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Capitolo 2

Di cosa parliamo quando parliamo di traduzione? È molto complesso delimitare in


concetto stesso di traduzione e descrivere i percorsi che le sono tipici. Il dibattito su
questo argomento è molto amplio proprio perché moltissime e diversissime sono state
le proposte sviluppatesi nel tempo. La maggior parte degli studiosi, interessati ai
problemi legati alla traduzione, provenivano dalle discipline più lontane che al
contempo esercitavano una forza centrifuga che finora i translation studies non sono
riusciti a bilanciare con una forza centripeta. Dunque, la traduttologia ancora oggi
risulta un capo disequilibrato in quanto non esiste una disciplina unificata nella quale
tutti concordino almeno su premesse essenziali, ossia su quale sia il reale oggetto di
studio dell’indagine. La ricerca di tale nozione unificatrice costituisce non solo un
problema per i traduttologi ma ha anche un fine sociale: affermare la traduttologia
come una nuova disciplina nel mondo accademico e aumentarne il prestigio, dato che
molto spesso si pensa che sia inutile occuparsi di traduzione.

Che cosa significa definire un oggetto di studio? A questo proposito, risulta


fondamentale ricorrere a teorie sviluppate da studiosi come Kommissarov e Toury.
Toury ritiene che delimitare l’oggetto dei translation studies sia un’impresa difficile
perché in quest’area di studio coesistono molti paradigmi diversi, ossia alternative
tutte volte a parlare della stessa cosa. Dunque egli si pone nel campo degli idealisti.
Al contrario, Kommisarov si pone nel campo dei realisti in quanto afferma che
l’oggetto di studio è l’entità che una teoria cerca di descrivere e spiegare.
La polemica tra i due studiosi non fa altro che riflettere una questione più grande,
ossia l’enorme interrogativo sulla relazione tra pensiero e mondo: il mondo è
qualcosa di reale o un costrutto la cui realtà dipende da ciò che ne pensiamo? A
questo proposito, prendiamo in considerazione la posizione di un altro studioso,
Peirce. Quasi nello stesso tempo in cui si stava sviluppando l'idealismo, negli Stati
Uniti si assistette alla nascita della corrente del pragmatismo, che costituisce il più
originale contributo americano alla filosofia novecentesca ed esercita una vasta
influenza anche sulla cultura europea: il termine pragmatismo mette in rilievo la tesi
fondamentale secondo cui il significato di qualsiasi cosa è determinato dalla sua
rilevanza pratica. L'iniziatore di questa nuova corrente, destinata a grande successo, é
Peirce. Per Peirce solo ciò che è pensabile è reale: il pensiero non può essere altro che
pensiero di segni. L’essere di un segno insomma è proprio il suo sviluppo semiosico,
il suo essere in relazione con gli altri segni. Non esiste al di fuori della semiosi altro
modo di concepire la realtà. Si può conoscere, e quindi si considera reale, solo una
relazione segnica. Ma perché per Peirce il pensiero è solo pensiero di segni? Peirce
rifiuta l’intuizione. Peirce, dimostra che sia la conoscenza del mondo esterno al
soggetto sia quella del mondo interiore del soggetto, come la propria autocoscienza e
la conoscenza dei propri moti interiori, dipendono da mediazioni inferenziali di fatti
esterni.
Peirce sostiene che nel circuito della semiosi il primato vada attribuito alla realtà
esterna: il punto di partenza è dunque l'oggetto, che costituisce quindi il primo motore
delle semiosi.
L'oggetto può essere identificato con quello che Peirce chiama Oggetto Dinamico,
ossia la cosa in sé. Per poter rendere conto degli oggetti della realtà esterna, abbiamo
bisogno di segni, i quali costituiscono il fulcro della semiosi, in quanto mediano fra
l'oggetto e l'interpretante.
Per svolgere questa funzione il segno deve illuminare l'oggetto, coglierne delle
qualità; l'oggetto viene illuminato poiché viene interpretato, poiché su di esso si
fanno delle ipotesi. Ciò che viene selezionato e trasmesso di un dato oggetto
costituisce, nella terminologia di Peirce, il "ground" .
L'unica via per cogliere l'oggetto immediato, ossia per delineare il contenuto di un
segno, è quella di ricorrere ad un Interpretante, cioè ad un altro segno che ci dice
qualcosa in più del segno di partenza, dunque stando a questo principio la semiosi
diventa illimitata, poiché, potenzialmente, il ricorso agli interpretanti è infinito.

Seguendo la logica di Peirce è possibile tentare di circoscrivere l’oggetto di studio dei


translation studies. Dobbiamo partire da un’ipotesi: tradurre è un’azione segnica
speciale e individuale. Poiché tradurre è una forma speciale di semiosi, assomiglia ad
altre azioni segniche e quindi ha la forma di un avvenimento più che di un oggetto.
Dunque parleremo di semiosi traduttiva.
Tale evento semiotico speciale postulato per la traduzione avviene in un campo
proprio, la semiosfera un concetto sviluppato dallo studioso Lotman. La semiosfera è
il sistema che comprende tutti i testi e i linguaggi in interazione reciproca. La
semiosfera è quindi la totalità dello spazio in cui vivono i segni.
Fatte queste premesse, i presupposti della semiosi traduttiva sono tre:
- differenza;
- somiglianza;
- mediazione.

Insieme essi costituiscono il fondamento della traduzione. Dobbiamo presuppore una


seconda dimensione che è quella degli eventi traduttivi. Ogni evento risponde a una
serie di norme che regolano la semiosi traduttiva.
(DUNQUE IL DISCORSO SULLA TRADUZIONE HA TRE DIMENSIONI:
FONDAMENTO, DEGLI EVENTI, DELLE NORME).
SOMIGLIANZA
La somiglianza è il primo presupposto della semiosi traduttiva. Tale concetto è
banalmente definito come una condizione essenziale nell’ambito della traduzione.
Eco ritiene che tradurre significa dire quasi la stessa cosa, Peirce è possibile una
somiglianza fra due atti verbali, qualcuno la stipula e guarantisce. La versione di
Peirce lega in un rapporto di continuità tre elementi: la qualità potenziale
(somiglianza), una coppia di entità particolari (i due atti linguistici), e una specie di
norma (la garanzia).

DIFFERENZA
Non si può parlare di traduzione se tra due azioni segniche non esiste una differenza
di un certo tipo. Chiaramente la differenza non si limita a quella linguistica.

MEDIAZIONE
Se il testo fonte non riesce a circolare nell’ambiente di destinazione allora lo farà il
testo tradotto. Una traduzione rappresenta l’originale, quindi la semiosi traduttiva
corrisponde a un’opera di mediazione.

FEDELTÀ ED EQUIVALENZA
Piuttosto che di somiglianza, nei translation studies si parla di equivalenza. Essa non
è una caratteristica dei testi tradotti e nemmeno un presupposto della semiosi
traduttiva, quanto piuttosto un suo prodotto, il risultato delle inferenze che i traduttori
fanno mentre sono al lavoro. Gran parte di loro hanno un’idea statica di equivalenza:
A=B. Chiaramente è logico che ci sarà sempre una traduzione B ottimale rispetto ad
altre; il compito del traduttore consiste nello scegliere il miglior B fra quelli che
riesce a immaginare e nel dichiararlo equivalente ad A.
Il concetto di fedeltà, invece, è cambiato nel corso del tempo a seconda del contesto
culturale entro cui si è visto collocato. Esso è un concetto variabile.
Proprio riguardo al problema della fedeltà, possiamo prendere in analisi le traduzioni
della Bibbia.
La prima traduzione greca della Bibbia, detta “Settanta”, cominciata nel III secolo è
nata dalla necessità di quegli ebrei emigrati che nel giro di poche generazioni hanno
perso la lingua d’origine. Gli ebrei sono numerosi nelle grandi città dell’epoca,
particolarmente ad Alessandria d’Egitto dove si sviluppa il progetto di trad. greca.
Secondo Filone d’Alessandria, la traduzione sei Settanta viene ispirata direttamente
dalla divinità, infatti alla fine del progetto, benchè ciascun traduttore avesse lavorato
isolatamente dagli altri, le 72 traduzioni risultarono identiche. Si tratta di un concetto
di fedeltà che rimanda all’autorità divina.
L’altra grande impresa di traduzione della Bibbia rimanda a un’idea di fedeltà
diversa. Si tratta della traduzione di San Gerolamo (IVsec.) che prende il nome di
Vulgata. Gerolamo andò incontro a numerose critiche in quanto non mantenne intatta
l’oscurità propria delle Sacre Scritture, e si difese richiamando Cicerone e Orazio a
favore di una traduzione a senso più che letterale. Gerolamo dunque adottò un’idea di
fedeltà ben diversa appellandosi a una sorta di riscrittura dell’originale.
La versione tedesca con Lutero è presente invece la volontà di rendere la Sacra
Scrittura comprensibile a tutti. Questo desiderio di chiarezza diventa però in Lutero
una tendenza alla germanizzazione del testo sacro. In questo caso parliamo di fedeltà
ermeneutica perché parte da una interpretazione dell’originale come base della
semiosi traduttiva e guarda a un’intenzione comunicativa che si potrà cogliere
nell’ambiente di destinazione.

IL SEICENTO
Nel ‘600 cambia il discorso sulla fedeltà in quanto è l’epoca in cui si distinguono i
conservatori dai modernisti. I sostenitori degli antichi intendevano la creazione
letteraria come imitazione dei classici, mentre i modernisti affermavano che gli autori
dovessero essere superati e rinnovati. Il tipo di traduzione prevalente è quella che si
adatta ai criteri stilistici dell’epoca in quanto si voleva cercare di ottenere lo stesso
effetto che l’autore aveva in mente e adattarlo secondo il gusto del tempo corrente.
Ciò costituì in Francia un’idea di fedeltà più libera e lo stesso anche in Inghilterra con
Dryden : egli si dichiara per la parafrasi.

L’EPOCA CONTEMPORANEA
Sempre nell’ambito del discorso sulla fedeltà, Nida ha sostituito il concetto di fedeltà
a quello di equivalenza dinamica grazie alla quale il testo tradotto dovrebbe produrre
nel lettore una risposta simile alla risposta del ricevente originale. Ciò significa che è
il traduttore a scegliere quale sia l’effetto che il testo originale produceva sui suoi
lettori di partenza. L’innovazione dei translation studies contemporanei è un
rovesciamento di prospettiva, in quanto prima era normale guardare solo all’originale
mentre ora è importante anche guardare avanti. In questo periodo in Germania, (anni
70-80) si sviluppò la Skopostheory ad opera di Vermeer. L’assunto fondamentale di
questa teoria è che il testo tradotto e la strategia adottata per realizzarlo sono
determinati dalla funzione che ha la traduzione in quel testo. Il criterio per valutare
una traduzione non è più l’equivalenza ma il grado di adeguatezza che essa mostra in
relazione al suo obiettivo funzionale.
Si è insistito sul fatto che un testo tradotto ha un suo proprio valore testuale che non
ne fa un semplice prodotto derivato ma lo costituisce come qualcosa di autonomo
perlomeno nella cultura di arrivo. Per questo, secondo anche la teoria dei polisistemi,
si permette alla cultura d’arrivo di ristrutturarsi o addirittura di costituirsi secondo
canoni estranei alla propria traduzione. A Roma la traduzione è un mezzo
fondamentale per creare la cultura latina così come la conosciamo. Il punto
fondamentale è che attraverso questi testi tradotti si tenta di creare una tradizione.
Questo spiega anche l’atteggiamento nei confronti del testo di partenza che viene
trasformato senza pensare alla fedeltà.

UMANESIMO
L’Umanesimo porta un cambiamento di prospettiva nei confronti della traduzione.
Per Bruni la traduzione è fondamentale, ermeneutica
All’origine del dibattito italiano sta proprio una presa di posizione nei confronti della
traduzione. Riferendoci al testo di Madame de Staël, riprendiamo le sue
considerazioni “dovrebbero a mio avviso gli italiani tradurre poesie inglese e
tedesche, mostrare novità. Per conoscerle non per diventare imitatori.” In questo
senso la traduzione è vista come un modo per rigenerare la cultura

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