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Il sistema delle relazioni internazionali negli scenari extraeuropei

(1870-2005)

Parte prima: 1870-1918

Cap. I: L’espansione coloniale europea e la prima fase degli attriti tra


imperialismi in Africa ed Asia

Prima della metà degli anni Settanta dell’Ottocento era esistito un “colonialismo informale”, che
aveva indotto le potenze europee ad occupare solamente le coste africane, non penetrando mai
all’interno, salvo casi sporadici, come per l’Algeria, conquistata a partire dal 1830, o la Colonia del
Capo, acquisita dall’Inghilterra nel 1814. Esistevano stazioni ed agenzie commerciali e forti
militari, che, sin dal secolo XV, controllavano larghe fasce costiere, dove la competizione tra
commercianti francesi, inglesi, portoghesi ed olandesi fu piuttosto vivace, riuscendo anche in alcuni
casi ad esercitare una azione di lobby presso i rispettivi governi. Tuttavia niente può essere
paragonato a quanto avvenne con quella che viene comunemente definita come scramble for Africa,
la spartizione del continente africano da parte della Potenze europee, che ne assorbirono nei propri
imperi la maggior parte del territorio. Un fenomeno che vede il suo cardine fondamentale nel 1884-
1885, anni in cui si svolge il Congresso di Berlino, ed il suo apice a partire dagli anni Novanta
dell’Ottocento. I prodromi del colonialismo tuttavia iniziarono circa dieci anni prima, con la
Conferenza di Berlino, e con esso anche le rivalità tra Potenze per i territori extraeuropei. La
storiografia ha spiegato con diverse motivazioni l’inizio dell’epoca del colonialismo e della
spartizione dell’Africa, accentuando nel tempo ora l’una o l’altra causa. Molte responsabilità sono
state attribuite al fattore economico, in un periodo nel quale i mercati europei, a causa dell’aumento
dei prezzi e contemporaneamente del volume produttivo, non furono più in grado di assorbire le
produzioni industriali, rendendosi necessario cercare nuovi mercati extraeuropei e nuovi
consumatori. Una necessità resasi ancora più impellente dai regimi doganali protezionistici eretti da
quasi tutte le nazioni europee, tranne l’Inghilterra. Infatti le tariffe protettive, poste in essere in
Francia nel 1881, in Germania nel 1879 ed in Portogallo nel 1880, spinsero naturalmente alla
ricerca di nuovi mercati, come anche all’utilizzo di nuovi approvvigionamenti di materie prime,
sollecitati sia dalle esplorazioni geografiche in Africa (Brazza, 1875-1878, e Stanley, 1874-1877),
che dall’apertura di quella grande e nuova via di comunicazione che era il canale di Suez.
Esplorazioni che per la prima volta si cercò di coordinare ed omogeinizzare in una vera e propria
organizzazione internazionale, la Associazione Internazionale Africana (AIA), sorta il 12 settembre
1876 durante la Conferenza geografica di Bruxelles ad opera di Leopoldo II.
La crisi del liberalismo di fronte alle idee nazionaliste favorì le motivazioni di mero prestigio, le
quali individuarono nella conquista di nuove aree geografiche l’occasione per influire negli affari
internazionali e nel gioco delle diplomazie. Una ideologia che spesso portava in seno il concetto di
superiorità di una razza rispetto ad un’altra e l’idea che una nazione avesse implicitamente una
“missione” da compiere nel mondo. Da qui anche la percezione di una necessaria opera di
evangelizzazione e cristianizzazione delle regioni sconosciute, nelle quali il filantropismo di matrice
anglosassone si sarebbe concretizzato nelle famose tre “C” di David Livingstone, ossia, civiltà,
cristianità, commercio. Infine anche gli ambienti militari accolsero e favorirono questi impulsi
espansionistici con i loro caratteri personali, basta pensare a quanto il colonialismo britannico,
francese o tedesco deve rispettivamente a personaggi quali Wolseley, Marchand e Lugard. In tali
ambienti poi svolsero un ruolo non certo secondario le marine militari, consapevoli che l’espansione
coloniale avrebbe potuto condurre all’acquisto di nuovi punti di appoggio per la Marina da guerra,
dai quali controllare le più importanti rotte navali mondiali. Buona parte della storiografia

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comunque ha anche sottolineato che le tendenze espansionistiche si sono verificate in coincidenza o
a causa delle rivalità tra grandi nazioni, o tra grandi nazioni e nazioni emergenti. In altre parole il
motore trainante non era stata l’economia, ma la politica. La politica e la diplomazia quindi come
spinta primaria, che poi aveva subordinato e fatto entrare in gioco i fattori economici verso
l’espansionismo coloniale. Un espansionismo usato essenzialmente per mantenere l’equilibrio tra le
grandi potenze o per trasferire su zone periferiche conflittualità che altrimenti sarebbero esplose con
virulenza sul continente europeo. Il colonialismo, in quest’ultimo caso, può anche essere definito un
“surrogato del nazionalismo”, ossia ambizioni nazionaliste che vengono però dirottate fuori
dall’Europa. Un esempio classico fu il colonialismo di Jules Ferry, le cui ambizioni furono spostate
in Estremo Oriente, al punto che il Presidente francese fu chiamato “le tonquinois”. Oltre a tutte
queste motivazioni “eurocentriche” vanno in ultima analisi anche aggiunte le teorie degli storici
africani, i quali hanno sottolineato l’importanza dei fattori locali, quali la disintegrazione endogena
delle istituzioni dei grandi imperi o semplicemente delle singole realtà africane, le quali non furono
in grado di resistere alla pressione della penetrazione europea. In ogni caso, sia nella questione
egiziana che in quella tunisina giocarono una parte essenziale l’urto tra gli interessi strategici,
politici ed economici di grandi nazioni come l’Inghilterra e la Francia e quelli di nuovi stati
emergenti come l’Italia post-unitaria. Così come alla base di questi eventi vi furono le crisi
economiche ed istituzionali della Tunisia e dell’Egitto. Per la penetrazione francese in Tunisia,
infine, fu essenziale la complicità di Bismarck, il cui assenso offrì ai francesi un diversivo alla
perdita dell’Alsazia e della Lorena, allontanando dall’Europa la maggiore causa di attrito tra
l’Impero tedesco e la Francia. Ciò a dimostrazione che non esiste una sola spiegazione per il
colonialismo europeo, come del resto ogni nazione ha avuto sue specifiche e particolari
caratteristiche che motivarono la sua entrata in scena nell’arena delle conquiste coloniali. Egitto e
Tunisia, due entità formalmente legate da vaghe forme di vassallaggio all'Impero ottomano, furono
le prime clamorose manifestazioni del colonialismo europeo ed anche le prime grandi
problematiche che interessarono le relazioni internazionali extrauropee.

1. Rivalità europee nel Mediterraneo e in Nordafrica: il caso tunisino ed egiziano

La rivolta delle popolazioni slave della Bosnia ed Erzegovina dell’estate del 1875 contro il dominio
della Sublime Porta dette inizio alla Grande Crisi d’Oriente, la quale ebbe pesanti ripercussioni non
solo nella ridefinizione dei confini dell’Impero ottomano nei Balcani e nella creazione di un nuovo
equilibrio di forze europeo, ma anche importanti riflessi in nordafrica, regione che vide gli interessi
espansionistici franco-inglesi coincidere e poi collidere. Gli eventi del 1875 portarono ad una crisi
internazionale poiché coinvolse gli interessi russi, inglesi ed austro-ungarici. La Russia zarista vi
vide l’occasione per indebolire il già morente Impero ottomano e rafforzare la propria egemonia
sulle popolazioni slave dell’Europa orientale. L’Austria-Ungheria mirava invece ad un protettorato
sulla Bosnia ed Erzegovina, come sul sangiaccato di Novibazar. La Gran Bretagna infine era
fondamentalmente preoccupata di salvaguardare l’integrità dell’Impero ottomano ed impedire così
che la Russia si impossessasse degli Stretti. La guerra russo-turco dell’aprile del 1877, che vide
l’esercito russo giungere alle porte di Costantinopoli, si risolse con l’umiliante di Pace di Santo
Stefano (3 marzo 1878)1 ed il peggioramento della crisi internazionale, risolta grazie all’intervento
della Gran Bretagna, dell'Austria e da Bismarck nelle vesti di “onesto mediatore” di Bismarck. La
Conferenza di Berlino (13 giugno – 13 luglio 1878) ratificò accordi presi separatamente da Turchia
ed Inghilterra e da Germania e Austria-Ungheria alcuni giorni prima, sancendo il sogno russo della
"grande Bulgaria", l'assegnazione della Bosnia-Erzegovina all'Impero austro-ungarico, che ottenne
anche di presidiare il sangiaccato di Novibazar. L'Inghilterra, assumendosi il compito di proteggere

1
Il Trattato di Santo Stefano stabilì che la Russia annettesse parte della parte asiatica dell’Impero ottomano, Kars,
Bayazid, Batum, e nella parte europea la Dobrugia meridionale. Prevedeva ingrandimenti territoriali alla Serbia ed uno
statuto autonomo per la Bosnia-Erzegovina ed alla Romania l’indipendenza. La Bulgaria invece sarebbe stata
consacrata principato autonomo con sensibili aumenti territoriali (Macedonia e Rumelia orientale).

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i domini turchi dell'Asia, ebbe in cambio il permesso di occupare temporaneamente Cipro. La
Conferenza di Berlino fu uno spartiacque nella storia europea. E' vero che esso fu seguito da oltre
trenta anni di pace in Europa (se si esclude la guerra russo-turca del 1885 e la guerra turco-greca del
1897) erigendo un nuovo equilibrio europeo, ma seminò anche i germi di disastri futuri, stabilendo
l'indipendenza della Macedonia, causa della Prima Guerra Balcanica, e la sottomissione della
Bosnia-Erzegovina alla Austria-Ungheria, pretesto nel 1914 per la Grande Guerra. Importanti
furono anche i riflessi extraeuropei, attraverso l'incoraggiamento alla Francia ad impossessarsi della
Tunisia, territorio formalmente dipendente dalla Sublime Porta.

La Tunisia precoloniale
La Sublime Porta prese posesso della Tunisia nel 1574 con la cacciata del dominio spagnolo dalla
regione, inquadrandola nell'Impero ottomano come provincia, governata da un pasha. Questa
fugura però venne sostituita nel 1590 dal dey, comandante militare nominato dalle truppe stanziate
nella provincia, i giannizzeri. L'autorità dei dey cessò nel 1750, quando un bey (comandante delle
truppe a cui spettava la raccolta delle tasse e tributi) Hussein ben Ali Bey prese il potere ed ottenne
il titolo di pasha e dey da Costantinopoli, tramandando il titolo ereditariamente. Da questo momento
la Tunisia, pur essendo ancora una provincia dell'Impero ottomano, ebbe un proprio esercito, una
sua bandiera, fu in grado di battere moneta e la possibilità di intrattenere con l'estero relazioni
diplomatiche. I legami con Costantinopoli si limitavano nell'invocazione del Sultano nelle preghiere
e nell'obbligo formale del bey di ottenere l'investitura dall'autorità turca. Il bey Ahmed (1837-1855)
perseguì una politica di equidistanza sia dall'Inghilterra che dalla Francia e fondò una scuola
militare, abolì la schiavitù ed intraprese un radicale ammodernamento dell'esercito, che costò
l'inizio di un pericoloso indebitamento con l'estero. La situazione precipitò ulteriormente sotto
Mohamed es-Sadok (1856-1882), il quale tentò nel 1861 di avviare nuove e profonde riforme per
modernizzare il paese, concedendo anche una Costituzione e procedendo ad un vasto programma di
costruzioni ferroviarie, porti, telegrafi, come ad una riorganizzazione del sistema tributario. Un
processo che però fece indebitare enormemente la Tunisia con le banche straniere (28 milioni di
franchi), provocando la bancarotta nel 1867. Le finanze tunisine furono poste sotto il controllo di
una Commissione Finanziaria Internazionale, che limitò l'autonomia del governo di Tunisi.

Salisbury e Disraeli desideravano che la Francia uscisse soddisfatta dalle ripartizioni effettuate a
Berlino e che continuasse così ad appoggiare la sua politica in Asia Minore. Del resto Londra
sapeva bene che la Tunisia non sarebbe rimasta indipendente per lungo tempo e preferì vederla
occupata dalla Francia che dall’Italia, affinché lo Stretto di Sicilia (appena 180 km) non fosse
presidiato da una sola Potenza. Bismarck invece appoggiò l'occupazione della Reggenza di Tunisi
da parte della Francia poichè questa avrebbe potuto porre in essere una politica da Grande Potenza
in una regione dove non avrebbe messo in pericolo gli interessi tedeschi. Allontanare quindi lo
sguardo di Parigi da Metz e Strasburgo, dall'Alsazia e dalla Lorena e da desideri di révanche.
Inoltre, ferire l’orgoglio francese avrebbe significato spingere Parigi verso un’alleanza con la
Russia. Certo questo progetto non collimava con gli interessi dell’Italia in Tunisia, che era stata
visitata da diverse spedizioni geografiche italiane in diversi momenti (1864, 1870, 1875) in
previsione di una sua occupazione, che però non avvenne mai, sebbene non ne mancassero i
presupposti. L'Italia aveva nella Reggenza una delle comunità straniere più numerose (circa 10.000
persone) ed il primato negli affari bancari, marittimi e professionali, nonchè un peso rilevante
nell'agricoltura e nell'industria. Il ministro Corti però a Berlino fu fedele esecutore degli ordini del
governo Cairoli e di quella che fu poi chiamata la "politica delle mani nette"2, continuando, nello
spirito di una politica prudente e priva di avventure, a sostenere lo status quo dell'Impero ottomano,
nei Balcani e nel nordafrica. Per il governo della Sinistra storica, come lo era stato anche quello

2
Al ministro tedesco Von Bülow, che suggerì di occupare Tunisi al più presto, Corti rispose Vous voulez donc nous
brouiller avec la France?

3
della Destra, l’obiettivo era quello di guadagnare tempo e rafforzarsi attraverso il mantenimento
dell’ordine internazionale esistente. Ovviamente, la sconfitta nel 1870 della Francia, tradizionale
punto riferimento della Consulta, ed i nuovi equilibri scaturiti da Berlino, misero in seria difficoltà
la politica estera italiana. L'Italia uscirà delusa da Berlino, ignorata da tutti e considerata alla stessa
stregua della Grecia o peggio ancora della Turchia. Una delusione che fu poi causa della firma della
Triplice e dell'interesse rivolto alla costa eritrea ed alla Tripolitania e Cirenaica.
La Francia però non colse immediatamente l’occasione offertagli a Berlino, ma attese ben tre anni,
nonostante le sollecitazione della Germania3. Ciò fu dovuto al fato che il Paese non era ancora
pronto per una nuova avventura fuori dai confini nazionali ed il disastro di Sédan, come anche la
disavventura messicana di Massimiliano III, erano ricordi ancora vivi nell’opinione pubblica. La
politica interna francese era divisa, con una Camera repubblicana, presieduta da un monarchico, ed
infine Parigi non volle guastare i suoi rapporti con l’Italia, rischiando di indebolire la sua politica
continentale. L’indecisione francese tuttavia lasciò tempo all’Italia di rivedere la sua politica,
complice anche i circoli colonialisti italiani, e tentare una controffensiva in Tunisia attraverso i
maneggi del console Licurgo Maccio, il quale fomentò la propaganda antifrancese, finanziò giornali
di lingua araba e sovvenzionò scuole italiane, riuscendo anche ad incrementare la presenza
commerciale con la cessione della ferrovia Tunisi-Goletta ad una società italiana. Gli indugi furono
rotti dal barone Alphonse De Courcel, Direttore agli affari politici al Ministero degli esteri francese,
nel timore che un riavvicinamento italo-tedesco impedisse qualsiasi mossa della Francia.
L'occasione per agire fu offerta da una incursione di banditi krumiri tunisini4 in territorio algerino il
31 marzo 1881, a causa della quale il parlamento francese votò i crediti necessari per un'azione di
polizia, che presto si trasformò in invasione. Il 12 aprile un corpo di spedizione di 30.000 attraversò
la frontiera tra l'Algeria e la Tunisia, mentre pochi giorni dopo un'altra spedizione sbarcò a Biserta.
Il 12 maggio l'esercito francese circondò Kasr-es-Said (dimora della felicità), il palazzo del bey a
Bardo, un sobborgo di Tunisi, costringendolo a sottoscrivere un trattato poi conosciuto anche come
Trattato di Kasr-es-Said o del Bardo. Questo trattato non parlava di protettorato, anche se nei fatti lo
istituiva, infatti esso specificò che il bey acconsentiva all'occupazione della Tunisia da parte
dell'esercito francese per restaurare l'ordine e la sicurezza lungo le frontiere e le coste ed alla
Francia venne attribuita la rappresentanza internazionale di Tunisi, garantendo anche la validità di
tutti gli accordi internazionali conclusi in precedenza dal governo tunisino. Parigi inoltre aveva la
possibilità di controllare le finanze tunisine, affinchè il debito pubblico fosse estinto ed a questo
proposito fu nominato un ministro-residente francese. Ad eccezione della Turchia e dell'Italia, tutte
le Potenze riconobbero la nuova situazione in Tunisia. In particolare Costantinopoli dichiarò che il
bey era un funzionario turco e considerò la Tunisia ancora sotto la sovranità ottomana. Eliminata in
breve tempo ogni resistenza armata della popolazione tunisina, la Francia procedette alla creazione
di norme e sovrastrutture giuridiche che avrebbero dato vita ad un vero protettorato. Il 9 giugno
1881 il bey firmò un decreto che nominò il rappresentante francese unico intermediario ufficiale
delle relazioni estere della Tunisia, mentre l'8 giugno 1883 fu sottoscritta una convenzione a La
Marsa, dove per la prima volta apparve la parola protettorato e dove il bey fu privato di qualsiasi
indipendenza anche negli affari interni tunisini. In particolare la convenzione di La Marsa confermò
il trattato del Bardo, impegnando il bey a realizzare tutte le riforme amministrative, legali e
finanziarie che il governo francese considerasse necessarie. Paradossalmente quindi, si istituiva un
protettorato quando invece si trattava formalmente di una colonia, non avendo il governo tunisino
più possibilità di amministrare neanche i suoi affari interni.
Se l'Inghilterra aveva favorito lo stabilimento della Francia in Tunisia, non potette fare altrettanto
per quanto riguardava l'Egitto, altro territorio nominalmente sotto tutela ottomana, che era
strategicamente rilevante per l'impero britannico, essendo il punto obbligato delle rotte che

3
Il 5 gennaio 1979 Bismarck disse all’ambasciatore francese Saint-Vaillant: Io credo che la pera tunisina sia matura e
che sia tempo che voi la cogliate. Questo frutto africano potrebbe guastarsi o essere rubato da un altro, se voi la lasciata
troppo a lungo sull’albero.
4
I krumiri o krumi erano originari della regione della krumiria nella parte nordoccidentale di Tunisi.

4
conducevano dall'Asia all'Africa e dall'Europa all'Oceano indiano, e lo era ancora di più dopo
l'apertura del canale di Suez nel 1869. L’Impero ottomano controllava l’Egitto sin dal 1517, quando
il sultano Selim I lo aveva strappato ai mamelucchi5. Dopo la breve occupazione di Napoleone I
(1798-1801), Costantinopoli aveva affidato le redini del Paese a Mohamed Ali, investito di ampi
poteri decisionali e amministrativi. Ali modernizzò l’amministrazione ed ampliò la sfera d’influenza
egiziana conquistando il Sudan, ma soprattutto rese ereditaria la sua carica (pashalik) e, sebbene
riconoscesse la sovranità di Costantinopoli, a cui era obbligato a pagare tributi, rese l’Egitto una
Stato semindipendente. L'Egitto aveva un proprio esercito ed esercitava una sua politica estera e
proprie leggi, al punto che le tanzimat6 non vennero mai applicate dai governanti egiziani. Questo
particolare status si riflesse nella carica riconosciuta dal sultano Abdul Aziz nel 1867 con un
firmano a Ismail Pasha, ossia quella di Khedivé7. carica che divenne ereditaria e che passò da allora
a designare colui che governava l'Egitto, non nel senso di un pasha ordinario, di un semplice
governatore di una delle tante province ottomane, ma di un vero e proprio vicerè. Il firmano del
1867 infatti riconobbe al Khedivè la facoltà di concludere con l'estero non solo accordi
commerciali, ma anche politici, allontanando l’Egitto dall’orbita dell’Impero ottomano. Ismail, per
contro, dirigerà il suo Paese verso l’Europa, accrescendo lentamente l’influenza delle Potenze
europee. L’agevolazione dei crediti bancari concessi ad Ismail, lo spinsero ad intraprendere ingenti
spese sia per lo sviluppo nazionale che per i futili bisogni della corte, contraendo debiti con
creditori europei (soprattutto con le banche francesi), protetti dal regime delle Capitolazioni. La
Francia possedeva rispetto all’Inghilterra una posizione privilegiata in Egitto, accentuata dal fatto
che la maggioranza delle azioni della Compagnia Universale del Canale di Suez8, fondata nel 1854,
era in mano di azionisti francesi. Il potere francese iniziò ad indebolirsi dopo la franco-prussiana e
la volontà britannica di recuperare le posizioni perdute riguardo al canale, intanto inaugurato il 17
novembre 1869. L’occasione favorevole per la Gran Bretagna si profilò nel novembre del 1876,
quando Ismail fu costretto a vendere le sue 177.642 azioni della Compagnia per fare fronte ai debiti.
Disraeli, coinvolgendo i Rothschild, si accaparrò le azioni del Khedivè, permettendo agli inglesi di
dominare un terzo del consiglio d’amministrazione della Compagnia. La vendita non risolse i
problemi finanziari del Khedivè, che, nell’aprile del 1876, cessò di pagare gli interessi del debito
egiziano, provocando la bancarotta dell’Egitto, per altro sconfitto anche in una disastrosa campagna
militare contro l’Abissinia dell’Imperatore Johannes IV9. Il 2 maggio 1876 le Potenze europee
istituirono una commissione di controllo sui debiti khediviali e tra i suoi membri vennero inclusi
rappresentanti francesi, austriaci ed italiani. Per la mancata partecipazione inglese però, la
commissione non funzionò a dovere. Il governo britannico chiese che venisse istituito un controllo
di Francia ed Inghilterra sulle finanze egiziane, ponendo le premesse per un “condominio anglo-
francese” sull’Egitto. Gli interessi francesi ed inglesi non erano però uguali in Egitto, non fosse
altro per il fatto che l’80 % delle navi che passava il canale di Suez erano britanniche. L’Inghilterra
inoltre aveva un interesse politico diretto nel futuro del Paese per il cui territorio passava la via per
l’India, ecco perché Londra non volle dare al condominio una veste legale determinata e
circoscritta, essendo consapevole che non fosse conveniente stipulare con la Francia un patto che
poi avrebbe in seguito limitato la libertà di azione dell’Inghilterra.
Londra e Parigi inviarono una missione al Cairo, la così detta Goschen-Joubert Mission, la quale
ottenne tre risultati:la consolidazione del debito, la nomina di due controllori europei, uno francese
ed uno britannico, e la creazione di una Cassa del Debito Pubblico (Caisse de la Dette Publique),

5
Schiavi-soldato che nel Medioevo rivestivano le massime cariche e nel Settecento costituirono l'élite al potere non solo
in Egitto ma anche in Siria.
6
Dal sostantivo arabo tanzim, letteralmente riorganizzazione, un processo iniziato da Costantinopoli il 3 novembre
1839 con lo scopo attuare tutta una serie di riforme per modernizzare l'economia, la società e le istituzioni ottomane.
7
Dal persiano khadiw, letteralmente signore.
8
A questa compagnia fu affidato lo sfruttamento del canale per 99 anni a partire dal suo completamento. Il governo
egiziano avrebbe invece percepito il 15 % dei profitti annuali per la stessa durata.
9
L’aggressione egiziana all’Etiopia, pianificata tra il 1873 ed il 1875, era stata pensata da Ismail e dal premier Nubar
pasha, per estendere i confini dell’Egitto e salvarlo dalla bancarotta.

5
una speciale commissione composta da rappresentanti di vari Stati creditori. I controllori anglo-
francesi decisero che per riorganizzare effettivamente le finanze egiziane fosse necessario porre
termine al potere di Ismail e formare un nuovo Ministero. Un ministro inglese, Rivers Wilson, fu
posto a capo delle finanze, mentre un francese, Blignières, fu nominato ministro delle finanze,
incarnando ambedue quello che fu chiamato il “Gabinetto europeo”. La Gran Bretagna continuò ad
avere una preminenza nel governo, poiché Wilson aveva la responsabilità del controllo delle
ferrovie e del porto di Alessandria. Le riforme introdotte per sanare le finanze (elevazione delle
tasse, dimezzamento dei salari dei militari e congedo di 2500 ufficiali) crearono forti malumori tra
la popolazione e favorì la nascita movimenti nazionalisti e proto-panislamici. Il primo guidato dal
colonnello Ahmed Arabi pasha, propugnante la fine del controllo finanziario straniero, ed il
secondo creato da Jamal el-Din el-Afghani, preoccupato per l’occidentalizzazione dell’Egitto e
fautore di un ritorno all’Islam all’insegna dell’unità dei musulmani. Fermenti sorsero anche in seno
all’Assemblea dei Delegati, il parlamento egiziano istituito da Ismail nel 1866, dove Mohamed
Sharif Pasha, propose riforme costituzionali e finanziarie per liberarsi dal giogo straniero. Dopo che
Ismail minacciò di dare seguito al programma di Mohamed Sharif, invitato a formare un nuovo
governo. Una mossa che spinse Francia ed Inghilterra a liberarsi di Ismail e sostituirlo con il figlio
Tefwik nel giugno del 1879. Nel settembre del 1881, l’esercito egiziano, guidato da Arabi Pasha si
rivoltò contro Tefwik, mettendo in discussione il governo del Khedivé. Il governo khediviale si
stava disintegrando ed i militari non offrivano nessuna garanzia per gli interessi di Francia ed
Inghilterra, che, l’8 gennaio 1882, emanarono una nota congiunta nella quale si considerava la
presenza del Khedivè come prerequisito essenziale per il mantenimento dell’ordine in Egitto. Sia
Londra che Parigi furono molto indecise sul da fare e soprattutto se impiegare la forza per ristabilire
lo status quo ante, soprattutto quando il 24 maggio 1882 Khedivè concesse poteri dittatoriali ad
Arabi Pasha. La soluzione preferita dai britannici sarebbe stata quella di muovere l’autorità del
Sultano di Costantinopoli, e se necessario anche truppe turche, per ristabilire il “gabinetto europeo”
e l’autorità del Khedivè. Una eventualità però non gradita dalla Francia, che si dimostrò restia ad
invocare l’aiuto turco, dal momento che non era trascorso molto tempo dalla conquista della Tunisia
e dal tentativo del bey di cercare l’aiuto del Sultano. Per il governo francese non sarebbe stato
possibile neanche impiegare la forza, sicura che il Parlamento si sarebbe dimostrato contrario. Era
però necessario impedire che l’Inghilterra agisse da sola e raggiungesse una posizione di
supremazia in Egitto.

Il Congresso di Berlino: mito e realtà

Gli scontri tra imperialismi in Asia

L’espansione europea, ed in special modo britannica, in Asia centrale fu legata alla conquista delle
vie di accesso terrestri all’immenso mercato cinese. L’Inghilterra inoltre necessitava soprattutto di
consolidare e difendere le frontiere dell’India, considerata il “gioiello della corona”. In questo
contesto, l’Afghanistan assumeva un ruolo di primissimo piano, in quanto considerato da sempre un
territorio svolgente la funzione di Stato cuscinetto e per il quale già dall’inizio del XIX secolo
l’Inghilterra e la Russia si erano scontrate, dando inizio a quello che fu chiamato il Great Game10,
ossia la lotta per la supremazia in Asia centrale. Il bisogno da parte britannica di controllare
efficacemente l’Afghanistan si era manifestato nuovamente dopo la disastrosa prima guerra anglo-
afghana (1838-1842) e la rivolta dei Sepoys del 1857, nonché dopo i reiterati tentativi russi di

10
Il termine fu coniato dall’agente dei servizi segreti britannici Arthur Conoly (1807-1842).

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avvicinarsi alle frontiere afgane per poter poi giungere in prossimità di un “mare caldo”. Nel 1865 i
russi avevano annesso il Tashkent, nel 1868 Samarcanda, spingendo le frontiere dell’impero zarista
sino al fiume Amu Darya, facendo veramente temere una aggressione all’Afghanistan, al fine di far
divenire tutta la regione una base di partenza per una invasione dell’India. Le delusioni nei Balcani,
derivanti dalla conferenza di Berlino del giugno del 1878, spinsero ancora di più la Russia a
rivolgere i propri interessi verso l’Asia centrale ed in particolare proprio verso l’Afghanistan,
inviandovi una missione militare. Lo scopo della Russia era fondamentalmente anche quello di
cercare un’arma da usare contro l’Inghilterra nell’eventualità di una crisi nel Vicino Oriente,
impegnandola altrove. Il tentativo da parte dell’Inghilterra di inviare una propria missione militare
condusse alla Seconda Guerra afghana (1878-1880), durante la quale fu imposto all’emiro
dell’Afghanistan l’umiliante trattato di Gandamak (26 maggio 1879), istituente una sorta di
protettorato sul Paese. L’espansionismo della Russia zarista nella regione tornò a farsi vivo nel
marzo del 1884, quando i russi occuparono l’oasi di Merv, iniziando una guerra con gli afgani per la
strategica oasi di Pandjeh, vicino al passo di Zulficar, porta di accesso all’altopiano afghano. La
crisi diplomatica tra Russia e Gran Bretagna fu così inevitabile, ma le due Potenze non pensarono
mai che potesse sfociare in un vero conflitto, poiché Londra sapeva che una guerra su vasta scala
per l’Afghanistan non sarebbe mai stata accettata dall’opinione pubblica inglese, senza contare che
la flotta britannica non avrebbe potuto attaccare i territori russi nel Caucaso, dal momento che il
Bosforo e i Dardanelli erano chiusi alle navi da guerra dalla convenzione internazionale di Londra
del luglio del 1841. Da parte propria il governo zarista non desiderava correre il rischio che una
guerra anglo-russa rafforzasse la Germania in Europa. Fu così che il 10 dicembre 1885 Inghilterra e
Russia addivennero ad un protocollo di intesa secondo il quale i russi avrebbero continuato ad
occupare Pandjeh, mentre il passo di Zulficar sarebbe rimasto sotto il controllo dell’Afghanistan,
ossia degli inglesi.
Contemporaneamente alle frizioni con l’impero zarista per l’Afghanistan, l’Inghilterra si trovò a
rivaleggiare con la Francia della III Repubblica per l’espansione nel sud-est asiatico e spinta a
questa impresa da Bismarck. Dopo una guerra con la Cina (1884-1885), la Francia occupò il
Tonchino, istituendo anche un protettorato sull’Annam, ottenendo con il trattato di Tien-Tsin (9
giugno 1885)11 l’accesso a condizioni vantaggiose per le merci francesi nelle province dello
Yunnan e del Cuan-gsi. L’Inghilterra, che intanto aveva iniziato l’occupazione della Birmania, che
si concluse nel 1887, fu preoccupata dalle mire espansionistiche francesi che minacciarono il Laos,
regione rivendicata anche dal regno del Siam. Londra considerava questo regno uno Stato
cuscinetto, la cui indipendenza era necessaria alla sicurezza delle frontiere orientali dell’India e per
questo motivo non esitò a protestare energicamente quando la Francia intraprese nel 1893 un’azione
di gunboat diplomacy volta a bloccare tutte le coste siamesi per convincere il Siam a non opporsi
all’occupazione francese del Laos. Il Siam cedette alle pressioni francesi, lasciando occupare il
Laos senza che l’indipendenza del proprio Stato cuscinetto ne uscisse compromessa. Nel 1896
l’indipendenza del Siam fu ufficialmente garantita da un accordo franco-britannico.

La “questione d’Estremo Oriente” e il break-up of China

Il Celeste Impero aveva costituito il più grande Stato del mondo, con una popolazione di 300
milioni di abitanti ed una estensione di 12 milioni di kmq. Tuttavia esso rimase per secoli un Paese
per lo più chiuso verso l'esterno, soprattutto alla penetrazione dei commercianti e missionari

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La così detta Guerra del Tonchino costò alla Francia la cocente sconfitta di Lang-Son, per la quale il Presidente del
Consiglio Jules Ferry fu costretto a dimettersi, sebbene la guerra fosse stata ormai vinta ed il trattato di Tien-Tsin
nettamente favorevole agli interessi francesi.

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occidentali. Tutto ciò mutò con le "guerre dell'oppio". E’ stato giustamente affermato che queste
furono la causa contemporaneamente sia dell’entrata nelle relazioni internazionali contemporanee
della Cina, sia dell’inizio della crisi del millenario impero cinese, che perse sempre di più la propria
indipendenza a causa delle ingerenze straniere. Le "guerre dell'oppio" significarono del resto anche
un profondo mutamento strutturale nella posizione geopolitica della Cina. Per secoli, anzi millenni,
la questione della sicurezza delle frontiere cinesi era stata circoscritta all’Asia centrale, ovvero
rispetto alle tribù nomadi che, abbandonando le inospitali steppe desertiche, periodicamente
attaccavano la Grande Muraglia. Con l’inizio delle “guerre dell’oppio”, il problema si trasferì sul
mare ed ebbe come attori principali i mercanti occidentali, ai quali si aggiunse dopo poco tempo
anche l’imperialismo giapponese. La penetrazione straniera fu anche la causa della fine della
concezione "cinocentrica" delle relazioni internazionali cinesi, le quali sino ad allora avevano avuto
pochissime occasioni di confrontarsi con Stati-nazione indipendenti e con pari diritti. Ecco che gli
Stati europei imposero una propria concezione delle relazioni internazionali, non gerarchizzate e
eurocentriche, alle quali l'impero cinese rispose chiudendosi ancora di più in sé stesso e nelle
proprie secolari tradizioni.
L'oppio, usato ancora in Europa come medicinale, nell’impero cinese era considerato una sostanza
illegale, in quanto impiegata come stupefacente, il cui consumo aveva raggiunto livelli tali da
costringere il governo di Pechino a proibirne totalmente l’uso e l’importazione. Un provvedimento
che fece sorgere una fitta rete di contrabbando, il cui controllo finì nelle mani dei commercianti
inglesi che riversarono sulle coste cinesi, nonostante i divieti, tonnellate di oppio proveniente dalla
Turchia e dall’India. In particolare la Compagnia delle Indie aveva instaurato un triangolo
commerciale tra Gran Bretagna, India e Cina, basato sullo smercio di te, seta (dalla Cina), dell'oppio
(dal Bengala soprattutto, ma anche dai regni semi indipendenti del Rajputana e dell' India centrale)
e del cotone lavorato (dall' Inghilterra). Nel marzo del 1839, il governatore di Canton, Lin Tse-hu,
ordinò di sequestrare e distruggere 1500 tonnellate di oppio scoperte a bordo delle navi e nei
magazzini britannici. Londra chiese l’immediato risarcimento della merce distrutta, ottenendo solo
un netto rifiuto e la minaccia della chiusura di Canton non solo agli inglesi, ma anche a tutti i
“barbari occidentali". L’Inghilterra inviò una squadra navale al comando dell’ammiraglio Eliot, che
bloccò il porto di Canton nel novembre del 1839, occupandolo nel giugno seguente. Nel 1842, gli
inglesi si impossessarono delle città costiere di Ning-po, Amoy, Chengkiang, Shanghai e delle isole
di Hong-Kong e Chu-shan. Alla Cina, priva di un moderno esercito non restò che capitolare,
firmando, il 29 agosto 1842, il rovinoso trattato di Nanchino. Questo trattato, il primo dei così detti
“trattati ineguali” conclusi dalla Cina con una Potenza straniera, prevedeva il pagamento di
un’indennità di guerra di 21 milioni di dollari, l’apertura al commercio britannico dei porti di
Canton, Amoy, Foochow, Ning-po e Shanghai, la cessione in affitto perpetuo di Hong-Kong (la
penisola di Kowloon e le isole adiacenti, tra cui Hong-Kong, furono concesse in affitto
all’Inghilterra nel 1898 per 99 anni), la soppressione dell’Associazione Co-hong, detentrice sino a
quel momento del monopolio del commercio con gli stranieri ed infine la fissazione di dazi
doganali vantaggiosi per il commercio inglese. Nel 1844, anche gli Stati Uniti e la Francia ottennero
gli stessi privilegi dell’Inghilterra, a cui si aggiunsero l’extraterritorialità per i loro cittadini residenti
in Cina e la libertà di culto nei “porti aperti” agli occidentali. L’isolamento cinese era finito per
sempre, esponendo l’impero alle influenze delle Potenze occidentali che ne minarono la secolare
stabilità. Nel 1854, Francia ed Inghilterra, preoccupate dal fatto che le importazioni dalla Cina
erano tre volte superiori delle esportazioni (il mercato cinese sembrava non essere interessato ai
prodotti occidentali) chiesero la revisione dei trattati commerciali, proponendo la libera circolazione
delle merci in tutto l’impero e la liberalizzazione dell’oppio. Due incidenti a Canton, nel 1856 e nel
1857, furono il casus belli per la Seconda Guerra dell’oppio: il sequestro da parte della polizia
cinese della nave britannica Arrow, accusata di pirateria e la tortura e l’uccisione di un missionario
francese. Un corpo di spedizione anglo-francese travolse l’esercito cinese e nel 1858 la Cina fu
costretta a firmare il trattato di Tien-Tsin, il quale triplicò il numero di stazioni commerciali aperte
al commercio occidentale, legalizzando l'oppio. Il tentativo nel 1860 di sottrarsi alla sua ratifica

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provocò un nuovo attacco della Francia e dell’Inghilterra, che occuparono Pechino, obbligando il
principe Kung, fratello dell’imperatore Hueng-fong a firmare la Convenzione addizionale di
Pechino.
In questo periodo l’impero cinese dovette fronteggiare anche la rivolta dei Tai-ping, che, nel
tentativo di rovesciare la dinastia mancese causò 20 milioni di morti. La setta dei Tai-ping Tien-kuo
(Stato celeste della suprema pace) era stata costituita alla fine degli anni ’40 dell’Ottocento da
Hong-sien-tsin e fu il primo tentativo di rivolta nazionale in un Paese che non aveva mai conosciuto
fenomeni di tipo nazionalista. Hong-sien-tsin istaurò un singolare sincretismo religioso, fondendo
nozioni tratte dalla Bibbia, con quelli autoctoni cinesi (Confucio) e proponendo la distribuzione
delle terre e la cacciata dell’imperatore della dinastia Manchù. Il suo programma riunì centinaia di
contadini ed Hong, proclamatosi nel 1851 re, organizzò militarmente i suoi adepti e conquistò la
parte meridionale della Cina, arrivando persino a minacciare Pechino. Nel 1853 i Tai-ping
occuparono Nanchino e tutte le città più importanti dello Yang-tse. Hong resistette alle truppe
imperiali sino al 1860, ma molti dei suoi combattenti furono delusi dall’idea di non poter entrare in
possesso della terra sino a che la guerra non fosse finita. Inoltre, Hong proibì il commercio
dell’oppio entrando così in contrasto con gli occidentali, che nel 1860 aiutarono Pechino a liberarsi
dei Tai-ping12. Hong, accerchiato a Nanchino, si suicidò nel 1864, e gli ultimi Tai-ping furono
sconfitti in Tibet due anni dopo.
Merita sottolineare come a partire dal 1842 l’influenza straniera sull’impero cinese si concretizzò
attraverso i cosiddetti Treaty ports, diretta emanazione dei già ricordati “trattati ineguali”. Si
trattava di piccole enclave all’interno del territorio cinese nelle quali la presenza delle potenze
straniere era più o meno accentuata. Esistevano tre diversi tipi di Treaty ports: i Treaty ports veri e
propri, i Settlements e le Concessioni. I primi venivano creati nelle città costiere o lungo i fiumi
navigabili dove non solo il commercio veniva aperto ai commercianti stranieri, ma era una dogana
gestita da cittadini stranieri a regolare il flusso commerciale. In ogni caso queste città ricadevano
sotto la sovranità cinese. I settlements erano distretti posti sotto il controllo dei consoli stranieri
residenti, riuniti in un consiglio municipale che governava tutti gli affari locali (sicurezza, igiene e
servizi pubblici) e si autofinanziava con la possibilità di riscuotere tasse dai residenti. Il più famoso
esempio di settlement fu la città di Shanghai13. Le Concessioni infine erano de jure delle colonie
straniere, in molti casi governate come i settlements, ma in definitiva era poi il console della
nazione a cui apparteneva la concessione ad avere il reale potere politico ed amministrativo. Nelle
Concessioni, a differenza dei settlements, poteva essere impedito ai cittadini cinesi o di altre
nazionalità di essere proprietari immobili.
Ma la prima vera e propria perdita di prestigio internazionale per la Cina avvenne ad opera non di
una Potenza occidentale ma dal Giappone, che aveva già da tempo abbandonato il feudalesimo per
seguire uno sviluppo parallelo a quello delle nazioni europee, mettendo fine alla suo stato di
isolamento internazionale.

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All'esercito imperiale cinese si aggregarono ufficiali britannici, tra i quali Gordon, che parteciparono ai combattimenti
guidando gruppi di mercenari.
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Shanghai risultò divisa in due parti: una amministrata dal governo cinese ed un’altra, formata dalle concessioni
straniere, governata da un Consiglio Municipale, dal nome ufficiale di Council for the Foreign Settlements North of the
Yank-King-Pang, facente gli interessi delle undici nazioni che avevano stipulato trattati con la Cina, e cioè Russia, Gran
Bretagna, Stati Uniti, Norvegia e Svezia, Portogallo, Spagna, Italia, Germania (Prussia), Danimarca (la Francia non era
rappresentata per avere un proprio Conseil Municipal). Il Consiglio Municipale, che si occupava dell’amministrazione
della giustizia, lavori pubblici e controllo del traffico, era composto da 9 membri, scelti annualmente da 27 residenti
stranieri con particolari qualifiche di reddito, e per un Gentlemen’s agreement erano: 6 inglesi, 2 americani ed 1 tedesco
(giapponese dopo la I Guerra Mondiale). Dal 1921 i cinesi furono rappresentati da 5 membri. Il personale
dell’amministrazione era però all’80% britannico ed il solo italiano che vi figurava era il direttore dell’orchestra
municipale, tale Mario Paci. L’International Settlement, sulla cui bandiera campeggiava il motto latino “In uno omnia”,
si dissolse nel 1941 a causa dell’occupazione giapponese.

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La dinastia Meji e la nascita del Giappone moderno
Il 3 gennaio 1868 è la data con cui generalmente si fa nascere Giappone moderno, ovvero il giorno
in cui il giovane imperatore Mutsuhito successe al padre proclamando la fine dello Shogun
Tokugawa e la restaurazione del potere imperiale, iniziando l'era Meji o del governo illuminato. A
partire infatti dal X secolo, il potere imperiale era stato sottomesso ad una casta militare, facente
capo alla famiglia Tokugawa. L'imperatore non era che un monarca con funzioni simboliche, il
quale rispondeva allo Shogun, figura amministrativa e militare. Nel 1603 la società giapponese
venne rigidamente gerarchizzata ad opera della famiglia Tokugawa, i quali isolarono il paese da
ogni contatto con il mondo esterno, secondo il principio del sakoku, ossia del “paese chiuso”. La
politica del sakoku durò più di duecento anni e terminò solo l’8 luglio del 1853 quando il
Commodoro statunitense Matthew Perry, con quattro navi da guerra (Mississippi, Plymouth,
Saratoga, and Susquehanna) ancorò nel porto di Edo, l’attuale Tokio, intimando il Giappone di
aprire le sue frontiere al commercio con l’estero. L’anno seguente, con la Convenzione di
Kanagawa (31 marzo 1854), Perry costrinse lo Shogun a firmare un trattato di pace ed amicizia con
gli Stati Uniti. L'era Meji traghettò il Giappone verso la modernizzazione e, almeno
apparentemente, verso l’influenza dell’Occidente. In realtà la restaurazione Meji era decisa a
portare il Giappone su di un livello pari a quello dei paesi occidentali, senza però fare a questi
concessioni. Il Giappone si limitò ad imitare la tecnologia ed “importando” istruttori e consiglieri,
sia civili che militari. Nel 1870 il feudalismo fu abolito e l’11 febbraio del 1889 fu emanata una
Costituzione che prevedeva un parlamento bicamerale (una Camera Alta ed una Camera dei
Rappresentanti), eletto però con un suffragio molto ristretto e dotato di poteri assai limitati.
L’esecutivo era responsabile di fronte all’imperatore. Le tradizioni dei samurai e le esigenze di un
neo-capitalismo importato contribuirono a far nascere l’imperialismo giapponese. Il Giappone, che
nel 1873 aveva istituito il servizio militare obbligatorio, si servì dell’aiuto dei paesi europei per
ammodernare le proprie forze armate, in particolare dell’Inghilterra per la Marina da guerra e della
Germania per l’esercito. Fu l’esercito che garantì all’imperialismo giapponese la supremazia in Asia
e le prime azioni per espandersi al di fuori del proprio territorio nazionale. Nel 1873 furono
occupare le isole Bonin (Ogasawara), dove Perry aveva issato la bandiera statunitense, nel 1875
invece fu la volta delle Ryu-Kyu e delle Curili. Queste ultime furono occupate grazie ad un accordo
con la Russia zarista con il quale il Giappone cedette la parte meridionale dell’isola di Sakhalin,
facente parte del territorio giapponese dal 1862.

Il contrasto tra Cina e Giappone sorse a causa della penisola coreana, appendice tra il continente
asiatico e l’arcipelago giapponese. La Corea era stata formalmente una regione vassalla dell’impero
cinese, ma il Giappone, vi aveva rivolto le sue attenzioni sin dal 1873. Ogni tentativo di
penetrazione era stato però rimandato a causa dell’opposizione del Ministro dell’interno giapponese
Okubo, il quale aveva ritenuto che un impegno in Corea avrebbe ritardato il processo di
modernizzazione in corso. D’altra parte la penisola coreana era ritenuta di vitale importanza per il
Giappone a causa delle sue risorse minerali, necessarie alla nascente industria giapponese, e per il
riso, indispensabile all’approvvigionamento alimentare dell’arcipelago nipponico. Nell’agosto del
1875 una nave militare giapponese fu coinvolta in un incidente con la popolazione locale del porto
coreano di Chemulpo. Dopo tale evento, che portò alla morte di due marinai giapponesi, il 25
febbraio 1876 fu firmato un trattato tra Giappone e Corea, il quale prevedeva la formale
indipendenza di Seul, l’apertura al commercio estero di tre porti coreani. Tuttavia la Corea non era
ancora pronta per la totale indipendenza e continuò ad avere stretti legami con la Cina, la quale non
rinunciò a tentare di esercitare la propria sovranità sulla penisola. Nel 1882 Tai-wen-kun prese il
potere in Corea e fomentò una vivace politica antistraniera. Nello stesso anno la legazione
giapponese a Seul fu attaccata da truppe regolari coreane che ferirono ed uccisero diversi
diplomatici del Sol Levante. Pechino inviò una spedizione militare che riportò l’ordine, destituendo
Tai-wen-kun e punendo i responsabili. Il Giappone pretese una indennità per le vittime

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dell’aggressione ed ottennero anche che un contingente stazionasse permanentemente a Seul a
protezione dei suoi cittadini. Pechino non si oppose alle richieste giapponesi soprattutto perché
aveva esercitato e riaffermato la sua sovranità sulla Corea. Dopo nuovi disordini a Seul nel 1884,
Tokio e Pechino firmarono a Tien-Tsin il 18 aprile 1885 un accordo che prevedeva: a) il ritiro delle
truppe cinesi e coreane dalla Corea; b) il divieto di fornire alla Corea istruttori militari; c) se fosse
stato necessario inviare truppe in Corea, sia Cina che Giappone avrebbero dovuto comunicarlo
preventivamente. Per il Giappone si trattò indubbiamente di un passo indietro rispetto al trattato del
18, ma anche le velleità cinesi sulla Corea venivano compromesse, in quanto Pechino aveva dovuto
ammettere che i giapponesi avevano gli stessi diritti dei cinesi sulla penisola coreana.

Nella primavera del 1894 la setta nazionalista coreana dei Tong-haks14 scatenò una rivolta per
prendere il potere e destituire la regina Min, la quale chiese l’aiuto cinese per soffocare la
sollevazione. La Cina, aderendo al trattato di Tien-Tsin, comunicò al Giappone l’intenzione di
inviare delle truppe per soffocare la rivolta in quello che essi definirono un loro “Stato tributario”. I
giapponesi contestarono la definizione data dai cinesi della Corea ed inviarono anch’essi delle
truppe, contro il parere del governo imperiale cinese, secondo il quale il Giappone avrebbe potuto
inviare solo una modesta forza militare a protezione dei propri cittadini.
Una volta sconfitti i Tong-haks, i giapponesi si rifiutarono di ritirare i propri soldati ed occuparono
Seul. Lo scontro con la Cina fu a questo punto inevitabile. I cinesi furono sconfitti sia in terra che in
mare e costretti a firmare, il 17 aprile 1895, la pace di Shimonoseki che prevedeva la completa
indipendenza della Corea, l’apertura di quattro porti coreani al commercio estero e l’annessione al
Giappone della penisola del Liao-tung, dell’isola di Formosa e dell’arcipelago delle isole
Pescadores, nonchè il diritto per la Marina nipponica di ormeggare nel porto di Weihaiwei. La Cina
doveva inoltre pagare 360 milioni di yen di risarcimento. Una vittoria clamorosa che suscitò
l’intervento di Russia, Francia e Germania, desiderose di mantenere l’integrità dell’impero cinese
ed allarmate dall’espansionismo nipponico, che, con l'occupazione della penisola del Liao-tung, si è
garantito un vantaggio strategico di primo piano. Le pressioni di queste Potenze fecero rinunciare al
Giappone, dietro il pagamento di un supplemento d’indennità, alle annessioni territoriali (tranne
l’isola di Formosa). L’ingerenza europea nella guerra fu considerata una umiliazione da parte dei
giapponesi, i quali aumentarono gli sforzi per potenziare l’esercito e l’industria siderurgica pesante.
Dopo la Seconda Guerra dell’oppio, il potere in Cina era stato assunto dall’imperatrice reggente
Yeonala, detta Tseu-hi (materna e propizia), rimanendo l’incontrastata dominatrice della politica
cinese, anche dopo che il figlio Tong-The fu maggiorenne nel 1872. Il suo governo fu caratterizzato
da una forte opposizione alle Potenze straniere e da una marcata xenofobia. Gli stranieri in Cina
passarono da 3.500 nel 1870 a 12.000 nel 1899 e con le loro “concessioni”, ottenute con i “trattati
ineguali”, costituivano una sorta di Stato nello Stato. La schiacciante vittoria giapponese del 1894-
95 aveva rivelato la debolezza dell’impero cinese ed aveva fatto iniziare la così detta “gara per le
concessioni”, la quale segnò l’epoca dell’imperialismo europeo in tutta l’Asia orientale. Nel
novembre del 1897 la Germania occupò la baia di Kiawchow ed il porto di Tsingtao nello
Shantung. Agli inizi del 1898 si mossero anche Russia, Inghilterra e Francia, le quali si assicurarono
vaste concessioni che assegnarono loro sfere d’influenza in diverse zone della Cina. La Francia
pretese una base navale nella baia di Canton, la Gran Bretagna nel 1898 ottenne nuove basi al nord
di Kow-loon di fronte ad Hong-Kong e l'affitto del porto di Weihaiwei sulla costa del Golfo di
Pechili, mentre la Russia occupò Dalian e Port Arthur in Corea, strappando anche una concessione
per la costruzione di una ferrovia proprio fra Port Arthur e la tratta manciuriana della

14
La setta segreta dei Tong-haks (letteralmente “scienza orientale”) si basava su un insieme di principi del
confucianesimo, del buddismo e del taoismo ed era stata fondata da Che-u nel 1860 con lo scopo di difendere le
tradizioni coreane dall’infiltrazione di credenze straniere.

11
Transiberiana15. Una delle poche Potenze europee a non trarre particolari vantaggi in Cina era stata
l’Italia la quale, nel 1899, non era riuscita ad ottenere la concessione di San-Mun per istallarvi una
base navale. Sperando in un appoggio britannico16, il Ministro degli Esteri Felice Napoleone
Canevaro tentò di acquisire la baia di San Mun nella provincia del Ce-Kiang per installarvi una base
navale. Dopo che la Cina respinse le richieste italiane, Canevaro, l'8 marzo 1899, ordinò alla
legazione italiana di Pechino di consegnare un ultimatum al governo imperiale cinese, affinché
fosse concesso all’Italia l’uso della baia ed i diritti esclusivi nel Ce-Kiang. Lo stesso giorno
Canevaro avvertì l'Inghilterra delle intenzioni italiane, la quale si oppose decisamente, costringendo
l'Italia ad inviare un telegramma urgente alla legazione italiana di Pechino dove si diceva di
attendere sino a nuove istruzioni. Ma alla legazione i telegrammi giunsero in ordine inverso a quello
della partenza, di modo che l'ultimatum fu consegnato e poi in tutta fretta smentito e ritirato. Un
episodio tragicomico per il quale Canevaro fu costretto a dimettersi, assieme al primo governo
Pelloux.
L’impero cinese aveva subito altre perdite territoriali, precedentemente alla guerra cino-giapponese:
nel 1870 la Russia aveva occupato il Turkestan (restituito parzialmente nel 1881); nel 1885 i
francesi avevano conquistato il Regno d’Annam, sotto la nominale sovranità cinese. All’inizio del
1900, ben undici Stati stranieri (Italia inclusa) avevano installato le proprie legazioni a Pechino ed
una flotta multinazionale stazionava permanentemente alla foce del Pei-ho, fiume che collegava la
capitale con l’Oceano Pacifico. Gli occidentali avevano importato anche un altro fattore
destabilizzante per la società cinese: i missionari che avevano convertito un buon numero di cinesi.
Questi avvenimenti favorirono la nascita nella regione dello Shan-Tung nel 1898 della società
segreta I-he-chuan (Pugni della concordia e della giustizia) i cui aderenti furono chiamati dagli
occidentali Boxer poichè, operando sotto la copertura di società ginnasta di arti marziali a scopo
pedagogico-patriottico, i loro rituali assomigliavano alle movenze dei pugili. All’inizio i Boxer, i
cui principi erano imbevuti di Taoismo e xenofobia, non ebbero fini politici, ma cercarono
semplicemente di preservare l’identità della loro religione dalle contaminazioni europee.
Inizialmente gli occidentali sottovalutarono i Boxer, anche perché non era la prima volta che nella
società cinese nascevano sette esoteriche e segrete con i fini più disparati, ad esempio i Ko-lao-hui
(fratello anziano) o la Ta-tao-hui (grande coltello). Pur rimanendo un movimento spontaneo e senza
gerarchia, portò avanti delle rivendicazioni sociali e, fedele alla dinastia al potere, vide nei “diavoli
stranieri” il principale nemico da abbattere, trovando nel governatore della provincia dello Shantung
un accanito sostenitore. La setta dei Boxer, tra il 1898 ed il 1899, oltre a sabotare linee ferroviarie e
telegrafiche, attaccò numerose missioni sia cattoliche che protestanti, trucidando centinaia di
convertiti. I Boxer, che si riconoscevano per i loro vestiti azzurri con fasce rosse alla testa, ai polsi
ed alle caviglie, possedevano poche armi antiquate ma la loro maggiore forza era il fanatismo e la
reggente Tseu-hi li utilizzò come strumento per danneggiare gli interessi stranieri, finendo per
favorire apertamente questo movimento xenofobo, nonostante le proteste dei diplomatici a Pechino.
Il conflitto raggiunse il culmine nel giugno del 1900, quando i Boxer, a cui si era aggiunto l’esercito
imperiale, attaccarono e strinsero d’assedio le legazioni straniere a Pechino, dove fu anche ucciso
l’ambasciatore tedesco Von Ketteler ed il cancelliere di legazione giapponese Sugiyama. Le
Potenze reagirono fermamente ed organizzarono un corpo di spedizione multinazionale, formato da
Giappone, Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Russia, Italia ed Austria-Ungheria, che distrusse
l’esercito cinese e la setta dei Boxer. Il 7 settembre 1901 avvenne la firma del “Protocollo dei
Boxer”, che stabilì: il pagamento da parte della Cina di 450 milioni di tael haikwan17 di riparazioni,

15
La Transiberiana era stata iniziata nel 1891 per collegare i territori occidentali russi con il porto di Vladivostock
attraversando la Manciuria.
16
L’approvazione dell’Inghilterra era subordinata al fatto che l’Italia non avesse usato la forza.
17
Il tael haikwan o tael doganale era una moneta di conto corrispondente a un’oncia di argento. L’adozione di questa
moneta fu motivata dal fatto che non esisteva in Cina una valuta nazionale uniforme. Dopo i trattati del 1842-44 fu
creata un tael di conto nel quale furono espressi i diritti di dogana nei porti aperti ed il cui valore fu stabilito
chiaramente in relazione ai diversi tael locali.

12
il cui pagamento fu garantito tramite il controllo sulle dogane imperiali; il divieto per due anni di
importazione di armi in Cina; il diritto di ciascuna potenza di costituire una guardia permanente per
le loro legazioni; il divieto di costituire in tutto l’impero cinese sette a carattere xenofobo.

La Concessione italiana di Tien-Tsin


Seguendo l’esempio di numerose potenze europee che avevano anni prima preso possesso di
numerosi quartieri della città di Tien-Tsin18, anche l’Italia nel gennaio del 1901 autorizzò il proprio
Ministro italiano a Pechino di occupare alcuni terreni, pari a 465.580 mq, che si trovavano tra la
concessione russa, quella austriaca ed adiacente alla ferrovia per la capitale cinese.
L’intenzione era quella di ottenere una concessione che nel futuro avrebbe potuto favorire ed
accrescere le attività economiche italiane nel nord della Cina.
Il 7 giugno 1902 il rappresentante italiano in Cina ed il sovrintendente delle dogane cinese a Tien-
Tsin sottoscrissero l’accordo con il quale si dette ufficialmente vita alla concessione italiana,
rendendo legale l’occupazione dell’anno precedente. L’accordo prevedeva una concessione libera
da scadenze temporali o da vincoli economici, salvo il pagamento di un canone annuale di affitto di
2.900 lire oro. Pechino riconosceva all’Italia la piena giurisdizione sui terreni della concessione e le
proprietà dello Stato cinese passavano a quello italiano. I sudditi cinesi però potevano acquistare
proprietà immobili e risiedere stabilmente nella concessione.
Dopo un infelice esperimento di affidare l’organizzazione e lo sfruttamento della concessione ad
una chartered company sul tipo della Compagnia del Benadir in Somalia19, il governo italiano si
orientò verso l’amministrazione diretta, così che l’amministrazione del possedimento fu affidata ad
un commissario regio, dipendente dalla legazione italiana di Pechino. Nel 1913 fu emanato un
“Regolamento fondamentale per Tien-Tsin”, che previde la creazione di un’amministrazione
municipale sotto la direzione del locale Regio console. Tale regolamento restò però inattuato sino al
1923, anno in cui il Ministero degli Esteri approvò uno Statuto municipale, nel quale la gestione
amministrativa fu delegata ad un consiglio elettivo di cinque membri (di cui quattro italiani),
presieduto dal console, affiancato da un comitato consultivo cinese. Occupata dai giapponesi nel
1937 e dai nazionalista cinesi nel 1945, la concessione di Tien-Tsin fu restituita ufficialmente alla
Cina in virtù degli articoli 24 e 26 del Trattato di Parigi del 1947.

La corsa alle concessioni e la politica aggressiva delle potenze europee nei confronti del impero
cinese fecero sorgere nel governo statunitense la preoccupazione di veder sfumare la possibilità di
sfruttare commercialmente le potenzialità economiche dell’immenso “celeste impero”. Fu per
questo motivo che il Segretario di Stato John Hay studiò la così detta dottrina o politica della “porta
aperta”, dirigendola alle potenze europee con due note circolari del 6 settembre 1899 e del 3 luglio
1900. Nella prima Washington chiese ai governi francese, tedesco, russo, giapponese, italiano ed
inglese di aderire al principio della parità di trattamento degli interessi commerciali di ciascuna
potenza all’interno dei settlements, sfere d’influenza o concessioni, attuando una politica di
penetrazione concertata. La seconda nota fu inviata durante la guerra dei Boxers e Washington vi
specificò l’obiettivo della politica statunitense in Cina, ovvero preservare l’integrità territoriale
cinese per poter garantire agli investitori e commercianti stranieri pari opportunità in ogni regione
imperiale.
La Russia ed il Giappone furono le nazioni che più trassero vantaggio dalla crisi dell’Impero
Celeste e fu così gioco forza che gli opposti imperialismi russo e giapponese si urtassero. Lo Zar
Nicola II tentò di distogliere l’attenzione dalle problematiche di politica interna, attuando
un’espansione verso l’Estremo Oriente, zona vitale per la prosecuzione della ferrovia Transiberiana.
Essenziale a questo proposito era la Manciuria e Port Arthur, sulle coste del Pacifico, libere dai

18
Ad esempio l’Inghilterra e la Francia nel 1858, il Giappone nel 1895 e la Germania nel 1896.
19
Si trattava del Consorzio Italiano pel Commercio con l’Estremo Oriente.

13
ghiacci nel periodo invernale. Nel dicembre del 1897, la flotta russa aveva attraccato a Port Arthur,
ottenendo il permesso dalla Cina di passarvi l’inverno. Un permesso che si era trasformato in affitto
e che aveva permesso poi alla Russia di occupare tutta la penisola di Liao-tung. L’esercito russo,
inoltre, durante la rivolta dei Boxer, aveva occupato le tre province della Manciuria, suscitando la
reazione del Giappone, deciso a bloccare l’avanzata russa verso la Corea. Il Giappone temeva che
venisse minacciata la sua influenza sulla penisola coreana e soprattutto che la presenza russa
nell’area inficiasse l’espansione giapponese nella Manciuria meridionale, ricca di terre per i suoi
emigranti e prodotti alimentari per colmare il deficit della produzione nazionale. La Gran Bretagna,
per altro, preoccupata dell’avvicinamento della Russia verso l’India, sostenne finanziariamente il
Giappone, e ponendo fine al suo “splendido isolamento”, strinse il 30 gennaio del 1902 un’alleanza
militare con Tokio. Questa alleanza prevedeva che la Gran Bretagna sarebbe entrata in guerra a
fianco del Giappone se questo stato attaccato da due Potenze, sottintendendo la Russia e la Francia,
mentre Tokio promise il suo aiuto se l’India fosse stata minacciata. In pratica si rendeva omaggio a
posizioni comuni in Estremo Oriente, ossia riaffermare l'indipendenza della Cina e della Corea,
nonchè lo status quo in tutta l'area.
La Russia fu oggetto di pressioni diplomatiche da parte delle Potenze europee affinché si ritirasse
dalla Manciuria ed in questo senso sembrò dirigersi la politica russa dopo la stipulazione di un
trattato con la Cina, prevedente il ritiro entro il 1903. Tuttavia i russi non si ritirarono dalla
Manciuria, complice il segretario di Stato Bezovranov, rappresentante dei gruppi finanziari
favorevoli all’espansione della Russia in Asia. Il 13 gennaio 1904, il Giappone inviò un ultimatum
alla Russia intimandole di rispettare l’integrità territoriale della Manciuria. Poche sono le
Cancellerie europee che scommisero sul Giappone quale vincitore in una eventuale guerra e forse
tra queste ci fu l’Inghilterra, la cui piazza finanziaria di Londra aveva permesso e sostenuto la
crescita esponenziale dell’industria bellica nipponica. Nella notte tra l’8 ed il 9 febbraio, i
giapponesi attaccarono senza preavviso la base navale di Port Arthur, affondando numerose navi da
guerra ed assicurandosi la superiorità navale. Undici mesi dopo la base fu conquistata e tra il 23
febbraio e l’11 marzo 1905, l’esercito russo fu annientato a Mukden. Nicola II pensò di poter
ribaltare la situazione utilizzando la flotta del Baltico, comandata dall’ammiraglio Zinovij
Rozestvenskij e partita nell’ottobre del 1904 da Kronstadt e Liepaja, prima della caduta di Port
Arthur. Le antiquate corazzate russe, con equipaggi male addestrati, si divisero in due squadre: una
compì il periplo dell’Africa ed un’altra attraversò lo Stretto di Suez (solo le unità che pescavano
meno di 9 metri poterono servirsi del canale). Un viaggio compiuto in condizioni disastrose (fu
caratterizzato da risse, incidenti, avarie, epidemie di tifo e scorbuto) che non servì a niente, perchè
le due squadre vennero completamente distrutte a Tsushima tra il 27 e 28 maggio 1905
dall’ammiraglio giapponese Heihachiro Togo. Gran Bretagna e Stati Uniti, sebbene felici
dell’indebolimento russo, si resero conto della pericolosità dell’emergente espansionismo
giapponese. La pace tra Russia e Giappone fu firmata il 5 settembre 1905 a Portsmouth (New
Hampshire - Stati Uniti) con la mediazione di Theodore Roosevelt, ormai interessato all’equilibrio
asiatico. Il trattato di pace stabilì l’evacuazione russa della Manciuria, riconobbe al Giappone il
possesso della parte meridionale dell’isola di Sakhalin e della penisola del Liao-Tung ed il
protettorato sulla Corea con Port Arthur ed i diritti sulla ferrovia in Manciuria. Infine i giapponesi
ottennero la cessione dei “diritti ed interessi” che la Russia aveva ottenuto dalla Cina, consistenti
nello sfruttamento della ferrovia mancese meridionale costruita nel 1898. Il Giappone veniva così
assunta a Potenza internazionale di primo piano, mentre la Russia, declassata, abbandonò
l’espansione in Estremo Oriente, riprendendo la sua presenza attiva nei Balcani. La clamorosa
vittoria nipponica, inoltre, infranse il mito dell’invincibilità e della supremazia della razza bianca,
incoraggiando l’”asiatismo” ed i nazionalismi in Indocina, India e Cina. L’espansione e la crescita
giapponese non si esaurì con la Pace di Portsmouth. Tra il 1907 ed il 1913, il Giappone stipulò
nuove convenzioni con la Cina che gli permisero di costruire in Manciuria nuove diramazioni
ferroviarie e di sfruttare miniere di carbone, organizzando in pratica tutta la vita economica della
regione. Nel 1910, poi, Tokio procedette all’annessione della Corea, dove si erano stabiliti già più

14
di 50.000coloni giapponesi. Il sogno di diventare “l’Inghilterra d’Asia” stava prendendo corpo. I
nuovi territori acquisiti fornirono risorse alimentari per la crescente popolazione nipponiche, ferro e
carbone per l’industria metallurgica giapponese che, migliorata qualitativamente grazie all’apporto
tecnologico britannico, dotò il Giappone di un’industria bellica quasi autonoma e sempre più
potente quanto efficiente. Sebbene infatti il più grande avversario del Giappone in Asia (ovvero la
Russia) era stato debellato, il Giappone non smise di riarmarsi ed organizzare il proprio esercito
secondo gli standard europei. Una legge militare del 1906 ampliò la coscrizione obbligatoria ed in
cinque anni il contingente di leva aumentò di 50.000 uomini; la Marina militare, che nello scontro
con la Russia era uscita totalmente sconfitta, varò nuove corazzate ed incrociatori divenendo nel
1913 la quarta Marina del mondo e la dominatrice dell’Estremo Oriente. Tutto però faceva credere
che il Giappone non intendesse usare questa potente struttura bellica, poiché nel 1913 il Parlamento
giapponese osteggiò la crescita delle spese militari e navali, votando anche una mozione di sfiducia
al Ministero Katsura, ritenuto troppo influenzato dagli ambienti militari. Inoltre, nel 1914, assunse il
potere il Gabinetto Okuma, che con i suoi stretti legami con il trust della Mitsubishi, favorì la
politica degli affari e l’espansione economica, piuttosto che quella armata.
In Cina la situazione naturalmente era diversa. Nonostante alcune timide riforme (nel 1901 era stato
creato il primo Ministero degli Esteri cinese), il Celeste impero era ancora lontano dal costituire uno
Stato moderno. Ad esempio l'esercito continuava ad essere fragmentato in una miriade di centri di
comando, facenti capo ai "signori della guerra" nelle diverse province, alle quali spettavano anche
la riscossione dei tributi, minando ulteriormente la stabilità dell'impero. Anche un progetto per
l'istaurazione di una monarchia costituzionale era fallita assai presto, scontrandosi con i
conservatori della dinastia Manchù, rappresentati dal principe Chu, reggente del giovane Pu Yi
(figlio della saggezza), salito sul trono nel 1908. Del resto, la "politica della porta aperta"
avevafrenato il processo di ricostruzione interna, favorendo la disintegrazione regionale e la guerre
civili fomentata dai capi locali. Solo il nazionalismo di Sun Yat-Sen, medico cantonese e fondatore
del partito Kuo-min-tang (partito nazionalista), riscosse sul momento notevole successo. Il
nazionalismo di Sun Yat-Sen non aveva solamente una matrice anti-imperialista, ma propugnava
anche una unità nazionale e razziale basata sul sangue, svincolata dai legami clanici e familiari. Il
medico evocava, tramite il concetto dei "Tre principi del popolo" (indipendenza nazionale,
ordinamento democratico, benessere della popolazione), l'ideale di uno Stato centrale, forte ed in
grado di contrastare la forza centrifuga delle province. A Nanchino, il 1 gennaio 1912,
un’assemblea nazionale proclamò la Repubblica con Sun Yat-Tsen presidente provvisorio,
costringendo l'ultimo imperatore Manchù, Pu Yi, ad abdicare, il quale però lasciò tutti i poteri a
Yuan Shi-Kai, un generale legato alla dinastia mancese. Per evitare una guerra civile, Sun Yat-Tsen
si dimise. I legami del neo-presidente si rivelarono fatali per la repubblica, poichè dissolse
l'Assemblea nazionale, bandendo il Kuomintang. Yuan Shi-Kai assicurò così alla vecchia oligarchia
ed ai capi locali la continuità del potere, allontanando la possibilità di un rinnovamento
democratico. La revisione dei trattati ineguali, la restaurazione completa della sovranità cinese e la
modernizzazione dei economica e tecnologica furono, punti cardine della rivoluzione di Sun Yat-
Sen, furono ovviamente totalmente disattesi dalla la dittatura di Yuan Shi-Kai, lasciando la Cina in
balia dell'imperialismo giapponese.

L’entrata degli Stati Uniti sulla scena politica mondiale

Gli Stati Uniti d’America mantennero per la maggior parte dell’Ottocento il ruolo di uno Stato
periferico, nonostante l’importante sviluppo industriale e marittimo e l’espansione territoriale
avvenuta principalmente ai danni del Messico. La politica estera statunitense fu in questo periodo
sempre dominata dalla costante preoccupazione di evitare ingerenze europee, seguendo lo spirito
della dichiarazione Monroe del dicembre 1823. Tale politica fece dall’isolazionismo emisferico dei
“padri fondatori” e dell’avversione verso quelle che venivano definite le entangling alliances la
propria bandiera. Nella dottrina Monroe si racchiudevano tutte le esigenze e gli interessi

15
geostrategici degli Stati Uniti, nonché la superiorità e l’incompatibilità del modello politico
nordamericano rispetto a quello degli imperi continentali europei.

La dottrina Monroe però non fu un concetto monolitico e statico, poiché va tenuto in debito conto
che nel corso degli anni essa si arricchì di nuovi concetti ed interpretazioni, poste in essere dalle
varie amministrazioni20. Si trattò, almeno dal periodo compreso tra il 1865 ed il 1895, di
interpretazioni di natura conservativa, che non spostarono di molto i cardini della politica estera
statunitense, tradizionalmente legata all’isolazionismo, soprattutto perché gli Stati Uniti non ebbero
ancora la forza di porre in essere una politica eccessivamente aggressiva, dopo le distruzioni causate
dalla guerra civile. Non va tuttavia pensato che nell’arco di questo periodo Washington non
perseguì una politica espansionistica. Le forze profonde, che poi si manifestarono indiscutibilmente
nel 1898, esistevano già e non incarnavano solo lo spirito del Manifest destiny esposto da John
O’Sallivan nel 1845, in occasione della rivendicazione del Texas e dell’Oregon. I jeffersoniani ad
esempio, scettici riguardo all’amministrazione del potere federale e sempre timorosi verso tutte le
forme di imperialismo, non misero mai in discussione i principi dell’espansione territoriale così
profondamente radicati nella psicologia nordamericana. Ciò che invece fu messo in discussione
furono i modi, i tempi ed i fini dell’espansione, che doveva essere diretta a mettere al sicuro territori
contigui per stabilirvisi nel futuro, sottraendoli ad entità straniere. L’imperialismo, per contro, era
rifiutato in toto, poiché considerato come amministrazione di territori stranieri, dove il governo
violava i diritti dei governati. Gli Stati Uniti dovevano in sintesi rimanere il campione della
democrazia. Questo concetto jeffersoniano, proprio di uomini di stato come William Jennings
Bryan, ebbe molti sostenitori nel cuore degli Stati Uniti, ma fu sempre osteggiato dalle zone
industrializzate dalla East Coast, che temendo una perdita di credibilità sul mercato internazionale,
auspicarono invece una attiva politica tariffaria e la conquista di nuovi mercati. Ciò nonostante
l’ideale jeffersioniano permeò spesso l’azione degli Stati Uniti, generando un singolare tipo di
“imperialismo umanitario”.
Nel 1867 il Segretario di Stato William Seward, sotto la presidenza Johnson, dichiarò che gli
sarebbero stati sufficienti anche trenta anni per poter dare agli Stati Uniti tutto il continente
americano e il dominio del mondo. Seward non andò così lontano, ma estese la sovranità
statunitense all’Alaska, acquistata dalla Russia nel 1867 per 7.200.000 di dollari, e nello stesso anno
alle isole Midway nel Pacifico. Un altro tentativo del Segretario di Stato di acquistare le isole
Vergini (Indie Occidentali danesi) fallì per il dissenso del Congresso. Sotto l’amministrazione del
Presidente Grant, nel 1870, il Senato rifiutò un trattato di annessione di Santo Domingo. Nel 1869
fu aperta una base navale nelle isole Samoa, la quale fu causa di un contenzioso diplomatico con la
Germania e la Gran Bretagna21. Si trattò di tentativi di espansione che palesarono non solo la
volontà nordamericana di rivendicare un ruolo egemone nell’emisfero occidentale, come anche un
altro dei cardini degli interessi di Washington, ossia l’Oceano Pacifico. Indubbiamente il primo
passo per la concretizzazione dell’egemonia sull’emisfero occidentale fu l’organizzazione della
Conferenza di Washington del 1889-90, meglio conosciuta anche come Prima Conferenza
Panamericana, con la quale si tentò di erigere un sistema per la sistemazione pacifica delle
controversie, la creazione di una unione doganale, e codificare il diritto internazionale in quanto ai

20
Nel 1870 sotto l’amministrazione del presidente Grant si parlò della clausola del “non trasferimento” legata alla
Dottrina Monroe, ovvero il divieto da parte delle Potenze straniere di ottenere, anche con mezzi pacifici e perfettamente
legali, come ad esempio trattati internazionali, territori nelle Americhe. Un concetto che era stato espresso, avvalendosi
dei concetti della Dottrina Monroe, dopo che la Confederazione tedesca aveva tentato di acquistare una base navale a
Samaná (Santo Domingo).
21
La controversia fu risolta mediante una conferenza che ebbe luogo a tenuta a Berlino il 15 giugno 1889 (la prima
conferenza internazionale tenuta in lingua inglese), che stabilì un condominio internazionale tripartito sull’arcipelago.
Nel 1905 le isole furono divise in una parte occidentale ed una orientale, rispettivamente tra Germania e Stati Uniti,
avendo la Gran Bretagna rinunciato ad esercitare la propria sovranità in favore delle isole Fiji e Tonga.

16
reclami e interventi diplomatici. Una conferenza alla quale parteciparono tutti gli Stati
latinoamericani tranne Santo Domingo22 e che, anche se non dette tutti i frutti sperati, servì agli
Stati Uniti soprattutto per dimostrare ai delegati sudamericani, portati in un lungo giro di 6.000 per
l’Unione, i progressi e lo sviluppo sia dell’industria che dell’agricoltura nordamericana. In effetti
l’industria e l’agricoltura erano cresciute oltre le necessità dei bisogni degli Stati Uniti e fu proprio
dal 1890 in poi che nella dirigenza politica statunitense (James Blaine), come anche nei gruppi
industriali, si fa strada l’idea che i mercati esteri fossero essenziali per un’ulteriore crescita
economica. Ma per avere questi mercati era necessario porre in essere una politica estera più
aggressiva ed intraprendente. Dello stesso avviso era Alfred Thayan Mahan, che nel 1890 pubblicò
la sua celebre opera The influence of Seapower on history, 1660-1783, secondo la quale gli Stati
Uniti per divenire veramente una grande Potenza dovevano sviluppare tre elementi, ovvero la
costruzione di un canale interoceanico in sudamerica, avviare un serio programma di
ammodernamento della flotta da guerra23 e stabilire postazioni commerciali e militari nel Pacifico,
per accrescere il commercio con la Cina. Tutti elementi che poi furono puntualmente portati a
compimento.
La politica americana si impose prepotentemente nel giugno del 1895 in occasione della
controversia territoriale che oppose il governo inglese al Venezuela per la delimitazione dei confini
della Guiana britannica ed in particolare per il possesso del territorio situato alla foce dell’Orinoco.
L’intervento militare inglese fu scongiurato proprio dal Presidente Cleveland, che, invocando il
rispetto della Dottrina Monroe, impose all’Inghilterra di sottoporre la vertenza ad un arbitrato
internazionale. La mediazione statunitense fu per gli Stati Uniti fu una vittoria diplomatica di
notevole rilievo, dato che per la prima volta fu riconosciuto pubblicamente ed ufficialmente dalla
Gran Bretagna la predominanza nordamericana sull’emisfero occidentale (il Segreatrio di Stato
Olney dichiarò che gli Stati Uniti erano sovrani nel continente e la loro volontà era legge),
sconfiggendo di riflesso anche l’imperialismo europeo, anche se pochi anni dopo l’arbitrato favorì
gli interessi britannici24. L'evento ebbe la conseguenza di accrescere la coscienza nazionale e lo
spirito militare statunitense (per alcuni giorni si parlò anche di una possibile guerra tra Stati Uniti e
Gran Bretagna), e fu il primo passo teso a cercare di eliminare gli interessi che le Potenze europee
possedevano nell’area ed in particolare nel Mar delle Antille, zona strategica in vita della
costruzione del canale interoceanico. In questo contesto gli Stati Uniti diressero la propria
attenzione verso la questione di Cuba, possedimento spagnolo, dove proprio nel febbraio del 1895
era in atto una guerra di indipendenza. Per Washington l’isola era importante non solo per motivi
strategici, ma anche per ragioni finanziarie ed economiche (considerevoli erano le risorse della
colonia, quali, canna da zucchero, tabacco, ferro), dal momento che già da tempo i capitali
nordamericani vi erano stati investiti. Già durante la prima sollevazione indipendentista di Cuba
(1868-1878), gli ambienti finanziari ed economici nordamericani si erano interessati alle sorti
dell’isola, ma il governo di Washington, ancora troppo debole a causa dei postumi della Guerra
civile, non era stato in grado di intervenire. Il Presidente Grover Cleveland dichiarò nel 1895 la
neutralità statunitense di fronte al conflitto in atto a Cuba, ma il suo successore William McKinley,
più sensibile alle pressioni dell’opinione pubblica ed alla stampa sensazionalistica capeggiata dal
magnate W. R. Hearst. Dopo che nel febbraio del 1898 la corazzata Maine saltò in aria nel porto
dell’Avana, gli Stati Uniti si avviarono verso quella che fu definita la Splendid little war, una guerra

22
Il governo dominicano rifiutò di partecipare perché Washington non aveva ratificato il trattato bilaterale di arbitrato e
reciprocità commerciale del 1884.
23
Nel 1890 la Marina statunitense non era ancora in grado di competere efficacemente con le potenze navali europee.
Lo dimostrò un evento spesso dimenticato dalla storiografia, ossia il linciaggio nel marzo del 1891 di undici immigrati
italiani a New Orleans, che provocò quasi la rottura delle relazioni diplomatiche tra Italia e Stati Uniti. La minaccia da
parte italiana di inviare delle corazzate per ottenere giustizia scatenò un ampio dibattito in seno agli ambienti politici e
militari statunitensi, facendo sorgere seri dubbi sulle difese navali della US navy.
24
L’arbitrato si risolse nell’ottobre del 1899, concedendo al Venezuela il delta dell’Orinoco ed il territorio a sud dello
stesso fiume. Tuttavia alla Gran Bretagna fu garantito la maggior parte del territorio originariamente conteso, situato tra
i fiumi Orinoco ed Esequibo.

17
dichiarata alla Spagna l’11 aprile 1898, e che si estese anche all’Estremo Oriente, nelle Filippine.
La Marina statunitense era riuscita ad essere la quinta del mondo ed era nettamente superiore a
quella spagnola così che in tre mesi le forze spagnole furono sconfitte sia nelle Filippine che a
Cuba. Per il trattato di pace di Parigi del 10 dicembre 1898, la Spagna fu costretta a rinunciare alla
sovranità su Cuba ed a cedere Porto Rico, le Filippine e l’isola di Guam per 20 milioni di dollari,
mentre sarebbero invece rimaste sotto sovranità spagnola tutti gli altri possedimenti non menzionati,
ovvero le isole Marianne, Caroline e Palaos25. Dal trattato di Parigi rimasero erroneamente escluse
alcune isole delle Filippine, Sibutú e Caigán, che furono successivamente acquistate dagli Stati
Uniti, rafforzando ulterioremente la loro presenza nel Pacifico26.
Inizialmente per Cuba era stata prevista l’indipendenza, specificatamente prevista
dall’“emendamento Teller”, annesso alla risoluzione favorevole alla guerra votata dal Congresso,
per il quale gli Stati Uniti si impegnavano a ritirarsi da Cuba una volta posto termine alla
dominazione spagnola. Il Congreso desiderò così distanziarsi dale forme dell’imperialismo classico,
ponendo invece l’accento sul fattore umanitario, ovvero l’emancipazione del popolo cubano dal
giogo coloniale spagnolo. In realtà poi le cose andarono diversamente poichè l’emendamento Teller
fu a sua volta rimpiazzato dall’emendamento Platt annesso alla prima Costituzione cubana e con il
quale gli Stati Uniti venivano non solo autorizzati ad intervenire nell’isola ogni qual volta
ritenessero che la sua indipendenza fosse in pericolo, ma si condeva l’uso della base di
Guantanamo. Cuba ottenne l’indipendenza nel 1902, dopo essere stata amministrata da governatori
militari statunitensi. Nelle Filippine invece, dopo che McKinley parlò di benevolent assimilation, si
instaurò un vero e proprio protettorato che provocò una sollevazione popolare guidata da Emiliano
Aguinaldo che si trasformò in una sanguinosa guerra di guerriglia protrattasi dal 1899 al 190227. Le
elezioni presidenziali del 1900 avevano comunque visto la nascita del dibattito sull’imperialismo, al
punto che la contesa elettorale fu anche definite un referendum on imperialism, anche se poi la
fazione vincente fu quella repubblicana, dominata dai sostenitori di McKinley.
Theodore Roosevelt, salito al potere dopo l’assassinio del Presidente Mckinley nel 1901, proseguì
l’attiva politica statunitense in Estremo Oriente, appoggiandosi al Giappone, comprendendo il suo
bisogno di materie prime e di nuovi mercati. Per questo motivo Roosevelt riconobbe segretamente il
protettorato giapponese sulla Corea, in cambio della rinuncia del Giappone a qualsiasi pretesa
sull’arcipelago filippino. Nel novembre del 1908 l’accordo Root-Takahira riconobbe la supremazia
economica del Giappone in Manciuria e lo status quo nel Pacifico.
La Guerra ispano-americana ebbe un notevole influsso sugli sviluppi relative al canale
interoceanico, sul quale pesava l’ipoteca del trattato Clayton-Bulver del 1850, per il quale Stati
Uniti e Gran Bretagna avevano assunto l’impegno reciproco a non esercitare un controllo esclusivo
su questa grande opera una volta che fosse stata costruita. Già nel 1880 il Presidente Hayes aveva
dichiarato che il canale avrebbe collegato i porti dell’Atlantico con quelli del Pacifico e che quindi
avrebbe dovuto essere sotto il controllo esclusivo degli Stati Uniti. Tale questione divenne
maggiormente di primaria importanza quando nel 1898 le Antille divennero un “mare americanum”
e gli Stati Uniti si insediarono nel Pacifico godendo non solo degli ex-possedimenti spagnoli, ma
anche della contemporanea annessione delle isole Hawaii. La Gran Bretagna, abbandonata ogni
velleità nell’emisfero occidentale dopo il 1895, e impegnata nella guerra anglo-boera non fu in
grado di sollevare obbiezioni. Il 18 novembre 1901, il trattato Hay-Pauncefote riconobbe al governo
statunitense non solo di costruire il canale nell’istmo di Panama, ma anche di installarvi delle

25
Le isole Marianne, Caroline e Palaos, occupate effettivamente dalla Spagna nel 1885, furono cedute alla Germania
per il trattato ispano-tedesco del 30 febbraio 1899 per 25 milioni di marchi.
26
Il passaggio di queste due isole agli Stati Uniti fu ratificato dal trattato ispano-americano del 7 novembre 1900 per
100.000 dollari.
27
Gli Stati Uniti alla fine riuscirono a prevalere sulla guerriglia a prezzo di dure perdite (persero la vita più di 4.000
soldati statunitensi e 20.000 filippini) ed imposero un proprio protettorato sull’arcipelago. Negli anni a venire non
mancarono le iniziative per concedere l’indipendenza alle Filippine, tra cui il Jones Act (1916) annunciante il ritiro
degli Stati Uniti non appena vi fosse stato un governo stabile, ed il Tydings-McDuffie Act (1934), secondo il quale
Washington avrebbe concesso l’indipendenza dieci anni dopo che si fosse formato un governo con una Costituzione.

18
fortificazioni, pur parlando di neutralità del canale. La preminenza degli Stati Uniti sul canale
avrebbe dovuto essere consacrata nel gennaio del 1903 con il trattato Hay-Herrán mediante il quale
si provvedeva alla concessione per 99 anni della zona del canale agli statunitensi. Il Senato
colombiano (Panama era una regione sottoposta alla sovranità della Colombia) però si rifiutò di
ratificarlo, così che gli Stati Uniti intervennero nella così detta “guerra dei mille giorni”, un
conflitto civile che opponeva forze secessioniste panamensi al governo di Bogotà sin dal 1899.
L’aiuto nordamericano agli indipendentisti porterà alla definitiva indipendenza di Panama nel
dicembre del 1903, e due settimane dopo venne stipulato il trattato Hay-Bunau Varilla, il quale
concesse agli Stati Uniti l’uso perpetuo del canale28.
La potenza statunitense nell'emisfero occidentale fu messa in dubbio da quella che può essere
definita la seconda crisi venezuelana, ricordando il confronto tra Stati Uniti e Gran Bretagna del
1895. Una crisi che vide questa volta la Germania come attore principale e che sarà causa di una
modificazione del concetto della dottrina Monroe. Nel 1902 il Venezuela del dittatore Cipriano
Castro decise di non riconoscere i debiti contratti prima dalla sua ascesa al potere. La Germania
vantava crediti per la costruzione della Grande Ferrovia Venezuelana, concessione ottenuta dalla
Krupp e finanziata dal Diskonto Gesellschaft. Avendo anche Inghilterra ed Italia avevano analoghi
crediti verso il governo venezuelano, il 9 dicembre 1902, dopo avere preventivamente avvertito
Washington, il “concerto europeo” delle tre Potenze decise di porre in essere un blocco congiunto
dei porti venezuelani. Gli Stati Uniti non furono contrari all’azione, ma Roosevelt ammonì le
Cancellerie europee di non utilizzare la crisi con Castro per impadronisrsi di nuovi territori. Il
bombardamento di un forte da parte della Kriegsmarine, portò Roosevelt a credere che la Germania
intendesse effettivamente occupare una porzione del territorio venezuelano, minare la stabilità degli
interessi statunitensi dell'area ed in un secondo tempo attaccare gli Stati Uniti con il beneplacito
della Gran Bretagna29. Roosevelt optò per una strategia di deterrenza, mobilitando la flotta
statunitense per delle manovre nei Carabi per rispondere alla sfida tedesca, senza però farla uscira
dalle acque portoricane. Era in pratica il principio della “politica del big stick”, ossia dello speak
softly and carry a big stick and you will go far30. Parlare dolcemente (Speak softly), significava
lanciare dei segnali di avvertimento, indiretti ed informali, senza essere troppo aggressivi (le
manovre navali)ed essere poi trascinati in un conflitto. Il big stick era stato invece rappresentato
dalla flotta.
La crisi venezuelana rientrò quando il Dipartimento di Stato consegnò a nome del Venezuela alle
Potenze europee la domanda di arbitrato, le cui fasi finali si svolsero a Washington e non in una
capitale europea, né a Caracas, e ciò a sottolineare il potere nordamericano. Roosevelt però si era
convinto che le intrusioni delle Potenze europee potevano verificarsi non solo attraverso una
comune aggressione, ma anche tramite l'instabilità o irresponsabilità (debiti pubblici) all'interno
degli Stati latinoamericani. Per questo motivo, il 6 dicembre 1904, Roosevelt, nel suo annuale
messaggio al Congresso, dichiarò che gli Stati Uniti avevano non solo il diritto di opporsi agli
interventi europei nell'emisfero occidentale, ma potevano anche intervenire negli affari interni degli
Stati latinoamericani quando questi si fossero dimostrati incapaci di proteggere gli investimenti
nella regione (Chronic wrongdoing, or an impotence which results in a general loosening of the ties
of civilized society, may in America, as elsewhere, ultimately require intervention by some civilized
nation, and in the Western Hemisphere the adherence of the United States to the Monroe Doctrine
may force the United States, however reluctantly, in flagrant cases of such wrongdoing or

28
Sebbene a Panama fossero elargiti 10 milioni di dollari e garantito il pagamento annuo di 250.000 dollari, tale trattato
è anche conosciuto come “il trattato che Panama mai firmò”, poichè Philippe Bunau Varilla non rappresentava il
governo panamense, essendo un uomo d’affari francese azionista della Compagnie Nouvelle du Canal de Panama.
29
La Marina tedesca aveva effettivamente studiato, tra il 1901 ed il 1903, un piano per attaccare gli Stati Uniti (Piano
Operativo III). Gli Stati Uniti predisposero il Black war plan, un piano difensivo del territorio nazionale basato
esclusivamente sulle forze della US Navy e che curiosamente fu declassificato solo alla fine degli anni Cinquanta.
30
La frase era stata tratta da un proverbio africano e fu usata per la prima volta pubblicamente da Roosevelt alla
Minnesota State Fair il 2 settembre 1901.

19
impotence, to the exercise of an international police power). Fu il così detto Corallario Roosevelt
alla dottrina Monroe, che trovò immediata applicazione durante la crisi avvenuta nella Repubblica
dominicana, dove il locale governo non era riuscito a colmare i 22 miliardi di dollari con gli
investitori europei e statunitensi. Quando Francia ed Italia minacciarono di intervenire, Roosevelt
prese il controllo delle dogane, distribuendo il 55% degli introiti a Santo Domingo ed il resto ai
creditori europei. Simili interventi si verificheranno sia in Nicaragua che ad Haiti e negli anni a
venire, sia Roosevelt che altri presidenti impiegheranno il Corollario per giustificare interventi o
occupazioni in altre nazioni latinoamericane Cuba (1906-09), Nicaragua (1909-11, 1912-25 e1926-
33), Haiti (1915-34), e Santo Domingo (1916-24). Da sottolineare che il diritto di intervento fu
anche "codificato" dagli Stati Uniti in occasione della Conferenza dell'Aia del 1907, facendo
pressioni affinchè vi fosse inserita la così detta "Clausola Porter", stabilente genericamente la
rinuncia dell'impiego della forza per il recupero dei debiti pubblici, ma permettendola nei casi in cui
il debitore si fosse rifiutato di sottomettersi ad un arbitrato o non seguisse i risultati del lodo. Tutto
ciò in aperto contrasto con la giurisprudenza latinoamericana, che sosteneva, proprio sin dalla
seconda crisi venezuelana che un debito contratto da un Paese non poteva essere l’occasione per
giusticare un intervento armato né l’occupazione da parte di un'altra potenza (Dottrina Drago)31.La
presenza ed il controllo nordamericano sull’emisfero occidentale, ed in particolare nei Carabi ed in
Centroamerica, fu poi reso ancora più effettivo mediante la dollar diplomacy, intrapresa dal 1909 al
1913 dal presidente Howard Taft e dal Segretario di Stato Philander Knox, un avvocato fondatore
della U.S. Steel Company. Secondo la visione di questa dottrina il fine della diplomazia doveva
essere quella di creare stabilità ed ordine nei Paesi sudamericani (ma anche in Cina) e porre le
condizioni per promuovere gli interessi commerciali statunitensi mediante l’utilizzo di capitali
privati. In altri termini, il governo statunitense avrebbe promosso l’industria, il commercio e gli
investimenti all’estero, proteggendo poi questi nuovi mercati con l’uso della diplomazia e, se
necessario, anche con l’uso della forza. La dollar diplomacy fu usata intensivamente assieme al
Corollario Roosevelt dal Dipartimento di Stato per intervenire nei Paesi centroamericani, ma anche
in Estremo Oriente ed in particolare in Manciuria, ignorando gli accordi stipulati da Roosevelt con
il Giappone nel 1908. In Manciuria, dove Taft intese partecipare alla costruzione della ferrovia di
Hukuang, la dollar diplomacy incontrò la ferma opposizione giapponese, che, firmando un trattato
di amicizia con la Russia, impedì ai gruppi finanziari statunitensi di penetrare nella regione. Ma, a
parte questo incidente di percorso, la diplomazia del dollaro ebbe un notevole sviluppo, così che gli
Stati Uniti, divennero esportatori di capitali, facilitando l’espansione commerciale e consolidando la
strada verso una politica di zone di influenza, spesso associate ad interessi strategici. Tuttavia, dopo
sedici anni di governo repubblicano, nel novembre del 1912, il partito democratico tornò al potere
con Woodrow Wilson ed il suo Segretario di Stato William Bryan, i quali annunciarono subito di
non proseguire la politica della dollar diplomacy. Nelle intenzioni della nuova presidenza
democratica, imbevuta di spirito jeffersoniano, era il momento di iniziare una nuova era nelle
relazioni internazionali, riportando in auge l’originaria concezione di espansione. Essa doveva
evitare di conquistare territori con la forza e comunque l’occupazione armata, se inevitabile, doveva
avere un limite temporale e cessare non appena le popolazioni di tali territori avessero raggiunto la
maturità necessaria per governarsi da sole. Parimenti, l’influenza finanziaria statunitense non
doveva avere come scopo ultimo quello di proteggere gli interessi particolaristici di pochi gruppi di
potere, ma quello di mirare al benessere delle zone dove questa era diretta, accrescendo
contemporaneamente l’economia del nordamerica. Questo idealismo fu enunciato subito da Wilson
in un discorso all’Università di Mobile del 27 ottobre 1913, nel quale il presidente sconfessò la
“diplomazia del dollaro” e condannando l’operato dei gruppi finanziari che tendevano a stabilire
posizioni di monopolio e controllo su altri Stati. Si volle rassicurare i vicini latinoamericani che gli
Stati Uniti avrebbero agito nei loro confronti su di un piano di uguaglianza, favorendo al contempo
le libertà costituzionali fondamentali e gli ideali universali della democrazia. Oltre al ripudio della

31
Dal giurista argentino Luis María Drago (1859-1921).

20
politica di Taft, fu anche la prima esposizione di quella che poi sarebbe stata definita la “diplomazia
missionaria”. Tuttavia, nonostante queste lodevoli e rassicuranti affermazioni, Wilson procedette a
salvaguardare gli interessi statunitensi in America latina con strumenti simili, se non uguali, a quelli
di Taft e della dollar diplomacy. Ad Haiti, Santo Domingo, Nicaragua, l’intervento wilsoniano fu
motivato dalla protezione degli investimenti e degli interessi strategici navali, nel nome del
Corollario Roosevelt e della dollar diplomacy, anche se non apertamente evocati. L’esempio
microscopicamente più emblematico fu l’intervento politico e militare nella politica messicana nel
1913. Il Messico occupava infatti in quel periodo il terzo posto nella produzione mondiale di
petrolio, materia prima salita alla ribalta dopo l’introduzione dei motori marittimi a nafta, e gli Stati
Uniti furono subito preoccupati quando l’Inghilterra riconobbe nel 1913 il governo rivoluzionario di
Victoriano Huerta, che aveva rovesciato con un colpo di stato il presidente Francisco Madeiro.
Temendo che il nuovo governo favorisse i petrolieri britannici, escludendo le società statunitensi,
Wilson non riconobbe Huerta, premendo affinché fossero indette libere elezioni. Il nuovo leader
messicano rifiutò così che Wilson, prendendo a pretesto un incidente che aveva coinvolto alcuni
marinai statunitensi nella città di Tampico, non esitò ad occupare il porto di Vera Cruz (21 aprile
1913), centro nevralgico del commercio estero messicano. A nulla valse l’intervento mediatore di
Argentina, Brasile e Cile (le così dette ABC powers) che tennero un congresso a Niagara Falls in
Canada per trovare una soluzione tra Messico e Stati Uniti. Huerta fu costretto a rassegnare le
dimissioni nel luglio del 1914, a causa dell’opposizione interna guidata dai constitucionalistas di
Venusiano Carranza, un nazionalista che, come Huerta, non fu pronto a seguire la politica imposta
da Washington. Per gli Stati Unititi si aprì nuovamente una nuova crisi, che la nuova politica di
Wilson dovette affrontare con i “vecchi” metodi di Roosevelt e Taft.

I riflessi della “Grande Guerra” sui fronti extraeuropei: diplomazia, neutralità e


belligeranza

Asia e Americhe
Indubbiamente, al momento dell'assassinio dell'Arciduca Ferdinando, da parte dello studente
Gavrilo Princip, il 28 giugno 1914, erano solo due le Potenze extraeuropee in grado di influire
sull'andamento di quella che di lì a poco sarebbe stata la Prima Guerra mondiale: il Giappone e gli
Stati Uniti.
In Estremo Oriente le Potenze dell'Intesa trovarono nel Giappone uno scomodo alleato, ben
conoscendo i suoi smoderati desideri di "spazio vitale". Tokio, per entrare in guerra contro la
Germania, unica nazione facente parte degli Imperi centrali con cui poteva venire immediatamente
in contatto32, invocò il trattato anglo-giapponese del 1902, rinnovato nel 1905. Tale trattato avrebbe
in realtà teoricamente permesso al Giappone di rimanere tranquillamente neutrale di fronte al
conflitto, ma l'occasione di acquistare nuovi territori in Asia e nel Pacifico ai danni della Germania
fu considerata dal Gabinetto del Primo Ministro giapponese Okuma Shingenobu, troppo favorevole
per essere persa. Il 15 agosto 1914 il Giappone inviò una nota al governo imperiale tedesco nella
quale, "con lo scopo di rimuovere le cause di disturbo alla pace in Estremo Oriente e salvaguardare
gli interessi contemplati dall'accordo anglo-giapponese", fu intimato a Berlino di ritirare tutte le
navi da guerra dalle acque cinesi e giapponesi e di evacuare senza compenso alcuno i possedimenti
tedeschi in territorio cinese entro il 15 settembre. La mancata risposta alla nota entro il 23 agosto
avrebbe causato lo stato di guerra tra le due nazioni. Fu evidente che il Giappone aveva intenzione

32
La Francia propose al Giappone di inviare contingenti sui fronti europei, ma Tokio rifiutò, adducendo come
giustificazione che non aveva interessi diretti in Europa.

21
di occupare non solo Kiao-Chao33 e Tsing-Tiao nello Shantung, ma anche nel Pacifico le isole
Samoa34, Marshall, Caroline, Salomone, Marianne, Nauru, Arcipelago delle Bismarck35, Kaiser-
Wilhelmsland e Palaos. Berlino non rispose all'ultimatum nipponico ed il Giappone dichiarò
formalmente guerra alla Germania il 23 agosto 191436. L'esercito giapponese sbarcò il 2 settembre
nello Shantung, impossessandosi il 27 settembre di Kiao-Chao ed il 7 novembre ebbe ragione dei
4.000 soldati tedeschi a protezione di Tsing-Tao. Contemporaneamente la flotta del Sol Levante
attaccò le isole tedesche nel Pacifico. L'entrata in guerra di Tokio, anche se tranquillizzò la Russia,
che non si dovette preoccupare dell'apertura di un secondo fronte in Asia, allarmò la Gran Bretagna,
timorosa che l'intraprendenza giapponese provocasse eccessivi squilibri nello scacchiere asiatico
con probabili proteste statunitensi. Le preoccupazioni britanniche dopo poco presero corpo quando
il 18 gennaio 1915 il Giappone impose alla Cina, guidata dal presidente Yuan Shi-Kai, di accettare
una nota diplomatica nella quale erano contenuti i così detti “21 richieste”, dove praticamente Tokio
intendeva fare della Repubblica cinese un suo protettorato esclusivo. Specificatamente il Giappone
chiese tra l’altro che; la provincia dello Shantung entrasse all’interno della sua sfera di influenza e
che la Manciuria meridionale e la Mongolia orientale divenissero province giapponesi; la valle
mineraria dello Yangtse fosse un monopolio nipponico; la Cina accettasse consiglieri civili e
militari giapponesi e che questi controllassero l’esercito, le finanze e l’amministrazione della
repubblica; il governo cinese avrebbe fatto cessare la penetrazione delle Potenze occidentali,
impegnandosi a non cedere o dare in affitto a terze potenze porti, baie o isole al largo delle sue
coste. Insomma, le “21 richieste” avrebbero messo in serio pericolo gli interessi commerciali ed
industriali britannici, togliendo praticamente senso anche al trattato anglo-giapponese, che garantiva
l’integrità cinese e pari opportunità per tutte le Potenze. La Cina capitolò alle richieste giapponesi
l’8 maggio, dopo che il Giappone minacciò di aprire le ostilità, sebbene l’intervento diplomatico
anglo-americano avesse fatto si che il Giappone rinunciasse a diverse richieste, tra cui quella dei
consiglieri. L’influenza giapponese sulla Cina fu comunque di breve durata in quanto, non solo la
Repubblica cinese non ratificò mai il trattato scaturito dall’ultimatum, poiché, anche se alla fine
della guerra il Trattato di Versailles concesse al Giappone i possedimenti tedeschi, la Conferenza di
Washington (1921-22) riportò lo Shantung sotto sovranità cinese. In ogni caso, durante la Prima
Guerra mondiale, sia l’Inghilterra che gli Stati Uniti, rimasero colpiti dalla violenta politica
giapponese verso il continente cinese. Probabilmente lo sarebbero stati ancora di più se avessero
conosciuto i termini dell’accordo segreto tra Russia e Giappone del 3 luglio 191637. Questo trattato
si componeva di due parti, una pubblica ed una segreta ed aveva lo scopo di dividere la Cina in una
doppia sfera di influenza russo-giapponese. La parte resa nota alla stampa dichiarava che se le
reciproche sfere di influenza in Asia fossero state messe in pericolo, Russia e Giappone si sarebbero
consultate per proteggere i propri interessi. Ma il vero e proprio trattato segreto, valido sino al 1921,
riconosceva esplicitamente gli interessi cinesi e russi in Cina e la necessità di proteggere questa
nazione dall’influenza dei terze Potenze. Ma non solo; se Russia e Giappone fossero state attaccate
da una terza Potenza si sarebbero prestate assistenza armata, rinunciando anche a stipulare una pace
separata. Non che il Giappone avesse necessità dell’aiuto russo, ma il trattato era visto dai
giapponesi in una prospettiva di lungo termine, in previsione di una spartizione della Cina alla fine
della guerra, quando gli equilibri mondiali sarebbero cambiati. Il Giappone inoltre, vista
l’opposizione inglese e statunitense alla politica di Tokio verso la Cina, desiderava avere un alleato
in più. Non è difficile infatti intravedere nella “terza Potenza” proprio l’Inghilterra o gli Stati Uniti.
Proprio con quest’ultima il Giappone cercò di addivenire ad un compromesso il 2 novembre 1917,

33
Nessuno credette che il Giappone intendesse riportare Kiao-Chao sotto la sovranità cinese, secondo quanto affermato
nell’ultimatum alla Germania.
34
Le Samoa Occidentali furono occupate nel 1914 dalla Nuova Zelanda.
35
L’Arcipelago, composta da diverse isole vulcaniche (Isole dell’Ammiragliato, Duca di York, Mussau, Nuova
Britannia, Nuova Irlanda, Vitu) fu occupato dalla Marina australiana nel 1914.
36
La Cina, spinta da Washington, dichiarò guerra alla Germania ed all’Austria-Ungheria il 14 agosto 1917.
37
Il trattato segreto fu reso pubblico nel 1917 dal governo bolscevico.

22
attraverso il così detto Lansing-Ishii agreement, un accordo intercorso tra il Segretario di Stato
Robert Lansing ed il visconte Kikujiro Ishii, inviato speciale a Washington per conto del governo
giapponese. In questo accordo gli Stati Uniti e Giappone si impegnarono a riaffermare la politica
della “porta aperta” in Cina, dove Washington accettò che i giapponesi avessero un interesse
speciale. Tuttavia nella traduzione giapponese, il termine speciale, che alludeva ad eventuali diritti
economici, venne capziosamente tradotto con “sovrano”, in modo che il Giappone vedesse garantiti
i suoi diritti politici sulla Cina38. La caduta del regime zarista preoccupò ulteriormente il
Dipartimento di Stato verso le intenzioni giapponesi riguardo all’Estremo Oriente, sospettando che
Tokio intendesse occupare Vladivostock ed estendere il proprio dominio sulla ferrovia della
Manciuria del nord. Il che effettivamente avvenne nell’aprile del 1918, quando truppe giapponesi
sbarcarono nel porto siberiano, affrettando la decisione degli Stati Uniti a partecipare alla
spedizione multinazionale, assieme a Francia, Inghilterra e Italia, contro il governo bolscevico e
controllare così anche l’espansionismo giapponese nell’area. In ogni caso le posizioni guadagnate
dal Giappone in Asia nel 1919 era di tutto rispetto e non sarebbe stato facile per le Potenze
Occidentali frenare l'espansionismo e le ulteriori pretese del Sol Levante.
Gli Stati Uniti, seguendo la loro secolare politica di isolamento e neutralità di fronte ai conflitti
europei, aveva deciso al momento dello scoppio della guerra di rimanere neutrali, ed in tal senso si
era espresso il presidente Wilson nel suo “appello alla neutralità” del 18 agosto 1914. Era difficile
se non impossibile fare una scelta immediata di campo. Tra l’Intesa figurava la Russia zarista, non
certo campione della democrazia, inoltre c’erano dieci milioni di statunitensi con radici tedesche o
irlandesi le cui simpatie andavano nettamente alla Germania. Il neutralismo wilsoniano però non
tese ad identificarsi con il puro isolazionismo, allontanandosi dai paesi in guerra, ma fu un
neutralismo “costruttivo”, nel senso che fu diretto a frapporsi ai contendenti, proponendosi come
mediatore. Tuttavia la guerra in Europa condizionò l’economia statunitense più di quello che era
stato previsto, soprattutto a causa delle misure prese della Marina britannica contro il contrabbando
di materie strategicamente utili. La Royal Navy aveva infatti posto in essere un blocco navale, che
provocò ritardi e danni alle flotte mercantili delle nazioni neutrali ed in particolare agli Stati Uniti.
A Washington si discusse a lungo se lottare per mantenere la libertà di commercio tra Paesi neutrali
ed Europa, o invece protestare vivacemente con gli Inglesi affinché fosse tolto il blocco,
avvantaggiando così gli Imperi centrali. Un altro aspetto sottovalutato fu la guerra sottomarina
tedesca, che, sin dal maggio 1915, iniziò a fare vittime tra i cittadini statunitensi che viaggiavano
sulle navi britanniche. I 128 statunitensi periti a bordo del piroscafo inglese Lusitania, il 7 maggio
1915, rivelarono all’amministrazione Wilson tutta la gravità di questo problema. Il Segretario di
Stato Bryan tuttavia era ancora convinto che fosse possibile per gli Stati Uniti rimanere fuori dal
conflitto ed avere una politica equidistante sia nei confronti dell’Inghilterra che della Germania. Per
ottenere ciò sarebbe stato necessario evitare qualsiasi attrito, soprattutto con la Germania,
rendendosi pertanto indispensabile impedire al naviglio statunitense di operare nella zona di guerra.
Wilson adottò invece una posizione piuttosto ferma verso la guerra sottomarina, chiedendo che la
Germania condannasse formalmente l’affondamento delle navi e come procedesse ad un indennizzo
delle vittime americane39. Una ulteriore nota del 9 giugno 1916 di Wilson alla Germania causò le
dimissioni di Bryan, convinto che in quel modo la rottura delle relazioni diplomatiche con i tedeschi
fosse inevitabile. La politica di Wilson però non era fondamentalmente mutata e, sebbene ricevesse
pesanti critiche da più parti, continuava ad essere diretta verso l’elevazione degli Stati Uniti a
Potenza mediatrice, che avrebbe imposto ai belligeranti di sottoporsi ad una conferenza di pace,
anche a costo di usare la forza e di entrare in guerra. In questo senso, la politica di Wilson si
avvicinava molto all’idealismo diplomatico di Bryan, che avrebbe voluto adottare per l’Europa una
politica simile a quella dei cooling-off treaties, impiegati in sudamerica, ovvero trattati della durata

38
Il Lansing-Ishii agreement fu annullato nell’aprile del 1923.
39
La Germania si rifiutò di fare ambedue le cose, anzi nel caso del Lusitania, non biasimò l’operato del comandante
dell’U-20, comandante Schwieger, che aveva operato il siluramento, poiché la nave inglese era armata ed operava in
zona marittima di guerra.

23
di un anno che impegnavano a non iniziare le ostilità, o cessarle, per questo periodo, cercando di
trovare nel frattempo una soluzione alla controversia. Francia ed Inghilterra però rimasero piuttosto
diffidenti rispetto alle proposte wilsoniane, non credendo che gli Stati Uniti avrebbero mai
abbandonato la neutralità. Gli Stati Uniti furono costretti a rinunciare ad organizzare una conferenza
di pace e seguitarono nella propria politica di neutralità, che comunque fu sempre più politica che
economica, dal momento che le banche statunitensi furono piuttosto prodighe nei confronti dei
prestiti chiesti dai Paesi dell’Intesa40. Nel novembre del 1916 Wilson facendo della neutralità la sua
carta vincente, ma mantenere questa condizione sarebbe stato sempre più difficile, poiché
l’Ammiragliato germanico aveva dal 1 gennaio 1917 decretato la guerra sottomarina ad oltranza,
ovvero permesso ai propri sottomarini di colpire il naviglio anche al di fuori delle coste francesi e
inglesi. Frutto di questa decisione fu non solo l’affondamento, il 25 febbraio 1917, della nave
inglese Laconia con la morte di tre cittadini statunitensi, ma anche l’attacco a diverse navi di
proprietà statunitense. L’opinione pubblica americana ormai aveva decisamente cambiato opinione
riguardo alla guerra e stava premendo per un intervento. A spingere ancora di più l’amministrazione
Wilson verso la dichiarazione di guerra contribuì la crisi diplomatica avvenuta tra Stati Uniti e
Germania per il “Telegramma Zimmerman”. Il 26 febbraio il governo statunitense fu informato da
Londra che i servizi segreti inglesi avevano intercettato e decifrato un messaggio diretto, cinque
settimane prima, dal ministro degli Affari Esteri tedesco, Arthur Zimmermann, all’ambasciatore a
Città del Messico, Heinrich Von Eckhardt, tramite l’ambasciatore a Washington, Bernstoff41. Il
messaggio ordinava a Von Eckhardt che, in caso di guerra con Stati Uniti, avrebbe dovuto
convincere il governo messicano a fare causa comune con la Germania ed ad intavolare trattative
con il Giappone a lasciare gli Alleati e formare una nuova alleanza. Il Messico in cambio avrebbe
avuto un generoso aiuto economico e l’appoggio diplomatico per recuperare il Texas, che aveva
ottenuto l’indipendenza nel 1836, ed il Nuovo Messico e l’Arizona, persi nella guerra del 1845-48.
La delusione e la preoccupazione di Wilson fu estrema, soprattutto perché riapriva con il Messico di
Venustiano Carranza ferite non ancora rimarginate completamente.

Le relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Messico durante la guerra

Nel luglio del 1914, quando il presidente Huerta si autoesiliò ed il Messico fu in preda della guerra civile tra
zapatistas, villistas e seguaci di Carranza, gli Stati Uniti sentirono ancora di più la necessità di controllare la
situazione messicana attraverso un locale governo stabile, che garantisse i settori finanziari, minerari e
industriali. Sino alla fine del 1914, Wilson aveva favorito Francisco “Pancho” Villa, vedendo in questo
rivoluzionario il leader giusto che avrebbe potuto favorire gli obiettivi di Washington in Messico. Questa
scelta fu dovuta essenzialmente al fatto che nel territorio controllato da Villa, le imprese statunitensi non
erano tassate, né confiscate, a differenza di quanto succedeva in quello di Carranza e dei constitucionalistas.
Dopo aver terminato le scorte di cotone e bovini, Villa, per mantenere il suo esercito, iniziò a tassare le
proprietà statunitensi. Le relazioni tra Villa e Wilson peggiorarono ulteriormente quando gli Stati Uniti nel

40
Il governo statunitense negli anni Trenta dette vita ad un’apposita commissione per
investigare le vere ragioni dell’entrata in guerra degli Stati Uniti e per verificare se i
fabbricanti di armi avessero influenzato la decisione di partecipare al conflitto. La
Senate Munition Committee, meglio conosciuta anche come Nye Committee, tra il
1934 ed il 1936 concluse che gli Stati Uniti avevano prestato dal 1915 al 1917
all’Inghilterra più di 2 miliardi di dollari, contro i 27 milioni prestati alla Germania,
arrivando alla conclusione che fu nell’interesse di Washington che gli inglesi non
perdessero la guerra.
41
Lo stesso presidente Wilson aveva messo a disposizione dell’ambasciata tedesca a Washington un cavo telegrafico
americano affinchè potesse trattare direttamente eventuali proposte di pace. Questa circostanza fece pensare ancora di
più ad un tradimento da parte tedesca della buona fede nordamericana.

24
novembre del 1914 riconsegnarono il porto di Veracruz ai constitucionalistas, impedendo così ai villistas di
rifornirsi di armi e denaro proveniente dalle dogane portuali. La sconfitta di Villa nella battaglia di Celaya
contro i constitucionalistas, appannò definitivamente l’astro del rivoluzionario a favore di Carranza, il cui
governo fu riconosciuto nell’ottobre del 1915. Per ritorsione contro l’abbandono statunitense, Villa attaccò il
9 marzo 1916 la città di Columbus, nel Nuovo Messico, provocando una furiosa reazione da parte di Wilson,
il quale organizzò una spedizione punitiva agli ordini del generale Pershing che oltrepassò i confini
messicani per dare la caccia a Villa. Questa azione militare, che durò sino al febbraio del 1917, mise in
pericolo la stabilità del governo Carranza e minacciò seriamente le relazioni tra i due Stati, anche perché si
verificarono numerosi incidenti tra l’esercito statunitense e quello regolare messicano, che per poco non
sfociarono in una guerra. Wilson dette però priorità alla guerra in Europa e la situazione sembrò
normalizzarsi, anche se le relazioni tra Messico e Stati Uniti peggiorarono di lì a poco a causa non solo a
causa della dichiarazione di neutralità messicana (27 aprile) di fronte alla guerra mondiale, ma soprattutto
per la Costituzione messicana, promulgata il 5 febbraio 1917. La Costituzione degli Stati Uniti Messicani,
approvata dopo il Congresso Costituente di Querétaro, che, oltre che federalista, poteva definirsi anticlericale
e nazionalista, conteneva elementi della Dottrina Calvo all’art. 27. Tale articolo poneva dei seri limiti
all’acquisto di proprietà terriere e delle risorse minerali da parte di stranieri, i quali dovevano rinunciare alla
protezione diplomatica del proprio Stato, e stabiliva il diritto di nazionalizzazione e di esproprio della
proprietà privata. La presidenza Carranza (1917-1920) dette luogo a quella che fu definita la “dottrina
Carranza”, di cui l’art. 27 fu parte integrante. Essa era un insieme di concetti tratti dalla dottrina Calvo e
della dottrina Drago uniti dal nazionalismo rivoluzionario messicano. Il programma politico di Carranza si
basava infatti sull’uguaglianza dei diritti tra nazionali e stranieri con la conseguente scomparsa dei privilegi e
monopoli di quest’ultimi sulle risorse economiche del Messico, sulla fine del diritto di intervento negli affari
interni da parte di altre nazioni, ed infine sullo stabilimento di una solidarietà tra i Paesi latinoamericani. La
dottrina Carranza, e quindi di riverbero la dottrina Calvo, fu la causa di un peggioramento delle relazioni
diplomatiche tra Stati Uniti e Messico. Infatti, se antecedentemente alla costituzione messicana del 1917 ed
alla dottrina Carranza, i concetti di Carlos Calvo avevano interessato teorici del diritto seduti ad un tavolo di
un congresso di diplomatici od accademici, ora per la prima volta la dottrina Calvo era messa in pratica
attraverso la Costituzione messicana ed i grandi interessi economici statunitensi furono venivano messi in
pericolo. Nel 1917 infatti il 90% delle risorse petrolifere messicane appartenevano ad imprese straniere ed il
Messico era il terzo produttore mondiale di petrolio dopo Stati Uniti e Russia.

Il Messico ed il Giappone negarono di avere intrapreso qualsiasi trattativa con la Germania, ma il


ministro Zimmermann non smentì il telegramma e ciò infiammò ancora di più l’opinione pubblica,
facendo decidere ulteriormente Wilson a rompere ogni indugio, tanto più che la Russia zarista era
stata travolta dalla rivoluzione, facendo cadere anche l’ultima barriera “morale”. Il 2 aprile chiese al
Congresso di dichiarare guerra alla Germania, cosa che fu fatta il 6 aprile 191742. Al di là degli
eventi bellici, va messo in evidenza che l’entrata in guerra degli Stati Uniti ridusse lo spazio di
manovra diplomatica degli Alleati. Gli Stati Uniti vollero infatti distinguersi dalla compagine
dell’Intesa, dichiarandosi on alleati, ma “associati”, proprio per chiarire che il popolo statunitense
era entrato in guerra seguendo una sua scelta e l’obiettivo finale che essi si proponevano era
diverso. Non la distruzione totale degli Imperi Centrali, non il bisogno di acquisizione di nuovi
territori, ma la nascita della democrazia in Germania e di una nuova concezione delle relazioni
internazionali.
L’entrata in guerra degli Stati Uniti costituì però anche la cartina di tornasole del fallimento della
politica wilsoniana verso le repubbliche latinoamericane, del panamericanismo e del progetto di una
difesa inter-americana, che avrebbe dovuto trarre ispirazione dalla Dottrina Monroe e dai primi
discorsi rivolti all’America latina dal presidente Wilson. La politica statunitense
dell’amministrazione Wilson verso gli Stati latinoamericani, alla fine si era rivelata più aggressiva
di quella di Rooosevelt e Taft ed i governo dell’America latina avevano ormai la netta impressione
che la Dottrina Monroe, ed i suoi sviluppi, fossero principalmente rivolti contro di loro. Questa
percezione si riverberò nella partecipazione degli Stati sudamericani alla Prima Guerra mondiale.
Ad un primo superficiale esame potrebbe apparire che l’America latina si fosse stretta attorno agli

42
La guerra all’Austria-Ungheria fu dichiarata il 7 dicembre 1917.

25
Stati Uniti nel dichiarare guerra agli Imperi Centrali dal momento che otto Stati latinoamericani
(Brasile, Costa Rica, Cuba, Guatemala, Haiti, Honduras, Nicaragua, Panama)43 dichiararono guerra
e cinque (Bolivia, Ecuador, Peru, Santo Domingo, Uruguay)44 ruppero le relazioni diplomatiche con
la Germania. Tuttavia, deve essere sottolineato che, se si esclude il Brasile, da questo elenco
mancano i paesi più importanti, ovvero Messico, Cile, Colombia, Venezuela ed Argentina, i quali
dichiararono di fronte al conflitto la loro neutralità. Le ragioni per cui questi paesi si attennero ad
una più o meno rigorosa neutralità si basarono essenzialmente su di un misto di simpatie filo-
germaniche, timori di perdere fette di mercato e finanziamenti tedeschi e sentimenti anti-
statunitensi, derivanti dalla politica di egemonia continentale svolta da Washington. Ad esempio il
Messico di Venusiano Carranza preferì tenersi lontano dalla guerra in Europa, soprattutto proprio a
causa dei cattivi rapporti con Washington, in Colombia erano ancora vive le polemiche a causa
della secessione di Panama, mentre il Venezuela di Vicente Gómez aveva non poche simpatie per la
Germania, al punto che il Dipartimento di Stato temette la cessione dell’isola Margarita alla Marina
tedesca. L’Argentina, nonostante l’affondamento di alcune navi ad opera dei sottomarini tedeschi e
la fucilazione in Belgio di un proprio console, assunse una posizione neutrale sia durante la
presidenza del conservatore Victorino de la Plaza, che del radicale Hipólito Hirigoyen a causa di
complesse motivazioni, comuni per altro a molti Stati latinoamericani, tra cui: l’enorme dipendenza
dal commercio estero, che la obbligarono a non scartare nessun partner commerciale, soprattutto la
Germania, per non divenire dipendenti dalla Gran Bretagna o dagli Stati Uniti; una maggiore
simpatia verso la Germania, rispetto agli Stati Uniti, fautori, sin dalla Conferenza di Washington del
1889-90, di un esasperato protezionismo verso i prodotti agropecuari argentini; la simpatia dei
militari argentini verso l’esercito tedesco, dove si erano formati la maggior parte degli ufficiali del
ejército de tierra. Sul fronte di coloro che si dichiararono belligeranti o ruppero le relazioni
diplomatiche invece, se si eccettua il Brasile, tutti aderirono per le pressioni di Washington o per
motivazioni totalmente avulse dalla solidarietà inter-americana. Alcuni Stati, ad esempi, Cuba e
Santo Domingo, come molte repubbliche centroamericane tra cui Panama, non erano altro che
semi-protettorati statunitensi, ed è evidente che l’allineamento a Washington fu indotto dal
Dipartimento di Stato. Altri invece si posero al fianco degli Alleati semplicemente per ricevere dei
favori da Washington: il presidente costaricano Federico Tinoco, che era salito al potere con un
colpo di stato e non era stato riconosciuto da Wilson, dichiarò guerra alla Germania nella speranza
di poter godere del riconoscimento statunitense; il Guatemala di Estrada Cabrera si associò agli
Stati Uniti per ottenere il controllo del 50% delle piantagioni di caffé, possedute da imprenditori
tedeschi; Perù e Bolivia ruppero le relazioni con la Germania, non solo per avere subito perdite a
causa della guerra sottomarina45, ma soprattutto credendo che dopo la guerra Washington avrebbe
appoggiato le loro richieste riguardo ai territori perduti nella guerra del Pacifico con il Cile nel
1879.

Medio Oriente
L’alleanza tra Turchia e Germania durante la Prima Guerra mondiale fu un patto di mera
convenienza per i tedeschi, giacché Berlino era da lungo tempo convinta che, prima o poi, l’Impero
ottomano si sarebbe disintegrato e con esso i territori in suo possesso nel Vicino e Medio Oriente.
Berlino avrebbe desiderato partecipare alla spartizione di questi territori, ma non avrebbe potuto
farlo senza l’assenso britannico, ovviamente impossibile da ottenere. Immediatamente prima della
guerra la Germania aveva partecipato però allo sfruttamento commerciale delle province ottomane,
nelle quali lo sviluppo economico era stato opera essenzialmente di società, tecnici e capitali

43
Brasile 26 ottobre 1917, Costa Rica 23 maggio 1918, Cuba 7 aprile 1917, Guatemala 23 aprile 1918, Haiti 12 luglio
1918, Honduras 19 luglio 1918, Nicaragua 8 maggio 1918, Panama 7 aprile 1917.
44
Bolivia 13 aprile 1917, Ecuador 8 dicembre 1917, Peru 6 ottobre 1917, Uruguay 7 ottobre 1917.
45
Nel 1916 fu silurata una nave neutrale olandese che trasportava l’ambasciatore boliviano e la sua famiglia in
Germania, mentre nel febbraio del 1917 fu affondata in acque nutrali spagnole la nave peruviana Lorton, per la quale i
tedeschi rifiutarono qualsiasi indennizzo.

26
stranieri. Una penetrazione commerciale che divenne influenza, poiché la Sublime Porta fu
obbligata a contrarre prestiti per finanziare la guerra italo-turca e le guerre balcaniche. La presenza
tedesca nell’Impero ottomano però era superiore a quella delle altre nazioni europee, soprattutto
perché la penetrazione commerciale di Berlino, che ebbe il suo apogeo con il progetto dello ferrovia
Berlino-Baghdad, aveva il suo scopo principale nel fare concorrenza, insidiare e prevenire, le mire
dell’impero britannico. Una politica che aveva avuto tale successo al punto da costringere Francia
ed Inghilterra a venire a patti ed a collaborare con la Germania in quella che venne chiamata la
“spartizione ferroviaria”, la quale avrebbe dovuto precludere ad una eventuale spartizione della
Turchia asiatica46. Per la Germania era divenuto comunque importante proteggere l’integrità
dell’Impero ottomano sia dalle mire russe, che da quelle britanniche. Tale protezione si concretizzò
con l’alleanza segreta del 2 agosto 1914, che aveva i suoi precedenti nelle forniture di armi,
nell’addestramento degli ufficiali turchi in Germania, e nella nomina ad ispettore generale
dell’esercito turco nel 1913 di un generale tedesco, Leman von Sanders. La Turchia subì l’alleanza
tedesca, sia perchè convinta della potenza tedesca e della sua futura vittoria, sia perché ritenne che
se non fosse stata alleata della Germania, questa, una volta sconfitto l’Intesa avrebbe proceduto alla
divisione dell’Impero ottomano. Ecco che, paradossalmente, la Germania, Stato nazionalista per
antonomasia, divenne protettore di due grandi imperi non nazionali: l’Austria-Ungheria e l’Impero-
ottomano, la cui popolazione, escluso che nell’Anatolia, si componeva di curdi, armeni e soprattutto
arabi. Soprattutto nella parte dell'Impero ottomano abitata dall'elemento arabo si giocò la partita tra
i due blocchi contrapposti. La Germania riteneva che fosse di primaria importanza eliminare la
presenza inglese in Egitto e prendere il controllo di Suez con un piano che prevedeva l'insurrezione
ed il risvegli del nazionalismo arabo e lo stabilimento di contatti con lo Sceriffo della Mecca,
Hussein ibn Ali II el-Hashimi, che non dette però i frutti sperati in quanto dovette scontrarsi con il
dissenso dell'alleato turco, che, a causa della sua endemica fragilità istituzionale, non accettò di
collaborare ad una azione sovversiva tra i suoi sudditi arabi ed egiziani (l'Egitto era considerato
ancora parte dell'Impero e solo temporaneamente occupato dagli inglesi) che avrebbe potuto
ritorcersi anche contro la stessa integrità della Sublime Porta. La Turchia avrebbe preferito una
alleanza islamica, che avrebbe coinvolto anche i governi di Persia ed Afghanistan, inoltre, più che
dell'Inghilterra era preoccupata dalla minaccia russa nei confronti degli Stretti. L'Inghilterra agì
d'anticipo in modo da prevenire qualsiasi mossa turco-tedesca, agendo prima che la Turchia
dichiarasse guerra all'Intesa (5 novembre 1915). In primo luogo occupò il canale di Suez, dove
instaurò misure d'emergenza, violando per altro la Convenzione del 1888, il 2 novembre 1914
proclamò la legge marziale in Egitto e, il 18 dicembre, annunciò la secessione dell'Egitto dalla
Turchia e la sua trasformazione in protettorato britannico, deponendo il kedivè egiziano Abbas II
Hilmi. In secondo luogo, i servizi segreti e la diplomazia britannica operarono per attrarre dalla
parte dell'Intesa lo Sceriffo della Mecca e sobillare un'insurrezione anti-turca, sfruttando i sogni di
Hussein II di divenire il capo di uno Stato indipendente dell'Hejiaz e di estendre la sua autorità
anche alle altre regioni della penisola arabica. L'alleanza con Hussein II avrebbe immobilizzato
parte dell'esercito turco e la collaborazione dell'autorità detentrice dei luoghi santi dell'Islam
avrebbe evitato il diffondersi di una guerra santa. Contemporaneamente, l'emiro Feisal, figlio di
Hussein II, intrattenne rapporti con il nazionalismo siriano, fautori di un'alleanza con la Gran
Bretagna contro la Turchia che avrebbe portato alla creazione di un grande Stato arabo i cui limiti
territoriali furono trasposti nel così detto "Protocollo di Damasco" del maggio 191547. L'alleanza tra

46
Un accordo franco-tedesco (15 febbraio 1914) aveva permesso alla Francia di l’ammissione dei titoli del “prestito di
Baghdad” alla Borsa di Parigi a condizione che gruppi finanziari francesi avessero il diritto di costruire una linea
ferroviaria in Siria e, assieme ai russi, le ferrovie del Mar Nero. Un accordo anglo-tedesco del 15 giugno 1914 stabilì, in
cambio di facilitazioni finanziarie, che la ferrovia di Baghdad non sarebbe arrivata al Golfo Persico, ma sino a Bassora e
che lo sfruttamento del petrolio in Mesopotamia fosse affidata ad una società anglo-tedesca-olandese, con un terzo della
produzione riservata alla Marina inglese, un terzo a quella tedesca ed il restante alla vendita. Anche l’Italia nel marzo
del 1914 ebbe il permesso di costruire una ferrovia che da Adalia penetrava all’interno dell’Anatolia.
47
Nel "Protocollo di Damasco" la Gran Bretagna avrebbe dovuto riconoscere l'indipendenza di un grande Stato arabo
comprendente Siria, Palestina, Giordania e l'intera penisola arabica, ad eccezione di Aden. La Gran Bretagna inoltre si

27
Feisal e i nazionalisti siriani rafforzò i legami della dinastia Hashemita con il mondo arabo e con lo
stesso governo inglese. La cooperazione di Hussein II contro la Turchia fu discussa in una serie di
dieci lettere dirette dallo Sceriffo all’Alto Commissario al Cairo, Henry MacMahon, a partire dal 14
luglio 1915. In quello che poi sarebbe stato chiamato il "carteggio MacMahon-Hussein", lo
Sceriffo, basandosi sul Protocollo di Damasco, pretese che l'appoggio arabo fosse subordinato alla
creazione di un grande Stato arabo ed all'indipendenza dei popoli arabi da Adana (sud della
Turchia) sino al Golfo Persico, all'Oceano Indiano, al Mediterraneo ed al Mar Rosso. MacMahon
accolse con freddezza le richieste haschemite, soprattutto perchè i confini delineati da Hussein II
avrebbero messo in pericolo i disegni inglesi sulla Mesopotamia, come anche quelli francesi sui
wilayet di Aleppo e Beirut. Iniziò così il carteggio contraddistinto da offerte e controfferte, volte a
delimitare le zone di influenza e le frontiere del dopoguerra, ma anche di ambiguità, che avrebbero
minato successivamente i ripporti tra arabi ed Occidente. L'ambiguità più evidente fu che nello
scambio di lettere no fu mai acclusa una carta e non fu mai chiaramente espresso se la Palestina
fosse o meno compresa nel grande Stato arabo immaginato da Hussein. Macmahon infatti, in una
lettera del 24 ottobre, fece riferimento ai distretti di Mersina, Adana, Alexandretta, Aleppo, Hama
and Homs, affermando che questi non potevano dirsi puramente arabi e pertanto dovessero essere
esclusi dai limiti del futuro Stato arabo. Non fece alcun accenno al sangiaccato di Gerusalemme,
che era la divisione amministrativa che comprendeva la maggior parte della Palestina. Il 13
dicembre Hussein II accettò l’esclusione di Mersina ed Alessandretta, ma non di Aleppo,
ammettendo, il 1 gennaio 1916, una occupazione provvisoria di Beirut da parte dei francesi.
L’atteggiamento britannico era stato volutamente ambiguo, sia perchè l’importante era ottenere
l’appoggio arabo, ma anche e soprattutto per avere le mani libere con le altre Potenze in vista di una
spartizione dell’Impero ottomano, nella quale sarebbero state prese in considerazione le aspirazioni
francesi e russe. Quando infatti MacMahon e Hussein II avevano appena concluso la loro
corrispondenza, il diplomatico francese George Picot e l’orientalista inglese al Foreign Office Mark
Sykes furono designati da Parigi e Londra per condurre delle trattative dalle quali poi sarebbero
scaturiti gli Accordi Sykes-Picot, espressi nella forma di uno scambio di note tra Francia e Russia (9
maggio 1916) e tra Francia e Gran Bretagna (15 maggio 1916). L’accordo contemplava il passaggio
alla Francia della Siria occidentale, del Libano e della Cilicia, oltre ad una parte dell’Anatolia
sudorientale (la così detta zona blu), mentre all’Inghilterra sarebbe spettata la zona dell’Iraq centrale
e meridionale, oltre ai porti palestinesi di Akka e Haifa (zona rossa). Ciò che restava della regione,
cioè essenzialmente la Palestina, fu riservato ad uno speciale regime internazionale (zona marrone)
da definirsi con l’accordo della Russia. L’intrusione della Russia, tradizionale protrettrice degli
ortodossi, permise così di negare alla Francia il controllo esclusivo della zona marrone, nlla quale
erano compresi i luoghi santi. La regione compresa tra queste tre zone sarebbe appartenuta ad uno
Stato arabo o ad una confederazione di Stati arabi, da crearsi dopo la guerra. Non si sarebbe trattato
però di una entità completamente indipendente, poiché sarebbe stata ulteriormente suddivisa in due
sfere di influenza. La Siria orientale ed il distretto di Mosul rientrarono nella sfera di influenza
francese (zona A), la Transgiordania e la parte settentrionale del wilayet di Baghdad in quella
inglese (zona B). In queste due zone Francia ed Inghilterra avrebbero goduto di benefici e priorità
nei commerci, nonché nella formazione di una amministrazione locale.

Gli accordi Sykes-Picot, che tra l’altro avevano la curiosa caratteristica di essere un misto di
imperialismo e presa di coscienza dei nazionalismi locali, furono in stridente contrasto con lo
scambio di lettere tra MacMahon ed Hussein II e furono solamente un fragile compromesso tra le
ambizioni francesi ed inglesi. Un compromesso destinato a crollare non appena la situazione

sarebbe impegnata ad abolire il regime delle capitolazioni, ottenendo in cambio per quindici anni tutta una serie di
vantaggi economici.

28
politica e bellica fosse mutata. L’Inghilterra infatti alla fine del 1916 godette di una particolare
situazione di vantaggio rispetto alla Francia, avendo occupato tutta la Mesopotamia e soprattutto,
agli inizi del 1917, la Palestina. Per sfuggire agli impegni presi con Hussein e con la Francia e
Russia, l’Inghilterra fece ricorso al sionismo, dichiarandosi favorevole alla creazione di una
homeland ebraica in Palestina. L’appoggio offerto al sionismo, oltre che seguire la scia degli ideali
wilsoniani, fu tra l’altro politicamente e strategicamente vantaggioso per altri e ben più pratici
motivi. Era infatti ben noto che le comunità ebraiche erano non solo generalmente filotedesche, ma
spesso anche favorevoli al processo rivoluzionario che stava svolgendosi in Russia, attrarle quindi
dalla parte dell’Inghilterra sarebbe stato quindi molto utile. I sionisti inoltre guardavano con favore
ad una influenza inglese sulla Palestina, ma non altrettanto a quella della Francia, naturale alleata
degli arabi, oltre a temere lo spirito assimilazionista francese, che avrebbe ridotto le specificità degli
ebrei. Creare un focolare ebraico nella regione, avrebbe permesso ulteriormente di consolidarvi la
presenza britannica nelle vesti di arbitro tra comunità araba ed ebraica, che poi però sarebbe servita
a controllare meglio il canale di Suez. E’ in questo contesto che fu emessa la Dichiarazione Balfour,
che in realtà altro non fu che una lettera diretta dal segretario del Foreign Office Arthur Balfour48 al
rappresentante dell’organizzazione sionista Walther Rothschild in data 2 novembre 1917. In questa
lettera Balfour annunciò che governo di Sua Maestà considerava con favore lo stabilimento di un
focolare in Palestina per il popolo ebraico, fermo restando i diritti civili e religiosi delle altre
comunità non ebraiche sul territorio. La Dichiarazione Balfour fu in contrasto sia con quanto
promesso a Hussein II, nel frattempo proclamatosi re dell’Hejiaz (novembre 1916), sia con gli
accordi Sykes-Picot. Nel gennaio del 1918 l’Inghilterra rinnovò ulteriormente la sua politica
ambigua verso gli arabi, inviando un messaggio “pacificatore” al re dell’Hejaz, tramite il capo
dell’Ufficio arabo del Cairo, David Herbert Hogarth. In quello che sarà conosciuto come
“messaggio Hogarth”, il Foreign Office ribadirà il diritto degli arabi ad avere una propria nazione,
come anche l’aspirazione degli ebrei a ritornare in Palestina, senza che nessun popolo debba essere
sottomesso ad un altro.
Il 30 ottobre 1918 i rappresentanti della Sublime Porta, a bordo della nave da guerra Agamennon, a
Mudros (isola di Lemno nel mar Egeo), firmarono l’armistizio con l’Intesa. All’art. 16 venne
contemplato l’abolizione totale del governo turco in Libano, Siria, Iraq, Hejaz, Asir e Yemen,
ponendo fine a quattrocento anni di dominazione turca sui paesi arabi, i quali si trovarono però a
dover affrontare le decisioni delle Conferenze di pace.
Le rivalità coloniali fra gli Stati europei per l’Africa meridionale e settentrionale avevano avuto
grande parte nello scontro tra gli imperialismi a partire dalla “sramble for Africa”. Dopo un relativo
periodo di quiete erano ripresi nel 1911, quando la Germania, dopo la “seconda crisi marocchina”,
aveva pensato ad una ridistribuzione dei territori coloniali in Africa centrale a spese delle nazioni
più deboli, come il Portogallo ed il Belgio. Il tutto all’insegna di quello che era stato definito il
Mittelafrikaprojeckt, che ebbe nel 1913 l’assenso del governo inglese, felice di dirottare nell’Africa
centrale i disegni espansionistici tedeschi49. Ma la guerra bloccò questi progetti ed il continente
africano divenne uno scenario relativamente secondario e periferico rispetto ai grandi eventi bellici
che videro gli Imperi centrali contrapporsi alle Potenze dell’Intesa in Europa centrale, orientale ed
anche in Medio Oriente. Forse è per questo motivo che le Cancellerie durante la guerra non si
preoccuparono eccessivamente degli sconvolgimenti geopolitica che sarebbero potuti avvenire in

48
Lord Balfour era stato da sempre partitario della causa sionista, tanto che nel 1905 aveva proposto di creara una
homeland ebraica in Uganda.
49
Il 20 ottobre 1913 Inghilterra e Germania avevano stipulato un accordo segreto, che delineava due zone d’influenza:
una inglese nella parte meridionale del Mozambico e nella parte meridionale dell’Angola, ed una tedesca nella parte
settentrionale del Mozambico, quasi tutta la parte costiera dell’Angola e, a nord della foce del Congo, nel Cabinda. La
Francia fu preoccupata da questo accordo sia poiché avrebbe comportato l’accerchiamento dell’Africa Equatoriale
Francese, sia perché contrario allo spirito dell’Entente Cordiale.

29
Africa. La vera partita si stava giocando in Europa e da questo fronte sarebbero scaturiti tutti i futuri
assetti, tutto il resto non contava o poteva essere usato per mercanteggiare posizioni europee50.
Eppure nelle colonie africane si svolse una guerra “silenziosa”, che avrebbe influenzato non poco i
destini coloniali di numerose Potenze.
Le colonie tedesche in Africa, Togo, Camerun, Ruanda, Urundi, Africa Orientale e Africa Sud-
occidentale, si trovarono in pratica alla mercé degli eserciti coloniali anglo-francesi, sia perché non
disponevano di forze armate sufficienti, sia perché troppo lontane dalla madrepatria per essere
rifornite. Il Togo si arrese il 26 agosto 1914 investito dalle forze coloniali britanniche della West
African Frontier Force e fu suddiviso tra Francia ed Inghilterra con un accordo stipulato il 30
agosto 1914. Il Camerun capitolò il 10 marzo 1916, dopo che la maggior parte dell’esercito tedesco
si era rifugiato in territorio neutrale (colonia spagnola di Río Muni), ed anche in questo caso inglesi
e francesi decisero di spartirsi il territorio tedesco in due regioni adiacenti le loro colonie (accordi
del novembre 1916).
L’Africa Sud-occidentale accettò la resa senza condizioni il 9 luglio 1915, dopo però aver sconfitto
l’esercito sudafricano nella battaglia di Sandfontein51; solamente le truppe guidate dal generale Paul
Von Lettow-Vorbeck resistettero più a lungo, anche perché meglio organizzate (14 compagnie di
260 tedeschi e 2.472 indigeni) infliggendo dure perdite all’esercito britannico, composto per la
maggior parte da indiani e kenioti. Von Lettow-Vorbeck si arrese il 25 novembre 1918, quando un
parlamentare gli mostrò alcuni giornali che annunciavano la capitolazione tedesca avvenuta 14
giorni prima. Gli Alleati furono in grado di sfruttare le non esigue risorse naturali dell’impero
coloniale tedesche (olio di palma, cocco, gomma), che furono impiegate per lo sforzo bellico
alleato. Ma soprattutto le colonie germaniche si trovarono al centro di ampie discussioni vertenti
sulla loro sistemazione giuridica post-bellica. Il fatto che i possedimenti africani della Germania,
tranne l’Africa Orientale, fossero caduti in mano dell’Intesa molto prima della fine della guerra,
stimolò maggiormente le speculazioni all’interno dei governi alleati. In Inghilterra ci furono coloro
che manifestarono l’intenzione di annettere queste colonie all’impero britannico, adducendo
motivazioni umanitarie, ritenendo che il dominio coloniale tedesco fosse stato assolutamente
negativo, di sicurezza nazionale o semplicemente per i sacrifici compiuti per conquistarle. Altri
invece ritennero che l’impero britannico fosse già abbastanza grande, ma in ogni casi il sentimento
unanime era quello che tali territori non ritornassero sotto la sovranità tedesca. Una volontà che del
resto si era già messa in evidenza in occasione degli accordi anglo-francesi del 1914 e 1916. Nel
1917 Lord Balfour propose che i territori tedeschi in Africa fossero internazionalizzati, proposta che
venne fatta propria dal Congresso Nazionale del partito Laburista e dal Partito Socialista Francese
nel febbraio del 1918. Si erano così gettate le basi per l’idea dei mandati, ideati concretamente dal
generale Jan Smuts nel dicembre del 1918, alla vigilia della Conferenza di Pace.
Dalla Prima Guerra mondiale furono sin dall’estate del 1914 fortemente interessati i possedimenti
italiani in Africa, sebbene l’Italia fosse entrata nel conflitto nel maggio del 1915 e non avesse punti
di contatto diretto con l’impero coloniale germanico. Si trattava di una colonizzazione non ancora
perfettamente consolidata, con serie lacune organizzative e con problemi di isolamento, essendo i
teritori italiani mal collegati alla madrepatria Anche la Tripolitania e Cirenaica infatti, al momento
dell’entrata in guerra, non godettero dei regolari collegamenti marittimi a causa dei sommergibili
tedeschi operanti nel Mediterraneo con bandiera austro-ungarica. La sottovalutazione del problema
coloniale da parte dell’Italia si riverberò nelle trattative tra il governo italiano e l’Intesa per entrare
in guerra, nelle quali la componente coloniale ebbe una esigua parte. D’altra parte
l’anticolonialismo italiano, che era cresciuto nel periodo tra il 1913 ed il 1914, lasciò il passo
all’irredentismo, rivendicante le terre italiane ancora sotto dominazione dell’Austria-Ungheria e ciò

50
A dimostrazione di ciò merita ricordare che nel dicembre del 1914 la Germania propose all’Intesa di abbandonare
l’occupazione del Belgio e di pagare un’indennità comperando il Congo belga tre-quattro volte il suo valore.
51
Il Sud Africa dovette affrontare anche una rivolta dei contadini boeri, la così detta Maritz rebellion, che nel Transvaal
e nell’Orange si schierarono apertamente con la Germania, rivendicando l’indipendenza. La ribellione fu soffocata nel
febbraio 1915.

30
spinse l’Italia a trascurare, forse obtorto collo, eventuali rivendicazioni territoriali extraeropee. Ciò
nonostante il Ministero degli Esteri, dispose sin dal 27 novembre 1914, di otto memorie speciali ed
una lettera introduttiva, redatte dal Direttore degli Affari Politici al Ministero delle Colinie,
Giacomo Agnesa, nelle quali si delineò un programma di rivendicazioni coloniali da impiegarsi
come linee guida per futuri negoziati52. Tra gli obiettivi si trovavano Gibuti, il Lago Tana
nell’Etiopia settentrionale, l’influenza politica e commerciale sull’Etiopia, Chisimaio in Somalia, lo
status quo nella penisola arabica, l’oasi di Giarabub alla frontiera tra Egitto e Libia, la
partecipazione ad una eventuale spartizione delle colonie portoghesi. Un programma senza dubbio
ambizioso che avrebbe indisposto sia la Francia che l’Inghilterra, poiché andava a toccare ingenti
interessi anglo-francesi, ad esempio Gibuti e l’accordo tripartito del 1906 riguardante l’Etiopia. In
ogni caso le rivendicazioni coloniali italiane furono sostenute con scarsissimo entusiasmo al
momento delle trattative con gli Alleati da Sidney Sonnino, il quale già dal 16 febbraio 1915, in un
memorandum all’ambasciatore Imperiali a Londra, aveva preannunciato che l’Italia avrebbe
abbandonato la sua neutralità essenzialmente “per alcune antiche aspirazioni nazionali” e le
garanzie della “situazione militare nell’Adriatico”. Sonnino nelle sue trattative per la redazione del
trattato segreto di Londra (26 aprile 1915)53, che stabilì l’entrata in guerra a fianco dell’Intesa entro
un mese, non consultò né il Ministro delle Colonie, né i suggerimenti dell’ambasciatore a Parigi,
Tittoni54. Nel trattato infatti le clausole coloniali rappresentarono una parte molto modesta e vaga:
l’art. 9 stabilì che, in caso di spartizione dell’Impero ottomano, l’Italia avrebbe ottenuto una
“congrua parte”, individuata nella provincia di Adalia (oggi Antalia); per l’art. 10 l’Italia si sarebbe
sostituita in Libia al Sultano nei diritti e privilegi concessigli nel trattato di Ouchy; all’art. 13 si
affermò che, qualora Inghilterra e Francia avessero accresciuto i propri domini coloniali in Africa ai
danni della Germania, il governo inglese e francese avrebbero riconosciuto il diritto dell’Italia ad
ottenere “equi compensi” nel regolamento in suo favore delle frontiere libiche, somale ed eritree. In
altri termini, si era molto lontani dal memorandum del novembre 1914 e pertanto il suo bilancio
diplomatico fu certamente deludente. Il Ministero delle Colonie però non cessò di spronare Sonnino
ad intavolare ulteriori trattative con l'Intesa prima che la guerra finisse e per questo motivo stilò, nel
novembre del 1916, un programma massimo ed uno minimo di richieste. Il primo reclamava la
parte settentrionale del bacino del Ciad, il controllo delle oasi di Kufrah e Giarabub, tutti i territori
somali e l'influenza esclusiva dell'Italia sull'Etiopia, nonchè il ristabilimento certo dei confini libici,
ridotti dai trattati anglo-francesi del1890, 1898 e 1899. Un programma che in sintesi, avrebbe
incrementato i possessi coloniali italiani di ben 2.470.000 km/q, mentre quello minimo si
"accontentava" di soli 722.000 km/q, escludendo dai territori sudanesi della regione Tana. Da
sottolineare che in ambedue i programmi non si faceva menzione delle colonie tedesche, nè
dell'Impero ottomano. E' certo che Sonnino ricevette questi programmi con imbarazzo, poichè alla
fine del 1916 si era ben delineato che già i fumosi impegni presi dagli Alleati nel trattato di Londra
erano in netto contrasto con la politica seguita dagli anglo-francesi in Medio Oriente (accordi
Sykes-Picot) ed in Africa (accordi per il Togo ed il Camerun). Tutti in Europa parlavano di
problematiche coloniali senza consultare l'Italia, il cui fronte, tra l'altro, era ritenuto dall'Intesa come
secondario e non suscettibile di essere impiegato come moneta di scambio. La Conferenza
interalleata di Saint-Jean-de-Maurienne (19-21 aprile 1917) fu l'occasione per Sonnino di poter
chiedere qualche cosa di più definito in quanto alle pretese italiane riguardo ad un eventuale

52
Tale programma ricaclcava in parte quello predisposto nell’agosto del 1913 dal Ministro delle Colonie Bertolini.
53
Fu reso pubblico dai sovietici alla fine del 1917 e pubblicato in Gran Bretagna nel 1918. La sua lettura alla Camera
dei Deputati nel febbraio del 1918 suscitò aspre critiche nei circoli nazionalisti e negli ambienti coloniali. Tittoni, una
volta ministro degli esteri disse che “egli -Sonnino- ci ha ancorato a qualche scoglio nell’Adriatico, dimenticando le
colonie, i mandati, le materie prime, i debiti di guerra, tutto, tutto ciò che conta”.
54
Tittoni, il 23 marzo 1915, scrisse a Sonnino che sarebbe stato opportuno soprattutto avanzare precise richieste alla
Francia riguardanti una proroga ventennale della convenzione Visconti-Venosta del 1896 per la Tunisia, il
riconoscimento dell’oasi di Barakat, il Tibesti ed il Borcu in Tripolitania e la fascia di territorio tra Ghat e Tummo.
All’Inghilterra si sarebbe invece potuto chiedere Chisimaio, alla foce del Giuba.

31
smembramento dell'Impero ottomano. Tuttavia, poichè l'accordo che ne cui scaturì55 aveva come
clausola che restasse subordinato all'approvazione della Russia, non entrò mai in vigore, essendo
considerato il 30 settembre 1918 non valido dall'Inghilterra a causa della Rivoluzione d'Ottobre.
Un nuovo sollecito del ministro delle Colonie, Colosimo, presso Sonnino nel giugno del 1918 cadde
nel vuoto. Del resto non poteva essere altrimenti, dato che la situazione politica e diplomatica non
era favorevole all'Italia nè in Europa, nè nelle colonie italiane, funestate da ogni tipo di avversità.
La colonia Eritrea fu minacciata direttamente dai maneggi del console generale turco a Harar,
Mazar Bey, il quale fomentò il partito filoturco tra il 1915 ed il 1916, durante il regno
dell’imperatore ligg Jasu, affinchè il governo di Addis Abeba si appoggiasse agli Imperi centrali per
conquistare la Somalia e l’Eritrea. Tale pericolo scomparve solo il 27 settembre 1916, quando ligg
Jasu venne deposto e salì al potere la principessa Zaiditu, che pose fine alla propaganda turca e
tedesca, stabilendo buoni rapporti con l’Italia. In Somalia operò il capo derviscio Mohamed ben
Abdallah Hassan, chiamato dispregiativamente dagli inglesi Mad Mullah (santone pazzo)56, il quale
ebbe contatti sia con Mazarr Bey, che con il console siriano Hissib Yblibi, i quali invitarono il
derviscio ad un jihad contro gli infedeli inglesi ed italiani. Nel tentativo di sollevare la popolazione
musulmana somala, i turchi ed i tedeschi inviarono armi e munizioni al Mullah. Inoltre il
comandante turco del settore di Aden, Ali Said Pascia, inviò al Mullah un firmano sultaniale che
nominava ufficialmente il capo derviscio emiro della Somalia. Anche dopo la fine della guerra il
Mad Mullah operò un’accanita guerriglia sia contro il Somaliland che contro la Somalia italiana e
fu sconfitto solamente nel 1921, quando morì per cause naturali. Ma la situazione fu assai più grave
in Tripolitania, Cirenaica e nel Fezzan, territori che, nonostante la Pace di Ouchy del 1912, non
erano stati ancora pacificati e la guerriglia senussita stava creando non pochi problemi all’esercito
italiano. Anche se, come noto, l’Italia entrò in guerra solamente nel maggio del 1915, la Turchia e
gli Imperi centrali57 considerarono il governo italiano come già belligerante e compirono grandi
sforzi per rifornire la guerriglia libica, sbarcando con unità sottomarine armi e munizioni sulle coste
sirtiche. Tra l’altro il Sultano di Costantinopoli, Maometto V, aveva dichiarato aperto il jihad contro
Russia, Inghilterra e Francia, il 12 novembre 1914, e l’Italia non impiegò molto tempo a capire che
sarebbe stata rivolta contro tutti gli Stati cristiani non alleati dell’Impero ottomano. In particolare,
poi la Germania sin dal marzo del 1913, in previsione di una guerra europea, aveva studiato di piani
per destabilizzare e danneggiare gli interessi dei potenziali nemici in Africa. Il piano prevedeva
l'impiego di agenti provocatori in Tunisia, Marocco, Egitto che avrebbero promosso l'insurrezione
armata di tutti i musulmani dell'Africa del Nord, la quale avrebbe trovato fertile terreno e supporto
grazie alla collaborazione della confraternita senussita. Nell'estate del 1914, la penetrazione italiana
in Libia aveva raggiunto la massima espansione, che però non poteva certo definirsi stabile e
consolidata, a causa della mancanza di mezzi ed uomini (lo Stato Maggiore italiano guidato da
Cadorna ritennne che la Tripolitania e Cirenaica costituissero un settore secondario del conflitto e
che pertanto potessero rimanere sguarniti e non riforniti). La scoppio della guerra in Europa offrì
alla guerriglia libica l'occasione per vanificare le conquiste italiane, avvalendosi non solo dell'aiuto
turco, ma anche di quello tedesco. La Senussia, guidata prima da Ahmed esh-Sherif e poi dal cugino
Mohamed Idriss, raggruppò in un blocco unitario la popolazione araba sollevandola contro l’Italia,
che subì pesantissime sconfitte tra il novembre ed il dicembre 1914 (Nalut, Yefren e Sebha) e nel
1915 a Uadi Marsit (7 aprile), Gasr Bu Hadi (29 aprile), e Tarhuna (18 giugno). Disastri militari che

55
L'Accordo di Saint-Jean-de-Maurienne, o San Giovanni di Moriana, del 20 aprile 1917 stabiliva che il governo
italiano avrebbe riconosciuto gli accordi Sykes-Picot, mentre gli alleati avrebbero riconosciuto all'Italia interessi nei
porti di Haifa, San Giovanni d'Acri (Akka) e Alessandretta, dei privilegi nel porto franco di Smirne, mentre Mersina e
Adalia sarebbero state zone di influenza italiana. Venne così creata, seguendo la topografia degli accordi Sykes-Picot,
una zona verde nell’Anatolia sudoccidentale ed una zona C, che comprendeva l’Anatolia occidentale e centrale.
56
Mohamed ben Abdallah Hassan era nato nel piccolo villaggio di Kob Faradod, nell’alta valle del Nogal in
Somaliland. Nel 1899 a Burao anuciò il suo jihad contro i colonizzatori stranieri, adottando per i suoi sostenitori il
termine di darawish (dervisci).
57
L’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria il 23 maggio 1915, alla Turchia il 21 agosto 1915 ed alla Germania il 27
agosto 1916.

32
costarono all’Italia centinaia di morti e l’abbandono del Fezzan e l’arretramento delle posizioni
effettivamente controllate alla situazione del 1911-12, ossia alle principali località delle coste
tripoline e cirenaiche58.
Maometto V nominò con un firmano nominò il capo berbero Suleiman el-Baruni, governatore e
comandante della Tripolitania, con ampi poteri e con l’incarico di alimentare la rivolta anche in
Tunisia ed Algeria. Misurata divenne un porto turco-tedesco, rifornito costantemente dai
sommergibili germanici, dove vi sbarcò nell’autunno del 1916 il generale di divisione turco Nuri
pascià per coordinare le azioni militari contro l’Italia e l’Egitto controllato dagli inglesi. La
situazione iniziò a migliorare solamente con il Patto di Acroma (30 kilometri a sud di Tobruk),
stipulato il 17 aprile 1916 con Mohamed Idriss, che portò ad un cessate il fuoco in Tripolitania. Si
trattò infatti di un vero e proprio armistizio, che pose in essere un modus vivendi tra la confraternita
senussita e gli italiani, i quali però entrambi non rinunciarono a rivendicare la sovranità sulla
regione. Il Patto di Acroma fu vantaggioso per l’Italia poiché eliminò un fronte su cui combattere,
ma anche per Idriss, che comparve agli occhi della popolazione cirenaica, stremata e affamata dalla
guerra, come colui che aveva raggiunto la pace senza abdicare e rinunciare a rivendicare la
costituzione di uno Stato indipendente in Cirenaica. La guerra in Tripolitania non cessò con la
sconfitta della Turchia e della Germania. Al momento dell’armistizio di Mudros con la Turchia (30
ottobre 1918) infatti, la pacificazione non fu immediata, a causa del rifiuto di Costantinopoli non
solo di abbandonare le pretese sulla Libia, ma anche di ritirare i propri soldati. La Sublime Porta
impartì ai propri soldati di arrendersi alla fine di dicembre del 1918 e provvide al loro rimpatrio tra
il gennaio e febbraio 1919. Più arduo fu far posare le armi agli arabi, dal momento che il 16
novembre 1918, a el-Cussabat, era stata fondata la Repubblica Tripolitania (Jamhuriyya et-
Trabulsia), con capitale Misurata. Pur avendo la possibilità di riconquistare manu militari la
Tripolitania, disponendo di una superiorità di uomini e mezzi, l’Italia decise di venire a patti con i
capi della Jamhuriyya e questo per diverse motivazioni, non ultima quella di dover affrontare un
nemico che si sapeva ostico e che aveva dato vita ad un movimento nazionalista non certo
transitorio. Inoltre, a far decidere verso una soluzione pacifica pesarono non poco sia le idee
wilsoniane, che avrebbero indotto gli Alleati, durante la Conferenza di Pace, a criticare una politica
aggressiva italiana, sia l’accordo di Acroma, che stava dando buoni risultati in Cirenaica. La pace
con i capi tripolini, chiamata pace di Khallet ez-Zaitun59 (valle dell’ulivo) fu conclusa il 21 aprile
1919 e sarà molto importante poiché alla base del Patto Fondamentale o Statuto della Tripolitania,
poi ufficialmente firmato il 1 giugno 1919.

58
Il Ministro delle Colonie Martini definì la sconfitta di Gasr Bu Hadi “un’altra Dogali” e disse che quella di Tarhuna
era stata “peggio di Adua”.
59
Tale località si trova a 40 km da Tripoli ed all’accordo di pace partecipò tra i delegati arabi anche Abd er-Rahman
Azzam, futuro segretario generale della Lega Araba.

33
BIBLIOGRAFIA:

G. Borsa, La nascita del mondo moderno in Asia Orientale. La penetrazione europea e la crisi delle
società tradizionali in India, Cina e Giappone, Milano, Rizzoli, 1977
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feudalismo al capitalismo, Torino, Einaudi, 1976
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F. Thiers, Tsushima. Il romanzo di una guerra navale, Torino, Einaudi, 1986

34
Parte seconda 1918-1939

Quale pace? I problemi del primo dopoguerra (1919-1925) e l’avvio dell’era delle illusioni

Nel gennaio 1918, molto prima che le operazioni belliche volgessero al termine
su tutti i teatri di guerra, il presidente Whodrow Wilson aveva pronunciato un
fondamentale discorso dinanzi al Congresso degli Stati Uniti. Nel corso del suo
intervento, enunciato l’8 gennaio e passato alla Storia come quello dei Quattordici
Punti, Wilson aveva fissato i principi fondamentali che avrebbero dovuto regolare il
sistema internazionale nella nuova era di pace e di progresso. In estrema sintesi essi
possono essere così elencati: l’abolizione della diplomazia segreta; la libertà dei mari
e dei commerci, attraverso la soppressione di tutte le barriere economiche; la
riduzione degli armamenti; l’autodeterminazione dei popoli, ovverosia il diritto di
ciascun popolo a disporre di se stesso; la nascita di un organismo di rappresentanza
universale, la Società delle Nazioni, cui affidare l’ordinata e pacifica convivenza dei
popoli. In questa prospettiva Wilson aveva sostenuto che il sistema coloniale avrebbe
dovuto essere profondamente riformato ed ispirato a principi di “libertà, generosità e
imparzialità assoluta” e soprattutto “basato sulla rigorosa osservanza del principio
che, nella soluzione di tutte le questioni di sovranità, gli interessi delle popolazioni in
questione debbono essere considerate alla stessa stregua che le eque pretese degli
Stati dei quali il giusto titolo è in discussione” (Punto V). Particolare attenzione era
dedicata al futuro dell’Impero ottomano, prevedendo che dovesse essere conservata la
sua sovranità sulle regioni abitate da turchi ed assicurando alle altre nazionalità, al
momento sotto dominio turco, “assoluta sicurezza di vita e possibilità indisturbata di
sviluppo autonomo” (Punto XII).
Ma le grandi speranze suscitate fin dalla loro enunciazione dai principi
wilsoniani erano destinate, pochi mesi più tardi, ad infrangersi contro le barriere
insormontabili della tradizionale diplomazia europea, rappresentate in particolare
dagli interessi della Gran Bretagna e della Francia, la cui tutela era ispirata come
sempre dalla vecchia politica dell’equilibrio, delle annessioni territoriali, dei
compensi reciproci. Allorché, il 18 gennaio 1919, venne aperta a Parigi la conferenza
per la pace con la partecipazione di 32 paesi e l’esclusione dei vinti, fu
immediatamente percepibile che tra la nuova tendenza democratica ed idealista
sostenuta dal presidente Wilson, peraltro priva di un preciso programma operativo e
di conoscenze approfondite dei temi in discussione, e il modus operandi della
diplomazia europea non esisteva alcun margine di compromesso. Giocò inoltre a
favore del più completo fallimento di un rinnovamento complessivo del sistema delle
relazioni internazionali, l’affermarsi immediato nell’opinione pubblica statunitense,
subito dopo la fine delle ostilità, di un forte sentimento isolazionista, che condusse gli
Stati Uniti ad avvertire gli affari europei o comunque ad essi collegati, ivi comprese
la maggior parte delle questioni coloniali, come estranei alla sfera dei propri interessi
vitali, da essi stessi collocati esclusivamente nel continente americano e nello
scenario del Pacifico.

35
Il solo e più importante risultato dell’azione politica del presidente Wilson fu la
nascita di un organismo permanente con sede a Ginevra, la Società delle Nazioni o
Covenant, fondata sul patto reso pubblico il 28 aprile 1919, con il quale si bandiva
l’uso della guerra nei rapporti reciproci tra gli Stati aderenti alla Società obbligandoli
a sottoporre ad essa ogni vertenza. Di assoluto rilievo era soprattutto la effettiva
concretizzazione di un superiore diritto internazionale fondato sull’equità e sulla
giustizia e non più sulla forza, anche se i limiti imposti alla Società delle Nazioni,
emanazione dei singoli governi aderenti e non organismo superiore alle singole
sovranità nazionali, impedirono il rispetto assoluto dei principi del patto societario.

La Società delle Nazioni o Lega della Nazioni si presentava come una confederazione di stati retta
da un proprio ordinamento. Essa godeva di personalità giuridica internazionale e poteva esercitare
funzioni di governo territoriale, come avvenne nel caso della Saar dal 1919 al 1935, nonché
esercitare la protezione di realtà deboli, come nel caso della città libera di Danzica fino
all’occupazione tedesca del 1939. Alla SdN venne altresì affidato il controllo sull’amministrazione
delle ex colonie tedesche e delle province asiatiche dell’ex Impero ottomano, deferita a titolo di
mandato internazionale ad alcuni membri.
Membri originari del Covenant furono le Potenze alleate, firmatarie dei trattati di pace del 1919-
1920, e tredici paesi neutrali che aderirono al patto nei due mesi successivi alla sua applicazione;
provvisoriamente ne erano esclusi i paesi vinti. Era prevista la possibile adesione successiva di
qualsiasi altro stato, la cui domanda fosse stata approvata dai due terzi dell’Assemblea. Vi potevano
far parte tutti gli stati, i dominions inglesi e le colonie a governo libero. Gli organismi della SdN
erano l’Assemblea, il Consiglio ed il Segretariato. L’Assemblea, la cui convocazione avveniva ogni
anno a settembre, era costituita dai delegati degli stati membri. Essi provvedevano all’elezione di un
comitato esecutivo, composto da un presidente e 6 vicepresidenti. All’Assemblea spettava la
nomina di sei comitati permanenti specializzati e provvedeva ad approvare risoluzioni o
raccomandazioni. Tra i compiti dell’Assemblea anche quello di nominare i membri non permanenti
del Consiglio, nonché i giudici della Corte permanente di giustizia internazionale.
Il Consiglio era composto di 5 membri permanenti, immediatamente ridotti a 4 per la mancata
adesione statunitense, e 4 membri non permanenti con mandato temporaneo. Il numero di questi
ultimi fu allargato a 6 nel 1922 e a 9 nel 1926. Il Consiglio provvedeva all’elezione del proprio
presidente a rotazione tra i membri. Tra i compiti dell’organismo, che deliberava all’unanimità, la
trattazione di tutte le questioni relative alla pace nel mondo e la predisposizione di piani per la
riduzione degli armamenti. Il Consiglio svolgeva altresì funzioni di organo di conciliazione in caso
di crisi internazionali.
Il Segretariato predisponeva i documenti da sottoporre all’esame dell’Assemblea e del Consiglio.
Esso convocava il Consiglio su richiesta di ogni stato membro e preparava l’ordine del giorno di
ogni sessione dell’Assemblea.
Nel corso della sua non breve esistenza (essa si estinse formalmente per deliberazione della sua
Assemblea il 18 aprile 1946) la SdN mostrò ripetutamente la propria incapacità di incidere
validamente sui rapporti fra gli stati, in quanto mancante dei mezzi necessari, primo tra tutti una
propria forza armata, per assolvere alle sue funzioni. I suoi interventi furono quindi essenzialmente
simbolici e di scarsa efficacia, come nel caso dell’applicazione delle sanzioni economiche.

I risultati di questo fallimento divennero chiarissimi nel primo e più importante


trattato di pace al termine della Prima Guerra Mondiale, quello concluso con la

36
Germania a Versailles il 28 giugno 1919 e non ratificato dal Senato di Washington60,
che bocciò pure l’adesione alla Società delle Nazioni (gli Stati Uniti conclusero con
la Germania una pace separata nel luglio 1921): si trattò in sostanza di una vera e
propria imposizione o Diktat, la cui natura coercitiva conteneva già al proprio interno
le condizioni oggettive di una drammatica pericolosità per il futuro mantenimento
della pace in Europa. In totale disprezzo delle ripetute enunciazioni del presidente
Wilson, il quale aveva sostenuto che i popoli e i territori non avrebbero più dovuto
costituire oggetto di mercato e passare di sovranità in sovranità, come se fossero
semplici oggetti o semplici pedine di un giuoco, a Versailles venne decisa l’intera
perdita da parte della Germania dei possessi coloniali. Per la sistemazione di alcuni di
questi territori fu fatto ricorso ad un nuovo istituto giuridico affidato alla gestione
della Società delle Nazioni: il mandato internazionale. Il mandato si aggiungeva alle
più antiche forme di dipendenza coloniale, con l’obiettivo di non far apparire il
distacco delle colonie dalla Germania come un puro e semplice cambiamento dello
stato colonizzatore. In ambito squisitamente ed esclusivamente teorico si tentava in
tal modo di conciliare due opposti principi: quello tradizionale dell’assoggettamento
dei popoli di taluni territori alla sovranità dei paesi più evoluti con quello, di nuova
enunciazione, del diritto all’autogoverno di tutti i popoli. Si prevedeva infatti che
quest’ultimo avrebbe potuto trovare applicazione solo allorquando la popolazione
indigena sottoposta avesse raggiunto un grado di sviluppo che rendesse possibile la
piena e completa autonomia. Nell’immediato la Gran Bretagna si assicurò,
direttamente o indirettamente, la maggior parte dei territori coloniali appartenuti alla
Germania. L’Africa Orientale Tedesca, sotto il nuovo nome di Territorio del
Tanganika , parte del Camerun e del Togo passarono sotto il diretto controllo inglese,
mentre all’Unione Sudafricana, dominion inglese, fu ceduta l’Africa del Sud-Ovest,
divenuta indipendente con il nome di Namibia solamente il 21 marzo 1990. Alla
Francia furono ceduti parte del Togo e del Camerun. Il Belgio ampliò il possesso
congolese con l’acquisizione lungo la frontiera settentrionale dei distretti del Ruanda
e dell’Urundi ed anche il Portogallo incorporò parti dell’ex Impero tedesco al
Mozambico. In Asia e in Oceania fu il Giappone a subentrare nei possessi tedeschi: la
concessione di Kiao Chow in Cina, l’arcipelago delle Caroline, le Marianne e le
Marshall. Alla Nuova Zelanda furono infine affidate le isole Samoa.

L’istituto del mandato, la cui principale caratteristica era la temporaneità, era normato dall’art. 22
del Patto della Società delle Nazioni. Al terzo comma di tale articolo si affermava che il suo
carattere dovesse variare a seconda del grado di sviluppo (o di minorità) del popolo, della posizione
geografica del territorio e delle sue condizioni economiche. Venivano previste tre diverse specie di
mandato: A, B e C. Il tipo A, previsto al quarto comma, veniva applicato ad alcune comunità già
appartenenti all’Impero ottomano, alle quali si riconosceva il raggiungimento di un grado di
sviluppo sufficiente a riconoscere la loro indipendenza, anche se assistita dal consiglio e l’assistenza
amministrativa di una potenza mandataria; per esse si prevedeva il raggiungimento della piena
indipendenza a breve scadenza. Il quinto comma fissava le caratteristiche del tipo B, applicato in
prevalenza a popoli dell’Africa centrale, il quale prevedeva che l’amministrazione del territorio
dovesse essere assunta direttamente da una potenza mandataria; essa avrebbe dovuto garantire alle

60
Già con elezioni del 1918 il Congresso era stato riconquistato dai repubblicani.

37
popolazioni indigene i diritti fondamentali dell’uomo, quali il diritto di libertà personale, di
coscienza, di religione, nonché assicurare agli altri membri della Società delle Nazioni eguali
vantaggi per il commercio ed il traffico. Infine il sesto comma definiva il tipo C, applicabile a
situazioni, come quelle dell’Africa sud occidentale e di talune isole del Pacifico australe, nelle quali
la scarsa densità di popolazione e la lontananza dai centri di civiltà rendevano necessaria
l’amministrazione diretta della Potenza mandataria. Essa vi avrebbe applicato le proprie leggi,
garantendo alle popolazioni indigene i diritti fondamentali.

Questi stessi principi vennero applicati nella redazione del trattato di pace con
la Turchia, siglato a Sèvres il 10 agosto 1920 e peraltro non ratificato dal parlamento
turco. Nell’occasione la sovranità turca venne ridotta alla sola Costantinopoli ed alla
Anatolia settentrionale, con la conseguente perdita di tutti gli altri territori e
l’imposizione del controllo internazionale degli Stretti. L’eccessiva durezza delle
clausole di pace divenne la causa principale di una grande rivolta nazionalista
capeggiata dal generale Mustafä Kemal Pascià e scoppiata in Anatolia contro la
Grecia, alla quale il trattato aveva assegnato Smirne e tutta la zona meridionale
anatolica. Mustafä Kemal riuscì a sconfiggere le truppe greche (battaglia di Sakarya
Nehri, agosto-settembre 1921) ed ad abolire il sultanato (1° novembre 1922) e poco
dopo il califfato, dando il via ad una profonda europeizzazione del paese che si
tradusse nella nascita della Repubblica turca. Il 24 luglio 1923 il trattato di Losanna
provvide a riconoscere la nuova situazione, provvedendo ad annullare il precedente
trattato di Sèvres. Alla nuova Turchia venne attribuito il controllo esclusivo degli
Stretti, il possesso di tutta l’Anatolia, dove era scoppiata la vittoriosa rivolta di
Mustafà Kemal e dove venne trasferita la nuova capitale della nazione, Ankara,
l’abolizione del regime delle capitolazioni e la riassegnazione della Tracia, già
affidata a Sèvres alla Grecia. Fu soprattutto quest’ultima a subire le conseguenze
diplomatiche delle nuove decisioni: non solo, infatti, vennero annullati tutti i vantaggi
acquisiti in termini territoriali, ma più di un milione di greci furono espulsi dall’Asia
minore e costretti a riparare in Grecia. Le Potenze europee rimasero invece salde
nelle posizioni di vantaggio già acquisite a Sèvres ed ad esse si aggiunse anche
l’Italia grazie al riconoscimento definitivo del possesso del Dodecanneso. In pratica
la Francia e la Gran Bretagna realizzarono, indisturbate, il loro condominio in Medio
Oriente: a Londra furono affidati mandati su Iraq, sulla Transgiordania e sulla
Palestina e venne confermato il possesso di Cipro ed Egitto, mentre a Parigi quelli sul
Libano e sulla Siria.

Nell’uso diplomatico con il termine capitolazioni venivano indicati i privilegi accordati e


riconosciuti da alcuni stati musulmani ed asiatici, detti comunemente “fuori cristianità”, ai “protetti”
da stati europei che vi risiedevano. In altri termini si sostituiva all’applicazione del diritto
territoriale quello del diritto personale, in quanto alla giurisdizione delle autorità locali venivano
sottratti i cittadini degli stati esteri, affidati ai loro rispettivi consoli.

Particolare attenzione meritano i rapporti instaurati dalla Gran Bretagna con il mondo
arabo. Venendo meno agli impegni assunti nel corso degli avvenimenti bellici della
Prima Guerra Mondiale nei confronti delle tribù arabe ed in particolare al momento

38
della grande rivolta antiturca del 1916, la Gran Bretagna non sostenne la formazione
di un unico grande stato arabo ed anzi la pur equivoca posizione favorevole al
sionismo in Palestina (dichiarazione Balfour del 1917) complicò ulteriormente i suoi
rapporti col mondo arabo. Londra seppe comunque utilizzare con grande profitto le
amicizie a suo tempo intrecciate sia con lo Sharif della Mecca Husàin dei Banu
Hashim, sia con Ibn Sa’ùd, capo della setta puritana di origine centroasiatica
wahhabita. Nell’agosto 1921 Londra sostenne l’elezione di uno dei figli dell’emiro
Husàin, Faysal, al trono dell’Iraq, allora protettorato inglese, per compensarlo di non
aver ottenuto la corona di Siria e Palestina. Con Faysal fu possibile risolvere la
questione del vilayet di Mossul, in cui esisteva una considerevole popolazione curda,
sollevata dal trattato di Losanna, demandata alla Società delle Nazioni e finalmente
definita da un trattato anglo-turco-iraqeno il 5 giugno 1926. La piena indipendenza
dell’Iraq venne infine concessa il 30 giugno 1930. Il mandato britannico sulla
Palestina, diviso dagli inglesi nel 1923 in due zone: la Palestina propriamente detta e
la Transgiordania, consentì di coltivare ulteriormente gli ottimi rapporti con la
dinastia hashemita. Un altro figlio dell’emiro Husàin, ‘Abd Allāh, nel marzo 1921
venne posto sul trono dell’Emirato della Transgiordania.
Le vicende interne alla penisola araba, legate allo scontro per la supremazia tra
lo Sharif della Mecca Husàin ed Ibn Sa’ùd, offrirono alla Gran Bretagna una
soluzione diversa.

All’indomani della conclusione della guerra e in conseguenza dei complessi


avvenimenti che ne avevano contrassegnato le vicende, i rapporti di forza nel mondo
apparivano radicalmente ed irrevocabilmente mutati. Era iniziato, in altri termini, il
processo di trasferimento del centro di potenza del mondo all’esterno dell’Europa, la
quale, per la prima volta dall’inizio della storia moderna, si trovò costretta a
difendersi per mantenere per quanto possibile le sue prerogative ed è stato a tale
proposito affermato che dal tempo della prima guerra mondiale è, per tali motivi,
impossibile scrivere una storia limitata ai confini dell’Europa. Il confronto presentò
due diversi scenari spesso intrecciati fra di loro: il mondo coloniale ed extraeuropeo,
fino ad allora completamente dipendente dall’Europa, e l’emergente potenza degli
Stati Uniti, che ebbe comunque necessità di un nuovo conflitto mondiale per
affermarsi compiutamente. Questo oggettivo ritardo fu agevolato dal ritorno degli
Stati Uniti ad una politica di isolamento internazionale, cui abbiamo già fatto cenno e
che produsse i primi germi di una instabilità planetaria destinata ad essere
ingovernabile e, quindi, a sfociare in una nuova terribile guerra.
Uno dei risultati immediati dell’abbandono statunitense fu quello di consentire
alla Francia, rimasta l’unica potenza effettivamente organizzata sul continente
europeo, di assumere una importanza sproporzionata in relazione agli strumenti da
essa realmente posseduti. Tutto questo si tradusse in una politica di lunga durata
(denominata politica di sicurezza), consistente nella difesa ad oltranza dei trattati di
pace e della Società delle Nazioni che avrebbe dovuto garantirli, nonché ad una totale
39
avversione a qualsiasi ipotesi conciliatoria circa i gravi problemi suscitati dai trattati
stessi (riparazioni, ecc.). Per confermare e consolidare le posizioni acquisite, Parigi
ritenne opportuno varare, in chiave fortemente antitedesca e preventiva, una politica
di amicizia ed alleanza con gli stati dell’Europa centro-orientale, sorti o ingranditi
dalla vittoria, quali la Polonia (rinata nei confini del 1792), la Cecoslovacchia (nata
dalle regioni della Boemia, della Moravia e della Slovacchia), la Romania (che aveva
avuto la Bessarabia dalla Russia e la Dobrugia dalla Bulgaria)e la Jugoslavia (ex
Serbia ed ora regno serbo-croato-sloveno con una parte della Macedonia cedutale
dalla Bulgaria), promuovendo la nascita, nel 1921, della Piccola Intesa, formata da
Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania in chiave anti-austriaca ed anti-ungherese
(contribuendo in tal modo alla disgregazione delle potenzialità economiche e
commerciali dell’area danubiana)61. La Russia (Giordano, pp. 150-151). L’effetto più
evidente fu una crescente e profonda distanza, ben presto trasformatasi in rivalità, tra
le posizioni della Francia e dell’Inghilterra. Gli interessi inglesi negli anni successivi
alla Prima Guerra Mondiale furono infatti concentrati soprattutto sulla necessaria
ripresa economica e commerciale dell’intera Europa, nella ferma convinzione di
dovere includere in essa anche la Germania e la Russia. Ciò contrastava
oggettivamente con l’esplicita richiesta francese di una garanzia politico-militare
inglese riguardante sia la frontiera occidentale, che l’Europa orientale, e che al
momento venne stimata non accoglibile. Ogni tentativo di trovare soluzioni
diplomatiche al problema oggettivo delle riparazioni si infranse così contro la totale
indisponibilità francese a prendere in considerazione qualsiasi modificazione ai
trattati di pace. Le conferenze internazionali di Cannes (6-13 gennaio 1922, Giordano, p.
158; Albrecht pp. 439) e quella di poco successiva a Genova (10 aprile-19 maggio 1922) si
conclusero con la fine evidente del clima di concordia politica che a suo tempo aveva
segnato la nascita e la vittoria dell’Intesa. Rapallo (16 aprile 1922).

La posizione dell’Italia
Al momento della conferenza per la pace di Parigi (19 gennaio 1919) (Giordano, pp. 151 ss; Saitta,
pp. 368 ss.)

Nel corso degli anni Venti la riorganizzazione dei rapporti internazionali effettuata
tramite i trattati di pace ratificò l’assoluta predominanza inglese nel sistema
mondiale62. Una supremazia insieme economica, strategica e politica, che si
manifestò anche attraverso una nuova progettualità imperiale in ambito coloniale ed
extraeuropeo. Era evidente agli occhi dei contemporanei che occorresse modernizzare
il complesso dei rapporti di dipendenza, al fine di garantirne la massima stabilità

61
La comune necessità di tutelarsi contro il revisionismo della Bulgaria spinse qualche anno dopo, nel 1934, Romania,
Grecia, Jugoslavia, con il sostegno della Turchia, a stipulare una Intesa balcanica.
62
Nel dicembre 1921, con la creazione dello stato libero d’Irlanda, il Governo di Londra chiudeva, almeno
parzialmente, la vertenza irlandese. La soluzione si era imposta per la sanguinosa rivolta iniziata nel …. La provincia
settentrionale dell’Ulster rimaneva sotto il controllo inglese.

40
negli anni a venire attraverso il più largo consenso. L’occasione venne creata dalle
due conferenze imperiali, svoltesi a Londra nel 1923 e nel 1926, con le quali si
provvide ad una complessa ridefinizione del sistema del Commonwealth63.

Nel 1922 la Gran Bretagna, su pressione della Nuova Zelanda e dell’Australia, allarmate per la
dinamica politica giapponese, pose termine alla alleanza con il Giappone che durava dal 1902.

Dal 12 novembre 1921 al 6 febbraio 1922 si tenne la conferenza di Washington, il cui tema generale
era la possibile ed auspicata riduzione degli armamenti navali, ma il cui scopo fondamentale era
rappresentato dalla stabilità in Estremo Oriente e la sicurezza nel Pacifico. Il presidente Warren
Gamaliel Harding, repubblicano, v. Saitta, pp. 365 ss.

Locarno, 5-18 ottobre 1925

Patto Briand-Kellogg o Patto di rinuncia generale alla guerra Parigi 27 agosto 1928

Il Giappone dal 1921 al 1929

La crisi mancese

La politica estera sovietica

La politica estera statunitense

La conferenza navale di Londra 1930 (p. 206)

Gli anni di Roosevelt

Verso la Guerra:

Vienna, Monaco e Praga

Ancora sul periodo 1914 ….. : il secolo “breve”.

1. Uno sguardo sull’economia mondiale.


Caratteristica della civiltà industriale, quale quella affermatasi all’inizio del ‘900, fu
la necessità di equilibrio tra produzione e consumo, le cui componenti fondamentali
sono date dalla produzione industriale che abbisogna di una corrispondente capacità

63
Le conferenze coloniali, la cui denominazione divenne “imperiali” a partire dal 1907 e mutarono nome dal 1949
(Commonwealth conference), erano appuntamenti annuali dei partiti inglesi. Nella storia costituzionale inglese …

41
di acquisto, mentre il processo di industrializzazione esige un miglioramento del
livello di vita. Tutto ciò appare ancora più vero nella proiezione mondiale
dell’economia, dove l’industrializzazione sembrò di poter funzionare solo attraverso
un sistema globale di divisione del lavoro: da una parte i produttori, ovverosia le
moderne nazioni industriali, dall’altra i consumatori della sovrapproduzione, i paesi
ancora sottosviluppati. Il processo che venne così attivato determinò la necessità di
un intenso scambio di merci e ciò spiega il motivo per cui l’era della
industrializzazione si trasformò naturalmente o spontaneamente nell’era
dell’imperialismo attraverso l’ottenimento esclusivo di zone di influenza o con la
garanzia del ricambio dei beni attraverso il possesso delle colonie. In altri termini la
legge generale dell’economia, ineludibile, divenne la circolazione a livello planetario
di merci e prodotti.
Fino alla I Guerra Mondiale l’Europa aveva dominato incontrastata l’intero processo
e la Gran Bretagna, finanziatrice di tutto il sistema, ne era stata il centro propulsore.
La stessa guerra, con la spinta agli armamenti, aveva determinato per così dire un
effetto di trascinamento, garantendo al continente europeo una ulteriore, breve fase di
relativo benessere economico, in verità più apparente che reale. In verità i costi
enormi del conflitto (GB 44 miliardi di dollari, Francia 25, Germania 40) avevano
accelerato la successiva formazione di nuovi centri di gravità in ambito extraeuropeo.
Mentre l’intera Europa, che precedentemente era stata sempre in posizione creditoria,
era oppressa dai debiti, gli Stati Uniti sorpassarono l’Inghilterra, divenendo il
polmone finanziario e produttivo dell’economia mondiale. (Veit Valentin, pp. 1222
ss)

La crisi economica dell’autunno 1929, generata dall’improvviso crollo del mercato


borsistico statunitense dopo una lunga fase di rialzi speculativi, e la nuova fase da
essa originata, detta della Grande Depressione, rovesciarono inevitabilmente i loro
effetti sull’intera economia mondiale ed in particolare su quella europea. Le
conseguenze negli equilibri nazionali ed internazionali furono enormi e contribuirono
a gettare le basi per la successiva esplosione bellica della Seconda Guerra Mondiale.

La Francia operò, sotto la guida inflessibile di Poincaré, per rendere il più possibile
duratura la sconfitta dalla Germania, utilizzando soprattutto gli obblighi delle
riparazioni. Era stato su sollecitazione di Lloyd George, fedele alla tradizionale
politica di equilibrio e caldeggiante una ripresa dell’economia tedesca, che si giunse
alle conferenze di Cannes e di Genova nel 1922. Tuttavia, prima che per questa via si
giungesse a qualche positivo risultato, il cancelliere Joseph Wirth ed il ministro degli
esteri Walther Rathenau tentarono di alleggerire la posizione tedesca attraverso un
trattato di amicizia con la Russia sovietica. I termini dell’accordo, contenuti nel
trattato di Rapallo, vennero considerati una prova concreta della volontà tedesca di
sottrarsi al sistema di Versailles e allorquando la Germania, subito dopo, dichiarò
bancarotta e sospese il pagamento delle riparazioni, la Francia all’inizio del 1923
occupò immediatamente la Ruhr.

42
Venne così irrimediabilmente compromessa ogni residua speranza di sistemare gli
affari europei con razionalità e nel rispetto dei principi wilsoniani ed il successivo
tentativo operato a Locarno nel 1925, su sollecitazione statunitense, di rammendare
l’ordito sfilacciato di tale proposito e di liquidare il profondo dissidio franco-tedesco
si rivelò lento e soprattutto tardivo, nell’imminenza dei gravissimi effetti sull’Europa
della crisi economica del 1929.

Il patto Kellogg per la messa al bando della guerra, concluso nel 1928 per inziativa
degli Stati Uniti e sottoscritto da sessanta stati, doveva alla fine rimanere un impegno
cartaceo.

Il colonialismo, pur essendo stato sia pure solo nominalmente dichiarato superato in
ottemperanza ai principi wilsoniani, risorse nel 1918. Solamente l’Arabia, chiamata
Arabia Saudita dopo la rivoluzione di palazzo del 1924, ottenne l’indipendenza. Ed in
ogni modo ormai nessuna concessione poteva arrestare il movimento nazionalista
ormai sviluppatosi dalle ceneri del vecchio mondo distrutto dalla violenza e dalla
vastità della guerra. Più della concessione nel 1922 da parte della Gran Bretagna
dell’indipendenza all’Egitto, di quella del 1932 all’Iraq, e quella contemporanea da
parte francese di quella in Siria ed in Libano, fu la situazione dell’India ad offrire
l’esempio migliore dello sviluppo incontenibile dell’anticolonialismo. Ogni
concessione da parte del governo di Londra non fece che ampliare a dismisura le
aspirazioni del popolo indiano.

La rigenerazione della Gran Bretagna passava attraverso la riorganizzazione del suo


impero, che in tal modo fu reso in larga parte praticamente impermeabile all’anti-
colonialismo. Decisivo, almeno da questo punto vista, fu il passaggio nel 1931-1932
dal regime di libero commercio ad un sistema di dazi protettivi o meglio di privilegi
doganali, che riunì in una sola area economica le diverse parti dell’impero. Sudafrica,
Australia, Nuova Zelanda e Terranova avevano già ottenuto prima della guerra una
larga autonomia sotto l’alta sovranità della Corona britannica, essendo stato loro
riconosciuto lo status di dominions, al quale nel 1926 si aggiunse la parità di diritti
con la Gran Bretagna. Nel 1931 a Westminster fu redatto lo statuto del
Commonwealth, che sanciva per essi l’eguaglianza giuridica, escludeva ogni rapporto
di subordinazione, riconosceva la totale libertà nell’assumere come proprie le leggi
ed il diritto inglesi ed infine il diritto di poter decidere autonomamente in materia di
pace e di guerra, conducendo una propria politica estera.
Si trattava di una politica efficace, almeno nella congiuntura, a frenare, se non ad
impedire il successo, delle rivendicazioni nazionali. Da questo specifico punto di
vista è oltre modo interessante riflettere, in aggiunta a quello già ricordato dell’India,
sull’esempio dell’Irlanda, alla quale nel 1921, dopo sanguinose rivolte, era stato
riconosciuto da Londra lo status di dominion. A distanza di pochi anni, nel 1932, la
lotta per la totale emancipazione era ripresa sotto la guida di de Valera, per
concludersi soltanto nel 1937 con la piena indipendenza.

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Il Giappone e la Cina dopo la Prima Guerra Mondiale
Pur avendo conquistato un ruolo protagonista al pari degli Stati Uniti nello scenario
internazionale fin dai primi anni del secolo XX con la vittoriosa guerra contro la
Russia zarista (1904-1905), il Giappone rimase a lungo parzialmente defilato nelle
considerazioni europee. Anche i compensi ad esso assegnati a Versailles e derivanti
dalla sua partecipazione a fianco dell’Intesa alla Prima Guerra Mondiale, consistenti
nei possedimenti e mercati già appartenuti alla Germania nell’Estremo Oriente,
furono considerati importanti, ma non fondamentali nei nuovi assetti mondiali,
almeno fino a quando nel corso degli anni ’20 la produzione industriale giapponese
incominciò a minacciare il mercato europeo. Da allora fu chiaro che il Giappone si
era costituito in nuovo centro di gravità e che la politica in Asia avrebbe dovuto
tenere costantemente presenti gli interessi giapponesi. Essi si indirizzarono, rafforzati
dalla conquista della città russa di Vladivostock, prevalentemente verso l’immenso
territorio cinese, con preferenza per lo Shantung, la Manciuria e la Mongolia.
Il problema emergente negli scenari asiatici era per appunto rappresentato dalla Cina.
La giovane repubblica, nata dalla rivoluzione del 1911-1912 che aveva decretato la
fine della dinastia Manciù, aveva dimostrato una grande debolezza, sia interna che
internazionale. Nel 1920, mentre a Pechino dominavano i “signori della Guerra”,
comandanti militari sostenuti dal Giappone, il movimento rivoluzionario del
Kuomintang, guidato da Sun Yat-sen , costituì a Canton un governo di opposizione, il
cui programma prevedeva la democrazia, l’autonomia delle province, la parità di
diritti per le diverse nazionalità cinesi, la libertà dalle ingerenze straniere, la riforma
dell’economia ed il riordinamento generale della società cinese.

L’impero coloniale italiano


La provvisorietà del sistema fissato a Versailles era divenuto nel corso degli anni ’30
conclamato. Alle dinamiche innescate dal revisionismo tedesco e dei paesi centro-
orientali si era aggiunto ben presto quello sostenuto dall’Italia fascista. I primi episodi
furono rappresentati dall’occupazione dell’isola greca di Corfù, dalla rinuncia da
parte della Jugoslavia della città libera di Fiume, dai trattati con l’Albania di re
Ahmed Zogu e con l’Ungheria. Ma fu solo alla metà del decennio che Mussolini,
approfittando del benevolo appoggio di Hitler, del consenso del francese Laval e
delle contemporanee tensioni in Estremo Oriente, dette inizio all’aggressione
dell’Etiopia nel 1935. Nell’occasione si rese ancora una volta evidente quanto fosse
fragile e pertanto destinata alla scomparsa la Lega delle Nazioni.
Sottolineare la negatività dell’esempio fascista (“chi osa può tutto”) e la diffusione di
modelli affini, oltre che in Europa nell’America Meridionale: Ecuador, Bolivia,
Repubblica Dominicana, Brasile).

In conseguenza del crack bancario di New York del 24 ottobre 1929, la crisi colpì
soprattutto la Germania: Hindenburg fu costretto a chiedere al presidente statunitense

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Hoover la sospensione per un anno dell’ammortamento dei debiti internazionali,
mentre la disoccupazione raggiungeva il triste primato di sette milioni di unità.

Aggiungere qualcosa sugli scenari extraeuropei. Manca completamente l’Africa,


dettagliare maggiormente l’Asia… Ricordare in generale che ogni crisi energetica
porta con se ogni forma di crisi, sia economica che sociale….

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