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LA CAVERNA DEI DOLORI
Mi viene in mente un passo di un libro di Abdelwahab Med-
deb, insuperabile scrittore tunisino: “Il corpo è forse un carce-
re, un impedimento? Ci sono degli istanti felici in cui il corpo
risplende come un tempio. Ce ne sono altri, invece, in cui di-
venta la caverna dei dolori. Prigioniero di questa alternanza di
luce e di tenebre, i nostri cammini si perdono nella foresta che
accoglie il dramma del nostro corpo”.
Singolare che questa frase mi ritorni nel bosco dove vado quasi
tutte le mattine, in cerca di legna, di terra per l’orto, di risposte.
Singolare che mi faccia pensare alla vicenda umana del gran-
de Antonin Artaud, che da quella caverna di dolori non è mai
uscito e neanche mai ci è entrato. Semplicemente è nato, vis-
suto e crepato lì dentro. Forse, a volte, ha visto il buco da dove
entrava la luce e ha cercato di raggiungerla ma è sempre stato
ricacciato dentro dai prepotenti.
Lo incontrai, per la prima volta, durante i miei studi accademi-
ci, con Il teatro e il suo doppio. Ma il sole che batteva sopra il
ferro di cavallo a via Ripetta era troppo bello e arancione per
concentrarmi su quelle letture. Però capii che tutto il teatro
d’avanguardia, dalla Fura dels Baus al Teatro Potlach, alla So-
cietas Raffaello Sanzio, ai Momix erano suoi figli e senza di lui
non sarebbero mai nati.
Mi ritrovo tra le mani un vecchio millelire di Stampa Alterna-
tiva, Lettere ai prepotenti, dove sono riportate alcune lettere
che Antonin scrisse ai suoi aguzzini, a chi lo ricacciava conti-
nuamente dentro la grotta. Avevo un quadernetto con me, lì
nel bosco, ed inizio a tradurre in immagini la sua prima lettera
ai primari dei manicomi. La negazione della libertà, di una vi-
sione diversa. L’obbligo di riportare alla normalità.
Negli anni di internamento in manicomio Antonin cade in
coma cinquantuno volte in seguito ai numerosi elettroshock di
cui è vittima. Ogni due mesi, per nove anni, va in coma. La sua
caverna dei dolori è sempre più ampia. Il suo grido di libertà
viene regolarmente represso dall’elettricità. Muore a 52 anni
con una scarpa in mano, sembra averne almeno 70.
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Le scariche elettriche a cui veniva sottoposto, all’epoca rag-
giungevano i 400 watt. Antonin non aveva bisogno di questo
per liberare il suo spirito: la dipendenza dall’oppio, provocata
dai consigli e dalle somministrazioni del suo medico in giovane
età, già sarebbe bastata per tenerlo legato al suo maledetto
corpo.
Le scariche elettriche, al giorno d’oggi, in Italia, sono ancora
dispensate, anche se non ci è dato sapere a quanti disgraziati.
Le ultime informazioni risalgono al 2012 e parlano di circa 300
persone.
Poi il nulla. Spero che questo mio piccolo omaggio a una gran-
de anima faccia riflettere sull’assurdità dei manicomi, delle
carceri, dei luoghi di reclusione dove l’essere umano è privato
del bene più grande: la libertà.

Vi lascio con le parole di Franco Basaglia sull’elettroshock: “...è


come dare una botta a una radio rotta: una volta su dieci ri-
prende a funzionare. Ma anche in quella singola volta in cui la
radio s’aggiusta non sappiamo il perché”.

Massimo Benucci

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