritiamo forse giustificazione noi che abbiamo sbaglia-

16
I tre fori sono: il vecchio foro romano, quello di Cesare e quello
d’Augusto.
to a seguire la via battuta da tutti? La severità dei comandanti si
rivolge contro i singoli, ma quando l’intero esercito ha disertato,
è necessario perdonare. Che cosa impedisce al saggio di adirarsi?
Il gran numero dei peccatori. Si rende conto che è ingiusto e peri-
coloso prendersela con una colpa che coinvolge tutti.
Eraclito,17 ogni volta che usciva e vedeva intorno a sé tanta
gente che viveva male, anzi tanta gente che faceva una brutta fi-
ne, piangeva e provava pietà per tutti quelli che incontrava lieti
e felici; aveva un animo mite ma troppo debole: era anch’egli tra
le persone da compiangere. Di Democrito18 si dice invece che
non si presentò mai in pubblico senza ridere; a tal punto nessuna
di quelle azioni che erano compiute seriamente gli pareva seria.
C’è forse qui spazio per l’ira? Tutto fa ridere o fa piangere.
Il saggio non si adirerà con i peccatori. Perché? perché sa che
nessuno nasce saggio, ma lo diventa, sa che in tutti i tempi si dan-
no pochissimi saggi, perché conosce a fondo la condizione della
vita umana; e nessuna persona assennata si adira con la natura.
C’è forse da meravigliarsi che i rovi selvatici non diano frutti?
che i cespugli e gli spini non si rivestano di una qualche messe
utile? Nessuno si adira quando è la natura a giustificare il vizio.
Pertanto il saggio, mansueto e comprensivo con i peccati, non
nemico ma emendatore dei peccatori, ogni giorno parte da que-
sto convincimento: «Troverò molti ubriaconi, molti libidinosi,
molti ingrati, molti avari, molti sconvolti dalle furie dell’ambi-
zione». Questo panorama lo guarderà con la stessa benevolenza
con cui il medico guarda i suoi pazienti. Il padrone d’una nave
che lascia entrare molta acqua dalle commessure allentate, se la
prende forse con i marinai e con la nave stessa? Piuttosto corre
ai ripari e una parte d’acqua la ferma, un’altra la sgotta, ottura le
falle evidenti, resiste con continuo impegno a quelle invisibili
che lasciano entrare acqua di nascosto, e non è indotto a fermar-
si dalla constatazione che, quanta acqua sgotta, altrettanta se ne

17
Eraclito di Efeso (535-? a.C.) fu grande spregiatore degli uomini e
delle loro radicate persuasioni. Considerò l’universo un unico tutto senza
principio né fine, in cui domina la legge eterna del divenire.
18
Democrito di Abdera (470-360 a.C.) fu col suo maestro Leucippo l’i-
niziatore della filosofia atomistica, che considerava ogni cosa come l’insie-
me di particelle indivisibili, dette appunto atomi.
riforma. Contro i mali continui e che si riproducono c’è bisogno
d’un soccorso persistente, non perché cessino, ma perché non ab-
biano la meglio.

11. Dicono: «L’ira è utile perché ci evita il disprezzo e atterrisce


i malvagi». Innanzi tutto l’ira, se ha forza uguale alle sue minac-
ce, per il fatto stesso d’essere spaventosa è anche odiosa; ed è più
pericoloso essere temuto che essere disprezzato. Se poi è senza
forza, è maggiormente esposta al disprezzo e non evita la deri-
sione, poiché nulla è più stolto dell’ira che smanaccia a vuoto.
Inoltre non è vero che una maggior temibilità comporti un mag-
gior valore, e non vorrei che il saggio dicesse: «Il saggio ha la
stessa arma della fiera, l’esser temuto». E non si teme anche la
febbre, la gotta, una brutta piaga? Ne deriva forse che in questi
malanni c’è qualcosa di buono? Al contrario, tutto ciò, proprio
perché è temuto, è spregevole, sconcio e turpe. Così l’ira è di per
sé brutta e nient’affatto temibile, ma i più la temono come i bim-
bi temono una maschera brutta. E che dire del fatto che la paura
ricade sempre su chi la provoca e nessuno è temuto senza essere
egli stesso libero da preoccupazioni? A tal proposito richiamati
alla mente il noto verso di Laberio19 che, pronunciato in teatro
in piena guerra civile, suscitò l’attenzione di tutto il popolo, co-
me se la battuta indicasse lo stato d’animo della gente:

Deve temere molti colui che molti temono.

È legge di natura che non sia sgombro di paura chi si fa potente in-
cutendo paura agli altri. Quanto sono timorosi i leoni al suono più
lieve! Un’ombra, una voce, un odore insolito mette in apprensione
le bestie più feroci: chi atterrisce è anche trepidante. Quindi nessun
saggio deve desiderare d’esser temuto, e non deve giudicar l’ira un
qualcosa di grande perché mette paura, visto che anche le cose più
spregevoli sono temute, come i veleni che i denti secernono nei
morsi mortali. Non c’è da stupirsi che a trattenere e spingere nella
trappola grandi greggi di fiere sia una fune cui sono legate delle

19
Laberio, vissuto in età cesariana, fu autore di mimi. Ostile a Cesare,
fu costretto dal dittatore a recitare uno dei suoi testi e a subire l’umiliazio-
ne di calcare, lui che era cavaliere, la scena.
piume, chiamata spauracchio dallo stato d’animo che determina;
ciò che è fatuo mette paura ai fatui. Il movimento del cocchio e la
vista delle ruote che girano risospinge i leoni nella gabbia, e il gru-
gnito del maiale spaventa gli elefanti. Quindi l’ira è temuta come il
buio dai bimbi e una piuma rossa dalle fiere. Essa non ha in sé al-
cunché di saldo o di forte, ma impressiona gli animi fatui.

12. Dicono: «Bisogna eliminare la malvagità dalla natura, se si


vuole eliminare l’ira; ma non è possibile né l’una né l’altra cosa».
In primo luogo si può non aver freddo, benché sia inverno, e non
sudare, benché sia estate; o grazie al luogo siamo protetti contro
le intemperie del tempo, o vinciamo con la resistenza del corpo
la sensazione del freddo e del caldo. In secondo luogo capovolgi
il discorso: è necessario togliere dall’animo la virtù prima di ac-
cogliervi l’ira, perché i vizi non si accordano con le virtù e nessu-
no può essere irato e buono nello stesso tempo, come non può
essere malato e sano. Dicono: «Non è possibile togliere tutta l’i-
ra dall’animo, né la natura dell’uomo lo consente». Eppure nulla
è tanto difficile e arduo che la mente umana non lo superi e il
continuo allenamento non ce lo renda familiare, e nessuna pas-
sione è tanto selvaggia e indipendente da non essere completa-
mente domata dall’educazione. L’animo raggiunge tutte le mete
che si propone: certuni sono riusciti a non ridere mai; chi ha ri-
nunciato al vino, chi all’amore, chi a ogni bevanda; c’è chi si con-
tenta d’un breve sonno e prolunga la veglia senza sentire stan-
chezza; c’è chi ha imparato a correre su funi sottilissime e tese e
a portare pesi che la forza umana regge a fatica e a discendere a
grandi profondità, resistendo sott’acqua senza alcuna possibilità
di respirare. Ci sono mille altri casi in cui l’ostinazione vince ogni
ostacolo e dimostra che non ci sono difficoltà, quando la mente
si impone da sola la sopportazione. Costoro, di cui ho parlato or
ora, per la loro applicazione tanto ostinata, o non hanno ricevu-
to nessun compenso, o hanno ricevuto un compenso inadeguato:
che cosa ottiene di importante chi s’è allenato a camminare sulle
funi tese, a reggere sul collo pesi enormi, a non chiudere gli oc-
chi al sonno, a raggiungere gli abissi marini? E tuttavia la fatica,
per un compenso non grande, arriva a compiere l’impresa: non
chiameremo in nostro aiuto la sopportazione noi, cui è riservato
un premio tanto grande come la serenità imperturbabile d’un
animo felice? Che grande successo è evitare il male più grande,
l’ira, e con essa la rabbia, la ferocia, la crudeltà, la pazzia e altre
compagne di quella passione!

13. Non dobbiamo cercarci una difesa e una giustificazione del-


la nostra sfrenatezza, dicendo che l’ira è utile o è inevitabile;
quale vizio mai non ha avuto un difensore? Non puoi dire che
non può essere sradicata: siamo malati di malattie guaribili, sia-
mo nati per il bene e la natura stessa, se vogliamo correggerci, ci
aiuta. La strada verso le virtù non è dura e malagevole, come a
qualcuno è sembrato; si raggiungono procedendo in pianura.
Non vengo a proporvi una cosa vana. È agevole la strada che
conduce alla vita beata: dovete solo intraprenderla con buoni
auspici e con l’aiuto benevolo degli dèi stessi. Molto più difficile
è fare codeste azioni che fate voi. Che c’è di più tranquillo della
pace dell’animo? e che di più faticoso dell’ira? che cosa è più
moderato della clemenza e più impegnativo della crudeltà? Il
pudore è in vacanza, mentre i piaceri capricciosi sono impegna-
tissimi. Infine è facile conservare tutte le virtù mentre costa caro
praticare i vizi. L’ira deve essere rimossa: lo ammettono in parte
anche coloro che dicono che deve essere ridotta: la si congedi in
blocco, poiché non gioverà a nulla. Senza di essa i delitti saranno
eliminati più facilmente e più giustamente, i malvagi saranno pu-
niti e indotti a migliorare. Il saggio compirà tutti i suoi doveri
senza l’aiuto di alcun elemento malvagio e non aggiungerà nulla
di cui debba serbare la misura con eccesso di attenzione.

14. Quindi non bisogna mai dare spazio all’iracondia, talora la si


deve simulare, se si deve infiammare l’animo pigro degli ascoltato-
ri, a quel modo che stimoliamo con gli sproni e i tizzoni quei caval-
li che sono lenti a prendere il galoppo.Talora bisogna incutere pau-
ra a coloro che non danno ascolto alla ragione, ma adirarsi non è
più utile che affliggersi e temere. «E allora? non si presentano mo-
tivi atti a provocar l’ira?» Sì, ma proprio allora dobbiamo fermarla.
E non è difficile vincere l’animo, dal momento che gli atleti, ben-
ché impegnati nella parte più spregevole del loro essere, tuttavia
sopportano i colpi e il dolore per estenuare il vigore di chi li colpi-
sce, e picchiano quando lo suggerisce non l’ira ma l’occasione pro-
pizia. Si dice che Pirro, valente maestro di lotta, fosse solito racco-
mandare a coloro che allenava di non arrabbiarsi; poiché l’ira scon-
volge la tecnica e guarda soltanto il modo di nuocere. Pertanto la
ragione induce spesso a sopportare, l’ira a vendicarsi, e noi che
avremmo potuto liberarci dai primi mali, precipitiamo in mali mag-
giori. Alcuni furono mandati in esilio per non aver saputo soppor-
tare serenamente una parola offensiva, e altri, non avendo voluto
tollerare in silenzio un torto di poco conto, furono travolti da mali
gravissimi, e sdegnandosi che la loro completa libertà fosse mini-
mamente intaccata, si tirarono addosso il giogo della schiavitù.

15. Dicono: «Perché tu sappia che l’ira ha in sé qualcosa di nobile,


vedrai che sono libere quelle popolazioni che sono le più iraconde,
come i Germani e gli Sciti». Questo accade perché i temperamenti
forti e robusti per natura, prima che la cultura li incivilisca, sono
portati all’ira. Infatti certi sentimenti nascono solo nelle indoli mi-
gliori, come una terra fertile, benché trascurata, produce piante ro-
buste, e i boschi che nascono da un suolo fecondo sono alti; così an-
che le indoli forti per natura sono portate all’ira, e nel loro focoso
ardore non albergano sentimenti modesti e deboli, ma imperfetto
è il loro vigore, come tutto ciò che cresce senza tecnica per esclusi-
vo dono di natura, ma se non sono presto domate, si abituano al-
l’ardire temerario, da idonee che erano a dar prova di vera forza. I
caratteri più miti non sono forse soggetti a vizi più miti, come com-
passione, affetto, verecondia? Perciò sarò spesso in grado di mo-
strarti un’indole buona, nonostante i suoi difetti, ma non cessano
di essere difetti per il fatto che sono indizio di una natura migliore.
Infine tutte codeste popolazioni libere grazie alla loro ferocia sono
come i leoni e i lupi, non sanno servire ma neppure comandare; in-
fatti non hanno la forza dell’indole umana, ma d’un’indole feroce e
intrattabile; può governare solo chi si lascia governare. È per que-
sto che in genere la supremazia è stata in mano di quei popoli che
godono d’un clima più mite: coloro che abitano nel freddo delle re-
gioni nordiche, hanno «indole riottosa» come dice il poeta:

e molto simile al loro clima.

16. Dicono: «Fra gli animali si giudicano più pregiati quelli più
facili all’ira». Sbaglia chi pone a confronto con gli uomini quegli
esseri che in luogo della ragione hanno l’istinto: l’uomo in luogo
dell’istinto ha la ragione. Ma neppure questi esseri hanno tutti la
stessa fonte da cui trarre vantaggio: l’ira giova ai leoni, la paura
ai cervi, l’assalto allo sparviero, la fuga alla colomba. Eppoi non
è neppure vero che gli animali più iracondi siano i migliori. Per
le bestie feroci, che traggono il sostentamento dalla rapina, pos-
so ammettere che sono tanto migliori quanto più sono irascibili:
ma nel caso dei bovi e dei cavalli che obbediscono al morso ap-
prezzerei piuttosto la docilità. E che ragione c’è di confrontare
l’uomo con esempi tanto infelici, avendo come termine di riferi-
mento l’universo e la divinità, che l’uomo solo, tra tutti gli esseri
viventi, è in grado di capire, sì da imitarla egli solo?
Dicono: «Gli iracondi sono considerati tra tutti i più sinceri».
Certo, perché vengono paragonati agli ingannatori e agli astuti, e
sembrano sinceri perché sono scoperti. Io non li chiamerei since-
ri ma imprudenti: con questo termine ci riferiamo agli sciocchi, ai
lussuriosi, agli scialacquatori, e a tutti i difetti poco accorti.

17. Dicono: «L’oratore talora è migliore se è adirato». Diciamo


piuttosto, se recita la parte dell’adirato; infatti anche gli attori, nel
recitare, impressionano gli spettatori non in quanto adirati, ma
perché recitano bene la parte dell’adirato: di fronte ai giudici, in
un’assemblea, e dovunque si debba conquistare alla nostra vo-
lontà l’animo degli altri, fingeremo ora l’ira, ora la paura, ora la
pietà, per insinuarla negli altri, e spesso una passione simulata ha
raggiunto l’effetto che una passione vera non avrebbe raggiunto.
Dicono: «L’animo privo di ira è fiacco». È vero solo nel caso
che non abbia nulla più vigoroso dell’ira. Non dobbiamo essere
né briganti né agnellini, né pietosi né crudeli; troppo tenero è il
carattere degli uni, troppo duro quello degli altri; il saggio deve
essere equilibrato, e per agire da forte deve far ricorso alla forza,
non all’ira.

18. Poiché abbiamo trattato i problemi relativi all’ira, vediamo


ora come la si può guarire. I sistemi, a mio avviso, sono due: dob-
biamo badare a non cadere in preda a essa e a non peccare in
stato d’ira. Come nella cura del corpo ci sono espedienti atti a
proteggere la salute, e ce ne sono altri atti a riacquistarla, così
noi dobbiamo in un certo modo respingere l’ira, e in un modo
diverso dominarla. Per evitarla si daranno alcune massime che
riguardano la vita nel suo complesso; esse saranno divise nel
tempo destinato a tirar su i figli e nei tempi successivi.
L’allevare i figli richiede uno scrupolo molto attento, che darà
poi grandissimi frutti; è facile infatti condurre all’ordine l’animo
ancora tenero, mentre è difficile eliminare i vizi che son cresciuti
con noi.

19. Il più esposto all’ira è il temperamento ardente per natura.


Quattro sono gli elementi, fuoco, acqua, aria e terra, e quattro le
caratteristiche che ne dipendono, ardente, fredda, secca e umida;
e pertanto a produrre le differenze fra i luoghi, gli animali, i cor-
pi e i caratteri è la mescolanza degli elementi, e per conseguenza
un’indole ha una determinata tendenza che dipende dall’ele-
mento predominante.20 Da qui viene che chiamiamo certe regio-
ni umide, asciutte, calde e fredde. Analoghe sono le differenze
tra animali e uomini; è importante quanto ciascuno abbia in sé
di umido e di caldo, poiché il carattere sarà conforme all’elemen-
to presente in dose più alta. La natura ardente dell’animo pro-
durrà gli iracondi, poiché il fuoco è tutto movimento e tenacia;
una mescolanza in cui predomini il freddo produce i timidi, poi-
ché il freddo è pigro e calmo. In base a ciò alcuni dei nostri so-
stengono che l’ira si muove nel petto quando il sangue ribolle in-
torno al cuore; la ragione per cui all’ira viene particolarmente
assegnata questa sede sta nel fatto che il petto è la parte più cal-
da di tutto il corpo. In coloro in cui prevale l’umido l’ira si svi-
luppa a poco a poco, poiché non hanno un calore pronto, ma lo
acquistano col movimento; per questo l’ira dei bimbi e delle don-
ne è più impetuosa che grave, e si rivela più lieve nella fase ini-
ziale. Le persone asciutte hanno un’ira violenta e forte, ma senza
crescita e sviluppo eccessivo, poiché al calore che sta per svanire
tien dietro il freddo: i vecchi sono intrattabili e piagnoni, come i

20
È qui ripresa, attraverso la rielaborazione fatta da peripatetici e stoi-
ci, la dottrina ippocratea dei quattro umori (sangue, flemma, bile gialla e
bile nera), dalla cui giusta mistura deriva la salute dell’uomo. Senonché in
luogo degli umori si citano gli elementi (fuoco, acqua, aria, terra) ciascuno
dei quali, per i suoi effetti, è rapportabile a un umore. Dalla prevalenza
d’un elemento sugli altri deriva il carattere d’un individuo. Dalla esempli-
ficazione che segue è evidente, per gli effetti prodotti, che il fuoco equiva-
le al sangue, l’acqua al flemma.
malati, i convalescenti e coloro che hanno perso calore per stan-
chezza o per salasso; nella stessa situazione si trovano le persone
consunte dalla sete e dalla fame e gli anemici che si nutrono in
misura scarsa e vengono meno. Il vino scatena l’ira, perché au-
menta il calore; alcuni si lasciano trasportare dalla collera quan-
do sono ubriachi, altri quando sono feriti, a seconda della natura
di ciascuno. I più iracondi sono i biondi e i rossicci, per la ragio-
ne che hanno per natura quel colorito che gli altri sogliono avere
in preda all’ira; essi hanno un sangue mobile e agitato.

20. Ma se alcuni sono proclivi all’ira per natura, è anche vero che
si danno molte cause che producono lo stesso effetto della natu-
ra: alcuni sono spinti all’ira da una malattia o da un’offesa fisica,
altri dalla fatica o da veglie ininterrotte e notti ansiose e rimpian-
ti e passioni amorose; quant’altro nuoce al corpo e all’animo, pre-
dispone ai lamenti una mente afflitta. Ma tutto ciò è il principio e
il motivo; grande rilievo ha l’abitudine, che se è inveterata, ali-
menta il vizio. Certo è difficile cambiare la natura e non è possi-
bile variare le dosi degli elementi mescolati una volta per tutte
all’atto della nascita; gioverà però sapere che si deve limitare il
vino ai caratteri ardenti, e Platone pensa che lo si debba negare
ai bimbi e vieta di attizzare il fuoco col fuoco. Non bisogna nean-
che rimpinzarli di cibo, poiché il corpo ingrasserà e col corpo si
gonfierà anche l’animo. Si allenino con fatica senza arrivare alla
spossatezza; affinché il caldo diminuisca ma non sia eliminato, e il
fervore eccessivo sbollisca. Gioveranno anche i giochi, poiché un
moderato piacere conferisce all’animo distensione ed equilibrio.
Non hanno da temere nulla dall’ira i temperamenti troppo umidi
e troppo secchi e quelli freddi, ma devono paventare vizi più fiac-
chi, come la paura, la difficoltà di carattere, la disperazione e i so-
spetti; pertanto tali temperamenti devono essere coccolati e ac-
carezzati e indotti alla letizia. E poiché sono diverse le terapie da
usare contro l’ira e contro la tristezza, e questi disturbi vanno cu-
rati con sistemi non solo molto divergenti ma opposti, affrontere-
mo sempre il disturbo che si è maggiormente sviluppato.

21. Giova moltissimo, lo ripeto, che i bimbi siano subito educati


in modo sano; ma la condotta è difficile, poiché dobbiamo fare
in modo di non nutrire in loro l’ira, ma anche di non mortificar-
ne il carattere. La cosa richiede una scrupolosa attenzione, poi-
ché sia ciò che si deve esaltare sia ciò che si deve ridurre ha simi-
le nutrimento, e le cose simili ingannano facilmente anche chi
presta molta attenzione. L’animo cresce nella libertà, si avvilisce
nella servitù; si esalta se riceve lodi ed è indotto a nutrire buona
speranza di sé, ma ciò produce anche l’insolenza e l’iracondia:
perciò fra i due poli dobbiamo educarlo usando ora il morso ora
gli sproni. Non abbia a subire trattamenti umili e servili; non ab-
bia mai bisogno di chiedere supplichevolmente, né gli giovi l’a-
ver chiesto; è meglio che la spunti per le sue buone ragioni e le
azioni passate e le buone promesse per il futuro. Nelle gare con i
coetanei non dobbiamo sopportare né che si scoraggi né che si
adiri; facciamo in modo che vada d’accordo con coloro con cui
suole gareggiare, che nelle gare si abitui non a voler nuocere, ma
a voler vincere: ogni volta che avrà la meglio e compirà un’azio-
ne degna di lode, consentiamogli di provare orgoglio e non bal-
danza; alla gioia tien dietro l’esultanza, all’esultanza la superbia
e un’eccessiva stima di sé. Gli concederemo qualche svago, ma
non lo lasceremo abbandonarsi all’inoperosità e all’ozio e lo ter-
remo lontano dal contatto con le raffinatezze; nulla rende più
iracondi di un’educazione molle e permissiva. Per questo l’ani-
mo dei figli unici e degli orfani è più corrotto quanto più si è con
loro indulgenti e permissivi. Non reggerà alle offese chi l’ha sem-
pre avuta vinta e ha sempre avuto la mamma pronta ad asciu-
gargli le lacrime e l’ha spuntata nei confronti del pedagogo. Non
vedi come alle condizioni sociali più elevate si accompagni una
maggiore irascibilità? Il fenomeno si manifesta con evidenza nei
ricchi, nei nobili, in coloro che rivestono alte cariche, quando la
naturale vanità del carattere si sviluppa con il favore d’un vento
propizio. La fortuna dà alimento all’iracondia, quando gli adula-
tori fanno ressa intorno lusingando l’orecchio superbo: «Quel
tale oserebbe dunque risponderti? Tu non tieni giusto conto del-
la tua posizione, ti sottovaluti da te stesso», e altro ancora, cui a
fatica resiste un temperamento equilibrato fin dall’inizio. Perciò
i ragazzi non devono conoscere affatto l’adulazione: ascoltino la
verità, talora abbiano paura, siano sempre rispettosi, si alzino al-
l’arrivo d’una persona anziana. Nulla ottengano per mezzo del-
l’ira: si offra loro, quando si sono chetati, ciò che è stato negato
quando piangevano. Abbiano sotto gli occhi le ricchezze dei ge-
nitori senza che ne possano far uso. Vengano rimproverati per le
cattive azioni. Sarà importante assegnare ai ragazzi maestri e pe-
dagoghi tranquilli: le piante tenere si avviluppano a ciò che tro-
vano vicino e crescendo gli assomigliano; divenuti giovinetti, ri-
producono nel loro carattere quello delle nutrici e dei pedago-
ghi. Un ragazzo cresciuto in casa di Platone, tornato dai genitori
vide il padre che sbraitava e disse: «In casa di Platone non ho
mai visto niente di simile». Io sono sicuro che imitò il padre pri-
ma di Platone. Anzitutto il vitto deve essere leggero, il vestito
non costoso, il modo di vivere simile a quello dei coetanei: chi
sin dall’inizio sarà messo sullo stesso piano degli altri, non si adi-
rerà se qualcuno sarà confrontato con lui.

22. Ma tutto questo riguarda i nostri figli: in noi ormai la condi-


zione in cui siamo nati e l’educazione che abbiamo avuto non la-
scia posto né a nuovi vizi né a nuovi insegnamenti: dobbiamo
programmare con ordine il futuro. Dobbiamo quindi combatte-
re contro le prime cause; e causa dell’ira è l’impressione di aver
ricevuto un torto, alla quale non si deve credere su due piedi.
Neppure a ciò che è chiaro e manifesto dobbiamo credere subi-
to, poiché certe menzogne hanno apparenza di vero. È sempre
bene aspettare: giorno dopo giorno la verità viene a galla. Non
prestiamo orecchio ai maldicenti; è un vizio dell’umana natura
credere volentieri ciò che si ascolta malvolentieri, teniamolo
presente e diffidiamone; ci adiriamo ancor prima di aver giudi-
cato. Il colmo è che ci lasciamo influenzare non solo dalle calun-
nie, ma anche dai sospetti, diamo interpretazioni malevole a uno
sguardo e a una risata altrui e ci arrabbiamo con chi non ha col-
pa. Perciò in difesa dell’assente dobbiamo far gli avvocati contro
noi stessi e lasciar l’ira in sospeso; la pena rimandata può essere
ancora inflitta, ma inflitta che sia non possiamo revocarla.

23. È famoso quel tirannicida che, arrestato prima che avesse


compiuto la sua azione, fu da Ippia sottoposto a tortura perché
facesse il nome dei complici; costui fece il nome degli amici del
tiranno che erano lì presenti e avevano, come ben sapeva, assai
cara la vita di lui. Ippia, via via che venivano nominati, li mandò
a morte e chiese se c’era ancora qualche complice: «Resti tu so-
lo» gli rispose «non ho lasciato alcun altro che ti volesse bene».
L’ira indusse il tiranno a prestar la sua mano al tirannicida e a
eliminare con la sua spada i suoi difensori. Quanto più coraggio-
so fu Alessandro! La madre lo aveva avvertito per lettera di sta-
re in guardia dal veleno del medico di Filippo. Egli prese dalle
sue mani la pozione e la bevve senza batter ciglio: sul conto del
suo amico diede più retta a se stesso. Fu degno di meritare che
fosse innocente e di dimostrarlo. In Alessandro apprezzo tanto
di più questo comportamento in quanto nessuno fu soggetto al-
l’ira quanto lui; e quanto più la moderazione è rara nei re, tanto
più è degna di lode. Così si comportò anche il grande Cesare,21
che vinta la guerra civile si valse della vittoria con grande cle-
menza: scoprì gli scrigni delle lettere spedite a Pompeo da colo-
ro che sembravano aver militato nel partito opposto o essere ri-
masti neutrali, e li bruciò. Benché fosse solito tener l’ira sotto
controllo, preferì non aver l’occasione di adirarsi: ritenne che la
forma più gradita di perdono fosse ignorare le colpe di ciascuno.

24. Di grossi guai è causa la credulità. Spesso non dovremmo


neppure prestare ascolto, perché in certi casi è meglio essere in-
gannati che diffidenti. Sgombriamo l’animo nostro da sospetti e
congetture, stimoli assai ingannevoli: «Quel tale mi ha salutato
con poca cortesia; colui non ha ricambiato il mio bacio; l’altro ha
troncato di colpo ciò che stava dicendo; un altro non m’ha invi-
tato a cena; lo sguardo di un altro ancora mi è parso un po’ osti-
le». Al sospettoso non mancheranno mai indizi: dobbiamo esse-
re schietti e prendere le cose dal lato buono. A meno che una co-
sa non ci capiti sotto gli occhi e non sia evidente, non dobbiamo
credere a nulla, e ogni volta che i nostri sospetti risulteranno
infondati, rimproveriamoci d’essere stati creduli; questo castigo
ci abituerà a non credere sui due piedi.

25. Ne consegue pure che non dobbiamo essere contrariati per


ragioni futili e disdicevoli. È una follia agitarsi se lo schiavo è

21
Il grande Cesare è il conquistatore della Gallia, il quale, vinta la guer-
ra civile contro il partito del senato rappresentato da Pompeo, ebbe la dit-
tatura a vita, esercitata dal 48 al 44 a.C., anno in cui fu ucciso da una con-
giura. La clemenza di Cesare è attestata da Plutarco, Svetonio, Plinio e
Cassio Dione: gli ultimi due confermano l’episodio delle lettere bruciate.
poco svelto, se l’acqua da bere non è abbastanza fresca, se il let-
to è in disordine o la mensa è stata imbandita con poca cura. È
malato e di poca salute colui che sta riguardato quando spira una
lieve brezza, sono malati gli occhi che soffrono l’abbaglio d’una
veste lucente, è snervato dalla dissolutezza chi avverte dolore al
fianco per la fatica d’un altro. C’era a Sibari, come si racconta,
un tal Mindiride;22 costui vide uno che lavorava la terra e levava
in alto il rastrello, si lamentò di sentirsi stanco e proibì al conta-
dino di lavorare in sua presenza; sempre lui si lamentò di sentir-
si peggio per esser giaciuto su petali di rosa piegati in due. Quan-
do i piaceri fiaccano nel contempo animo e corpo, nessuna prova
sembra sopportabile, non perché siano prove oggettivamente
dure, ma perché ad affrontarle è una persona fiacca. Dobbiamo
forse arrabbiarci se uno ha un colpo di tosse o uno sternuto, se
una mosca non viene cacciata con sufficiente attenzione, se ci si
para davanti un cane o lo schiavo distratto si lascia cadere la
chiave di mano? Sopporterà senza scomporsi un’offesa politica
e le ingiurie lanciategli in assemblea o in senato chi si sente l’o-
recchio offeso dal rumore d’una seggiola trascinata? Potrà sop-
portare la fame e la sete in una spedizione estiva colui che si adi-
ra con lo schiavo che non scioglie bene la neve? È chiaro che
nulla alimenta l’ira più del lusso sfrenato e incapace di soffrire:
se vogliamo che l’animo non avverta dolore se non a un colpo
duro, dobbiamo trattarlo duramente.

26. Ci adiriamo o con coloro dai quali non abbiamo neppur po-
tuto ricevere offesa, o con coloro dai quali abbiamo potuto rice-
verla. Al primo gruppo appartengono alcune cose che non han-
no sensibilità, come il libro che spesso abbiamo gettato perché
scritto in caratteri troppo piccoli, e abbiamo strappato perché
pieno d’errori, come le vesti che abbiamo lacerato perché non ci
piacevano: quanto è stolto arrabbiarsi con questi oggetti che non
hanno meritato la nostra ira e non la possono avvertire! «Ma
evidentemente ci offendono coloro che li hanno fatti.» In primo
luogo spesso ci arrabbiamo prima ancora di fare questa distin-

22
Di Mindiride di Sibari parla Erodoto (VI, 127) annoverandolo fra i
pretendenti della figlia di Clistene tiranno di Sicione; lo stesso aneddoto di
Seneca riferiscono Diodoro Siculo ed Eliano.
zione. In secondo luogo gli artigiani stessi addurranno plausibili
giustificazioni: uno non ha potuto far meglio di quello che ha fat-
to, e se è stato apprendista poco attento, non aveva intenzione di
offendere te, un altro non lo ha fatto al fine di offenderti. Infine
che c’è di più folle che sfogare sulle cose la bile nutrita contro gli
uomini? Orbene, come è da pazzi adirarsi con le cose inanimate,
così lo è con i muti animali, che non ci fanno torto alcuno, per-
ché non possono averne la volontà; non si dà infatti offesa se non
muove da una scelta consapevole. Perciò ci possono nuocere co-
me un pezzo di ferro o una pietra, ma non ci possono recare of-
fesa. Eppure alcuni si ritengono offesi se gli stessi cavalli, docili
con un cavaliere, sono bizzosi con un altro, quasi che con certuni
fossero mansueti di proposito, e non perché vi sono avvezzi e so-
no trattati con maggior perizia. E se è stolto arrabbiarsi con que-
sti, lo è pure arrabbiarsi con i ragazzi e con chi, per senno, non è
molto superiore ai ragazzi; infatti un giudice giusto, di fronte a
tutte queste colpe, darà alla sconsideratezza valore di innocenza.

27. Ci sono cose che non possono nuocere, anzi hanno solo ef-
fetto benefico e salutare, come gli dèi immortali, i quali né vo-
gliono né possono fare il male; la loro natura è mite e tranquilla,
tanto lontana dall’offendere gli altri quanto dall’offendere se
stessa. Perciò gli stolti e coloro che non conoscono la verità attri-
buiscono a loro colpa una burrasca di mare, le piogge eccessive,
la rigidità dell’inverno, mentre nessuno dei fenomeni che ci
nuocciono e ci giovano è indirizzato personalmente a noi. Non
siamo noi il motivo per cui l’universo ripropone l’inverno e l’e-
state: questi fenomeni hanno loro leggi, mediante le quali si rea-
lizza il volere divino; abbiamo un troppo alto concetto di noi, se
ci riteniamo meritevoli che sì grandi movimenti avvengano per
noi. Quindi nulla di tutto ciò accade per offenderci, al contrario
tutto accade per il nostro bene. Abbiamo detto che ci sono cose
che non possono nuocerci, altre che non vogliono. Appartengo-
no a quest’ultimo gruppo i buoni magistrati, i genitori, i maestri,
i giudici, il cui castigo va accettato come il bisturi, il digiuno e
quanto ci dà dolore al fine di giovarci. Se siamo stati puniti, non
pensiamo solo a ciò che subiamo, ma anche a ciò che abbiamo
fatto, diventiamo giudici della nostra vita. Se vorremo dirci la ve-
rità, la nostra colpa ci parrà più grave.
28. Se vogliamo essere giudici giusti d’ogni fatto, dobbiamo pri-
ma di tutto convincerci che nessuno di noi è senza colpa; poiché
lo sdegno maggiore ha origine dalla convinzione di non aver
mancato in nulla, di non aver fatto nulla di male. È più giusto di-
re che non confessiamo nulla. Ci sdegniamo di aver subìto un
rimprovero o una punizione, e in quel momento stesso pecchia-
mo, perché aggiungiamo alle nostre cattive azioni l’arroganza e
l’ostinazione. Chi è colui che si dichiara innocente di fronte a tut-
te le leggi? E quand’anche lo fosse, è una ben gretta innocenza il
non violare la legge. La norma dei doveri è molto più ampia di
quella del codice! Quanti obblighi impone l’affetto, l’umanità, la
generosità, la giustizia e la lealtà, obblighi tutti non contemplati
nelle tavole della legge! Ma non possiamo garantire di noi nep-
pure sulla base di quel ristrettissimo concetto di innocenza: alcu-
ni reati li abbiamo commessi, altri pensati, altri desiderati, altri
incoraggiati; in certi casi siamo innocenti perché le cose non so-
no andate come avremmo voluto. Riflettiamo su questo, mo-
striamoci benevoli con chi sbaglia, crediamo a chi ci rimprovera;
in ogni caso non prendiamocela con i buoni (altrimenti dovrem-
mo prendercela con tutti), meno che mai con gli dèi; non per col-
pa loro, ma per la nostra condizione di mortali soffriamo i guai
che ci capitano. «Ma ci colgono malattie e dolori.» Chi ha avuto
in sorte una dimora marcia, deve pur morire in qualche modo. Ti
diranno che qualcuno ha parlato male di te: rifletti se tu non sia
stato il primo a farlo, pensa di quanta gente parli male tu. Riflet-
tiamo, lo ripeto, che alcuni non fanno un’offesa ma la ricambia-
no, altri la fanno a nostro vantaggio, altri per costrizione, altri
senza accorgersene, e anche coloro che la fanno di proposito e
consapevolmente, pur offendendoci, non hanno il fine di offen-
derci: uno ha sbagliato per il gusto di fare una battuta di spirito,
o ha fatto qualcosa non per recare danno a noi, ma perché non
avrebbe potuto raggiungere il suo scopo se non ci avesse spinto
indietro; spesso a offendere è l’adulazione, mentre lusinga.
Chiunque ricorderà quante volte egli stesso si sia lasciato andare
a un sospetto infondato, a quanti suoi favori il destino abbia da-
to l’aspetto di un’offesa, quanta gente abbia egli cominciato ad
amare dopo averla odiata, potrà non arrabbiarsi subito, soprat-
tutto se in silenzio, a ogni offesa subita, dirà a se stesso: «Questo
l’ho fatto anch’io». Ma dove troverai un giudice tanto equilibra-
to? Chi desidera la donna d’altri e pensa di avere sufficienti ra-
gioni di amarla proprio perché è d’altri, non vuole che si rivolga
un’occhiata a sua moglie; il perfido è inflessibile nel pretendere
lealtà, e proprio lo spergiuro si accanisce contro le bugie, e il fal-
so accusatore non accetta affatto che gli si intenti un processo;
chi non ha tenuto conto della propria pudicizia non tollera che si
attenti a quella dei suoi schiavetti. Abbiamo sotto gli occhi i di-
fetti altrui, e dietro le spalle i nostri; da ciò deriva che il padre,
più corrotto del figlio, rimprovera i suoi prolungati banchetti, e
non concede nulla alla lussuria altrui colui che non ha negato
niente alla propria, e il tiranno se la prende con l’assassino, e il
sacrilego punisce i piccoli furti. C’è una gran parte di uomini che
ce l’ha non con i peccati, ma con i peccatori. Un esame di co-
scienza ci aiuterà a moderarci, se ci chiederemo: «Non abbiamo
forse fatto anche noi qualcosa di simile? Non abbiamo commes-
so un tale errore? Ci conviene forse condannare questo?».

29. La cura più efficace contro l’ira sta nel prender tempo. All’i-
nizio chiedile tempo, non perché perdoni ma perché giudichi:
impetuosi sono i suoi primi attacchi; cesserà se attende. Ma non
cercare di eliminare l’ira totalmente: sarà vinta tutta mentre è
assalita nelle singole parti; dei fatti che ci offendono, alcuni ci
vengono riferiti, altri li sentiamo e vediamo noi stessi. Non dob-
biamo dar subito credito a ciò che ci viene raccontato: molti
mentono per ingannare, molti perché sono stati ingannati; uno
cerca di conquistarsi la nostra simpatia con una calunnia e in-
venta un’offesa per dimostrare che ne ha provato dolore; un al-
tro è malevolo e vorrebbe dividere gli amici affiatati; un altro
ancora è un perdigiorno, e desidera far da spettatore a una lite e
osservare da lontano e al sicuro i due che ha messo in urto. Se ti
accingessi a far da giudice in una questione di pochi denari, non
giudicheresti senza un testimonio e il testimonio non avrebbe
valore senza giuramento, concederesti a entrambe le parti la di-
fesa, daresti del tempo, ascolteresti più d’una volta; poiché la ve-
rità è più chiara se la si esamina più spesso: un amico invece lo
condanni su due piedi? Ti adiri prima di udirlo, di interrogarlo,
prima che gli sia lecito sapere chi lo accusa e di che cosa? Hai
forse già ascoltato la tesi delle due parti? La stessa persona che
ti ha riferito, diventerà muta se dovrà testimoniare; dirà: «Non
mi tirare in ballo, perché, portato in giudizio, negherò: se no non
ti dirò più nulla». Nel medesimo tempo rinfocola e si sottrae al
confronto e al dibattito. Chi è disposto a parlare con te solo a
quattr’occhi, è come se non parlasse: che c’è di più ingiusto che
credere in segreto e adirarsi apertamente?

30. Di alcuni fatti siamo testimoni noi stessi: in questi casi dob-
biamo esaminare a fondo l’indole e la volontà di chi ha agito. Se
è un ragazzo, si perdoni alla sua età, poiché non sa se sbaglia. Se
è il padre, o ci ha giovato tanto da avere anche il diritto di offen-
derci, o forse la cosa stessa da cui ci sentiamo offesi è un suo be-
neficio. È una donna: sbaglia.23 Ha ricevuto un ordine: solo l’in-
giusto si adira per ciò che viene da uno stato di necessità. È stato
da noi offeso: non è offesa subire ciò che abbiamo fatto noi per
primi. È un giudice: dobbiamo credere di più alla sua sentenza
che alla nostra. È il re: se punisce un colpevole, ci si inchini alla
giustizia, se un innocente, alla sorte. È un animale muto, o simile
a un muto: se ci arrabbiamo gli assomigliamo. È una malattia o
una disgrazia: se la si affronterà con forza, passerà oltre gravan-
do meno. È la divinità: arrabbiandoti con lei non concludi nulla,
come pregandola che si adiri con un altro. Chi ci ha fatto torto è
un uomo buono: non dobbiamo crederci. È un malvagio: non
meravigliamocene; pagherà ad altri il fio di cui ci è debitore, e
chi ha peccato lo ha già pagato a se stesso.

31. Come ho detto, due sono i casi che scatenano l’ira: il primo,
quando abbiamo l’impressione di aver ricevuto un’offesa (e di
questo s’è detto a sufficienza); il secondo, se abbiamo l’impres-
sione di averla ricevuta ingiustamente (di questo bisogna ancora
parlare). Gli uomini giudicano ingiuste certe cose perché non
avrebbero dovuto subirle, altre perché non le avevano previste.
Riteniamo immeritato ciò che è imprevisto; pertanto ci impres-
siona di più ciò che è accaduto contro la nostra speranza e atte-
sa, né v’è altra ragione per cui, nei rapporti con le persone di ca-
sa, un nonnulla ci offende, e nei rapporti con gli amici chiamia-
mo offesa una disattenzione. Dicono: «Perché allora ci agitano le

23
Quasi l’errore fosse connaturato alla natura femminile! Di spunti mi-
sogini è piena la letteratura antica.
offese dei nostri nemici?». Perché non ce le aspettiamo, o perlo-
meno non in quella misura. E questo viene da un eccessivo amo-
re di noi stessi: pensiamo di dover essere inviolabili anche ai no-
stri nemici; ognuno nutre l’orgoglio di un re, per cui vuole libertà
d’azione per sé, non contro di sé. Quindi a renderci irascibili è o
l’ignoranza o l’arroganza. È forse strano che i malvagi compiano
azioni malvagie? È una novità, se il nemico nuoce, l’amico offen-
de, il figlio sbaglia, lo schiavo pecca? Fabio24 diceva che per un
comandante la giustificazione più disdicevole è «non l’avevo
previsto». Io la giudico la più disdicevole per un uomo. Tutto de-
vi prevedere e aspettarti: anche nelle indoli buone verrà fuori
qualche asprezza. La natura umana produce animi ingannatori,
ingrati, bramosi, empi. Prima di dare un giudizio sul carattere di
uno, dàllo su quello di tutti. Quando gioirai di più, temerai di più:
quando tutto ti sembra tranquillo, non manca il male, ma è solo
inattivo. Tieni presente che ci sarà sempre qualcosa che ti offen-
de: il pilota non dispiega mai tranquillamente l’intera velatura
senza aver prontamente disposto gli attrezzi per ridurla.
Prima di tutto rifletti che la volontà di nuocere è brutta, abo-
minevole e del tutto estranea all’uomo, il quale ammansisce per-
sino le bestie feroci con la sua bontà. Guarda gli elefanti che sot-
tomettono il collo al giogo e i tori che si lasciano saltare addosso
impunemente ragazzi e ragazze, e i serpenti che dispiegano le lo-
ro volute senza recar danno fra le coppe e le pieghe della veste, e
gli orsi e i leoni che entro casa presentano il muso alle carezze, e
le fiere che fanno le moine ai padroni: ti vergognerai d’aver dato
il tuo temperamento agli animali per prendere il loro. È un delit-
to nuocere alla patria; quindi anche a un concittadino che è par-
te della patria (le parti di un tutto venerabile sono sacre); quindi
anche all’uomo, che in una città più grande è tuo concittadino.25
Che diremmo, se le mani volessero nuocere ai piedi, e gli occhi
alle mani? Come tutte le membra vanno d’accordo fra di loro,
poiché è interesse del tutto che le singole parti siano salve, così
gli uomini risparmieranno i singoli perché sono nati per la vita

24
Si tratta di Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, ma la massi-
ma da Valerio Massimo è attribuita a Scipione Africano.
25
La città più grande è evidentemente il mondo, di cui l’uomo deve
sentirsi cittadino.
associata, e la società non può esser salva se non con la tutela e
l’amore delle parti che la compongono. Non sopprimeremmo
neppure le vipere e le natrici e quanti altri animali nuocciono
mordendo e colpendo, se potessimo renderle mansuete per il fu-
turo o fare in modo che non siano nocive a noi o agli altri; perciò
non nuoceremo neppure all’uomo per il fatto che ha peccato, ma
al fine che non pecchi più, e il castigo non guarderà mai al passa-
to ma al futuro; infatti non si adira ma sta in guardia. Si devono
punire tutti coloro che hanno indole prava e malefica? Nessuno
sarà esente da pena.

32. «Ma l’ira produce un certo piacere ed è dolce ricambiare il


dolore.» Nient’affatto, poiché se nelle buone azioni è bello ripa-
gare favore con favore, non è lo stesso per le offese. Nel primo
caso reca vergogna la sconfitta, nel secondo la vittoria. Vendetta
è una parola disumana, cui si dà purtroppo valore positivo. Chi
ricambia l’offesa è diverso da chi la fa solo perché agisce per se-
condo, pecca in maniera più giustificata, ma pecca pur sempre.
Uno sconosciuto colpì M. Catone26 in un bagno pubblico, senza
volerlo, poiché nessuno avrebbe potuto offenderlo di proposito.
Subito si scusò, ma Catone gli rispose:«Non mi ricordo di essere
stato colpito». Preferì far finta di nulla che vendicarsi. Mi dirai:
«E quel tale, dopo sì grave negligenza non ebbe alcun guaio?».
Ebbe anzi una gran fortuna: cominciò a conoscere Catone. È ti-
pico di un animo grande non tener conto delle offese: non esser
giudicato in grado di dar soddisfazione, ecco il tipo più offensivo
di vendetta! Molti, nel vendicare offese di poco conto, hanno fi-
nito per sentirle più profondamente: grande e generoso è colui
che, come una fiera robusta, ascolta imperturbabile i latrati dei
cagnolini.

33. Dicono: «Se vendicheremo l’offesa, saremo meno disprez-


zati». Se consideriamo la vendetta come un farmaco, dobbiamo

26
Marco Porcio Catone è qui, come negli altri passi dell’opera in cui
viene ricordato, Catone Uticense, il fiero e irriducibile difensore degli
ideali repubblicani contro lo strapotere di Cesare. Egli incarna per Seneca
la figura ideale del saggio stoico e viene spesso ricordato con termini di
grande ammirazione.
farvi ricorso senz’ira, convinti che l’esercizio della vendetta
non è dolce, ma utile; però spesso è stato preferibile lasciar per-
dere che vendicarsi. I torti fatti da chi è più potente di noi li
dobbiamo sopportare con volto giulivo, non solo con rassegna-
zione: faranno ancora torto se si convinceranno d’averlo fatto;
l’aspetto peggiore di un animo reso arrogante dal continuo fa-
vore della sorte è che arriva a odiare quelli che ha offeso. È as-
sai nota la risposta di quel tale che era invecchiato ossequian-
do i re; un tizio gli chiese come avesse potuto raggiungere a
corte un traguardo assai raro qual è la vecchiaia, ed egli rispo-
se: «Accettando le offese e ringraziando». Spesso non conviene
vendicare un’offesa, a tal segno che non conviene neppure ri-
conoscerla. G. Cesare aveva fatto imprigionare il figlio di Pa-
store27 gran cavaliere romano, ritenendosi offeso dalla sua raf-
finatezza e dalla sua capigliatura troppo curata. Il padre gli
chiese di risparmiargli il figlio ed egli, come se gli avesse ricor-
dato la pena capitale, ordinò che fosse subito condotto a mor-
te; e tuttavia, per non essere del tutto disumano nei riguardi del
padre, lo invitò a pranzo per quel giorno. Pastore venne, senza
alcun segno di biasimo sul volto. Cesare lo invitò a bere alla sua
salute un mezzo litro e gli mise a fianco un sorvegliante: l’infe-
lice tenne duro, era come se bevesse il sangue del figlio. Gli in-
viò profumi e corone e ordinò di controllare se le prendesse: le
prese. Nel giorno in cui aveva fatto il funerale del figlio, anzi
non lo aveva fatto, il povero vecchio gottoso era adagiato fra
cento altri commensali e tracannava calici appena convenienti
per il compleanno dei figli, senza versare una lacrima, senza
permettere che trasparisse alcun segno di dolore: pranzò come
se avesse ottenuto la grazia per il figlio. Mi domandi perché?
ne aveva un altro. E Priamo? Non trattenne forse l’ira e ab-
bracciò le ginocchia del re, impresse un bacio sulla mano fune-
sta e grondante del sangue del figlio, e si mise a tavola? Senza
profumo però, senza corone, e il crudelissimo nemico lo esortò
con molte parole di conforto a mangiare, non a tracannare
grandi coppe con un sorvegliante sopra la testa. Avrei disprez-
zato il genitore romano se avesse temuto per sé: fu invece l’af-

27
Questo Pastore, cavaliere romano che subisce la crudeltà di Caligola,
non ci è altrimenti noto.
fetto per il figlio a frenare l’ira. Meritò che gli si concedesse di
levarsi dal banchetto per andare a raccogliere le ossa del figlio:
neppure questo gli permise il giovane talora benevolo e corte-
se: sfotteva il vecchio con continui brindisi, invitandolo ad alle-
viare il dolore. Ma quello si mostrò lieto e dimentico di quanto
era accaduto quel giorno; sarebbe morto l’altro figlio, se come
commensale non fosse piaciuto al boia.

34. Dobbiamo dunque astenerci dall’ira, sia che si abbia a sfi-


dare un nostro pari, o uno più potente o uno più debole. Lotta-
re con uno pari a noi è rischioso, con uno più forte è forsenna-
to, con uno più debole è disonorevole. È tipico d’un uomo me-
schino e misero attaccare chi morde: i topi e le formiche, se ac-
costi loro la mano, ti si voltano contro; gli esseri deboli pensano
d’essere offesi se sono toccati. Ci renderà più miti pensare ai
favori che ci ha fatto talvolta colui col quale ci adiriamo, e l’of-
fesa sarà riscattata dalle sue benemerenze. Teniamo pure pre-
sente che la fama di clementi ci procurerà molta lode e che
molti, ottenuto il perdono, sono diventati utili amici. Non adi-
riamoci coi figli dei nostri avversari e nemici: fra gli esempi di
crudeltà offerti da Silla c’è il fatto che rimosse dall’attività po-
litica i figli dei proscritti; che uno diventi erede dell’odio nutri-
to contro il padre, è sommamente ingiusto. Ogni volta che tro-
veremo difficoltà a perdonare, riflettiamo se ci convenga che
tutti siano inflessibili alle preghiere. Quante volte chiede il per-
dono colui che non lo ha concesso! Quante volte si è prostrato
ai piedi di colui che aveva cacciato dai propri piedi! Nulla reca
più gloria che cambiare l’ira in amicizia. Quali alleati ha Roma
più fedeli di quelli che ha conosciuto come ostinatissimi nemi-
ci? Quale impero vi sarebbe oggi, se una salutare accortezza
non avesse fatto un unico insieme di vinti e vincitori? Qualcu-
no si arrabbierà; tu dal canto tuo sfidalo nelle buone azioni; la
rivalità sparisce all’improvviso, quando vien meno da una delle
due parti; per combattere bisogna essere in due a volerlo. Po-
niamo pure che da ambo le parti l’ira verrà allo scontro; si va
all’assalto: il migliore è colui che si ritira per primo, lo sconfitto
è il vincitore. Ti ha colpito: indietreggia, poiché restituendo il
colpo gli darai l’occasione di colpire più spesso, e pur volendo-
lo, non potrai più indietreggiare.
35. C’è forse qualcuno che voglia colpire il nemico in maniera
così violenta da lasciare la mano nella ferita e da non poter in-
dietreggiare dopo aver inferto il colpo? Eppure l’ira è un’arma
siffatta: è difficile tirarla indietro. Noi vediamo per tempo quali
sono le armi a noi utili, una spada adatta e maneggevole: non
eviteremo questi impulsi dell’animo gravi, pesanti e irrevocabi-
li? Infine è utile quella velocità che quando riceve l’ordine sa
arrestarsi e non corre oltre il limite stabilito e può essere guida-
ta e riportata dalla corsa al passo; sappiamo che sono malati i
nervi che si muovono senza che noi lo vogliamo; chi, volendo
passeggiare, corre, o è vecchio o ha il fisico malato: dobbiamo
giudicare perfettamente sani e robusti quei movimenti dell’ani-
mo che avverranno con la nostra volontà e non saranno trasci-
nati dalla loro.
Tuttavia la cosa più utile è osservare in primo luogo la brut-
tezza, in secondo luogo il pericolo dell’ira. Nessuna passione ha
un aspetto più sconvolto: suole sconciare i volti più belli, rende
lo sguardo torvo da sereno che era; ogni grazia abbandona la
persona adirata, e se indossa la toga secondo la regola, la trasci-
nerà e perderà ogni cura di sé, e i capelli che si presentano bene
o per loro natura o per maestria di acconciatura, si fanno ispidi
con la passione; le vene si gonfiano; il petto sarà scosso da un re-
spiro affannoso, la voce che esplode rabbiosa ingrosserà il collo;
infine gli arti non hanno pace, le mani si muovono, tutto il corpo
trema. Come pensi che sia interiormente l’animo se il suo aspet-
to esteriore è tanto sconcio? Quanto più spaventoso è il suo
aspetto entro il petto, più ansimante il respiro, più teso lo slan-
cio, destinato a scoppiare se non trova una via d’uscita! Come è
l’aspetto dei nemici o delle fiere che grondano sangue o proce-
dono a fare strage, come i poeti hanno immaginato i mostri in-
fernali avvolti da serpenti e con la bocca che vomita fuoco, come
escono le tremende dee degli Inferi a scatenare guerre, per semi-
nare la discordia tra i popoli e per distruggere la pace, così im-
maginiamoci l’ira, che con lo sguardo di fuoco schiamazza con
fischi, muggiti, gemiti, stridori e quant’altri suoni vi sono di que-
sti più odiosi, palleggia i giavellotti con entrambe le mani (poi-
ché non si preoccupa di coprirsi), aggrondata, imbrattata di san-
gue, coperta di cicatrici e di lividi per le sue stesse battiture, dal-
l’andatura squilibrata, avvolta di fitta nebbia, che assalta, deva-
sta, mette in fuga, ed è travagliata da odio contro tutti, soprattut-
to contro se stessa, e brama, se non può nuocere in altro modo,
di distruggere terra, mare e cielo, nemica e odiosa a un tempo.
Oppure, se ci garba, sia come la descrivono i nostri poeti:

Scuote Bellona con la mano destra la frusta insanguinata

oppure:

Discordia incede lieta col manto lacerato28

o se si può immaginare un aspetto più atroce d’una passione


atroce.

36. Come dice Sestio,29 ad alcune persone adirate è stato utile


guardarsi allo specchio. Un loro così grande mutamento le ha
sconvolte; quasi, ritornate alla realtà, non si sono riconosciute:
eppure quell’immagine riflessa dello specchio rendeva ben poco
della vera bruttezza! L’animo, se fosse visibile e potesse traspari-
re da qualche materia, lascerebbe sbigottito l’osservatore, mo-
strandosi nero, pieno di macchie, ribollente, deforme e gonfio.
Ma anche così, disperso com’è nelle ossa, nella carne e in tanti
ostacoli, rivela la sua smisurata bruttezza; chissà se si mostrasse
nudo! Si potrebbe però credere che lo specchio non abbia mai
distolto nessuno dall’ira. E con questo? Chi ha fatto ricorso allo
specchio per cambiarsi, si è già cambiato; mentre per gli adirati
nessuna sembianza è più bella di quella atroce e orrida e voglio-
no anche apparire tali quali sono.
Vediamo piuttosto a quanti uomini l’ira abbia di per sé nuo-
ciuto. A volte l’eccitazione eccessiva fa schiantare le vene e l’ur-
lo lanciato oltre le forze provoca uno sbocco di sangue e l’umore
che si scarica con troppa violenza negli occhi annebbia la vista e
si cade nell’afflizione e nelle malattie. Non c’è strada che porti
più spedita alla follia. E per l’appunto molti dall’ira passarono

28
Le due citazioni sono da Virgilio.
29
Quinto Sestio Niger e il figlio Quinto Sestio diressero in Roma fra il
40 a.C. e il 10 d.C. una scuola filosofica aperta all’influsso pitagorico, al di-
simpegno politico, a una pratica di vita ascetica.
alla pazzia e non recuperarono più il senno che avevano caccia-
to: Aiace30 dalla pazzia fu spinto al suicidio, dall’ira alla pazzia.
Gli irati imprecano morte ai figli, rovina alla casa, e non ammet-
tono di essere irati, come i forsennati non ammettono di essere
pazzi. Nemici degli amici più intimi, pericolosi per le persone più
care, immemori delle leggi, eccetto quelle che consentono di
nuocere, pronti a eccitarsi per inezie, difficili da avvicinare sia
con parole sia con cortesia, tutto compiono con violenza, dispo-
sti sia a combattere con la spada sia a trafiggersi. Li ha colti in-
fatti il male più grave, che supera tutti i vizi. Mentre altri mali
entrano in noi gradatamente, questo ha una violenza improvvisa
e totale. Infine sottomette ai suoi voleri tutte le altre passioni:
vince l’amore più ardente e perciò trafiggono le persone amate
per giacere poi tra le braccia delle loro vittime; l’ira si mette sot-
to i piedi l’avarizia, che pure è un male assai ostinato e per nulla
disposto a piegarsi, e la costringe a dilapidare i suoi beni e ad ap-
piccare il fuoco alla casa e al patrimonio ammucchiato. Non è
forse vero che l’ambizioso rifiuta con sdegno le insegne prima
tanto stimate, e la carica che gli viene offerta? Non c’è passione
sulla quale l’ira non la faccia da padrona.

30
Aiace Telamonio, il più forte fra i Greci dopo Achille, impazzì di do-
lore per non aver ottenuto qual premio del suo valore le armi di Achille,
che furono assegnate a Ulisse.
LIBRO III

1. Cercherò ora di esaudire, o Novato, la tua più pressante ri-


chiesta, sradicare l’ira dall’animo o perlomeno tenerla a freno e
arrestarne gli attacchi.1 Talora bisogna farlo in maniera chiara e
manifesta, quando lo consente la minor violenza del male, talora
di nascosto, quando nel suo eccessivo ardore trova in ogni osta-
colo motivo di esacerbarsi e crescere; è importante considerare
l’entità e la freschezza del suo vigore, se dobbiamo rintuzzarla e
farla indietreggiare, o cederle in attesa che si sfoghi la prima bur-
rasca, affinché non porti via con sé persino i rimedi. Si dovrà de-
cidere a seconda del carattere di ciascuno; c’è infatti chi si lascia
vincere dalle preghiere, e chi aggredisce e incalza coloro che
umilmente lo scongiurano; alcuni li riporteremo alla calma incu-
tendo loro paura; chi rinuncia ai suoi fieri propositi con un rim-
provero, chi con la confessione, chi per vergogna, chi grazie al-
l’indugio, farmaco, quest’ultimo, lento a fare effetto su un male
precipitoso, cui si deve far ricorso solo da ultimo. Le altre passio-
ni ammettono il rinvio e possono essere curate a tempi lunghi,
mentre la violenza dell’ira, che travolge se stessa nel suo impeto,
non si sviluppa a poco a poco, ma raggiunge intensità totale già
al suo inizio; e non stimola gli animi come gli altri vizi, ma li tra-
volge e sconvolge rendendoli privi di autocontrollo e bramosi

1
L’intero capitolo, che introduce la materia del III libro, appare al-
quanto vago e confuso. L’autore non chiarisce se si tratti di soffocare l’ira
in noi stessi o negli altri; sembrerebbe privilegiato addirittura il secondo
tema e solo in seguito si scoprirà che a Seneca preme anche il primo.
persino d’una calamità che coinvolga anche loro, e non infuria
solo contro i bersagli prestabiliti ma anche contro quanto trova
al suo passaggio. Gli altri vizi sollecitano l’animo, l’ira lo travol-
ge. Anche se non si può opporre resistenza alle proprie passioni,
perlomeno si può affrontarle restando in piedi; l’ira, come i ful-
mini e le tempeste e quant’altro è irrevocabile perché non avan-
za ma cade dall’alto; accresce vieppiù la sua violenza. Gli altri vi-
zi si ribellano alla ragione, questo alla salute mentale; gli altri
hanno sintomi iniziali lievi e si sviluppano senza che uno se ne
accorga, mentre nell’ira è un vero precipitare dell’animo. Per-
tanto nulla incalza con maggiore stordimento e prontezza a di-
spiegare le sue forze; è arrogante quando ha successo, è folle
quando resta delusa; non prova disgusto neppure dopo l’insuc-
cesso, e quando la sorte le sottrae l’avversario, prende a morsi se
stessa. Né importa quanto rilievo abbia ciò che la scatena, ché
dai motivi più futili arriva alle conseguenze più gravi.

2. Nessuna età, nessuna razza ne è esente. Alcuni popoli, grazie


alla loro povertà, non conoscono il lusso, altri, abituati come so-
no a una vita errabonda, hanno evitato la pigrizia; quelli che han-
no costumi rozzi e vivono nei campi ignorano raggiri, frodi e tut-
ti i guai del foro: non c’è stirpe che non sia sollecitata dall’ira,
male potente sia fra i Greci sia fra i barbari, rovinosa sia per chi
ha timore delle leggi, sia per chi considera legge la propria forza.
Infine gli altri vizi travolgono singole persone, mentre questa è
la sola passione che talora coinvolge tutti. Non è mai successo
che un popolo intero sia stato preso da passione amorosa per
una donna, né che un’intera città abbia fondato la propria spe-
ranza sul denaro o sul profitto; l’ambizione domina singoli indi-
vidui, la sfrenatezza non è un malanno che coinvolge tutti, ma
verso l’ira spesso si procede in massa. Uomini e donne, vecchi e
ragazzi, principi e plebe si trovano d’accordo, e l’intera popola-
zione aizzata con pochissime parole andò oltre il fomentatore
stesso; subito si corse al ferro e al fuoco e si dichiarò guerra ai
confinanti o si combatté fra cittadini; intere case furono arse con
tutta la famiglia, e chi poco prima era tenuto in molta stima per
la sua eloquenza conciliante fu bersaglio dell’ira del suo udito-
rio; le legioni scagliarono i dardi contro i loro comandanti; la ple-
be in massa fu in contrasto con i senatori; la decisione ufficiale
del senato, senza attendere l’arruolamento e nominare il coman-
dante, scelse improvvisati capi della propria ira, e dando la cac-
cia ai nobili nelle case di Roma li mise a morte; trasgredendo il
diritto internazionale si maltrattarono ambasciatori e una rabbia
indicibile travolse la popolazione, né si aspettò che si placasse la
collera della gente, ma subito si misero in mare le navi e si riem-
pirono di soldati arruolati alla rinfusa; senza rispetto delle tradi-
zioni, senza trarre gli auspici il popolo, uscito in campo sotto la
guida della sua ira, impugnò le armi che il caso e la rapina gli of-
frivano, e scontò poi con un grande massacro l’avventatezza
d’un’ira temeraria. Questa è la fine dei barbari che si avventano
alla cieca nelle guerre: quando una presunta offesa colpisce il lo-
ro animo volubile, subito si lasciano trasportare e dando retta al
dolore piombano come valanga sulle legioni, senza rispettare i
ranghi, senza paura, senza precauzioni, alla ricerca del loro ri-
schio; gioiscono d’essere colpiti, di incalzare con le armi in pu-
gno, di premere col loro corpo le armi nemiche e di pervenire al-
lo sfondamento grazie alle ferite subite.

3. Mi dirai: «Non v’è dubbio che codesta sia una forza imponen-
te e rovinosa; perciò mostrami come vi si debba porre rimedio».
Eppure, come ho detto nei libri precedenti, Aristotele si erge a
difensore dell’ira e ci proibisce di sradicarla completamente da
noi: dice che è di sprone al valore, e che tolta questa l’animo risul-
ta disarmato e pigro e fiacco di fronte alle grandi imprese. È per-
tanto necessario mettere sotto accusa la sua bruttezza e ferocia
ed evidenziare quanto sia mostruoso un uomo che si avventa fol-
lemente contro un altro uomo, e con quanto slancio attacchi re-
cando rovina a se stesso nell’intento di recarla ad altri e di an-
nientare ciò che non può essere annientato senza il suo stesso an-
nientamento. E allora? Definisce qualcuno sano di mente costui
che, come travolto da una bufera, non avanza ma è sospinto e si
fa schiavo d’una malattia furiosa, né affida ad altri la sua vendet-
ta, ma facendosene egli stesso esecutore, trascende coll’animo in-
sieme e con la mano, assassino delle persone più care e di quelle
cose di cui piangerà tosto la perdita? Qualcuno assegna alla virtù
come aiutante e come compagna questa passione che obnubila le
idee senza le quali la virtù nulla può compiere? Se il malato riac-
quista energia in seguito a un attacco del suo male, si tratta
d’un’energia di breve durata, che non induce a nutrire buone spe-
ranze e che si risolve ancora nella malattia. Non pensare quindi
che io sprechi il tempo in argomenti superflui, se metto in cattiva
luce l’ira, come se gli uomini ne avessero un concetto incerto, vi-
sto che qualcuno, che per di più appartiene al novero dei grandi
filosofi, le conferisce incarichi, e la invoca come utile e fonte di
coraggio nelle battaglie, nelle azioni e per tutto ciò che si deve
compiere con un certo entusiasmo. Perché nessuno si inganni nel
credere che potrà giovare in qualche occasione e in qualche luo-
go, bisogna metterne in evidenza la rabbia sfrenata e stordita e
assegnarle il suo corredo costituito dai cavalletti di tortura, le cor-
de, le case di pena, le croci, il fuoco disposto attorno ai corpi in-
terrati, l’uncino che trascina persino i cadaveri, i vari tipi di carce-
re e di pena, lo strazio delle membra, il marchio inciso sulla fron-
te e le gabbie delle bestie feroci: fra questi attrezzi si collochi l’ira
col suo orrido e tremendo stridore, più spaventosa di tutti gli og-
getti mediante i quali impone la sua follia.

4. A voler dubitare del resto, è certo che nessuna passione ha


aspetto peggiore; l’abbiamo descritto nei libri precedenti: aspro e
accanito, ora pallido per il sangue che rifluisce all’interno, ora ros-
sastro e sanguigno, perché tutto il caldo e l’eccitazione si riversa-
no sul volto, con le vene turgide, con gli occhi ora inquieti e fuori
dell’orbita, ora fissi e immobili nello sguardo; in più i denti che si
urtano a produrre un suono simile a quello dei cinghiali che affi-
lano con lo strofinio le loro armi; in più lo scricchiolio delle arti-
colazioni mentre le mani si storcono e il petto è ripetutamente
percosso, il respiro affannoso e i gemiti tratti dal profondo, il cor-
po vacillante, le parole incerte per urli improvvisi, le labbra tre-
manti e talora sigillate, che emettono sibili sinistri. Le fiere, per-
bacco, sia che le agiti la fame sia il dardo penetrato nelle viscere,
anche quando ormai moribonde aggrediscono con l’ultimo mor-
so il loro cacciatore, hanno invero aspetto meno tremendo del-
l’uomo ardente d’ira. E se ti va di ascoltare frasi e minacce, che
parole pronuncia un animo straziato dall’ira!
Non vorrà forse ciascuno trattenersi dall’ira, quando si sarà
reso conto che essa trae inizio dal male fatto a sé? E non vuoi
dunque ch’io dimostri che chi è prigioniero della sua ira non è
padrone di sé, anzi non può neppure essere chiamato libero, a
coloro che nell’esercizio del sommo potere praticano l’ira e la
giudicano prova di forza e considerano la vendetta immediata
fra i grandi vantaggi d’una grande fortuna?2 Non vuoi che io di-
mostri, affinché ognuno sia più attento ed esamini se stesso, che
altre malattie dell’animo riguardano gli uomini peggiori, mentre
l’iracondia si insinua anche nelle persone civili e sane per il re-
sto? È tanto vero, che certuni definiscono l’iracondia indizio di
schiettezza, e generalmente si crede che siano maggiormente
soggetti a essa i più affabili.

5. «A che mira questo?» mi dirai. A che nessuno pensi di essere


sicuro da essa, poiché spinge alla crudeltà e alla violenza anche
coloro che per natura sono dolci e placidi. Come di fronte a un’e-
pidemia a nulla giova la robustezza fisica e una scrupolosa cura
della salute (infatti sono colpiti alla rinfusa deboli e forti), così
l’ira rappresenta un pericolo sia per i temperamenti inquieti sia
per quelli disciplinati e tranquilli, per i quali è tanto più vergo-
gnosa e pericolosa quanto maggiore è il mutamento che in essi
produce. Ma poiché la cosa più importante è non arrabbiarsi, la
seconda por fine all’ira, e la terza guarire anche l’ira altrui, dirò
anzitutto come non cadere nell’ira, quindi come liberarci da essa
e infine come trattenere e ammansire l’iracondo o ricondurlo al-
l’equilibrio mentale.
Otterremo di non adirarci se ci porremo continuamente da-
vanti agli occhi tutti i difetti dell’ira, dando di essa la giusta valu-
tazione. Dobbiamo processarla e condannarla in casa nostra;
dobbiamo osservare attentamente i suoi guai e metterli in piaz-
za; perché risulti evidente la sua natura, dobbiamo porla a con-
fronto con i vizi peggiori. L’avarizia cerca e ammassa quei beni
di cui farà uso uno migliore; l’ira spende, e sono pochi coloro a
cui non costa nulla. Quanti schiavi sono indotti a fuggire e a uc-
cidersi da un padrone iracondo! Arrabbiandosi subisce una per-
dita assai più costosa di ciò che è stato causa della sua ira. L’ira
procura lutto al padre e divorzio al marito, odio al magistrato,
insuccesso elettorale al candidato. È peggiore del lusso, poiché
questo gode dei suoi piaceri, quella dell’altrui dolore. Supera la
malignità e l’invidia: queste infatti bramano che uno diventi in-

2
Allusione non tanto a Caligola già morto, quanto a Claudio.
felice, quella brama esser causa dell’infelicità altrui; queste pro-
vano gioia per i mali della sorte, quella non si rassegna ad atten-
dere la sorte, ma vuol recar danno essa alla persona che odia, e
non che le si rechi danno. Nulla è più grave della rivalità: è l’ira
che la procura. Nulla è più funesto della guerra: è l’ira dei poten-
ti che sfocia in essa; del resto persino l’ira privata della povera
gente è una guerra disarmata e senza forza. Inoltre l’ira, per non
parlare delle sue immediate conseguenze, come danni, agguati,
continua apprensione per attacchi reciproci, sconta la pena pro-
prio nel momento in cui la impone; rinnega la natura umana, che
esorta all’amore, mentre l’ira spinge all’odio; quella vuol giova-
re, questa nuocere. Per di più, poiché il suo sdegno proviene da
un’eccessiva stima di sé, per sembrare coraggiosa è meschina e
gretta, poiché tutti sono da meno di colui dal quale si sentono
offesi. Invece l’animo grande e giusto estimator di se stesso non
vendica l’offesa poiché non l’avverte. Come i dardi rimbalzano
su un bersaglio duro e gli oggetti compatti procurano dolore a
chi li percuote, così nessuna offesa riesce sensibile a un animo
grande, in quanto è più fragile di ciò che colpisce. Quanto è più
bello respingere tutti i torti e le offese mostrandosi impenetrabi-
le a ogni dardo! La vendetta è ammissione d’aver provato dolo-
re; non è grande l’animo che si lascia piegare da un’offesa. Chi ti
ha offeso o è più forte o più debole di te: se è più debole devi ri-
sparmiarlo, se è più forte risparmia te stesso.

6. La più attendibile prova di grandezza la fornisci quando non


può accadere nulla che ti tocchi. La parte dell’universo più al-
ta, più armoniosa e vicina alle stelle non si addensa in nubi, non
si scatena in tempesta, né si agita in vortice; è esente da ogni di-
sordine: sono le zone più basse che vengono colpite dai fulmi-
ni. Allo stesso modo l’animo eccelso, sempre sereno e assegna-
to a un posto di guardia tranquillo, calcando sotto i piedi tutte
le cause dell’ira è equilibrato, rispettabile e ordinato; nessuna
di queste qualità troverai nella persona adirata. Infatti chi è in
preda al dolore e alla follia perde innanzi tutto il rispetto. Chi è
sconvolto dalla passione e si avventa contro qualcuno perde
quanto di rispettabile aveva in sé. Chi è agitato non tiene conto
del numero e della graduatoria dei doveri, non frena la lingua,
non controlla nessuna parte del corpo, non può trattenersi una
volta che si è lasciato andare. Ci tornerà utile quella massima
salutare di Democrito, secondo la quale la tranquillità consiste
nel non sobbarcarsi, sia nella vita privata che in quella pubbli-
ca, impegni numerosi e superiori alle nostre forze. Chi si impe-
gna affannosamente in molti affari non ha mai una giornata
tanto fortunata che non gli venga, o da un uomo o da un fatto,
un’offesa che dispone l’animo all’ira. Chi va di fretta in città at-
traverso luoghi affollati deve urtare molte persone ed è inevi-
tabile che qui scivoli, là si trovi in impaccio, più oltre sia inzac-
cherato di mota; così in questa vita affrontata senza ordine e
senza meta, capitano molti ostacoli e molte ragioni di lamento:
chi ha ingannato la nostra aspettativa, chi l’ha differita, chi l’ha
troncata; i nostri programmi non sono andati secondo le nostre
previsioni. Con nessuno la sorte è tanto benevola da arridere
sempre alle sue molte iniziative: ne deriva pertanto che colui al
quale alcuni affari sono andati diversamente da come aveva
previsto si mostri intollerante con gli uomini e con le cose, e
per i più futili motivi si adiri ora con una persona, ora con un
affare, ora con un luogo, ora con la sorte, ora con se stesso. Per-
ciò se vogliamo che l’animo nostro sia tranquillo, non dobbia-
mo sballottarlo né stancarlo, come ho detto, nel far fronte a im-
pegni numerosi, importanti e al di sopra delle nostre forze. È
facile porsi sulle spalle un carico leggero e trasferirlo da una
parte all’altra senza scivolare, mentre reggiamo a fatica i pesi
di cui ci ha gravato la mano altrui, e sopraffatti, li scarichiamo
dopo pochi passi; pur stando ritti sotto il carico, non abbiamo
le forze per sostenerlo e vacilliamo.

7. Sappi che lo stesso capita negli impegni civili e domestici.


Gli affari semplici e agevoli riescono a chi li intraprende, men-
tre quelli gravosi e al di sopra delle nostre capacità non proce-
dono in modo liscio e, una volta intrapresi, sono pesanti, e fuor-
viano chi vi si sobbarca, e quando ormai sembrano in suo con-
trollo, falliscono con lui: per questo spesso è delusa la volontà
di chi non intraprende ciò che è facile, ma vuole che sia facile
ciò che intraprende. Ogni volta che tenterai un’impresa, misura
insieme te stesso, ciò che ti prefiggi e a cui ti accingi; poiché il
doverti pentire per un’opera non conclusa ti renderà intratta-
bile. Questa è la differenza tra chi è di temperamento caldo o
freddo e umile: al forte l’insuccesso provocherà ira, al debole e
inerte afflizione. Quindi le nostre azioni non devono essere né
meschine né temerarie e smisurate, la nostra speranza deve
proporsi mete raggiungibili, e non dobbiamo tentare di conse-
guire traguardi tali che, pur avendoli raggiunti, ci stupiamo to-
sto di esserci riusciti.

8. Poiché non siamo in grado di sopportare un’offesa, facciamo


in modo di non riceverla. Dobbiamo vivere con persone assai
tranquille e affabili e nient’affatto ansiose e scontrose; siamo
portati a prendere il carattere di chi vive con noi, e come certe
malattie del corpo si trasmettono per contagio, così l’animo tra-
smette i suoi difetti a chi gli sta vicino; l’ubriacone induce i com-
mensali ad amare il vino, la compagnia degli spudorati fiacca an-
che l’uomo forte e duro come un macigno, l’avaro trasmette il
suo veleno alle persone più vicine. Lo stesso avviene, nel campo
opposto, per le virtù, che addolciscono quanto sta loro vicino, e
la consuetudine con persone migliori giova ai temperamenti po-
co saldi, non meno che una regione mite e un clima dolce alla sa-
lute. Capirai quanta importanza abbia questo, considerando che
persino le fiere si ammansiscono stando con noi, e nessuna be-
stia feroce conserva il suo istinto violento se ha goduto a lungo
del contatto con l’uomo: ogni selvatichezza si attenua e viene
gradualmente smessa in un ambiente mite. A ciò si aggiunge che
chi vive con uomini tranquilli non solo migliora grazie all’esem-
pio, ma non trova ragioni di adirarsi e non mette in pratica il suo
difetto. Dovrà quindi evitare tutti coloro che conoscerà come fo-
mentatori di ira. Tu mi chiedi chi sono costoro: sono molti che
per cause diverse sortiranno lo stesso effetto: il superbo ti offen-
derà col suo disprezzo, il chiacchierone con la sua maldicenza,
l’arrogante con l’affronto, l’invidioso con la malignità, il polemi-
co con la contesa, il volubile e bugiardo con la menzogna; non
sopporterai di essere temuto dal sospettoso, d’essere vinto dal
testardo, d’essere oggetto di disgusto da parte dello schizzinoso.
Scegli persone schiette, affabili, equilibrate, che non suscitino la
tua ira e la sappiano tuttavia sopportare; ancor di più gioveran-
no i tipi sottomessi, umani e dolci, senza tuttavia arrivare all’a-
dulazione, poiché un’eccessiva condiscendenza offende gli ira-
scibili: il nostro amico era senza dubbio un galantuomo, ma piut-
tosto pronto all’ira, col quale le lusinghe erano pericolose non
meno della maldicenza. Si sa che l’oratore Celio3 era tipo molto
iracondo. A quanto si narra, cenava con lui in camera un cliente
di eccezionale sopportazione, ma ciò non di meno gli era diffici-
le, in coppia con un tipo siffatto, evitare un diverbio; ritenne che
la cosa migliore fosse approvare qualunque cosa dicesse e fargli
da spalla. Ma Celio non sopportò tanta remissività e sbottò: «Ma
contraddicimi un pochino, in modo che siamo in due!». Ma an-
che lui, arrabbiatosi di non potersi arrabbiare, non trovando un
avversario, smise subito. Pertanto, se siamo consapevoli della no-
stra irascibilità, scegliamo anche tipi così, che si adattino a segui-
re il nostro volto e le nostre parole: è pur vero che ci renderanno
schifiltosi e ci procureranno la cattiva abitudine di non udire nul-
la che ci possa contraddire, ma gioverà concedere un po’ di re-
spiro e di tregua al nostro difetto. Anche i tipi intrattabili e ribel-
li per natura sopporteranno l’adulatore; chi liscia per il verso del
pelo non incontra nulla di ruvido e aspro. Ogni volta che la di-
scussione sarà troppo lunga e accanita, fermiamoci alle prime
schermaglie, prima che acquisti vigore: la contesa trae da se stes-
sa alimento e coinvolge chi vi si impegna più a fondo; è più faci-
le rinunciare alla lotta che tirarsene indietro.

9. Gli iracondi devono evitare anche studi troppo seri, o perlo-


meno nel praticarli non devono arrivare alla spossatezza, né sot-
toporre l’animo a dure prove, ma impegnarlo in attività piacevo-
li; lo ammansisca la lettura di poesie e lo distragga la storia con
le sue avventure; lo si tratti con alquanta dolcezza e garbo. Pita-
gora4 era solito rimediare ai disordini interiori con la lira; del re-
sto sappiamo tutti che i corni e le trombe hanno effetto di incita-
mento, come alcune musiche sono carezze che rasserenano lo
spirito. Agli occhi offuscati giova il verde, e ci sono colori che ri-
storano una vista debole, come altri la abbagliano con la loro lu-
centezza: così le applicazioni piacevoli danno pace a un animo
affranto. Dobbiamo evitare il foro, le chiamate a difesa, i proces-

3
Marco Celio Rufo fu partigiano di Cesare e grande oratore; era stato
amante di Clodia (la Lesbia di Catullo), e fu difeso da Cicerone nella Pro
Coelio dall’accusa di aver tentato di avvelenarla.
4
Pitagora fu filosofo e matematico del VI secolo a.C.
si e quant’altro inasprisce il nostro difetto, così come la spossa-
tezza fisica; essa annulla quanto c’è in noi di mite e tranquillo, ed
eccita i sentimenti violenti. Per questo coloro che soffrono di sto-
maco, quando si accingono a trattare affari di maggior impegno,
assumendo del cibo riducono la bile che è provocata soprattutto
dalla stanchezza, sia perché spinge all’interno il calore e nuoce
al sangue arrestandone il flusso nelle vene affaticate, sia perché
un corpo debilitato e stanco è di peso all’animo; senza dubbio
per lo stesso motivo sono più irascibili coloro che sono spossati
da una malattia o dall’età. Per le stesse ragioni bisogna evitare
anche la fame e la sete: esasperano e infiammano l’animo. È det-
to antico che l’uomo stanco cerca lite; come pure chi ha fame e
sete ed è incalzato da qualche fastidio. Come le piaghe fanno
male al minimo tatto e persino al sospetto del tatto, così un ani-
mo contrariato si offende per un nonnulla, tanto che certuni ar-
rivano a litigare per un saluto, una lettera, un discorso e una do-
manda: quando si tocca un malato, si odono sempre dei lamenti.

10. Alle prime avvisaglie del male la cosa migliore è pertanto cu-
rarsi, concedere la minor libertà possibile persino alle proprie pa-
role, e trattenere l’istinto. Ed è facile cogliere le proprie passioni
non appena sorgono; i sintomi dei mali arrivano in anticipo. Co-
me prima d’una tempesta e d’una pioggia ne arrivano gli indizi,
così ci sono dei segnali premonitori dell’ira, dell’amore e di tutte
codeste burrasche che sconvolgono l’animo. Coloro che soffrono
di epilessia si rendono conto che il male è in arrivo quando il ca-
lore abbandona le estremità, la vista è incerta e i nervi sono in-
quieti, la memoria vacilla e la testa gira; così prevengono il male
incipiente con i soliti espedienti, e quale che sia la causa che fa
perdere i sensi, essa viene combattuta annusando o gustando
qualcosa, o si fa fronte al freddo e alla rigidità con panni caldi; o
se la cura ha poco giovato, evitano la folla e stramazzano al suolo
senza testimoni. È utile conoscere la propria malattia e soffocar-
ne la virulenza prima che prenda campo; vediamo dunque che
cosa soprattutto ci turba: chi è scosso da un’offesa verbale, chi da
un’offesa di comportamento; uno vuole che si abbia rispetto del-
la sua nobiltà, un altro alla sua bellezza; chi vuole essere giudica-
to il più raffinato, chi il più dotto; c’è chi non sopporta l’arrogan-
za e chi l’ostinazione; uno non giudica gli schiavi degni della sua
ira, un altro è feroce in casa e dolce in pubblico, colui giudica of-
fesa che gli si chieda qualcosa, costui che non gliela si chieda. Non
tutti hanno lo stesso punto debole, e devi quindi conoscere quale
sia il tuo lato debole, per proteggerlo particolarmente.

11. Non mette conto di vedere e sentire tutto; ci sfuggano molte


offese, poiché per lo più non le avvertiamo se non le conoscia-
mo. Non vuoi essere irascibile? Non essere curioso! Chi vuol sa-
pere per forza che cosa è stato detto contro di lui, chi va a dissot-
terrare chiacchiere maligne dette magari in segreto, non fa che
procurarsi grane da solo. Certe cose ci sembrano offese se inter-
pretate in un determinato modo; perciò alcune questioni dob-
biamo rinviarle, altre prenderle in ischerzo, altre condonarle.
Molti sono i modi per togliere spazio all’ira; la maggior parte
delle occasioni mettiamole sul piano del gioco e dello scherzo.
Raccontano che Socrate, ricevuto uno schiaffo, si limitò a dire
che è un guaio che non si sappia quando si deve uscire con l’el-
mo. Non importa in che modo l’offesa sia fatta, ma in che modo
sia sopportata, e non vedo perché dovrebbe essere difficile con-
trollarsi, sapendo che persino i tiranni, col loro carattere tronfio
e per i favori della fortuna e per essere loro tutto permesso,
soffocarono la crudeltà a loro familiare. Si narra che Pisistrato,5
tiranno di Atene, poiché un commensale avvinazzato aveva ri-
volto molte critiche alla sua crudeltà e c’era chi voleva farsi suo
paladino e lo rinfocolavano chi da una parte chi dall’altra, sop-
portò serenamente e rispose a coloro che lo stuzzicavano alla
vendetta che arrabbiarsi con costui sarebbe stato come prender-
sela con uno che gli fosse venuto addosso con gli occhi bendati.

12. Molta gente si procura da sé di che lamentarsi, o sospettando


il falso o dando troppo peso a cose di poco conto. Spesso è l’ira
che viene da noi, ma più spesso siamo noi che le andiamo incon-
tro. Non dobbiamo mai chiamarla, e anche quando ci viene addos-
so, respingiamola. Nessuno dice a se stesso: «Quest’azione per cui
mi adiro, o l’ho commessa anch’io o avrei potuto commetterla»;

5
Pisistrato conquistò il potere tirannico in Atene nel 561 a.C., nono-
stante la tenace opposizione di Solone, e lo tenne sino alla morte (528), ec-
cettuato un periodo trascorso in esilio dal 556 al 546.
nessuno valuta l’intenzione di chi agisce, ma l’azione in sé: eppure
bisogna osservare se la persona abbia agito di proposito o per ca-
so, costretta o ingannata, avendo di mira l’odio o una ricompensa,
se abbia assecondato il proprio carattere o abbia agito per conto
di altri. Di certe azioni è responsabile l’età di chi sbaglia, di altre la
condizione sociale, per cui la tolleranza e la sopportazione o sono
umane o sono utili. Mettiamoci nei panni di colui con cui ci adiria-
mo: ora invece ci rende irascibili una eccessiva stima di noi stessi e
non vogliamo subire ciò che vorremmo fare. Nessuno prende tem-
po, benché la cura più efficace contro l’ira sia la dilazione, in modo
che si plachi il suo primo bollore, e si dissolva o sia meno fitta la
nebbia che offusca la mente. Basterà non dico un giorno, ma un’o-
ra ad attenuare alcune delle ragioni che ti spingevano a capofitto,
altre svaniranno del tutto; se la chiamata a difesa richiesta non ser-
virà a nulla, sarà chiaro che ormai non si tratta di ira ma di un giu-
dizio. Se vorrai conoscere bene la natura di ogni azione, prendi
tempo: nello stato di agitazione non si osserva nulla con obietti-
vità. Platone,6 adirato con un suo schiavo, non riuscì a prender
tempo, ma gli ordinò di togliersi subito la veste e di offrire le spal-
le alle frustate, deciso a batterlo di propria mano; quando si rese
conto di essere arrabbiato, trattenne in alto la mano che aveva al-
zato e rimase fermo nell’atto di chi sta per colpire; arrivò per caso
un amico e gli chiese che stesse facendo. «Sto punendo» rispose
«un uomo irato.» Come intontito conservava quella positura, di-
sdicevole per un saggio, propria di chi sta per infierire, dimentico
ormai dello schiavo, perché aveva trovato un altro più meritevole
di castigo. Così abdicò al potere che aveva sui suoi, e troppo agita-
to per non so che mancanza, disse: «Tu, o Speusippo, punisci con
la frusta questo schiavetto, perché io sono arrabbiato». Non lo fru-
stò proprio per quella ragione per cui un altro lo avrebbe frustato.
«Sono arrabbiato» disse; «farò più del dovuto, lo farò troppo vo-
lentieri: questo schiavo non sia in potere di chi non è padrone di
se stesso.» Vorrà qualcuno affidare a una persona adirata il com-
pito di punire, visto che Platone rinunciò di proposito alla sua au-
torità? Nulla ti sia consentito mentre sei adirato. Perché? perché
vorresti che tutto ti fosse consentito.

6
Altre fonti sostituiscono a Platone il di lui nipote Speusippo, altre Se-
nocrate.
13. Lotta con te stesso: se vuoi vincere l’ira, essa non può vince-
re te. Cominci a vincere se la tieni nascosta, se non le dài il modo
di rivelarsi. Soffochiamo i suoi sintomi e teniamola il più possibi-
le nascosta e invisibile. Ci costerà molta fatica (poiché brama
balzar fuori e infiammare il nostro sguardo e mutare il nostro
aspetto), ma se le si concede di rivelarsi esteriormente, ha il so-
pravvento. La si tenga nascosta nel più profondo del petto e sia
sotto il nostro controllo, non noi sotto il suo. Anzi dobbiamo da-
re segno contrario a tutti i suoi indizi; lo sguardo si faccia sereno,
la voce più dolce, il passo più lento; a poco a poco anche il nostro
stato d’animo si adegua all’aspetto esteriore. In Socrate la voce
bassa e il controllo delle parole erano indizio d’ira; era evidente
allora che stava lottando con se stesso. Così veniva scoperto e
rimproverato da quelli di casa, e non lo contrariava il rimprove-
ro della sua ira nascosta. Perché non avrebbe dovuto esser lieto
che molti indovinassero la sua ira, senza che nessuno ne provas-
se le conseguenze? E le avrebbero sentite, se non avesse conces-
so agli amici il diritto di rimproverarlo, come egli stesso se lo era
preso nei confronti degli amici. Quanto più dobbiamo fare que-
sto noi! Chiediamo ai nostri più intimi di arrogarsi verso di noi
la massima franchezza proprio quando siamo meno disposti a
sopportarla, e di non dare la loro approvazione alla nostra ira;
chiamiamoli in soccorso, finché abbiamo senno e siamo padroni
del nostro controllo, contro un male potente che gode del nostro
favore. Quelli che reggono male il vino e temono la temerarietà
e l’arroganza della propria ebbrezza, danno ai congiunti l’incari-
co di portarli via da tavola; avendo fatto prova della propria in-
temperanza nel male, proibiscono che si dia loro obbedienza
quando sono in preda a esso. La cosa migliore è predisporre per
tempo uno sbarramento ai vizi conosciuti e anzitutto atteggiare
l’animo per modo che, benché scosso da eventi gravissimi e im-
previsti, o non avverta l’ira, o quando essa scoppia per la gran-
dezza di un’offesa inaspettata, la ritiri nel proprio intimo e non
manifesti il proprio dolore. Sarà chiaro che questo è possibile
dopo che avrò proposto pochi esempi fra i molti che ho a dispo-
sizione, dai quali si possono imparare due cose, quante sciagure
comporti l’ira quando si fa padrona assoluta di uomini strapo-
tenti, e quanto si possa controllare quando è tenuta a freno da
una paura più grande.
14. Il re Cambise amava troppo il vino e Pressaspe, uno dei suoi
intimi, lo esortava a controllarsi nel bere, affermando che l’u-
briachezza è vergognosa per un re che tutti guardano e tutti
ascoltano. A tali osservazioni egli replicò: «Perché tu sappia che
io non perdo mai il mio controllo, ti dimostrerò subito che dopo
aver bevuto ci vedo bene e le mani non mi tremano». Bevve
quindi più del solito in coppe più grandi e ormai appesantito ed
ebbro ordinò al figlio del suo censore di porsi oltre la soglia con
la mano sinistra sopra il capo. Allora tese l’arco e colpì proprio il
cuore del ragazzo (aveva detto di mirare a esso) e aperto il petto
mostrò il dardo conficcato nel cuore, e rivolto al padre gli chiese
se aveva la mano abbastanza ferma. E quello gli rispose che nep-
pure Apollo avrebbe potuto mirare con maggior precisione.7
Che gli dèi diano il malanno a costui, più schiavo di carattere che
di condizione! Lodò quel gesto di cui era già troppo essere stato
spettatore. Ritenne che il petto del figlio tagliato in due parti e il
cuore ancora palpitante sotto la ferita offrissero una buona oc-
casione alle sue piaggerie: avrebbe dovuto invece contestargli
quella millanteria e invitarlo a ripetere il colpo, affinché al re ve-
nisse l’uzzolo di mostrare polso più fermo nel padre stesso. Che
re sanguinario! Si sarebbe meritato che tutti i suoi uomini driz-
zassero l’arco contro di lui. Dopo aver maledetto quel re che
scioglieva i suoi banchetti straziando e uccidendo, dobbiamo tut-
tavia dire che fu azione più scellerata lodare quel colpo che ti-
rarlo. Vedremo in altra sede come avrebbe dovuto comportarsi il
padre ritto sul cadavere del figlio e su quell’assassinio di cui era
stato spettatore e causa: ora stiamo parlando dell’ira ed è evi-
dente che la si può soffocare. Non imprecò contro il re, non si la-
sciò neppure sfuggire una parola sulla sua infelicità, benché ve-
desse il suo cuore trafitto come quello del figlio. Si può dire ben
a proposito che ingoiò le parole, poiché se avesse detto qualcosa
da irato, non avrebbe potuto far nulla da padre. D’accordo, può
sembrare che in quella sventura si sia comportato con più sag-
gezza di quanto aveva fatto nel dar consigli sulla moderazione
nel bere a colui che sarebbe stato meglio bevesse vino anziché

7
Cambise, figlio di Ciro, alla cui morte (529 a.C.) salì al trono di Persia,
estese a occidente l’impero degli Achemenidi con la conquista dell’Egitto
(525).
sangue, le cui mani erano pacifiche finché erano impegnate coi
bicchieri. Si aggiunse così al numero di coloro che hanno dimo-
strato con gravi perdite quanto costino agli amici dei re i buoni
consigli.

15. Sono certo che anche Arpago consigliò qualcosa di simile al


re suo e dei Persiani, che, da lui offeso, gli imbandì le carni dei fi-
gli e gli chiese quindi se il piatto gli piacesse; poi quando lo vide
sazio della sua sventura, fece portare le loro teste e gli chiese se
gli fosse piaciuto il trattamento. Non mancarono all’infelice le
parole, la lingua non si impacciò e disse: «In casa d’un re ogni ce-
na è piacevole». Che ottenne con questa adulazione? di non es-
sere invitato a mangiare i resti. Non proibisco a un padre di con-
dannare l’azione del suo re, non gli proibisco di cercare una pe-
na adeguata a sì truculenta mostruosità, ma intanto concludo
che anche l’ira che nasce da atroci misfatti può essere nascosta e
ci si possono imporre parole a essa opposte. Codesto controllo
del dolore è necessario, soprattutto a chi ha avuto in sorte que-
sto tipo di vita e viene invitato alla mensa regale: così si mangia
in casa dei re, così si beve, così si risponde; si deve ridere di fron-
te alla morte dei propri cari. Vedremo in altra sede se la vita val-
ga tanto, ma questo è un altro problema. Non recheremo confor-
to a una prigione tanto dolorosa, non esorteremo a sopportare
gli ordini dei carnefici, ma dimostreremo che in ogni schiavitù la
porta che conduce alla libertà è aperta. È afflitto e infelice per
sua colpa colui che può troncare le proprie sofferenze togliendo-
si la vita. A colui che è incappato in un re che trafigge coi dardi il
petto degli amici, a colui il cui signore nutre i padri con la carne
dei figli, io dirò: «A che ti lamenti, o sciocco? Aspetti forse che ti
vendichi un qualche nemico estinguendo il tuo popolo o che ar-
rivi da lontano un sovrano potente? Dovunque tu volga lo sguar-
do, lì è la fine dei tuoi mali. Lo vedi quel burrone? È la strada
che porta alla libertà. Vedi quel mare, quel fiume, quel pozzo?
Là, nel profondo dimora la libertà. Lo vedi quell’albero esile,
inaridito e sterile? A esso è appesa la libertà. Lo vedi il tuo collo,
la tua gola, il tuo cuore? Sono vie di fuga dalla schiavitù. Ti indi-
co trapassi troppo complicati e che richiedono molto coraggio e
fermezza? Vuoi sapere quale strada porta alla libertà? Una qual-
siasi vena del tuo corpo».
16. Ma finché nulla ci sembra tanto insopportabile da indurci
a rinunciare alla vita, in qualunque situazione ci troviamo, te-
niamo lontano da noi l’ira. Essa è rovinosa per gli schiavi, poi-
ché ogni loro sdegno giova solo a procurar tormento e gli ordi-
ni sembrano tanto più gravosi quanto meno sapientemente si
sopportano. Così la belva stringe i lacci mentre tenta di liberar-
sene, e gli uccelli nel tentativo di liberarsi dal vischio, se ne im-
pregnano tutte le piume. Il giogo, per gravoso che sia, reca mi-
nor fastidio a chi lo sopporta che a chi lo rifiuta: c’è un solo sol-
lievo contro i grandi mali, la sopportazione e la rassegnazione
al proprio destino. Ma se il controllo delle proprie passioni, e
soprattutto di questa tanto rabbiosa e sfrenata, è utile agli
schiavi, esso è ancor più utile ai re: tutto è perduto quando la
fortuna rende possibile ciò che l’ira consiglia, e non può reg-
gersi a lungo un potere esercitato a danno di molti; corre dei ri-
schi quando la paura comune unisce coloro che piangevano
ciascuno per suo conto. E così molti sono stati uccisi da singole
persone e molti da gruppi compatti, indotti dal dolore generale
a unire insieme le loro ire. E con tutto ciò molti hanno pratica-
to l’ira quasi fosse un’insegna regale, come quel Dario8 che per
primo, dopo avere spodestato il mago, resse i Persiani e gran
parte dell’oriente. Dichiarata che ebbe la guerra agli Sciti con-
finanti con l’oriente, il vecchio nobile Eobazo gli chiese che dei
suoi tre figlioli uno lo lasciasse a conforto del padre e arruolas-
se gli altri due. Promise più di quanto gli era stato chiesto, gli
garantì che glieli avrebbe lasciati tutti, li fece uccidere e gettò i
cadaveri al cospetto del padre, giudicando una crudeltà con-
durli tutti in guerra. Invece Serse9 fu molto più condiscenden-
te! Pizio, che aveva cinque figli, chiese per uno di essi l’esenzio-
ne dal servizio militare; il re gli concesse di scegliere quello che
voleva, e scelto che l’ebbe, lo fece tagliare in due e porre i resti

8
Dario I, re dei Persiani (540-485 a.C.), represse la rivolta ionica ca-
peggiata da Mileto e promosse la prima invasione persiana della Grecia,
fallita con la sconfitta di Maratona (490).
9
Serse, figlio di Dario (485-465), dopo aver domato alcune rivolte in
province periferiche dell’Impero, fra cui l’Egitto, riprese la politica espan-
sionistica del padre verso occidente, invadendo con una poderosa spedi-
zione di terra e di mare la Grecia. L’impresa fallì a seguito delle sconfitte
dell’Artemisio, di Salamina, Platea e Micale.
sui due lati della strada, e con questa vittima purificò l’esercito.
Ebbe pertanto il risultato che si era meritato: sconfitto, sbara-
gliato d’ogni parte, con sotto gli occhi lo spettacolo del massa-
cro, marciò in mezzo ai cadaveri dei suoi.

17. Tale ferocia ebbero nell’ira i re barbari, non ingentiliti da al-


cuna cultura e da alcuno studio: ma eccoti, uscito dalla scuola di
Aristotele, il re Alessandro, che trafisse nel bel mezzo del ban-
chetto Clito, amico intimo e cresciuto insieme con lui, di sua pro-
pria mano, perché non lo adulava abbastanza e non lasciava con
entusiasmo la condizione di Macedone e di libero per la schia-
vitù persiana. Quanto a Lisimaco, che gli era ugualmente caro, lo
diede in pasto a un leone. Orbene, questo Lisimaco che per una
singolare fortuna scampò ai denti del leone, diventato re fu forse
più mite? Fece mutilare da ogni parte l’amico suo Telesforo di
Rodi, gli fece tagliare orecchie e naso e lo nutrì a lungo in una
gabbia, come animale nuovo e mai visto; la bruttezza di quel viso
sconciato dai tagli e dalle mutilazioni aveva perduto le sembian-
ze umane; s’aggiungeva la fame, lo squallore e il sudiciume d’un
corpo lasciato fra i suoi escrementi; oltre a ciò, con le ginocchia e
le mani callose, usate com’erano come piedi per la ristrettezza di
spazio, con i fianchi piagati contro le pareti della gabbia, a chi lo
guardava il suo aspetto era non meno sconcio che spaventoso, e
trasformato da quella pena in figura mostruosa non suscitava più
neppure pietà. Tuttavia, sebbene fosse diversissimo da un uomo
chi subiva questo trattamento, più diverso ancora era colui che
glielo infliggeva.

18. Magari questa crudeltà fosse rimasta fra gli esempi stranie-
ri, e i costumi romani non avessero assimilato, con altri vizi ve-
nuti di fuori, anche questa barbara usanza di sfogare l’ira inflig-
gendo supplizi! A quel M. Mario,10 cui il popolo aveva eretto
statue in ogni quartiere, cui rivolgeva preghiere con offerta di
incenso e vino, L. Silla fece spezzare le gambe, cavare gli occhi,
tagliare la lingua e le mani e, come se lo uccidesse ogni volta che
lo colpiva, a poco a poco lo fece lacerare membro a membro.

10
Si tratta di Marco Mario Gratidiano, figlio adottivo del fratello di
Gaio Mario.
Chi era l’esecutore di quest’ordine? E chi mai, se non Catilina11
che già allenava le mani a ogni delitto? Ne faceva scempio da-
vanti alla tomba di Q. Catulo,12 recando offesa alle ceneri di
quell’uomo assai mite, presso le quali quel poco di buono, che
aveva tuttavia goduto del favore del popolo ed era stato amato
in maniera più eccessiva che immeritata, versava goccia a goc-
cia il suo sangue. Un tale supplizio si addiceva a Mario,13 un tale
ordine a Silla, una tale esecuzione a Catilina, ma lo Stato non
meritava che si affondassero nel suo corpo a un tempo le spade
dei nemici e quelle dei vendicatori. Ma perché vado a scovare
episodi antichi? Recentemente G. Cesare in un sol giorno fece
fustigare e torturare, non per un’inchiesta, ma per suo svago, Se-
sto Papirio, il cui padre era stato console, Betilieno Basso suo
questore, figlio di un suo procuratore, e altri senatori e cavalieri
romani; quindi gli fu così impossibile rinviare un piacere che la
sua crudeltà pretendeva intenso e senza rinvio, che passeggian-
do nel viale dei giardini materni,14 che divide il portico dalla ri-
va, fece decapitare al lume d’una torcia alcuni di loro con ma-
trone e altri senatori. Che fretta c’era? Quale pericolo pubblico
o privato una sola notte avrebbe comportato? Infine ci voleva
tanto ad attendere il giorno, per non uccidere dei senatori ro-
mani stando in ciabatte da notte?

19. Mette conto di sapere quanto fosse arrogante la sua cru-


deltà, benché a qualcuno possa sembrare che io mi svii ed esca
dal tema; ma anche questo sarà un esempio d’ira che infierisce
oltre il solito. Aveva fatto fustigare dei senatori; fece in modo
che si potesse dire: «È roba che capita!». Aveva torturato con
tutti gli strumenti più atroci di questo mondo, corde, stivaletti,
cavalletto, fuoco e in più col suo sguardo. A questo punto si

11
Catilina, patrizio romano, già fautore di Silla, organizzò nel 63 a.C.
una congiura. Smascherato da Cicerone, scelse la via della rivolta armata e
morì combattendo contro le truppe consolari presso Pistoia.
12
Quinto Lutazio Catulo (150-87 a.C.) fu collega di Gaio Mario nel
consolato e con lui condusse la campagna vittoriosa contro i Cimbri.
13
Seneca condivide il giudizio negativo che l’oligarchia romana for-
mulò nei confronti degli avversari politici, non esclusi i Gracchi.
14
Madre di Caligola fu Agrippina Maior, figlia di Agrippa e Giulia, spo-
sa di Germanico.
obietterà: «Che sarà mai! se tre senatori, come schiavi malvagi,
furono squartati tra fiamme e frustate, da un uomo che aveva in
mente di massacrare l’intero senato, e desiderava che il popolo
romano avesse un solo collo, per condensare in un solo giorno e
in un solo colpo tanti suoi delitti separati nello spazio e nel tem-
po». S’è mai vista un’esecuzione consumata di notte? Gli atti di
brigantaggio sogliono nascondersi nelle tenebre, mentre le puni-
zioni hanno tanto maggiore efficacia d’esempio e di correzione
quanto più sono note. E a questo punto mi si dirà: «Ciò di cui
tanto ti stupisci, per questa belva è un’abitudine d’ogni giorno:
per questo vive, veglia, escogita». Senza dubbio non si troverà
nessun altro che abbia fatto chiudere con una spugna la bocca a
tutti coloro che condannava, perché non avessero la possibilità
di pronunciar parola. A chi mai in punto di morte non fu data la
possibilità di lamentarsi? Temeva che l’estremo dolore facesse
pronunciar loro qualche frase troppo franca, temeva di aver ad
ascoltare ciò che non avrebbe voluto; e sapeva che erano innu-
merevoli i rimproveri che gli potevano muovere solo in punto di
morte. Poiché non c’erano spugne a disposizione, ordinò di lace-
rare le vesti di quegli infelici e di ficcar loro in bocca i cenci. Che
crudeltà è codesta? Sia consentito di tirar l’ultimo respiro, con-
cedi all’anima una via d’uscita, sia consentito esalarla non attra-
verso la piaga della ferita. Sarebbe lungo aggiungere a ciò che
nella medesima notte fece massacrare anche i padri degli uccisi,
sguinzagliando nelle loro case i centurioni, vale a dire, da quel-
l’uomo pietoso che era, li liberò dal lutto; giacché è mio proposi-
to non descrivere la crudeltà di Gaio, ma l’ira, che non infierisce
solo su singoli individui, ma strazia interi popoli, e colpisce città
e fiumi e quanto è privo d’ogni sensazione di dolore.

20. Così il re dei Persiani fece tagliare in Siria il naso a un’inte-


ra popolazione, ragione per cui quel paese si chiama Rinocolu-
ra. Pensi forse che sia stato pietoso a non mozzare l’intera te-
sta? No, si divertì con un nuovo tipo di pena. Qualcosa di simile
avrebbero subìto anche gli Etiopi, che per la loro longevità so-
no chiamati Macrobii; Cambise era per l’appunto indignato con
costoro, perché non avevano accettato a mani supine il servag-
gio, e agli ambasciatori del re avevano dato quelle franche ri-
sposte che i re chiamano offensive; senza far provvista di vetto-
vaglie né ricognizione delle strade, egli trascinava tutti gli uomi-
ni atti alla guerra per luoghi impraticabili e sabbia bruciata. Già
alla prima tappa venne a mancare il necessario, e quella landa
sterile, incolta e priva d’ogni umano insediamento nulla offriva;
dapprima fecero fronte alla fame con le fronde più tenere colte
sulla cima degli alberi, poi con cuoio reso più morbido al fuoco
e quant’altro il bisogno trasformava in cibo; e quando fra la sab-
bia vennero meno anche le radici e le erbe, e si presentò agli oc-
chi un deserto privo persino di animali, tratto a sorte un soldato
ogni dieci, ebbero un alimento più tremendo della fame. L’ira
spingeva ancora alla rovina il re, benché avesse perso una parte
dell’esercito e una parte l’avesse mangiata, finché ebbe paura
d’essere chiamato anche lui al sorteggio: solo allora fece suona-
re la ritirata. Frattanto nutriva uccelli pregiati e i cammelli tra-
sportavano l’apparato dei suoi banchetti, mentre i suoi soldati
traevano a sorte chi doveva fare una brutta fine e chi una vita
ancor più brutta.

21. Costui se la prese con una popolazione sconosciuta e inno-


cente, in grado tuttavia di capire: Ciro se la prese con un fiume.
Con l’intenzione di espugnare Babilonia, si affrettava alla guer-
ra, nella quale le soluzioni decisive sono offerte dalle occasioni.
Cercò di passare a guado il fiume Ginde che era abbondante-
mente straripato, impresa rischiosa anche quando per effetto
dell’estate raggiunge il suo livello più basso. Qui uno dei cavalli
bianchi che solevano trainare il cocchio regale fu travolto dalle
acque e la cosa contrariò fortemente il re; giurò dunque che
avrebbe ridotto quel fiume che travolgeva il suo seguito a di-
mensioni così modeste da essere guadato e calpestato anche
dalle donnicciole. Trasferì qui tutta la macchina di guerra e atte-
se al lavoro fino a che, scavati centottanta canali, disperse l’ac-
qua in trecentosessanta ruscelli e prosciugò il fiume, che si di-
sperse in opposte direzioni. Si sciupò così il tempo, perdita gra-
ve nelle grandi imprese, e l’entusiasmo dei soldati, fiaccato da
un’inutile fatica, e l’occasione di cogliere il nemico di sorpresa,
mentre lui conduceva col fiume quella guerra che aveva dichia-
rato al nemico. Questa follia (come altrimenti chiamarla?) colse
anche i Romani. G. Cesare fece demolire in quel di Ercolano
una bellissima villa, per il fatto che una volta vi era stata impri-
gionata sua madre15 e con ciò rese famosa la vicenda; prima na-
vigavamo vicino alla villa solida sulle sue fondamenta, ora chie-
diamo perché è stata distrutta.

22. Bisogna meditare sia su questi esempi che devono essere evi-
tati, sia sui seguenti, che devono essere imitati, esempi di equilibrio
e di pacatezza, di persone cui non mancò il motivo di arrabbiarsi
né la possibilità di vendicarsi. Per Antigono16 sarebbe stato molto
facile mandare a morte due soldati semplici, i quali, appoggiati alla
tenda del re, esprimevano giudizi pesanti sul loro sovrano, cosa che
gli uomini fanno con sommo rischio e piacere.Antigono aveva udi-
to tutto, poiché fra chi parlava e chi ascoltava non c’era che il telo
da tenda; egli lo scosse leggermente e disse: «Andate un po’ più in
là, che il vostro re non vi senta». Il medesimo una notte, uditi alcu-
ni suoi soldati che auguravano ogni male al re, perché li aveva gui-
dati in quella marcia in un pantano da cui era difficile togliere i pie-
di, si accostò a quelli che erano in maggior difficoltà e li trasse in
salvo senza che sapessero da chi erano aiutati, e soggiunse: «Ora
dite pur male di Antigono, per colpa del quale siete caduti in questi
disagi; ma augurategli anche del bene, poiché vi ha tratto fuori da
questo burrone». Egli sopportò con la stessa mitezza d’animo le
critiche dei suoi nemici e dei suoi concittadini. E così, poiché dei
Greci assediati in una piccola fortezza, nutrendo fiducia nella natu-
ra del luogo si facevano beffa dei nemici e lanciavano molti frizzi
sulla bruttezza di Antigono, canzonandone ora la bassa statura ora
il naso schiacciato, egli disse: «Sono contento e ho di che sperare
bene, avendo un Sileno17 nel mio accampamento». Vinti per fame
questi spiritosi, li fece prigionieri regolandosi in questo modo: asse-
gnò ai reparti quelli che erano idonei alle armi, e vendette all’asta
gli altri, e assicurò che non l’avrebbe fatto se non fosse tornato uti-
le avere un padrone a chi aveva una lingua così maldicente.

15
Sulla detenzione di Agrippina, madre di Caligola, in una villa in quel
di Ercolano, non abbiamo altre notizie. La donna fu comunque relegata da
Tiberio a Pandataria ed è ben probabile che nella sua traduzione da Roma
all’isola abbia sostato sotto custodia nella villa suddetta.
16
Si tratta di Antigono Gonata, re di Macedonia, figlio di Demetrio Polior-
cete e amico di pensatori stoici; ospitò alla sua corte, con altri poeti, Arato.
17
Sileno fa parte, in groppa all’asino, del seguito di Dioniso, ed è ma-
schera della commedia.
23. Nipote di costui era Alessandro,18 che scagliava la lancia
contro i suoi commensali e, fra i due amici poc’anzi ricordati, uno
lo espose a una belva, l’altro a se stesso. E fra questi due soprav-
visse quello che affrontò il leone. Questo difetto non gli veniva
dagli avi, e neppure dal padre, poiché fra le altre buone qualità
di Filippo ci fu anche la sopportazione delle offese,19 efficace
espediente per conservare un regno. Era giunto da lui, con altri
ambasciatori ateniesi, Democare detto il Parresiaste per l’ecces-
siva insolenza nel suo linguaggio. Ascoltata gentilmente l’amba-
sceria, Filippo disse: «Ditemi che cosa posso fare che riesca gra-
dito agli Ateniesi». Prese la parola Democare e rispose: «Impic-
carti». A una risposta così sgarbata scoppiò lo sdegno dei pre-
senti, ma Filippo li invitò al silenzio e congedò quel Tersite20 sen-
za torcergli un capello. «Ma voi altri ambasciatori» soggiunse
«riferite agli Ateniesi che è molto più arrogante chi si esprime in
codesta maniera, di chi lo ascolta senza punirlo.»
Anche il divo Augusto21 fece molti gesti e disse molte parole
degne di memoria da cui è evidente che non fu schiavo dell’ira.
Lo storico Timagene22 aveva fatto alcune maldicenze contro di
lui, la sua sposa e l’intera famiglia, e non le aveva fatte invano,
poiché una spiritosaggine avventata ha il privilegio di andare in

18
Alessandro non era nipote di Antigono, ma figlio di Filippo, figlio di
Aminta. L’esigenza di dimostrare che da antenati mansueti possono na-
scere uomini crudeli, induce forse Seneca all’errore.
19
Della mitezza di Filippo parlano Plutarco e Valerio Massimo; ritratto
negativo del personaggio ci fornisce invece Demostene.
20
Tersite è l’arrogante e maldicente personaggio omerico che tenta di
sobillare le truppe contro il re e viene percosso e zittito da Ulisse.
21
Augusto (63 a.C.-14 d.C.) figlio adottivo di Cesare, entrò giovanissi-
mo nella lotta politica e nelle guerre civili. Triumviro rei publicae consti-
tuendae con Antonio e Lepido, eliminò a Filippi (42 a.C.) le truppe dei ce-
saricidi e a Naucrati (36 a.C.) quelle di Sesto Pompeo, finché sbarazzatosi
di Antonio ad Azio (31 a.C.) divenne padrone di Roma e detenne il potere
per oltre un trentennio, in cui promosse le opere di pace e la poesia.
22
Timagene di Alessandria, portato a Roma da Pompeo nel 55 a.C.,
scrisse un’opera storica sui re, di carattere fieramente antiromano. La sua
amicizia con Augusto ebbe inizio forse prima di Azio, quando il futuro im-
peratore lo volle accanto a sé come esperto di cose orientali. La rottura fra
i due fu dovuta forse a divergenze di carattere, fra il principe austero e
contegnoso e l’amico avventuriero e scanzonato. La sposa di Augusto, vit-
tima delle frecciate di Timagene, è Livia madre di Tiberio.
giro sulla bocca delle gente. Cesare lo avvertì più d’una volta di
essere controllato nel parlare, ma poiché l’altro non la smetteva,
lo escluse dalla sua casa. In seguito Timagene godé fino alla vec-
chiaia dell’amicizia di Asinio Pollione,23 e fu conteso da tutta
Roma; il fatto che gli fosse interdetta la casa di Cesare non gli
chiuse nessuna porta. Diede pubblica lettura dell’opera storica
composta in seguito, e gettò sul fuoco i libri che narravano le im-
prese di Augusto;24 si permise d’essere nemico dell’imperatore e
nessuno ebbe paura di averlo amico, nessuno lo evitò come uo-
mo colpito dal fulmine, ci fu anzi chi gli spalancò le braccia, ben-
ché fosse caduto in disgrazia in così alto luogo. L’imperatore, co-
me ho detto, sopportò ciò con pazienza, e non perse la calma
neppure per il fatto che aveva attentato alla sua gloria e alle sue
imprese; non ebbe mai a lamentarsi con l’ospite del suo detrat-
tore. Si limitò a dire ad Asinio Pollione: «Tu nutri una belva»; e
lo interruppe, mentre abbozzava una scusa, dicendogli: «Godite-
lo pure, caro Pollione, goditelo!», e poiché Pollione disse: «Se me
lo imponi, o Cesare, gli chiuderò subito la porta in faccia», sog-
giunse: «Pensi davvero che farei questo proprio io che vi ho fat-
to far pace?». Infatti in passato Pollione era stato in rotta con Ti-
magene e aveva risolto i dissapori per il solo motivo che Cesare
aveva iniziato a essergli ostile.

24. Pertanto ognuno, quando è provocato, dica a se stesso: «So-


no forse io più potente di Filippo? E tuttavia si osò parlarne ma-
le impunemente. Sono in casa mia più potente di quanto lo fu il
divo Augusto nel mondo intero? Egli tuttavia si limitò a non aver
rapporti col suo detrattore». Perché dovrei io punire con la fru-
sta e con i ceppi il mio servo, per una risposta troppo ad alta vo-
ce, per uno sguardo un tantino sfacciato e per un mugugno che
non giunge sino a me?25 Chi sono io da considerare un delitto
offendere le mie orecchie? Molti perdonarono ai nemici: non

23
Asinio Pollione (76 a.C.-4 d.C.), partigiano di Cesare prima e di An-
tonio poi, mantenne con Augusto una posizione di franca indipendenza.
24
Evidentemente l’opera storica di cui Timagene diede pubblica lettu-
ra era improntata a sentimenti antiromani, mentre quella sul conto di Au-
gusto, che fu arsa, riusciva a elogio del principe. Nei due gesti si coglie lo
spirito di rivalsa nei confronti di chi lo aveva messo alla porta.
25
Nel senso che sono altri a riferirmelo.
dovrei io perdonare ai pigri, agli sbadati, ai chiacchieroni? Un
ragazzo deve essere scusato per la sua età, una donna per il suo
sesso, un estraneo per la sua libertà di parola, uno di casa per la
sua confidenza. Mi ha offeso ora per la prima volta; riflettiamo
per quanto tempo è stato gentile; mi ha offeso spesso anche altre
volte; sopportiamo ancora ciò che abbiamo a lungo sopportato.
È un amico: ha fatto ciò che non avrebbe dovuto. È un nemico:
ha fatto quello che doveva. Fidiamoci di chi è assennato, perdo-
niamo lo sciocco; in difesa di ciascuno diciamo a noi stessi che
anche gli uomini più saggi commettono molti errori, nessuno è
tanto scrupoloso da non perdere qualche volta i suoi scrupoli,
nessuno è tanto serio che la sua austerità non sia spinta dal caso
a un qualche gesto troppo focoso, nessuno è tanto alieno dall’of-
fesa da non caderci proprio mentre tenta di evitarla.

25. Come un pover’uomo trova conforto nelle sue sventure con-


statando che anche la fortuna dei grandi vacilla, e in un cantuccio
piange con più rassegnazione la morte del figlio chi ha visto che i
funerali prematuri escono anche dalla reggia, così sopporta più
serenamente d’essere offeso e disprezzato da qualcuno colui cui
viene in mente che non c’è potenza tanto grande che non sia espo-
sta all’offesa. Se sbagliano anche i più accorti, chi non ha una vali-
da giustificazione per il suo errore? Consideriamo quante volte da
giovani siamo stati poco diligenti nel compiere il dovere, poco
controllati nella conversazione, poco temperanti nel vino. Se uno
è adirato, diamogli il tempo di considerare che cosa ha fatto: si pu-
nirà da sé. Ci dia infine soddisfazione; non c’è motivo di saldare il
conto alla pari. È fuor di dubbio che chi guarda dall’alto i provo-
catori si differenzia e si pone al di sopra della massa: è tipico della
vera grandezza non avvertire il colpo. Così la fiera smisurata si
volta con calma al latrato dei cani, così le onde si infrangono inva-
no su un alto scoglio. Chi non si adira, resta indenne dall’offesa,
chi si adira ne è stato scosso. Ma colui che ho messo or ora al di
sopra di ogni danno, stringe per così dire tra le braccia il sommo
bene, e risponderà non solo all’uomo ma alla fortuna stessa: «Puoi
farmi di tutto, ma sei troppo piccola per poter turbare la mia sere-
nità. Lo impedisce la ragione, cui ho assegnato il governo della
mia vita. Mi farà più male l’ira dell’offesa, perché questa ha una
misura determinata, mentre non so dove mi porterà quella».
26. Mi dirai: «Io non ce la faccio a sopportare; subire un’offesa è
cosa pesante». Tu menti; chi può sopportare l’ira, può sopportare
l’offesa. Aggiungi che ora ti comporti in modo da sopportare sia
l’una che l’altra. Perché sopporti la rabbia d’un malato, le male
parole di un dissennato, le mani screanzate dei ragazzi? Eviden-
temente perché ti sembra che non sappiano quello che fanno. E
che importanza ha stabilire per quale difetto uno è inconsapevo-
le? L’inconsapevolezza è una scusante che vale per tutti. Mi di-
rai: «Ma come! Se la passerà liscia colui?». Quand’anche tu lo
voglia, non sarà tuttavia così, poiché il castigo più grande di
un’offesa fatta, è l’averla fatta, e più di tutti soffre colui che è
consegnato alla pena del pentimento. Inoltre, per essere giudici
imparziali di tutto ciò che succede, dobbiamo volgerci a conside-
rare la condizione di noi uomini, ed è ingiusto chi rinfaccia ai sin-
goli una colpa che è di tutti. Il colore di un Etiope non è strano
nel suo paese, e fra i Germani i capelli rossi raccolti in un nodo
ben si addicono a un uomo: non potrai giudicare biasimevole o
sconcio in una sola persona ciò che è tipico di tutto un popolo. E
gli esempi da me riferiti sono giustificati dalle usanze d’una sola
regione e d’un solo lembo di terra; considera ora quanto sia più
giusto essere indulgenti con quei difetti che sono diffusi nell’in-
tero genere umano. Siamo tutti sconsiderati e incauti, insicuri,
brontoloni, ambiziosi (ma perché cerco di nascondere con paro-
le troppo blande la piaga di tutti?), siamo tutti malvagi. Pertanto
qualunque vizio venga rimproverato a un altro, ciascuno se lo ri-
troverà in seno. Perché ti impressiona il pallore di Tizio e la ma-
linconia di Caio? È un’epidemia che tocca a tutti. Siamo dunque
più benevoli l’un l’altro: siamo cattivi e viviamo fra cattivi. Una
sola cosa ci può rendere tranquilli, un patto di reciproca benevo-
lenza. «Colui mi ha già fatto del male, mentre io non gliene ho
ancora fatto.» Ma forse hai già offeso qualcuno, forse lo offende-
rai. Non considerare quest’ora o questo giorno, esamina global-
mente l’atteggiamento del tuo animo: anche se non hai fatto nul-
la di male, lo puoi fare.

27. Quanto è meglio sanare un’offesa che vendicarsene! La ven-


detta richiede molto tempo, chi si addolora per un’offesa si espo-
ne a molte offese; per tutti noi è più lungo il tempo in cui siamo
adirati che quello in cui siamo offesi. Quanto è meglio prendere
la strada opposta e non contrapporre colpa a colpa! Potrebbe
forse pensare d’essere sano di mente uno che risponde coi calci
ai calci d’una mula e coi morsi ai morsi d’un cane? «Ma codesti
animali» tu dici «non si rendono conto di sbagliare.» In primo
luogo è molto ingiusto colui che vede nella condizione di uomo
un ostacolo a ottenere il perdono. In secondo luogo, se dispensa
gli altri animali dalla tua ira il fatto che sono privi di intelletto,
devi valutare allo stesso modo chiunque sia privo di intelletto;
che importa infatti che in tutto il resto sia diverso dagli animali
muti, se ha in comune con loro l’offuscamento della ragione? Es-
so appunto in ogni peccato costituisce la scusante per i muti. Ha
sbagliato: è forse la prima volta? Sarà forse l’ultima? Non devi
credere a chi dirà: «Non lo farò più»: anche costui sbaglierà, e un
altro sbaglierà nei suoi confronti, e la vita intera si svolgerà tra
gli errori. Con chi è selvaggio ci vogliono modi garbati. Ciò che
si suol dire con molta efficacia in occasione d’un lutto, si dirà an-
che di fronte all’ira: smetterai una buona volta o non smetterai
mai? Se sì, quanto è meglio lasciare l’ira che essere lasciati da es-
sa! O durerà per sempre questa tua agitazione? Ti rendi conto di
che vita contrastata ti prepari? Quale sarà infatti la vita di chi è
sempre agitato? Aggiungi ora che, quando ti sarai ben rinfocola-
to e avrai continuamente rinverdito i motivi che ti agitano, l’ira
se ne andrà da sé e il passar del tempo le toglierà vigore: quanto
è meglio che essa sia vinta da te che da se stessa!

28. Te la prendi con uno e poi con un altro; con gli schiavi e poi
con i liberti; con i genitori e poi con i figli; con i conoscenti e poi
con gli sconosciuti, poiché dappertutto ci sono in abbondanza
dei motivi, se non interviene l’animo a far da intercessore. La
follia ti trascinerà di qua e di là, e sorgendo continuamente nuo-
vi stimoli, la tua rabbia non avrà tregua: suvvia, disgraziato,
quando mai amerai? Quanto buon tempo perdi in una cattiva
azione! Quanto sarebbe stato meglio procurarsi amici, sedare
inimicizie, attendere alla vita pubblica, dedicar cura al patrimo-
nio, piuttosto che guardare intorno per vedere che male tu possa
fare a qualcuno, quale ferita infliggere al suo prestigio, o al suo
patrimonio, o al suo corpo, tanto più che non ci puoi riuscire sen-
za lotta e rischio, anche se entri in lizza con un inferiore!
Quand’anche tu lo trovi legato e disposto a tutto subire secondo
il tuo arbitrio, spesso l’eccesso di vigore sloga un’articolazione di
chi colpisce o trafigge un nervo tra quei denti che ha rotto; l’ira
ha storpiato e indebolito molti uomini, anche quando ha trovato
disponibilità a subire. Aggiungi che nessun essere è tanto debole
da soccombere senza rischio di chi lo sopprime; talvolta il dolo-
re, talaltra il caso uguaglia i deboli ai più forti. Che dire poi del
fatto che la maggior parte delle cose che ci fanno adirare, ci of-
fendono più che danneggiarci? C’è una bella differenza se uno si
oppone alla mia volontà o delude le mie attese, se mi strappa
qualcosa con la forza o non me la dà. Eppure, che uno ci tolga
qualcosa o ce la neghi, che tronchi la nostra speranza o la rinvii,
che agisca contro di noi o a suo vantaggio, per affetto verso un
altro o per odio verso di noi, tutto questo noi lo mettiamo sullo
stesso piano. Certuni poi, per schierarsi contro di noi, hanno mo-
tivi non solo giusti, ma anche dignitosi: chi protegge il padre, chi
il fratello, chi la patria, chi l’amico; e tuttavia non li perdoniamo
quando fanno ciò, e se non lo facessero li biasimeremmo, anzi,
cosa incredibile, spesso diamo un giudizio positivo sull’azione e
negativo su chi la compie. Eppure, per Ercole, l’uomo grande e
giusto guarda con rispetto i più forti fra i nemici e i più decisi a
combattere per la libertà e la salvezza della patria, e si augura di
avere concittadini e soldati di quella tempra.

29. È disdicevole odiare chi si apprezza; ma quanto più disdicevo-


le è odiare qualcuno per il fatto che è degno di pietà: è il caso del
prigioniero che, piombato all’improvviso nella schiavitù, conserva
un resto di libertà e non affronta prontamente lavori disonorevoli
e faticosi, è il caso di chi, impigrito nell’ozio, non tiene dietro di
corsa al cavallo e alla carrozza del padrone, di chi stanco per le
continue veglie si lascia prendere da un colpo di sonno, di chi ri-
fiuta i lavori dei campi o non li affronta con energia, essendo pas-
sato dall’oziosa schiavitù di città a una dura fatica. Distinguiamo
se uno non possa o non voglia, e ne assolveremo molti, se prima di
arrabbiarci cominceremo a ragionare. Ora invece seguiamo il pri-
mo impulso e poi, benché motivi futili ci abbiano agitato, persi-
stiamo, per non dare l’impressione d’aver cominciato senza una
ragione, e, colmo dell’ingiustizia, l’infondatezza della nostra ira ci
rende più ostinati; poiché la conserviamo e la incrementiamo co-
me se l’adirarsi fortemente fosse prova della giustezza dell’ira.
30. Assai meglio sarebbe considerare quanto infondati e inof-
fensivi siano i motivi iniziali. Coglierai anche nell’uomo ciò che
vedi accadere ai muti animali: ci lasciamo confondere da cose
frivole e vane. Il colore rosso fa adombrare il toro, l’ombra fa riz-
zare il serpente, un drappo eccita orsi e leoni: tutti gli esseri che
per natura sono feroci e rabbiosi si spaventano per un nonnulla.
Lo stesso capita alle indoli inquiete e sciocche: si lasciano colpi-
re dalle apparenze, tanto che talora chiamano offese i benefici
modesti, in cui v’è occasione assai frequente, o almeno assai
acerba, di ira. Ce la prendiamo infatti con le persone più care
perché ci hanno dato meno di quanto in cuor nostro ci aspetta-
vamo, e di quanto altri hanno avuto, sebbene sia pronta una giu-
stificazione per l’uno e per l’altro caso. Se uno è stato più gene-
roso con un altro, dobbiamo gioire di quanto abbiamo avuto sen-
za fare confronti, poiché non sarà mai felice chi si struggerà per
la maggior felicità di un altro. Se ho meno di quanto speravo, for-
se ho sperato più di quanto avrei dovuto. Questo è l’aspetto più
terribile del problema e di qui nascono le ire più rovinose, pron-
te a calpestare gli affetti più sacri. All’uccisione del divo Giulio
parteciparono in numero maggiore dei nemici gli amici, dei qua-
li non aveva saziato le insaziabili speranze. Egli avrebbe senza
dubbio voluto saziarle (nessuno infatti fu più generoso nella vit-
toria, dalla quale per sé altro non pretese che la possibilità di far
del bene), ma come avrebbe potuto far fronte a brame tanto
smodate, visto che tutti desideravano tutto ciò che lui, da solo,
poteva? E così vide con le spade sguainate intorno al suo seggio
i suoi commilitoni, Cimbro Tillio26 che poco prima era stato il
più accanito sostenitore del suo partito, e altri divenuti pompeia-
ni solo dopo la morte di Pompeo. Questo stato di cose suole far
levare le armi contro il proprio re, e spingere i più devoti a fare
un pensiero sulla morte di coloro in difesa dei quali e prima dei
quali si erano augurati di morire.

31. Chi guarda alla roba altrui non è mai soddisfatto della sua;
per questo ce la prendiamo anche con gli dèi se qualcuno ci pre-
cede, dimenticandoci che molta gente viene dopo di noi, e che

26
Cimbro Tillio, benché commilitone e amico di Cesare, fu indotto a
congiurare dal fatto che Cesare aveva esiliato suo fratello.
chi invidia i pochi che precedono ha alle spalle tanta gente che
invidia lui. Tuttavia l’insaziabilità umana è tanto grande che, per
molto che ci sia stato dato, l’aver potuto ricevere di più diventa
un torto subìto. «Mi ha dato la pretura, ma io mi aspettavo il con-
solato; mi ha fatto avere i dodici fasci, ma non mi ha eletto con-
sole ordinario; ha fatto in modo che l’anno prendesse nome da
me, ma non mi ha sostenuto nella mia aspirazione al sacerdozio;
sono stato cooptato nel collegio sacerdotale, ma perché in uno
solo? Ha condotto a coronamento la mia carriera, ma non ha ag-
giunto nulla al mio patrimonio; mi ha dato ciò che doveva pur
dare a qualcuno, ma di tasca sua non ci ha messo niente.» Rin-
grazia piuttosto per ciò che hai ricevuto, aspetta il resto e gioisci
di non essere ancora soddisfatto, poiché fra i piaceri c’è anche
quello che ti resti qualcosa in cui sperare. Se hai vinto tutti, gioi-
sci di essere al primo posto nel cuore del tuo amico; se molti ti
superano, considera quanto più numerosi sono quelli che ti se-
guono di quelli che ti precedono. Vuoi sapere qual è il tuo difet-
to maggiore? Fai dei conti sbagliati, perché stimi molto ciò che
dài e poco ciò che ricevi.

32. Nei diversi casi diversi motivi ci devono trattenere dall’i-


ra; con alcuni dobbiamo temere di arrabbiarci, con altri ci de-
ve trattenere il rispetto, con altri ancora il fastidio. Faremo
senza dubbio una grande azione se invieremo ai lavori forzati
uno schiavetto disgraziato! Perché abbiamo subito fretta di
frustare, di spezzare le gambe? Questa possibilità non verrà
meno se ci prenderemo un rinvio. Lascia che venga il tempo in
cui saremo in grado di decidere noi stessi, poiché ora parlere-
mo obbedendo all’ira; quando essa sarà svanita, vedremo di
quale rilievo sia la questione. Poiché il nostro errore più fre-
quente è che facciamo ricorso al ferro e ai supplizi capitali, e
puniamo con i ceppi, il carcere e la fame una mancanza che
merita castighi più miti. Tu mi dici: «In che modo ci inviti a
considerare che tutto ciò da cui ci riteniamo offesi è cosa da
poco, meschina, inutile!». Io per mio conto darei soprattutto il
consiglio di assumere un animo grande e di vedere quanto sia
meschino e abietto ciò per cui litighiamo, andiamo avanti e in-
dietro, ci affanniamo; è roba disprezzabile per chi nutra senti-
menti alti e nobili.
33. Il più gran vociare si fa per il denaro: esso stanca i fori, met-
te i figli contro i padri, propina tazze avvelenate, arma sia i boia
che le legioni; esso è bagnato del nostro sangue, per esso mariti e
mogli passano la notte a litigare, e i tribunali dei magistrati sono
pieni di gente, i re infieriscono e fanno rapine e radono al suolo
città costruite col lavoro di lunghe generazioni, per andare a cer-
care fra le rovine fumanti l’oro e l’argento. Si cercano i forzieri
nascosti in un cantuccio: sono questi che ci fanno urlare e schiz-
zare gli occhi dalle orbite, che fanno risonare le basiliche del fra-
stuono dei processi e che impancano giudici chiamati da paesi
lontani a giudicare quale delle due parti abbia un’avarizia più
giusta. Che dire poi del fatto che, non già per un forziere, ma per
una manciata di soldi o per un denario messo in conto da un ser-
vo, un vecchio senza eredi, col piede nella fossa, scoppia di rab-
bia? E dell’usuraio ammalato, con i piedi sciancati e senza le ma-
ni per fare i conti, che per un interesse addirittura dell’un per
mille urla e pretende con malleveria i suoi soldi, proprio mentre
il male lo attacca? Se tu mi portassi tutta la ricchezza da tutte le
miniere che ora soprattutto scaviamo, se mi mettessi davanti agli
occhi tutti i tesori del mondo, con gli avari che rimettono sotto
terra ciò che ne hanno estratto per il nostro male, io penserei che
non valga la pena che un uomo dabbene corrughi la fronte per
tutto questo mucchio. Dovremmo farci delle gran risate su ciò
che invece ci fa piangere!

34. Di grazia, passa ora in rassegna tutto il resto, cibi e bevande


e raffinatezze ambiziosamente preparate a tale scopo, parole of-
fensive, movimenti del corpo poco dignitosi, animali testardi e
schiavi pigri, sospetti e interpretazioni maligne d’una frase al-
trui, per cui si arriva ad annoverare tra gli errori della natura l’a-
ver dato all’uomo la favella: credimi, i motivi che ci spingono a
dare in pesanti escandescenze sono roba da poco, simili a quelli
che spingono i bimbetti alla rissa e al litigio. Nessuna di tutte
quelle azioni che compiamo con tanta autorità è seria, nessuna è
importante; la vostra ira e la vostra follia, lo ripeto, vengono dal
fatto che date gran peso alle piccole cose. Costui ha voluto strap-
parmi un’eredità; quest’altro, dopo avermi indotto a nutrire a
lungo grandi speranze, mi ha diffamato; quest’altro ancora si è
invaghito della mia concubina, e ciò che avrebbe dovuto essere
legame affettivo, il nutrire cioè la stessa passione, causa discor-
dia e odio. Un vicolo stretto induce i passanti a venire a lite, men-
tre una strada ampia e spaziosa non fa urtare neppure una gran
massa di gente: ciò che voi bramate, poiché è scarso e non può
essere dato a uno senza che venga tolto a un altro, dà luogo a lot-
te e offese fra chi vi aspira.

35. Te la prendi perché ti ha dato una rispostaccia uno schiavo,


un liberto, la moglie, un cliente: e poi proprio tu, che hai soppres-
so la libertà in casa tua, ti lamenti che sia stata tolta dalla vita
pubblica. D’altro canto, se l’interrogato tace, dici che è un capar-
bio. Possa dunque parlare, tacere, ridere. «In presenza del padro-
ne?» mi dirai. Piuttosto in presenza del capo di famiglia. Perché
urli e sbraiti? Perché nel bel mezzo della cena chiedi la frusta se
gli schiavi parlano, se nello stesso luogo non v’è la massa di un’as-
semblea e il silenzio d’un luogo deserto? Le orecchie ti servono
per ascoltare non solo suoni melodiosi e delicati e composti con
dolce armonia: devi ascoltare il riso e il pianto, le lusinghe e le in-
vettive, le notizie avverse e quelle felici, le voci umane e i fremiti
e i latrati degli animali. Perché, o disgraziato, trasali all’urlo di
uno schiavo, al tintinnio d’una moneta, al cigolio della porta? Con
tutta la tua raffinatezza devi pur udire anche i tuoni. Quanto ho
detto per le orecchie, riferiscilo agli occhi, che sono ugualmente
suscettibili se sono stati abituati male: si sentono contrariati da
una macchia, da un po’ di sporcizia, dall’argenteria poco lucente,
da una piscina che non traspare sino al fondo. Proprio questi oc-
chi che sopportano solo un marmo variegato e lucente perché lu-
strato da poco, una mensa impreziosita da frequenti venature, che
in casa vogliono un pavimento più pregiato dell’oro, in istrada
vedono senza il minimo turbamento vicoli disselciati e fangosi e
la maggior parte dei passanti in cattivo arnese, e le pareti dei ca-
seggiati scalcinate, piene di fenditure, sconnesse. Perché fuori so-
no impassibili e in casa schizzinosi? Perché fuori sono equilibrati
e tolleranti, in casa capricciosi e incontentabili.

36. Tutti i sensi devono essere guidati alla saldezza; essi sono re-
sistenti per natura, se smette di guastarli l’animo, che ogni gior-
no deve essere chiamato alla resa dei conti. Sestio, finita la gior-
nata, quando si ritirava per dormire, aveva l’abitudine di doman-
dare alla sua coscienza: «Quale tua malattia hai guarito oggi? A
qual vizio hai opposto resistenza? Sotto quale aspetto sei miglio-
re?». L’ira cesserà e sarà più misurata sapendo di doversi pre-
sentare ogni giorno in tribunale. Che c’è mai di più bello di que-
sta abitudine di pesare l’intera giornata? Che bel sonno viene
dopo l’esame di se stesso, quanto sereno, profondo e libero,
quando l’animo ha riscosso una lode o un biasimo, e fattosi os-
servatore e censore della sua condotta, ha fatto un’indagine sui
propri costumi! Mi avvalgo di questa facoltà e ogni giorno com-
paio al tribunale della mia coscienza. Allontanata dalla vista la
lucerna, quando mia moglie, che è ormai al corrente della mia
abitudine, fa silenzio, allora io esamino attentamente la mia inte-
ra giornata e passo in rassegna le mie azioni e le mie parole: nul-
la mi nascondo, su nulla chiudo un occhio. Perché dovrei temere
qualcuno dei miei errori, potendo dire: «Bada di non farlo più,
per questa volta ti perdono. In quella discussione sei stato trop-
po polemico: d’ora innanzi non venire a disputa con gli ignoran-
ti; chi non ha mai imparato non vuole imparare. Quel tale l’hai
redarguito con più franchezza del dovuto, e così non lo hai cor-
retto, ma offeso: per il futuro rifletti non solo se è vero quello
che dici, ma se è tollerante della verità colui al quale lo dici: il
buono gioisce d’essere ripreso, mentre la peggior feccia non sop-
porta affatto una guida».

37. In un banchetto ti hanno punto i frizzi e le parole che alcuni


hanno pronunciato per provocarti dolore: ricordati di evitare i
banchetti frequentati da gente volgare; la libertà è più sfrenata
quando s’è bevuto, visto che neppure le persone sobrie hanno il
senso del rispetto. Hai visto un tuo amico prendersela col portie-
re d’un avvocato o d’un ricco, che gli aveva impedito l’ingresso, e
tu stesso, in sua difesa, te la sei presa con quello schiavo d’infimo
rango: ti arrabbi dunque anche col cane legato alla catena? Que-
sto, dopo aver molto latrato, si placa se gli si lancia un boccone.
Allontanati un po’ e ridi! Costui ora pensa d’esser qualcuno per-
ché fa la guardia alla porta assediata da una massa di clienti; co-
lui che giace dentro si sente felice e fortunato e pensa che una
porta invalicabile sia segno d’uomo beato e potente, senza pen-
sare che la porta più dura è quella del carcere. Aspettati di dover
molto sopportare: ci si stupisce forse d’aver freddo d’inverno, di
soffrire il mal di mare in navigazione, d’essere sballottati in un
viaggio in carrozza? L’animo è forte nell’affrontare le difficoltà
previste. Essendoti assegnato a tavola un posto di poco riguardo
cominci a prendertela con l’anfitrione, con chi ti ha invitato e
con quello stesso cui è stato assegnato un posto migliore: scioc-
co, ha forse importanza la parte del triclinio che ti è assegnata?
La tua rispettabilità o pochezza dipende forse da un cuscino?
Hai guardato di malocchio un tale perché ha parlato male della
tua intelligenza: accetti questa legge? Allora Ennio27 ti odiereb-
be perché non lo apprezzi, e Ortensio28 ti dichiarerebbe guerra,
e Cicerone ti sarebbe nemico, se deridessi le sue poesie. Se ti pre-
senti come candidato, sei disposto ad accettare serenamente il
responso delle urne?

38. Qualcuno ti ha offeso: più gravemente forse dell’offesa fatta


al filosofo stoico Diogene,29 al quale un giovane sfacciato lanciò
uno sputo proprio mentre stava discutendo sull’ira? Egli sop-
portò l’affronto con serenità e saggezza dicendo: «Non mi arrab-
bio, ma tuttavia penso che dovrei arrabbiarmi». Assai meglio si
comportò il nostro Catone! Stava trattando una causa, quando
Lentulo,30 famoso per intriganza e sregolatezza al tempo dei no-
stri padri, tirata su quanto più poté densa saliva gli sputò in pie-
na fronte. Si pulì il volto e disse: «O Lentulo, dichiarerò a tutti
che si sbagliano coloro che dicono che tu non hai bocca».

39. Siamo ormai riusciti, o Novato, a mettere ordine nel nostro


animo: o non avverte l’ira o la sa dominare.Vediamo ora come pla-
care l’ira altrui; non vogliamo infatti tanto essere sani, ma guarire.

27
Ennio (239-169 a.C.), autore di tragedie, commedie e d’un poema
epico-storico in 18 libri, gli Annales, che cantava la storia di Roma dalle
sue mitiche origini ai tempi del poeta.
28
Ortensio (114-56 a.C.), fu grande oratore di scuola asiana, amico di Ci-
cerone e suo avversario nel processo contro Verre, di cui sostenne la difesa.
29
Diogene di Babilonia, nato a Seleucia verso il 240 a.C., fu scolaro di
Crisippo. Si interessò di fonetica e linguistica, di logica e fisica. Fece parte,
con Carneade e Critolao, di una ambasceria che si recò a Roma nel 156 per
conto degli Ateniesi; contro i tre parlò Catone e ne ottenne l’espulsione.
30
Il Lentulo qui ricordato è Publio Cornelio Lentulo Sura, partigiano
di Catilina, arrestato e giustiziato a Roma per ordine di Cicerone.
Non oseremo ammansire con buone parole l’ira al suo primo
insorgere, quando è sorda e folle, ma le daremo tempo. I farmaci
giovano nella fase di rilassamento; così non curiamo gli occhi
gonfi muovendoli, poiché stimoleremmo la forza che li irrigidi-
sce, né gli altri malanni mentre sono nella fase acuta: il riposo è il
farmaco per i mali al loro inizio. «Bell’efficacia ha la tua cura»
dirai tu «se calma l’ira che già sta sbollendo di per sé!» Anzi tut-
to giova a farla smettere prima, poi evita che sia recidiva e vani-
ficherà quello stesso impulso che non osa placare: rimuoverà tut-
ti gli strumenti di vendetta, fingerà l’ira per avere, come aiutante
e compagno di dolore, maggior autorità nel dar consigli, tempo-
reggerà e, nel cercare una vendetta più grande, rimanderà quella
immediata. Con ogni ritrovato darà tregua alla follia: se sarà
troppo impetuosa, le incuterà un rispetto cui non possa resistere,
oppure paura; se alquanto debole, ricorrerà a discorsi graditi o
nuovi e la distrarrà facendo leva sul desiderio di conoscere. Si di-
ce che un medico, dovendo curare la figlia del re e non potendo-
lo fare senza intervento chirurgico, nel palpare dolcemente la
mammella gonfia, vi infilò il bisturi nascosto sotto la spugna; la
ragazza che si sarebbe opposta se quell’intervento fosse stato
scoperto, poiché non se l’aspettava, riuscì a sopportare il dolore.
Ci sono mali che si guariscono solo con l’inganno.

40. A uno dirai: «Bada che la tua irascibilità non rechi piacere ai
tuoi nemici», a un altro: «Bada di non compromettere la tua
grandezza d’animo e quella forza che i più ti riconoscono. Sono
davvero sdegnato e non trovo limite al dolore, ma bisogna dar
tempo al tempo; la pagherà. Ricordatene in cuor tuo e quando
potrai, lo ripagherai con gli interessi». Invece punire una perso-
na adirata è come spingerla ad adirarsi di più: la prenderai in
modo vario e affabile, a meno che tu non abbia una personalità
tale da poter distruggere la sua ira, come fece il divo Augusto in-
vitato a pranzo da Vedio Pollione. Uno schiavo aveva rotto un
vaso di cristallo; Vedio ordinò di prenderlo per sottoporlo a un
insolito tipo di morte, darlo cioè in pasto alle grosse murene che
allevava in una piscina. Si penserebbe che lo facesse a scopo di
lusso, ed era invece crudeltà. Lo schiavo si sottrasse all’arresto e
si rifugiò ai piedi di Cesare, per chiedere soltanto di poter mori-
re diversamente e di non fare da esca ai pesci. Cesare rimase im-
pressionato da quell’inaudita crudeltà, lo fece liberare e ordinò
di rompere in sua presenza tutte le coppe di cristallo e di riem-
pirne la piscina. L’imperatore doveva castigare l’amico in questo
modo e fece buon uso del suo potere: «Tu ordini che un essere
umano sia arrestato a tavola e straziato con una pena di nuovo
tipo? Per un tuo vaso rotto, verranno squarciate le viscere di un
uomo? Sarai dunque tanto pieno di te da condannare un uomo
in presenza di Cesare?». Chi ha tanto potere da attaccare l’ira
dall’alto in basso, la tratti male, ovviamente quando si tratta di
un tipo quale ho descritto, bestia feroce e sanguinaria, ormai in-
guaribile, se non prova paura di fronte a uno più potente.

41. Offriamo all’animo quella pace che è data dalla riflessione


continua su massime salutari, dalle buone azioni e da uno spirito
bramoso unicamente di ciò che è rispettabile. Dobbiamo soddi-
sfare la nostra coscienza e non cercare di diventar famosi; ci ac-
compagni pure una cattiva fama, purché ci siamo comportati be-
ne. «Ma la gente ammira gli atti di coraggio, gli audaci sono ri-
spettati, mentre i tranquilli sono tenuti in conto di fiacchi.» For-
se a prima vista, ma quando la coerenza della vita dimostra che
quello non è animo fiacco ma pacifico, la gente li onora e li vene-
ra a un tempo. Pertanto questa passione tetra e ostile non reca
nessun vantaggio, anzi al contrario tutti i mali, il ferro e il fuoco.
Calpestando il senso del ritegno si macchia le mani di sangue, fa
a brani i corpi dei figli, nulla lascia indenne dal delitto, dimenti-
cando la gloria, non temendo il disonore, incorreggibile una vol-
ta che da ira si è incallita in odio.

42. Rinunciamo a questo malanno, liberiamoci la mente ed


estirpiamo dalle radici quei princìpi che, per quanto esigui, do-
vunque faranno presa attecchiranno, e non limitiamoci a mode-
rare l’ira, ma cacciamola completamente da noi, poiché d’un ma-
le non vi può essere la giusta misura. E ci riusciremo, purché ci
sforziamo. Nulla giova di più del pensare alla nostra condizione
di mortali. Ciascuno dica a se stesso e al prossimo: a che serve di-
chiarare un rapporto d’ira e sciupare una vita assai breve, quasi
fossimo nati per campare in eterno? Che gusto c’è a dedicare i
giorni, che potremmo spendere in un dignitoso piacere, al dolore
e al tormento di qualcuno? Codesti sono beni che non dovreb-
bero subire danno e non è consentito sciupare il tempo. Perché
muoviamo precipitosamente alla battaglia? Perché ci procuria-
mo lotte? Perché, dimenticando la nostra fragilità, diamo inizio
a grandi odii e, deboli quali siamo, ci accingiamo a mettere tutto
a soqquadro? Ben presto un attacco febbrile o un qualche altro
malanno fisico ci impedirà di sostenere queste inimicizie che
conduciamo con animo implacabile; presto la sorte si frapporrà
a separare una coppia di avversari irriducibili. Perché facciamo
tanto schiamazzo e con le nostre beghe mettiamo scompiglio
nella vita? Il destino ci pende sul capo, conta i giorni che volgo-
no alla fine e si avvicina sempre di più; questo tempo che tu im-
pegni a recar morte a un altro, forse riguarda la tua morte.

43. Perché piuttosto non fai tesoro della breve vita e non la ren-
di serena a te e agli altri? Perché non ti mostri a tutti amabile
finché vivi, e degno di compianto dopo la morte? Perché tenti di
tirar giù quel tipo che ti tratta dall’alto in basso? Perché cerchi
di logorare con le tue forze quel tipo che ti abbaia dietro, indub-
biamente di bassa condizione e spregevole, ma aspro e fastidioso
con i superiori? Perché te la prendi con lo schiavo, col padrone,
col re, col cliente? Resisti un poco: ecco che viene la morte a ren-
dervi uguali. Siamo soliti vedere negli spettacoli antimeridiani
del circo la lotta del toro e dell’orso legati l’un l’altro; quando si
sono strapazzati a vicenda, li attende l’uomo destinato a finirli:
così facciamo noi, provocando qualcuno che è legato a noi, ben-
ché sul vinto e sul vincitore incomba la fine, per giunta imminen-
te. Vediamo invece di trascorrere tranquilli e pacifici quel po’ di
tempo che ci resta; nessuno guardi di malocchio il nostro cada-
vere. Spesso a sciogliere una rissa basta che si dia l’allarme per
un incendio scoppiato nelle vicinanze, e l’arrivo d’una fiera pone
fine alla zuffa fra viandante e borseggiatore; non c’è tempo per
affrontare i mali minori quando si presenta una paura maggiore.
Che ci importa di contese e agguati? Nulla più della morte puoi
augurare alla persona che è bersaglio della tua ira. Ebbene,
morrà anche se te ne stai con le mani in mano. Sciupi la tua fati-
ca se vuoi ciò che comunque accadrà. Mi dirai: «Ma io non vo-
glio proprio uccidere, ma colpire con l’esilio, con l’infamia, col
danno». Fra chi augura al suo nemico una ferita e chi una pusto-
la, preferisco perdonare il primo, poiché il secondo non solo è
malvagio ma anche meschino. Sia che tu abbia in programma i
castighi estremi, sia quelli più lievi, per quanto tempo mai colui
sarà tormentato dalla sua pena e tu coglierai una gioia maligna
della pena altrui! Ben presto esaleremo quest’anima. Intanto,
finché respiriamo e siamo tra gli uomini, mostriamoci umani e
non rechiamo paura e pericolo a chicchessia. Disprezziamo i
danni, le offese, gli insulti, le provocazioni, e sopportiamo con
animo grande le contrarietà di breve durata: nel tempo che ci
voltiamo indietro e ci rivoltiamo, come dicono, si compirà il no-
stro destino di mortali.
SULLA FELICITÀ*

1. Fratello Gallione,1 tutti vogliono vivere felici, ma quando si


tratta di veder chiaro cos’è che rende felice la vita, sono avvolti
dall’oscurità. Ed è così difficile raggiungere una vita felice che
più la si ricerca con affanno più ci se ne allontana, se si è fuori
strada. Quando questa poi ci porta in direzione opposta, proprio
la velocità diventa causa di maggiore distanza. Prima bisogna
stabilire dove vogliamo andare, poi considerare per quale via
possiamo farlo nel modo più rapido. Capiremo durante il viag-
gio, se sarà quello giusto, quanto ogni giorno si procede e quanto
siamo più vicini a dove il desiderio naturale ci spinge. Certo, fin-
ché vaghiamo a caso, senza seguire una guida ma il clamore di-
scorde di chi chiama da ogni parte, la vita si consumerà, resa bre-
ve dagli errori, anche se giorno e notte ci daremo da fare con le
migliori intenzioni. Decidiamo, allora, dove vogliamo andare e
per quale via ma non senza un esperto che già conosca la strada
che cominciamo a percorrere, perché certo non è come negli al-
tri viaggi dove, se si è individuato il percorso e si chiedono infor-
mazioni agli abitanti, non si può sbagliare. In questo caso, invece,
proprio le strade più battute e frequentate ci traggono in ingan-
no. Soprattutto bisogna fare attenzione a non seguire, come pe-
core, il gregge di chi ci precede, perché non si va dove si deve an-
dare, si va dove vanno tutti. Del resto non c’è cosa che per noi

* Tratto da: Seneca, Sulla felicità, Bur, Milano 1996. Traduzione e note
di Donatella Agonigi
1
Gallione è Anneo Novato, fratello maggiore di Seneca: aveva preso il
nome dal retore Giunio Gallione che lo adottò. Fece una brillante carriera
senatoria e morì fatto assassinare da Nerone nel 65 a.C. A lui Seneca de-
dicò anche il De ira.
comporti mali peggiori del conformarsi all’opinione pubblica,
considerando migliore quello che è accolto da più largo consen-
so. E siccome non ci mancano gli esempi, si finisce per vivere non
secondo ragione ma imitando gli altri. Per questo motivo è tanto
grande la massa di persone che crollano una sull’altra. Come
succede in una strage, quando la folla si schiaccia (nessuno, in-
fatti, cade senza trascinare almeno un altro e i primi sono la ro-
vina di quelli che seguono), così accade nella vita: nessuno sba-
glia soltanto per sé ma diventa motivo e occasione di errore per
altri. È pericoloso, infatti, appoggiarsi a chi precede e, dal mo-
mento che ciascuno preferisce affidarsi piuttosto che esprimere
un parere proprio, in particolare riguardo alla vita non si espri-
me mai un parere, ci si affida sempre. Così ci sconvolge e ci fa
precipitare un errore che passa di mano in mano. Ci roviniamo a
seguire l’esempio degli altri. Solo stando alla larga dalla folla po-
tremo salvarci. Ma ora il popolo, privo di buon senso, si fa difen-
sore del suo stesso male. Così capita come nei comizi, quando a
meravigliarsi che certuni siano stati eletti pretori sono gli stessi
che li hanno votati, una volta che il favore popolare (che è mute-
vole) è cambiato. Approviamo una cosa e la disapproviamo su-
bito dopo: ecco il risultato di un parere espresso in base all’opi-
nione della maggioranza.

2. Ma quando si parla della vita felice, non mi puoi rispondere


come per le votazioni: «la maggioranza sta da questa parte». In-
fatti è la parte peggiore. Per le faccende umane non funziona co-
sì bene: le cose migliori sono sgradite ai più. La folla è la peggio-
re conferma. Chiediamoci, allora, cosa sia meglio fare e non qua-
le sia il comportamento più comune, cosa ci faccia ottenere una
felicità duratura e non ciò che riscuote l’approvazione del volgo,
pessimo interprete della verità; e per volgo intendo chi indossa
la clamide2 al pari di chi porta la corona. Infatti non guardo al
colore dei vestiti che servono a coprire il corpo. Non credo alle
apparenze. Ho uno strumento migliore degli occhi e più affida-
bile che mi permette di distinguere il vero dal falso: il bene del-
l’animo deve trovarlo l’animo. E appunto quest’animo, se riu-
scirà ad avere un attimo di respiro e a raccogliersi in se stesso,

2
La clamide era un mantello corto in uso presso i Greci.
torturandosi da solo, di certo ammetterà la verità e dirà: «non
avessi mai fatto quello che ho fatto, se ripenso a quello che ho
detto invidio i muti, ogni desiderio lo credo ora una maledizione
dei miei nemici, ogni timore, o dèi buoni, ha finito per essere più
tollerabile di ciò che ho bramato! Sono stato nemico di molti e,
se può esistere riconciliazione tra malvagi, mi sono riconciliato,
dopo tanto odio. Ma ancora non sono amico di me stesso. Ho fat-
to di tutto per distinguermi dalla massa e farmi notare per qual-
che merito e cos’altro ho ottenuto a parte essermi esposto alle
frecciate e offrire il fianco all’invidia? Li vedi questi che lodano
l’eloquenza, inseguono la ricchezza, accarezzano i favori, esalta-
no il potere? Tutti costoro o sono nemici o lo possono diventare,
che è lo stesso. Tanti sono gli ammiratori altrettanti gli invidiosi.
Perché piuttosto non ricerco un bene da godere, da sentire inti-
mamente invece che da ostentare? Tutte queste cose che attira-
no la nostra attenzione, davanti alle quali ci fermiamo e che, am-
mirati, ci mostriamo a vicenda, splendono di fuori ma dentro so-
no misere».

3. Ricerchiamo un bene non apparente ma solido costante e


bello soprattutto dentro: portiamolo alla luce. Non è lontano. Lo
troveremo, basta solo sapere dove stendere la mano. Per ora
brancoliamo nel buio e ci capita di sfiorare ciò che desideriamo
o di sbatterci contro. Ma, per evitare giri viziosi, tralascerò le opi-
nioni degli altri che sarebbe lungo elencare e discutere. Ascolta
la nostra. E quando dico nostra non mi associo a nessuno dei
grandi Stoici: ho diritto anch’io di esprimere la mia opinione. Co-
sì, uno lo seguirò, a qualche altro chiederò di specificare meglio
il suo pensiero e può darsi che, interpellato per ultimo, non di-
sapprovi nessuna delle posizioni sostenute da chi mi ha precedu-
to e dica: «in più io penso questo». Intanto, d’accordo con tutti
gli stoici, seguo la natura: è saggio non allontanarsene e confor-
marsi alle sue leggi e al suo esempio. È dunque felice una vita
consona alla propria natura. Questo può accadere solo se, prima
di tutto, la mente è sana anzi nel pieno possesso delle sue facoltà,
se è veramente forte, decisamente paziente, adattabile alle circo-
stanze, attenta al corpo e a tutto ciò che lo riguarda ma senza an-
sie, amante dei vantaggi che migliorano la qualità della vita ma
con distacco e pronta a servirsi dei doni della sorte senza diven-
tarne schiava. Capisci da te, anche se non aggiungo altro, che ne
deriva una serenità durevole e la libertà se si sono rimosse le
cause dell’irritazione o del timore. Al posto dei piaceri e degli al-
lettamenti che sono meschini effimeri e dannosi, subentra una
gioia immensa imperturbabile e costante e poi la pace e l’armo-
nia dell’anima e la grandezza unita alla bontà. La cattiveria, in-
fatti, nasce sempre dalla debolezza.

4. Si possono dare anche altre definizioni del nostro bene, cioè


lo stesso concetto può essere espresso con parole diverse. Come
un esercito può schierarsi su un ampio fronte o in uno spazio ri-
stretto, disporsi in semicerchio o in linea retta ma, qualunque sia
l’ordinamento, non cambia la sua forza né la volontà di combat-
tere per la stessa causa, così la definizione del sommo bene può
essere ampia e dettagliata o breve e concisa. Dunque è lo stesso
se dico: «il sommo bene c’è se l’animo disprezza la sorte e si
compiace della virtù» oppure «se la forza d’animo è invincibile,
esperta, calma nell’agire e associata a grande umanità e atten-
zione per il prossimo». Possiamo anche arrivare a dire che felice
è l’uomo per cui non esistono il bene e il male ma solo l’animo
buono o malvagio, che pratica il bene, si contenta della virtù, non
si lascia esaltare né abbattere dagli eventi, non conosce bene più
grande di quello che può procurarsi da solo e pensa che il vero
piacere sta proprio nel disprezzare i piaceri. Possiamo, se ti vuoi
sbizzarrire, variare la stessa idea in forme sempre diverse senza
che cambi affatto la sostanza. Cosa, infatti, ci impedisce di affer-
mare che la vita felice è il risultato di un animo libero, elevato,
impavido e costante, al di sopra di ogni timore, al di sopra di ogni
passione, per cui l’unico bene è la dignità, l’unico male la disone-
stà e tutto il resto un mucchio di cose che non tolgono né ag-
giungono niente alla vita felice, che vanno e vengono senza au-
mentare o diminuire il sommo bene? Necessariamente un atteg-
giamento basato su questo, si voglia o no, porta a una serenità
duratura, a una gioia profonda e intimamente sentita perché go-
de del suo e non desidera più di quello che ha. Come tutto que-
sto potrebbe non ben compensare gli impulsi meschini futili e
incostanti del nostro piccolo corpo? Il giorno che sarà dominato
dal piacere sarà dominato anche dal dolore. Infatti vedi a quale
tremenda schiavitù è condannato chi soggiace ora ai piaceri ora
ai dolori, che sono i padroni più dispotici e capricciosi. Per que-
sto bisogna mirare alla libertà. E c’è un solo modo per ottenerla:
l’indifferenza verso la sorte. Allora nascerà quel bene inestima-
bile, la pace di una mente sicura e l’elevatezza morale e una gioia
grande e imperturbabile che deriva dalla conoscenza del vero e
dall’assenza di paure e una grande serenità. Di tutti questi beni
godrà non in quanto tali ma perché nascono dal vero bene che
lui possiede.

5. Visto che ormai ho cominciato a trattare l’argomento ampia-


mente, possiamo ancora definire felice chi, grazie alla ragione,
non ha né timori né passioni. In effetti, né i sassi provano paura
e tristezza né certamente gli animali. Non per questo si potrebbe
dire che sono felici dal momento che manca loro la consapevo-
lezza della felicità. Vanno messi sullo stesso piano gli uomini che
la loro stupidità e l’incoscienza di sé relegano tra le bestie. Non
c’è nessuna differenza tra questi e quelle: infatti, le bestie non
sono dotate di ragione, questi uomini ne hanno poca e per di più
si ritorce a loro danno. Ora, nessuno può dirsi felice se sta fuori
dalla verità. Dunque è beata la vita che si basa costantemente su
un giudizio retto e fermo. È allora infatti che la mente è pura, li-
bera da ogni male, capace di sottrarsi sia alle ferite sia alle graf-
fiature, decisa a restare dove si trova e a difendere la sua posi-
zione anche contro le avversità e le persecuzioni della sorte. Per
quanto poi concerne il piacere, se pure si spande tutto intorno e
si insinua in ogni fessura, ci blandisce l’anima con sue lusinghe e
ci mette davanti una tentazione dopo l’altra per sedurci comple-
tamente o almeno in parte, c’è forse un uomo, cui resti un bricio-
lo di umanità, che vorrà lasciarsi trastullare giorno e notte e
vorrà trascurare l’animo per dedicarsi solo al corpo?

6. «Ma anche l’animo» mi puoi dire «avrà i suoi piaceri.» E li


abbia pure e sieda giudice del lusso e dei piaceri, si sazi di tutto
quello che di solito alletta i sensi, poi rivolga il pensiero al passa-
to e, memore dei piaceri trascorsi, si rallegri per le gioie passate
e pregusti quelle future, organizzi le sue speranze e, mentre il
corpo è ancora appesantito dal lauto pasto di oggi, corra già col
pensiero a quello di domani. Tutto questo mi parrà davvero me-
schino, dato che preferire il male al bene è pura follia. Nessuno
può essere felice se non è sano di mente e certo non lo è chi de-
sidera quello che gli nuocerà. È felice dunque chi giudica retta-
mente. È felice chi è contento della sua condizione, qualsiasi es-
sa sia, e gode di quello che ha. È felice chi affida alla ragione la
condotta di tutta la sua vita.

7. Anche quelli che hanno detto che il sommo bene risiede nei
piaceri vedono in quale posto vergognoso l’hanno relegato. Per
questo affermano che il piacere non può essere separato dalla
virtù e sostengono che non vive con onore chi non vive anche
con piacere e che non vive con piacere chi non vive anche con
onore. Non vedo come si possano accoppiare cose tanto diver-
se. Per quale ragione, vi chiedo, non si può separare il piacere
dalla virtù? Forse perché il principio di ogni bene deriva dalla
virtù e dalle sue radici nasce anche quello che voi amate e desi-
derate? Ma se piacere e virtù non fossero separati non esiste-
rebbero cose piacevoli ma disonorevoli né cose onorevolissime
ma difficili e che si raggiungono solo a prezzo di sofferenze.
Aggiungi poi che il piacere si accompagna anche alla vita più
vergognosa ma la virtù non ammette una vita disonesta, poi che
alcuni sono infelici non perché privi di piaceri ma proprio a
causa dei piaceri: cosa che non accadrebbe se il piacere fosse
mescolato alla virtù che spesso ne è priva ma mai ne ha biso-
gno. Perché volete mettere insieme cose diverse, anzi opposte?
La virtù è qualcosa di alto, eccelso, regale, invincibile, infatica-
bile, invece il piacere è una cosa bassa, servile, debole, effimera
e sta di casa nei bordelli e nelle taverne. La virtù la troverai nel
tempio, nel foro, nella curia, a difesa delle mura, impolverata,
accaldata e coi calli alle mani. Il piacere se ne sta quasi sempre
nascosto, in cerca del buio intorno ai bagni e alle stufe, nei luo-
ghi che hanno paura degli edili,3 fiacco, snervato, madido di vi-
no e di profumi, pallido, imbellettato e imbalsamato come un
cadavere. Il sommo bene è immortale, non conosce fine, non dà
sazietà né rimorso perché la mente retta non cambia, non pro-
va odio per se stessa, non modifica ciò che è già ottimo. Al con-
trario il piacere si esaurisce sul più bello, è limitato perciò sazia
subito, viene a noia e dopo il primo slancio si affloscia. Non può

3
Magistrati incaricati dell’ordine pubblico.
essere stabile quello che per natura è in movimento.4 Allo stes-
so modo non può avere nessuna consistenza quello che va e
viene in un baleno, destinato a finire nell’attimo stesso in cui si
consuma: infatti tende al punto in cui cessa e quando comincia
ha già presente la fine.

8. E poi perché mai il piacere esiste tanto tra i buoni che tra i
malvagi e gli scellerati godono della loro infamia come gli onesti
delle buone azioni? Per questo gli antichi ci hanno insegnato a
seguire la vita migliore e non la più piacevole, in modo che il pia-
cere sia compagno e non guida di una buona e retta volontà. È la
natura infatti che dobbiamo prendere come guida: a lei si rivolge
la ragione, a lei chiede consiglio. Allora vivere felici e secondo
natura è lo stesso. Ti spiego cosa intendo: se sapremo conservare
con cura e serenità le doti fisiche e le inclinazioni naturali come
beni di un solo giorno e fugaci, se non saremo loro schiavi né
soggetti al potere delle cose esterne, se le occasionali gioie del
corpo per noi avranno lo stesso posto che hanno le truppe ausi-
liarie e quelle armate alla leggera nell’esercito (devono servire
non comandare), allora di certo saranno utili alla mente. L’uomo
non deve lasciarsi corrompere e dominare dagli eventi esterni e
deve fare affidamento solamente su se stesso,

sicuro di sé e pronto a tutto,

insomma artefice della propria vita. La sua sicurezza non man-


chi di conoscenza e la conoscenza di costanza. Siano sempre sal-
di i suoi princìpi e le sue decisioni non subiscano modifiche. Si
capisce, anche se non lo dico, che un uomo così sarà equilibrato
e ordinato in ogni sua azione, magnifico ma non senza benevo-
lenza. La ragione si interroghi stimolata dai sensi e li prenda co-
me punto di partenza (del resto non ha altro da cui cominciare
per prendere slancio verso la verità) ma poi torni in sé. Infatti
anche l’universo che tutto abbraccia e Dio che governa il mondo
tendono verso l’esterno, e tuttavia sempre rientrano in sé.5 Così

4
Epicuro distingueva tra un piacere in movimento e uno stabile che è
l’assenza di dolore.
5
Notevole l’accostamento Dio/ragione.
deve fare la nostra mente: anche quando seguendo i sensi si spin-
ge all’esterno deve avere il controllo su questi e su se stessa. In
questo modo si realizzerà una forza unica e un’armonia tra le
sue facoltà e nascerà quella razionalità sicura che è senza con-
traddizioni e che non ha incertezze sulle sue opinioni, conoscen-
ze e convinzioni, quella razionalità che, quando si è organizzata
ed è concorde in tutte le sue parti e, per così dire, agisce all’uni-
sono, allora ha toccato il sommo bene. Perché non c’è più niente
di riprovevole, niente di incerto, niente che la faccia inciampare
e scivolare. Farà tutto secondo il proprio volere e non gli capi-
terà nulla che non abbia previsto. Tutte le sue azioni avranno
buon esito in modo facile, agevole e senza ripensamenti: infatti,
pigrizia e indecisione denotano contrasto e incoerenza. Perciò si
può affermare senza esitazione che il sommo bene è l’armonia
dell’animo, infatti le virtù dovranno stare dove c’è accordo e
unità: sono i vizi che non vanno d’accordo.

9. «Ma anche tu» mi puoi dire «non coltivi la virtù per altro se
non perché speri di ricavarne qualche piacere.» Per prima cosa,
anche se la virtù procurerà piacere, non è per questo che la si
cerca. Infatti non procura piacere ma anche piacere e non si af-
fatica per questo ma la sua fatica, per quanto miri ad altro, ha
come conseguenza anche questo. Come in un campo seminato a
frumento nascono qua e là i fiori ma non è per queste piantine
(anche se sono belle da guardare) che è stata fatta tanta fatica
(diverso era il proposito di chi seminava, il resto è venuto da sé),
allo stesso modo il piacere non è il prezzo né la causa della virtù
ma un suo accessorio e non piace perché diletta, ma, se piace, al-
lora diletta. Il sommo bene consiste proprio nella convinzione e
nel comportamento di una mente perfetta che, quando ha com-
piuto il suo corso e fissati i suoi limiti, ha pienamente realizzato
il sommo bene e non desidera niente di più: fuori del tutto non
esiste nulla, nulla oltre la fine. Per questo sbagli a chiedere il mo-
tivo che mi spinge ad aspirare alla virtù: cerchi qualcosa al di so-
pra di ciò che è sommo. Vuoi sapere cosa mi aspetto dalla virtù?
La virtù. Infatti non ha nulla di più prezioso del suo stesso valo-
re. Ti sembra poco? Se ti dico: «il sommo bene è la fermezza di
un animo saldo e la sua previdenza e la sua elevatezza e il suo
equilibrio e la sua libertà e la sua armonia e la sua dignità», pre-
tendi ancora qualcosa di più grande cui riferire questi beni? Per-
ché mi nomini il piacere? Io cerco il bene dell’uomo non del ven-
tre che, del resto, è più capiente negli animali.6

10. «Travisi» mi puoi dire «quello che dico. Infatti, io affermo


che non si può vivere con piacere se non si vive anche con onore
e questo non può accadere né agli animali né a chi misura la feli-
cità dal cibo. Affermo con molta chiarezza che la vita che defini-
sco piacevole non può che essere associata alla virtù.» Ma chi è
che non sa che sono proprio i più stolti a essere stracolmi dei vo-
stri piaceri, che la malvagità è ricca di soddisfazioni e che l’ani-
mo stesso suggerisce tanti tipi di piaceri vergognosi? Prima di
tutto l’arroganza e l’eccesso di stima di sé,7 l’orgoglio che di-
sprezza tutti e l’amore cieco e incauto per le sue cose, l’esaltazio-
ne per i più piccoli e futili motivi e poi la maldicenza e la super-
bia che si compiacciono di offendere, l’inerzia e l’indolenza del-
l’animo che, fiaccato dalla profusione dei godimenti, si addor-
menta su se stesso. Tutto questo la virtù lo spazza via, ci dà una
tiratina di orecchie, fa una valutazione dei piaceri prima di ac-
cettarli e non tiene neanche in gran conto quelli che approva: in-
fatti non li accetta per goderseli, al contrario, si rallegra di poter-
li moderare. Siccome però la moderazione limita i piaceri, è
un’offesa per il sommo bene. Tu il piacere lo tieni stretto, io lo
tengo a freno. Tu godi del piacere, io me ne servo. Tu credi che
sia il sommo bene, io neanche un bene. Tu fai tutto per il piacere,
io niente.

11. Quando dico che non faccio nulla per il piacere mi riferisco
a quel sapiente al quale soltanto concediamo il piacere. Ma non
chiamo sapiente chi ha qualcosa sopra di sé, tantomeno il piace-
re. Perché, se è tutto preso da questo, come farà a resistere alla
fatica, al pericolo, alla povertà e alle tante minacce che strepita-
no intorno alla vita umana? Come potrà sopportare la vista del-
la morte, come i dolori, come il rumore del mondo e di nemici
tanto violenti se cede davanti a un avversario così debole?
«Farà tutto ciò che il piacere lo persuaderà a fare.» Ma via, non

6
Per gli epicurei il ventre era il centro di tutti i piaceri.
7
Arroganza e superbia erano vizi attribuiti agli epicurei.
vedi di quante cose lo persuaderà? «Non potrà persuaderlo di
niente di turpe» puoi dire «perché è unito alla virtù.» Ma anco-
ra non vedi che razza di sommo bene è se ha bisogno di un guar-
diano per essere un bene? Come potrà la virtù guidare il piace-
re mentre lo segue se è ai subordinati che tocca seguire e ai co-
mandanti guidare? Tu metti in coda chi comanda. Ha davvero
un illustre incarico la virtù secondo voi: assaggiare i piaceri! Ma
vedremo se la virtù, da loro così maltrattata, sarà ancora virtù
perché non può conservare il suo nome se ha abbandonato il
suo posto. Intanto, per restare in argomento, ti mostrerò molti
uomini assediati dai piaceri che la sorte ha coperto di tutti i suoi
doni ma che, devi riconoscere, sono malvagi. Guarda Nomenta-
no e Apicio8 che vanno a ricercare i beni (così li chiamano loro)
della terra e del mare e fanno sfilare sulla mensa animali di ogni
paese; li vedi che dal trono adorno di rose contemplano la loro
tavola e si deliziano le orecchie al suono dei canti, gli occhi con
spettacoli e il palato con ghiottonerie. Hanno tutto il corpo ca-
rezzato da stoffe morbide e delicate e, per evitare che le narici
nel frattempo restino inerti, viene impregnato dei più svariati
profumi il luogo dove la dissolutezza si celebra. Puoi dire che
sono in mezzo ai piaceri ma non ne ricaveranno un bene perché
non godono di un bene.

12. «Sarà male per loro» dirai «perché interverranno molte cose
a sconvolgere l’animo e le opinioni contrastanti renderanno in-
quieta la mente.» È così, te lo concedo. Comunque, anche se stol-
ti e volubili e soggetti al pentimento, proveranno grandi piaceri
al punto che si deve ammettere che sono lontani allo stesso mo-
do da qualsiasi inquietudine e serenità e, come succede ai più,
sono preda di un’allegra follia e impazziscono dalle risate. Al
contrario i piaceri dei saggi sono miti e pacati, quasi affievoliti,
controllati e appena percettibili in quanto sopraggiungono senza
che siano stati chiamati e, nonostante si presentino da sé, non so-
no accolti con onore né con particolare gioia da chi li riceve. In-
fatti il saggio li mescola con la vita come il gioco e il divertimen-

8
Cassio Nomentano dissipò milioni di sesterzi in cene. Apicio Celio fu
un famoso esperto di arte culinaria vissuto sotto Tiberio. Scrisse un tratta-
to, De re coquinaria, ricettario in dieci libri.
to con le cose serie. La devono smettere, allora, di associare cose
incompatibili e di confondere piacere e virtù. È con questo vizio
che lusingano gli uomini peggiori. Chi si è lasciato andare in
mezzo ai piaceri e va ruttando sempre ubriaco, siccome sa di vi-
vere col piacere, crede di vivere anche con la virtù: infatti sente
dire che virtù e piacere non possono essere separati e così fregia
i suoi vizi col nome di sapienza ed esibisce ciò che dovrebbe na-
scondere. Non è Epicuro che li spinge a essere dissoluti, sono lo-
ro che, dediti al vizio, nascondono in grembo alla filosofia la loro
dissolutezza e si precipitano dove sentono che si loda il piacere.
Non considerano però quanto sia sobrio e moderato il piacere di
Epicuro (questo, per Ercole, è quello che penso io) ma accorro-
no al solo nome, sperando di trovare giustificazione e copertura
per le loro dissolutezze. Così perdono anche l’unico bene che
possedevano fra tanti mali: il pudore del peccato. Infatti lodano
ciò per cui arrossivano e si vantano del vizio. E non può neppure
risvegliarsi il pentimento perché si è dato un nome nobile a una
turpe ignavia. Per questo è pericolosa l’esaltazione del piacere,
perché i nobili insegnamenti restano nascosti e le fonti di corru-
zione emergono.

13. Personalmente sono del parere (e lo esprimerò anche se i


nostri compagni non sono d’accordo) che gli insegnamenti di
Epicuro siano venerabili, retti, a ben guardare perfino austeri.
Infatti il piacere è ridotto a una piccola ed esigua cosa e la stessa
legge cui noi assoggettiamo la virtù, egli la impone al piacere:
obbedire alla natura. E ciò che basta alla natura è certo poco per
il vizio. E allora? Chiunque chiami felicità l’inoperosità oziosa e
l’alternanza dei piaceri della gola e dei sensi, cerca un valido so-
stenitore della sua cattiva condotta e, quando si avvicina, attrat-
to dal bel nome, non segue il piacere di cui ha sentito parlare ma
quello che già portava con sé. Quando poi comincia a credere i
suoi vizi conformi agli insegnamenti, indulge a questi non più ti-
midamente e di nascosto, anzi, si lascia andare ormai senza pu-
dore. Così non dirò, d’accordo con la maggior parte dei nostri,
che la scuola di Epicuro è maestra di perdizione. Dico, piuttosto,
che è screditata, che ha una cattiva fama e a torto. Chi può sa-
perlo se non è un iniziato? È anche il suo aspetto che dà luogo a
dicerie e suscita speranze distorte. È come quando un uomo for-
te si veste da donna: il tuo onore è intatto, la tua virilità è salva, il
tuo corpo è libero da qualsiasi indecente tentazione, però hai in
mano il tamburello.9 Occorre dunque scegliere un nome decoro-
so e un’insegna che di per sé sollevi l’animo, perché quella che
c’è adesso attira i vizi. Chiunque si avvicina alla virtù si dimostra
di indole nobile, chi invece segue il piacere è snervato, fiacco, de-
generato, pronto ad abbandonarsi ai vizi più turpi se non gli si fa
vedere una distinzione fra i piaceri in modo che sappia quali si
mantengono nei limiti del bisogno naturale e quali sono sfrenati
e senza fine, tanto più insaziabili quanto più si cerca di appagar-
li. Allora sia la virtù a precedere, così ogni passo sarà sicuro. E
poi il piacere nuoce se è troppo, al contrario la virtù non c’è peri-
colo che sia troppa perché contiene in sé la misura. Non può es-
sere un bene quello che risente della sua stessa grandezza. Inol-
tre, a coloro che hanno ricevuto in sorte una natura razionale,
cosa si può offrire di meglio della ragione? Se poi questo abbi-
namento risulta gradito, che si vada cioè insieme verso la vita fe-
lice, dovrà essere la virtù a precedere e il piacere a seguirla e a
starle vicino come l’ombra al corpo. Ma fare della virtù (signora
per eccellenza) la serva del piacere è proprio di un animo inca-
pace di grandezza.

14. La virtù vada avanti per prima e sia lei a portare le insegne.
Avremo comunque il piacere ma potremo dominarlo e farne uso
moderato: qualche volta ci indurrà a cedere ma mai potrà co-
stringerci. Quelli che invece hanno messo al primo posto il pia-
cere restano privi di tutti e due: la virtù la perdono e il piacere
non sono loro a tenerlo in pugno, al contrario è il piacere che tie-
ne in pugno loro perché se manca li tormenta, se è in eccesso li
soffoca. Infelici se li abbandona, ancor più infelici se li travolge.
Come chi viene sorpreso dalla tempesta nel mar delle Sirti,10 o
finisce come un relitto sulla riva o resta in balìa della violenza
delle onde. È questo il risultato della troppa intemperanza e del-
l’amore cieco per qualche cosa. Infatti chi preferisce il male al

9
Era il simbolo dei Galli sacerdoti della dea Cibele. Spesso evirati, usa-
vano indossare abiti femminili.
10
Si tratta di due grandi insenature sulle coste dell’Africa considerate
pericolose per i bassi fondali.
bene corre dei rischi se ottiene il suo scopo. Con fatica e non sen-
za pericolo andiamo a caccia di fiere e, anche dopo averle cattu-
rate, dobbiamo stare molto attenti perché spesso sbranano i pa-
droni; così sono i grandi piaceri: vanno a finire in grandi disgra-
zie e chi li possiede ne è posseduto. E poi, quanto più sono nu-
merosi e grandi tanto più è meschino e servo di più padroni l’uo-
mo che il volgo chiama felice. Mi sembra bello soffermarmi an-
cora su questa immagine di caccia: chi va a stanare belve e consi-
dera gran cosa

«prendere le bestie coi lacci» e «accerchiare coi cani ampie


[radure»

per seguirne le tracce, viene meno a impegni molto più importan-


ti e lascia da parte molti doveri. Così chi insegue il piacere lo an-
tepone a tutto il resto e trascura, per prima, la libertà facendola
dipendere dalla gola e non si compra i piaceri, si vende ai piaceri.

15. «Tuttavia» dirai «che cosa impedisce di fondere insieme


virtù e piacere in modo che il sommo bene risulti allo stesso tem-
po dignitoso e piacevole?» Ma una parte di dignità non può non
essere degna e inoltre il sommo bene non sarà più integro se ve-
drà al suo interno qualche elemento meno che ottimo. Neppure
la gioia che deriva dalla virtù, per quanto sia un bene, fa parte
del bene assoluto e così la letizia e la tranquillità, anche se na-
scono dalle più nobili cause. Infatti è certo che questi sono beni
ma non realizzano il sommo bene, ne sono solo la conseguenza.
Chi mischia la virtù col piacere anche se non alla pari, indeboli-
sce il vigore che c’è in un bene con la fragilità di un altro e man-
da sotto il giogo la libertà, che è imbattibile se non conosce qual-
cosa di più prezioso di se stessa. Infatti si comincia ad aver biso-
gno del favore della sorte e questa è la peggiore schiavitù. Ne
consegue una vita piena di ansie, sospetti e trepidazioni, timoro-
sa degli eventi e condizionata dalle circostanze. Tu non offri alla
virtù una base solida e stabile, anzi, la costringi a una condizione
precaria. E cosa c’è di più precario dell’attesa di eventi acciden-
tali e della mutevolezza delle condizioni fisiche e di quello che
sul corpo influisce? Come è possibile che quest’uomo possa ob-
bedire a Dio, accettare di buon animo ogni evenienza, non la-
mentarsi del suo destino e trovare il lato positivo in ogni situa-
zione se anche il più piccolo stimolo piacevole e doloroso può
sconvolgerlo? E non può essere neppure un buon difensore o
salvatore della patria né proteggere gli amici se tende al piacere.
Dunque, il sommo bene deve salire fino a un luogo da cui nessu-
na forza possa farlo precipitare e a cui non abbiano accesso do-
lore speranza e timore né alcuna altra emozione che possa intac-
care il valore del sommo bene. Ma soltanto la virtù può salire fin
là. Dovrà vincere questa salita col suo passo, terrà duro e sop-
porterà ogni evento non con rassegnazione ma di buon grado,
ben sapendo che le avversità della vita sono una legge di natura
e, da buon soldato, sopporterà le ferite, conterà le cicatrici e, an-
che in punto di morte, trafitto dalle frecce, amerà il comandante
per cui è caduto. Avrà sempre in mente l’antica massima: segui
Dio. Invece chi si lamenta piange e si dispera è costretto a forza
a eseguire gli ordini ed è obbligato lo stesso a obbedire, anche
controvoglia. Ma che sciocchezza è questa di farsi trascinare in-
vece di seguire? Così, per Ercole, è stupidità e incoscienza della
propria condizione affliggerti se qualcosa ti manca o ti è difficile
da sopportare e stupirsi o indignarsi di quanto capita ai buoni
come ai malvagi: intendo malattie, lutti, infermità e tutte le altre
traversìe della vita umana. Affrontiamo dunque, con grande for-
za d’animo, tutto quello che per legge universale dobbiamo sop-
portare. È un dovere che siamo tenuti ad assolvere: accettare le
sofferenze umane e non lasciarsi sconvolgere da quello che non
è in nostro potere evitare. Siamo nati sotto una monarchia dove
obbedire a Dio è l’unica libertà possibile.

16. Dunque la vera felicità risiede nella virtù. Ma quali consigli


ti darà questa virtù? Di considerare bene solo ciò che è legato
alla virtù e male ciò che è legato alla malvagità. Poi di restare
ben saldo di fronte al male e al seguito del bene in modo da imi-
tare Dio nei limiti del possibile. E che premio ti promette per
questa impresa? Privilegi grandi e degni degli dèi: non sarai co-
stretto a nulla, non avrai bisogno di nulla, sarai libero sicuro e in-
violabile, non tenterai niente invano e non sarai mai ostacolato,
tutto andrà secondo il tuo desiderio, nulla ti sarà avverso né con-
trario al tuo intento e alla tua volontà. «Allora basta la virtù per
essere felici?» Perfetta e divina com’è perché non dovrebbe es-
sere sufficiente, anzi più che sufficiente? Cosa può mancare in-
fatti a chi è al di là di ogni desiderio? Di cosa può aver bisogno
dall’esterno chi ha raccolto tutto in se stesso? Ma chi ancora non
ha raggiunto la virtù, anche se ha fatto molta strada, ha bisogno
che la sorte gli sia benevola finché si dibatte in mezzo ai difetti
umani e non riesce a sciogliere questo nodo e ogni vincolo mor-
tale. Allora che differenza c’è? Che questi sono ben bene legati
stretti e incatenati e invece a chi ha cercato di arrivare più in al-
to si è allentata la catena e anche se non è ancora libero è come
se già lo fosse.

17. A questo punto qualcuno di quelli che abbaiano contro la


filosofia ripeterà il solito ritornello: «Perché c’è più coraggio
nei tuoi discorsi che nella tua vita? Perché abbassi la voce di
fronte ai superiori, consideri il denaro una necessità, ti lasci ab-
battere dalle sconfitte, piangi se ti muore la moglie o un amico,
ci tieni al tuo buon nome e sei sensibile alle insinuazioni? Per-
ché le tue terre producono più di quanto richiede la tua neces-
sità? Perché i tuoi pasti non sono coerenti con le tue teorie?
Perché hai suppellettili così raffinate? Perché a casa tua si beve
vino più vecchio di te? Perché ti sei fatto costruire un’uccellie-
ra? Perché hai fatto piantare alberi che daranno solo ombra?
Perché tua moglie porta appeso alle orecchie un valore pari a
tutto il patrimonio di un ricco casato? Perché i tuoi giovani
schiavi indossano vesti tanto eleganti? Perché a casa tua servi-
re a tavola è un’arte e non si dispone l’argenteria come capita
ma con estrema perizia e c’è addirittura un esperto per il taglio
delle vivande?». Se vuoi puoi anche proseguire: «Perché hai
proprietà oltre mare e non sai neppure quante? Ma che vergo-
gna: o sei così trasandato da non conoscere i pochi schiavi che
hai o sei talmente ricco che ne hai più di quanti puoi ricorda-
re». Più tardi rincarerò da me la dose e farò un elenco dei miei
difetti che neanche immagini, per ora ti risponderò così: non
sono saggio e (così mi do in pasto da solo alla tua ostilità) mai
lo sarò. È questo che puoi pretendere da me: non che io sia al-
l’altezza dei migliori, ma migliore dei peggiori. Mi basta toglie-
re un po’ di terreno ai miei vizi tutti i giorni e castigare i miei
difetti. Non sono guarito e non guarirò. Infatti non mi preparo
medicamenti per la gotta ma solo calmanti, ben contento se gli
attacchi sono meno frequenti e i dolori meno atroci. Certo, in
confronto alla vostra andatura, anche se debilitato, sono un ve-
locista. Ma non parlo per me che sono in un mare di vizi, parlo
per chi ha già raggiunto qualche risultato.

18. Dirai: «Parli in un modo e agisci in un altro». Ma questo,


lingue biforcute velenose e ostili alle persone più degne, è stato
contestato anche a Platone, a Epicuro e a Zenone. Dicevano
tutti di vivere non come loro vivevano ma come loro stessi
avrebbero dovuto. Parlo della virtù, non di me, e quando con-
danno i vizi, per primi condanno i miei. Appena potrò vivrò co-
me si deve. Non sarà la vostra velenosa malignità a dissuader-
mi dalle più alte ambizioni né il veleno che sputate addosso agli
altri, e che però uccide voi, mi impedirà di continuare a lodare
non la vita che conduco ma quella che so bene dovrei condur-
re, a onorare la virtù e a seguirla anche arrancando da lontano.
Forse dovrei sperare che scampi qualcosa a quella cattiveria
che non ha risparmiato neanche Rutilio e Catone?11 Ma vale
proprio la pena di non sembrare troppo ricco a chi pensa che
Demetrio, 12 il cinico, non è povero abbastanza? Anche di un
uomo così risoluto nella lotta contro tutte le esigenze naturali
e più povero di tutti gli altri cinici, perché non solo si privava di
possedere ma persino di chiedere, dicono che non è povero ab-
bastanza. Lo vedi da te: non ha professato la teoria della virtù
ma della povertà.

19. Di Diodoro,13 il filosofo epicureo che si è suicidato qualche


giorno fa, dicono che a tagliarsi la gola non ha rispettato gli inse-
gnamenti di Epicuro:14 c’è chi dice il suo gesto folle chi sconside-
rato. Intanto lui, beato, con la coscienza tranquilla ha lasciato
con la vita anche la sua testimonianza e ha lodato la quiete di

11
Rutilio Rufo (160-77 a.C.) fu uomo insigne per l’integrità dei costu-
mi e seguace dello Stoicismo. Esiliato ingiustamente, in segno di protesta
non volle tornare a Roma neanche quando Silla lo richiamò. Il suo nome è
più di una volta associato a quello di Catone nelle opere di Seneca.
12
Demetrio cinico, di lui Seneca cita spesso le massime.
13
Filosofo epicureo non altrimenti noto.
14
Epicuro non proibisce il suicidio al sapiente tuttavia non ne fa, come
gli stoici e Seneca in particolare, un cardine della sua dottrina.
tutta un’esistenza trascorsa ormeggiato nel porto. Ha pronuncia-
to parole che avete ascoltato malvolentieri, quasi vi si fosse chie-
sto di fare altrettanto:

Ho vissuto, ho compiuto il cammino che la sorte mi ha dato.

State a discutere della vita di uno, della morte di un altro e quan-


do sentite nominare qualcuno che ha meritato di essere ricono-
sciuto grande, abbaiate come cagnolini che sentono avvicinarsi
qualche estraneo. La verità è che vi fa comodo se non ne risulta
buono neanche uno perché vi sembra che la virtù degli altri rin-
facci delle colpe a voi. Per invidia paragonate la loro grandezza
alle vostre meschinità e non capite quanto vi danneggia la vostra
insolenza. Ora, se gli uomini che aspirano alla virtù sono avari
dissoluti e ambiziosi, che cosa siete mai voi che la virtù non sop-
portate neppure di sentirla nominare? Sostenete che nessuno di
loro fa quello che dice e non vive in conformità con le sue paro-
le. Non è strano: le loro sono parole eroiche grandiose e superio-
ri a tutte le tempeste umane. Anche se non riescono a staccarsi
dalle croci su cui ognuno di voi conficca i suoi chiodi, tuttavia,
quando sono condotti al supplizio, pendono ciascuno da un solo
palo.15 Invece questi che badano soltanto a se stessi, hanno una
croce per ogni passione. Ma i maldicenti si fanno belli a offende-
re gli altri. Potrei credere che non abbiano questo difetto se non
ci fosse chi sputa sul pubblico anche dalla forca.

20. «I filosofi non fanno quello che dicono.» E invece fanno già
molto a dire quello che dicono e che pensano onestamente. Se
poi il comportamento fosse all’altezza delle parole, chi sarebbe
più felice di loro? Intanto non sono da disprezzare le parole buo-
ne e l’animo colmo di buone intenzioni. Coltivare benefiche in-
clinazioni è comunque lodevole al di là del risultato. Niente di
strano se non arriva in cima chi ha tentato una scalata difficile.
Se sei un uomo guarda con rispetto a chi si cimenta in grandi
prove, anche se fallisce. Un animo nobile, senza contare sulle
proprie forze, ma su quelle che la sua natura gli può fornire, cer-

15
L’immagine non è chiara e tutto il brano di interpretazione incerta. Le
croci sono verosimilmente metafora degli attacchi contro chi coltiva la virtù.
ca di mirare in alto e di concepire progetti irrealizzabili per chi
non abbia un animo davvero grande. Chi si è proposto questo:
«guarderò in faccia la morte con lo stesso stato d’animo che ho
quando ne sento parlare, sopporterò qualsiasi fatica con forza
d’animo, disprezzerò le ricchezze, ci siano o non ci siano e non
sarò più triste o più superbo a seconda che brillino intorno a me
o altrove. Tratterò con indifferenza la sorte favorevole e quella
avversa. Guarderò tutte le terre come se fossero mie, le mie co-
me se fossero di tutti. Vivrò nella convinzione di essere nato per
gli altri e ringrazierò la natura per questo: come avrebbe potuto
agire meglio nel mio interesse? Ha dato me a tutti gli altri e tutti
gli altri a me solo. Se poi avrò qualcosa non sarò spilorcio ma
neanche scialacquatore. Crederò veramente mio quello che ho
fatto bene a donare e non valuterò i benefici dal numero o dal
peso ma dalla stima che avrò per chi li riceve: non sarà mai trop-
po quello che potrò dare a chi lo merita. Farò tutto secondo co-
scienza senza basarmi sull’opinione degli altri e, anche se sarò
solo io a sapere quello che faccio, mi comporterò come se tutti
mi potessero vedere. Mangerò e berrò soltanto per soddisfare i
miei bisogni naturali e non per riempirmi e svuotarmi lo stoma-
co. Sarò affabile con gli amici e mite e indulgente con i nemici.
Cercherò di prevenire ogni richiesta dignitosa e di anticipare
ogni preghiera. Considererò il mondo la mia patria e gli dèi la
mia guida, loro che sempre sono presenti e giudicano ogni mio
gesto e ogni mia parola. E quando la natura verrà a riprendersi
la mia anima o sarà la ragione a decidere di lasciarla libera,16 me
ne andrò potendo dire di aver sempre amato la rettitudine mo-
rale e i nobili intenti senza aver mai limitato la libertà di nessuno
e tanto meno la mia». Chi si prefiggerà questi obiettivi, deside-
rerà di raggiungerli e farà tutto il possibile, percorrerà la strada
che porta al cielo e, anche se non conquisterà la vetta,

tuttavia è caduto nel mezzo di una grande impresa.

Ma voi che odiate la virtù e chi la coltiva non fate davvero nien-
te di nuovo. Anche chi ha problemi agli occhi non sopporta la lu-
ce e gli animali notturni evitano lo splendore del giorno. Non ap-

16
Allusione al suicidio, ammesso dagli stoici.
pena sorge il sole corrono a nascondersi nelle loro tane e, per ti-
more della luce, si rifugiano in qualche fessura. Lagnatevi, spre-
cate il fiato a insultare i buoni, spalancate la bocca, mordete, vi
spezzerete i denti senza neppure lasciare il segno.

21. Com’è che quel tale è dedito alla filosofia eppure è tanto ric-
co? Perché dice che si devono disprezzare i beni materiali, però
ne ha, giudica spregevole la vita, però è vivo, spregevole la salu-
te, però cerca di preservarla con ogni riguardo e la desidera per-
fetta? E perché, ancora, giudica l’esilio una parola senza senso e
dice: «Che male c’è a cambiare paese?» però, se gli riesce, invec-
chia in patria? E ancora, sostiene che non c’è nessuna differenza
tra una vita lunga e una breve, però, se niente glielo impedisce,
cerca di vivere il più a lungo possibile e di mantenersi vigoroso e
sereno durante la lunga vecchiaia? Afferma che tutte queste so-
no cose spregevoli, non nel senso che non si debbano possedere
ma possedere senza ansie, non le respinge ma, se svaniscono, va
avanti tranquillo. D’altra parte la sorte dove meglio metterà al
sicuro le ricchezze se non dove potrà andarle a riprendere senza
che chi le restituisce si lamenti? Marco Catone, anche se lodava
Curio e Coruncanio17 e i bei tempi in cui possedere un po’ d’ar-
genteria era un reato punito dai censori, aveva di suo quattro mi-
lioni di sesterzi: senza dubbio meno di Crasso ma più di Catone
il censore. Per fare un paragone, aveva superato il bisnonno18 più
di quanto Crasso avesse superato lui e, se anche gli fosse capita-
to di entrare in possesso di altri beni, certo non li avrebbe rifiu-
tati. Infatti il saggio non crede di non meritare i doni della sorte:
non ama le ricchezze ma le accetta volentieri, le lascia entrare
nella sua casa non nella sua anima e non le respinge, anzi, le tie-
ne e fa in modo che offrano maggiori occasioni alla sua virtù.

22. Infatti non c’è dubbio che si presentino al saggio maggiori


occasioni di sviluppare le sue attitudini nella ricchezza che nella

17
Curio Dentato che sconfisse i Sanniti, i Sabini e Pirro divenne simbo-
lo di frugalità e di rispetto delle patrie virtù. Tiberio Coruncanio fu il pri-
mo pontefice massimo di origine plebea.
18
Catone il Censore (234-149) fu famoso per l’integrità dei costumi.
Era appunto il bisnonno di Catone l’Uticense.
povertà. Nella povertà l’unica possibile virtù sta nel non farsi
piegare o schiacciare, nella ricchezza, invece, hanno campo libe-
ro temperanza, generosità, accortezza, ordine e magnificenza. Il
saggio non avrà poca stima di sé se sarà di bassa statura, tuttavia
desidererà essere alto. Anche se gracile e privo di un occhio
manterrà la consapevolezza del suo valore, preferirà tuttavia es-
sere robusto, senza però dimenticare che i valori che ha in sé so-
no ben altri. Sopporterà la malattia ma si augurerà la salute. In-
fatti ci sono molte cose che, anche se nel complesso risultano di
poco conto e possono venire a mancare senza danno per il bene
principale, tuttavia procurano qualche vantaggio alla serenità
duratura che deriva dalla virtù. Così le ricchezze sono gradite al
saggio: come un vento favorevole ai naviganti, come una giorna-
ta di sole nel freddo dell’inverno. E poi nessuno tra i sapienti (in-
tendo fra i nostri per cui la virtù è l’unico vero bene) sostiene
che anche questi vantaggi, che definiamo indifferenti, non abbia-
no un loro proprio valore e che alcuni non siano preferibili ad
altri: li consideriamo di maggiore o minore pregio. Non ti ingan-
nare: la ricchezza è tra i vantaggi più desiderabili. «Allora» dirai
«perché mi deridi se per te ha la stessa importanza che per me?»
Vuoi vedere che non è proprio la stessa importanza? Se le mie
ricchezze dovessero svanire, non mi porteranno via altro che lo-
ro stesse, tu, invece, resterai stordito e ti sentirai privato di te
stesso, se ti dovessero abbandonare: per me le ricchezze hanno
una certa importanza, per te una grandissima. Infine le ricchezze
appartengono a me, tu, al contrario, appartieni a loro.

23. Smettila, dunque, di vietare ai filosofi di possedere denaro:


nessuno ha condannato la saggezza alla povertà. Il filosofo potrà
possedere grandi ricchezze purché non siano rubate, macchiate di
sangue, frutto di ingiustizie o di sporchi guadagni. Le uscite siano
pulite come le entrate in modo che nessuno, a parte i maligni, si
potrà lamentare. Accumulane quante ne vuoi: sono pulite perché
non ce ne sarà nessuna che qualcuno potrebbe dir sua, anche se ce
ne saranno molte che chiunque vorrebbe dir sue. Di certo il saggio
non respingerà il favore della sorte e non si vanterà né si vergo-
gnerà di un patrimonio onestamente acquisito. E avrà anche mo-
tivo di vantarsi se, aperta la sua casa e invitata tutta la città a vede-
re i suoi beni, potrà dire: «se uno di voi riconosce qualcosa di suo
se lo porti via». O uomo davvero grande e giustamente ricco, se
dopo questo invito avrà quello che aveva prima! Voglio dire che,
se in piena tranquillità e senza preoccupazioni avrà consentito al
popolo di indagarlo e se nessuno avrà trovato nulla da rivendica-
re, allora potrà essere ricco con orgoglio e a testa alta. Il saggio
non lascerà entrare in casa sua danaro sospetto ma, con lo stesso
criterio, non rifiuterà di certo ricchezze, anche grandi, dono della
sorte e frutto della virtù. Perché poi dovrebbe privarle di una de-
gna sistemazione? Vengano pure: saranno ben accette. Non le
ostenterà ma neanche le terrà nascoste: in un caso è da sciocchi,
nell’altro da meschini e pusillanimi che credono di avere per le
mani un gran bene però, come ho già detto, non le metterà alla
porta. Cosa dovrebbe dire: «Siete inutili» o forse «io non sono ca-
pace di amministrare le ricchezze?». Come, anche potendo fare
un percorso a piedi, preferirà farlo su un mezzo, così non vorrà
certo essere povero se potrà essere ricco. Ma terrà le sue ricchezze
consapevole che sono leggere e volatili e non lascerà che diventi-
no un peso né per gli altri né per sé. Sarà generoso, non drizzate le
orecchie non stendete la mano, sarà generoso con chi ne è degno
o con chi ha la possibilità di diventarlo, scegliendo con la massima
cura i più meritevoli perché sa che bisogna render conto sia delle
uscite che delle entrate. Sarà generoso nelle giuste occasioni, in-
fatti un dono sbagliato è un inutile spreco, avrà la manica larga
non le mani bucate da cui esce molto ma niente va perso.

24. Sbaglia chi pensa che donare sia facile: tutt’altro, presenta
grandi difficoltà se lo si fa in modo sensato e non a caso o per
istinto. Con qualcuno vado a credito, con qualcun altro mi sdebi-
to, a questo vengo incontro, di questo, invece, ho compassione.
Do un aiuto a quell’altro che non merita che la fame gli impedi-
sca di pensare, a questo invece non darò proprio niente anche se
ne avrebbe bisogno perché, per quanto possa dargli, gli man-
cherà sempre qualcosa. Con qualcuno poi mi limiterò a offrire,
altri insisterò perché accettino. Non posso dare con leggerezza
perché quando dono faccio il mio migliore investimento. Dirai:
«Allora dai per ricevere?». «No, per non perdere»: si deve fare
in modo che un dono non debba essere rinfacciato ma possa es-
sere restituito. Il favore va trattato come un tesoro che si tiene
gelosamente nascosto e non si tira fuori se non è proprio neces-
sario. E poi anche la casa stessa dell’uomo ricco offre infinite oc-
casioni di fare del bene. Chi dice che bisogna essere generosi so-
lo con la gente di rango? La natura mi impone di fare del bene
agli uomini, schiavi o liberi che siano, nati liberi o no. Che diffe-
renza fa se è una libertà legale o concessa per amicizia? Dove
c’è un uomo c’è anche la possibilità di fare del bene. Si possono
fare elargizioni in danaro anche tra le mura di casa ed esercitare
la liberalità, che non si chiama così perché è rivolta a uomini li-
beri ma perché scaturisce da un animo libero. L’uomo saggio non
rivolge mai la sua generosità verso chi non la merita, ma la sua
fonte è inesauribile ogni volta che incontra qualcuno che invece
la merita. Pertanto, non è possibile che fraintendiate le parole
rette forti e coraggiose di colui che persegue la saggezza. Ma sta-
te bene attenti: una cosa è cercare di diventare saggi e un’altra
esserlo. Quello dirà: «Parlo bene ma mi dibatto ancora tra mol-
tissime difficoltà. Non mi puoi mettere a confronto con i miei
princìpi quando io faccio del mio meglio, cerco di migliorare e
aspiro a un ideale davvero grande. Solo quando avrò fatto i pro-
gressi che ho intenzione di fare potrai confrontare quello che di-
co con quello che faccio». Chi invece sarà arrivato alla perfezio-
ne parlerà diversamente: «Prima di tutto non ti puoi permettere
di dar giudizi su chi è migliore di te». Finisco per essere malvisto
dai malvagi e già questa è la prova che sono nel giusto. Ma per
darti una spiegazione, che non si nega a nessuno, ascolta quello
che sto per dirti e che valore do io a ciascuna cosa. Dico che le
ricchezze non sono beni: se lo fossero farebbero diventare buo-
ni. Ora, mi rifiuto di definire bene ciò che si può trovare anche
tra persone malvagie. D’altra parte sono convinto che posseder-
le sia lecito, utile e che migliori la qualità della vita.

25. Allora ascoltate perché non includo le ricchezze fra i beni e


perché il mio comportamento nei riguardi di queste è così diver-
so dal vostro (ormai che si è convenuto che possederle è lecito).
Mettimi in una casa che più ricca non si può, dove non si fa diffe-
renza tra oro e argento: non penserò per questo di valere di più.
Infatti le ricchezze stanno intorno a me, non sono parte di me.
Ora cambiami di posto e sbattimi sul ponte Sublicio in mezzo ai
poveri: non penserò per questo di valere di meno solo perché sto
in mezzo a quelli che chiedono l’elemosina. E allora, cosa cam-
bia? Non hanno un tozzo di pane ma non gli è tolto di poter vive-
re. In conclusione, preferisco una casa splendida a un ponte. Cir-
condami di mobili pregiati, di raffinate suppellettili, non mi cre-
derò più fortunato perché posso adagiarmi sul morbido o perché
faccio sedere i miei convitati sulla porpora. Cambiami il materas-
so: non sarò più infelice se potrò distendere le membra stanche
sopra un po’ di fieno o se potrò dormire su un pagliericcio da cir-
co che magari perde l’imbottitura dai rammendi della tela vec-
chia. Anche qui, preferisco esprimere il mio parere calzato e ve-
stito. Supponiamo che tutti i miei giorni si susseguano secondo le
mie speranze e che nuove gioie subentrino sempre alle preceden-
ti, non per questo mi compiacerò di me stesso. Ribalta ora questa
favorevole situazione e il mio animo sia colpito da ogni parte da
disgrazie, lutti e avversità di ogni genere. Ogni istante sia nuovo
motivo di pianto: non per questo penserò di essere infelice, pur in
mezzo ad avvenimenti così infelici, non maledirò neanche un
giorno della mia vita. Ho predisposto il mio animo in anticipo in
modo che anche il giorno più tetro non riuscisse a turbarlo. Co-
munque preferisco dover moderare il piacere che lenire il dolore.
Dirà Socrate: «Immaginami vincitore di tutto il mondo mentre
l’elegante carro di Libero mi porta in trionfo dall’Oriente fino a
Tebe, immagina tutti i re che mi consultano: non dimenticherò
che sono un uomo proprio mentre mi osannano come un dio. Di
colpo, da queste altezze, fammi precipitare nella più profonda ro-
vina: caricami su un carretto come ornamento per la parata di un
vincitore fiero e superbo. Non mi riterrò più umile dietro al carro
di un altro di quando stavo in piedi sul mio. Però preferisco vin-
cere che esser fatto prigioniero. Disprezzerò la sorte con tutti i
suoi domini ma, se mi sarà permesso di scegliere, prenderò il me-
glio. Qualsiasi cosa mi capiterà sarà un bene per me, ma sarà me-
glio se si tratterà di eventi lieti e piacevoli e che procurino il mi-
nor numero di disagi. Certo non crederai esista una virtù senza
fatica, solo che con alcune virtù servono sproni, con altre freni.
Nello stesso modo c’è bisogno in discesa di trattenere il corpo, di
spingerlo in salita. Non c’è dubbio che costanza, tenacia e perse-
veranza comportino fatica, sforzo e resistenza come qualsiasi al-
tra virtù che si opponga alle avversità e tenti di piegare la sorte.
Ed è altrettanto chiaro che liberalità, temperanza e mansuetudi-
ne vanno in discesa. Qui dobbiamo frenare l’animo perché non
scivoli, là dobbiamo spingerlo e incitarlo con forza. Dunque per
la povertà dovremo utilizzare le virtù più forti nella lotta, per le
ricchezze quelle più prudenti, che procedono con cautela e che
non perdono l’equilibrio. Stabilita questa differenza, preferisco
avere a che fare con quelle che possono essere coltivate in tran-
quillità invece che con quelle che richiedono sudore e sangue. In-
somma (dice il saggio) non sono io che parlo in un modo e vivo
in un altro, siete voi che capite una cosa per un’altra: sentite solo
il suono delle parole senza comprenderne il senso».

26. «Che differenza c’è, allora, tra me sciocco e te saggio se tutti


e due miriamo al possesso?» Enorme: infatti le ricchezze sono al
servizio del saggio e al comando dello sciocco. Il saggio non per-
mette niente alle ricchezze, quelle a voi tutto. Voi, come se qual-
cuno ve ne avesse assicurato il possesso eterno, ci fate l’abitudi-
ne e vi ci attaccate, invece il saggio pensa alla povertà proprio
quando si trova in mezzo alla ricchezza. Mai un generale si fida
della pace al punto da non tenersi pronto per una guerra che an-
che se non si combatte ancora è già dichiarata. Basta a farvi di-
ventare arroganti una bella casa, come se non potesse andare a
fuoco o crollare. Le ricchezze vi inebriano perché pensate possa-
no superare qualsiasi ostacolo e che la sorte non abbia armi per
annientarle, così invincibili come sembrano a voi. Spensierati ve
la spassate tra le ricchezze senza nessun presentimento del peri-
colo, come fanno di solito i barbari assediati che, non conoscen-
do l’uso delle macchine da guerra, stanno a guardare indifferen-
ti l’affaccendarsi degli assedianti e non capiscono a cosa servono
quelle costruzioni realizzate a distanza. Così succede a voi: vi in-
fiacchite in mezzo ai vostri averi e non pensate a quante sventu-
re incombono da ogni parte e stanno già per strapparvi la pre-
ziosa preda. Chiunque potrà portare via le ricchezze all’uomo
saggio ma non togliergli i suoi veri beni perché egli vive lieto nel
presente e incurante del futuro. Dice Socrate o un altro di pari
autorevolezza, se si parla di vicende umane: «Ho una profonda
convinzione: il mio comportamento non può essere condiziona-
to dai vostri giudizi. Rivolgetemi i soliti attacchi, non penserò
che mi insultate ma che piagnucolate come lattanti». Parlerà co-
sì chi ha raggiunto la saggezza perché, libero da vizi, si sente
spinto a rimproverare gli altri e non per astio ma anzi a fin di be-
ne. E aggiungerà: «Le vostre critiche mi colpiscono ma non per
me, per voi, perché se continuate a imprecare contro la virtù e a
perseguitarla allora non vi rimane nessuna speranza. A me non
fate nessun affronto. Infatti neppure chi distrugge gli altari fa
torto agli dèi, ma sono chiare le sue cattive intenzioni anche se
non può nuocere. Tollero le vostre idiozie come Giove Ottimo
Massimo le sciocchezze dei poeti: uno gli mette le ali, un altro le
corna, un altro ancora lo rappresenta come un adultero che va in
giro di notte, uno implacabile con gli dèi, un altro iniquo con gli
uomini e ancora uno sequestratore di uomini liberi e perfino di
parenti, un altro parricida e usurpatore del regno paterno.19 A
credere tali gli dèi, non hanno fatto altro che togliere agli uomini
il pudore del peccato. Ma anche se neppure mi scalfite lo dico
per voi: guardate con ammirazione alla virtù, fidatevi di quelli
che, dopo averla perseguita a lungo, affermano che si tratta di
qualcosa di grande e che diventa ogni giorno più grande. Anzi
veneratela come gli dèi e venerate i suoi maestri come i sommi
sacerdoti e tutte le volte che saranno nominati i testi sacri accon-
sentite in silenzio. Questo modo di dire non va inteso (come cre-
dono i più) nel senso di acconsentire davvero, semplicemente
impone il silenzio in modo che il rito si possa celebrare secondo
le regole e senza schiamazzi oltraggiosi. Infatti è davvero neces-
sario che vi sia imposto, così, quando l’oracolo darà qualche re-
sponso, potrete ascoltare con attenzione e a bocca chiusa. Quan-
do qualcuno agita il sistro e racconta frottole su commissione,
quando qualche impostore finge di ferirsi le membra e si insan-
guina appena appena braccia e spalle, oppure quando una don-
na si trascina per strada sulle ginocchia e urla o un vecchio bar-
dato di lino e di alloro, con in mano una lucerna, in pieno giorno,
grida che qualche dio è adirato, voi accorrete e siete pronti a giu-
rare che è ispirato dagli dèi alimentando così uno lo sbalordi-
mento dell’altro».20

19
Allusione al celebre trasformismo di Giove che sedusse Leda sotto le
spoglie di un cigno, Europa sotto quelle di un toro. Tra i numerosi adulteri
si ricorda quello con Alcmena da cui nacque Ercole. E ancora Giove rapi-
tore di Ganimede e usurpatore del trono e uccisore del padre Saturno.
20
Il sistro veniva usato nelle cerimonie in onore di Iside; i coribanti, se-
guaci di Cibele, si incidevano le braccia. Seneca rimpovera la stupidità del-
la superstizione.
27. Ed ecco Socrate che dal carcere purificato dalla sua presen-
za e reso più onorabile di qualsiasi curia, proclama: «Che follia è
questa, che istinto avverso agli uomini e agli dèi, di disonorare la
virtù e con voci maligne profanare cose sacre? Se potete lodate
le persone virtuose, se non potete astenetevi. Se però vi piace far
mostra della vostra vergognosa insolenza insultatevi fra voi.
Quando vi infuriate contro il cielo, non dico che commettete
un’empietà ma che sprecate fatica. Un tempo ho dato modo ad
Aristofane21 di prendersi gioco di me. Tutta quella banda di poe-
ti comici mi ha scagliato contro le sue battute velenose: ma la
mia virtù ha acquistato splendore proprio grazie ai colpi che
hanno cercato di ferirla. Infatti le ha giovato essere messa in mo-
stra e alla prova e nessuno ne ha capito il valore come chi, non
dandole tregua, ne ha sperimentato la forza. Nessuno come i ta-
gliapietre conosce la durezza della roccia. Dimostro di essere co-
me uno scoglio solo in mezzo a una secca che le onde flagellano
continuamente da ogni parte, ma neanche secoli di ripetuti as-
salti possono smuoverlo o scalfirlo. Assalitemi dunque, attacca-
temi: vi vincerò sopportandovi. Chi si scaglia contro uno scoglio
irremovibile e insuperabile rivolge la forza a suo danno. Perciò
cercate un bersaglio molle e cedevole dove conficcare le vostre
frecce. Ma voi avrete il tempo di andare a scovare i difetti degli
altri e di dar giudizi su chiunque: “Perché questo filosofo ha una
casa così grande? Perché questo offre pranzi così eleganti?”. Sta-
te a guardare i brufoli degli altri e voi siete pieni di piaghe. È co-
me se uno divorato da una scabbia tremenda deridesse nei e ver-
ruche in un corpo perfetto. Biasimate Platone perché ha mirato
al danaro, Aristotele perché lo ha accettato, Democrito perché
non l’ha tenuto in nessun conto, Epicuro perché ne ha fatto spre-
co. Anche a me rinfacciate Alcibiade e Fedro,22 però sareste feli-
cissimi appena vi capitasse di imitare i miei vizi. Perché piuttosto
non guardate ai vostri difetti che vi assillano, a volte colpendo
dall’esterno a volte bruciandovi nelle viscere. Non dura così a

21
È il più grande rappresentante della antica commedia greca (450-358
a.C.), che si prese gioco di Socrate, soprattutto nell’opera Le nuvole. Ana-
loghi attacchi gli furono mossi da Eupoli e da altri commediografi.
22
Discepoli di Socrate. Non risulta chiaro il rimprovero: si allude forse
all’omosessualità.
lungo la vita umana (anche se voi non siete consapevoli della vo-
stra condizione) da lasciare il tempo per dar fiato ai denti offen-
dendo chi è migliore di voi».

28. Questa è una cosa che voi non capite e assumete un atteg-
giamento che non si addice alla vostra condizione, come tutti
quelli che stanno senza far nulla al circo o a teatro e ancora non
sanno che, intanto, la loro casa è in lutto. Ma io, che guardo dal-
l’alto, vedo quante tempeste minacciano di rovesciarsi a mo-
menti su di voi con i loro nembi o, ormai vicinissime, stanno per
trascinare via voi e le vostre ricchezze. E non tra poco, già ora,
anche se non ve ne accorgete, un vortice travolge le vostre ani-
me che anche mentre cercano di sfuggire non rinunciano ai lo-
ro desideri e, ora vengono sollevate in alto, ora sprofondate
nell’abisso.23

23
L’ultima parte dell’opera è perduta.
LA VITA RITIRATA*

1. *** Ci raccomandano unanimemente i vizi. Ammesso pure


che noi non cerchiamo nient’altro che giovi alla nostra salute,
sarà utile, tuttavia, di per se stesso tirarsi in disparte: soli, sare-
mo migliori. Che dire del fatto che è possibile ritirarsi presso
gli uomini migliori e scegliere qualche esempio in base al quale
regolare la propria vita? Questo non avviene se non nella vita
ritirata: allora si può mantenere ciò che una volta si è deciso,
quando non si presenta nessuno che, con il concorso della mol-
titudine, svii il giudizio ancora debole; allora la vita, che noi
frammentiamo nell’estrema diversità dei nostri propositi, può
procedere in modo coerente e uniforme. Tra gli altri mali, infat-
ti, il peggiore è quello per cui cambiamo i vizi stessi. Così non
ci riesce neppure di persistere in un male ormai abituale. Ci
piace una cosa dopo l’altra e ci tormenta pure il fatto che i no-
stri giudizi non solo sono erronei, ma anche mutevoli: oscillia-
mo e afferriamo una cosa dopo l’altra, abbandoniamo ciò che
pure abbiamo cercato di avere, riprendiamo quello che abbia-
mo abbandonato: è un continuo avvicendamento tra il nostro
desiderio momentaneo e il relativo pentimento. Dipendiamo
totalmente, infatti, dai giudizi altrui e ci appare come la cosa
migliore quella a cui molti aspirano e che molti elogiano, non
quella che è giusto elogiare e cercare di conseguire, né valutia-
mo una via buona o cattiva di per se stessa, ma badando alla
moltitudine di impronte che presenta, tra le quali nessuna è di
persona che torni indietro.

* Tratto da: Seneca, La fermezza del saggio. La vita ritirata, Bur, Milano
2001. Traduzione e note di Nicola Lanzarone
Mi dirai: «Che dici, Seneca? Abbandoni il tuo partito? Certo i
vostri stoici affermano: “Fino al termine ultimo della vita sare-
mo impegnati nell’agire, non smetteremo di servire il bene co-
mune, di aiutare i singoli, di portare aiuto anche ai nemici perso-
nali pur con la debole mano dei vecchi. Noi siamo quelli che non
danno il congedo a nessuna età della vita, e, come dice quell’uo-
mo dotato di grandissima eloquenza,

nascondiamo sotto l’elmo la canizie;

noi siamo quelli presso i quali non c’è spazio alcuno per l’ozio pri-
ma della morte fino a tal punto che, se le circostanze lo permetto-
no, neppure la morte è inoperosa”. Perché ci parli di precetti epi-
curei tra i princìpi stessi di Zenone? Perché, se ti rincresce il tuo
partito, non passi completamente all’altro piuttosto che tradir-
lo?». Per il momento ti risponderò così: «Pretendi forse da me an-
cor di più che mostrarmi simile alle mie guide? Che, dunque? Io
andrò non dove esse mi manderanno, ma dove mi condurranno».

2. Ora ti dimostrerò che io non mi distacco dai precetti degli


stoici; neppure essi, infatti, deviarono dai loro insegnamenti, e
tuttavia avrei tutte le scuse anche se non seguissi i loro precetti,
ma i loro esempi. Ciò che affermo lo dividerò in due parti: pri-
mo, che addirittura sin dalla giovinezza uno possa darsi total-
mente alla contemplazione della verità, ricercare una regola di
vita e praticarla in disparte; poi, che possa farlo a buon diritto e
possa indirizzare agli altri l’operosità del proprio animo uno che
ha già compiuto il servizio militare ed è in età avanzata, come è
costume delle vergini Vestali,1 le quali, avendo ripartito gli anni
tra doveri differenti, imparano a fare i sacrifici e, una volta che li
hanno imparati, li insegnano.

3. Mostrerò che anche gli stoici approvano questa condotta, non


perché io mi sia imposto la regola di non fare nulla contro il ver-

1
Le Vestali erano sacerdotesse della dea Vesta, scelte dal pontefice
massimo tra le fanciulle dell’aristocrazia dai sei ai dieci anni di età. Il loro
sacerdozio durava trent’anni: dieci come allieve, dieci come ministre del
culto, dieci come maestre.
bo di Zenone o di Crisippo, ma perché l’argomento stesso mi
permette di aderire al loro parere, dato che, se si segue sempre
quello di uno solo, non si è più in senato, ma in una fazione. Vo-
lesse il cielo davvero che sapessimo già tutto e la verità fosse
chiara e indubitata e in nulla cambiassimo la dottrina! Ma ora
noi cerchiamo la verità con quelli stessi che la insegnano.
Le due scuole degli epicurei e degli stoici sono in grandissimo
dissenso anche su questo argomento, ma entrambe, per vie di-
verse, indirizzano alla vita appartata. Epicuro dice: «Il saggio
non prenderà parte alla vita dello Stato, a meno che non inter-
venga qualche novità straordinaria»; Zenone dice: «Prenderà
parte alla vita dello Stato, a meno che qualche ostacolo non glie-
lo impedisca». L’uno cerca la vita ritirata di proposito, l’altro per
un motivo particolare; ma quel motivo è molto ampio. Se lo Sta-
to è troppo corrotto perché lo si possa soccorrere, se è nelle ma-
ni dei malvagi, il saggio non si adopererà invano né si sacrifi-
cherà senza poter minimamente essere utile; se avrà poca auto-
rità o scarse forze e lo Stato non sarà intenzionato ad accoglier-
lo, se la cattiva salute lo ostacolerà, come non calerebbe in mare
una nave sconquassata, come non si arruolerebbe per il servizio
militare essendo invalido, così non intraprenderà una strada che
saprà essere per lui impraticabile. Anche colui, dunque, cui tutto
è ancora impregiudicato, prima di sperimentare alcuna sciagura,
può rimanere al sicuro e darsi subito alla virtù e trascorrere una
vita completamente ritirata, coltivando le virtù che possono es-
sere praticate pure da chi si tiene del tutto lontano dalla vita
pubblica. All’uomo si richiede appunto questo, che giovi agli al-
tri uomini; se è possibile, a molti, se no, a pochi, se neanche que-
sto può avvenire, giovi a chi gli è più vicino, se non è possibile, a
se stesso. Difatti, quando si rende utile agli altri, compie un’ope-
ra di interesse comune. Come chi diventa peggiore è dannoso
non solo a sé, ma anche a tutti coloro ai quali avrebbe potuto
giovare, se fosse diventato migliore, così chiunque renda un
buon servizio a sé, per ciò stesso giova agli altri, poiché prepara
un uomo che in futuro potrà essere loro utile.

4. Rappresentiamoci con la mente due repubbliche, l’una gran-


de e veramente pubblica, che contiene in sé gli dèi e gli uomini,
nella quale non guardiamo a questo o a quell’angolo, ma con il
corso del sole misuriamo i confini della nostra città, l’altra, alla
quale ci ha assegnati il destino della nostra nascita; questa sarà
la repubblica o degli Ateniesi o dei Cartaginesi o di qualche al-
tra città che non appartiene a tutti, ma solo a certi uomini. Alcu-
ni si applicano nello stesso tempo ad ambedue le repubbliche,
alla maggiore e alla minore, altri soltanto alla minore, altri anco-
ra soltanto alla maggiore. A questa repubblica più grande pos-
siamo dedicarci anche conducendo vita ritirata, anzi, per la ve-
rità, non so se meglio proprio in una vita ritirata, di modo che ri-
cerchiamo che cosa sia la virtù, se sia una soltanto o più di una,
se sia la natura o la scienza morale a formare uomini virtuosi; se
sia unico questo mondo che abbraccia i mari e le terre e ciò che
il mare e le terre contengono in sé, oppure dio abbia dissemina-
to il cosmo di molti corpi siffatti; se la materia, da cui nasce la to-
talità delle cose esistenti, sia del tutto continua e piena, o discon-
tinua, e il vuoto sia mescolato ai corpi solidi; quale sia la sede
della divinità, se contempli la sua opera o la governi, se la circon-
di dall’esterno, o la pervada di sé tutta quanta; se il mondo sia
immortale, o debba essere annoverato tra le cose passeggere e
destinate a esistere per un tempo limitato. Che cosa dà a dio chi
contempla queste realtà? Che le sue opere tanto grandi non ri-
mangano senza testimone.

5. Siamo soliti dire che il sommo bene è vivere secondo natura:


la natura ci ha generati per entrambi questi fini, la contempla-
zione della realtà e l’azione. Dimostriamo ora ciò che abbiamo
affermato per primo. E che dire, inoltre? Questo non risulterà
dimostrato, se ciascuno si chiederà quanto grande sia il suo desi-
derio di conoscere l’ignoto, come si desti la sua attenzione a tutti
i racconti? Taluni navigano e sopportano le sofferenze di un lun-
ghissimo viaggio per il solo guadagno di conoscere qualcosa di
nascosto e remoto. Questo impulso naturale raccoglie i popoli
agli spettacoli, induce a scrutare ciò che è precluso, a indagare le
cose più nascoste, a studiare l’antichità, a sentire raccontare i co-
stumi dei popoli stranieri. La natura ci ha dato un carattere cu-
rioso, e, consapevole della sua abilità e bellezza, ci ha generati
come osservatori di sì grandi spettacoli naturali: sprecherebbe il
frutto della sua opera, se mostrasse ad un deserto realtà tanto
grandi, tanto splendide, foggiate così minuziosamente, tanto niti-
de e belle nella diversità dei loro generi. Affinché tu sappia che
essa ha voluto che noi la contemplassimo, non soltanto la guar-
dassimo, vedi quale posto ci ha assegnato: ci ha collocati nella
sua parte centrale e ci ha concesso la facoltà di guardarci tutt’in-
torno; non solo ha dato all’uomo la statura eretta, ma per ren-
derlo anche atto alla contemplazione, perché potesse seguire gli
astri nel loro corso dal sorgere al tramontare e volgere intorno il
suo sguardo insieme con tutto l’universo, lo ha dotato di una te-
sta elevata e l’ha posta su di un collo flessibile; poi, facendo
avanzare sei costellazioni zodiacali di giorno e sei di notte, ha di-
spiegato ogni sua parte, di modo che, attraverso queste realtà of-
ferte alla vista dell’uomo, gli accendesse il desiderio di conosce-
re anche le altre. E infatti non vediamo tutti i corpi, né tanto
grandi quanto in effetti sono, ma la nostra vista si apre la strada
della ricerca e pone le basi per la conoscenza della verità, perché
l’indagine passi dalle realtà manifeste a quelle oscure e scopra
qualcosa di più antico del mondo stesso: da dove siano venute
fuori queste stelle; quale sia stata la condizione dell’universo pri-
ma che i singoli elementi si dividessero in parti; quale intelligen-
za abbia distinto le cose sommerse e confuse; chi abbia assegna-
to alle cose il loro posto, se per propria natura quelle pesanti sia-
no discese, e le leggere si siano levate in alto, oppure, oltre al-
l’impulso e al peso dei corpi, qualche forza superiore abbia im-
posto ad ogni singola cosa la sua legge; se sia veritiero quell’ar-
gomento col quale soprattutto si dimostra che gli uomini sono
dotati di spirito divino, che, cioè, una parte, certe scintille degli
astri – per così dire – siano saltate giù sulla terra e si siano fissate
in luogo estraneo. Il nostro pensiero penetra nei baluardi del cie-
lo e non si accontenta di conoscere ciò che si manifesta: «Esplo-
ro – dice – quello che si estende al di là del cosmo, se sia una
profonda vastità oppure anch’esso sia chiuso entro i suoi confi-
ni; quale sia la condizione delle realtà poste fuori dall’universo,
se siano informi e confuse, ed occupino il medesimo spazio in
qualsiasi direzione, o anch’esse siano distribuite secondo un or-
dine; se siano aderenti a questo mondo, o ne siano separate e di-
stanziate, mentre questo ruota nel vuoto; se siano indivisibili gli
elementi con cui si costituiscono tutte le cose che sono e che sa-
ranno, o la loro materia sia continua e mutevole nella sua inte-
rezza; se gli elementi siano contrari tra loro, oppure, senza che
l’uno contrasti l’altro, concorrano per vie diverse allo stesso fi-
ne». Considera quanto poco tempo abbia ricevuto l’uomo, nato
per indagare queste realtà, anche se lo reclama tutto per sé. Am-
messo che egli non consenta che nemmeno un po’ di tempo gli
sia sottratto per leggerezza, che nemmeno un po’ si perda per
sua trascuratezza, ammesso che sorvegli con la massima ocula-
tezza le sue ore e avanzi negli anni fino a raggiungere il termine
ultimo della vita umana e la fortuna non gli turbi in nulla ciò che
la natura ha per lui stabilito, è, tuttavia, troppo mortale per la
piena conoscenza delle cose immortali. Dunque io vivo secondo
natura se ad essa mi sono completamente dedicato, se sono suo
ammiratore e cultore. La natura, d’altronde, ha voluto che io fa-
cessi entrambe le cose, sia agire che applicarmi alla contempla-
zione: faccio l’uno e l’altro, poiché neppure la contemplazione
ha luogo senza azione.

6. «Ma quel che importa» dici «è se ad essa ti sia dedicato per


diletto, senza pretendere da essa nient’altro che una ininterrotta
contemplazione senza un risultato; è piacevole, infatti, e ha le
sue attrattive.» Di contro a questo argomento ti rispondo così:
ugualmente importa con quale animo tu conduci vita pubblica,
se sei sempre agitato e non ti concedi mai un po’ di tempo in cui
possa rivolgere l’attenzione dalle questioni umane a quelle divi-
ne. Come non è affatto lodevole tendere a cose concrete senza
amore alcuno delle virtù e senza cura della propria mente, e li-
mitarsi al puro e semplice operare (questi due aspetti, infatti, de-
vono essere congiunti e intrecciati), così è un bene imperfetto e
fiacco la virtù confinata in un ritiro inattivo, che non dimostra
mai ciò che ha imparato. Chi nega che essa deve dar prova dei
suoi progressi operando, e non solo pensare che cosa sia dovero-
so fare, ma anche talvolta agire praticamente e tradurre in realtà
ciò che ha meditato? Se l’ostacolo non è dovuto al saggio stesso,
se non manca chi agisca ma mancano le cose da compiere, gli
permetterai allora di starsene appartato con se stesso? Con qua-
le animo il saggio si ritira a vita privata? Con l’animo di chi sa
che anche allora farà ciò per cui risulti utile ai posteri. Noi, certo,
siamo quelli che dicono che Zenone e Crisippo hanno compiuto
imprese più grandi che se avessero guidato eserciti, ricoperto ca-
riche pubbliche, proposto leggi; ne proposero, non per una sola
città, ma per l’intera umanità. Che motivo c’è, dunque, che non
si addica all’uomo virtuoso un ritiro siffatto, per cui regoli le ge-
nerazioni future e non pronunci un pubblico discorso dinanzi a
pochi ascoltatori, ma di fronte a tutti gli uomini di tutti i popoli,
che sono e che saranno? Insomma, ti domando se Cleante e Cri-
sippo e Zenone siano vissuti secondo i loro precetti. Senza dub-
bio mi risponderai che essi vissero così come avevano detto che
bisogna vivere: eppure nessuno di loro governò uno Stato. «Non
ebbero» dici «quella fortuna e quella posizione2 sociale che soli-
tamente consentono di essere ammessi alla gestione dei pubblici
affari.» Ma gli stessi, nondimeno, non condussero una vita ino-
perosa: trovarono il modo con cui la loro quiete giovasse agli uo-
mini più del correre qua e là e delle fatiche degli altri. Cionono-
stante, dunque, sembrò che molto avessero fatto, pur senza svol-
gere alcuna attività pubblica.

7. Inoltre, tre sono i generi di vita, tra i quali di solito si indaga


quale sia il migliore: il primo è dedito al piacere, il secondo alla
contemplazione, il terzo all’azione. Anzitutto, dopo aver abban-
donato la contesa e l’implacabile avversione che abbiamo di-
chiarato a coloro che seguono indirizzi diversi dal nostro, ve-
diamo come tutti questi, sia pure a diverso titolo, giungano allo
stesso risultato: né chi approva il piacere è privo della contem-
plazione, né chi si dedica alla contemplazione è senza piacere,
né chi conduce una vita destinata all’agire è privo della con-
templazione. «C’è una grandissima differenza» dici «se una co-
sa è lo scopo prefissato o l’aggiunta ad un’altra che è il nostro
vero proposito.» Ammettiamo pure che ci sia una grande diffe-
renza, tuttavia l’uno non ha luogo senza l’altro: né quello si ap-
plica alla contemplazione senza agire, né questi opera senza
contemplare, né quel terzo,3 sul quale abbiamo condiviso un
giudizio negativo, apprezza un piacere inattivo, ma quel piace-
re che egli con il raziocinio rende a sé stabile; così anche questa

2
I primi tre scolarchi della Stoa, tra l’altro, non potevano accedere alla
vita pubblica ateniese, poiché erano stranieri, originari rispettivamente di
Cizio, Asso, Soli.
3
Epicuro, come chiariscono le righe seguenti. I due precedenti riferi-
menti sono, rispettivamente, all’indirizzo accademico-peripatetico e a
quello stoico.
stessa scuola sostenitrice del piacere si impegna nell’agire. Per-
ché non dovrebbe farlo, visto che lo stesso Epicuro dice che
qualche volta rinuncerà al piacere, e si accosterà anche al dolo-
re, se il piacere sarà minacciato dal pentimento o se sceglierà
un dolore minore al posto di uno più gravoso? A quale scopo
mira questo discorso? A che diventi chiaro che tutti apprezza-
no la contemplazione; altri la ricercano per se stessa, per noi,
invece, essa è il luogo nel quale momentaneamente ci trovia-
mo, non il nostro approdo ultimo.

8. Aggiungi ora che secondo la legge di Crisippo si può con-


durre vita ritirata: non dico che la si sopporti, ma che la si scel-
ga. I nostri maestri affermano che il saggio non parteciperà alla
vita di uno Stato qualunque; ma che importa come il saggio
giunga alla vita appartata, se perché gli manca uno Stato tale
da accoglierlo o perché egli stesso vien meno all’impegno ver-
so lo Stato, se presupponiamo che a tutti mancherà uno Stato
degno? Mancherà sempre, d’altronde, a coloro che lo cercano
con meticolosità. Ti chiedo a quale Stato il saggio prenderà par-
te. A quello degli Ateniesi, in cui Socrate viene condannato, dal
quale Aristotele va in esilio per non essere condannato?4 nel
quale l’invidia opprime le virtù? Mi negherai che il saggio ade-
rirà a questo Stato. Si accosterà, dunque, il saggio allo Stato
cartaginese, in cui hanno luogo continue rivolte e una libertà
pericolosa per tutti i migliori cittadini, massimo disprezzo della
giustizia e del bene, ferocia disumana verso i nemici5 e ostile
anche verso i concittadini? Anche questo Stato il saggio fug-
girà. Se vorrò esaminarli uno per uno, non ne troverò nessuno
che possa essere tollerante verso il saggio o che il saggio possa
tollerare. Se non si trova quello Stato che immaginiamo per
noi,6 la vita appartata incomincia ad essere inevitabile per tut-

4
Nel 323 a.C., alla morte di Alessandro, si ebbe in Atene una reazione
antimacedone: Aristotele, considerato un collaboratore dei Macedoni, e
sentitosi, quindi, minacciato, lasciò Atene.
5
A differenza dei Romani, i Cartaginesi trattavano da schiave le città,
le comunità vinte, precludendo loro la possibilità di una integrazione, di
una parificazione con i vincitori, e sfruttandole senza limite dal punto di
vista economico.
6
Si può cogliere un accenno allo Stato ideale delineato da Platone.
ti, poiché non è in nessun luogo quella sola condizione che po-
teva essere preferita alla vita ritirata. Se qualcuno afferma che
la cosa migliore è navigare, e poi dice che non bisogna navigare
in quel mare nel quale avvengono di solito naufragi e spesso si
verificano improvvise tempeste che trascinano il timoniere in
direzione contraria, suppongo che costui mi proibisca di salpa-
re, benché elogi la navigazione. ***
LA TRANQUILLITÀ DELL’ANIMO*

1. <Sereno>1 Ero immerso nell’introspezione, Seneca, ed ecco mi


apparivano alcuni vizi, messi allo scoperto, tanto che potevo affer-
rarli con la mano: alcuni più nascosti e reconditi, altri non costanti,
ma ricorrenti di quando in quando, che definirei addirittura i più
insidiosi, come nemici sparpagliati e pronti ad attaccare al momen-
to opportuno, con i quali non è ammessa nessuna delle due tatti-
che, star pronti come in guerra né tranquilli come in pace. Tuttavia
ho da criticare soprattutto quell’atteggiamento in me (perché in-
fatti non confessarlo proprio come a un medico?), vale a dire di
non essermi liberato in tutta sincerità di quei difetti che temevo e
odiavo e di non esserne tuttavia ancora schiavo; mi ritrovo in una
condizione se è vero non pessima, pur tuttavia più che mai lamen-
tevole e uggiosa: non sto né male né bene. Non devi dirmi che tutti
i comportamenti virtuosi hanno esordi malfermi, e che col tempo
essi guadagnano consolidamento e forza; non ignoro nemmeno
che anche quelle attività che indirizzano i loro sforzi a guadagnare
immagine, intendo le cariche pubbliche o la fama legata all’abilità
oratoria e tutto ciò che punta sul favore della gente, si rafforzano
con il tempo – sia quelle attività che forniscono vere forze sia quel-
le che per guadagnare favore si danno una qualche verniciatura ar-
tificiosa aspettano anni, finché a poco a poco la durata faccia assu-
mere colore – ma io temo che la consuetudine, che consolida le co-
se, mi infigga più profondamente questo vizio nell’animo: la lunga
frequentazione ingenera amore sia per i difetti che per le virtù.

* Tratto da: Seneca, La tranquillità dell’animo, Bur, Milano 1997. Tra-


duzione e note di Caterina Lazzarini
1
Anneo Sereno, amico molto più giovane di Seneca, gli premorì.
Quale sia la debolezza del mio animo in bilico tra i due com-
portamenti, incapace di inclinare con forza verso la retta via o
verso quella sbagliata, non posso indicartela tutta insieme bensì
per parti; ti dirò quel che mi accade, tu troverai un nome al mio
male. Sono preda di un grandissimo amore per la parsimonia, lo
confesso: mi piace un letto non preparato per l’ostentazione, una
veste non tirata fuori dal forziere, non pressata da pesi e mille
strumenti di tortura che la costringono a ostentare una bella pie-
ga, ma ordinaria e semplice, non di quelle che si conservano e si
tirano fuori con ansia. Mi piace il cibo che non debbano elabora-
re e sorvegliare stuoli di servi, non ordinato molti giorni prima
né servito dalle mani di molti, ma facile a reperirsi e semplice, un
cibo che non ha nulla di ricercato o di prezioso, che non verrà a
mancare da nessuna parte si vada, non oneroso per il patrimonio
né per il corpo, tale da non uscire poi per la stessa via dalla qua-
le è entrato. Mi piacciono il servo alla buona e lo schiavetto ru-
stico, l’argenteria massiccia ereditata dal padre contadino che
non reca nomi di artigiani, e una tavola che non si fa notare per
la varietà delle venature e che non è famosa in città per il fre-
quente susseguirsi di padroni eleganti, ma che sia improntata al-
la praticità, tale da non trattenere su di sé gli occhi di nessun
commensale per il piacere né accenderli di invidia. Pienamente
soddisfatto di queste cose, mi attanaglia l’animo il fasto di un
collegio di valletti, schiavi vestiti e adorni d’oro con più cura che
per una processione solenne e una schiera di servi tirati a lucido,
e poi una casa preziosa anche là per dove si cammina e persino i
soffitti splendenti di ricchezze sparse per ogni angolo e la folla
che fa da seguito e compagnia a patrimoni che vanno in fumo; a
che dovrei parlare di profluvi di acque limpide fino al fondo tut-
to intorno alle stesse mense, a che di banchetti degni della loro
messa in scena? Il lusso si riversa con uno splendore diffuso in-
torno a me che vengo dal lungo letargo della mia frugalità e mi
risuona intorno da ogni parte: la vista un poco vacilla, contro il
lusso levo più facilmente l’animo che gli occhi; me ne vado dun-
que non peggiore ma più triste, e non così a testa alta tra quelle
mie povere cose e un assillo segreto mi prende e il dubbio che
quelle altre possano davvero essere migliori. Nulla di queste co-
se mi cambia, e tuttavia non c’è nulla che non mi agiti.
Mi piace seguire gli ordini dei miei maestri e dedicarmi alla
vita pubblica; mi piace riportare onori e trionfi non certo perché
attratto dalla porpora e dalle insegne del potere, ma per essere
più sollecito e più utile agli amici, ai parenti e a tutti i concittadi-
ni, e insomma a tutti gli uomini. Seguo pronto Zenone, Cleante,
Crisippo,2 dei quali nessuno fece carriera politica e tuttavia nes-
suno mancò di indirizzarci gli altri. Quando qualcosa colpisce il
mio animo non avvezzo a essere urtato, quando mi si presenta
qualche situazione spiacevole, come ce ne sono molte nella vita
di ognuno, o di quelle che procedono poco agevolmente, oppure
occupazioni di non gran conto mi richiedono troppo tempo, mi
concedo del tempo per me e, come succede anche ai greggi stan-
chi, torno più velocemente verso casa. Mi piace chiudere la vita
tra le sue pareti: «Che nessuno ci porti via alcun giorno, dato che
non potrà renderci nulla che sia degno di tanta perdita; l’animo
stia con se stesso, si coltivi, non si dedichi a nulla di esterno, a
nulla che attenda il giudizio di altri; si cerchi una tranquillità pri-
va di tormenti pubblici e privati». Ma non appena una lettura
più impegnativa mi innalza l’animo e nobili esempi fanno senti-
re il loro stimolo, mi piace corrermene nel foro, prestare ad uno
la mia voce, a un altro il mio aiuto, che, se anche non sarà di al-
cuna utilità, tuttavia cercherà di esserlo, colpire l’arroganza di
chi è ingiustamente insuperbito per il favore delle circostanze.
Nella pratica degli studi ritengo, davvero, che sia meglio tener
presenti attentamente i contenuti stessi e parlare per questi, per
il resto affidare le parole ai contenuti, affinché venga fuori un di-
scorso non artificioso nella direzione in cui essi conducono:
«Che bisogno c’è di creare opere destinate a durare nei secoli?
Non vuoi tu cercare piuttosto che i posteri ti passino sotto silen-
zio?3 Sei nato per la morte, un funerale silenzioso crea meno fa-
stidi. Così, scrivi qualcosa con semplicità per occupare il tempo

2
Sono i padri dello stoicismo. Zenone, nato a Cizio nell’isola di Cipro,
e passato ad Atene, vi fondò attorno al 301 a.C. la scuola detta Stoà poikíle
(= portico variopinto), dal portico, appunto, sotto il quale si tenevano le le-
zioni. Cleante di Asso fu allievo e successore di Zenone come caposcuola;
a lui successe Crisippo di Soli nella medesima funzione.
3
Anche questo precetto, che Seneca include più volte nelle sue opere,
appartiene al patrimonio del pensiero cinico; è noto viceversa che per i
Romani l’aspirazione alla gloria rappresentava un ideale pienamente le-
gittimo, in quanto realizzazione di una forma laica di trascendenza.
ad uso personale, non perché si sappia in giro: occorre minor fa-
tica a coloro che si applicano per l’oggi». Ma di nuovo quando
l’animo si eleva per la grandezza delle cose che pensa, si fa am-
bizioso anche nella ricerca delle parole e cerca di respirare e di
parlare con maggiore sostenutezza e il discorso che vien fuori si
conforma alla grandezza dei concetti; allora, dimentico della re-
gola e del mio gusto più misurato mi faccio trasportare più in al-
to e «parlo con bocca non più mia».
Per non dilungarmi sui singoli aspetti, in tutte le occasioni mi
accompagna questa incostanza di senno. ... Temo di scivolare giù
a poco a poco o, cosa più preoccupante, di essere sempre in bili-
co come chi sta per cadere e che la situazione sia forse peggiore
di quella che vedo io; infatti guardiamo con bonomia le cose che
ci riguardano e la simpatia offusca sempre il giudizio. Penso che
molti avrebbero potuto raggiungere la saggezza, se non avessero
ritenuto di averla raggiunta, se non si fossero nascosti qualche
loro manchevolezza, se non avessero sorvolato su qualcosa chiu-
dendo gli occhi. Infatti non c’è ragione di credere che noi andia-
mo in rovina più per l’adulazione altrui che per la nostra. Chi è
che ha mai osato dirsi la verità? Chi è che posto tra branchi di
elogiatori e lusingatori non si è fatto tuttavia egli stesso grandis-
simo adulatore di sé? Ti prego dunque, se hai un qualche rime-
dio con cui tu possa por fine a questo mio fluttuare, di ritenermi
degno di dovere a te la mia tranquillità. Che non siano pericolo-
si questi moti dell’animo e che non portino con sé nessun vero
sconvolgimento lo so; per esprimerti ciò di cui mi lamento con
una similitudine appropriata, non sono tormentato da una tem-
pesta, ma dal mal di mare: toglimi dunque questo malessere,
quale che sia, e vieni in aiuto di un naufrago che ancora tribola
già in vista della terraferma.

2. <Seneca> Mi vado chiedendo, perbacco, già da un po’, Sere-


no – tra me e me –, a che cosa potrei assimilare tale affezione
dell’animo, e non saprei avvicinarla di più a nessun esempio che
a quello di quanti, usciti da una malattia lunga e grave, di tanto
in tanto sono colpiti da piccoli attacchi di febbre e da episodi di
leggero malessere e, quando si sono ormai sottratti alle residue
manifestazioni del male, tuttavia si fanno turbare da quelli che
giudicano sintomi e, ormai guariti, tendono la mano ai medici e
sovrainterpretano ogni rialzo di temperatura. Di costoro, Sere-
no, non è poco sano il corpo, ma troppo poco si è abituato alla
salute, così come è presente un qualche tremolio anche nella
marina tranquilla, specie quando è uscita da una tempesta. C’è
bisogno dunque non di quei provvedimenti più duri che ormai
ci siamo lasciati alle spalle, cioè che a volte tu lotti con te stesso,
altre monti in collera con te, altre ancora ti incalzi pesantemen-
te, ma di quello che viene da ultimo, che tu abbia fiducia in te
stesso e creda di procedere per la strada giusta, non facendote-
ne assolutamente distogliere dalle orme incrociate dei molti che
vagano in tutte le direzioni, di alcuni che sbandano proprio ai
margini della strada. Quanto a ciò di cui senti la mancanza, è
qualcosa di grande, di eccelso, di vicino a dio, il non essere tur-
bato. Questa stabilità dell’animo, sulla quale c’è quel volume
egregio di Democrito, i Greci la chiamano eéãum›a, io la chia-
mo tranquillità; infatti non è necessario imitare e traslitterare
un termine secondo la forma greca: lo stesso oggetto di cui si
tratta va contrassegnato con un nome, che deve avere l’effica-
cia, non l’aspetto della dizione greca. Dunque noi ci chiediamo
in che modo gli stati d’animo possano seguire un andamento
sempre regolare e favorevole e l’animo sia propizio a se stesso e
guardi con contentezza a ciò che lo concerne e non interrompa
questa felicità, ma rimanga in uno stato di benessere, senza mai
esaltarsi o deprimersi: questo costituirà la tranquillità. In che
modo si possa pervenire ad essa cerchiamolo in generale: tu
prenderai dalla medicina comune quanto vorrai. Frattanto va
esposto alla vista di tutti il male nella sua interezza, e ciascuno
potrà riconoscere la parte che è sua; tu capirai subito quanto
minor imbarazzo costi a te il disprezzo di te stesso rispetto a
quanti, legati a una professione di immagine e affaticati dal pe-
so della loro alta dignità ufficiale, sono costretti a recitare una
parte dal pudore più che dalla volontà.
Tutti si trovano nella stessa condizione, sia quanti sono tor-
mentati dall’incostanza e dal tedio e dal continuo mutamento
dei propositi, ai quali sempre piace di più ciò che hanno lascia-
to, sia quelli che si lasciano marcire tra gli sbadigli. Aggiungi
quelli che si agitano non diversamente da quanti hanno il sonno
difficile e si mettono in questa o in quell’altra posizione finché
non trovano pace per stanchezza: cambiando continuamente
modo di vivere da ultimo si fermano in quello in cui li sorpren-
de non il fastidio per i cambiamenti ma la vecchiaia restia ai rin-
novamenti. Aggiungi anche quelli che sono poco duttili non per
colpa della loro fermezza, ma per colpa della loro inerzia, e vi-
vono non come vogliono, ma come hanno cominciato. Di qui in-
numerevoli sono le caratteristiche, ma uno solo l’effetto del ma-
le, l’essere scontenti di sé. Questo trae origine dall’incostanza
dell’animo e da desideri timidi o poco fortunati, laddove gli uo-
mini o non osano quanto vogliono o non lo ottengono e sono
tutti protesi nella speranza; sono sempre instabili e mutevoli, il
che è inevitabile succeda a chi sta con l’animo in sospeso. Ten-
dono con ogni mezzo al soddisfacimento dei loro desideri, e si
addestrano e si costringono a obiettivi disonorevoli e ardui, e
quando la loro fatica è priva di premio, li tormenta il disonore
che non ha dato frutto, né si rammaricano di aver teso a obietti-
vi ingiusti, ma di averlo fatto invano. Allora li prende sia il pen-
timento di quello che hanno intrapreso sia il timore di intra-
prendere altro e s’insinua in loro quell’irrequietezza dell’animo
che non trova vie d’uscita, poiché non possono né dominare i
loro desideri né assecondarli, e l’irresolutezza di una vita che
non riesce a realizzarsi e l’inerzia dell’animo che s’intorpidisce
tra desideri frustrati. E tutto ciò risulta più grave, laddove per il
disgusto di una vita infelice piena di impegni si sono rifugiati
nell’ozio, nella vita privata, condizione che non può sopportare
un animo teso all’impegno civile e desideroso di agire e per na-
tura insofferente del quieto vivere, che – si capisce – trova in sé
poco conforto; perciò, tolti i piaceri che gli stessi impegni di-
spensano a chi corre da tutte le parti, non sopporta casa solitu-
dine pareti, a malincuore si guarda abbandonato a se stesso. Di
qui quella noia e quel disgusto di sé, e l’irrequietezza dell’ani-
mo che non trova mai un dove, e la triste e penosa sopportazio-
ne del proprio ozio, soprattutto quando si ha ritegno nell’am-
metterne le cause e il pudore ha ricacciato dentro le ragioni del
tormento, mentre le passioni bloccate in uno spazio angusto si
soffocano a vicenda senza trovare sbocchi; di lì mestizia abbatti-
mento e mille ondeggiamenti della mente incerta, tenuta in so-
speso dalle speranze accarezzate, intristita da quelle abbando-
nate; di lì quello stato d’animo di quanti detestano il loro ozio,
lamentano di non aver nulla da fare e la terribile invidia verso i
successi altrui. Infatti l’inerzia infelice alimenta il livore e desi-
derano che tutti cadano in rovina, perché loro non hanno potu-
to progredire; quindi da questo avversare i progressi altrui e dal
disperare dei propri l’animo passa ad adirarsi contro la sorte e a
lamentarsi dello spirito dei tempi e a ritirarsi negli angoli e a co-
vare la propria pena, mentre prova fastidio e disgusto di sé. In-
fatti per natura l’animo umano è attivo e portato al movimento.
Gli è gradita ogni occasione di muoversi e distrarsi, più gradita
a tutti i peggiori soggetti che volentieri si consumano nelle oc-
cupazioni; come certe ferite vogliono il contatto con le mani che
pure recheranno loro dolore e godono a sentirlo, e la turpe
scabbia prova piacere da qualunque cosa la esasperi, non diver-
samente direi che per queste menti, in cui le passioni sono
esplose come una dolorosa ferita, sono motivo di piacere il tra-
vaglio e il tormento. Ci sono infatti cose che possono far piacere
anche al nostro corpo recandogli un certo dolore, come voltarsi
e girare il fianco non ancora stanco e rigirarsi continuamente
ora in una posizione ora in un’altra, qual è quel famoso Achille
descritto da Omero, ora prono, ora supino, che assume varie po-
sizioni – il che è proprio di un malato: non sopportare nulla a
lungo e ricorrere ai cambiamenti come a medicine. Per questo
si intraprendono peregrinazioni in lungo e in largo e si attraver-
sano lidi inospitali e ora per mare ora per terra fa prova di sé la
loro incostanza sempre nemica del presente: «Ora andiamo in
Campania». Subito i luoghi raffinati vengono a noia: «Si vada a
vedere luoghi selvaggi, visitiamo le balze del Bruzio e della Lu-
cania». Tuttavia in mezzo ai luoghi desolati si cerca qualcosa di
piacevole, in cui gli occhi abituati al lusso possano trovar sollie-
vo dal prolungato spettacolo di squallore dei luoghi aspri: «Re-
chiamoci a Taranto, al suo porto elogiato e al soggiorno inver-
nale di un clima più mite e a una terra abbastanza ricca anche
per la popolazione di un tempo». «Ormai volgiamo la rotta ver-
so Roma»: troppo a lungo le orecchie sono restate libere dagli
applausi e dal chiasso, ormai fa piacere godere della vista del
sangue umano. Si intraprende un viaggio dietro l’altro e si alter-
nano spettacoli a spettacoli. Come dice Lucrezio, in questo mo-
do ciascuno fugge sempre se stesso. Ma a che gli serve, se non
riesce a sfuggirsi? sempre si segue e si incalza da solo, compa-
gno di viaggio insopportabile. Dunque dobbiamo sapere che
non è dei luoghi la colpa per cui ci tormentiamo, ma nostra: sia-
mo incapaci di tollerare tutto, non sopportiamo la fatica né il
piacere né noi stessi né nessuna cosa troppo a lungo. Questo ha
portato alcuni alla morte, il fatto che spesso cambiando propo-
siti finivano per ritornare ai medesimi e non avevano lasciato
spazio alla novità: cominciarono ad esser loro motivo di fastidio
la vita e lo stesso mondo e si insinuò in loro quel famoso dubbio
proprio di una raffinatezza marcescente: «fino a quando le stes-
se cose?».

3. Contro questa insofferenza chiedi di quale aiuto io pensi ci


si debba servire. Il meglio sarebbe stato, come diceva Atenodo-
ro,4 tenersi occupati nell’azione e nell’impegno politico e nei
doveri civili. Infatti, come alcuni passano la vita all’aria aperta
e nell’esercizio e nella cura del corpo e per gli atleti è di gran
lunga la cosa più utile nutrire per gran parte del tempo la forza
dei loro muscoli, alla quale si sono dedicati totalmente, così per
voi che preparate l’animo alla lotta politica è di gran lunga la
cosa preferibile darsi all’azione; infatti, avendo il proposito di
rendersi utile ai cittadini e agli uomini in generale, si esercita e
nello stesso tempo ne trae giovamento chi si è immerso nelle
occupazioni curando – in base alle sue possibilità – il pubblico
e il privato. «Ma poiché – diceva – in questa così dissennata am-
bizione degli uomini, in presenza di tanti detrattori che distor-
cono in peggio le azioni oneste, la sincerità è troppo poco sicu-
ra ed è sempre più probabile si verifichi un intoppo piuttosto
che un successo, è necessario ritirarsi dal foro e dalla vita pub-
blica, ma un animo grande anche in privato ha dove dar ampia
prova di sé; e per gli uomini non è lo stesso che per i leoni e le
bestie, la cui forza è soffocata dalla cattività: le loro azioni ri-
sultano anzi efficacissime nel ritiro. Tuttavia starà nascosto così
che, in qualunque luogo abbia tenuto celato il suo ritiro, voglia
giovare ai singoli e alla collettività con l’intelligenza, la parola,
la saggezza; infatti non si rivela utile allo stato soltanto colui

4
Si è in dubbio sull’identificazione precisa di questo personaggio: c’è
chi pensa ad Atenodoro di Tarso, discepolo di Posidonio, frequentatore a
Roma della corte di Augusto; viceversa potrebbe trattarsi dell’omonimo
filosofo stoico, chiamato a Roma da Catone l’Uticense.
che promuove i candidati e difende gli accusati e decide della
pace e della guerra, ma anche colui che esorta i giovani, che in
tanta carenza di buoni insegnamenti instilla la virtù negli ani-
mi, che sa bloccare e tirare indietro quelli che si gettano di cor-
sa verso il denaro e il consumo sfrenato e, se non altro, almeno
li trattiene, costui in privato svolge un compito di ordine pub-
blico. Ma fa forse di più colui che tra i forestieri e i concittadini
o in qualità di pretore urbano5 a quanti gli si rivolgono pronun-
cia le parole di un assistente rispetto a chi dice che cosa sia la
giustizia, che cosa il senso del dovere, che cosa la sopportazio-
ne, che cosa la forza d’animo, che cosa il disprezzo della morte,
che cosa la nozione degli dèi, che bene sicuro e incondizionato
sia la buona coscienza? Dunque, se convertirai agli studi il tem-
po che avrai saputo sottrarre ai doveri pubblici, non avrai di-
sertato né ti sarai sottratto al tuo servizio. Infatti non milita sol-
tanto chi è sul campo e difende l’ala destra e quella sinistra, ma
anche chi sorveglia le porte e si vale di una postazione meno
pericolosa, ma non certo oziosa e osserva i turni di guardia e ha
la responsabilità dell’arsenale; i quali compiti, benché siano in-
cruenti, sono nel novero dei servizi militari. Se saprai richia-
marti agli studi, fuggirai ogni forma di fastidio della vita e non
desidererai che venga la notte per noia della luce, non sarai di
peso a te stesso né di troppo per gli altri; attrarrai molti nella
tua amicizia e tutti i migliori verranno da te. Infatti la virtù non
resta mai in incognito, per quanto nascosta, ma manda segni di
sé: chiunque ne sarà degno, la recupererà dalle tracce. Infatti se
eliminiamo ogni frequentazione degli altri e rinunciamo al ge-
nere umano e viviamo concentrati unicamente in noi stessi,
farà seguito a questo stato di solitudine priva di ogni interesse
la mancanza di cose da fare: cominceremo a costruire edifici e
a distruggerne altri, e a sconvolgere il mare e a condurre corsi
d’acqua contro le difficoltà dei luoghi e a distribuire male il

5
Il riferimento è alla figura del praetor urbanus che era incaricato di
amministrare la giustizia nelle questioni interne alla cittadinanza romana:
analogo ruolo per le questioni tra chi aveva la cittadinanza romana e chi
no era ricoperto dal praetor peregrinus. L’assistente, o adsessor, è una figu-
ra che compare, a quanto possiamo ricostruire dalle nostre testimonianze,
in età imperiale, sotto Claudio: suo compito era quello di preparare la sen-
tenza che il praetor avrebbe reso poi ufficiale, dandone lettura.
tempo che la natura ci ha dato da impiegare. Alcuni di noi ne
fanno uso con parsimonia, altri con prodigalità; alcuni di noi lo
spendono in modo da poterne rendere conto, altri in modo da
non lasciarne alcun residuo, cosa di cui niente è più vergogno-
so. Spesso una persona molto anziana non ha nessun altro ar-
gomento con cui provare di essere vissuta a lungo se non l’età.»

4. A me sembra, carissimo Sereno, che Atenodoro si sia piega-


to troppo ai tempi, si sia ritirato troppo presto. E io non sono
qui a escludere che a un certo punto ci si debba ritirare, ma ar-
retrando a poco a poco e con le insegne intatte, salvaguardan-
do l’onore delle armi: risultano più rispettati e più sicuri quanti
si consegnano ai nemici con le armi in pugno. Questo è ciò che
penso sia il compito della virtù e di uno che ama la virtù: se la
sorte avrà il sopravvento e reciderà la possibilità di agire, non
si dia subito alla fuga volgendo le spalle e gettando le armi, cer-
cando rifugio, quasi che esista davvero un luogo nel quale la
sorte non possa raggiungerlo, ma si dedichi agli impegni pub-
blici con maggiore misura e scelga qualche occupazione in cui
possa rendersi utile alla cittadinanza. Non gli è permesso pre-
stare servizio militare: si candidi a cariche pubbliche. Deve vi-
vere da privato cittadino: faccia l’oratore. È costretto al silen-
zio: aiuti i cittadini con una assistenza legale tacita. Gli è peri-
coloso anche l’ingresso nel foro: nelle case, agli spettacoli, du-
rante i banchetti faccia il buon compagno, l’amico fidato, il con-
vitato sobrio. Ha perduto gli incarichi del cittadino: svolga
quelli dell’uomo. Per questo noi con animo grande non ci sia-
mo voluti chiudere nelle mura di una sola città, ma ci siamo
aperti alla relazione con tutto il mondo e abbiamo affermato di
avere il mondo come patria, perché fosse possibile offrire alla
virtù un campo più vasto. Ti è precluso il tribunale e ti è vietata
la frequentazione dei rostri o dei comizi;6 guarda dietro di te
che ampia estensione di vastissime terre e di popoli si apra; non

6
Con tribunal si intendeva propriamente il palco spettante ai magistra-
ti, i rostra erano invece le tribune destinate agli oratori e prendevano il no-
me dai rostri, appesi come trofeo, delle navi nemiche degli Anziati sconfit-
ti nel 338 a.C.; i comitia erano le assemblee del popolo: l’esclusione da que-
sti luoghi e occasioni pubblici vuole significare l’esclusione della vita poli-
tica nelle sue varie manifestazioni.
ti sarà mai preclusa una parte così grande che una più grande
non ti sia lasciata. Ma fa’ attenzione che tutto questo non sia
un tuo difetto; infatti non vuoi amministrare lo stato se non da
console o da pritano o da araldo o da suffete.7 Che dire se tu ri-
fiutassi di combattere se non da generale o da tribuno? Anche
se altri occuperanno la prima fila, e la sorte ti avrà posto fra i
triarii,8 combatti dunque con la voce, con l’esortazione, con l’e-
sempio, con il coraggio: anche con le mani tagliate colui che
tuttavia resiste e fa opera di sostegno con le grida trova nella
battaglia modo di aiutare il suo partito. Fa’ qualcosa di simile:
se la sorte ti allontanerà dalla posizione di primo piano nello
stato, resisti tuttavia e fa’ opera di sostegno con le grida e, se
qualcuno ti chiuderà la bocca, resisti tuttavia e fa’ opera di so-
stegno col silenzio. Non è mai inutile l’opera di un buon citta-
dino: ascoltato e visto, col volto col cenno con la tacita determi-
nazione e con la stessa andatura aiuta. Come certe cose saluta-
ri giovano indipendentemente dal gusto e dal tatto con l’odore,
così la virtù dispensa la sua utilità anche da lontano e di nasco-
sto. Sia che possa spaziare e disporre di sé a suo piacere, sia che
abbia sbocchi incerti e sia costretta a contrarre le vele, sia che
si trovi in ozio e muta e circoscritta in spazi ristretti, sia che ab-
bia libertà di espandersi, in qualsiasi condizione si trovi, giova.
Ritieni forse non abbastanza utile l’esempio di chi vive bene
stando appartato? Dunque è di gran lunga la cosa migliore me-
scolare l’ozio alle occupazioni, ogni volta che verrà preclusa la
vita attiva da impedimenti occasionali o dalla situazione della
città; mai infatti sono a tal segno impedite tutte le possibilità
che non ci sia spazio per alcuna azione onesta.

7
Il titolo di pritano, che poteva indicare genericamente chi ricopriva
una magistratura superiore, aveva avuto un significato particolare nella
Grecia arcaica e poi nell’Atene di Clistene, dove indicava uno dei rappre-
sentanti della sezione speciale della Boulé incaricata di preparare l’ordi-
ne del giorno. Gli araldi, già presenti in epoca omerica come aiutanti dei
re, conservarono anche in seguito in Grecia molta della loro originaria
importanza, assistendo i magistrati nelle assemblee e nei tribunali. Quan-
to ai suffeti, essi erano i due magistrati supremi, di incarico annuale, di
Cartagine.
8
Erano i soldati veterani, schierati in campo in terza fila, dietro gli ha-
stati e i principes.
5. Puoi forse trovare una città più infelice di quanto lo fu quella
degli Ateniesi, quando la dilaniavano i trenta tiranni?9 Avevano
ucciso milletrecento cittadini, tutti i migliori, e non per questo si
fermavano, ma era la stessa crudeltà che si fomentava da sola.
Nella città in cui si trovava l’Areopago,10 il più sacro dei tribuna-
li, nella quale si trovavano un senato e un popolo simile al sena-
to, si raccoglieva ogni giorno un tristo collegio di carnefici e la
curia infelice si faceva stretta per i tiranni che la affollavano:
avrebbe forse potuto vivere in tranquillità quella città in cui c’e-
rano tanti tiranni quanti avrebbero potuto essere gli sgherri?
Non si poteva presentare agli animi nemmeno un barlume di
speranza di riacquistare la libertà, né si profilava spazio ad alcun
rimedio contro tanta violenza di mali; da dove infatti recuperare
tanti Armodii11 per la povera città? Eppure c’era Socrate e con-
solava i senatori affranti, esortava quanti disperavano della re-
pubblica, ai ricchi che temevano a causa delle loro ricchezze rim-
proverava il tardivo pentimento di una cupidigia foriera di peri-
colo e a quanti erano desiderosi di imitarlo andava portando un
grande esempio, col suo incedere libero fra i trenta dominatori.
Tuttavia quest’uomo la stessa Atene lo uccise in carcere, e la Li-
bertà non tollerò la libertà di colui che aveva sfidato la schiera
compatta dei tiranni: sappi pure che anche in uno stato oppresso
c’è la possibilità per un uomo saggio di manifestarsi, e in uno fio-
rente e felice regnano la sfrontatezza l’invidia e mille altri vizi
che rendono inerti. Dunque, comunque si presenterà la repub-
blica, comunque lo permetterà la sorte, così o esplicheremo le
nostre possibilità o le contrarremo, in ogni modo ci muoveremo
e non ci intorpidiremo paralizzati nel timore. Anzi, sarà davvero
un uomo colui che, mentre incombono pericoli da tutte le parti,

9
Seguita alla sconfitta nella battaglia di Egospotami (404 a.C.) e alla
conseguente resa agli Spartani, la dominazione dei trenta tiranni fu segna-
ta da una sequela di atrocità e violenze senza precedenti, che ne provoca-
rono in breve la caduta.
10
Era l’antico tribunale ateniese competente dei processi per reati di
empietà e che fungeva da suprema corte costituzionale.
11
Armodio ed Aristogitone erano diventati un modello della ribellione
antitirannica, avendo ucciso Ipparco, uno dei figli del tiranno Pisistrato, e
provocato la fuga dell’altro, Ippia (510 a.C.), liberando così la città da una
dominazione violenta e ingiusta.
mentre intorno fremono armi e catene, non infrangerà la virtù
né la occulterà; nascondersi infatti non significa salvarsi. A buon
diritto, a quel che penso, Curio Dentato12 diceva di preferire la
morte alla vita: è l’estremo dei mali uscire dal novero dei vivi
prima di morire. Ma, se ti sarai imbattuto in un periodo meno
agevole della vita politica, dovrai fare in modo di rivendicare più
spazio per l’ozio e gli studi letterari, e da dirigerti immediata-
mente verso il porto non diversamente che in una navigazione
pericolosa, non aspettando che sia la situazione ad allontanarti
ma facendo in modo da separarti tu da essa, di tua volontà.

6. Dovremo poi osservare attentamente dapprima noi stessi, poi


i compiti che intendiamo intraprendere, poi coloro per i quali o
con i quali intendiamo farlo.
Prima di tutto è necessario che uno valuti se stesso, perché a
noi sembra di potere quasi più di quello che possiamo: uno cade
in rovina per fiducia nell’eloquenza, un altro ha chiesto al suo
patrimonio più di quanto potesse sostenere, un altro ha schiac-
ciato il suo corpo debole con un compito gravoso. Il riserbo di
alcuni poco si addice alla politica, che richiede sicurezza di at-
teggiamenti; la fierezza di altri non si confà alla vita di corte; al-
cuni non sanno governare la collera e una qualsiasi occasione di
indignazione li trascina a parole temerarie; alcuni non sanno
trattenere l’ironia e non si astengono da pericolose battute sala-
ci: a tutti costoro la vita ritirata è più utile delle occupazioni pub-
bliche; una natura indomita e ribelle eviti le sollecitazioni di una
franchezza destinata a nuocerle.
In secondo luogo occorre valutare i compiti che intraprendia-
mo, e confrontare le nostre forze con le imprese che vogliamo
tentare. Infatti devono esserci sempre più forze nell’esecutore
che nell’opera: è inevitabile che schiaccino i pesi che sono mag-
giori di chi li sostiene. Inoltre alcuni compiti non sono tanto pe-
santi in sé quanto fecondi e recano con sé molti altri compiti: so-
no da evitare anche questi, dai quali scaturirà un nuovo e mul-
tiforme impegno, e non bisogna accostarsi a un compito dal qua-

12
Grande modello eroico della tradizione romana, Curio Dentato è il
console che con una vittoria decisiva pose fine alle guerre coi Sanniti nel
290 a.C. e che sconfisse Pirro a Malevento-Benevento nel 275 a.C.
le non sia facile ritirarsi; bisogna mettere mano a quelle faccen-
de cui si può porre una fine o di cui si può almeno sperarla, tra-
lasciare quelle che si spingono sempre più in là con l’azione e
non finiscono là dove ci si era proposti.

7. Bisogna comunque scegliere i destinatari, se sono degni che


noi dedichiamo loro una parte della nostra vita, o se sono tocca-
ti dal sacrificio del nostro tempo; alcuni infatti ci ascrivono di lo-
ro iniziativa i nostri doveri. Atenodoro dice che non andrebbe
nemmeno a cena da chi per questo non si sentisse per nulla in
debito con lui. Comprendi – penso – che si recherebbe tanto me-
no da coloro che si sdebitano dei favori degli amici con un pran-
zo, che contano le portate come fossero donativi, quasi che fos-
sero smodati in onore degli altri: togli a costoro testimoni e spet-
tatori, non piacerà loro gozzovigliare in segretezza. Devi riflette-
re se la tua natura sia più adatta all’attività o a un ritiro dedito
agli studi, e devi volgerti là dove ti condurranno le capacità del
tuo ingegno: Isocrate portò via dal foro con le sue stesse mani
Eforo, giudicandolo più idoneo a stilare memorie storiche. Infat-
ti daranno cattiva risposta gli ingegni forzati; la fatica è vana, se
la natura vi rilutta. Nulla tuttavia delizierà tanto l’animo quanto
un’amicizia fedele e dolce. Che bene prezioso è l’esistenza di
cuori preparati ad accogliere in sicurezza ogni segreto, la cui co-
scienza tu debba temere meno della tua, le cui parole allevîno
l’ansia, il cui parere renda più facile una decisione, la cui conten-
tezza dissipi la tristezza, la cui stessa vista faccia piacere! Questi
li sceglieremo naturalmente liberi, per quanto sarà possibile, da
passioni; infatti i vizi serpeggiano e si trasmettono a chiunque sia
più vicino e nuocciono per contatto. Dunque, come in una pesti-
lenza occorre badare a non sedersi accanto a chi è già stato ag-
gredito ed è divorato dal male, perché ne trarremo pericolo e lo
stesso respiro ci farà ammalare, così nello scegliere gli amici fa-
remo in modo di prendere quelli il meno possibile contaminati:
è l’inizio della malattia mescolare sano e malato. Né vorrei con-
sigliarti di non seguire o attrarre a te nessuno che non sia saggio.
Dove troverai infatti costui che cerchiamo da tante generazioni?
Valga per ottimo il meno cattivo. Difficilmente avresti la possibi-
lità di una scelta più felice, se tu cercassi i buoni tra i Platoni e i
Senofonti e quella generazione di discepoli di Socrate, o se tu
avessi la possibilità di scegliere nell’età catoniana, che vide nu-
merosi uomini degni di nascere nella generazione di Catone13
(così come molti peggiori di quelli mai nati in nessun’altra e pro-
motori dei più gravi crimini; infatti c’era bisogno dell’una e del-
l’altra schiera perché potesse essere compreso Catone: egli do-
veva avere sia i buoni da cui farsi approvare, sia i cattivi in mez-
zo ai quali far prova della sua forza): ora invece in tanta povertà
di buoni la scelta deve essere meno selettiva. Tuttavia si evitino
soprattutto quanti sono malcontenti e si lagnano di tutto, per i
quali non c’è un solo motivo che non sia buono per lamentarsi.
Se anche abbia fedeltà e benevolenza accertate, tuttavia è nemi-
co della tranquillità un compagno profondamente turbato e che
geme di tutto.

8. Veniamo ai patrimoni, massimo motivo delle preoccupazioni


umane; infatti, se confronti tutti gli altri mali per i quali ci angu-
stiamo, morti, malattie, timori, rimpianti, sopportazione di dolori
e fatiche, con quei mali che ci procura il nostro denaro, questa
parte sarà molto più gravosa. Dunque, dobbiamo pensare quan-
to più lieve dolore sia non avere che perdere: e comprenderemo
che la povertà ha tanto meno materia di sofferenze quanto mi-
nore ne ha di danni. Sei in errore infatti se ritieni che i ricchi sop-
portino le perdite con animo più saldo: il dolore di una ferita è
uguale per i corpi più grandi e per quelli più piccoli. Bione14 dis-
se con eleganza che farsi strappare i capelli non è meno doloro-
so per i calvi che per chi calvo non è. Puoi ritenere la stessa cosa
per quanto riguarda i poveri e i ricchi, il loro tormento è uguale;
ad entrambi infatti il loro denaro sta attaccato né può esser loro
strappato senza che lo sentano. Inoltre è più sopportabile, come

13
Si tratta naturalmente di Marco Porcio Catone, pronipote del Censo-
re, uomo politico di spicco dell’ultima repubblica: fu detto l’Uticense per-
ché morì suicida ad Utica nel 46 a.C. per sfuggire a ritorsioni dei cesariani,
e divenne modello di martirio per la libertà antitirannica. Per gli stoici egli
era l’esempio per eccellenza del sapiens, che sa opporre alle crudeli forme
di schiavitù che la vita infligge all’uomo l’affermazione tragica della pro-
pria superiore indipendenza.
14
Bione di Boristene, filosofo cinico vissuto nel III sec. a.C., era consi-
derato già dagli antichi uno dei padri della diatriba. Era noto per il parti-
colare piglio polemico, per la critica pungente contenuta nei suoi discorsi.
ho detto, e più facile non acquistare che perdere, e perciò vedrai
più felici coloro che mai la fortuna si è voltata a guardare di
quelli che ha abbandonato. Se ne avvide Diogene,15 uomo di
grande animo, e fece in modo che nulla potesse essergli tolto. Tu
chiama questo povertà, miseria, indigenza, da’ alla mancanza di
preoccupazioni quel nome vergognoso che vorrai: penserò che
costui non sia felice, se mi saprai trovare qualcun altro che non
perda nulla. O io mi sbaglio o essere re significa, tra avidi, cir-
conventori, ladri, ricettatori di schiavi, essere il solo a cui non si
possa nuocere. Se qualcuno mette in dubbio la felicità di Dioge-
ne, può allo stesso modo dubitare anche della condizione degli
dèi immortali, se vivano poco felicemente per il fatto che non
hanno né poderi né giardini né campi resi preziosi dal lavoro di
coloni mercenari né grandi proventi dall’usura. Non ti vergogni
di ammutolire, chiunque tu sia, davanti alle ricchezze? Guarda
dunque l’universo: vedrai gli dèi nudi, che dispensano tutte le
cose, non possedendone nessuna. Giudichi tu povero o simile
agli dèi immortali chi si è spogliato di tutti i beni legati alla sor-
te? Chiami forse più felice Demetrio Pompeiano,16 che non si
vergognò di essere più ricco di Pompeo? A lui, per il quale già
avrebbero dovuto costituire ricchezze due schiavi vicari e una
cella un po’ più grande, ogni giorno veniva rifatto l’elenco degli
schiavi come a un generale quello delle truppe. A Diogene inve-
ce scappò via l’unico schiavo ed egli non ritenne cosa così im-
portante riportarlo indietro, mentre gli veniva mostrato. «È ver-
gognoso» disse «che Mane possa vivere senza Diogene, e Dioge-
ne senza Mane non possa.» Mi sembra che abbia detto: «Occu-
pati dei tuoi affari, fortuna, ormai da Diogene non c’è più nulla
di tuo: mi è scappato lo schiavo, anzi me ne sono andato io, libe-
ro». La servitù chiede il vestiario e il vitto, occorre prendersi cu-
ra di tanti ventri di animali avidissimi, bisogna comprare la veste
e sorvegliare mani rapacissime, e utilizzare i servigi di gente che

15
Diogene di Sinope, altro illustre rappresentante del cinismo, visse nel
IV sec. a.C. ad Atene, poi a Corinto. Il tratto che ha consacrato più di tutti
il personaggio alla storia è l’ostentazione polemica di un modo di vita as-
solutamente essenziale e duramente ascetico nella ricerca puntigliosa del-
l’autosufficienza.
16
Liberto di Pompeo, proveniente da Gadara: la sua raffigurazione fa
pensare al modello principe della categoria dei liberti arricchiti.
piange e maledice: quanto più felice colui che non deve nulla a
nessuno, se non a chi può rifiutare nel modo più facile, a se stes-
so! Ma dal momento che non abbiamo tanta forza, almeno dob-
biamo limitare i patrimoni, per esser meno esposti ai capricci
della sorte. Sono più adatti alla guerra i corpi che possono ran-
nicchiarsi al riparo delle loro armi di quelli sovrabbondanti e che
la loro stessa grandezza ha esposto da ogni parte alle ferite: la
migliore misura del denaro è quella che né precipita in povertà
né si allontana molto dalla povertà.

9. E a noi piacerà questa misura, se prima ci sarà piaciuta la par-


simonia, senza la quale non ci sono ricchezze bastanti e con la
quale invece tutte sono abbastanza estese, tanto più che il rime-
dio è vicino e la stessa povertà può, chiamata in aiuto la fruga-
lità, tramutarsi in ricchezza. Abituiamoci a rimuovere da noi lo
sfarzo e a misurare l’utilità, non gli ornamenti delle cose. Il cibo
domi la fame, le bevande la sete, il piacere sia libero di espander-
si entro i limiti necessari; impariamo a sostenerci sulle nostre
membra, ad atteggiare il modo di vivere e le abitudini alimentari
non alle nuove mode, ma come suggeriscono le tradizioni; impa-
riamo ad aumentare la continenza, a contenere il lusso, a mode-
rare la sete di gloria, a mitigare l’irascibilità, a guardare la po-
vertà con obiettività, a coltivare la frugalità anche se molti se ne
vergogneranno, ad apprestare per i desideri naturali rimedi pre-
parati con poco, a tenere come in catene le speranze smodate e
l’animo che si protende verso il futuro, a fare in modo di chiede-
re la ricchezza a noi piuttosto che alla sorte. Tanta varietà e in-
giustizia di accidenti non può mai essere allontanata così che
molte tempeste non irrompano su chi dispiega vele ampie; biso-
gna restringere le nostre sostanze affinché gli strali della sorte
cadano nel vuoto, e in questo modo talora gli esilî e le calamità si
sono mutati in rimedi e i danni più gravi sono stati sanati da
quelli più lievi. Laddove l’animo dà poco ascolto ai consigli e
non può essere curato in modo più dolce, non si provvede forse
al suo bene, ricorrendo alla povertà e alla privazione degli onori
e al rovescio di fortuna, opponendo male a male? Abituiamoci
dunque a essere capaci di cenare senza una folla e ad adattarci a
un numero minore di servi e a farci apprestare vesti per lo scopo
per cui sono state inventate e ad abitare in spazi più ristretti.
Non soltanto nelle corse e nelle gare del circo, ma in questi spazi
della vita occorre serrare il giro. Anche la spesa più grandiosa
per gli studi conserva un senso finché conserva una misura. A
che scopo innumerevoli libri e biblioteche, il cui proprietario in
tutta la sua vita a stento arriva a leggere per intero i cataloghi?
La massa di libri grava sulle spalle di chi deve imparare, non lo
istruisce, ed è molto meglio che tu ti affidi a pochi autori piutto-
sto che tu vada vagando attraverso molti. Ad Alessandria anda-
rono in fiamme quarantamila libri;17 altri loderebbe il magnifico
monumento di opulenza regale, come Tito Livio, che ne parla co-
me di un’opera insigne di stile e buona amministrazione dei re:
non fu un fatto di stile o di buona amministrazione quello, ma
un’esibizione di lusso per gli studi, anzi non per gli studi, dal mo-
mento che l’avevano apprestata non per lo studio ma per l’appa-
renza, così come per molti ignari anche di sillabari per l’infanzia
i libri non rappresentano strumenti di studio ma ornamento del-
le sale da pranzo. Dunque ci si procurino libri nella quantità ne-
cessaria, non per rappresentanza. «Più dignitosamente» dici tu «i
soldi se ne andranno per questo che per bronzi di Corinto e qua-
dri.» Ciò che è troppo è sbagliato ovunque. Che motivo hai di
giustificare un uomo che si procura librerie fatte di legno di ce-
dro e di avorio, che va in cerca di raccolte di autori o ignoti o
screditati e tra tante migliaia di libri sbadiglia, a cui dei suoi vo-
lumi piacciono soprattutto i frontespizi e i titoli? Dunque, a casa
dei più pigri vedrai tutte le orazioni e le opere storiografiche che
esistono, scaffali che arrivano fino al soffitto; ormai infatti tra i
bagni e le terme si tiene lustra anche la biblioteca come un orna-
mento necessario della casa. E lo potrei giustificare, certo, se si
sbagliasse per troppa passione per gli studi: ora codeste opere di
sacri ingegni ricercate e suddivise con i loro ritratti vengono pro-
curate per abbellire e decorare le pareti.

10. Ma tu ti sei imbattuto in un tipo di vita difficile e la fortuna


pubblica o la tua personale ti ha imposto a tua insaputa un laccio

17
L’episodio è legato a una rappresaglia di Cesare ai danni della città
che era stata teatro di un’insurrezione contro di lui (48-7 a.C.): il fuoco ap-
piccato alle navi che stringevano in assedio Cesare nel palazzo si sarebbe
propagato a dei magazzini ospitanti anche libri.
che non sei in grado di sciogliere né di rompere: pensa che gli
schiavi in ceppi in un primo tempo mal sopportano i pesi e gli
impedimenti delle gambe; quindi, una volta che si sono proposti
di non indignarsi per essi, ma di sopportarli, la necessità insegna
loro a sopportarli con fermezza, l’abitudine con docilità. In qual-
siasi genere di vita troverai divertimenti, distensioni e piaceri, se
vorrai giudicare lievi i mali piuttosto di renderteli odiosi. A nes-
sun titolo ci trattò meglio la natura che per questo: sapendo per
quali sofferenze nasciamo, trovò come lenimento delle disgrazie
l’assuefazione, ponendoci subito in familiarità con le sventure
più gravi. Nessuno potrebbe resistere, se la continuità delle av-
versità conservasse la stessa violenza del primo colpo. Tutti sia-
mo legati alla fortuna: la catena degli uni è d’oro, lenta, quella di
altri stretta e spregevole, ma che importa? La medesima custo-
dia ha stretto tutti e si trovano legati anche quelli che hanno le-
gato, a meno che tu non ritenga più leggera una catena nella si-
nistra.18 Uno lo tengono avvinto gli onori, un altro il patrimonio;
alcuni sono schiacciati dalla nobiltà, alcuni dalla condizione umi-
le; alcuni sono soggiogati dall’altrui potere, alcuni dal loro pro-
prio; alcuni li confina in un unico luogo l’esilio, alcuni la carica
religiosa:19 ogni vita è una schiavitù. Occorre dunque assuefarsi
alla propria condizione e lamentarsi il meno possibile di essa e
afferrare tutto ciò di buono che ha intorno a sé: non c’è nulla di
così aspro in cui un animo obiettivo non sappia trovare un
conforto. Spesso aree esigue si sogliono aprire a molti utilizzi per
l’abilità di chi le dispone e una disposizione accorta suole rende-
re abitabile anche il più piccolo spazio. Usa la ragione di fronte
alle difficoltà: le durezze possono addolcirsi, le strettoie allentar-
si, le situazioni gravi opprimere di meno chi le sopporta con ac-
cortezza. I desideri non vanno indirizzati a obiettivi lontani, ma
dobbiamo permettere loro uno sbocco vicino, dal momento che
non sopportano di essere del tutto bloccati. Abbandonati quegli
obiettivi che o non possono realizzarsi o lo possono con diffi-

18
Allusione al fatto che prigioniero e guardia erano legati da un’unica
catena, che passava attorno al polso destro dell’uno e quello sinistro del-
l’altro, come ammanettati.
19
C’erano sacerdoti che, per esempio, non potevano lasciare la città
durante la notte (i flamines Diales), ma c’erano anche le Vestali che subi-
vano per tutta la vita una condizione di segregazione.
coltà, perseguiamo mete situate vicino e che arridono alla nostra
speranza, ma manteniamo la consapevolezza che tutte sono
ugualmente inconsistenti, e all’esterno hanno aspetto diverso,
mentre all’interno sono parimenti vane. E non invidiamo quelli
che stanno più in alto: quelle che sembravano vette si sono rive-
late dirupi. Per converso quelli che una sorte contraria ha posto
in situazione incerta saranno maggiormente sicuri togliendo su-
perbia a cose superbe di per sé e cercando di portare il più possi-
bile in piano la loro situazione. Ci sono molti che per necessità
devono tenersi attaccati al loro rango, dal quale non possono
scendere se non cadendone, ma attestano che proprio questo è il
loro maggior onere, il fatto che sono costretti a essere di peso ad
altri, e che non sono stati messi su un piedistallo ma ci sono stati
inchiodati; con giustizia, mitezza, benevolenza, con mano prodi-
ga e generosa dovrebbero apprestare molte difese per i momen-
ti favorevoli, alla speranza nei quali potrebbero attaccarsi con
più sicurezza. Nulla tuttavia ci saprà mettere al riparo da queste
fluttuazioni dell’animo quanto fissare sempre un qualche termi-
ne ai nostri successi, e non concedere alla sorte l’arbitrio di smet-
tere, ma fermarci noi stessi decisamente molto al di qua; in que-
sto modo sia alcuni desideri stimoleranno l’animo sia, delimitati,
non spingeranno verso l’infinito e l’incerto.

11. Questa mia chiacchierata si rivolge a uomini imperfetti, de-


boli e non ragionevoli, non a chi possiede la saggezza. Costui non
deve camminare con incertezza né a piccoli passi; infatti ha tanta
fiducia in sé che non esita ad andare incontro alla sorte e non do-
vrà mai cederle il passo. Né ha ragione di temerla, perché non so-
lo gli schiavi e i possedimenti e la posizione ma anche il suo cor-
po e gli occhi e la mano e tutto ciò che rende più cara la vita e
persino se stesso annovera tra i beni fuggevoli e vive come se fos-
se stato affidato a se stesso in concessione e disposto a restituirsi
senza malumore a chi lo reclamasse. E non per questo si ritiene
poco importante – perché sa di non appartenersi – ma svolgerà
tutti i suoi compiti con tanta diligenza, con tanta attenzione quan-
to un uomo coscienzioso e responsabile è solito tutelare le cose
rimesse alla sua coscienza. E quando poi gli sarà ingiunto di resti-
tuirle, non si lamenterà con la sorte ma dirà: «Sono grato di ciò
che ho posseduto e ho avuto in uso. Ho curato le tue cose con
grande profitto, ma poiché così stabilisci, ecco che te le do, cedo,
grato e volentieri. Se vorrai che io tenga ancora ora qualcosa di
tuo, lo conserverò; se decidi diversamente, io allora argenteria,
denaro, casa, servitù ti rendo, ti restituisco». Poniamo che la natu-
ra reclami le cose che per prima ci aveva affidato: noi le diremo:
«Riprenditi un animo migliore di quello che mi hai dato; non sto
a tergiversare o a rifiutarmi; ho pronto da darti spontaneamente
ciò che tu mi desti mentre ne ero inconsapevole: prenditelo». Che
c’è di grave a tornare da dove sei venuto? è destinato a vivere
male chi non saprà morire bene. Dunque occorre prima di tutto
togliere valore a questa cosa e considerare la vita tra le cose di
poco conto. Come dice Cicerone, ci sono insopportabili i gladia-
tori, se vogliono in ogni modo impetrare la grazia della vita; li ap-
plaudiamo, se ostentano il disprezzo di essa. Sappi che anche a
noi accade la stessa cosa; spesso infatti è causa di morte la paura
di morire. Proprio la sorte, che ama scherzare, dice: «A che scopo
dovrei risparmiarti, animale meschino e tremebondo? Tanto più
profondamente ti farai ferire e trapassare, perché non te la senti
di porgere la gola; tu invece vivrai più a lungo e morirai in manie-
ra più rapida, tu che aspetti la spada non sottraendo il collo né
mettendo davanti le mani, ma con coraggio». Chi avrà paura del-
la morte non farà mai nulla da uomo che vive; invece chi saprà
che questa condizione è stata stabilita subito nel momento in cui
egli è stato concepito, vivrà secondo i patti e contemporaneamen-
te con la stessa forza d’animo si prodigherà, perché nulla delle
cose che accadono sia improvvisa. Infatti guardando a tutto ciò
che può avvenire come se fosse sul punto di realizzarsi, saprà at-
tenuare la forza di tutte le disgrazie, che non portano niente di
sorprendente a chi vi si è preparato e se le aspetta, mentre giun-
gono con tutto il loro peso su chi si sente sicuro e spera solo nelle
cose favorevoli. Si tratta di una malattia, della prigionia, di un
crollo, di un incendio: nulla di ciò è improvviso; sapevo in che al-
bergo tumultuoso la natura mi aveva chiuso. Tante volte si sono
levate grida di dolore nelle mie vicinanze; tante volte torce e ceri
hanno preceduto oltre la soglia esequie immature; spesso mi è ri-
suonato accanto il fragore di un edificio che crollava; molti tra
quelli che il foro la curia la conversazione aveva messo in relazio-
ne con me una notte li ha portati via ...: mi dovrei meravigliare
che una buona volta siano toccati a me i pericoli che mi sono sem-
pre girati attorno? C’è una grande parte dell’umanità che mentre
si accinge a navigare non pensa alla tempesta. Io non mi vergo-
gnerò mai di citare un cattivo autore in un caso felice. Publilio,20
più vigoroso dei talenti tragici e comici ogni volta che ha rinun-
ciato alle sue buffonerie da mimo e alle parole dirette alle ultime
file del pubblico, tra molte altre frasi di tono più elevato di quello
tragico, non solo di quello del mimo, disse anche questo:

a chiunque può capitare ciò che può capitare a qualcuno.

Chi si sarà impresso questo principio nel profondo dell’animo e


guarderà tutte le disgrazie altrui, delle quali tutti i giorni c’è
grande abbondanza, così come se esse avessero la strada spiana-
ta anche verso di lui, si armerà molto prima di venire assalito;
troppo tardi si prepara l’animo a sopportare i pericoli dopo che
questi si sono presentati. «Non pensavo che sarebbe successo» e
«avresti mai pensato tu che questo sarebbe accaduto?» E perché
no? Quali sono quelle ricchezze che non possono essere seguite
da vicino dalla miseria e dalla fame e dall’indigenza? Quale cari-
ca pubblica di cui la toga pretesta, il bastone da augure e le cin-
ghie patrizie non siano accompagnate dalla veste miserabile, dal
marchio del disonore21 e da mille macchie fino all’estremo di-
sprezzo? Quale regno c’è al quale non siano già preparati la ro-
vina e l’annientamento e l’oppressore e il boia? Né queste cose
sono separate da lunghi intervalli di tempo, ma intercorre un
momento solo tra il trono e l’omaggio alle ginocchia altrui. Sap-
pi dunque che ogni condizione è rovesciabile e tutto ciò che si
abbatte su qualcuno può abbattersi anche su di te. Sei ricco: for-
se più ricco di Pompeo?22 Eppure a lui, quando Gaio, parente da
tempo, ospite nuovo, ebbe aperto la casa di Cesare per chiudere

20
È Publilio Siro, autore di mimi vissuto nel I sec. a.C.
21
La toga pretesta, propria dei magistrati e dei giovani nobili fino al rag-
giungimento dell’età virile, era ornata da fregi di porpora; le cinghie alludo-
no al tipo di calzari proprio dei senatori (da cui l’espressione idiomatica
«cambiarsi i calzari» come segno dell’ammissione al rango senatorio): essi
erano muniti appunto di cinghie in pelle che si legavano a metà polpaccio.
22
Il personaggio è un Sesto Pompeo, discendente di Pompeo Magno e
imparentato con l’imperatore Caligola (Gaio) attraverso la nonna mater-
na, che a sua volta era stata zia di Augusto.
la sua, mancarono il pane e l’acqua. Pur possedendo molti fiumi
che nascevano sul suo territorio, che vi sfociavano, andò mendi-
cando qualche goccia d’acqua; morì di fame e di sete nel palazzo
del parente, mentre a lui che soffriva la fame l’erede appaltava
esequie pubbliche. Hai ricoperto le più alte cariche onorifiche:
forse tanto alte o tanto insperate o tanto totalizzanti quanto
quelle di Seiano?23 Il giorno che il senato lo aveva scortato il po-
polo lo fece a pezzi; di colui sul quale gli dèi e gli uomini aveva-
no accumulato quanto era possibile accumulare, non rimase nul-
la che il carnefice potesse strappare. Sei re: non ti rimanderò a
Creso,24 che dovette vedere da vivo il proprio rogo e accendersi
e spegnersi, fatto superstite non solo al proprio regno, ma anche
alla propria morte, non a Giugurta,25 che il popolo romano poté
contemplare a spettacolo entro l’anno in cui ne aveva avuto pau-
ra: vedemmo Tolemeo re dell’Africa,26 Mitridate re dell’Arme-
nia27 tra le guardie di Gaio; l’uno venne mandato in esilio, l’altro
si augurava di esservi mandato con migliore garanzia. In tanto
profondo sconvolgimento di situazioni che volgono in alto e in
basso, se non consideri come destinato a succedere tutto ciò che
può succedere, dai forza contro te stesso alle avversità, che so-
gliono essere sconfitte da chi le vede prima.

12. Principio derivante da questi sarà che non ci tormentiamo in


preoccupazioni superflue o che derivano dal superfluo, cioè o
che non desideriamo le cose che non possiamo ottenere o che

23
Prefetto del pretorio e poi di fatto plenipotenziario dell’imparatore
Tiberio, soprattutto a partire dal ritiro di questi a Capri.
24
L’episodio – avvenuto a seguito della sconfitta patita dai Lidi, di cui
Creso era re, nel 546 a.C. ad opera di Ciro, re dei Persiani – risale a Erodoto.
25
La guerra contro il re di Numidia Giugurta si protrasse con alterne
vicende propriamente dal 111 al 109 a.C., ma fu preceduta da vari episodi
di conflittualità anche negli anni precedenti: Seneca parla di un anno solo
perché nella topica retorizzata dei rovesci di fortuna occorre mettere in ri-
lievo il rapido avvidendarsi delle sorti.
26
Si tratta del Tolemeo figlio del re Giuba II e di Cleopatra Selene, fi-
glia di Marco Antonio.
27
Mitridate d’Armenia venne chiamato a Roma da Caligola, che poi lo
trattenne prigioniero, e fu rimandato in patria da Claudio: qui, durante
conflitti di potere di natura anche dinastica, malgrado in un primo tempo
riuscisse ad avere la meglio sulle opposizioni interne, venne tradito dal
prefetto della guarnigione romana e assassinato.
ottenuto quel che volevamo non comprendiamo troppo tardi do-
po molta fatica la vanità dei nostri desideri, cioè che non spre-
chiamo fatica vana senza risultato o che il risultato non sia de-
gno della fatica; infatti da queste cose per lo più scaturisce tri-
stezza, se non c’è stato successo o se ci si vergogna del successo
ottenuto. Bisogna limitare l’andare in giro di qua e di là, che è
proprio di gran parte degli uomini che vagano per case per teatri
e per fori: si offrono di occuparsi degli affari degli altri, sembra
che abbiano sempre qualcosa da fare. Se chiederai a qualcuno di
questi mentre esce di casa: «Dove vai? che pensi?», ti risponderà:
«Non lo so, per Ercole; ma vedrò qualcuno, farò qualcosa». Van-
no vagando senza un proposito cercando occupazioni e non fan-
no le cose che avevano deciso ma quelle in cui si sono imbattuti;
è insensata e vana la loro corsa, quale quella delle formiche che
si arrampicano su per gli alberi, che vanno su fino alla cima e poi
di nuovo giù in basso senza frutto: in modo simile a queste con-
ducono la loro vita molte persone, per le quali non senza motivo
qualcuno parlerebbe di inoperosità inquieta. Commisererai al-
cuni quasi che stessero correndo verso un incendio: tanto spin-
gono quelli che si parano loro davanti e travolgono sé e altri,
mentre sono corsi o a salutare qualcuno che non ricambierà il
loro saluto o a seguire il funerale di un uomo ignoto o al proces-
so di uno che è spesso in contesa o alle nozze di una che si sposa
spesso e, dopo aver seguito la lettiga, in alcuni luoghi l’hanno
persino portata; quindi, tornando a casa con la loro stanchezza
inutile, giurano che non sanno loro stessi perché sono usciti, do-
ve siano stati, già pronti il giorno dopo a girovagare su quegli
stessi passi. Dunque ogni fatica deve riferirsi a qualche scopo,
deve riguardare qualche scopo. Non è l’operosità che li agita
rendendoli inquieti, ma sono le false immagini delle cose che li
agitano come pazzi; infatti nemmeno i pazzi si muovono senza
una qualche speranza: li attrae l’aspetto di una cosa, la cui incon-
sistenza la mente, presa nel suo delirio, non è riuscita a cogliere.
Allo stesso modo ognuno di costoro che escono senza scopo per
ingrandire la folla viene condotto in giro qua e là da motivi futi-
li; non avendo niente a cui applicarsi, il sorgere della luce lo cac-
cia fuori e, dopo che, calcate invano le soglie di molti, ha salutato
i nomenclatori, da molti lasciato fuori, a casa non si incontra con
nessuno, tra tutti, con più difficoltà che con se stesso. Da questo
male deriva quel vizio tristissimo, l’origliare e il curiosare tra gli
affari pubblici e privati e il venire a conoscenza di molte cose
che né si raccontano né si ascoltano senza rischi.

13. Io penso che seguendo quest’idea Democrito abbia iniziato


così: «Chi intenderà vivere nella tranquillità non faccia molte co-
se né privatamente né pubblicamente», chiaramente riferendosi
alle cose superflue. Infatti, se sono necessarie, si devono fare sia
privatamente che pubblicamente non solo molte ma innumere-
voli cose, ma laddove nessun compito importante ci spinga, va
saputo contenere l’agire. Infatti chi fa molte cose spesso dà pote-
re su di sé alla sorte, che è norma del tutto sicura sperimentare
di rado, mentre per il resto occorre sempre riflettere su di essa e
non ripromettersi nulla sulla sua affidabilità: «Navigherò, a me-
no che non capiti qualche incidente» e «Diventerò pretore, a me-
no che non si frapponga un qualche ostacolo» e «Mi riuscirà l’af-
fare, a meno che non intervenga qualcosa». Questo è il motivo
per cui diremmo che all’uomo saggio non accade niente di ina-
spettato: non lo abbiamo esentato dalle vicende umane, ma dagli
errori, né a lui capitano tutte le cose come le ha volute, ma come
le ha pensate; e prima di tutto egli ha pensato che qualcosa po-
tesse far resistenza ai suoi propositi. È poi d’obbligo che il dolo-
re di un piacere deluso arrivi in forma attenuata all’animo al
quale non è stata promessa comunque la riuscita.

14. Dobbiamo anche rendere noi stessi disponibili a non indul-


gere a un’eccessiva programmazione delle cose, a rivolgerci a
quelle nelle quali ci avrà fatto imbattere il caso e a non temere
né un cambiamento di programma né di condizione, a patto che
non finiamo preda della volubilità, difetto nemicissimo della
quiete interiore. Infatti sia è inevitabile che l’eccessivo attacca-
mento sia fonte di ansie e di infelicità, poiché spesso la sorte gli
strappa qualcosa, sia è molto più grave la volubilità che non sa
contenersi in nessun luogo. L’uno e l’altro difetto sono nocivi per
la tranquillità, non poter mutare nulla e non sopportare nulla. In
ogni modo l’animo va richiamato da tutte le sollecitazioni ester-
ne a se stesso: si affidi a se stesso, gioisca di sé, rivolga lo sguardo
a se stesso, si ritiri quanto può dalle cose degli altri e si applichi a
sé, non patisca i danni, interpreti favorevolmente anche le avver-
sità. Alla notizia del naufragio il nostro Zenone, venendo a sape-
re che erano andati sommersi tutti i suoi averi, disse: «La fortuna
mi impone di dedicarmi più agevolmente alla filosofia». Un ti-
ranno minacciava di morte il filosofo Teodoro28 e per di più di
negargli la sepoltura: questi gli disse: «Hai di che compiacerti
con te stesso, è in tuo potere un mezzo litro di sangue; infatti per
quanto riguarda la sepoltura, povero te se pensi che mi interessi
l’imputridire sopra o sotto terra». Giulio Cano, uomo tra i primi
per grandezza, all’ammirazione del quale non si oppone neppu-
re il fatto di essere nato nel nostro secolo, avendo a lungo discus-
so con Gaio,29 dopo che quel famoso Falaride gli disse, mentre se
ne andava: «Perché per caso tu non ti faccia allettare da una va-
na speranza, ho dato ordine che tu sia accompagnato al suppli-
zio,» rispose: «Ti ringrazio, ottimo principe». Non so che cosa ab-
bia pensato; infatti mi vengono in mente molte ipotesi. Volle es-
sere offensivo e mostrare quanto grande fosse la crudeltà in cui
la morte rappresentava un beneficio? Oppure gli rimproverò la
follia quotidiana? – infatti rendevano grazie sia coloro i cui figli
erano stati uccisi, sia coloro i cui beni erano stati portati via. O
accolse l’annuncio volentieri come se si trattasse della libertà?
Qualsiasi sia la soluzione, diede una risposta coraggiosa. Qualcu-
no dirà: «Dopo questo, Gaio avrebbe potuto dare ordine che fos-
se lasciato in vita». Cano non ebbe paura di questo; era nota la
affidabilità di Gaio in tali ordini. Credi forse che egli abbia tra-
scorso i dieci giorni che mancavano al supplizio senza alcuna oc-
cupazione? È incredibile che cosa riuscì a dire quell’uomo, che
cosa riuscì a fare, quanto tranquillamente sia vissuto. Giocava a
dama, mentre il centurione che trascinava la schiera dei condan-
nati a morte gli ordinò di seguirlo. Chiamato, contò i sassolini e
al suo compagno disse: «Bada dopo la mia morte di non mentire,

28
È Teodoro di Cirene, detto l’Ateo, contemporaneo di Socrate: fu per
un certo tempo ad Atene dove fece conoscere la scuola cirenaica e godette
della protezione di Demetrio Falereo. L’originale coerenza del suo pensie-
ro che negava fermamente ogni tipo di soluzione religiosa gli costò l’accu-
sa di empietà e il bando dalla città di Atene, che lo costrinse a ritornare a
Cirene dove fondò una scuola di filosofia.
29
Gaio è naturalmente Caligola, che viene assimilato al ben noto tiran-
no Falaride di Agrigento, passato anzi nell’aneddotica come il più crudele
di tutti i tiranni.
dicendo che hai vinto»; poi, facendo segno al centurione, disse:
«Sarai testimone che vincevo io di una mossa». Pensi tu che Ca-
no con quella scacchiera abbia davvero giocato? Si prese gioco.
Erano tristi gli amici che sapevano di perdere un tale amico:
«Perché siete tristi?» disse. «Voi vi chiedete se le anime siano im-
mortali: io lo saprò tra poco». E non smise di scrutare la verità
nemmeno alla fine e di fare della sua morte un argomento di di-
scussione. Lo accompagnava il suo filosofo e ormai non era lon-
tano il tumulo sul quale tutti i giorni si svolgeva un sacrificio in
onore del nostro dio Cesare: egli disse: «Che pensi ora, Cano? o
che intenzione hai?». «Mi sono proposto», disse Cano, «di osser-
vare in quel momento fuggevole se l’animo avrà la sensazione di
uscir fuori» e promise, se avesse sperimentato qualcosa, che
avrebbe fatto il giro degli amici e avrebbe loro indicato quale
fosse lo stato delle anime. Ecco la tranquillità nel mezzo della
tempesta, ecco l’animo degno dell’eternità, che chiama la sua
morte a testimonianza del vero, che collocato su quell’ultimo fa-
tale gradino interroga la sua anima mentre questa esce dal corpo
e si mette a imparare non solo fino alla morte ma qualcosa an-
che dalla stessa morte: nessuno ha filosofato più a lungo. Non di-
menticheremo frettolosamente un grand’uomo e ne dovremo
parlare con cura: ti consegneremo alla memoria di tutti i tempi,
o uomo insigne, tu parte così importante della strage di Gaio.

15. Ma non giova per nulla rimuovere le cause del dolore priva-
to; infatti ci prende talvolta l’odio per il genere umano. Quando
avrai pensato quanto sia rara la franchezza e quanto sconosciuta
l’innocenza e come la lealtà non si trovi se non quando convie-
ne, e vengono in mente la massa di tanti crimini felici e guadagni
e perdite derivanti dal piacere parimenti insopportabili, e l’am-
bizione che ormai fino a tal punto non si contiene nei suoi limiti
che splende attraverso la vergogna, l’animo è spinto nella notte
e come fossero stati sconvolti i valori, che né è lecito sperare né
conviene avere, spuntano le tenebre. A questo dunque dobbia-
mo rivolgerci, a che tutti i vizi della gente ci sembrino non odiosi
ma ridicoli ed ad imitare piuttosto Democrito che Eraclito. Co-
stui infatti, ogni volta che era stato in pubblico piangeva, quello
invece rideva, a costui tutto ciò che facciamo sembravano disgra-
zie, a quello sciocchezze. Occorre dunque saper sdrammatizzare
ogni cosa e sopportarla con animo indulgente: è più degno di un
uomo ridere della vita che piangerne. Aggiungi che acquista me-
riti maggiori per il genere umano chi ride piuttosto che chi pian-
ge: quello lascia ad esso una qualche speranza, costui invece
piange stoltamente delle cose che dispera possano essere corret-
te; e per chi contempla le cose nel loro insieme è di animo più
forte chi non trattiene il riso di chi non trattiene le lacrime, dal
momento che suscita un’emozione piacevolissima e in mezzo a
tanto apparato non ritiene nulla grande, nulla serio, nemmeno
misero. Ciascuno si ponga davanti agli occhi ad una ad una le co-
se per le quali siamo lieti e tristi e saprà che è vero ciò che disse
Bione, che tutte le cose che riguardano gli uomini sono del tutto
simili a inizi e che la loro vita non è più sacra o seria del loro con-
cepimento, e che nati dal nulla sono ricondotti al nulla. Ma è me-
glio accettare le abitudini comuni e i difetti umani serenamente
senza cadere né nel riso né nelle lacrime; infatti tormentarsi per
le disgrazie altrui significa infelicità infinita, provar piacere delle
disgrazie altrui un piacere disumano, così come quell’inutile atto
di compassione che è piangere perché qualcuno porta a seppelli-
re il figlio, e adattare a questa circostanza la propria espressione.
Anche nelle proprie disgrazie occorre comportarsi in modo da
concedere al dolore solo quanto la natura richiede, non quanto
le convenzioni; molti infatti versano lacrime per ostentazione e
hanno gli occhi asciutti ogni volta che manca il pubblico, poiché
giudicano vergognoso non piangere quando lo fanno tutti: tanto
profondamente si è consolidato questo vizio, quello di dipende-
re dall’opinione altrui, che diventa finzione anche un sentimento
tra i più naturali, il dolore.

16. Segue la parte che non senza motivo suole rattristare e met-
tere in ansia. Laddove la sorte dei buoni è cattiva, laddove So-
crate viene costretto a morire in carcere, Rutilio30 a vivere in esi-
lio, Pompeo e Cicerone a offrire il collo ai loro clienti, e proprio

30
Il personaggio di Publio Rutilio Rufo, politico e filosofo stoico, è
presente varie volte nelle opere di Seneca, come modello romano di virtù
e di eroica sopportazione di un destino ingiusto: l’aver attaccato duramen-
te la cattiva amministrazione dei cavalieri durante il proconsolato in Asia
Minore gli costò un processo nel 93 a.C. e la pena dell’esilio, sotto l’accusa
falsa di aver commesso intrighi politici.
Catone, ritratto vivente della virtù, gettandosi sulla spada, a ren-
dere chiaro il destino suo e della repubblica, è inevitabile tor-
mentarsi per il fatto che la sorte paga compensi tanto iniqui; e
allora che cosa potrebbe sperare ognuno per sé, vedendo che i
migliori subiscono il peggio? Che significa dunque? Guarda co-
me ciascuno di loro abbia saputo sopportare e, se furono forti,
impara a rimpiangerli con il loro stesso animo, se morirono con
la debolezza di una donna, non andò perso nulla: o sono degni
della tua ammirazione per la loro virtù, o sono indegni del tuo
rimpianto per la loro ignavia. Che c’è infatti di più vergognoso
che se gli uomini più grandi morendo con coraggio rendono gli
altri vili? Lodiamo chi è degno tante volte di lodi e diciamo:
«Tanto più sei forte, tanto più sei felice! Sei scampato a ogni di-
sgrazia, all’invidia, alla malattia; sei uscito di prigione; tu non sei
apparso agli dèi degno di una cattiva sorte, ma indegno di essere
ormai soggetto a un qualche colpo della sorte». Bisogna invece
costringere coloro che cercano di sottrarsi e in punto di morte si
voltano a guardare la vita. Non piangerò nessuno che è lieto, nes-
suno che piange: quello mi ha terso di sua iniziativa le lacrime,
questo con le sue lacrime si è reso indegno di alcuna altra. Io do-
vrei piangere Ercole, per il fatto che viene bruciato vivo, o Rego-
lo perché è trafitto da tanti chiodi, o Catone, perché ferisce le
sue ferite? Tutti costoro trovarono col sacrificio di un breve spa-
zio di tempo in che modo diventare eterni, e con la morte per-
vennero all’immortalità.

17. Anche quella è materia non trascurabile di inquietudini, se


tu ti affatichi a darti una posa e non ti mostri a nessuno nella tua
schiettezza, così come fanno molti, la cui vita è finta e costruita
per l’esibizione; infatti è fonte di tormento la continua osserva-
zione di se stessi, e alimenta il timore di essere scoperti diversi
da come si è soliti presentarsi. Né mai ci liberiamo dall’ansietà,
se pensiamo di essere giudicati ogni volta che siamo guardati; in-
fatti, da una parte accadono molte cose che contro la nostra vo-
lontà ci mettono a nudo, dall’altra, per quanto abbia successo
tanta cura di sé, tuttavia non è piacevole o sicura una vita che si
nasconde sempre sotto la maschera. Al contrario, quanto piacere
possiede quella schiettezza sincera e di per sé priva di ornamen-
ti, che non si serve di nulla per coprire la propria indole! Tutta-
via, anche questa vita va incontro al pericolo del disprezzo, se
tutto è scoperto a tutti; ci sono infatti persone che provano fasti-
dio per tutto ciò a cui si sono potute accostare troppo da vicino.
Ma per la virtù non c’è il pericolo di avvilirsi se è posta sotto gli
occhi ed è meglio essere disprezzati per la schiettezza che tor-
mentati da una continua finzione. Usiamo tuttavia misura nella
cosa: c’è molta differenza tra il vivere con semplicità o con tra-
scuratezza.
Occorre sapersi ritirare molto anche in sé; infatti la frequen-
tazione di persone dissimili turba il buon equilibrio raggiunto,
rinnova le emozioni ed esaspera ciò che nell’animo è ancora de-
bole e non pienamente guarito. Tuttavia queste condizioni van-
no mescolate e alternate, la solitudine e la compagnia: quella ge-
nererà in noi nostalgia degli uomini, questa di noi stessi, e l’una
sarà rimedio dell’altra; la solitudine guarirà l’insofferenza della
folla, la folla la noia della solitudine.
Nemmeno bisogna tenere la mente uniformemente nella stes-
sa applicazione, ma occorre richiamarla agli svaghi. Socrate non
si vergognava di giocare coi fanciulli, Catone rilassava col vino
l’animo provato dalle fatiche politiche e Scipione muoveva a
tempo di musica quel corpo avvezzo ai trionfi e alle fatiche di
guerra, non snervandosi in mollezze, come ora è abitudine di
quanti ondeggiano persino nell’andatura superando la mollezza
femminea, ma come quegli antichi uomini erano soliti tra lo sva-
go e i giorni di festa danzare in modo virile, non andando incon-
tro a una perdita di dignità, anche qualora venissero guardati dai
loro nemici. Occorre concedere una pausa agli animi: riposati, ri-
nasceranno migliori e più combattivi. Come non si deve essere
impositivi coi campi fertili – infatti una produttività mai inter-
rotta li esaurirà in fretta – così una fatica continua indebolirà gli
slanci degli animi, e questi riacquisteranno le forze se per un po’
risparmiati e lasciati a riposo; dal protrarsi delle fatiche nascono
un certo qual torpore e un infiacchimento degli animi. E a ciò
non tenderebbe un tanto grande desiderio degli uomini, se lo
svago e il gioco non possedessero un certo naturale piacere; però
il ricorso frequente a questi toglierà ogni gravità e ogni forza da-
gli animi; infatti, anche il sonno è necessario a ridare forze, tutta-
via qualora tu lo continui giorno e notte, diventerà la morte. C’è
molta differenza tra l’allentare una tensione e dissolverla del tut-
to. I legislatori istituirono i giorni festivi, perché gli uomini fosse-
ro costretti pubblicamente a divertirsi, come interponendo la ne-
cessaria moderazione alle fatiche; e come ho detto alcuni grandi
uomini si concedevano in determinati giorni feste mensili, alcuni
non c’era giorno che non dividessero tra l’ozio e gli impegni. Tra
questi ricordiamo il grande oratore Asinio Pollione,31 che soleva
non farsi trattenere da nessuna occupazione oltre l’ora deci-
ma;32non leggeva nemmeno le lettere dopo quell’ora, perché
non gliene derivasse una qualche nuova preoccupazione, ma si
liberava della stanchezza di tutta una giornata in quelle due ore.
Alcuni sogliono fare pausa a metà della giornata e rimandare al-
le ore pomeridiane una qualche occupazione più leggera. Anche
i nostri antenati vietavano che in senato ci fosse una nuova mo-
zione oltre l’ora decima. I soldati si dividono i turni di guardia, e
la notte è libera dalla ronda per coloro che ritornano da una spe-
dizione. Bisogna essere indulgenti con l’animo e concedergli ri-
petutamente il riposo che funga da alimento e forze. Bisogna fa-
re anche passeggiate all’aperto, affinché l’animo si arricchisca e
si innalzi grazie all’apertura degli orizzonti e all’abbondanza di
aria pura da inspirare; talvolta un viaggio o un cammino e il cam-
biare luoghi e le cene e le bevute più generose daranno energia.
Talvolta è opportuno arrivare anche fino all’ebbrezza, non per-
ché ci sommerga, ma perché abbia effetto tranquillante; infatti
dissolve gli affanni e muove l’animo dal profondo e come cura
alcune malattie così anche la tristezza, e Libero non è detto così
per la libertà di parola ma perché libera l’animo dalla schiavitù
delle preoccupazioni33 e gli dà indipendenza e forza e lo rende
più audace verso ogni impresa. Ma nella libertà come nel vino è
salutare la moderazione. Si crede che Solone e Arcesilao34 ab-

31
È il celebre intellettuale e uomo politico di età augustea, noto come
oratore, storico, poeta, nonché amico e raffinato critico letterario di Virgi-
lio. Fondò la prima biblioteca pubblica di Roma nel 40 a.C. L’aneddotica
lo ricordava come un uomo morigerato e temperante.
32
Secondo il computo degli antichi, le quattro del pomeriggio.
33
L’etimologia qui proposta non ha valore scientifico, ma è quella che
più si attaglia alle necessità del contesto.
34
Il fondatore della Nuova Accademia, vissuto all’incirca tra il 315 e il
241/40 a.C. Sostenne una linea di pensiero polemicamente diretta contro
la teoria dogmatica della conoscenza sostenuta dagli stoici.
biano accondisceso al vino, a Catone fu rinfacciata l’ebbrezza:
chiunque gliela rinfacci, potrà rendere più facilmente onesto un
vizio che turpe Catone. Ma non bisogna farlo nemmeno spesso,
in modo che l’animo non prenda una cattiva abitudine, e tuttavia
talvolta occorre spingerlo all’esultanza e alla libertà, e la triste
sobrietà va per un po’ abbandonata. Infatti sia che diamo retta
al poeta greco: «Talvolta è piacevole anche fare follie», sia a Pla-
tone: «Invano chi è padrone di sé bussa alla porta della poesia»,
sia ad Aristotele: «Non ci fu nessun grande ingegno senza un piz-
zico di follia»: non può esprimere qualcosa di grande e superiore
agli altri se non una mente eccitata. Una volta che ha disprezza-
to le cose usuali e comuni e per divina ispirazione si è elevata
più in alto, allora infine suole cantare qualcosa di più grande del-
le capacità umane. Non può attingere qualcosa di sublime e di
elevato finché rimane in sé: è necessario si stacchi dal consueto e
scarti verso l’alto e morda i freni e trascini il suo auriga e lo con-
duca là dove da solo avrebbe avuto paura di salire.
Tu hai, carissimo Sereno, i mezzi che possono difendere la
tranquillità, che possono restituirla, che resistono ai mali stri-
scianti; sappi tuttavia che nessuno di loro è sufficientemente
efficace per coloro che salvaguardano una situazione di debo-
lezza, a meno che una cura sollecita e assidua non circondi l’a-
nimo vacillante.
LA BREVITÀ DELLA VITA*

1. La maggior parte degli uomini, Paolino, protesta per l’avari-


zia della natura, perché siamo messi al mondo per un briciolo di
tempo, perché i giorni a noi concessi scorrono così veloci e tra-
volgenti che, eccetto pochissimi, gli altri sono abbandonati dalla
vita proprio mentre si preparano a vivere. E di questa disgrazia,
che credono comune, non si dolse solo la folla e il volgo sciocco:
tale stato d’animo provocò la protesta anche di grandi uomini.
Di qui l’esclamazione del più grande dei medici,1 che la vita è
breve, l’arte lunga; di qui l’accusa di Aristotele alle prese con la
natura, indegna di un saggio, perché essa ha concesso agli ani-
mali di poter vivere cinque o dieci generazioni, e all’uomo, nato
a tante e così grandi cose, è fissato un termine tanto più breve.
Non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto. Ab-
bastanza lunga è la vita e data con larghezza per la realizzazio-
ne delle cose più grandi, se fosse tutta messa bene a frutto; ma
quando si perde nella dissipazione e nell’inerzia, quando non si
spende per nulla di buono, costretti dall’ultima necessità ci ac-
corgiamo che è passata senza averne avvertito il passare. Sì: non
riceviamo una vita breve, ma tale l’abbiamo resa, e non siamo
poveri di essa, ma prodighi. Come ricchezze grandi e regali in
mano a un cattivo padrone si volatizzano in un attimo, ma, per
quanto modeste, se affidate a un buon amministratore, aumen-
tano con l’impiego, così la durata della nostra vita per chi sa be-
ne gestirla è molto estesa.

* Tratto da: Seneca, La brevità della vita, Bur, Milano 1993. Traduzione
e note di Alfonso Traina
1
Ippocrate (V-IV sec. a.C.).
2. Perché ci lagniamo della natura? Si è comportata generosa-
mente: la vita, se sai usarne, è lunga. Uno è in preda a un’avidità
insaziabile, uno alle vane occupazioni di una faticosa attività; uno
è fradicio di vino, uno è abbrutito dall’ozio; uno è stressato dal-
l’ambizione, che dipende sempre dai giudizi altrui, uno dalla fre-
nesia del commercio è condotto col miraggio di guadagni di terra
in terra, di mare in mare; alcuni, smaniosi di guerra, sono conti-
nuamente occupati a creare pericoli agli altri o preoccupati dei
propri; c’è chi si logora in una volontaria schiavitù, all’ingrato ser-
vizio dei potenti; molti non pensano che ad emulare l’altrui bel-
lezza o a curare la propria; i più, privi di bussola, cambiano sem-
pre idea, in balia di una leggerezza volubile e instabile e sconten-
ta di sé; a certuni non piace nessuna meta, a cui dirigere la rotta,
ma sono sorpresi dalla morte fra il torpore e gli sbadigli, sicché
non dubito che sia vero ciò che in forma di oracolo si dice nel più
grande dei poeti: «piccola è la parte di vita che viviamo». Sì: tutto
lo spazio rimanente non è vita, ma tempo. Incalzano e assediano i
vizi da ogni parte e non li lasciano risollevarsi o alzare gli occhi a
discernere il vero, ma col loro peso li tengono sommersi e inchio-
dati al piacere. Non hanno mai la possibilità di rifugiarsi in se
stessi; se gli tocca per caso un momento di riposo, come in alto
mare, dove anche dopo la caduta del vento continua l’agitazione,
ondeggiano e non trovano mai pace dalle loro passioni. Credi che
io parli di costoro, i cui mali sono alla luce del sole? Guarda quel-
li, la cui fortuna fa accorrere la gente: sono soffocati dai loro beni.
Per quanti le ricchezze sono un peso! A quanti fa sputar sangue
l’eloquenza e la quotidiana ostentazione del proprio ingegno!
Quanti sono terrei per continui piaceri! A quanti non lascia re-
spiro la calca dei clienti! Insomma, passa in rivista tutti costoro
dai più piccoli ai più grandi: questo chiede assistenza, questo la
dà, quello è imputato, quello difensore, quello giudice, nessuno ri-
vendica per sé la sua libertà, ci si logora l’uno per l’altro. Infór-
mati di costoro, i cui nomi s’imparano a mente, e vedrai che si ri-
conoscono a tali segni: questo corre dietro a quello, quello a quel-
l’altro, nessuno appartiene a se stesso. E poi che c’è di più insen-
sato dello sdegno di certuni? Si lagnano della boria dei potenti,
che non hanno tempo di riceverli. Ha il coraggio di lagnarsi del-
l’altrui superbia uno che non ha mai tempo per sé? Lui almeno,
chiunque tu sia, ti ha rivolto uno sguardo, sia pure con aria arro-
gante, lui ha abbassato l’orecchio alle tue parole, lui ti ha ammes-
so al suo fianco: tu non ti sei degnato di guardare dentro di te, di
ascoltare te. Non hai dunque ragione di rinfacciare ad alcuno co-
testi servigi, giacché li hai resi non per il desiderio di stare con al-
tri, ma per l’impossibilità di stare con te stesso.

3. Si mettano pure tutti d’accordo su questo solo punto gli inge-


gni più illustri che mai ci siano stati, non si stupiranno mai abba-
stanza di questo annebbiamento delle menti umane: non soffro-
no che si occupino i loro fondi e alla minima questione di confini
corrono alle pietre e alle armi; ma lasciano gli altri invadere la
loro vita, anzi sono loro a farvi entrare i futuri padroni. Non si
trova nessuno che voglia dividere il suo denaro: ma a quanti cia-
scuno distribuisce la sua vita! Sono stretti nel tenere la borsa;
appena si tratta di perdere tempo, sono larghissimi in quella sola
cosa in cui è virtù l’avarizia. Si prenda uno dalla folla dei vegliar-
di: «Vediamo che sei giunto al termine della vita umana, hai ad-
dosso cent’anni o più: su, fa’ il rendiconto del tuo passato. Calco-
la quanto da cotesto tempo han sottratto i creditori, quanto le
donne, quanto i patroni, quanto i clienti, quanto i litigi con tua
moglie, quanto i castighi dei servi, quanto le corse zelanti per tut-
ta la città; aggiungi le malattie, che ci fabbrichiamo noi stessi, ag-
giungi il tempo inutilizzato: vedrai che hai meno anni di quanti
ne conti. Rievoca nella memoria quando sei stato saldo nei tuoi
propositi, quanto pochi giorni hanno avuto l’esito che volevi,
quando hai avuto la disponibilità di te stesso, quando il tuo volto
non ha battuto ciglio, quando non ha tremato il tuo cuore, che
cosa hai realizzato in un periodo così lungo, quanti hanno sac-
cheggiato la tua vita senza che ti accorgessi di quel che perdevi,
quanto ne ha sottratto un vano dolore, una stolta gioia, un’avida
passione, un’allegra compagnia, quanto poco ti è rimasto del tuo:
comprenderai che la tua morte è prematura». Quale la causa?
Vivete come destinati a vivere sempre, mai vi viene in mente la
vostra precarietà, non fate caso di quanto tempo è trascorso:
continuate a perderne come da una provvista colma e copiosa,
mentre forse proprio quel giorno che si regala a una persona o a
un’attività qualunque è l’ultimo. Avete paura di tutto come mor-
tali, voglia di tutto come immortali. Sentirai i più dire: «A partire
dai cinquant’anni mi metterò a riposo, a sessant’anni andrò in
pensione». E chi ti garantisce una vita così lunga? Chi farà anda-
re le cose secondo il tuo programma? Non arrossisci di riservare
per te gli avanzi della vita e di destinare al perfezionamento in-
teriore solo il tempo che non può essere utilizzato per niente al-
tro? Non è troppo tardi cominciare a vivere solo quando è tem-
po di finire? Che sciocco oblio della condizione mortale riman-
dare i buoni propositi ai cinquanta e sessant’anni e volere inizia-
re la vita dal punto a cui pochi sono arrivati?

4. Agli uomini più potenti e altolocati vedrai sfuggire di bocca


parole in cui desiderano e lodano il tempo libero e lo preferisco-
no a tutti i loro beni. Vorrebbero di tanto in tanto scendere da
quella vetta, se la discesa fosse sicura: anche ammesso che nessu-
na forza ostile intervenga dall’esterno, la fortuna crolla sotto il
suo peso. Il divo Augusto, cui gli dèi furono più generosi che ad
alcun altro, non cessò di augurarsi il riposo e di chiedere l’esone-
ro dalla vita pubblica; ogni suo discorso ricadeva sempre su un
punto, la speranza del tempo libero, e alleviava le sue fatiche col
pensiero, forse illusorio, ma confortevole, che un giorno sarebbe
vissuto per sé. In una lettera al senato, dopo la promessa che il
suo riposo sarebbe stato non senza decoro e all’altezza della glo-
ria precedente, ho trovato tali parole: «Ma queste cose sarebbe
più bello realizzarle che prometterle. Tuttavia il desiderio di quel
tempo così sospirato mi ha ridotto, poiché la gioia della realtà si
fa attendere, a pregustare un po’ di piacere parlandone». Così
grande cosa gli sembrava il tempo libero che, non potendo go-
derne di fatto, l’anticipava nel pensiero. Chi vedeva tutto dipen-
dere da lui solo, chi dispensava la fortuna agli uomini e ai popo-
li, era felice soprattutto pensando al giorno che avrebbe deposto
la sua grandezza. Sapeva per esperienza quanto sudore costano
quei beni che abbagliano tutta la terra, quanti segreti affanni na-
scondono. Costretto alla lotta armata prima coi concittadini,2 poi
coi colleghi,3 infine coi parenti4 versò sangue per terra e per ma-
re; dopo aver investito con la guerra la Macedonia, la Sicilia,
l’Egitto, la Siria, l’Asia Minore e quasi tutte le coste, volse gli

2
Bruto e Cassio, uccisori di Cesare.
3
Lepido, collega con Antonio del triunvirato.
4
Antonio, suo cognato.
eserciti stanchi di strage romana contro gli stranieri. Mentre pa-
cificava le Alpi e domava i nemici annidati nel cuore della pace e
dell’impero, mentre portava i confini oltre il Reno, l’Eufrate e il
Danubio, proprio a Roma si affilavano contro di lui i pugnali di
Murena, di Cepione, di Lepido, di Egnazio, di tanti altri. Non era
ancora sfuggito alle loro insidie, e la figlia e tanti nobili giovani
uniti dal vincolo dell’adulterio come da un giuramento ne im-
paurivano la già stanca età, e più di loro e per la seconda volta
una donna temibile con un Antonio. Aveva resecato queste pia-
ghe insieme alle membra: ne nascevano subito altre; come in un
corpo troppo sanguigno, si produceva sempre qualche emorra-
gia. E così desiderava il tempo libero, in questa speranza e in
questo pensiero si acquetavano le sue fatiche, questo era il voto
di chi poteva esaudire i voti altrui.

5. Marco Cicerone, sballottato fra i Catilina e i Clodii da una


parte, i Pompei e i Crassi dall’altra, quelli nemici aperti, questi
dubbi amici, in balia dei flutti insieme allo stato, che cercava di
tenere a galla, e alla fine travolto, incapace di starsene quieto
nella buona fortuna e di sopportare la cattiva, quante volte ma-
ledice quel suo consolato lodato non senza ragione ma senza fi-
ne! Che geremiadi fa sentire in una lettera ad Attico, dopo la
sconfitta di Pompeo padre, mentre il figlio rinfocolava in Spagna
le armi infrante! «Vuoi sapere» scrive «che faccio? Me ne sto nel
mio podere di Tuscolo, mezzo libero.» Aggiunge poi altre parole
piangendo il passato, lagnandosi del presente, disperando del-
l’avvenire. Mezzo libero si diceva Cicerone: ma perdio mai il sag-
gio si abbasserà a una tale denominazione, mai sarà mezzo libe-
ro, sempre in possesso di una libertà intera e piena, senza vincoli
e padroni e più in alto di tutto. Che può esserci al di sopra di uno
che è al di sopra della fortuna?

6. Livio Druso,5 uomo focoso e impetuoso, diede l’avvio a leggi


nuove e ai disastri dei Gracchi col massiccio apporto di tutta l’I-
talia; ma non vedendo via d’uscita dalle iniziative che non pote-
va né far procedere né lasciare a metà, si dice che, maledicendo

5
Tribuno nel 91 a.C., associato alla politica sociale dei Gracchi, che
portò a gravi disordini.
la sua vita senza pace fin dagli inizi, dicesse che a lui solo neppu-
re da piccolo erano toccate vacanze. Osò infatti ancor minoren-
ne raccomandare gli imputati ai giudici e far sentire la sua in-
fluenza nel foro, con tanta efficacia che alcune sentenze risulta-
no da lui estorte. Dove sarebbe andata a finire un’ambizione co-
sì prematura? C’era da immaginarselo che sarebbe sfociata in
un disastro privato e pubblico un’intraprendenza così precoce.
Troppo tardi si lagnava di non aver avuto vacanze, turbolento fin
da piccolo e nocivo alla giustizia. Si discute se si sia suicidato: fe-
rito da un colpo improvviso all’inguine si accasciò, e c’è chi dubi-
ta che la sua morte fosse volontaria, nessuno che fosse opportu-
na. È superfluo ricordare i tanti che, fortunatissimi agli occhi de-
gli altri, testimoniarono contro di sé il vero detestando tutta l’at-
tività dei loro anni: ma con questi lamenti non mutarono né gli
altri né se stessi, giacché volate via le parole, i sentimenti torna-
no quelli di prima. La vostra vita, perdiana, superasse pure i mil-
le anni, si ridurrà a un punto: questi vostri vizi divoreranno ogni
secolo; e questo spazio di tempo che la natura fa correre ma la
ragione dilata, è inevitabile che vi sfugga presto. Non afferrate
né trattenete o ritardate la più veloce di tutte le cose, ma la la-
sciate andar via come inutile e ricuperabile.

7. Fra i primi annovero quelli che hanno tempo solo per il vino
e la libidine: nessuna occupazione è più vergognosa. Gli altri an-
che se si perdono dietro un fantasma di gloria, salvano almeno
l’apparenza; enumerami pure gli avari, gli iracondi, gli ostinati in
un odio o in una guerra ingiusta, i peccati di tutti costoro sono
più virili: la colpa di chi si dà al ventre e alla libidine è indecoro-
sa. Fruga tutti i loro giorni, considera quanto tempo perdano nel
fare i conti, quanto nel tramare, quanto nel preoccuparsi, quanto
nel corteggiare, quanto nell’essere corteggiati, quanto li tengano
occupati gli impegni giudiziari, propri e altrui, quanto i pranzi,
che ormai sono obblighi sociali: vedrai come non li lascino respi-
rare i loro mali o beni.
Infine tutti sono d’accordo che nessuna attività può essere bene
esercitata da un uomo affaccendato, non l’eloquenza, non le pro-
fessioni liberali, dal momento che l’animo deconcentrato non rece-
pisce nulla in profondità, ma tutto rigetta come cibo ingozzato.
Nulla è più estraneo all’uomo affaccendato del vivere: di nulla è
meno facile la conoscenza. Di insegnanti delle altre scienze ce ne
sono tanti, e alcune di esse sembra che i ragazzi le abbiano assimi-
late al punto di poterle anche insegnare: ci vuole tutta una vita per
imparare a vivere, e, ciò che forse ti stupirà di più, ci vuole tutta
una vita per imparare a morire. Tanti grandi uomini, lasciati tutti i
bagagli, dopo aver rinunciato a ricchezze cariche piaceri, non eb-
bero altro scopo fino all’ultima ora che saper vivere; eppure molti
di essi se ne andarono confessando di non saperlo ancora: figurarsi
se lo sanno costoro! È cosa di uomo grande e al di sopra degli er-
rori umani non farsi sottrarre nulla del proprio tempo, e la sua vita
è lunghissima proprio perché, qualunque fu la sua durata, è stata
tutta per lui. Nessun istante ne restò inutilizzato e inattivo, nessuno
alla mercé di altri: perché non trovò nulla che meritasse di essere
scambiato col suo tempo, e ne fu risparmiatore attentissimo. Perciò
gli fu sufficiente. Ma è inevitabile che sia mancato a quelli, della cui
vita molto portò via la gente. Non credere che prima o poi non si
rendano conto della loro perdita; di sicuro udrai la maggior parte
di quelli, su cui pesa una grande fortuna, tra le caterve dei clienti e
la gestione delle cause e le altre onorifiche miserie esclamare di
tanto in tanto: «Non mi è consentito vivere». E perché dovrebbe
esserlo? Tutti quelli che ti chiedono di assisterli, ti allontanano da
te. Quell’imputato quanti giorni ti ha portato via? Quanti quel can-
didato? Quanti quella vecchia stanca di seppellire eredi? Quanti
quello che si è finto malato per stuzzicare le brame dei cacciatori
di eredità? Quanti quel potente amico, che vi tiene non per amici-
zia, ma per mostra? Fa’ il bilancio, ripeto, fa’ la rivista dei giorni
della tua vita: vedrai che te ne sono avanzati ben pochi e di scarto.
Quello, ottenuta la carica agognata, non vede l’ora di deporla e non
fa che ripetere: «Quando passerà quest’anno?». Quello organizza i
giochi cui tanto teneva e dice: «Quando ne verrò fuori?». Quell’av-
vocato è conteso in tutto il foro e per ascoltarlo si accalcano fin do-
ve non è possibile udirlo: «Quando» dice «ci saranno le ferie?».
Ognuno brucia la sua vita e soffre per il desiderio del futuro, per il
disgusto del presente. Ma chi sfrutta per sé ogni ora, chi gestisce
tutti i giorni come una vita, non desidera il domani né lo teme. Non
c’è ora che possa apportare una nuova specie di piacere.Tutto è già
noto, tutto goduto a sazietà. Del resto la sorte disponga come
vorrà: la vita è già al sicuro. Le si può aggiungere, non togliere, e
aggiungere come del cibo a uno già sazio e pieno, che non ne ha
più la voglia ma ancora la capienza. Non c’è dunque motivo di cre-
dere che uno sia vissuto a lungo perché ha i capelli bianchi o le ru-
ghe: non è vissuto a lungo, ma è stato al mondo a lungo. Come cre-
dere che ha molto navigato chi la tempesta ha sorpreso all’uscita
dal porto menandolo qua e là in un turbine di venti opposti e fa-
cendolo girare in tondo entro lo stesso spazio. Non ha navigato
molto, ma è stato sballottato molto.

8. Mi fa sempre meraviglia vedere alcuni chiedere tempo e chi


ne è richiesto così arrendevole; l’uno e l’altro guarda allo scopo
per cui si chiede il tempo, nessuno dei due al tempo in sé: lo si
chiede come fosse niente, lo si dà come fosse niente. Si gioca con
la cosa più preziosa di tutte. Non ne hanno coscienza, perché è
immateriale, perché non cade sotto gli occhi, e perciò è valutata
pochissimo, anzi non ha quasi prezzo. Assegni annuali, donativi
gli uomini li ricevono come tesori e nel procurarseli impiegano
le loro fatiche, il loro lavoro, la loro solerzia: nessuno dà valore
al tempo; ne usano senza risparmio, come fosse gratis. Ma vedili
quando sono ammalati, se incombe pericolo di morte, toccare le
ginocchia dei medici; se temono la pena capitale, pronti a sborsa-
re tutto quello che hanno pur di vivere: tanto sono discordi i loro
sentimenti. Che se fosse possibile a ognuno aver dinanzi agli oc-
chi il numero degli anni futuri, al pari dei passati, come sbigotti-
rebbe chi ne vedesse avanzare pochi, come ne farebbe econo-
mia! Eppure è facile amministrare ciò che è sicuro, per quanto
esiguo; si deve custodire con maggior cura ciò che non sai quan-
do verrà a mancare. E tuttavia non credere che ignorino che co-
sa preziosa sia: a quelli che amano di più ripetono di essere pron-
ti a dare parte dei propri anni. Li danno senza rendersene conto:
li danno in modo di toglierli a sé senza accrescerli a loro. Ma non
sanno neppure se li tolgono: perciò gli è sopportabile una perdi-
ta che è un danno inavvertito. Nessuno ti renderà gli anni, nessu-
no ti restituirà a te stesso; andrà il tempo della vita per la via in-
trapresa e non tornerà indietro né arresterà il suo corso; non farà
rumore, non darà segno della sua velocità: scorrerà in silenzio;
non si allungherà per editto di re o favore di popolo; correrà co-
me è partito dal primo giorno, non farà mai fermate, mai soste.
Che avverrà? Tu sei affaccendato, la vita si affretta: e intanto sarà
lì la morte, per la quale, voglia o no, devi aver tempo.
9. C’è niente di più stolto del pensiero di quegli uomini, che si
piccano di essere previdenti? Le loro occupazioni sono più labo-
riose: per poter vivere meglio, organizzano la vita a spese della
vita. Fanno programmi a lunga scadenza; ora il maggior spreco
della vita è il differirla: è questo a procrastinare ogni giorno che
viene, è questo a scippare il presente, mentre promette il futuro.
Il maggior ostacolo al vivere è l’attesa, che dipende dal domani,
perde l’oggi. Predisponi ciò che è in potere della fortuna, lasci
andare ciò che è in tuo potere. Dove miri? Dove ti proietti? Tut-
to quello che deve avvenire è incerto: vivi senza indugio. Ecco,
grida il più grande dei poeti e come per divina ispirazione canta
un canto di salvezza: «i migliori giorni della vita sono i primi a
fuggire per gli sventurati mortali». «Che indugi?» dice «Che
aspetti? Se non te ne impossessi, fuggono.» E anche quando te
ne sarai impossessato, fuggiranno: bisogna dunque gareggiare in
velocità col tempo e attingere presto come da un torrente rapido
e non perenne. È bello anche che a biasimare un indugio senza
fine dica non «il tempo migliore», ma «i giorni». E tu, indifferen-
te e placido in tanta fuga del tempo, ti riprometti una lunga serie
di mesi e di anni, secondo la tua avidità? Ti parla di un giorno, e
di un giorno in fuga. C’è dunque dubbio che i migliori giorni fug-
gano ai mortali sventurati, ossia affaccendati? Sui loro animi an-
cora infantili piomba la vecchiaia, cui giungono impreparati e
inermi, non avendola mai prevista: ci sono cascati di sorpresa,
non si accorgevano che si avvicinava ogni giorno. Come una con-
versazione o una lettera o un pensiero intenso inganna chi viag-
gia e si rende conto di essere giunto prima che di stare per giun-
gere, così questo viaggio della vita ininterrotto e velocissimo, che
percorriamo con lo stesso passo svegli e dormenti, agli affaccen-
dati non è visibile che alla fine.

10. Se volessi dividere la mia tesi in argomentazioni particolari,


mi soccorrerebbero molte prove del fatto che la vita degli affac-
cendati è brevissima. Soleva dire Fabiano,6 un filosofo non di
questi cattedratici, ma di quelli autentici e antichi, che contro le
passioni si deve combattere d’impeto, non di sottigliezza, e vol-

6
Papirio Fabiano, declamatore e seguace della scuola neopitagorica
dei Sestii.
gerle in fuga non con piccoli colpi ma con un assalto frontale:
mazzate ci vogliono, non punzecchiature. E tuttavia per potergli
rinfacciare il loro errore si deve ammaestrarli, non darli per
spacciati. La vita si divide in tre tempi: passato, presente, futuro.
Di essi il presente è breve, il futuro incerto, il passato sicuro. So-
lo su questo la fortuna ha perduto il suo potere, solo questo non
può essere ridotto in balia di nessuno. E proprio questo perdono
gli affaccendati: non hanno tempo di voltarsi a guardare il passa-
to, e, se ne avessero, non è piacevole il ricordo di un’azione che
rimorde. Perciò richiamano contro voglia alla memoria un tem-
po male impiegato e non hanno il coraggio di rievocare fatti i cui
vizi, anche quelli sottratti alla vista dal belletto di qualche piace-
re, a ritornarci su si manifestano. Nessuno, se non chi ha agito
sempre sotto il controllo della sua coscienza, che mai s’inganna,
si volge volentieri al passato; ma quello che ha avuto mire ambi-
ziose, atteggiamenti insultanti, vittorie smodate, una condotta
subdola, un’avidità insaziabile, una prodigalità illimitata, non
può non temere la sua memoria. Eppure questa è la parte del
nostro tempo sacrosanta e inviolabile, al di là di tutte le vicissitu-
dini umane, fuori del regno della fortuna; inattaccabile dalla mi-
seria, dalla paura, dalle malattie; non può essere sconvolta né
strappata: perpetuo e tranquillo ne è il possesso. Solo a uno a
uno sono presenti i giorni, e momento per momento; ma quelli
del passato si presenteranno tutti al tuo comando, si faranno esa-
minare e trattenere a tuo piacere: gli affaccendati non hanno
tempo di farlo. È privilegio di una mente serena e tranquilla spa-
ziare in ogni parte della sua vita; l’animo degli affaccendati, co-
me sotto un giogo, non può voltarsi e guardare indietro. Se ne va
dunque la loro vita in un abisso, e come non serve a nulla cerca-
re di riempire un vaso, se manca un fondo che riceva e tenga
quello che ci metti, così non ha importanza la quantità di tempo
concessa, se non c’è dove si depositi: passa attraverso animi le-
sionati e bucati. Il presente è brevissimo, tanto breve che ad al-
cuni sembra inesistente; infatti è sempre in corsa, scorre e preci-
pita; finisce prima di giungere, e non tollera soste più che l’uni-
verso o le stelle, il cui incessante movimento non resta mai nel
medesimo punto. Agli affaccendati dunque spetta solo il presen-
te, che è così breve da non potersi afferrare, e un presente che si
sottrae a chi è diviso tra molte occupazioni.
11. Insomma, vuoi sapere quanto poco vivono? Guarda quanto
desiderano vivere molto. Vecchi decrepiti si augurano e mendica-
no l’aggiunta di pochi anni: si fingono più giovani; accarezzano bu-
giarde illusioni e si compiacciono d’ingannarsi come se al tempo
stesso gabbassero i fati. Ma quando qualche infermità gli ricorda
di essere mortali, come muoiono spaventati, quasi non uscissero
dalla vita, ma ne fossero tirati fuori! Van gridando di essere stati
stolti, tanto da non aver vissuto, e, se la scampano, di voler vivere
in pace; solo allora riflettono all’inutilità di essersi procurate cose
che non avrebbero goduto, alla vanità di ogni loro fatica. Ma per
quelli che conducono una vita lontana da ogni faccenda, perché
non dovrebbe essere ricca di spazio? Niente ne è affidato ad altri,
niente sparpagliato qua e là, niente dato alla fortuna, niente per-
duto per inerzia, niente dissipato per prodigalità, niente inutilizza-
to: tutta è, per così dire, a frutto. Per quanto breve, dunque, è più
che sufficiente, e perciò, quando che venga l’ultimo giorno, il sag-
gio non esiterà ad andare alla morte con passo fermo.

12. Chiedi forse chi chiamo affaccendati? Non credere che tali
io dica solo quelli che ci vogliono i cani sguinzagliati per slog-
giarli dalla basilica, quelli che vedi soffocare o con più lustro nel-
la folla dei propri clienti o in modo più umiliante in quella dei
clienti altrui, quelli che i doveri sociali fanno uscire di casa per
schiacciarli contro le porte degli altri, o che l’asta del pretore fa
penare con un lucro disonorevole e destinato prima o poi a far
cancrena. Il tempo libero di certuni è affaccendato: nella loro vil-
la o nel loro letto, nel cuore della solitudine, per quanto si siano
appartati da tutti, danno fastidio a se stessi: la loro non deve dir-
si una vita sfaccendata, ma un ozioso affaccendarsi. Tu chiami
sfaccendato chi con tormentosa pignoleria colleziona bronzi co-
rinzi, preziosi per colpa di pochi fanatici, e spreca la maggior par-
te dei suoi giorni fra lamine rugginose? Chi in palestra (che scan-
dalo! non sono neppur romani i vizi di cui soffriamo) se ne sta a
guardare lotte di ragazzi? Chi divide i branchi dei propri giu-
menti in coppie di eguale età e colore? Chi mantiene i campioni
del giorno? Di’ un po’, chiami sfaccendati quelli che trascorrono
molte ore dal barbiere, mentre si strappa un pelo spuntato nel-
l’ultima notte, mentre si tiene un consulto su ogni capello, men-
tre o si rimette a posto la chioma spettinata o si riporta da un la-
to e dall’altro sulla fronte stempiata? Come si arrabbiano, se il
barbiere è stato un po’ disattento, pensando di tosare un ma-
schio! Come danno in escandescenze, se si taglia qualcosa dalla
loro criniera, se c’è qualcosa fuori posto, se tutto non ricade in
anelli regolari! Chi c’è di costoro che non preferirebbe vedere in
disordine lo stato piuttosto che la loro pettinatura? Che non si
preoccupa più dell’aspetto che dell’incolumità della testa? Che
non preferisce uscire ben pettinato che ben costumato? E tu
chiami sfaccendati questi affaccendati tra il pettine e lo spec-
chio? E quelli dediti a comporre, ascoltare, imparare canzoni?
Spezzano e modulano in gorgheggi effeminati la voce, cui la na-
tura ha dato un andamento regolare, il migliore e il più semplice;
i loro diti battono sempre il ritmo di una melodia interiore; e
quando ci si rivolge a loro per cose serie, spesso anche tristi, can-
ticchiano a fior di labbro. Non hanno costoro mancanza di fac-
cende, ma faccende oziose. Né metterei i loro banchetti fra le ore
libere, quando vedo come sono solerti nel disporre l’argenteria,
con quanta cura sistemano le tuniche dei loro amasi, con che an-
sia osservano come esca il cinghiale dalle mani del cuoco, con
quanta sveltezza al segno dato i depilati corrano ai loro servizi,
con quanta arte si taglino i volatili in pezzi non irregolari, con
quanto zelo infelici servitorelli puliscano gli sputi degli ubriachi:
da qui si cerca fama di raffinatezza e di lusso, e a tal punto li se-
guono i loro mali in ogni angolo della vita, che non mangiano né
bevono senza esibizionismo. Neppure enumererei tra gli sfac-
cendati chi si fa portare qua e là sulla sedia o in lettiga ed è pun-
tuale alle sue passeggiate come se non gli fosse lecito disertarle,
chi si fa ricordare da un altro l’ora del bagno, del nuoto, del pran-
zo: e a tal punto li snerva un eccesso di raffinata fiacchezza, che
da sé non sono in grado di sapere se hanno fame. Sento che uno
di questi raffinati – se pure si può chiamare raffinatezza disim-
parare l’umano modo di vivere –, trasportato a braccia dal ba-
gno sulla sedia, chiese: «Sono già seduto?». E tu pensi che costui,
che non sa se è seduto, sappia se vive, se vede, se è sfaccendato?
Non mi è facile dire se mi fa più compassione se non lo sapeva o
se fingeva di non saperlo. Certo, di molte cose la dimenticanza è
reale, ma di molte è simulata: ci sono vizi che li allettano come
segni di distinzione; sembra spia di una condizione umile e bassa
sapere quel che fai: e ora va a credere che i mimi esagerano nel-
l’attaccare il lusso. Quello che tralasciano è più di quello che rap-
presentano, ed è spuntata tanta abbondanza di vizi nel nostro se-
colo, solo in questo ingegnoso, che ormai possiamo accusare i
mimi di sbadataggine. Sì, c’è qualcuno così smidollato dalla raffi-
natezza, da credere a un altro se è seduto! Non è dunque costui
sfaccendato, dagli un altro nome: è malato, anzi morto; è sfac-
cendato quello che ha anche la coscienza di esserlo. Ma questo
semivivo, che ha bisogno di chi gli suggerisca lo stato del suo cor-
po, come può costui essere padrone anche di un solo momento?

13. Sarebbe troppo lungo star dietro uno per uno a quanti gli
scacchi o il pallone o la cura del sole consumarono la vita. Non
sono sfaccendati quelli i cui piaceri costano fatica. Di essi nessu-
no dubiterà che fatichino a non far nulla, che si perdano in studi
inutili, e ce n’è già un bel numero anche fra i Romani. Fu malat-
tia dei Greci questa di ricercare quanti rematori ebbe Ulisse, se
fu scritta prima l’Iliade o l’Odissea, e se sono del medesimo au-
tore, e così via altre cose del genere, che, se le tieni per te, non ti
serviranno oltre al fatto di saperle, se le pubblichi, non apparirai
più colto ma più pedante. Ecco che ha invaso anche i Romani la
vana passione di una dottrina superflua. In questi giorni ho
ascoltato uno esporre quali cose ogni generale romano è stato il
primo a fare: primo Duilio7 a vincere una battaglia navale, primo
Curio Dentato8 a portare nel trionfo elefanti. Ancora coteste no-
zioni, anche se non mirano a una vera gloria, vertono almeno su
esempi di attività civili: non è giovevole tale conoscenza, è alme-
no capace di interessarci con vane apparenze. Perdoniamo an-
che la ricerca del primo che convinse i Romani a salire su una
nave – fu Claudio,9detto Codice perché la compagine di parec-
chie tavole in antico si chiamava «codice», per cui i registri pub-
blici si dicono «codici» e tuttora le navi, che trasportano le der-
rate lungo il Tevere, per antica consuetudine si chiamano «codi-
carie» –; sia giustificata anche la notizia che Valerio Corvino10 fu

7
Gaio Duilio vinse nel 260 a.C. i Cartaginesi a Milazzo.
8
Vinse Pirro a Benevento e trionfò nel 275 a.C.
9
Appio Claudio Caudice, console nel 264 a.C.
10
Vinse i Messinesi nel 263 a.C., ma la derivazione di Messalla da Mes-
sana è fasulla.
il primo a vincere Messina e il primo della gente Valeria a trasfe-
rire nel suo nome quello della città conquistata e ad essere chia-
mato Messana, e poi per progressiva alterazione della pronunzia
popolare Messalla: ma concederai anche che qualcuno si occupi
del fatto che Lucio Silla fu il primo a esibire nel circo leoni sciol-
ti e non legati come d’uso, e che a finirli furono mandati dal re
Bocco11 arcieri? E si perdoni anche questo: ma che Pompeo fos-
se il primo a organizzare nel circo una battaglia di diciotto ele-
fanti opposti come in combattimento a dei condannati, serve a
qualcosa di buono? Il primo della città e fra i primi del tempo
antico ricordato per la sua bontà eccezionale giudicò un memo-
rabile genere di spettacolo far morire degli uomini in modo nuo-
vo. «Combattono all’ultimo sangue? Non basta. Sono sbranati?
Non basta: siano schiacciati dalla mole di animali giganteschi.»
Era meglio che tali fatti andassero dimenticati, perché in seguito
nessun potente li imparasse e fosse invidioso di un atto così inu-
mano. Come offusca la nostra mente una grande fortuna! Si cre-
dette al di sopra della natura esponendo tante schiere di disgra-
ziati a bestie nate sotto un altro cielo, facendo combattere esseri
così dissimili, versando molto sangue alla presenza di quel popo-
lo romano, che avrebbe presto costretto a versarne di più; ma poi
tradito dalla perfidia alessandrina si fece trafiggere dall’ultimo
degli schiavi, solo allora comprendendo quanto fosse illusorio il
suo soprannome. Ma per tornare al punto di partenza e mostra-
re nella medesima materia l’inutile diligenza di certuni, quello
stesso raccontava che Metello,12 trionfando sui Cartaginesi vinti
in Sicilia, fu il solo fra i generali romani a condurre davanti al
suo cocchio centoventi elefanti prigionieri; che Silla fu l’ultimo
romano a estendere il pomerio, per antico costume esteso solo
con l’annessione di territorio mai provinciale, ma italico. Sapere
questo è più utile che sapere che il monte Aventino è fuori del
pomerio, come affermava quello, per uno dei due motivi: o per-
ché lì c’era stata la secessione della plebe, o perché, mentre Re-
mo vi prendeva gli auspici, gli uccelli non erano stati favorevoli,
e così via altre innumerevoli storie infarcite di panzane o simili a

11
Re della Mauretania (Africa settentrionale).
12
Lucio Cecilio Metello trionfò nel 250 a.C. sui Cartaginesi sconfitti a
Palermo.
panzane. Perché anche ammesso che dicano tutto in buona fede,
che siano garanti di quanto scrivono, di chi coteste cose sceme-
ranno gli errori? Di chi freneranno le passioni? Chi faranno più
forte, chi più giusto, chi più generoso? Diceva il nostro Fabiano
di dubitare a volte, se non fosse meglio non studiare affatto che
impegolarsi in tali studi.

14. Soli fra tutti sono sfaccendati quelli che dedicano il tempo
alla saggezza, solo essi vivono; né solo della loro vita sono at-
tenti custodi: vi aggiungono ogni età; tutti gli anni alle loro spal-
le sono un loro acquisto. Se non siamo mostri d’ingratitudine,
quei fari di luce, fondatori di sacre dottrine, sono nati per noi,
hanno predisposto la vita per noi. È la loro fatica a guidarci ver-
so luminose conquiste, dissepolte dalle tenebre; non siamo
esclusi da nessun secolo, a tutti abbiamo libero accesso, e, se ci
garba di evadere dalle angustie della debolezza umana con la
grandezza dello spirito, è molto il tempo per cui spaziare. Ci è
possibile disputare con Socrate, dubitare con Carneade, con
Epicuro starcene in pace, vincere con gli Stoici la natura umana,
con i Cinici oltrepassarla. Dato che la natura ci lascia condivi-
dere il possesso di ogni tempo, perché non elevarci con tutto l’a-
nimo da questo esiguo ed effimero volgere di tempo a quei pen-
sieri che sono immensi, sono eterni, sono comuni a chi è miglio-
re di noi? Costoro, che corrono da un impegno all’altro, che non
lasciano in pace né sé né gli altri, quando si sono ben bene am-
mattiti, quando hanno fatto il giro quotidiano di tutte le porte
senza trascurarne una aperta, quando hanno recato per le case
più distanti il saluto venale, quanto pochi potranno vedere di
una città così immensa e in preda a così varie passioni? Di quan-
ti il sonno o la dissolutezza o la maleducazione non li farà en-
trare? Quanti, dopo avergli inflitto il tormento di una lunga at-
tesa, passeranno oltre con finta fretta! Quanti eviteranno di far-
si vedere nell’atrio zeppo di clienti e se la svigneranno per usci-
te segrete, come se non fosse più offensivo ingannare che lasciar
fuori! Quanti mezzo addormentati e appesantiti dalla crapula
del giorno prima, a quei disgraziati che interrompono il proprio
sonno per aspettare l’altrui, renderanno il saluto pronunziando-
ne fra insolenti sbadigli il nome mille volte sussurrato a fior di
labbro dallo schiavo! Possiamo ben dire che sono veri impegni
quelli di chi vorrà ogni giorno essere il più possibile intimo di
Zenone,13 di Pitagora e di tutti gli altri sacerdoti della virtù, di
Aristotele e di Teofrasto. Non ci sarà nessuno di loro che non
avrà tempo per te, che, se ci vai, non ti farà tornare più felice e
affezionato, da nessuno te ne andrai a mani vuote: di notte, di
giorno è possibile a tutti incontrarli.

15. Nessuno di loro ti costringerà a morire, tutti te lo insegne-


ranno; nessuno di loro consumerà i tuoi anni, anzi ti aggiungerà i
suoi; di nessuno di loro saranno pericolosi i discorsi, funesta l’a-
micizia, dispendioso l’ossequio. Otterrai da loro tutto ciò che
vorrai; non saranno loro a impedirti di attingere quanto più puoi
contenere. Che felicità, che bella vecchiaia attende chi si è fatto
loro cliente! Avrà con chi discutere i più piccoli e i più grandi
problemi, chi consultare ogni giorno su se stesso, da chi udire ve-
rità non umilianti, ricevere lodi non adulatorie, sul cui modello
formarsi. Siamo soliti dire che non era in nostro potere scegliere
i genitori, datici dalla sorte: ma possiamo nascere come voglia-
mo. Esistono famiglie formate dagli ingegni più noti: scegli in
quale vuoi essere adottato; non ne otterrai solo il nome, ma gli
stessi beni, che non dovrai amministrare con avarizia e taccagne-
ria: a più li distribuirai e più cresceranno. Saranno loro a darti la
via per l’eternità e a innalzarti in quel luogo, da dove nessuno è
scacciato. È questo il solo modo di prolungare la condizione
mortale, anzi di mutarla in immortale. Onori, monumenti, tutto
ciò che l’ambizione decreta o costruisce, è presto scalzato, nulla
a lungo si sottrae all’azione demolitrice del tempo; ma a ciò che
consacra la saggezza non si può nuocere; nessun’età lo cancel-
lerà, nessuna lo sminuirà; la successiva e tutte quelle che verran-
no dopo porteranno il loro tributo di venerazione, perché ristret-
to è l’orizzonte dell’invidia, più schietta è la nostra ammirazione
a distanza. Molto dunque si estende la vita del saggio, non è con-
finato negli stessi limiti degli altri: lui solo è libero dalle leggi del-
l’umanità, tutti i secoli ubbidiscono a lui come a dio. È passato
del tempo: lo blocca col ricordo; urge: ne usa; sta per venire: lo
pregusta. Gli fa lunga la vita la concentrazione di tutti i tempi.

13
Zenone di Cizico, il fondatore della Stoa.
16. Brevissima e ansiosissima è la vita di quelli che dimenticano
il passato, non curano il presente, temono il futuro: giunti all’ulti-
ma ora, tardi comprendono, disgraziati, di essere stati tanto tem-
po occupati a non far nulla. Né si credano prova di lunga vita le
ripetute invocazioni alla morte: li tormenta l’ignoranza fra pas-
sioni incerte che incorrono proprio in quel che temono; si augu-
rano spesso la morte perché ne hanno paura. Non è prova che
vivono a lungo neppure il fatto che spesso il giorno gli sembra
eterno, che in attesa dell’ora convenuta per il pranzo, si lamenta-
no che il tempo non passa mai; se poi le loro occupazioni li ab-
bandonano lasciandogli disponibilità di tempo, ondeggiano e
non sanno come impiegarlo o trascorrerlo. Perciò si propongono
un’occupazione qualunque e tutto il tempo intercorrente gli pe-
sa, così come, quando si è fissato il giorno di uno spettacolo di
gladiatori, o quando si aspetta il momento stabilito per qualche
altro spettacolo o piacere, vorrebbero saltare i giorni di mezzo.
Per loro ogni rinvio di una cosa sperata è lungo: ma quel tempo,
che amano, è breve e corre a precipizio e ancor più si accorcia
per loro colpa: ché passano da una cosa all’altra e non possono
fermarsi in una sola passione. Per loro non sono lunghi i giorni,
ma odiosi; invece come gli sembrano corte le notti che passano
tra le braccia delle puttane o tra i bicchieri! Di qui anche il deli-
rio dei poeti che alimentano i traviamenti umani: a sentirli, Gio-
ve nell’ebbrezza del piacere avrebbe duplicato una notte d’amo-
re. Non significa dar esca ai propri vizi farne promotori gli dèi e
dare ai nostri mali con l’esempio della divinità la scusa per sfre-
narsi? Possono a costoro non sembrare cortissime notti pagate
così care? Perdono il giorno in attesa della notte, la notte per ti-
more del giorno.

17. Gli stessi loro piaceri sono ansiosi e senza pace per varie
paure, e proprio al culmine dell’ebbrezza subentra il pensiero
tormentoso: «Quanto durerà?». Per via di questo stato d’animo,
dei re piansero la loro potenza, né gli dava tanta gioia la gran-
dezza della loro fortuna quanto terrore la prospettiva della fine.
Schierando in grandi pianure l’esercito e non potendolo contare,
ma solo misurare, l’orgogliosissimo re di Persia versò lacrime,
perché di lì a cent’anni nessuno di tanti giovani sarebbe soprav-
vissuto: ma doveva abbreviarne la vita proprio lui che li piange-
va, doveva far perire chi in mare, chi in terra, chi in battaglia, chi
in fuga e in breve tempo annientare quelli per i quali temeva il
centesimo anno. E le loro gioie, non sono anch’esse ansiose?
Non hanno solide basi, ma soffrono della stessa inconsistenza da
cui nascono. Quali credi che siano le ore per loro stessa confes-
sione tristi, se anche queste, in cui insuperbiscono e si pongono
al di sopra dell’umanità, sono così poco genuine? Tutti i beni più
grandi sono fonte di ansia, e di nessuna fortuna è bene fidarsi
meno che della più prospera: c’è bisogno di sempre nuovo suc-
cesso per mantenere il successo, e si devono far voti proprio per
i voti che si sono realizzati. Tutto ciò che avviene per caso è in-
stabile; ciò che si è levato più in alto è più esposto alle cadute.
Ora a nessuno fanno piacere le cose caduche: è dunque inevita-
bile che sia dolorosissima, e non solo brevissima, la vita di chi ac-
quista con grande pena beni da possedere con pene maggiori.
Con fatica ottengono quello che vogliono, con ansia mantengo-
no quello che hanno ottenuto; non si fa intanto nessun conto del
tempo che non tornerà mai più: nuove faccende subentrano alle
vecchie, una speranza, un’ambizione ne risveglia un’altra. Non si
cerca la fine delle sofferenze, ma se ne cambia la materia. La no-
stra carriera ha cessato di tormentarci? Ci prende più tempo
quella degli altri. Abbiamo finito di penare come candidati? Ri-
cominciamo come sostenitori delle altrui candidature. Ci siamo
liberati dalla seccatura di essere accusatori? Incappiamo in quel-
la di essere giudici. Ha cessato di essere giudice? Istruisce pro-
cessi. È invecchiato amministrando a pagamento i beni altrui?
Ha mille brighe dalle sue sostanze. L’esercito ha congedato Ma-
rio?14 Lo fa tribolare il consolato. Quinzio15 non vede l’ora di de-
porre la dittatura? Lo richiameranno dall’aratro. Muoverà con-
tro i Cartaginesi Scipione16 non ancora in età per tanta impresa;
vincitore di Annibale, vincitore di Antioco, lustro del suo conso-

14
Gaio Mario.
15
Cincinnato, due volte dittatore (458 e 439 a.C.).
16
Publio Cornelio Scipione l’Africano, inviato nel 211 a.C. a ventiquat-
tr’anni, come proconsole in Spagna contro Asdrubale; vincitore di Anni-
bale a Zama nel 202; di Antioco, re di Siria, a Magnesia nel 190, ma come
consigliere del fratello Lucio. Si oppose che la sua statua fosse posta nel
tempio di Giove Capitolino; esposto agli attacchi dei tribuni della plebe, si
ritirò a Literno, in Campania.
lato, garante di quello fraterno, non fosse per la sua opposizione
avrebbe un posto accanto a Giove: salvatore dei cittadini, sarà
coinvolto in lotte civili e quel giovane che aveva sdegnato onori
pari agli dèi, da vecchio si compiacerà di ostentare un orgoglioso
esilio. Non mancheranno mai motivi lieti o tristi di preoccupa-
zione; la vita si caccerà da una faccenda in un’altra: il tempo libe-
ro non sarà mai una realtà, sarà sempre un sogno.

18. Stàccati dunque dalla folla, Paolino carissimo, e dopo tante


traversie non proporzionate ai tuoi anni ritìrati finalmente in un
porto più tranquillo. Pensa quanti flutti hai affrontato, quante
tempeste private hai sofferto, quante pubbliche ti sei attirato; già
abbastanza si è messo in luce il tuo valore attraverso prove fati-
cose e turbolente: sperimenta quel che può fare in assenza di im-
pegni. Sia stata dedicata alla vita pubblica la maggior parte del-
l’esistenza, certo la migliore: prenditi un po’ del tuo tempo anche
per te. Non ti invito a un riposo pigro e inattivo, non ad affogare
quanta vitalità c’è in te nel sonno e nei piaceri cari al volgo: que-
sto non è un riposare; troverai attività più grandi di quelle in cui
sinora ti sei impegnato, da svolgere in un sereno isolamento. È
vero che tu amministri gli affari del mondo con tanta onestà co-
me non tuoi, con tanta cura come tuoi, con tanto scrupolo come
pubblici. Ti fai voler bene in un incarico dove è difficile evitare il
malcontento: eppure, credimi, è meglio conoscere la contabilità
della propria vita che del grano statale. Distogli questa tua ener-
gia spirituale, capacissima delle cose più grandi, da un ufficio ono-
rifico sì, ma troppo poco adatto alla vera felicità, e pensa che non
ti sei perfezionato sin dai primi anni in ogni studio liberale per-
ché ti fossero felicemente affidate molte migliaia di moggi di gra-
no: avevi dato di te promesse più grandi e più alte. Non manche-
ranno uomini di assoluta onestà e laboriosità: a portar pesi sono
tanto più adatti i lenti muli che i cavalli di razza; chi mai ne ha
frenato la nobile agilità con una soma pesante? Pensa che fonte
di preoccupazioni sia sobbarcarti a un fardello così grande: hai da
fare col ventre degli uomini; il popolo affamato non sente ragio-
ni, nulla di giusto lo placa, nessuna preghiera lo piega. Or ora, nel-
lo spazio di quei pochi giorni in cui morì Gaio Cesare – se c’è una
sensibilità nell’oltretomba, soddisfatto perché calcolava che, an-
che se il popolo romano gli sopravviveva, almeno restavano vet-
tovaglie solo per sette o otto giorni –, mentre costruiva ponti di
navi e giocava con le risorse dell’impero, si affacciava il peggiore
dei mali anche per gli assediati, la carestia; costò quasi la morte e
la fame e, conseguenza della fame, la catastrofe, l’imitazione di
un re forsennato e straniero e sciaguratamente orgoglioso. Che
stato d’animo dovevano avere i responsabili dell’approvvigiona-
mento del grano, esposti alle pietre, al ferro, alle fiamme, a Gaio?
Con disperata dissimulazione coprivano un male così grande an-
cora nascosto nelle viscere, e a ragion veduta; ci sono cure che
vanno fatte all’insaputa dei malati: per molti fu causa di morte
avere appreso la propria malattia.

19. Rifùgiati in queste occupazioni più tranquille, più sicure, più


grandi! Credi che sia lo stesso se ti curi che il frumento sia trava-
sato nei granai senza danni per frode o incuria dei trasportatori,
che non si deteriori e fermenti per l’umidità, che risponda alla
misura e al peso, o se intraprendi questi studi sacri e sublimi, con
la prospettiva di sapere quale sia la materia di dio, quale la vo-
lontà, la condizione, la forma; quali vicende aspettino il tuo spiri-
to; che posto ci riservi la natura una volta dimessi dal corpo; qua-
le sia la forza che regge al centro gli elementi più pesanti dell’u-
niverso, sospende sopra i leggeri, solleva il fuoco alla periferia, fa
correre alle loro orbite gli astri; e via via gli altri fenomeni pieni
di grandi meraviglie? Vuoi, lasciata la terra, volgere l’occhio del-
l’anima a tali cose? Ora, mentre il sangue è caldo, mentre abbia-
mo vigore per mete migliori si deve andare. Ti attende in questo
genere di vita un gran numero di buone attività, l’amore e la pra-
tica della virtù, il saper vivere e morire, un profondo riposo.

20. Miserabile è la condizione di tutti gli affaccendati, ma so-


prattutto di quelli che non penano neppure per le proprie fac-
cende, regolano il loro sonno sul sonno altrui, il loro passo sul
passo altrui, hanno simpatie e antipatie – i più spontanei dei sen-
timenti – a comando. Se vogliono sapere come sia breve la loro
vita, pensino quanto poca sia la parte che gli appartiene.
Quando vedrai pertanto una pretesta già più volte indossata,
quando un nome celebre nel foro, non provare invidia: sono co-
se che si acquistano a scapito della vita. Perché un solo anno si
dati da loro, consumano tutti i loro anni. Certuni, prima di scala-
re la vetta della loro ambizione, tra le prime difficoltà li abban-
donò la vita; a certuni, fattisi strada attraverso mille disonestà
per coronare la carriera, venne l’amaro pensiero di aver faticato
per l’epitaffio; a certuni venne meno l’estrema vecchiaia, mentre
attendeva a nuovi programmi come la gioventù, vittima della sua
debolezza fra tentativi grandiosi e ostinati. Onta a chi, in età
avanzata, difendendo in tribunale litiganti del tutto sconosciuti e
cercando gli applausi di un pubblico ignorante, rimase senza fia-
to; vergogna a chi, stanco di vivere prima che di lavorare, stra-
mazzò in mezzo ai suoi stessi impegni; vergogna a chi, morendo
sul libro dei conti, fece sorridere l’erede a lungo frustrato. Non
posso tacere un esempio che mi viene in mente: Sesto Turannio
era un vecchio di assoluta coscienziosità, che dopo i novant’anni,
ricevuto da Gaio Cesare il non richiesto esonero dalla procura,
si fece porre sul cataletto e piangere come morto da tutta la sua
gente. Piangeva la casa l’inattività del vecchio padrone e non finì
il lutto prima che gli fosse restituito il lavoro. È così piacevole
morire affaccendato? Lo stesso stato d’animo ha la maggior par-
te: dura più a lungo in essi la voglia che la capacità di lavorare;
lottano con la debolezza fisica, e reputano la stessa vecchiaia
gravosa solo perché li mette da parte. La legge non chiama sotto
le armi a partire dai cinquant’anni, non convoca il senatore dai
sessanta: è più difficile per gli uomini ottenere il riposo da se
stessi che dalla legge. Frattanto, mentre sono rapinati e rapina-
no, mentre si tolgono la pace l’un l’altro, mentre si rendono reci-
procamente infelici, la vita resta senza frutto, senza piacere, sen-
za alcun progresso spirituale: non c’è nessuno che ha in vista la
morte, che non saetta lontano le sue speranze, certuni poi predi-
spongono anche le cose che sono oltre la vita, grandi moli di se-
polcri e dediche di opere pubbliche e giochi funebri ed esequie
pompose. Ma certo i funerali di costoro, come se avessero vissu-
to pochissimo, dovrebbero farsi al lume delle torce e dei ceri.

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