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Note esoteriche sui Modelli e Linguaggi

La nostra realtà è sempre stata filtrata dai sensi e si è sempre ritenuto fin dall’antichità che
bastasse l’opinione di molti per soverchiare quella di pochi.
Come dire in un paese popolato d pazzi, il pazzo sarebbe quello che noi riteniamo persona
normale.
E’ una questione di modelli che la nostra mente elabora e cataloga.
Immaginiamo di mettere insieme persone di nazionalità diverse e che parlano solo il loro
idioma. Gli si chieda di raccontare agli altri come è fatto un albero. Tutti parleranno della
medesima cosa ma con linguaggi diversi e nessuno capirà nulla di quanto gli atri stanno dicendo.
Ognuno di loro utilizza un modello di linguaggio e se vorranno capirsi dovranno
necessariamente svilupparne uno nuovo comune a tutti.
Quante energie spendiamo solo perché diciamo le stesse cose usando metodi diversi!
Quando osserviamo un evento o un oggetto reale e tentiamo di descriverlo diciamo, a parole,
ognuno darà più risalto a qualcosa e le rappresentazioni che ne conseguono saranno sempre
differenti. Abbiamo così creato tanti modelli che descrivono uno stesso oggetto o evento.
Qualcuno più attinente alla realtà di altri? Tutti imperfetti e il reale ne è l’unione di tutti?
Difficile a dirsi, verrebbe da pensare che ognuno descrive un particolare aspetto della realtà
e che l’unione di essi produce un altro modello che ancora descrive solo particolari aspetti
della realtà.
Il punto cruciale sta che la nostra mente possiede tantissimi “modelli” ottenuti dall’esperienza
e li interseca ottenendo sempre risultati nuovi.
Ogni singolo aspetto del reale può in qualche maniera essere descritto ma il reale non è un
“aspetto” ma una intersezione con mutua influenza di tantissimi aspetti (al limite anche
infiniti).
Un piccolo esempio: guardiamo una nuvola e se tentassimo una descrizione diciamo a parole
ecco che c’è a chi appare un cane, un gatto, panna montata, ecc.
Se lo chiedessimo a un fisico si lancerebbe in descrizioni sulla composizione, densità,
temperatura di rugiada ecc..
Se lo chiedessimo a un meteorologo si lancerebbe in descrizioni sull’influenza delle nuvole sul
tempo; e se lo chiedessimo a un chirurgo direbbe che non gli interessa perchè non è fatta di
carne umana.
Possiamo fare modelli di qualsiasi cosa e più importante ancora la nostra mente li usa e li
elabora in modo del tutto naturale utilizzando come sorgenti (o input) i nostri sensi. (notare
che già questa descrizione è di per sé un modello).
Ho parlato di modello come una sorta di “rappresentazione di un aspetto della realtà” ma ho
sempre sottinteso che per fare questo abbiamo bisogno di “sorgenti” per poterlo realizzare
(non posso descrivere una nuvola se non la vedo)
Senza una sorgente non è possibile costruire un modello e senza un risultato non ha nessun
significato costruire il modello.
Lo scoglio principale quando parliamo di modelli è quello di riuscire a capire un determinato
linguaggio e non dare mai per scontato che le nostre rappresentazioni (cioè i nostri modelli)
siano più attinenti alla realtà di altre.
Facciamo un esempio. Se uno sciamano tentasse di spiegare un suo rito di guarigione a un
medico occidentale, quest’ultimo attribuirebbe ogni eventuale risultato ad un effetto placebo
o chissà cos’altro (magari pensa di ascoltare un pazzo) e non considererebbe mai quel rito
come una soluzione medica al problema.
Parlano due linguaggi diversi e il medico utilizza i modelli a lui noti (quelli per inciso che gli
hanno insegnato). Egli si sofferma solo su alcuni aspetti che vengono proposti senza
considerare che la realtà è piena di manifestazioni a tutt’oggi non spiegate scientificamente
sia col metodo classico (provare che la teoria sia valida), sia col metodo moderno (provare che
la teoria sia invalida).
Quando mi avvicino alla questione modellistica sono solito parlare di “sfere di influenza” di un
modello; questo perché provo ad immaginare un aspetto di una particolare manifestazione
fisica e rilevo che l’aspetto osservato ha una sua sfera di influenza, cioè condiziona la realtà
solo in un limitato contorno.
Facciamo un esempio. Immagino un cuore e il mio modello descrittivo dice che è una pompa
(cioè lo descrivo come una pompa).
La sfera di influenza di questo modello è rappresentata solo dalla pressione, portata e
frequenza cardiaca. Nulla mi dice sul mondo collegato ad esso. Non si chiede per esempio il
tipo di stimoli che modificano la frequenza cardiaca e in che modo; non si chiede come il
mondo collegato ad esso influenza il mio modello; non si chiede cosa succede se la frequenza è
troppo elevata o troppo bassa; non si chiede come varia la sua temperatura all’aumentare dello
sforzo; non si chiede come sono distribuite le tensioni muscolari nelle varie fasi; potrei
continuare all’infinito. Modelli!
Sfere di influenza!
Un modello considera certe sorgenti, le elabora e produce dei risultati all’interno della propria
sfera di influenza.
La nostra mente, in modo del tutto naturale, fa la stessa cosa: utilizza i modelli che conosce e
incasella il reale in intersezioni di sfere di influenza.
Tutto può aiutarci a comprendere meglio il reale se solo ci accorgessimo di questo e aprire le
braccia (e la mente) a nuove dimensioni (Modelli!) fino ad ottenere delle sfere di influenza
sempre più grandi.
Alcuni dicono che la teoria del caos abbia tentato di abbracciare la più grande sfera di
influenza conosciuta. Purtroppo per sua natura non può entrare nei dettagli e ci si deve
accontentare di sguardi macroscopici.
Altri dicono che quando la scienza raggiungerà la vetta della montagna ove tutto è finalmente
chiaro e spiegato, scoprirà che il misticismo era seduto là da sempre.
Per ora penso che la cosa più importante sia aprire la nostra mente ad altri linguaggi, ad altri
modelli e lasciarla volteggiare in mille intersezioni fra essi.
Racconti di Modelli Matematici

Chiunque abbia affrontato la matematica e poi in qualche maniera se n’è allontanato (magari
per disgusto) non può che vedere un linguaggio fatto di simboli e numeri che uccide la fantasia
e offende il gusto creativo.
Mente imbrigliata e razionale quella del matematico. Eppure è un linguaggio, linguaggio
appositamente studiato per descrivere e fare modelli esattamente come tutti gli altri. C’è
incertezza anche qui (si pensi alla statistica). Ha solo una “piccola” differenza rispetto agli
altri linguaggi: può solo “parlare” attraverso relazioni che non lasciano spazio alle
interpretazioni .
Va precisato che è la relazione a non lasciare spazio all’interpretazione, ben diverso è il
risultato. Facciamo un piccolo esempio: se scrivo Y = X, tutti converranno che non c’è spazio
per descrivere questa relazione se non: la variabile Y è e sarà SEMPRE uguale alla variabile X.
Se però con Y e X indico ad esempio l’amore che due persone hanno l’uno per l’altra….Beh mi
verrebbe da dire che questa relazione è quanto mai impossibile.
Interpretazioni!
E’ così la matematica. La relazione non ha possibilità di essere interpretata ( Y è uguale a X),
ma il significato che potremmo attribuirgli… beh potremmo scriverci dei romanzi interi.
Questo approccio può essere molto utile per descrivere dei modelli (matematici dunque) che
rappresentino delle sfere di influenza di fenomeni reali.
Uno dei fiori all’occhiello della matematica (e a ragione) sono le famigerate equazioni
differenziali. Che Parolaccia!
Eppure sanno descrivere cosa ci accade in modo a dir poco sublime (come sempre poi ci sono i
soliti romanzi sulle interpretazioni). Sembro molto di parte nel dire questo ed in effetti… è
così!
Tutto nasce dal movimento, cioè da come un oggetto può cambiare, mutare rispetto ad un
altro. (La realtà è fatta poi di cose mutevoli)
Un piccolo esempio: me ne sto per i fatti miei in piscina e arriva una persona e di punto in
bianco mi insulta. Il mio umore cambia a causa di questo fatto.
Questa è l’essenza delle equazioni differenziali… descrivere il mutare al mutare delle
condizioni.

Supponiamo di voler costruire un modello matematico che descriva in modo molto semplice il
funzionamento del cuore. Innanzi tutto devo preoccuparmi di scegliere la sfera di influenza
del mio modello e diciamo che mi interessa vedere la pressione all’entrata del cuore in
relazione alla frequenza cardiaca.
Indico con P la variabile pressione. Subito posso osservare che P in qualche maniera dipende
dalla frequenza cardiaca (che indicherò con f) e il matematico scriverebbe immediatamente
P(f), cioè P è legata ad f attraverso una relazione (non nota ancora). Guardando più
attentamente ancora noto che la frequenza cardiaca non è altro che “Battiti al minuto” cioè in
qualche maniera è legata al tempo cioè potrei scrivere f(t) se t è il tempo, cioè f è legata a t
attraverso una relazione.
Potrei quindi scrivere la mia sfera di influenza del modello in questo modo: P(f(t)).
A parole: la pressione è legata alla frequenza che a sua volta è legata al tempo.
Torniamo alla relazione originale P(f) e immaginiamo di inventarci una descrizione.
Scriverò ad esempio P(f) = f. A parole la pressione e la frequenza sono legate fra loro da una
uguaglianza ( E’ come scrivere P = f). Il matematico che per sua natura è un simbolista
direbbe che P = f è si corretta ma non si capirebbe che stiamo parlando di una relazione e che
nel nostro modello P è la variabile che dipende da f, cioè è P quella che vogliamo scoprire
assegnando dei valori a f. Se volessi allargare un poco la sfera di influenza del modello e per
esempio dire che la pressione P non dipende solo dalla frequenza ma diciamo anche dalla
portata all’ingresso del cuore (che indicheremo con q) allora dovremmo scrivere che il nostro
modello è rappresentato dalla relazione P(f,q). Il matematico direbbe: “siamo in presenza di
una funzione a due variabili! E’ chiaro che potremmo aumentare sempre più la dipendenza della
pressione da altri fattori fino a trovarci di fronte ad una relazione con tantissime variabili
(genericamente dette funzioni a n-variabili).
Se poi siamo tanto arditi da voler osservare visivamente queste relazioni (ad esempio su di un
grafico cartesiano) scopriamo che per disegnare la relazione P(f) occorre un asse del grafico
dove rappresentare f ed un altro dove rappresentare il risultato (cioè la pressione). La
relazione P(f) = f cioè Pressione = frequenza sarebbe una retta inclinata di 45°.
Se volessi disegnare l’altra relazione P(f,q) ecco che ho bisogno di un altro asse ove
rappresentare la variabile q. Questo grafico sarebbe dunque a 3 dimensioni. I valori delle
variabili sul grafico si chiamano coordinate. E’ chiaro che se avessi una relazione con più di due
variabili non avrei più assi disponibili per rappresentare la relazione (visivamente ne posso
usare solo tre) ma questo non mette certo in difficoltà il matematico. Semplice ora in questo
contesto dire che una variabile in una relazione è come una dimensione e il matematico infatti
parla di relazioni (oppure funzioni) n-dimensionali con tanta facilità anche se non possono
essere rappresentate visivamente. P(f,q) contiene due variabili, cioè due dimensioni che in un
grafico diventano 3 (una ne occorre per il risultato).
I modelli matematici sono relazioni n-dimensionali a detta di un matematico.
Torniamo a considerare il nostro modellino con la semplice relazione P(f)=f.
Questa relazione ci dice anche qualcosa di più sui concetti di mutabilità di cui si è parlato
prima; a parole si potrebbe dire: se f varia di un fattore (diciamo 10) anche P fa lo stesso.
In altre parole la variazione di P è sempre uguale alla variazione di f.
In altre parole ancora la variazione di P di rispetto ad f è sempre costante ( f varia di 10, P fa
lo stesso.)
Questa è la derivata in sostanza e racconta come la variazione di una variabile influenza la
relazione e quindi il risultato.
In linguaggio matematico queste parole si scriverebbero per il nostro modello così: dP/df = 1

Quando definiamo un modello matematico dobbiamo sempre avere la cura di fare un’accurata
indagine sulle sfere di influenza e individuare così le relazioni tra le variabili. Non osservare
questo criterio è un po’ come il medico che prescrive una cura senza un’approfondita anamnesi.
Tornando al nostro modellino del cuore, ci siamo immaginati una relazione e siamo andati
avanti con questa assunzione di fatto.
Se dovevamo scoprire la relazione reale che esiste tra pressione e frequenza era necessario
studiare a fondo il problema e individuare la relazione senza darla per assodata.
Per esempio se avessimo osservato il fenomeno reale e ci fossimo accorti che, (ancora a solo
titolo di esempio), la variazione della pressione è = alla metà della variazione della frequenza e
in assenza di battito la pressione è nulla, il nostro modello diverrebbe:
dP/df = ½. In altre parole la pressione varia la metà di come varia la frequenza.
Il matematico avrebbe risolto l’equazione per arrivare a P(f) = ½f.

Fortunato quel matematico che gli abbiamo presentato un’equazione da risolvere molto
semplice. Infatti il nostro modellino contiene una relazione di proporzionalità tra le variabili e
per questo motivo il modello viene chiamato lineare. Ho detto espressamente la RELAZIONE.
Ben diverso può essere il risultato.
Un piccolo esempio: se avessi detto che la relazione tra P ed f fosse del tipo: la variazione di p
rispetto ad f è proporzionale a f stessa, avrei scritto dP/df = f
Relazione lineare anch’essa perché tra i vari membri c’e una dipendenza di proporzionalità. La
soluzione sarebbe comunque un po’ più complicata di prima ma nulla di problematico per il
matematico.
Il risultato sarebbe P(f) = ½ f^2 che è tutto fuorché lineare.
Quando definiamo una relazione possiamo dire che è lineare solo se tra le variabili c’è una
dipendenza proporzionale.
P(f) = ½ f^2 è un’equazione non lineare
P(f) = f è un’equazione lineare
dP/df = f è un’equazione DIFFERENZIALE lineare
dP/df = f^2 è un’equazione DIFFERENZIALE non lineare.

Il matematico in qualche maniera può sempre trovare una soluzione ad un’equazione


differenziale lineare, e praticamente mai a quelle non lineari (ci deve pensare un computer che
tenta di risolverla per approssimazioni successive).

Facciamo un altro esempio di modello matematico più attinente alla realtà.


Immaginiamo una molla e facciamo degli esperimenti per vedere come si comporta.
Scopo del modello è trovare una relazione tra il movimento che esegue nello scorrere del
tempo (vulgaris l’equazione del moto).
Chiamiamo X lo spazio che percorre la molla e t la variabile tempo.
Sfera di influenza del modello: X(t) cioè mettiamo in relazione solo lo spazio che percorre la
molla nel susseguirsi del tempo.
Partiamo con un’accurata indagine e cominciamo una serie di prove.
Notiamo che: Più si tira la molla e più essa schizza via veloce quando la si lascia. Ancora: più
tiro la molla e più sento una resistenza elevata che si oppone al mio tentativo di allungarla.
La resistenza che offre è dunque legata alla distanza della molla dal suo punto di equilibrio
(cioè quando nessuno tenta di muoverla). Questo significa che la sua forza di resistenza
produrrà un’accelerazione della molla tanto più alta quanto più ci allontaniamo dal punto di
equilibrio.
Continuando a fare prove e misurando gli allungamenti e le resistenza offerta dalla molla ci
convinciamo che esse sono diciamo abbastanza proporzionali.
Se lascio la molla vedo che innesca un moto oscillatorio che tende a smorzarsi fino a tornare al
medesimo punto di equilibrio.
Questa è una descrizione a parole che in qualche modo deve essere tradotta nel linguaggio
matematico. Ritengo essenziale prima di avventurarsi in un modello matematico avere ben
chiara la sfera di influenza del modello stesso e avventurarsi in una descrizione con altri
linguaggi. E’ un po’ come schiarirsi le idee prima di entrare nel formalismo matematico.
Come ormai ben sappiamo questo linguaggio pretende di definire delle relazioni inequivocabili e
che dovremmo andare ancora a cercare.
Analizziamo la frase: “la forza di resistenza è proporzionale all’allungamento della molla e
produrrà quindi un’accelerazione della stessa tanto più alta quanto più ci allontaniamo dal
punto di equilibrio”.
Cosa vuol dire accelerare? Non è forse come varia la velocità nel tempo? Quindi se con v
indico la velocità e desidero sapere come essa varia rispetto al tempo non devo fare altro che
usare una derivata: dv/dt (ricordando quanto detto sulle derivate).
Ma cos’è la velocità se non la variazione dello spazio percorso nel tempo? Se con x indico lo
spazio, la velocità sarà ancora una volta la sua derivata: dx/dt.
Ricapitolando: accelerazione = dv/dt; velocità: v = dx/dt.
Ricordate quando si parlava della pressione e frequenza nel modellino del cuore e di relazioni
che dipendono da una variabile che a sua volta dipendono da un’altra ancora ( P(f(t)) ?.
Qui è la stessa cosa.
Sostituendo si ottiene: Accelerazione = d( dx/dt) /dt che in linguaggio matematico si esprime
così: (accelerazione) a = d2 x/dt2.
Cioè l’accelerazione non è altro che la derivata seconda dello spazio rispetto al tempo.
In questo modo abbiamo trovato una relazione tra un’accelerazione, lo spazio e il tempo.
Il nostro modellino della molla a parole ci dice che si produrrà un’accelerazione della molla
tanto più alta quanto più ci allontaniamo dal punto di equilibrio (cioè la posizione quando sta
ferma e che indicheremo con il punto di origine: x = 0).
Non è forse dire in modo analogo che l’accelerazione prodotta è in qualche maniera
proporzionale allo spazio percorso? E non è forse come scrivere una relazione di
proporzionalità tra l’accelerazione e lo spazio percorso: a = kx?
(K è la costante di proporzionalità).
Ricordando la relazione che c’è tra l’accelerazione e lo spazio allora possiamo giungere alla
conclusione che d2x/dt2= kx.
Questa è in effetti l’equazione differenziale che descrive il modellino della nostra molla.
Modello lineare e che porta come soluzione (cioè la descrizione dello spazio percorso
all’evolversi del tempo) ad un moto oscillatorio (per nulla lineare).

Consideriamo attentamente le chiacchiere fatte sull’accelerazione.


Al matematico non interessa gran che il significato che attribuiamo a quella variabile ma è
interessato al metodo con cui essa è stata descritta.
In effetti cosa abbiamo fatto:
Abbiamo preso una variabile e voluto descrivere come essa muta al mutare di un’altra.
L’abbiamo chiamata derivata e scritta così: dP/df.
Nessuno ci vieta di chiamarla con un altro nome, ad esempio y.
Poi abbiamo posto una domanda successiva: ma come muta y al mutare della variabile f ? (è
praticamente rifare la stessa domanda che abbiamo fatto con P.
Abbiamo risposto allo stesso modo: con la derivata di Y, cioè dy/df.
Ci siamo ricordati che Y non era altro che dP/df e abbiamo semplicemente sostituito i nomi:
d(dP/df)/df . Abbiamo cioè derivato due volte rispetto a f la variabile P: d 2P/df2.
A parole abbiamo cercato la variazione di P rispetto a f, poi abbiamo cercato come varia
questa variazione sempre rispetto a f. Derivata seconda.
Ho volutamente omesso i nomi delle variabili quali x (spazio) e t (tempo) perché queste non
sono altro che significati che si possono attribuire alle variabili, il concetto è studiare come
muta una grandezza (qualunque) rispetto ad un’altra. Parlare di spazio, tempo, velocità
accelerazioni riduce la visuale perché siamo troppo abituati ad associarle ai modelli
matematici.
Al matematico, poi piace allargarsi e non si pone mai limiti di sorta, quindi si dice: se posso
derivare due volte chi mi impedisce di farlo, diciamo, un centinaio di volte, o un migliaio?
Nascono così le equazioni differenziali di ordine n.
Una relazione che presenta una variabile derivata una sola volta viene chiamata equazione
differenziale del primo ordine. Quella che presenta una variabile derivata due volte equazione
differenziale del secondo ordine… e così via.

Perché i modelli matematici in cui sono presenti equazioni differenziali del secondo ordine
dicono che siano i più importanti in assoluto per descrivere la realtà?
Torniamo al movimento e alla mutabilità della realtà.
Ogni cosa possiede una massa, quindi un’inerzia (che un po’ esprime la fatica che faccio a
fermare un oggetto in movimento).
Quando qualcosa si muove nel reale è sempre condizionato dal fatto che ha una massa, una
dimensione e deve fare i conti con il suo peso.
Le forze che agiscono attorno a noi possono fungere da motore o da freno per il movimento e
il mutare della realtà è proprio condizionato da queste forze. Una loro assenza non perturba lo
stato di un oggetto (da cui la prima legge della dinamica) e una loro presenza in qualche
maniera altera l’equilibrio e tutto inizia a mutare.
Se guardiamo da vicino una forza che si esprime su di un oggetto possiamo osservare che esso
inizia ad accelerare (o decelerare) in proporzione alla sua massa.
Una forza nella realtà se capace di produrre movimento significa che sempre genera una
variazione di velocità.
Questo porta necessariamente a parlare di accelerazioni e quindi di derivate seconde.
La nostra realtà è un miscuglio incredibile di forze che agiscono e si contrastano e questo ci
porta naturalmente a pensare a un miscuglio di modelli matematici del secondo ordine.
Le cose sono un po’ più complesse di come le ho spiegate ma ho solo cercato di far capire cosa
significa un modello matematico non tanto saperlo elaborare.
L’approssimazione della realtà di un modello

Quando tentiamo di descrivere la realtà di ciò che ci circonda, utilizziamo come più volte
ripetuto, un modello (sia matematico che non).
Il modello che utilizziamo tiene conto solo della sua sfera d’influenza e quindi, già di per sé, è
solo un aspetto della complessità di cui è fatta il reale.
Sarebbe già sufficiente per dire che il modello di fatto è già un’approssimazione ma vorrei
anche aggiungere che se inseriamo una variabile in più tanto per allargare la sfera di influenza
del modello definito, le relazioni in esso contenute potrebbero anche cambiare radicalmente.
Un piccolo esempio. Torniamo al modellino (del tutto inventato) del cuore ( P(f) = f).
Vogliamo inserire la dipendenza dalla portata e, inventiamoci un’altra relazione:
P(f) = f + q. Questa funzione non cambia affatto il tipo di relazione tra le variabili: infatti se
elimino q ritorna chiaramente la relazione originale.
Ben diverso è il caso se avessi scritto P(f) = f*q. In questo caso il modellino è un’altra cosa e
per tornare alla relazione originale dovrei dare il presupposto di assumere q=1.
(Si noti poi come la prima è una relazione lineare, mentre la seconda no!)
Se la situazione reale fosse descritta da quest’ultima relazione, chi ha elaborato il primo
modello P(f) = f aveva fatto le sue osservazioni con la grandezza q (portata) COSTANTE e
pari a 1.
Come possono cambiare i modelli a seconda di cosa e come guardiamo!

La nostra realtà è del tutto non lineare e nel modello matematico non solo dobbiamo definire
bene una sfera di influenza ma anche le condizioni che fanno perdere la validità del modello.
Ad esempio si pensi alla molla: se tiro troppo energicamente e produco una deformazione della
molla, la posizione di equilibrio cambia e cambia anche la proporzionalità tra la resistenza e
l’allungamento. Il modellino non ne tiene conto e in seguito a questo caso dovremmo cambiare
la nostra relazione (una proporzionalità differente).
Se poi stirassimo la molla per intero, allora la relazione stessa non risponderebbe più a realtà
e occorrerebbe produrre un differente modello matematico.
Ecco allora che quando si elabora un modello matematico si devono definire bene anche le
condizioni di validità di quest’ultimo.
Prendiamo ancora la relazione che descrive il comportamento della molla: d 2x/dt2 = kx
Potremmo dire che in certe condizioni il valore di k (costante proporzionale) è, diciamo pari a
2; dopo una “stirata” e conseguente deformazione della molla il valore passa a 1.
Se volessimo definire un modello matematico che tenesse conto di tutto ciò dovremmo dire
che k è una variabile e che anch’essa varia nel tempo, cioè saremmo di fronte ad una equazione
differenziale NON lineare.
Per prima cosa sarebbe risolvibile solo da un elaboratore elettronico, seconda cosa e molto più
importante è che non riusciremmo praticamente mai a trovare una rispondente descrizione di
k che varia nel tempo (visto che dipende dal nostro intervento): dovremmo cioè ancora una
volta determinare le condizioni di validità di k che varia nel tempo (per esempio e se qualcuno
gli dà una martellata?).
Avrete capito che questo giochino lo potrei estendere all’infinito e la complessità del modello
sarebbe una fatica ben poco ripagata.
Molto più appagante alla fine è quindi dire che questo K è un valore costante che assume
diversi valori a seconda delle condizioni della molla.
Avremo quindi il modellino con la sua relazione d 2x/dt2 = kx e individueremo tante soluzioni
ognuna con un valore diverso di k.
Questo modo di ragionare si chiama parametrico e k è il nostro parametro (non è una variabile
come x che dipende dal tempo ma un valore costante che per ogni condizione assume un valore
differente).
Il modello matematico si chiamerà parametrico e l’equazione differenziale che lo costituisce
si dice parametrica.

Si noti un particolare: abbiamo descritto un fenomeno reale (la molla) in un modello


parametrico; come dire aver scomposto la descrizione della molla in tanti modellini (uno per
ogni valore di k) lineari a seconda delle condizioni di validità.
Un’altra importante scoperta: un fenomeno reale può essere descritto con un modello lineare
se scegliamo bene le condizioni di validità (nel nostro caso è stato rendere k un valore
costante e questo vuol dire che le forze applicate sulla molla sono tali da non deformarla)

Il modello della molla con una sfera di influenza più grande (il fatto ad esempio che qualcuno
può deformarla a tal punto da fargli cambiare l’elasticità) sarebbe stato del tutto non lineare
e comunque anch’esso vittima di condizioni di validità.
Noi lo abbiamo scomposto in tanti modellini lineari al cambiare delle condizioni di validità.
Abbiamo cioè LINEARIZZATO un modello non lineare.

In altre parole si potrebbe immaginare quello che ho scritto con un grafico.


Consideriamo un grafico cartesiano e disegnamo un cerchio.
Ora la relazione tra le coordinate in x e y sarà ovviamente una relazione che non è certo
proporzionale (ricordate Y = x che descriveva una retta? Questa è di sicuro lineare).
Andiamo a considerare un piccolo arco di questo cerchio.
Notiamo che quanto più restringo questo arco, cioè più considero un pezzetto sempre più
piccolo del cerchio e tanto più questo visivamente assomiglierà ad una retta.
Una retta è una relazione lineare, un cerchio no.
E’ un po’ come dire quanto più restringo il campo visivo e tanto più i miei occhi vedranno una
retta e in matematica quanto più restringo gli intervalli di validità tanto più posso descrivere
una relazione non lineare con una lineare. LINEARIZZARE una relazione non lineare.

Spero che questi racconti sui modelli possano aver in qualche modo fatto comprendere cosa un
linguaggio, specialmente quello matematico, può fare. L’elaborazione di questi ultimi è un
passaggio secondario alla comprensione del significato e, purtroppo, un matematico spesso lo
pone come obiettivo primario. Questo accade un po’ con tutti noi che siamo abituati a parlare
con i nostri linguaggi e alla fine spendiamo tante parole senza affatto capirci.

Dott. Ing. Giovanni Lazzarini


(glazzarini@esyste.com)

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