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Il Congresso di Vienna

Più che una memoria la grande Rivoluzione francese costituì per tutta la metà
dell’Ottocento una presenza, una presenza tanto intensa da condizionare
pesantemente strategie e scelte sia di chi ne desiderava il ritorno sia di chi temeva
questa eventualità, quasi che i contemporanei non vedessero alternative politiche alla
possibilità di emularla o cancellarla. Le potenze che avevano penato tanti anni per
sconfiggerla finivano per vederne i fantasmi ovunque; la stessa cosa accadeva a chi
scrutava ogni tumulto sperando che si trasformasse in una nuova Bastiglia, sperando
di rifondare il potere fondandolo sul consenso della comunità nazionale, sul
riconoscimento di un robusto patrimonio di diritti ai suoi abitanti, proprio per questo
promossi da sudditi a cittadini. Stella fissa dotata di una straordinaria permeabilità e
plasticità, la rivoluzione finì per diventare la matrice comune di discorsi politici
molto diversi tra loro, per effetto non solo di innumerevoli ibridazioni nazionali e
culturali, ma anche del diverso peso assegnato a questo o a quello dei suoi principi
ispiratori e del significato a essi attribuito (basti pensare al diverso peso assegnato al
concetto di uguaglianza nel socialismo e nel liberalismo).
Con il Congresso di Vienna (1814-1815) si concluse il lungo periodo delle guerre
rivoluzionarie e napoleoniche, che a partire dal 1793 avevano sconvolto l’Europa.
Gran Bretagna, Russia, Prussia e Austria, protagoniste della coalizione che aveva
infine sconfitto l’impero napoleonico si mossero con l’intento di restaurare il passato
ovvero di riportare il mondo all’ordine politico, sociale, culturale precedente la
Rivoluzione. Il ritorno sul trono francese di un Borbone, Luigi XVIII, ebbe una
enorme importanza simbolica. Al tempo stesso, però, quei restauratori erano
perfettamente consapevoli che le loro scelte costituivano una risposta a ciò che la
rivoluzione aveva rappresentato, un tentativo di bloccarne le ripercussioni e le
ripetizioni: insomma, che erano figlie della rivoluzione e che dunque potevano
rinnegarla ma non ignorarla. Parlare di età della Restaurazione (1815-1830) significa
fare riferimento a una scelta ideale più che al puro e semplice ritorno a uno status quo
ante. La carta d’Europa fu ridisegnata sia dal punto di vista territoriale sia da quello
politico, tenendo conto delle necessità di un equilibrio antirivoluzionario e degli
interessi delle grandi dinastie. Ma proprio perché l’interesse prioritario consisteva
nell’evitare la guerra per evitare la rivoluzione, il criterio adottato per ridisegnare
l’Europa dal punto di vista territoriale non fu tanto la restaurazione del passato sic et
simpliciter quanto la creazione di un sistema di bilanciamento delle influenze e di
equilibri ponderati che permettessero di ridurre al minimo le tensioni internazionali.
Il Congresso convocato a norma della prima Pace di Parigi del 30 maggio 1814 con il
compito di dare un nuovo assetto politico all’Europa dopo la sconfitta della Francia
napoleonica, cui presero parte tutti gli Stati europei, in realtà fu dominato dalle
maggiori potenze europee uscite vittoriose dalla guerra. Sulle prime i lavori andarono
a rilento. Metternich per l’Austria, lo zar Alessandro I insieme al conte di Nesselrode
per la Russia, K.A. Hardenberg  per la Prussia, R.S. Castlereagh e poi Wellington per
la Gran Bretagna, pur essendo tutti d’accordo sulla necessità di fondare il nuovo
ordinamento politico-territoriale del continente su un equilibrio politico che fosse
garante della pace futura del continente e neutralizzasse la Francia, avevano tuttavia
idee diverse e contrastanti sulle modalità di realizzazione pratica di tale obbiettivo. Il
principio fondamentale della politica di Metternich, che fu il supremo moderatore del
Congresso, era quello di togliere alla Francia qualsiasi capacità di ripresa di mire
egemoniche su scala continentale e garantire un equilibrio europeo dominato dalle
potenze vincitrici del conflitto con Napoleone I, all’interno del quale fosse però
centrale la posizione dell’Austria. Anche questo disegno poté attuarsi solo in parte,
perché l’abilità diplomatica di Talleyrand seppe presentare gli interessi della Francia
come distinti da quelli napoleonici e trarre partito dalle divergenze sorte tra le quattro
potenze, riuscendo a limitare al minimo i danni in materia di cessioni territoriali e
preparando il terreno per un futuro reinserimento della Francia nei centri decisionali
della grande politica europea. A causa di queste e altre divergenze i negoziati tra le
potenze, iniziati nel settembre 1814, si protrassero fiaccamente sin verso il marzo del
1815, quando la notizia dello sbarco di Napoleone in Francia ricostituì la solidarietà
della grande alleanza e accelerò e facilitò la ricerca di un compromesso fra le parti. In
poco più di due mesi si giunse alla redazione dell’atto finale del Congresso, firmato
dalle quattro potenze antinapoleoniche e dalla stessa Francia, dal Portogallo, dalla
Svezia e poi da tutti gli Stati minori, a eccezione della Santa Sede. La Francia, nella
quale fu restaurata la monarchia borbonica con Luigi XVIII, grazie a Talleyrand
ottenne il grande successo di poter ritornare semplicemente ai confini del 1789 senza
ulteriori perdite. Ai suoi confini nacquero il regno dei Paesi Bassi e la
Confederazione germanica formata da 39 Stati, fra cui Austria e Prussia, i cui
rappresentanti si riunivano a Francoforte in una Dieta federale presieduta
dall’Austria. Queste disposizioni garantivano la centralità dell’impero asburgico nel
sistema delle potenze europee, una centralità che si protrasse per tutta la prima metà
del 19° sec., nonostante i sussulti rivoluzionari nazional-liberali che la scossero
ripetutamente nel 1820-21, 1830-31, 1848-49. L’equilibrio politico territoriale
stabilito a Vienna andò definitivamente in frantumi tra il 1859-60 e il 1866-70 con
l’unificazione politica dell’Italia e della Germania. I principali strumenti di difesa
dell’equilibrio geopolitico uscito dal Congresso di Vienna furono la Santa alleanza
(Russia, Prussia e Austria) e soprattutto la Quadruplice alleanza (Austria, Russia,
Prussia, Inghilterra) che avrebbe difeso i deliberati di Vienna del 1815 fino al 1848-
49 attraverso l’uso anche della forza militare. 
La Santa Alleanza fu una dichiarazione politica, poi sistema politico  che regolò la
vita dei principali Stati europei dal 1815 al 1830. La dichiarazione, firmata a Parigi il
26 settembre 1815 da Alessandro I di Russia, Federico Guglielmo III di Prussia e
Francesco II d’Austria, fu voluta dallo zar e affermò il principio che i tre sovrani,
rappresentanti delle confessioni ortodossa, protestante e cattolica, dovevano restare
sempre uniti come fratelli e governare i popoli con paterna sollecitudine per
alimentare in essi lo spirito di fratellanza evangelica e l’amore della religione, della
pace, della giustizia. In seguito aderirono anche i re di Francia, dei Paesi Bassi,
di Svezia e di Sardegna; non aderirono invece Pio VII e il principe reggente
d’Inghilterra. Tuttavia il ministro degli esteri britannico R.S. Castlereagh promosse il
rinnovamento (20 novembre 1815) della quadruplice alleanza con Austria, Prussia e
Russia del 1° marzo 1814, che fu la base concreta della cosiddetta politica dei
congressi condotta poi dalle potenze alleate.
Il nuovo sistema europeo nasceva dunque con una fortissima caratterizzazione
ideologica ispirata al passato della sacralità monarchica: originale rispetto al primato
settecentesco della politica sulla religione, sia al laicismo rivoluzionario. Questo
vento bigotto doveva supplire alla debolezza ideale del principio di legittimità
dinastica. La Santa alleanza introduceva un’altra interessante novità nella diplomazia
europea. Le truppe dei paesi alleati erano autorizzate ad intervenire per mantenere
l’ordine ovunque fosse richiesto, interferendo liberamente negli affari interni di ogni
altro paese. Questo era stato stabilito per prevenire lo spettro della rivoluzione. Ma il
significato ideale e politico dell’intervento straniero cambiava di segno. Avveniva
infatti un ripudio radicale non solo della laicità dello Stato, ma anche della sua
sovranità nei rapporti internazionali; e si ritornava ad un clima intollerante di guerre
di religione che il Settecento sembrava avere definitivamente abbandonato.
Il Congresso di Vienna lasciava però molte questioni aperte, tra cui quella dell’Italia
il cui territorio era stato smembrato secondo una logica di compromesso con un
occhio agli equilibri europei piuttosto che alla stabilità della penisola. In Italia non
furono restaurate né la Repubblica di Venezia, il cui territorio unito a quello della
Lombardia entrò a far parte del regno del Lombardo-Veneto sotto la sovranità
dell’Austria, né quella di Genova (la Liguria andò ai Savoia), né quella di Lucca,
eretta a ducato e data provvisoriamente ai Borbone di Parma in attesa dell’annessione
alla Toscana dei Lorena prevista dopo il loro ritorno a Parma, che nel 1815 fu
assegnata a vita a Maria Luisa d’Austria. Modena e Reggio furono date a Francesco
IV d’Austria-Este, che avrebbe avuto in eredità anche Massa e Carrara,
temporaneamente assegnate a sua madre, Maria Beatrice d’Este-Cybo. In Toscana
tornarono gli Asburgo-Lorena. Lo Stato pontificio fu restaurato con le Legazioni; la
dinastia borbonica di Napoli riebbe il regno di Napoli e quello di Sicilia che furono
fusi nel nuovo e unico regno delle Due Sicilie. La memoria dell’esperienza di
circolazioni di merci, di idee e persone determinò già all’indomani del 1815
l’emergere di una diffusa ostilità verso l’ordine restaurato da parte dei ceti sociali che
erano stato favoriti dai più moderni ordinamenti giuridico-amministrativi introdotti
dai nuovi regimi. Potenzialmente avverso alla preponderanza austriaca era il
Piemonte, sulla base di una tradizionale linea di espansione dinastica che spingeva i
Savoia a guardare con interesse verso la Lombardia. In Italia come in Europa non fu
dunque facile sistemare i confini, ma ancora più difficile fu il compito di restituire
credibilità a forme statuali legate a forze e concezioni dell’antico regime in
un’Europa che aveva sperimentato l’impatto dirompente di una rivoluzione che aveva
sostituito al re per diritto divino una collettività di cittadini responsabili della sorte
della patria comune. La ragionevolezza di cui dettero prova uomini come Metternich
e Talleyrand era anche il frutto della consapevolezza che essi avevano di poter
opporre ben poco ai principi di riorganizzazione del potere politico e statuale su base
nazionale e costituzionale solennemente sanciti dalla Rivoluzione francese e scritti in
quella moderna Magna Charta che fu la Dichiarazione dei diritto dell’uomo e del
cittadino. Al più le loro sapienti tessiture servirono a smorzare le rigidità di coloro
che interpretavano il principio di legittimità come una difesa aprioristica del diritto
monarchico di successione o di chi come lo zar Alessandro I inseguiva sogni di
crociate contro l’internazionalismo rivoluzionario, ristabilendo l’identità tra religione
e politica di medievale memoria. È proprio da questa commistione tra rigidità di
principio e oculatezza pragmatica che scaturì l’inestricabile compromesso della
Restaurazione. Così se nell’ambito del diritto privato nel Codice civile rimase forte
l’impostazione napoleonica con il riconoscimento dell’uguaglianza giuridica, nel
diritto pubblico si cercò di riaffermare una concezione del sovrano come unica fonte
di volontà e autorità. Hobsbawm e altri storici concordano nell’idea che la prima
metà del secolo XIX possa essere inscritta in una Età della Rivoluzione iniziata nel
corso degli anni ottanta del Settecento e conclusasi solo alla metà del secolo
successivo. D’altronde, mentre si davano gli ultimi ritocchi agli accordi viennesi, già
si segnalavano minacciosi, tumulti, propagande settarie, incontri segreti, associazioni
para-liberali. Il fatto stesso che il concerto di potenze istituito per sovrintendere il
governo del continente e composto all’inizio solo dai quattro paesi vincitori si aprisse
anche alla Francia fin dal 1818- ovvero in un momento di intensa conflittualità
sociale- implicava un’esplicita ammissione del fatto che il nemico da battere non era
più tanto la rivoluzione in quel paese, quanto le rivoluzioni in Europa.

Bibliografia:
A. M. Banti, Storia contemporanea
P. Viola, Ottocento
AA.VV, Storia moderna, Donzelli editore

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