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A CONFRONTO:
RAPPRESENTAZIONI E PRATICHE
DEL SACRO
A cura di
VALENTINO NIZZO
LUIGI LA ROCCA
E.S.S.
EDITORIAL
SERVICE
SYSTEM S.r.l.
ROMA 2012
RAPPRESENTAZIONI E PRATICHE DEL SACRO 737
La rilettura di un paio di versi di Orazio (epod. 17.59 seg.)1, in cui il poeta fa riferi-
mento ad alcune Paelignae anus in merito alla loro destrezza nelle arti magiche, è lo
spunto per riproporre in questa sede l’interessante caso riguardante un sacerdozio
femminile ben attestato tra i Peligni2; l’argomento è già stato trattato in precedenza
da altri studiosi3, ma alcuni nuovi dati e inedite interpretazioni permettono di aggior-
nare lo status quaestionis e di tracciare in tal modo un quadro il più completo possi-
bile.
Effettivamente doveva essere “una peculiarità dei Peligni, e in particolar modo di
Corfinium” un sacerdozio femminile che accomunava Cerere e Venere4, se posse-
diamo diverse epigrafi funerarie in lingua latina, poste da donne che si dichiarano sa-
cerdotesse di Cerere5, di Venere6 o di entrambe le divinità7; tutte queste iscrizioni,
databili approssimativamente tra il I sec. a.C. e il I d.C., si connotano per la presenza
del nome della defunta e del ruolo sociale ricoperto in vita (un generico sacerdos),
accompagnato dal nome della divinità8.
Se però ci spostiamo di poco più indietro nel tempo (II-I sec. a.C.), la questione si fa
più complessa, perché le nostre fonti diventano una serie di iscrizioni in dialetto pe-
ligno (ben dieci), tutte provenienti dalla conca di Sulmona e accomunate dalla pre-
senza del nesso an(a)c(e)t(h)a c(e)r(r)ia9. Fin dal rinvenimento della prima iscrizione
(Corfinio, 1881), molti studiosi si sono adoperati nel tentativo di dare una spiegazione
a questi due lemmi che compaiono sempre solo insieme, e allo stato attuale la ricerca
appare divisa in due ‘correnti’: una prima interpretazione, che è poi quella che ha go-
duto di maggiore popolarità fino a tempi relativamente recenti, presenta la coppia di
* Il presente contributo è una parziale rielaborazione dell’articolo dello scrivente “Fattucchiere o mere-
trici? Indagine su un sacerdozio femminile dei Peligni”, in FIRPO 2011.
1
Cd. palinodia a Canidia: «Quid proderit ditasse Paelignas anus / velociusve miscuisse toxicum?». Ana-
lisi del brano in BUONOCORE, FIRPO 1991, pp. 142 e segg.
2
Sul quale cfr. in ultimo BENCIVENGA 2011a.
3
Tra cui P. Poccetti, secondo il quale la fama delle donne peligne (un po’ come le donne marse e le po-
polazioni sabelliche in generale) “era tale da motivare che un romano ricorresse ad esse per fini oracolari”
(POCCETTI 1982b, p. 25).
4
Come aveva rilevato G. Colonna ormai più di cinquant’anni fa (COLONNA 1956, p. 217).
5
Da Corfinio: CIL IX, 3166; DE NINO 1899 (con scena di sacrificio sotto l’iscrizione). Da Sulmona:
CIL I2, 3216; PICCIRILLI 1959.
6
Da Corfinio: CIL IX, 3166 e 3167 (nella seconda sono menzionate due sacerdotesse).
7
Da Campo di Fano: CIL IX, 3089 (con scena di sacrificio sotto l’iscrizione). Da Pettorano sul Gizio:
CIL IX, 3090 (= I2, 1775). Da Sulmona: CIL IX, 3087 (= I2, 1774).
8
In un’altra iscrizione proveniente da Corfinio (CIL IX, 6323 = I2, 1777) è ricordata una Titia... sacerdos,
probabilmente Cereris (et Veneris). Sempre a Corfinio è stata reperita un’altra epigrafe (DE NINO 1885)
posta da una donna, Decia, in ringraziamento forse a Venere Vincitrice.
9
Da Corfinio: VETTER 1953, n. 211. Da Introdacqua: Ibid., n. 206; PICCHI 1979. Da Pettorano sul Gizio:
738 BENCIVENGA
termini (in caso dativo10), come attestazione di un culto di Angitia, dea nazionale dei
vicini Marsi, alla quale sarebbe attribuita una valenza agraria tramite l’epiteto Ce-
realis; l’altra esegesi, meno presente nella letteratura scientifica rispetto alla prece-
dente, vede nella locuzione an(a)c(e)t(h)a c(e)r(r)ia nient’altro che la “traduzione”
peligna del successivo sacerdos Cereris, che troviamo attestato ripetutamente nelle
successive iscrizioni in lingua latina11. Di questa seconda opinione è anche il Poc-
cetti12, il quale, analizzando il contesto nel quale esse sono state rinvenute (necropoli
o aree limitrofe) e il “carattere inequivocabilmente sepolcrale di alcune pietre iscritte”
nonché “la sporadicità dei rinvenimenti ed il singolare formulario, sempre identico”,
fa notare come sia “quanto meno sospetto un numero talmente elevato di dediche [...]
ad una divinità dal culto così particolare come Angitia”, che peraltro è attestata una
sola volta nell’epigrafia latina di Sulmo13 e non gode nelle fonti della stessa conside-
razione dell’equivalente deità marsa (come ha fatto notare G. Rocca14). Inoltre, la
grande importanza attribuita negli epitaffi al ruolo ricoperto (la cui durata era proba-
bilmente vitalizia15) e addirittura l’ellissi del nome personale a favore della sola carica
religiosa proverebbero “l’estraneità di questi sacerdozi alla cultura romana e la loro
congruenza con gli ambienti misterici ellenici”16, nei quali simili caratteristiche pre-
sentano le figure dello “ierofante” e della sacerdotessa di Demetra17. E come in questo
ambito “le fonti greche documentano che questi ministri dei culti misterici ad Eleusi
provenivano di norma da un limitato numero di γένη di antica origine”18, così è pos-
sibile riscontrare la stessa situazione tra i Peligni, dove sono attestate diverse sacer-
dotesse i cui gentilizi ricorrono sia nell’epigrafia latina che in quella epicorica19.
La più interessante tra queste iscrizioni è forse quella contrassegnata dal n. 204 nella
silloge di Vetter (Saluta Musesa Pa(- - - filia) / anaceta ceria / et aisis sato), che viene
VETTER 1953, n. 204; BENCIVENGA 2011b. Da Sulmona: VETTER 1953, nn. 205, 207, 208; POCCETTI
1979, n. 211; ID. 1982a.
10
Secondo R. Lazzeroni, che ne fa il tratto distintivo della lingua sabellica prima della sua latinizzazione
(cfr. LAZZERONI 1965).
11
Della prima interpretazione fu convinto assertore C. Pauli e dopo di lui molti studiosi tra cui H. Be-
nediktsson, U. Bianchi, G. Bottiglioni, G. Devoto, M. Durante, A. Ernout, R. Jiménez Zamudio, V.
Pisani, G. Radke, F. Ribezzo, E. T. Salmon, W. Schulze, E. Vetter, T. von Grienberger, R. von Planta, e,
da ultimo, C. Letta, che accettano la traduzione latina “Angitiae Cereali”. La seconda teoria venne for-
mulata da F. Bücheler e accolta favorevolmente da R.S. Conway, G. Rocca, M.G. Tibiletti Bruno, I. Zve-
taieff e, infine, P. Poccetti, che l’ha portata nuovamente alla ribalta nei suoi studi di epigrafia italica.
12
Cfr. POCCETTI 1982b, pp. 23 e segg. In un primo momento si mostra indecisa sulla questione G. Rocca
(cfr. ROCCA 1994, pp. 235 e segg.).
13
CIL IX, 3074: Fuficia / C(ai) Fufici / Amandi / f(ilia) Iusta / mag(istra) Angitiis / d(onum) d(at).
14
Cfr. EAD. 1996, p. 654.
15
A differenza di quanto avviene a Roma, dove una carica sacerdotale, il rivestimento della quale è un
evento del tutto occasionale, viene menzionata solo come titolo onorifico.
16
POCCETTI 1982b, p. 24.
17
ID. 1982a, p. 179.
18
Ibid.
19
Brata: PICCHI 1979; VETTER 1953, n. 207. Ca(i)edia: POCCETTI 1982a; CIL IX, 3087 (= I2, 1774). Hel-
via: CIL IX, 3089; DE NINO 1899. Tet(t)ia: VETTER 1953, n. 205; CIL I2, 3216.
RAPPRESENTAZIONI E PRATICHE DEL SACRO 739
20
Cfr. LETTA 1999, pp. 25 e segg. Precedentemente U. Bianchi aveva inteso l’ultima parte dell’iscrizione
come dedica “ad Anaceta e “agli dèi santi” (aisis sato), il che – secondo lo studioso – conferma in qual-
che modo la rilevanza della dea [Angitia] nel quadro del pantheon locale” (BIANCHI 1978, p. 228).
21
Cfr. LETTA 1999, p. 24. Lo studioso cita anche l’iscrizione proveniente da Sulmona apposta da una
magistra che fa un dono “alle Angizie” (Angitiis), in cui, secondo lo studioso, sarebbero da riconoscere
Cerere e Persefone-Angizia. Con Letta concorda L. Luschi che paragona Angitia alla futreí kerríia (“fi-
glia cereria”, cioè Proserpina), divinità presente nel rituale testimoniato dalla tavola di Agnone (cfr. LU-
SCHI 1988, pp. 200 e segg.). Discorde, invece, il parere di G. Rocca, che nota come le dediche ad Angizia
presso i Marsi siano apposte anche da uomini (cfr. ROCCA 1996, p. 654).
22
Cfr. POCCETTI 1985, p. 55. Stessa spiegazione dà M. G. Tibiletti Bruno, che fa di sato l’equivalente
del lat. sata, -orum, “i coltivi, i seminati” (cfr. TIBILETTI BRUNO 1971, p. 108), mentre G. Rocca traduce
l’iscrizione “(sepolcro di) saluta musesa pa. ‘sacerdos cerealis’: sanctum (= sancitum) per gli dei”, ria-
bilitando l’interpretazione di sato come “sanctum”, ma collegando il termine alla sacralità del sepolcro
della sacerdotessa (cfr. ROCCA 1996, p. 657).
23
Cfr. VETTER 1953, n. 213. Varie le interpretazioni dell’iscrizione (cfr. ad es. VON PLANTA 1897, p. 546;
Dekke in ZVETAIEFF 1907, p. 50; PISANI 1964, pp. 114 e segg.; JIMÉNEZ ZAMUDIO 1986, p. 21).
24
Nome “astratto, derivato da un participio presente, significa dunque lo «stato di esser desiderante», il
desiderio, secondo che la sua formazione (che non possiamo controllare) è avvenuta quando il verbo si-
gnificava ancora «aver piacere» o già «desiderare» ” (DEVOTO 1969, p. 196).
25
“Colei che sacra-” (cfr. PROSDOCIMI 1989, p. 523).
26
“Sacerdotessa che ha a che fare con operazioni che si svolgono davanti (pri-) a un edificio (*stadhlo-),
o nella parte anteriore di esso” (Ibid.).
27
DEVOTO 1969, p. 210.
28
Cfr. PROSDOCIMI 1989, p. 523.
740 BENCIVENGA
29
Ivi, p. 525.
30
Cfr. POCCETTI 1985, p. 57.
31
Soprattutto Semonum, per la quale il riferimento più scontato è ai Semones presenti nel Carmen Arvale,
“non soltanto nella struttura morfologica, ma anche nella nozione religiosa, che viene definita dalla ca-
tegoria grammaticale del plurale” (Ibid.).
32
E.T. Salmon attribuisce a un influsso greco l’introduzione della figura di Proserpina quale figlia di
Cerere, per la mancanza di genealogie divine nella religione italica (cfr. SALMON 1967, p. 186, nota 117),
ma, in questo contesto, Proserpina è concepita solo nelle vesti di regina dell’oltretomba, poiché si dice
che la sacerdotessa è andata “nel regno di Persefone” (DEVOTO 1969, p. 200); altri intende praicime
Perseponas come ad praeconium Proserpinae (BIANCHI 1978, p. 223).
33
Cfr. ivi, p. 61; concorda in parte A. L. Prosdocimi (che riprende un’osservazione di G. Pugliese Car-
ratelli), secondo il quale “italicamente le teofanie sono funzioni diverse con nomi diversi”, per cui po-
trebbe trattarsi di “Cerere e Figlia, se la Figlia ha una funzione Cereria, ma possono essere anche Cerere
e un’altra o altre divinità di àmbito Cererio, con nome proprio e funzione specifica in àmbito cererio”
(cfr. PROSDOCIMI 1989, p. 524). Per G. Devoto le divinità menzionate nell’iscrizione sarebbero i Çerfi,
assimilabili al Çerfo nominato nelle Tabulae Iguvinae, un “dio eminentemente nazionale” (cfr. DEVOTO
1969, p. 193; alcune pagine dopo, però, traduce Cerfum con “Cererum”: ivi, p. 197).
34
Cfr. PERUZZI 1976.
35
Cfr. LA REGINA 1997, p. 62.
36
A supporto delle sue affermazioni A. La Regina (come già era stato fatto, cfr. PERUZZI 1976, p. 674-
675) fa notare che nella stessa iscrizione di Herentas si trova menzionata Urania, che oltre ad essere
“nome divino a sé”, è anche una “epiclesi greca di Afrodite” (cfr. BIANCHI 1978, p. 221).
37
In PERUZZI 1976, p. 674, per dare validità al sostantivo, gli viene accostato il nome cistellatrix (attestato
in PLAUT. Trin. 252), che indica “l’incaricata della cassetta” (cistella).
RAPPRESENTAZIONI E PRATICHE DEL SACRO 741
tare come una situazione di “subalternità” simile a quella attestata a Rapino si ripeta,
per i Peligni, nell’area sacra di Ocriticum, dove il sacello delle divinità femminili
(Cerere e Proserpina) si trova all’interno di un santuario in cui il tempio maggiore
era quello dedicato a Giove; da questo stesso luogo proviene un’iscrizione (purtroppo
perduta)38 che potrebbe attestare effettivamente la presenza di un collegio sacerdotale
femminile con le stesse mansioni e la medesima nomenclatura anche a Cansano39.
Secondo il La Regina “è ben probabile che la pratica [della prostituzione sacra], cer-
tamente non più in grande uso nel III sec. a.C., venisse ripresa dopo la seconda guerra
punica negli ambienti dell’Italia centrale, e in particolare tra i Paeligni e i Marrucini,
destinandovi prigioniere ridotte in schiavitù, con il fine di ripristinare la floridità di
santuari decaduti per le devastazioni annibaliche”40. Il Peruzzi ricorda che nel lasso
di tempo entro cui si data l’epigrafe peligna (II-I sec. a.C.) nel tempio di Venere Eri-
cina era ben vivo e operante “il particolare ministero di cui si è detto”, secondo la te-
stimonianza di Diodoro Siculo41, e ipotizza che la hierodouleía sia stata proprio
un’importazione da aree di cultura greca, o forse una “prisca consuetudine italica (di
cui non sarebbe comunque da escludere a priori l’origine ellenica o il suo successivo
incontro con usi greci)”42. Da questa interpretazione discordano però U. Bianchi, che
vede in questa Herentas “una Venere non licenziosa (hanustu herentas, “honesta
Venus”)” cui la sacerdotessa “chiede [...] di concedere abbondanza” ai lettori del suo
epitaffio43, e G. Devoto, che fa della Venere italica una dea del “desiderare più generico,
non legato ancora all’amore” che viene invocata affinché “procuri ricchezze”44. A queste
voci se ne sono aggiunte recentemente altre due: la prima è quella di C. Panzetti, che in un
volume sulla prostituzione sacra nell’Italia antica pubblicato nel 2006 inserisce anche
Rapino e Corfinio tra le sedi nelle quali veniva esercitata la suddetta pratica, benché
egli ne riferisca essenzialmente citando studi precedenti, senza aggiungere nulla di
nuovo alla questione45. Molto interessante, invece, la teoria esposta da S. Budin in un
volume del 2008 (intitolato emblematicamente The myth of sacred prostitution in an-
tiquity), nel quale in pratica la studiosa esclude che il fenomeno della prostituzione
sacra sia mai esistito, attribuendolo a un errore di interpretazione delle fonti letterarie
ed epigrafiche; a proposito di Rapino sostiene che
“there is, in the end, no reason to support La Regina’s suggestion that the Rapino
Bronze pertains to sacred prostitution. The “word” for sacred prostitute – ancillae –
is not even in the text, but is inserted by La Regina in the speculation that this was just
one more reference to an institution that his (mis-)readings of other documents, such
38
Cfr. TUTERI 2005, p. 107.
39
Ibid.
40
LA REGINA 1997, p. 63.
41
Cfr. PERUZZI 1976, p. 685.
42
Ibid., p. 676.
43
Cfr. BIANCHI 1978, p. 230. Così pure A. L. Prosdocimi, che fa di Herentas l’equivalente di Urania,
considerata da Platone (Conv. 180 d) la “dea dell’amore puro” (cfr. PROSDOCIMI 1989, p. 524).
44
Cfr. DEVOTO 1969, p. 196.
45
Cfr. PANZETTI 2006, pp. 115-121.
742 BENCIVENGA
“if we might see a reference to Aphrodite Ourania in this passage [il rifermento è ovvi-
amente all’iscrizione di Herentas, n.d.r.], the goddess here would appear to have more
to do with mortality than sex. Furthermore, Prima is not named as a priestess of Ura-
nia, but of the Cerfes (which La Regina takes as Ceres, thus creating a further link be-
tween Ceres and Venus that then supports his argument for bringing Venus into the
interpretation of the Rapino Bronze). However, without the link to Venus (Urania),
there is little reason to suggest that the cult title pristafalacirix/praestabulatrix should
be read as ‘sacred prostitute’, especially considering that the text states quite clearly
that Prima Petiedia was married (usur)”47.
Pertanto, escludendo sulla scorta dello studio della Budin (e anche per via dell’età)
che potesse trattarsi di prostitute sacre, le “vecchie” peligne menzionate da Orazio
erano fattucchiere, sacerdotesse o entrambe le cose? A mio avviso, le donne che en-
travano a far parte di questo collegio sacerdotale probabilmente ricevevano un’edu-
cazione che comprendeva sia aspetti più propriamente legati al culto (riguardanti le
cerimonie, i riti, ecc.), sia nozioni pratiche che per noi (occidentali, cristiani e mo-
derni) hanno poco a che fare con la religione e sconfinano semmai nella magia e nella
stregoneria (quali la preparazione di filtri e antidoti), conoscenze che al tempo erano
ritenute indispensabili per svolgere al meglio il proprio compito e che richiedevano
comunque una grande perizia nel combinare insieme, e nelle giuste dosi, le erbe che
crescevano e crescono ancora sulle montagne abruzzesi e che in molti casi ancora
oggi assumiamo a fine pasto, sapientemente mescolate all’alcool, come una pozione
magica per favorire la digestione.
ALESSANDRO BENCIVENGA
Università degli studi “G. D’Annunzio” Chieti-Pescara
alebenci@libero.it
46
Cfr. BUDIN 2008, pp. 258 e segg.
47
Ibid.
RAPPRESENTAZIONI E PRATICHE DEL SACRO 743
BIBLIOGRAFIA