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Intervista a Antonio Negri

a cura di Guido Borelli e Maurizio Busacca

Paris, 7 febbraio 2019

Che impressione hai della grande fortuna che riscuotono le pratiche di Social Innovation: ritieni che si
tratti di nuove forme di produzione del comune e/o dell’ennesima astuzia del capitale nell’estrarre valore
dalla vita quotidiana?

La social innovation è il tipico esempio di utilizzo di parole nuove per dire cose vecchie. A questo proposito,
Foucault si divertiva, prendeva alcuni neologismi e poi mostrava come, in alcuni casi, fossero trecento anni
che li si usava. Insomma, questa idea di innovazione sociale è in realtà una cosa che risale al passato. Una
volta la si faceva fare alle suore queste cose: era lavoro gratuito. Adesso lo si fa fare anche ai disoccupati
più o meno ideologicamente inquadrati in varie forme associative. Penso comunque che si tratti di qualcosa
che qualifica solo marginalmente il regime di produzione attuale. Ho paura che dietro alla popolarità di cui
gode oggi questo termine, si finisca per dimenticarsi del grosso: il mondo della finanza che si maschera
dietro queste piccole carità.
Ciò premesso, dal mio punto di vista le pratiche di SI non rappresentano nulla di particolarmente nuovo: si
tratta del tentativo neoliberale classico di utilizzazione di capitale e di beni collettivi per lavoro gratuito,
sottopagato o benevolo in generale (anche se non vedo tutta questa benevolenza). Quanto poi all’idea che
la SI consista nella produzione del comune, direi che si tratta piuttosto di beni sottratti all’accumulazione o
all'estrazione capitalistiche in generale. Mi sembra che si tratti di attività marginali da riassumere
sistematicamente come processo di accumulazione. Non si tratta di un'astuzia – come suggerite voi – La
parola «astuzia» mi ha comunque colpito perché poteva sembrare che si trattasse di un passo importante
per l’evoluzione del comune e, invece, non lo è. Probabilmente voi avete in mente l’astuzia del capitale
perché lo considerate pronto a sussumere tutte le forme di produzione di valore, comprese quelle
socialmente prodotte. In realtà, non è che il capitale sia astuto quando queste cose: fa semplicemente il suo
mestiere in maniera totalmente leale e pulita. Il fatto da considerare è che siamo passati in un regime di
accumulazione attraverso estrazione e il termine da utilizzare è «dispossessione»: dispossessione unificata
su un livello di astrazione del lavoro. Si tratta di forme di socializzazione che coincidono con forme di lavoro
nelle quali le attività retribuite e non retribuite – sulle quali più o meno largamente, più o meno
direttamente incide un mezzo di sfruttamento – che vengono comunque eguagliate attraverso un sistema
logistico. Si tratta di un sistema che comprende e unifica servizi di produzione, di riproduzione e di
circolazione sotto il comando del capitale finanziario. Quindi l'astuzia, se c’è, è talmente diffusa da essere
diventata sostanza.
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A questo punto Il termine astuzia – che è un termine hegeliano per cui la necessità viene trasformata in
furbizia, in casualità utile – può essere utilizzato solo se si accetta di considerare l'intero sistema come
articolato da astuzie generalizzate al massimo. Quindi, in quanto astuzie generalizzate, diventate comuni in
senso banale del termine.

Noi abbiamo la sensazione che l’etichetta «Social Innovation» sia stata creata ad hoc, con lo scopo da un
lato di depotenziare il conflitto dislocandolo all’interno della moltitudine: in realtà si produce meno
cooperazione e si crea un conflitto interno attraverso questi gruppi stessi. Dall'altro lato questa etichetta
legittima una messa al lavoro della vita intera, senza più distinzione tra spazi e tempi.

Sono totalmente d’accordo e sono trent’anni che lo dico. Devo dire che adesso, su questa storia della
sussunzione reale e della sussunzione totale, mi sembra che siamo finalmente tutti d'accordo. Proprio in
questo periodo ho avuto un paio di incontri con Etienne Balibar, con il quale ci stiamo occupando di gilet
jaunes. Anche lui concorda che oramai non ci siano più spazi alternativi rispetto a quella che è la
sussunzione globale dei tempi e degli spazi della vita. A meno che – appunto – questa sussunzione non sia
interrotta. Il problema grosso non è quello di dire che siamo tutti sussunti sotto al capitale: è di capire qual
è il margine entro il quale la rottura, sistematica, continua e quotidiana di questo rapporto, diventa
significativa. Il capitalismo è una relazione, alcuni la chiamano dialettica, altri antagonistica: io sono per
quest’ultima. Tuttavia, anche se non vedo con precisione quali siano i punti di sublimazione all'interno di
questo rapporto, penso tuttavia che questi possano esserci e che possano essere determinati da quelli che
sono i movimenti di lotta, da quelli che sono le grandi costruzioni del comune. Oggi il problema è di riuscire
a concepire, a capire se esiste, la possibilità di costruire spazi, iniziative che possano diventare grandi
meccanismi di valanga. All'interno, ovviamente, della condizione generale di sussunzione nella quale siamo
immersi.

A un certo punto del tuo percorso hai iniziato a portare l'attenzione sulla città. Henri Lefebvre diceva che
noi non potremmo mai pensare di cambiare la società se prima non cambiamo lo spazio in cui questa
società si sostanzia, perché uno spazio capitalista in qualche maniera ci vincola poi ad una logica
capitalista. Per Lefebvre la città era intesa come un luogo prodotto dal capitalismo.

Il mio ultimo libro in lingua inglese, From the Factory to the Metropolis, è una traduzione di cose scritte a
partire dagli anni ’70, ma in realtà è utile come base perché penso si possa andare molto avanti su questo
terreno. Oggi, di esperimenti di quartieri liberati ne esistono un po’ dappertutto. È chiaro che un quartiere
liberato non possa essere liberato dallo smog, ma quartieri in cui si possa mantenere il livello di una vita
decente, fuori dal traffico che spacca tutto, decentrati ma serviti da sistemi di comunicazione che siano

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adeguati, nei quali ci siano servizi di ogni genere e piccola distribuzione garantita con larga gamma di
possibilità, spazi verdi e via di questo passo: di questi quartieri ormai ce n’è dappertutto e devo dire che in
alcuni casi si tratta di esperienze anche molto interessanti. Penso al caso delle ZAD (zone à défendre):
cittadine metropolitane situate nei luoghi più pesantemente urbanizzati e miserabili, dove è possibile
trovare dei luoghi dove ancora si costruisce un po' quella che è l'economia morale. L'economia morale è un
concetto elaborato da Edward Thompson nel suo The Making of the English Working Class1. In quel libro
Thompson riconosce, nell’ Inghilterra agli albori della classe operaia, una resistenza allo sviluppo
capitalistico. Si tratta di una resistenza che potrebbe sembrare conservatrice ma che, in realtà, non lo è. La
moral economy rappresenta, invece, un vecchio modo di vivere che non è stato né sradicato, né alienato,
dall'industrializzazione e dall'urbanizzazione crescente. Da qui si genera una capacità di auto-sviluppo e di
forza che non coincide con una posizione reazionaria, ma diventa l’opposizione operaia. Questo è
estremamente importante: distinguere gli elementi di uso del proprio patrimonio, del proprio spazio, della
tradizione e di tutte le cose in termini costruttivi. Costruttivi di un'alternativa, sempre. Ma mi sembra
importantissimo cogliere questo punto perché, in un momento di grande transizione e di insopportabilità
del mondo esistente, anche se non si vedono all’orizzonte forze capaci di rompere questa situazione,
percepiamo che la moral economy è una forma di resistenza in grado di costruire altre cose. Mi rendo
conto che tutto questo significa niente dal punto di vista politico, però è più che una potenzialità, è – per
dirla in termini deleuziani – una virtualità. Questo mi sembra estremamente importante: cogliere oggi le
virtualità.

Secondo David Harvey, nelle città opera una profonda contradizione. Da un lato – molto prima del
movimento Occupy – le città erano già diventate i luoghi centrali della politica rivoluzionaria: nelle città
storicamente emergevano le correnti più profonde del cambiamento sociale e politico. Sotto questo
riguardo le città sono produttrici di pensieri e progetti innovativi e, in alcuni casi, utopici. Alo stesso
tempo sono anche i centri privilegiati dell'accumulazione del capitale e il fronte di lotta per chi controlla
l'accesso alle risorse urbane e per chi stabilisce la qualità e i ritmi della vita quotidiana. In questa seconda
prospettiva le città ci appaiono come delle isole circondate dal mare capitalista che in qualche maniera le
ingloba, le marginalizza e le tiene sotto scacco.

Quando l’ho conosciuto, Harvey era assolutamente contrario ad ammettere che lo sfruttamento passasse
attraverso estrazione. Fino a dieci anni fa lui proprio non ne voleva sapere, poi a partire da Rebel Cities, ha

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Il libro di Thompson è del 1963 e si concentra in particolare su come la classe operaia inglese, emersa attraverso i
degradi della rivoluzione industriale, sia stata in grado di creare una cultura e una coscienza politica di grande vitalità.
Nel 1971 Thompson ha successivamente approfondito il concetto di economia morale in: “The Moral Economy of the
English Crowd in the 18th Century”, pubblicato sul numero 50 della rivista Past and Present.

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cambiato prospettiva. Ricordo che è venuto nel 2014 a Passignano al convegno di Euronomade: abbiamo
avuto una lunga discussione e – anche se si era già convinto in merito alle tesi estrattiviste – giocava con noi
a farcelo dire. In quell’occasione c’è stato uno scambio molto importante e molto positivo perché Harvey
ha abbandonato questa idea delle isole e ha capito che c’è una virtualità generale commisurata alla
trasformazione del modo di produrre. Da tutto questo lui trae una concezione di valore e ne parla in termini
di accumulation by dispossession che, secondo me è vagamente improprio e un po’ troppo drammatico
molto pesante perché deriva direttamente dai capitoli di Marx sull’accumulazione primitiva. Oggi le
pratiche estrattive praticate dal capitale finanziario non hanno la ferocia che avevano ai tempi
dell’accumulazione primitiva. Va però sottolineato che si tratta di qualcosa che si dà in termini appunto
estrattivi (o amministrativi) e per questo motivo può essere anche questo un termine confuso, se si pensa
che l‘estrazione è anche estrazione di materie prime, estrazione beni naturali e via di questo passo.
Comunque altri termini non ce ne sono, per cui bisogna accomodarsi con questi: cerchiamo di accomodarci
il più possibile. Perché ormai ci sono cicli diversi – biologici, economici, civili e via di questo passo – che
devono equilibrarsi, in particolare quello biologico è fondamentale. Oggi stiamo bene: abbiamo questo
relativo accomodamento e, quindi, ci teniamo questo. Il neoliberismo non ti promette più progresso ma ti
promette stabilità ed è disposto a difenderla anche in termini autoritari. Questa stabilità che non è più
stabilità tua, ma stabilità sua. Bisogna adattarsi perché ci sono forze più grandi di noi, che ci impongono,
appunto, un accomodamento.

Come può il neoliberismo rinunciare a innovare? La stabilità in fin dei conti è sempre stata il grande
spettro della crescita: è paradossale che il neoliberismo proponga la stabilità quando ha fatto della
distruzione creativa la propria ragion d’essere.

Questo è vero ma bisogna sempre pensare che il neoliberalismo è sempre stato incrociato con
l’ordoliberalismo che è stato fondamentale per la stabilità. Secondo me, oggi (e non solo oggi, ma anche
ieri), l’ordoliberalismo si è rivelato più efficace. Dobbiamo considerare che dietro l’aggressività dei mercati
mondiali e della globalizzazione non si celano semplicemente le follie di Trump e della grande crescita
cinese; c’è una instabilità civile e sociale che è profonda, del tipo: «ne abbiamo abbastanza!». Contro le
retoriche del «bisogna adattarsi», c’è una parte crescente della popolazione che dice: «ne abbiamo
abbastanza!» I gilet jaunes sono parte di questo, in questi giorni, quando si sono si son collegati con la
Confédération générale du travail erano oltre trecentomila. Per la Francia, trecentomila persone in piazza è
una grossa cosa. Non trovo nulla di tutto questo nelle pratiche di social innovation: tutto quello che vedo è,
per il momento, un’accettazione a giocare sui margini. Le mie conoscenze di questi esperimenti di
innovazione sociale sono legate fondamentalmente a situazioni marginali e periferiche che non credo siano
generative di comune. Anche se il problema del generativo è grande, bisogna tuttavia avere ben chiaro
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quali possono essere i criteri rispetto ai quali questi esperimenti si misurano, e se questi criteri si
esauriscono nell’economia mainstream. Se, invece, si comincia a misurare le cose con indicatori diversi, che
si basano sul benessere o su altre cose, allora la questione può cambiare radicalmente. Questi esperimenti
potrebbero allora rivelarsi delle “isole etiche”. Per fare un esempio, quando ero giovane, c’era l’etica di fare
l’autostop di arrangiarsi per andare in giro per il mondo. Dai sedici fino ai venticinque anni di età – erano gli
anni dopo il 1945 – per me l’autostop è stata una scuola formidabile (molto più che fare il Balilla). È stato il
primo periodo subito dopo il quarantacinque. Questo è un esempio di etica marginale ma innovativa
perché con l’autostop si diventava europei, si imparavano le lingue e tutto questo arrangiandosi. Poi c’è
stata la stagione dei centri sociali. In Italia, si sa, i centri sociali son stati inizialmente dei luoghi in cui la
gente si drogava (ed erano permessi proprio per questo). Alla fine, si sono sviluppati in qualcosa di politico:
oggi ce n’è qualcuno che è diventato un centro culturale veramente sopraffino. Queste esperimenti sono
molto utili dal punto di vista etico, un po’ come i boy scout di una volta. Nel 68 mi ricordo che, alla nascita
di potere operaio si sono aggregati una decina di circoli di scout: sono due facce, una è comoda e l’altra è
scomoda, una accetta tutto e l’altra rifiuta tutto.

La questione dei centri sociali è interessante: negli anni Novanta erano una sorta di impresa culturale
ante litteram, ma di fatto i centri sociali di quegli anni erano qualcosa di molto simile a quella che poi, nei
primi anni duemila, ha preso la forma di impresa culturale. Oggi le esperienze più significative di quella
stagione si sono evolute in centri culturali veri e propri, in diverso modo indipendenti. Spesso si faceva
alfabetizzazione culturale e questa alfabetizzazione (che non è mai stata piena nei centri sociali tranne in
quelli che funzionavano meglio), si realizza interamente dopo il Duemila: da lì che maturano le prime
imprese culturali fondamentalmente orizzontali che più che fare cultura costituiscono circoli, ovvero
mettono in circolazione le idee. Possiamo allora osservare che ci sono elementi interessanti – anche
biografici – dei soggetti che frequentano e che partecipano attivamente a queste esperienze di
innovazione sociale. Per capirci: molti di loro hanno vissuto l'esperienza della stagione di Seattle e di
Genova e in molti casi, quando parli con loro attraverso interviste o semplici conversazioni, loro
riconducono a quei momenti, che traducono in termini di sconfitta, anche una parte della loro esperienza
successiva. E quindi è interessante vedere come viene ricostruita una sorta di continuità in queste
esperienze che definire politiche è forse troppo, ma sicuramente etiche e morali.

Bisogna stare molti attenti a usare con eccessiva disinvoltura il termine “sconfitta” come si trattasse di uno
degli effetti inevitabili del neoliberismo, come ci fosse solo il neoliberismo che vince. Secondo me, invece, la
cosa più importante di queste storie di innovazione sociale sono le storie della gente vera che ci sta dentro
che depositano esperienze e le comunicano: un fondo antologico prodotto da tutte queste esperienze. Non
si può parlare sempre di sconfitta, soprattutto tra i giovani: così si crea confusione e una pericolosa
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attitudine a trasformare tutto ciò nella sconfitta delle utopie e del tipo di sensibilità che le ha generate.
Parlo da vecchio a questo punto: però non si può parlare di sconfitta in questi casi, soprattutto per quanto
riguarda l’esperienza dei centri sociali in Italia che, anche se oramai finita, secondo me è stata
un'esperienza che ha prima di tutto allargato enormemente le capacità di alfabetizzazione e poi ha anche
coltivato le forme di vita e di gioia. Nei centri sociali si realizzava un’educazione al piacere, alla piacere della
vita, alla comunicazione, allo scoprirsi una maturità che non era più quella che ti davano le parrocchie o le
sezioni del Partito Comunista di una volta. C'è stata questa trasformazione antropologica reale in cui
questo lavoro gratuito, che però era lavoro: produceva. Questo è stato un elemento importante.

L’esperienza dei centri sociali ha indicato la possibilità di una riappropriazione della vita quotidiana, la
possibilità di una alternativa all’alienazione mortifera somministrata dal neoliberismo?

Credo proprio di sì! Però per me sono degli indicatori marxisti, puramente e duramente marxisti. Quantità
di lavoro che si strappa all’accumulazione: questo è costruzione del comune. La costruzione del comune
passa attraverso la capacità di mettere insieme lavoro concreto e lavoro astratto. Di mettere assieme lavoro
astratto e irrecuperabile in qualche modo, come deposito ontologico. Come, per esempio, l’assistenza
sociale. Oggi assistiamo a uno degli spettacoli più spaventosi, che è appunto l’attacco feroce che si fa
all'assistenza pubblica e al welfare in generale. Ciò nonostante si vede che su questo terreno c’è una difesa:
questo è comune. Malgrado tutto resto ottimista su questo terreno, nella lotta su questo terreno sarà una
lotta che difficilmente il neoliberismo riuscirà a vincere. Ieri sera sono stato a un bellissimo seminario dove
c’era un vecchio professore ormai in pensione che ci ha raccontato come è nata l'assistenza sociale in
Francia. Era il 1946 e un ministro comunista per la prima volta ha unificato tutti i servizi di assistenza ai
lavoratori e ai cittadini, sia quelli che riguardavano il pensionamento, sia quelli che riguardavano
l'assistenza sanitaria, sia quelli di assistenza alle famiglie(che in Francia sono sempre stati usati in termini
assolutamente provocatori, dove la quota familiare per il capofamiglia in fabbrica – gli assegni familiari – è
sempre stata usata in Francia per evitare aumenti di salario generalizzati e nasceva come campagna
demografica aperta dai fascisti che ritenevano che la sconfitta nella guerra del 1870/1871 era da
addebitarsi al fatto che la Francia aveva poca prole). Da quel momento, la questione della prole viene
utilizzata per rompere ogni tentativo di sciopero generale: il tentativo di ottenere benefici generali mentre
invece si aumentano i premi per la prolificità delle famiglie. Dal 1946 viene tutto unificato con
un’operazione che William Beveridge aveva contemporaneamente e faticosamente fatto in Inghilterra. La
previdenza sociale funziona in modo indipendente rispetto a qualsiasi tipo di corrispondenza contributiva: è
l’uomo e non il lavoratore al centro. Questa, per me, è la vera istituzione del comune. Il processo di
attribuzione di beni collettivi a capitale umano si può capire perfettamente solo nella misura in cui
riusciamo a considerare la possibilità che da capitale umano si posa ritornare a essere uomini. Oggi ci sono
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tentativi cooperativi molto interessanti, soprattutto se applicati alle grandi sfere produttive. Al proposito,
mi viene in mente l’esperienza Smart Cooperative di Bruxelles – che offre servizi di consulenza, strumenti di
gestione, spazi condivisi e tutta una serie di possibilità per sviluppare un progetto aziendale o un progetto
autonomo mantenendo una reale protezione sociale. Si tratta di una impresa comune che funziona anche
da sindacato piuttosto che da pura cooperativa produttiva.

La Cooperativa Smart si caratterizza come uno strumento di garanzia per i lavoratori culturali esposti a
grande incertezza sui tempi e le modalità di pagamento? 2

Sì, ed è anche uno strumento di accesso al reddito e di mantenimento, di difesa e certe volte anche di
alternativa. Queste iniziative non vogliono organizzare questa persone, che normalmente sono sfruttate più
di tutti gli altri lavoratori. Qui c’è sia il rifiuto della cooperazione, intesa nel vecchio senso comunista,
secondo cui solo la grande impresa cooperativa può rappresentare gli interessi dei lavoratori-soci. Non
credo che la cooperazione possa liberarci, a meno che la cooperazione non nasca e si sviluppi su
grandissimi spazi e su grandissime possibilità: per esempio avere a disposizione una banca. Detto
diversamente: che la collaborazione diventi un modello alternativo. In passato c’era stato il tentativo di
Theodore Schultz3, purtroppo oggi inattuabile. Mi sembra che, operando su questo terreno, ci troviamo
immersi in una situazione nella quale ci sia ben poco da fare, almeno se si intende muoversi lealmente
all'interno delle regole del sistema normativo, senza toccare i grandi principi – i soliti tre maledetti affari:
proprietà, patriarcato e sovranità. Sono questi tre principi che poi governano tutto e nei quali noi siamo
incastrati. Certo, con questo non voglio dire che sia inutile cercare degli spazi “altri”. Ci mancherebbe…

Per concludere sull'innovazione sociale, uno dei problemi che rileviamo è che dentro ci sta finendo di
tutto: dalla dimensione macro delle monete virtuali (che hanno comunque una dimensione sociale di un
certo interesse), fino ad arrivare all'ex Asilo Filangieri di Napoli, passando per il Comune di Milano che
lancia l'iniziativa per l’affidamento gratuito degli spazi comuni. Si tratta di esperienze anche interessanti
che, tuttavia, non hanno nulla in comune.

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La cooperativa Smart anticipa ai propri soci-lavoratori culturali i compensi derivanti da prestazioni di lavoro
effettuate verso i clienti da loro stessi individuati e in tal modo la cooperativa svolge un ruolo di anticipazione e
garanzia a beneficio di redditi incerti e precari.
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Il riferimento qui è ai lavori di Schultz degli anni Sessanta-Settanta. In particolare: The economic value of education,
New York, Columbia University Press, 1963; Investment in human capital: the role of education and of research, New
York, Free Press, 1971 e Investment in education; the equity-efficiency quandary, Chicago, University of Chicago Press,
1972.

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Queste è una questione che abbiamo trattato già più di 10 anni fa, quando con Michael Hardt scrivevamo
Commonwelth. Poi abbiamo fatto un sacco di cose anche partecipando attivamente a varie esperienze
locali, tra cui l’ex Asilo FIlangieri, nello stesso periodo in cui si svolgeva la vicenda del Teatro Valle occupato
a Roma, e abbiamo lavorato insieme a Stefano Rodotà. Una parte di quelle esperienze però ha avuto uno
sviluppo del tutto inatteso, tanto da entrare in conflitto con quelle altre parti, tra cui i compagni dell’Asilo,
che invece stanno sviluppando un’idea di bene comune contro il tentativo di schierare politicamente il
comune. Tuttavia emergono ugualmente alcune contraddizioni, come ad esempio il recupero dei beni
demaniali come beni comuni, visione che rischia di essere molto equivoca. Bisogna invece avere chiaro che
i beni comuni non sono cose che si arraffano qua e là e che si mettono a disposizione di non si sa bene chi,
devono invece essere costruiti dalle comunità. Il concetto di bene comune è un concetto di democrazia e
solamente sulla base di una democrazia partecipativa 4 effettiva e reale. Per il comune bisogna trovare
forme di democrazia adeguate alla sua gestione e bisogna assolutamente stabilire che è contro la proprietà
privata ma anche contro la gestione pubblica; è invece la riconquista di questi beni. Una riconquista di
questi beni in quanto li si produce. Quindi è una questione che prima o dopo va verificata sull’industria
culturale sull’industria delle merci, bisogna cominciare a pensare politicamente in grande, ad esempio
chiedendosi come si trasforma una piattaforma in un bene comune. Se non si fa questo, che innovazione
sociale è. Le esperienze napoletane su questi temi stanno esprimendo dei punti di vista molto interessanti.
Lì, ad esempio, i centri sociali dei Quartieri Spagnoli sono inseriti pienamente nella popolazione, di cui sono
una protesi e sono esperienze molto importanti dal punto di vista dell’assistenza, della cultura,
dell’accoglienza dei migranti.

Tuttavia la questione del reddito rimane ancora uno dei temi su cui queste esperienze hanno sviluppato
una riflessione limitata.

Secondo me in esperienze di quelle dimensioni la questione dell’auto-reddito non può funzionare. C’è
invece una questione che le precede tutte ed è quella del reddito garantito per tutti e solo su questa base
che questi centri riusciranno a stabilire dei momenti di associazione e di cooperazione da cui possono
partire anche iniziative. Però finché sono delle assemblee di poveri non c’è niente da fare, sono poveri e
generano guerre – o forse sarebbe meglio dire dispetti – tra poveri ogni volta che fanno iniziative. La
condizione assolutamente fondamentale è quella del reddito. Senza questa non so cosa potranno diventare
e dove potranno arrivare, anche se sono esperienze essenziali che depositano e trasformano le città.
Napoli, ad esempio, è oggi una città diversa in Italia così come Barcellona o Madrid in Spagna. Queste sono
esperienze che stanno determinando molto in termini di trasformazioni urbane.
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Seppure il concetto di democrazia partecipativa vada usato con grande parsimonia perché è stato ampiamente
saccheggiato nel corso degli anni ’90 dal ciclo dei movimenti no-global e ha dato vita ad esperienze estremamente
contraddittorie dando luogo a operazioni di approvazione delle politiche.
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