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3 ott.

Potere
Per potere si intende la capacità, la facoltà e l’autorità di agire. Inoltre il potere può essere
considerato una relazione di forze però non necessariamente questa relazione assume una
configurazione violenta.

Teoria classica del Potere


La teoria classica, che si è sviluppata con l’affermazione dello stato moderno, evidenzia:
- Il soggetto e la sua volontà suprema  ovvero il potere coincide con la volontà di un soggetto
che si impone (Hobbes – Macchiavelli – Rousseau) si rappresenta nella teoria della sovranità
superiorem non recognescens;
- La relazione di causa  ovvero deve esserci un soggetto che riesce ad imporre un
comportamento ad un altro soggetto (A ha potere su B se determina il suo comportamento).
Ad esempio la Teoria marxista ragiona secondo questi termini, ma anche la teoria di Dahl e
quella elitista (Michelle, Pareto e Mosca) ;
- L’invarianza del potere  è il principio secondo cui “nessuno può trasferire ad un altro
potere maggiore di quello che ha per se ” (Locke), esiste un Quantum di potere sociale, chi lo
ha, lo leva ad altri;
- La transitività  ovvero la struttura gerarchica (anche verticale) del potere;
- La bilanciabilità del potere  può essere compensato o distribuito a fini di equilibrio;
- La sostantivizzazione del potere  coincide con il possesso di strumenti idonei ad ottenere
un risultato desiderato, il potere è una qualità, un bene che si possiede o non si possiede)
La questione sull’efficacia del perché si obbedisce al potere, è cruciale. Affrontandola si mettono in
evidenza una serie di aporie nella cosiddetta teoria classica del potere. Si indica la dimensione riconosci
mentale (intersoggettiva) del potere e della sua legittimazione; In secondo luogo la dimensione
simbolica e comunicativa; infine l’aspetto produttivo e generativo del potere stesso. Queste aporie
emergono già nei classici della modernità e vengono risolte da forme di razionalizzazione. Gli aspetti che
vengono fuori sono tre:

1) Etica  insieme decidiamo che ci sono una serie di principi che regolano la nostra
organizzazione e quindi ci sottomettiamo a queste regole comuni;
2) Sicurezza  l’uomo decide di uscire dallo stato di natura perché aliena il suo diritto di
natura in favore del Leviatano, cioè di un soggetto che gli garantisce sicurezza (Hobbes).
Quindi io abdico alla mia piena libertà in favore della sicurezza;
3) Timore  in questo caso c’è un potere che io non ho scelto e sono costretto ad obbedire per
paura della sanzione.
Inoltre vediamo come il potere ottiene obbedienza in modi diversi, analizzando il carattere
intenzionale degli agenti di Steven Lukes, ovvero con:
 la forza;
 la manipolazione  implica l’induzione del comportamento altrui attraverso il
condizionamento delle loro scelte;
 la coercizione  che determina la modificazione della desiderabilità delle alternative.
 Influenza tramite autorità: In cui il comportamento è conforme alle norme, perché gli agenti
sociali sono convinti che le regole siano vincolanti a causa delle posizioni che li erogano;
 Influenza tramite persuasione razionale: in cui gli agenti si conformano, perché convinti da
argomenti e motivi razionali.

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Weber
Weber riflette sul modo in cui l’economia (capitalismo) influenza la società in cui viviamo. Egli
ritiene che il tipo di razionalità, tipico della società capitalistica, è una razionalità di tipo strategico-
strumentale, cioè è una razionalità che si occupa dei mezzi necessari per raggiungere dei fini. Gli

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aspetti che si vengono a delineare sono: velocità, efficienza, massimizzare l’utile. Tuttavia, afferma
Weber –come è destino della tecnica- questa situazione finisce con l’imprigionare l’uomo stesso in
“una gabbia d’acciaio”, rappresentata dalla fase politica della tecnica burocratica. L’impersonalità, la
competenza e l’efficienza della burocrazia soffocano i cittadini stessi.
Inoltre Weber affronta il tema del politeismo dei valori (disincantamento del mondo), ovvero questa
razionalità strumentale che fa si che la natura sia un oggetto a disposizione dell’essere umano e nei
confronti dei valori, quindi dalla morale, provoca che ognuno ha una posizione diversa rispetto agli
altri, senza possibilità di comprendere quali valori siano superiori o inferiori.

Weber si occupa principalmente del potere, partendo dall’identificazione di alcune tipologie di


dominio che si esercita su tre livelli: Economico: Costituito in virtù di una costellazione di interessi
(area del mercato, le imprese che vincono esercitano un dominio rispetto alle altre) Ideologico:
Costituito dal controllo dei mezzi di persuasione e influenza ideologica (manipolazione dell’idea
degli altri) e Politico: Costituito in virtù dell’autorità. Il dominio politico è il potere in senso stretto.
(chi può influenzare il comportamento altrui, ad esempio chi impone le tasse e comportamenti).
La teoria weberiana mantiene comunque il potere ideologico in posizione subordinata, come
strumento della volontà autonoma e sovrana di chi ha il potere politico o economico. E in base alla
relazione dell’ideologico con il potere politico, classifica i tipi di potere politico a seconda della base
di legittimità su cui fanno leva per ottenere obbedienza. Anche qui si parla di “Ideal-tipi” che nella
realtà storica sono misti e impuri:
 il potere tradizionale  tipico delle società pre-moderne, si fonda sulla credenza del
“carattere sacro della tradizioni valida da sempre”. Inoltre è legittimato a governare chi
incarna la tradizione. La fonte legittimante è la tradizione, obbedito in modo acritico e non
riflessivo;
 il potere razionale-legale  tipico dell’età moderne ed è legato all’avanzamento dei
principi democratici e liberali, si fonda sulla credenza nella legittimità di ordinamenti
giuridici positivi che definiscono formalmente il ruolo di chi detiene il potere e le procedure
di esercizio. La fonte di legittimante è la legge generale ed astratta la cui legittimità non
poggia sui contenuti e sui valori, ma sulla legalità;
 il potere carismatico  in questo caso si riconosce potere ad un soggetto (leader) per il
carisma che esercita. Il leader carismatico incarna, in se stesso, la potenza generativa del
potere, che non è dunque esclusivamente dominio e controllo, ma anche innovazione e
cambiamento.

Teoria struttural-funzionalista del potere (approccio sistemico) Parsons¹:


Il fondatore dell’approccio sistemico è il sociologo Talcott Parsons, che immagina, in una società
complessa; il potere come medium dell’integrazione sociale. Parsons immagina la società come un
sistema interrelato di parti (sottoinsiemi) che è capace di autoregolazione e in cui ogni parte svolge
una funzione necessaria alla riproduzione dell’intero sistema. All’adattamento all’ambiente,
corrisponde la funzione economica; alla definizione dei propri obiettivi, la funzione politica;
all’integrazione delle parti componenti, la funzione giuridica e religiosa; alla conservazione della
propria organizzazione, la funzione educativa (scuola e famiglia). In ciascuna di questi sottoinsiemi i
singoli svolgono ruoli regolati da norme e orientati alla funzione. Per Parsons il potere è la capacità
di mantenere un equilibrio tra tutti questi sottosistemi, quindi la società è l’equilibrio che si viene a
creare, in ogni momento storico, tra tutti questi sottosistemi.
Perché si obbedisce al potere? Secondo Parsons si obbedisce al potere perché, come ci ha insegnato
Freud, il processo di educazione, che comincia già in famiglia, ci porta a sottometterci all’autorità
(innanzitutto quella paterna e poi alle varie forme di autorità). La psicoanalisi serve a Parsons
quindi per spiegare il motivo del perché noi siamo sottomessi al potere.
Nel processo sociale, il potere svolge la funzione di medium comunicativo dotato di un codice
simbolico specifico. Attraverso una famosa analogia, Parsons paragona il potere circolante nel

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sistema politico al denaro che circola in quello economico: come il denaro è un mezzo che permette
le transazioni economiche, così il potere politico è il mezzo delle transazioni politiche.
Analizziamo i caratteri del potere nella teoria sistemico-funzionale:
 diversamente dal modello bilaterale, transitivo e sovrano di Weber, che fa perno sul soggetto
sovrano/obbediente, qui il potere è relazionale e diffuso, non monopolistico e non sovrano,
ma sistemico.
 Mentre in Weber l’agire del potere è orientato ad uno scopo, qui il sistema agisce come una
macchina cibernetica per mantenere o riacquistare uno stato di equilibrio omeostatico.
 L’obiettivo del potere non è la prevaricazione di una parte sull’altra, ma l’integrazione ,
l’ordine , a stabilità e la sicurezza. Questo aspetto in Luhmann è accentuato dal pessimismo
di fondo sui valori e sui destini della società
 L’integrazione sottolinea il carattere simbolico del codice del potere, che passa attraverso
comunicazione e informazione.
In conclusione Parsons afferma che il potere agisce come riduttore di complessità; per questo
motivo il sociologo afferma che la società democratica è la forma migliore di società perché riesce a
rispondere in modo più efficiente alle domande che provengono dalla società in continua
evoluzione (arrivano input dalla società e dagli individui sottoforma di esigenze e aspettative
disordinate; il potere risponde con output ordinati.

Luhmann2
Nella versione di Luhmann, l’ottimismo democratico di Parsons viene rovesciato in una prospettiva
pessimistica e realistica che nega la trasformazione dei valori e della partecipazione attiva in nome
della legittimità. Secondo Luhmann la legittimazione non ha senso, è solo retorica, in quanto un
sistema di potere si giudica solo dalla sua efficienza e della sua stabilità o governabilità. Il concetto
di governabilità prende il posto di quello di legittimazione e consenso.
Inoltre per Luhmann il sistema non esaurisce la realtà. Il potere è la capacità di neutralizzare,
selezionare e rendere inoffensive le minacce provenienti dall’ambiente. Per ambiente Luhmann
indica tutto ciò che non è stato ancora razionalizzato (emozioni, esperienze, desideri ecc.) , ma è già
funzionale alla stabilità del sistema, per cui deve essere reso innocuo e governabile. Tuttavia il
potere non riesce mai a risolvere definitivamente il suo problema, è sempre sbilanciato in un
inseguimento senza fine per ordinare il mondo.
Inoltre la funzione del potere non è politica (un fare politica), ma amministrativa, di governo.

Potere generativo e cittadinanza attiva: Hannah Arendt 3


Hannah Arendt è una teorica politica tedesca di origine ebraiche. Arendt delinea una idea di potere
molto diversa. Riflettendo sulla Grecia classica in particolare sull’esperienza democratica ateniese,
lei ritiene che il senso originale della politica può essere ritrovato anche negli scritti di Aristotele
che diede la definizione di uomo inteso come animale politico, affermando che ciò che distingue
l’uomo dall’animale non è il fatto di vivere in società, ma è l’esercizio della ragione e la capacità di
poter distinguere il bene dal male.
In Vita activa , Arendt sviluppa una nuova definizione di potere. La parola potere va riferita solo
alla pratica della libertà di agire con gli altri nello spazio comune. La definizione di potere data
dalla Arendt è: “il potere corrisponde alla capacità umana non solo di agire, ma di agire in concerto.
Il potere non è mai proprietà di un individuo; appartiene ad un gruppo”. In quest’opera Arendt
distingue due modi di vivere:
 vita del pensiero  agire fine a se stesso;
 vita attiva  fare per fabbricare qualcosa.
Inoltre la Vita Activa si può esprimere come:
a. il lavoro  che è proprio dell’essere umano in quanto è animale e vita biologica. Il lavoro,
infatti, soddisfa le necessità vitali di sopravvivenza che si ripetono: produrre, riprodursi e
consumare;

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b. l’opera  è il fabbricare dell’uomo , che costruisce un mondo artificiale di strumenti, di
prodotti, realizzando modelli o progetti. Per Arendt nella modernità, lo spazio della politica è
diventata una costruzione artificiale che mira al controllo delle relazioni tra uomini: questo è
dominio;
c. l’agire  mette in relazione tra loro gli uomini che si manifestano come uguali e distinti,
abbastanza eguali da comprendersi e prendere iniziative, ma distinti perché non
sovrapponibili l’un l’altro, come la politica e il potere. Inoltre la Arendt afferma che l’uomo è
stato creato perché ci fosse un inizio (Agostino). E iniziare, prendere un iniziativa nello
spazio comune, non significa pretendere di controllare gli effetti dell’azione. Inoltre la
Harent afferma che oggi c’è un problema nella società contemporanea perché in questa
società le nostre differenze sono sempre meno importanti. La società di oggi si sta
spoliticizzando e ciò si vede con la diffusione del totalitarismo, ovvero una società in cui
tutto è politica.

Potere generativo e Biopotere: Michel Foucault4


Nel’900 l’analisi più importante del potere è quella di Michel Foucault, intesa come una posizione
analitica del potere. La rappresentazione tradizionale del potere è, secondo Foucault, giuridico-
discorsiva, cioè influenzata dalla modalità logica del diritto e della filosofia, che pensa il potere solo
nei termini di sovranità, legge, comando e obbedienza. Foucault presenta una nuova concezione di
potere, come un qualcosa presente ovunque, non ha solo una funzione repressiva ma è produttore
delle forme sociali. Inoltre quando studiamo una società ci rendiamo conto che esiste un legame tra
potere e sapere. Questa nuova caratteristica <<biopolitica>> induce a pensare il potere al di là delle
istituzioni che garantiscono la sottomissione dei cittadini. La parola biopolitica, inoltre, indica una
modalità di governo che ha per oggetto l’uomo come vivente, piuttosto che come soggetto astratto
di diritti e obblighi. Le disposizioni del potere oggi si concentrano sulla salvezza-salute,
sull’accrescimento del benessere, mantenendo e sviluppando il dato biologico della popolazione. Il
presupposto teorico della biopolitica è una rappresentazione del corpo sociale della popolazione
intesa come collettività di viventi.
Foucault propone una microfisica del potere, ovvero un insieme di poteri presenti in vari luoghi (case,
scuole, ospedali, carceri). Il potere è onnipresente perché si produce <<in ogni istante, in ogni punto e in
ogni relazione>>. Potere, afferma Foucault, è il nome che diamo ad una situazione strategica
complessa.

Foucault prende le distanze dall’economicismo che vede il potere come prodotto del dominio di classe.
Invece Foucault afferma che il potere non si dà, né si scambia, né si prende, ma che si esercita e non
esiste che in atto. Il potere è un rapporto di forze.

Il caratteri del potere per Foucault sono:


a. non sostanzialità del potere  nel senso che è un rapporto;
b. produttività di questo rapporto  il potere produce, sollecita, incrementa, indirizza
inclinazioni fisiche, sentimenti, pulsioni, passioni. E lo fa assecondando la potenzialità di
ciascuno individuo o popolazione;
c. soggettivazioni  il rapporto di potere non è esteriore, ma immanente ai processi
economici, alle conoscenze, alle relazioni sessuali. Non possiamo elaborare una teoria
generale del potere, ma dobbiamo guardare in ogni società come esso si manifesta;
d. pastoralità  è il processo di formazione dei desideri, delle credenze ed è assoggettato
all’influenza benevola;
e. soggetti attivi  il potere forma soggetti attivi, ovvero che collaborano attraverso il proprio
potere e il proprio desiderio orientato;
f. resistenza e cooperazione  la resistenza configura come sottrarre spazio al potere con il

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fine di migliorare se stessi impedendo al potere di entrare nello spazio privato;
g. ruolo del desiderio e del piacere  le relazioni di potere modellano i corpi, facendo leva sulla

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disciplina. Il divieto incita i desideri che poi vengono soddisfatti. Il potere attraversa i corpi e
inscrive in essi autocontrollo.

1. (Colorado Springs, 13 dicembre 1902 – Monaco di Baviera, 8 maggio 1979) è stato un sociologo statunitense.
2. (Luneburgo, 8 dicembre 1927 – Oerlinghausen, 6 novembre 1998) è stato un sociologo e filosofo tedesco.
3. (Hannover, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975) è stata una filosofa, storica e scrittrice tedesca naturalizzata
statunitense. La privazione dei diritti civili e la persecuzione subìte in Germania a partire dal 1933 a causa delle sue origini
ebraiche, unitamente alla sua breve carcerazione, contribuirono a far maturare in lei la decisione di emigrar
4. (Poitiers, 15 ottobre 1926 – Parigi, 25 giugno 1984) è stato un filosofo, sociologo, storico, accademico e saggista francese

• Il soggetto e la sua volontà • La forza • Economico


suprema • La manipolazione • Ideologico
• La coercizione • Politico
• La relazione di causa
• L'influenza tramite autotità
• L'invarianza del potere
• L'influenza tramite persuasione
• La transitività
razionale
• Il bilanciamento del potere
• La sostantivizzazione del potere

La Teoria classica Il potere ottiene Weber, il dominio


del potere obbedienza(Steven si esercita su tre
evidenzia: Lukes): tramite livelli:

• Potere tradizionale • non sostanzialità del potere • vita del pensiero (agire fine a se
• Potere razionale-legale • produttività di questo rapporto stesso)
• Potere carismatico • soggettivazione
• vita attiva(fare per fabbricare
• pastoralità qualcosa)
• soggetti attivi • Lavoro
• resistenza e cooperazione • Opera
• ruolo del desiderio e del piacere • Agire

Weber, la I caratteri del Hannah Arendt,


legittimazione del Potere per Michel distingue due modi
Potere Foucault sono: di vivere:

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5 ott. Femminismo
Il femminismo è sia un movimento storico politico, ovvero un movimento di rivendicazione dei
diritti delle donne, sia un paradigma teorico filosofico.

Sesso e Genere
La teoria della donna come costruzione sociale trova le sue radici teoriche nella riflessione esistenzialista
di Simone de Beauvoir1. Nel 49’ pubblica un testo “il Secondo Sesso”(1949), che diventerà l’elemento
cardine sia del dibattito su sesso e genere (gender studies)sia per l’introduzione di filosofie politiche
femministe. Solitamente per sesso si intende una particolare proprietà biologica che distingue
anatomicamente il maschio dalla femmina. Con genere viene invece etimologicamente inteso il
<<complesso dei caratteri essenziali distintivi di una categoria>>. Il genere fu definito da Rubin come
l’insieme di quei “processi di adattamento, modalità di comportamento e di rapporti, con in quali ogni
società trasforma la differenza sessuale biologica in prodotti dell’attività umana e organizza la divisione
dei compiti tra gli uomini e le donne”. Il genere sarebbe il risultato di un processo storico che ha per
conseguenza l’attribuzione di determinati ruoli sulla base del sesso di appartenenza. Mediante processi
primari di socializzazione e dall’educazione impartita fin dall’infanzia, ci si aspetta che ogni individuo si
identifichi con il ruolo culturale assegnatogli (identità sessuale). La divisione fra sessi sarebbe imposta da
norme e comportamenti sociali che nel caso delle donne si configurerebbe innanzitutto col ruolo
materno.

Bisogna fare una distinzione tra intersessualità, transessualità e transgender; la prima e intesa come
compresenza fisiologica e genetica di caratteri misti, la seconda è l’autoidentificazione di un
soggetto con il sesso opposto, fino alla scelta di ricorrere ad interventi chirurgici; la terza si riferisce
a individui, i cui comportamenti e tendenze differiscono dalle convenzioni stabilite.
Premessa  La Beauvoir era la compagna del filosofo esistenzialista Jean-Paul Sartre (secondo lui il
filosofo deve partecipare alla vita della società, che contribuisce a migliorare la società).
Filosofi esistenzialisti  I filosofi esistenzialisti riflettono su quale sia l’elemento tipico degli
esseri umani, cioè quello che lo differenzia dagli animali ed è sostanzialmente la libertà. L’uomo è
condannato ad essere libero e nel caso in cui l’uomo è realmente libero ciò significa che tutto ciò
che lui consegue nella storia, i traguardi che raggiunge, i modi in cui si comporta ecc. sono frutto di
una sua libera scelta. Quindi se siamo realmente liberi, afferma Sartre, siamo responsabili, perché
tutto ciò che facciamo e che diciamo di essere evidentemente impone una responsabilità. Libertà
non è un qualcosa in contrapposizione con responsabilità.
Abbiamo fatto questo riferimento perché se volessimo riassumere con una formula il principio
cardine dell’esistenzialismo sarebbe: l’esistenza precede l’essenza  visto che l’uomo è un essere
storico, un essere che vive all’interno di una società non c’è nulla di scritto, quindi la società
moderna, dove l’uomo ha cominciato a gustarsi la libertà, è ancora di più una società in cui l’uomo
deve essere libero di fare ciò che vuole e di diventare ciò che vuole.
Simone de Beauvoir riflette sulla condizione della donna a partire dalla riflessione “Essere donna
deve essere frutto di una libera scelta”, nel senso che si comincia a riflettere su una distinzione
categoriale fondamentale: distinzione tra concetto di sesso e concetto di genere. Mentre il sesso
è un dato naturale biologico, legato a punto alla biologia, il genere non è un dato naturale ma un
dato culturale, storico. Il genere è l’attribuzione di ruoli, di diritti che una data società fa sulla base
della differenza sessuale. Ad esempio in una società matriarcale (sempre se fosse esistita)
attribuirebbe un certo tipo di ruoli, dominanti, alle donne e ruoli subordinati agli uomini.

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La Beauvoir, afferma che visto che non vi è nulla di scritto nella natura dell’essere umano, allora le
donne devono riappropriarsi della loro libertà e quindi: “donne ci si diventa, lo si nasce dal punto di
vista sessuale ma lo si diventa”.

Dal punto di vista teorico possiamo identificare quattro approcci principali:


1. Genealogico-differenziale  nasce e si impone soprattutto in Francia, dopo gli anni 60’ e

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l’autrice di riferimento è una psicanalista francese Luce Irigaray2. Irigaray è un’autrice
fondamentale, ed è la più importante teorica del cosiddetto pensiero della differenza
sessuale. L’Irigaray pubblica, nel 1974, un libro importante dal nome Speculum dell’altra
donna. In questo testo l’autrice propone un’interpretazione globale della storia occidentale,
o meglio della storia maschilista occidentale. L’Irigaray parte dall’assunto che se la società
occidentale è ancora una società dove le donne hanno una posizione subalterna rispetto
all’uomo, questo dipende sostanzialmente da una serie di scelte, anche di natura filosofica,
che sono state fatte dall’antica Grecia. L’idea che i greci hanno imposto è legata alla visione
metafisica che nasce in Grecia, ovvero l’idea che esiste l’essere, un essere che sia uno. La
famosa domanda intorno al bene, intorno all’essere, parte sempre dal presupposto che
questo venga declinato ad un unico modo, che è quello maschile. Mentre l’essere, afferma
L’Irigaray, cioè l’esperienza umana è un’esperienza duale, non è vero che esiste solo l’uomo
esiste anche la donna e il presupposto implicito che nasce in Grecia è un presupposto
maschilista, si ragione a partire da categorie che sono maschili. Il pensiero viene
considerato come una prerogativa dell’essere maschio (Aristotele  la donna è giusto che
stia a casa, perché è diversa dall’uomo). Il filosofo che meglio interpreta questa svolta
maschilista del pensiero greco, secondo Irigaray, è Platone. L’Irigaray ci propone
un’interpretazione del mito della caverna, affermando che non è un caso che Platone
assegni la dimensione della non conoscenza alla caverna, perché quest’ultima può
simboleggiare l’utero materno (per la forma), quindi Platone ci sta dicendo sostanzialmente
che la condizione della donna è la condizione della non conoscenza quindi dell’inferiorità
rispetto alla condizione maschile, rappresentato invece dallo spazio aperto cioè dello spazio
al di fuori della caverna. Il titolo di questo libro è Speculum, che è lo strumento con cui il
medico può guardare all’interno dell’organo genitale femminile. L’Irigaray sostiene che
dobbiamo abbandonare tutta una serie di idee che ci sono state date, innanzitutto quelle che
ci sono state date dalla filosofia greca e bisogna rifiutare anche una serie di idee che ci sono
stata date dalla psicoanalisi freudiana. Freud, nei suoi scritti dedicati allo sviluppo della
personalità femminile, continua a leggere questo sviluppo a partire dalle categorie maschili
perché a un certo punto Freud introduce il concetto dell’invidia del pene, cioè la bambina
prova invidia dell’organo genitale maschile, percependolo come una mancanza rispetto al
bambino. Quindi Freud afferma che la donna sia una mancata pienezza dell’uomo. Oltre a
Freud l’Irigaray polemizza anche nei confronti Di Lacan, perché aveva teorizzato il famoso
stadio dello specchio, ovvero un particolare momento dello sviluppo psicologico del
bambino, ovvero l’esperienza che il bambino fa davanti alla specchio quando riconosce di
essere diverso dalla madre, quindi acquista una sua autonomia. L’Irigaray, a questo punto,
fa un passaggio storico affermando che la donna in passato è stata lo specchio dell’uomo,
cioè nella società occidentale l’uomo ha costruito la propria immagine di maschio
rispecchiandosi nella donna, cioè facendo della donna l’elemento di prova e permettendo
all’uomo di formare la sua identità di maschio, ovvero come soggetto superiore agli altri.
2. Intersoggettivo-critico  l’autrice che viene richiamata è Seyla Benhabib3. Tale autrice
lavora a partire dall’approccio dialogico-discorsivo di Habermas. La Benhabib ritiene che la
nostra esperienza è dialogica-intersoggettiva, e il fatto di discutere ci porta ad essere critici,
ad assumere una posizione critica delle nostre credenze, opinioni ecc.. La Benhabib sostiene
che l’essere donna, così come l’essere uomo, non è altro che una costruzione linguistica
comunicativa e quindi storicamente è sempre sottoponibile a critica, appunto perché non è
scritto da nessuna parte che la donna deve fare alcune azioni e l’uomo delle altre, ma
l’evoluzione stessa della società e in particolare la nostra società che è caratterizzata dal
dialogo consente spazi di critica, di modifica.
3. Postmoderno-decostruttivista  tale approccio, un po’ più radicale, si contrappone al
primo perché il primo approccio, quello della differenza sessuale, da un certo punto di vista
sembra perpetuare quella distinzione tra sesso e genere; secondo quelli che si iscrivono a

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questo nuovo approccio affermano che lo studio dell’Irigaray ricade a sua volta in una sorta
di realismo (o metafisica) di genere, ovvero anche lei ,in modo consapevole o meno,
perpetua la distinzione tra sesso e genere. Quindi, affermano gli studiosi di questo
approccio, esiste un qualche cosa che corrisponde all’elemento femminile e un qualcos’altro
che corrisponde all’elemento maschile. Però tutto ciò finisce per avvalorare i pregiudizi
maschilisti perché si sta dicendo che effettivamente se l’uomo ha fatto una serie di cose è
perché è uomo e la donna viceversa. Tra l’altro gli autori e autrici postmoderni, tra cui
Judith Butler 4, sostengono che il pensiero della differenza si muove sempre sulla falsa riga
della distinzione tra sesso e genere, ma in realtà dice la Butler il sesso è esso stesso un
costrutto culturale, perché siccome la nostra esperienza è sempre di tipo linguistico, nel
momento in cui nasce il bambino io lo definisco maschio piuttosto che femmina, in questo
modo sto utilizzando il linguaggio, quindi anche il concetto di sesso, in quanto linguistico, è
un costrutto culturale, non è un dato naturale. Quindi la soggettività maschile e la
soggettività femminile, sostengono questi autori, va decostruita cioè bisogna vedere in ogni
società come viene costruito l’essere uomo e l’essere donna, perché questa costruzione è
l’esito di una logica di potere, la Butler, in questo caso, si richiama a Foucault (potere e
sapere), affermando che l’essere uomo e l’essere donna in una società è frutto di una
relazione di potere.
4. Postumano-cibernetico Tale impostazione rompe con la tradizionale rappresentazione
del corpo umano sessuato, come è stato inteso finora, radicalizzando il post-strutturalismo.
L’autrice di riferimento di questo approccio è la scienziata Donna Haraway 5, che continua a
sviluppare il discorso postmoderno però da un punto di vista scientifico, cioè insiste nel
negare la distinzione tra sesso e genere. Oggi non è più così perché gli sviluppi della scienza
ci permettono anche di cambiare sesso per esempio, quindi se oggi noi possiamo cambiare
sesso ciò significa che non esiste più la differenza tra naturale e culturale ma tutto è
culturale. Il cyborg (l’uomo-macchina) è la metafora della situazione dell’uomo del XXI
secolo, perché è un costrutto che non è ne maschio ne femmina ma è al di là delle categorie
maschili e femminili, naturale e artificiale ecc.. .Con la tecnica oggi possiamo fare tutto ciò
che vogliamo, anche modificare ciò che per anni ci è sembrato immodificabile.

Movimento femminista
Le battaglie in favore dei diritti delle donne iniziano in età moderna e possono essere distinte,
principalmente, tre ondate del movimento femminista.
1. Prima ondata avviene alla fine del Settecento. Inizialmente le battaglie condotte dalle
donne erano finalizzate ad ottenere il suffragio, il diritto al voto. In età moderna soltanto gli
uomini potevano votare, soltanto i proprietari di terre, aristocratici e coloro che pagavano le
tasse. In età moderna c’era una grossa battaglia tra il movimento liberale e quello
democratico e l’oggetto di conflitto era proprio il diritto al voto. I liberali sostenevano che
era necessario pagare le tasse o essere proprietari terrieri per poter votare o essere eletti. Al
contrario i democratici sostenevano che tutti avevano il diritto al voto perché appartenenti
tutti ad una stessa società. In questo periodo (rivoluzione francese) i movimenti femministi
cominciano ad unirsi ai movimenti democratici. In questa prima ondata possiamo inserire
Mary Wollstonecraft6, che nel 1792 pubblica la Rivendicazione dei diritti della donna ,
dove, tra l’altro, sottolinea i limiti psico-sociali a cui fin dall’infanzia sono soggette le
bambine. La critica pervasiva che dalla sfera privata giunge fino al domino pubblico,
caratterizza la prima fase dell’emancipazione femminile, inteso come affrancamento dal
dominio maschile, come richiesta di uguaglianza formale e come pari accesso all’educazione,
alla politica e al mondo del lavoro. Tutta questa prima ondata del movimento femminista,
che arriva fino alle II guerra mondiale, si esaurisce non appena si arriva al suffragio
universale ( in Italia con Anna Maria Mozzoni 1877, e nel Regno Unito con Emmeline
Goulden Pankhurst con il movimento delle suffragette);

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2. Seconda ondata  avviene fra il periodo delle due guerre mondiali fino agli anni Settanta
del Novecento. In questo periodo, sempre in Francia, si comincia a riflettere sul limite della
prima ondata, ovvero continuare a parlare dell’emancipazione femminile partendo sempre
dall’uomo, dalle categorie maschili. Mary Wollstonecraft, come le altre, sosteneva che la
donna sarà emancipata solo quando otterrà il diritto di voto come gli uomini, a quel punto
sarà come gli uomini. Quindi implicitamente si continua a sostenere che essere una donna
emancipata significa essere uguale all’uomo, quindi il termine di riferimento continua ad
essere l’uomo. A partire da questa svolta culturale si comincia a riflettere sul fatto che non è
sufficiente parlare dell’emancipazione femminile in termini di uguaglianza con l’uomo, ma
bisogna cominciare a valorizzare la categoria della differenza (non a caso l’Irigaray pubblica
il suo testo). Quindi la seconda andata del femminismo comincia a ragionare in termini di
differenza, esiste un qualcosa connaturato all’essere donna che richiede una tutela
particolare che non ha nulla a che vedere con l’essere uomo, per esempio la maternità, da
questo momento nascono i diritti di genere. Lo slogan più ricordato è che “il personale è
politico; non è sufficiente solo affermare ciò, ma bisogna riconoscere anche un qualcosa di
più perché essere donna non è la stessa cosa di essere uomo, quindi anche nel mondo del
lavoro bisogna riconoscere queste differenze.
3. Nella terza ondata  riguarda gli ultimi 25 anni ed è indotta da due fattori diversi. Da una
parte vi è la trasformazione geopolitica delle relazioni internazionali che porta alla
trasformazione delle sovranità nazionali, all’affermazione della globalizzazione finanziaria e
all’incremento della mobilità umana. Dall’altra parte vi è la consapevolezza che il
femminismo non può essere declinato al singolare, poiché implica molte etnie, colori,
nazionalità, religioni. Quindi bisogna pluralizzare la categoria della differenza, tuttavia la
questione delle diversità culturali e delle politiche dell’identità nella lotta per il
riconoscimento ha creato non pochi contrasti all’interno del movimento e delle teorie
femministe, come emerso nel dibattito su genere e multiculturalismo, inaugurato da Moller
Okin;

Etica della cura


Uno degli argomenti che veniva impiegato per motivare l’esclusione del corpo femminile dal
dominio pubblico riguardava propriamente i limiti del suo “modo di sentire” e la sua “capacità
d’intendere”. E sarà proprio sulla domanda se esistono o meno un’etica e un’epistemologia al
femminile, date per natura o per cultura, che si impronteranno molti dibattiti del femminismo
contemporaneo. Al riguardo come elementi esplicativi si possono prendere in esame due questiono
quella della Cura e quella della conoscenza situata. Con Cura indichiamo uno stato emotivo,
un’attività o una combinazione di entrambi, è quell’atteggiamento tipico che la madre ha nei
confronti del bambino. In particolare Carol Gilligan ha riflettuto sull’importanza della cura come
modalità di approccio al mondo della donna. Storicamente delegando la donna all’ambito privato a
quello domestico, oggi, in una società democratica e dove la donna sia emancipata, quest’ultima
continua ad occuparsi di tutto ciò. Il problema è secondo tante teorie che tutte queste attività
andrebbero retribuite. In quanto, ad esempio, l’educazione della prole non è soltanto un qualcosa di
privato ma anche un qualcosa di pubblico perché contribuisce alla sua socializzazione.
Il discorso della cura non riguarda solamente il rapporto tra madre e figlio, ma la cura può
riguardare anche gli animali e anche il mondo. L’etica della cura ha portato alla luce un tema
fondamentale quello delle “relazioni degli esseri umani”.
La Conoscenza situata parte dall’assunto che il processo e il risultato gnoseologico sarebbero
sempre determinati dalla particolare prospettiva assunta dal soggetto conoscente. Così il genere
diventa una modalità di situazione sociale che influenza la conoscenza e dunque l’azione
conoscitiva.
Il femminismo si è “emancipato” dalla tradizione liberale, socialista e radicale, indicandone i limiti
intrinseci e pensando piuttosto ad una democrazia delle opportunità. Lo stesso concetto di

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“emancipazione” è stato in parte relegato alla storia del pensiero, dal momento che si intende
superare una visione puramente vittimistica delle donne, per affermare piuttosto il loro ruolo di
soggetti agenti, liberi e autonomi, che possono essere però discriminati sulla base di genere a causa
di sessisti retaggi tradizionali.
1. Parigi, 9 gennaio 1908 – Parigi, 14 aprile 1986), è stata una scrittrice, saggista, filosofa, insegnante e femminista francese
2. (Blaton, 3 maggio 1930) è una filosofa, psicoanalista e linguista belga. Attualmente è direttrice di ricerca al CNRS di Parigi.
3. 9 settembre 1950 , Istanbul, Turchia
4. (Cleveland, 24 febbraio 1956) è una filosofa post-strutturalista statunitense. Si occupa di filosofia politica, etica, teoria letteraria,
femminismo e Queer Theory. Dal 1993 insegna al Dipartimento di retorica e letterature comparate all'Università di Berkeley, dove
dirige il programma di Critical Theory. Tiene lezioni all'European Graduate School.
5. (Denver, 6 settembre 1944) è una filosofa e docente statunitense, capo-scuola della Teoria Cyborg, una branca del pensiero
femminista che studia il rapporto tra scienza e identità di genere.
6. (Londra, 27 aprile 1759 – Londra, 10 settembre 1797) è stata una filosofa e scrittrice britannica, considerata la fondatrice del
femminismo liberale.

Sono 4 i principali approcci teorici del femminismo

Genealogico-Differenziale (Luce Irigaray)


Intersoggettivo-Critico (Seyla Benhabib)

Postmoderno-Decostruttivista (Judith Butler)

Postumano-Cibernetico (Donna Haraway)

10 ott. Studi Postcolonialismo


Negli ultimi 25 anni il mondo del sapere occidentale è stato investito dai cosiddetti studi
postcoloniali nel senso che il modo, l’autocomprensione che il sapere occidentale aveva di se stesso
è stato oggetto di una serrata critica, proveniente dai contesti non occidentali. Tale critica ha
portato le varie forme del sapere occidentale a riflettere e ad interrogarsi in maniera critica sul
proprio statuto epistemologico, sul modo di strutturarsi e configurare la realtà. Possiamo parlare di
un vero e proprio decentramento nel senso che il sapere occidentale, soprattutto in età moderna, ha
avuto la presunzione di essere la forma di sapere più importante che il genere umano avesse
sviluppato e quindi l’occidente si è messo come guida del resto del mondo in vari campi (scientifico,
militare, culturale ecc.). In altre parole gli europei sostenevano di avere una missione civilizzatrice
nei confronti delle popolazioni non europee. In particolar modo la filosofia politica occidentale ha
sempre prodotto un’idea di sé come diversa e contrapposta a quella riferita a persone e popoli
considerati come “diversi”. Da questa concezione prende luogo la politica secondo una duplice
accezione:
1) Politica intesa come rappresentazione della convivenza umana, sottoposta all’interno di
precisi confini, dove i cittadini si dotano di proprie leggi;
2) Politica concepita come differenziazione/difesa/attacco rispetto agli “estranei”, ovvero nei
confronti di coloro che non godono dello stesso statuto giuridico.
Considerato ciò, si può affermare che gli altri fungono da “specchio” con una doppia funzione:

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all’interno contribuiscono a rafforzare l’identità comunitaria del soggetto proferente, verso
l’esterno inducono a legittimare la propria superiorità intellettuale e potenza militare, fino a
giungere all’estrema giustificazione dell’assoggettamento di altri individui e al sostegno
dell’espansione territoriale. Un esempio classico di questa dialettica giustificativa fra libertà interna
e aggressività esterna può essere rintracciato nel “Discorso agli Ateniesi” (si trova all’interno delle
Storie di Tucidide) pronunciato da Pericle che tenne appunto agli ateniesi nella guerra contro il
Peloponneso, dove reclamava una differenza del popolo ateniese rispetto all’altro, caratterizzato
dal fatto che Atene fosse una democrazia.
Inoltre l’uso strumentale dell’idea di libertà politica e della nozione di superiorità culturale
dell’Occidente sono stati i punti cardini del colonialismo -conquista e controllo di terre e di beni
come sfruttamento di risorse umane e materiali- di ogni tempo. Tuttavia una concettualizzazione
vera e propria del colonialismo si ha solo nella modernità, quando con la scoperta dell’America il
colonialismo occidentale assume una nuova concezione, ovvero definire le altre popolazioni come
“selvaggi” e quindi schiavizzabili.
La critica del “colonizzato” trova la sua origine sia all’interno dell’Occidente, sia nei Paesi
colonizzati, soprattutto con la fine delle guerre di liberazione nazionale (Guerre Mondiali). Intorno
alla fine degli Sessanta all’interno dei paesi industrializzati viene a svilupparsi un nuovo filone di
ricerca, che abbiamo già denominato come Studi Postcoloniali dove viene messo al centro colui che
stava in periferia ed isolato nelle colonie e gli viene attribuito un valore gnoseologico.
In realtà questo discorso, cui ci portano gli studi postcoloniali, è un discoro antico, perché ci riporta
al problema dell’alterità cioè al rapporto con l’altro. Nel novecento entra in discussione il concetto
di soggetto per come la filosofia moderna l’aveva rappresentato, ovvero il soggetto razionale,
bianco europeo e tutti gli altri devono raggiungere gli standard culturale e filosofici del soggetto
europeo. A partire dalla crisi degli imperi coloniali comincia quest’opera di decentramento
culturale e ci si rende conto che in realtà l’uomo bianco non è l’unico standard e neanche l’unico
modello che noi dobbiamo tenere in considerazione quando affrontiamo una serie di tematiche. La
costruzione e la contrapposizione all’altro è costitutivo della nostra identità. Il problema è come
costruiamo questa differenza rispetto all’altro; perché la differenza può essere finalizzata alla pace,
alla tolleranza, all’apologia della differenza o può essere declinata in senso violento o in senso di
annientamento dell’alterità. La critica che gli studiosi postcoloniali fanno all’occidente è che il
rapporto con l’alterità è sempre stato declinato in termini di violento, ovvero non vi è un
riconoscimento della dignità dell’altro.
Questo tema emerge con forza anche in età moderna: ad esempio, Montesquieu, oltre allo spirito
delle leggi, scrive le “Lettere ai persiani”, una sorta di romanzo dove l’autore critica la Francia, del
suo periodo, assumendo il punto di vista di due persiani che si recano alla corte del re francese. In
questo romanzo vi è un passaggio interessante in cui i due persiani interrogati da alcuni cittadini
francesi, gli viene posta la domanda “ma come si fa ad essere persiani?”. Con questa domanda
Montesquieu ci vuole far riflettere sul fatto che aprirsi realmente nei confronti dell’alterità è un
qualcosa di difficile, perché dobbiamo riuscire a liberarci dai nostri pregiudizi e dalle nostre
ideologie, rappresentate appunto dalla domanda “come si fa ad essere persiani”.
Inoltre la globalizzazione, facendo saltare tutte le barriere costruite negli anni, ha fatto si che non vi
è più questa netta differenza tra primo, secondo e terzo mondo; infatti oggi possiamo trovare quella
povertà, che prima veniva connotata solamente ai paesi del terzo mondo, anche nei paesi del primo
mondo. Tutto ciò è importante perché molti studiosi di questi studi postcoloniali, in realtà sono dei
pensatori ibridi nel senso che: da un punto di vista biografico sono nati spesso in società non
europee, studiano, però, in occidente (si formano con i saperi occidentali), poi ritornano nei paesi
d’origine e cercano di utilizzare le forme acquisiste dal sapere occidente ritorcendole contro
l’occidente.
A questo punto possiamo discutere di alcuni importanti autori che si sono distinti in questi studi
Postcoloniali.

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Frantz Fanon1
Uno dei primi autori è stato per esempio Fanon. Quest’ultimo ha denunciato una serie di idee della
mentalità razzista occidentale. In particolar modo ha ragionato sulla definizione di negro. Nel noto
saggio Pelle nera maschere bianche del 1952, Fanon afferma che il negro è un soggetto che non
può essere assimilato, ovvero non può essere pienamente cittadino europeo perché l’ideale di
cittadinanza, tipica del cittadino medio europeo, era legato al jus sanguinis (la convivenza viene
permessa grazie ad una omogeneità fisica fra gli appartenenti). Come scrive Fanon “l’europeo ha
un’idea preconcetta del negro”, ovvero che la sua fisicità rimane un scandalo e la sua diversità
epidermica non può essere né cancellata, né negata. Tuttavia il negro non viene solo violato in
territori altri rispetto alla sua origine culturale, bensì nei luoghi stessi in cui è nato.

Edward Said2
Uno degli studiosi più importanti è lo scrittore palestinese Edward Said, il quale ha parlato di un
vero e proprio progetto culturale dell’occidente dove gli imperi coloniali non erano solo una forma
di dominio militare ed economico, ma rappresentavano, soprattutto, un dominio culturale perché:
gli europei arrivavano nei paesi oggetto della colonizzazione, modificano le loro culture estirpando
tutte quelle culture pagane e considerate sbagliate rispetto alla Verità, che era rappresentata dalla
religione cristiana e dalla scienza, ed infine sottomettevano le popolazioni.
Un ruolo importante in questa storia l’ha svolto la disciplina antropologica, lo scrittore palestinese
Said ha scritto un testo interessante dove affronta lo statuto epistemologico dell’antropologia.
L’antropologia, secondo Said, è una disciplina che ha portato “acqua al mulino del concetto culturale
dell’occidente”, perché gli antropologi erano soggetti che andavano verso altre culture, facevano
una serie di resoconti, poi tornavano nella madrepatria e diffondevano i resoconti delle altre
comunità, contribuendo quindi all’idea che l’occidente fosse civilizzato perché:
 retto dalla religione cristiana, in contrapposizione a tutte le altre religioni;
 titolare della democrazie, mentre nelle altre società vi era un regime monarchico o
dittatoriale;
 caratterizzato dalla scienza.
Quindi secondo Said l’antropologia è stata una delle maggiori responsabili di questo progetto
culturale occidentale.
Nel 1976 Said pubblica “ l’Orientalismo”. Said rappresenta l’Orientalismo come la
rappresentazione dell’oriente che si è fatto l’occidente. Quindi l’orientalismo non è una
descrizione dell’identità dell’oriente, cioè di ciò che noi definiamo oriente, ma è il termine per
indicare la rappresentazione dell’occidente che si è fatto dell’oriente. Il punto su cui Said vuole
attirare l’attenzione è che sono stati in primo luogo gli intellettuali occidentali ad incrementare
questa raffigurazione, soprattutto i grandi filosofi dell’età moderna; ad esempio nella raffigurazione
di Hegel dove l’Europa rappresenta la punta di diamante del gene umano. Quando nell’ottocento
comincia la costruzione degli imperi coloniali, o meglio cominciano ad arrivare sempre più notizie
di queste popolazioni asiatiche, tutti gli autori dell’età moderna cominciano a riflettere su quale
tappa della storia del gene umano queste popolazioni ricadono e sono tappe intermedie rispetto
alla razionalità rappresentata, appunto, dal popolo occidentale. Quindi si legge la storia di questi
paesi a partire dal nostro grado di sviluppo e non dal loro.
Il testo di Said viene molto criticato perché secondo alcuni rischiava di ricadere nello stesso errore
che denunciava, perché se noi diciamo che l’orientalismo è la raffigurazione dell’oriente che si è
fatto l’occidente, stiamo anche noi parlando in primis di occidente. Al contrario molti studiosi (il
primo Montesquieu  prova a mettere in discussione i criteri di verità della società in cui vive)
affermano che in realtà già nell’occidente sono nati storicamente tutta una serie di movimenti che
hanno denunciato questo abuso culturale dell’occidente stesso.
Dipesh Chakrabarty3
Non meno importante, tuttavia, è la scuola dei Subaltern Studies indiani, la quale esponente più
importante è Chakrabarty. Quest’ultima nel volume “Provincializzazione dell’Europa” ha rilevato

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come il colonialismo occidentale abbia prodotto i suoi effetti più distruttivi non solo sul piano
concreto, storico e politico, ma anche su un piano più astratto, relativo alle idee, alla loro storia, alla
percezione del tempo e dello spazio. A questo proposito, Chakrabarty propone la ricerca di una
soggettività propria e autonoma di quei soggetti che hanno subito il dominio coloniale. In questa
direzione si muove la sua proposta di una “provincializzazione” dell’Europa, ovvero respingere la
centralità che il mondo occidentale ha sempre preteso.

Subalterno, differenza e ibridità


Fra i concetti-cardine degli studi postcoloniali si possono considerare tre principali nozioni:
1. idea di subalternità  il concetto di subalterno (origine gramsciana) si riferisce a
colui/colei che si trova in una situazione di assoggettamento e nell’impossibilità di
esercitare appieno la propria libertà. Gramsci, nella sua interpretazione del marxismo,
immagina che la battaglia non è solamente da un punto di vista economico, la lotta di classe,
ma vi è sicuramente una lotta per un’egemonia di tipo culturale; tutti coloro che non sono
egemoni da un punto di vista culturale sono subalterni. I teorici postcoloniali si rifanno a
Gramsci piuttosto che a Marx, perché il concetto fondamentale di Marx è il proletariato; qual
è l’anello debole secondo Marx nella società? Il proletario, in contrapposizione con i
borghesi. Però Marx studiava soprattutto la società inglese della rivoluzione industriale,
dove per la prima volta si costituisce la classe proletaria. Tuttavia soggetti che vivono in
realtà diverse non sanno che farsene della categoria del proletario perché non esiste il
proletario. Quindi la categoria di subalternità di Gramsci è più ampia rispetto alla classe del
proletariato di Marx;
2. idea di differenza per spiegare questo concetto prendiamo in considerazione Anja
Loomba7 che cerca di analizzare la questione della differenza sotto molteplici punti di vista.
L’autrice considera innanzitutto la differenza storica esistente tra epoca coloniale ed età
postcoloniale, caratterizzata, quest’ultima, dal definitivo divenire-uno del mondo, per via dei
continui processi di globalizzazione. In tal senso, l’aggettivo postcoloniale indica una
situazione che si caratterizza per un immediato riferimento al mondo come orizzonte
unitario, seppur differenziato. Inoltre, una delle caratteristiche più interessanti e originali
del testo di Loomba riguarda l’attenzione dedicata alla differenza sessuale, in particolar
modo alla lotta delle donne nere: per richiamare l’attenzione sulla loro posizione
complessa, le femministe nere e postcoloniali hanno dovuto sfidare sia i pregiudizi
razziali tra le femministe, sia la cecità nei confronti della differenza fra i sessi dei
movimenti antirazzisti e anticoloniali. (Loomba)
3. idea dell’ibridità  un’altra categoria importante è quella di ibridità perché ci aiuta a
demolire un altro stereotipo dell’età moderna, ovvero l’idea di soggettività (identità chiusa
in se stessa). Con l’ibridità viene combattuto anche un altro stereotipo che è il concetto di
cultura intesa come entità chiusa in se stessa. Su questa linea si muove Achille Mbembe8 che
nel testo “On the Postcolony” critica i cosiddetti esperti in questioni africane che analizzano
realtà culturali diverse dalle loro a partire da costrutti plasmati sul modello della
civilizzazione occidentale. Tale approccio, tuttavia, mostra limiti evidenti perché gli esperti
occidentali col loro limitato bagaglio categoriale non riescono a comprendere espressioni
umane soggettive, cioè specificità antropologiche e culturali fondamentali per studiare
individui e gruppi umani, nel caso africano non riescono a cogliere le variabili che
caratterizzano la realtà sociale africana.
Inoltre Mbembe afferma che non esiste un’omogenea cultura africana, così come non
esistono culture singole e autentiche. Tutte le culture sono “contaminate” da altri fattori e

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influenze, come ricordava il teorico della società aperta Karl Popper4: una cultura chiusa non è
mai esistita.

Un altro studioso africano molto importante è Valentin Mudimbe5 , il quale ha scritto un


testo molto interessante che si intitola “l’invenzione dell’Africa”. In questo testo l’autore
afferma che in realtà non esiste quest’Africa di cui parlano gli occidentali, perché anche il
concetto di Africa è una costruzione, quindi è necessario, secondo questi autori, provare a
rivitalizzare le culture autoctone che sono state storicamente subordinate a questa
narrazione dominante che è quella dell’occidente. Nel caso specifico di Mudimbe, egli
sostiene che siano stati soprattutto i missionari cristiani ad operare in Africa questa
sottomissione culturale, perché i missionari, sostanzialmente, arrivavano presso queste
comunità locali e deridevano le religioni animiste considerate pagane o addirittura
considerate come il diavolo e quindi come un qualcosa che bisognava estirpare e diffondere,
invece, la verità che per loro coincide con l’annuncio cristiano; ed è quindi il legame tra
religione e verità che è stato il principale veicolo di questa logica violenta. Quest’ultimo è un
altro tema che anche oggi ritorna spesso nei dibattiti, ovvero come può un soggetto, per
esempio religioso, ma non soltanto, che ha un’idea forte di verità riuscire a rispettare gli
altri? Essere tollerante nei confronti degli altri? Se noi riteniamo di essere portatori della
verità significa che gli altri sono nell’errore, quindi è ovvio che se gli altri sono nell’errore io
ho il compito di combattere l’errore e di evitare che si diffonda. Questo è il tipico
atteggiamento che avevano gli europei. Infatti essi andavano nelle altre popolazioni e
distruggevano tutto ciò che non corrispondeva ai criteri morali e cognitivi occidentali.

Tutti questi autori ci portano a riflettere sul concetto di stereotipo. Lo stereotipo è un concetto che
è stato introdotto nelle scienze sociali da Walter Lippman6. Quest’ultimo sostiene che il concetto di
stereotipo ha una funzione utile perché possiamo utilizzarlo come sinonimo di ideologia, nel senso
che la nostra conoscenza nei confronti della realtà non è mai una conoscenza neutrale perché è
sempre filtrata dai nostri schemi conoscitivi, da ciò che noi siamo, dalla nostra storia e dalla nostra
formazione culturale ecc., siccome la realtà è molto complessa non riusciamo a controllare tutte le
informazioni che noi riceviamo, lo stereotipo ha una funzione fondamentale che è quella di
semplificare la realtà. Tramite gli stereotipi noi concettualizziamo la realtà. Il problema è che gli
stereotipi, però, agiscono a livello non razionale spesso e volentieri, ovvero noi senza rendercene
conto adoperiamo degli stereotipi per esempio quando ci rapportiamo agli altri. Quindi da un lato
hanno una funzione positiva che è quella di aiutarci a ridurre la complessità della nostra
esperienza, ma contemporaneamente può avere una funzione negativa perché ci porta a bloccarci e
ad avere dei preconcetti (nel senso negativo del termine).
Quali sono alcune delle battaglie teoriche che questi studiosi, per esempio, portano avanti?
Innanzitutto vi è una ridefinizione del lessico, tutta una serie di termini che sono caratteristici della
filosofia e della cultura occidentale vanno rivisti, perché non possono più funzionare in contesti non
occidentali, soprattutto se siamo interessati a smontare questi stereotipi di cui parlavamo prima.
Ad esempio il concetto di soggetto, per come è stato inteso in età moderna, coincide con il soggetto
bianco che va chiaramente contestualizzato in tutti gli ambiti, così come il concetto di donna. In
sintesi è la categoria della differenza che diventa fondamentale.
Quindi se da un punto di vista teorico vogliamo provare a fare un discorso sistematico su quali
siano le richieste di questi autori postcoloniali possiamo individuare alcuni nodi concettuali:
1. anticolonialismo  cioè il colonialismo occidentale non è stato solamente un’imposizione
economica e militare ma anche di tipo culturale;
2. anti-eurocentrismo  non vi è nessun attore principale della storia e tutti gli altri popoli
sono subalterni;
3. decentramento della cultura occidentale;
4. attenzione alle popolazioni marginali  dobbiamo tenere conto delle popolazioni locali che
non si identificano con l’élite;

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5. religione  visto come un fattore negativo;
6. contro storia  bisogna imparare a scrivere narrazioni diverse rispetto a quelle tradizionali.
Quindi non lo stoicismo europeo, ma abbiamo a che fare con storie diverse.

Gli approcci postcoloniali si misurano con correnti di pensiero già studiate precedentemente:
 teorie di genere  condividono l’analisi del dominio sessuale, culturale e politico;
 multiculturalismo  condividono l’analisi delle pluralità identitarie, intese come costrutti
mobili e non essenzialisticamente determinati, ovvero come un insieme di differenze e
diversità;
 biopolitica  entrambe possiedono un’idea pervasiva e diffusa del potere come un’attività
che connota lo stesso corpo del soggetto assoggettato, ovvero del subalterno a cui non è data
voce.
Sebastiano Maffettone, uno dei filosofi politici più importanti, ha scritto un articolo dove muove una
serie di critiche teoriche contro il paradigma postcoloniale e soprattutto individua un punto
interessante: molti di questi autori postcoloniali incarnano la cosiddetta categoria dell’ibridità, il
problema di questi autori è che si servono di strumenti concettuali elaborati dall’Europa pur
criticandoli.

1. (Fort-de-France, 20 luglio 1925 – Bethesda, 6 dicembre 1961) è stato uno psichiatra, scrittore e filosofo francese, nativo di
Martinica e rappresentante del movimento terzomondista per la decolonizzazione.
2. (Gerusalemme, 1º novembre 1935 – New York, 25 settembre 2003) è stato uno scrittore palestinese naturalizzato
statunitense. Anglista, docente di inglese e letteratura comparata alla Columbia University, teorico letterario, critico e
polemista, è particolarmente noto per la sua critica del concetto di Orientalismo.
3. (Nato il 15 dicembre 1948, Kolkata) è uno storico, che ha anche contribuito alla teoria postcoloniale e studi subalterni. Egli
è il Lawrence A. Kimpton Professor Distinguished Service in storia presso l'Università di Chicago, ed è il destinatario del
premio 2014 Toynbee, che prende il nome il professor Arnold J. Toynbee, che riconosce gli scienziati sociali per i contributi
accademici e pubblici significativi per l'umanità
4. (Vienna, 28 luglio 1902 – Londra, 17 settembre 1994) è stato un filosofo e epistemologo austriaco naturalizzato britannico.
Popper è anche considerato un filosofo politico di statura considerevole, difensore della democrazia e dell'ideale di libertà e
avversario di ogni forma di totalitarismo. Egli è noto per il rifiuto e la critica dell'induzione, la proposta della falsificabilità
come criterio di demarcazione tra scienza e non scienza, la difesa della "società aperta".
5. (Nato l'8 dicembre 1941 Jadotville, Congo Belga) è un congolese filosofo, professore e autore di poesie, romanzi, oltre a libri
e articoli sulla cultura africana e la storia intellettuale.
6. (New York, 23 settembre 1889 – New York, 14 dicembre 1974) è stato un giornalista e politologo statunitense.
7. 7 agosto 1955, Delhi, India , è un critico letterario indiano. Lei è l'autore di critica postcoloniale e lavora come professore di
letteratura presso l' Università della Pennsylvania .
8. è un filosofo camerunese, con PhD alla Sorbonne considerato uno dei più importanti teorici del post-colonialismo viventi. Si
occupa di storia africana, politica africana e scienze sociali. Wikipedia. Data di nascita: 1957, Regione Centrale, Camerun

12 ott. IL MULTICULTURALISMO
Il multiculturalismo o anche inteso come comunitarismo riguarda la societa in cui viviamo. A partire
dagli anni '80, alcuni filosofi comunitaristi negli Stati uniti, incominciarono a criticare il paradigma
dominante ovvero quello liberale, uno tra questi fu Charles Taylor1 di origini canadesi. Vivendo in
Canada, Taylor fu particolarmente attento ai conflitti tra comunita linguistiche differenti come
quella anglofona e francofone, ponendo dei problemi in merito all'ordinamento giuridico. Taylor e
stato considerato come uno dei fautori piu originali del consolidamento teorico-politico della
tradizione pragmatistica. Senza questa specifica attenzione alla nozione di self, non si possono
capire i riferimenti del filosofo canadese alla molteplicita delle identita che coesistono all’interno di
societa dette multiculturali, e alle tematiche politiche piu dirette. L’identita come self indica un
insieme di ruoli e di lealta che ci rendono così come siamo in un processo dinamico e
intersoggettivo di costruzione della nostra personalita e dei legami che ci rendono soggetti di
interlocuzione. In concetto di self indica così l’insieme delle caratteristiche (qualitative, modali e
funzionali), in cui ci si riconosce a seconda di situazioni, contesti e vincoli. Secondo il paradigma
liberale lo Stato deve attribuire eguali diritti e doveri a tutti i cittadini, al di la delle loro differenze di

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religione, culturali e sessuali quindi lo stato deve essere neutrale dinnanzi a tutti i cittadini e sara
compito di ogni cittadino utilizzare le risorse messe a disposizione dallo stato. Secondo l'approccio
dei filosofi multi culturalisti, l'approccio liberale e riduttivo, non e sufficiente trattare tutti in modo
uguale, come avveniva per il femminismo dove le differenze si delinearono in base alla storia di ogni
donna. Lo stesso discorso si puo fare per le culture dove ci sono delle minoranze, poiche una societa
non e considerata giusta solo quando l'ordinamento giuridico garantisce pari diritti a tutti i
cittadini. In questo modo l'evento culturale, ovvero la cultura dove ognuno di noi nasce, non
potrebbe essere davvero valorizzata o discriminata. I multi culturalisti (o comunitaristi), a partire
dagli anni '80, hanno incominciato ad avviare tutta una serie di battaglie culturali, ideologiche e
politiche atte a far riconoscere tutta una serie di diritti e riconoscimenti per le minoranze culturali,
linguistiche, etniche e religiose. Questo dibattito nel mondo della filosofia politica e durato per circa
25 anni, fino ad arrivare ai giorni d'oggi, finendo per esaurirsi nel momento in cui vi fu una sorta di
riavvicinamento tra liberali e comunitaristi. Quest'ultimi hanno avuto un cambiamento, nel senso
che il problema non era tanto meno quello di superare l'approccio liberale per quel che riguarda le
minoranze, ma piuttosto di completare il paradigma liberale. Tra i vari filosofi liberali, va citato Will
Kymlicka2, il quale sostiene che il liberalismo deve essere multiculturale e il multiculturalismo
deve essere liberale, nel senso che la societa puo essere liberale soltanto se garantisce alcuni
principi, in ordine alla preservazione della diversita culturale e se fa delle azioni nei confronti di
questa diversita . Kymlicka individua tre fattori fondamentali:
1. in alcune comunita come quella Americana esistono delle comunita indigene a cui e stata
sottratta la terra (come in Sud America e in Africa), lo stato essendo liberale deve
riconoscere alle minoranze il diritto alla gestione della terra riconoscendo quindi la loro
diversita .
2. Uno stato liberale deve riconoscere le varie autonomie regionali, garantendo la
sopravvivenza delle differenze linguistiche e dando la possibilita di tenere la propria lingua
come quella ufficiale.
3. Una societa per essere veramente liberale deve essere accogliente nei confronti degli
immigrati, poiche una societa che vuole essere aperta nei confronti delle minoranze deve
essere attenta a garantire l'accoglienza agli immigrati.
Kymlicka, quindi ci da una spiegazione finale del dibattito che per anni ha visto contrapposti liberali
e multi culturalisti in tema di diversita . La societa se vuole essere liberale deve essere attenta a
rispettare i tre punti. Il linguaggio non e uno strumento neutrale, ma oltre a distinguere la realta ci
serve anche a dare forma alla realta , ha una funzione normativa, deve dare spiegazione della nostra
esperienza e deve mettere in relazione comunita aventi lingue e culture diverse. Va ripreso per

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tanto il concetto di cultura, inteso in prima analisi come cultura statica, ovvero ogni cultura (es.
Quella italiana, inglese, francese, ecc.) e chiusa in stessa ed esistendo tali culture lo stato cerca di
preservarle ( gli immigrati devono rispettare le culture dei paesi dove si trasferiscono). Questo
concetto di cultura e un concetto abbastanza ingenuo, in quanto le culture servono a relazionare
come ad esempio e stato il caso dell'Italia, dove storicamente vi fu incontro continuo di culture,
pertanto la cultura non puo essere statica ma e in continua evoluzione e una realta in divenire. U n
discorso simile va fatto per il concetto di identità, molte volte si pensa a tale concetto come qualcosa
di chiuso , ma anche esso e continuamente in evoluzione, l'uomo essendo perennemente in contatto
con altri uomini crea delle relazioni. Le relazioni possono essere aperte, chiuse, tolleranti o
conflittuali, ma la creazione della nostra identita e soggezionata da diverse credenze, opinioni e
realta calate all'interno di una prassi linguistica dove vi e la presenza di piu attori: la
famiglia nucleare di appartenenza, i gruppi a cui apparteniamo, la classe sociale, il sindacato
a cui si appartiene e la chiesa che frequentiamo, pertanto siamo identita calate in
diverse reti di comunicazione che rendono la nostra identita plurale. Il primo filosofo a trattare
tali concetti fu il tedesco Ernest Cassirer3, secondo il quale i concetti di cultura e di nazione
sono concetti di relazione che producono un senso. Se facciamo riferimento alla cultura
italiana, dice Cassirer, facciamo riferimento a una certa situazione storico geografica, dove
all’interno i soggetti accettano un insieme di valori condivisi. Questa costruzione simbolica e in
divenire, non e una cosa statica ma che si evolve nel tempo. Per Cassirer quindi, i concetti di
cultura, nazione ed identita sono concetti di relazione. Ritornando al concetto di identita , sorgono
alcune domanda del tipo, possono esistere identita non riconosciute dalle autorita ? Possiamo
essere realmente noi stessi se non siamo riconosciuti dagli altri? Potremmo rispondere
dicendo che siamo noi stessi perche sappiamo di essere diversi dagli altri, ma e sufficiente
questo passaggio? O c’e di bisogno di un riconoscimento formale da parte dell’altro? Il
riconoscimento da parte dell’altro e un passaggio fondamentale per il riconoscimento della propria
identita personale, non a caso durante gli anni ’90 tutta una serie di autori, riprendendo le
ideologia di Hegel, incominciarono a ragionare sulla categoria del riconoscimento. Non
basta essere consapevoli della propria diversita ma e fondamentale il riconoscimento
formale da parte degli altri soggetti, diventando un passaggio fondamentale nella costruzione
dalla propria identita personale. Si entra pertanto nella dinamica sociale e soprattutto politica,
non a caso si fa riferimento teorico ad Hegel, secondo il quale, un passaggio fondamentale e la lotta
“servo – padrone” : il servo diventa tale nella lotta con il padrone e viceversa il padrone diventa
tale nella lotta con il servo. Alla fine della lotta il padrone vince e ottiene lo status di
padrone, ovvero uno status riconosciuto dall’altro, quindi il riconoscimento non per forza avviene in
modo pacifico, anzi molto spesso e conseguenza di un conflitto violento. Un soggetto
viene riconosciuto nella propria alterita dagli altri a seguito di un conflitto, se lo vince, gli
verra riconosciuta una posizione di superiorita , se lo perde dovra riconoscere al soggetto
vincitore una superiorita . Il conflitto sociale, secondo molti autori si instaura perfettamente così ,
ovvero come lotta per il riconoscimento. Le societa si evolvono dal punto di vista morale, perche
gruppi diversi combattono per imporre i propri valori, proprio come affermava Nietzsche secondo
cui i valori non hanno una propria consistenza ontologica, i valori non esistono come esistono gli
oggetti nel mondo reale di cui possiamo avere una percezione sensibile, ma i valori sono cose che
noi imponiamo agli altri a seguito di una lotta storica. Anche il Marxismo aveva questa ideologia,
secondo cui i valori sono imposti dalla classe dominante, ovvero la classe proletaria che,
secondo Marx si sarebbe dovuta imporre fino a affermare i propri valori su tutta la societa . I
valori pertanto, sono frutto di una lotta storica, anche i valori delle minoranze sono conseguenza
di una lotta, come ad esempio furono l’affermarsi dei diritti delle donne come conseguenza di
conflitti storici. Le donne si sono guadagnate un riconoscimento all’interno dello spazio pubblico,
che in passato era accessibile solo all’uomo. Un altra autrice Jessica Benjamin4, afferma che il
riconoscimento da parte degli altri , non e qualcosa che arriva ex post cioe dopo, ma e qualcosa
che e costitutivo, io non esisto solo dopo che vengo riconosciuto, cambia solamente la mia identita
(prima solamente come essere umano e dopo che mi relaziono e vengo riconosciuto, divento un

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nuovo me stesso). Il fatto di nascere non implicava un riconoscimento in passato (come avveniva nel
diritto romano dove si doveva essere formalmente riconosciuto per non essere sottoposti alla
pratica dell’infanticidio). Il riconoscimento e frutto di una costruzione culturale , oggi essendo nati
dopo la convenzione dei diritti dell’uomo e del cittadino, diamo tutta una serie di diritti per
scontato (diritti alla nascita come diritto al nome), mentre in altre societa diverse dalla nostra non e
cosi. Nell’evoluzione storica il concetto di riconoscimento e importante perche ci aiuta non soltanto
ad immaginare ma anche a capire che le culture, le nazioni, le identita non sono statiche ma che per
la loro affermazione vi sono state delle vicende conflittuali, necessarie per la affermazione delle loro
identita e per far si che riconoscano e si rispettino tra di loro. Il concetto d’ identità di gruppo, e un
espressione preferibile rispetto a quella d’ identità collettiva, espressioni che molte volte vengono
utilizzate come sinonimi. E piu importante parlare di identità di gruppo perche dal punto di vista
politico facciamo riferimento a un dato importante, ovvero che all’interno vi sono i singoli individui
che compongono il gruppo, mentre se si utilizza l’espressione di identità collettiva facciamo
riferimento a una sorta di visione olistica, per cui esiste un identita collettiva che ha una sorta di
precedenza ontologica rispetto ai gruppi di appartenenza. E piu importante quando si parla di
cultura (ovvero all’interno del dibattito sul multiculturalismo), utilizzare l’espressione identita di
gruppo sia da un punto di vista descrittivo che da un punto di vista normativo, poiche se si comincia
a ragionare in termini di “gruppo” e in termini di soggetti che lo costituiscono, si incomincia a
riflettere sul fatto che non esistono queste unita olistiche per come spesso vengono immaginate,
(cultura italiana, pagana, cinese, siciliana, ecc.), ma esistono i soggetti che ne fanno parte avendo
una determinata cultura. Un altro concetto su cui riflettere e quello di “minoranza”, anch’esso non e
un concetto statico, ma e un concetto di relazione. La minoranza puo essere identificata, non tanto
come un insieme territoriale, ma come un concetto di relazione su cui far confluire un certo
numero di persone che pensano in maniera differente rispetto alla maggioranza (per esempio sul
tema della morale). Esistono tutta una serie di valori riconosciuti dalla maggioranza su un territorio
e chi non la pensa alla stessa maniera fara parte della minoranza, che non e fissata dal punto di vista
etnico-raziale come spesso si pensa, ma piuttosto da scelte che gli stessi cittadini fanno e pertanto
anch’essa e un concetto relazionale. Come diceva Giovanni Sartori, gli immigrati che arrivano in
una nuova nazione, acquistando la cittadinanza sposando tutta una serie di valori dettati dalla
stessa nazione. Bisogna attribuire al concetto di minoranza un accezione non statica ma di relazione
perche potremmo ritrovarci soprattutto in ambito politico, a discriminare una categoria di soggetti
che non la pensa come la maggioranza e si tende pertanto a etichettarli come minoranza per
escluderli. E sul terreno dei valori che possiamo discernere una minoranza da una maggioranza di
soggetti. Tutti questi discorsi vengono affrontanti, perche se noi guardiamo come negli ultimi 30
anni l’occidente si e posto nei confronti delle minoranze etnico, linguistiche e religiose, emergono
due modelli principali:
1. Dell’integrazione nazionale
2. Delle tessere a mosaico
Il primo modello promuove l’ideale della fusione simbolica delle identita di tutti gli individui, che
sono o aspirano a divenire cittadini, entro una medesima cornice costituzionale e in nome della
condivisione dei principi e delle norme fondamentali a cui il patto costituzionale si ispira; gli stili, le
pratiche e i valori condivisi dalle comunita di origine dei singoli vengono confinati nella sfera
privata . Per capire meglio il modello dell’integrazione nazionale va preso come riferimento il caso
francese e della sua laicita . Esiste uno spazio pubblico, a disposizione del cittadino ed esiste uno
spazio privato. Per quel che riguarda lo spazio pubblico, i cittadini al suo interno devono essere tutti
uguali, mentre nello spazio privato i cittadini possono dare libero sfogo alle proprie differenze
(sessuali, religiose, culturali, ecc.). E’ evidente che vi e una netta separazione tra spazio pubblico
e privato, nella sfera pubblica si e tutti uguali e subordinati alla legge e all’ordinamento
giuridico francese, mentre nello spazio privato vengono manifestate le diversita . La Francia
quindi e un esempio perfetto per spiegare il modello dell’integrazione nazionale, in quando lo
stato e molto rigido su questa separazione, tanto che nel 2005 e stata varata una legge che
vieta di portare simboli religiosi in luoghi pubblici in nome dell’uguaglianza dei cittadini. Il

18
secondo modello si basa

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sulla giustapposizione rigida e statica fra micro-entita comunitarie, considerate come se fossero
tasselli diversi di un unico disegno, ma separati e autosufficienti. Il modello delle tessere a mosaico e
rappresentato dalla Gran Bretagna, nel quale non solo non si richiede una netta separazione tra
sfera pubblica e privata, ma soprattutto dopo una serie di politiche, hanno creato nelle citta tutta
una serie di “mosaici” ovvero dei quartieri, destinati alle varie minoranze garantendo così usi,
costumi e le proprie regole. In entrambi i modelli sono presenti delle problematiche differenti, nel
caso del modello francese l’integrazione nazionale rappresenta qualcosa di troppo radicale, a causa
del concetto di laicita delle istituzioni e della sfera pubblica portando a mortificare le differenze.
Dopo la riforma del 2005, le comunita minori in Francia, come ad esempio la comunita musulmana,
ha criticato fortemente il governo francese, poiche molte donne musulmane non erano intenzione a
non portare il velo nei luoghi pubblici , portando a un effetto contrario di quello che l’integrazione si
era prefissata, ovvero imponendo dei comportamenti discriminanti verso le minoranze religiose.
Interpretare un modello di integrazione in maniera così radicale come in Francia, finisce per poter
mortificare le comunita minoritarie a causa delle loro differenze. Vi sono inoltre altre proposte di
legge provenienti da politici della sfera socialista, volte a porre modifiche in campo degli
“obbiettori di coscienza”. Secondo questi politici, se un medico lavora in una struttura pubblica non
puo essere obbiettore di coscienza, perche se la legge consente l’interruzione volontaria di
gravidanza, il medico non puo opporsi a tale norma, a meno che non lavori in strutture ospedaliere
private religiose (ad esempio cattoliche), contrarie a all’interruzione volontaria di gravidanza. Così
facendo gli stessi medici obbiettori di coscienza affermano che così facendo venga ad essere leso il
proprio diritto all’obbiezione di coscienza, un diritto che costituzionalmente gli e riconosciuto, per
evitare una proposizione di etica di stato che e esattamente l’opposto del liberalismo, ovvero di uno
stato che e neutrale rispetto alle differenze. Questa idea paradossalmente porterebbe a una lesione
della liberta individuale in termini di liberta di coscienza, perche se lo stato chiedendo a tutti di
essere uguali, impone la propria etica di stato. Per quel che riguarda l’esempio del modello a tessera
a mosaico presente in Gran Bretagna, il pericolo e quello di vedere implementare politiche, volte a
disgregare la societa anziche di creare un collante, ovvero il famoso mosaico. In Inghilterra a partire
dal 1996, alcune comunita come quella ebraica o musulmane, nell’ambito dei diritti matrimoniali
possono fare riferimento alla shaaria o alla legge ebraica, riconoscimento che lo stato fa ad alcune
minoranze. Possono derogare rispetto all’ordinamento inglese, forme di diritti matrimoniali diversi.
Tutto cio rispetto al paradigma liberale e abbastanza discutibile, ci sono tutta una serie di
problematiche diverse che si possono venire a creare introducendo elementi di questo tipo, ad
esempio nel mondo musulmano se si da la facolta di sposarsi secondo la shaaria, le donne per
cultura non potranno avere una vita in relazione con altri, non potranno studiare, dovranno stare
chiuse a casa e di conseguenza non si da a loro possibilita di scelta se fare riferimento al diritto della
shaaria o al diritto inglese e quindi di fatto vi e discriminazione, poiche essendo il diritto
musulmano a favore degli uomini, si finirebbe per discriminare le donne, senza che la polizia , la
magistratura possano fare niente in merito. Questa concezione di integrazione porta a creare dei
ghetti, dove i soggetti deboli (come le donne), possono essere discriminati, perche non potrebbero
avere la possibilita effettiva di opporsi alla volonta di altri gruppi. Bisogna incomincia a capire
come interpretare questa societa multiculturale in cui oggi viviamo, non solo come dato di
fatto ma soprattutto come programma politico. Habermas nella meta degli anni ’90, ebbe un
dibattito con Taylor, portatore degli ideali della comunita francofona in conflitto con quella
anglofosa in Canada, cogliendo un aspetto interessante. Habermas sottolinea il rischio che c’e
nel parlare di identita collettiva, poiche se si parla di identita collettiva si finisce per operare una
sorta di reificazione di un concetto, si attribuisce una consistenza ontologica come se esistesse
ugualmente un qualcosa che e la comunita (musulmana, francofona, siciliana ecc), arrivando a un
pericolo. Con questo genere di approccio, se noi riteniamo che la societa multiculturale debba
riconoscere pari dignita a tutte le credenze che esistono, il rischio e che quando questi gruppi
opprimono alcune minoranze (come ad esempio la donna nella comunita musulmana), non
vi sono soluzioni al problema. Stiamo concedendo una superiorita ontologica alla identita
collettiva rispetto al singolo, esistono i diritti

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dei cittadini musulmani e non i diritti delle donne musulmane, non e una differenza di poco conto.
Uno stato liberale riconosce pari diritti e doveri a tutti i cittadini a prescindere dalle differenze
culturali, religiose ed etniche, mentre in ottica multi culturalista, si vorrebbe che lo stato garantisse
diritti alle comunita , intese come entita olistiche ( esiste la comunita musulmana, se poi esistono
poche o molte persone non e importante) quasi come soggetti giuridici. Habermas afferma che tale
situazione e abbastanza rischiosa, perche nel caso in cui avremo a che fare con comunita minori che
opprimo soggetti ritenuti inferiori come donne e bambini, come si potra tutelare tali individui
considerati all’interno stesso delle comunita a cui lo stato garantisce pari diritti e doveri? Proprio
per questo motivo lo stato liberale offre pari diritti a tutti i cittadini e non ai gruppi o entita
collettive, quindi si potra tutelare tutti solo quando a ogni cittadino verranno garantiti diritti
inalienabili. Se invece si attribuiscono diritti alla collettivita , si crea un cortocircuito e una
conseguenza pure piu profonda dice Habermas, perche si continua a vedere le culture in maniera
statica ed essenziale, avendo un atteggiamento quasi da WWF, dove lo stato garantendo le
differenze, gli riconosce vari diritti. Lo stato non si preoccupa che i diritti da esso concessi siano
fruibili da tutti i cittadini in quanto tali, ma si preoccupa che certe comunita o minoranze, abbiano
un riconoscimento formalizzato. Abbiamo un atteggiamento nei confronti delle culture che e
sbagliato, (tuteliamo le culture come vengono tutelate le specie animali) perche le culture si
evolvono in base alle dimensione relazionale e solo se ci sono soggetti che ne fanno parte sono
intenzionati a mantenerle. Habermas, pertanto afferma che e importante concedere diritti alle
persone e usi e consuetudini rimarranno, solo se i soggetti sono liberi di accettare queste pratiche
( come avviene con l’uso del velo delle donne nel mondo musulmano). Per questo motivo dal punto
di vista liberale e importante dare ai cittadini, in quanto tali, determinate liberta e come diceva
Habermas, non riconoscerle soltanto ai gruppi o identita collettive che spesso vengono controllate
in maniera autoritaria. E’ una logica perversa quella che gli studiosi multicuturalisti affermano nel
dire che lo stato debba riconoscere diritti a comunita diverse, la logica liberale e diversa, ovvero che
all’interno di un determinato ordinamento giuridico vengano riconosciuti diritti, liberta e doveri ai
singoli, in quanto sono loro a costituire uno stato e la societa e non i gruppi e le identita collettive.
Per Habermas bisogna pensare in modo diverso sul significato della parola “democrazia”, se si vede
la societa come composta da individui che hanno un rapporto relazionale gli uni con gli altri, i diritti
di cui si parla sono oggetto di una contrattazione o discussione continua ,non solo di cio che
troviamo scritto nella norma, ma su cio che si considera giusto, e frutto di un processo dialogico
della democrazia. I diritti sono un valore d’uso, cio significa che quello che si chiama diritto, e frutto
di una discussione libera su cui convergono infine tutti trovandone il “consenso”. Per H. e l’unico
modo nella società post metafisica, (societa in cui nessuno puo imporre la propria verita ad altri)
per dare legittimita alle leggi pertanto e il consenso a dare la legittimita , bisogna immaginare la
societa come un insieme non di identita collettive, ma di individui che discutono tra loro. Un altro
concetto che H. introduce, e quello di “Patriottismo Costituzionale”, l’autore sostiene che vivendo
in una societa post metafisica, moderna e laica, dove il diritto e la sfera pubblica devono
essere neutrali rispetto alle credenze di ognuno di noi, non si capisce quale sia il collante (cemento)
di tale societa ( in alcuni paesi e la religione, in altri l’appartenenza etnica, ecc.) . In una societa
che vuole essere post metafisica, dove nessuno impone le proprie credenze agli altri, non solo i
diritti vanno intesi valori d’uso, ma si deve avere una sorta di consenso morale., tutti dobbiamo
riconoscerci non in un una religione o appartenenza etnica, ma il collante dello stato e il
sentimento patriottico nei confronti di quei valori costituzionali democratici, nei quali il cittadino si
riconosce e sente legittimo il patrimonio di valori all’interno della costituzione (da qui
l’espressione patriottismo costituzionale). Tale patrimonio di valori che si e affermato nella
realta occidentale dopo le tre famose rivoluzioni storiche (Francese, Inglese ed Americana), ha
portato la civilta occidentale dal punto storico descrittivo, a riconoscere l’importanza del
concetto di “sovranita ” del popolo, di un diritto autonomo rispetto alla religione, di una sfera
pubblica autonoma rispetto alla sfera religiosa. Tutti questi valori che sono diventati
fondamentali costitutivi per la nostra identita di cittadini, devono diventare oggetto di questa
scelta di valori di fondo, ovvero di questo patriottismo

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costituzionale. In alcuni scritti che H. dedica all’Europa e alla costruzione della sua identita europea
negli anni’90, tra cui “L’inclusione dell’altro”, l’autore spiega che ogni individuo non dove chiedere
agli altri di uniformarsi alle proprie credenze in termini religiosi, culturali, astronomici, ecc; ma
bisogna chiedere agli altri di stipulare un accordo a livello costituzionale, sui principi di fondo della
coesistenza democratica ed e questo in punto cardine del futuro dell’Europa. Di recente l’autore ha
scritto diversi articoli in cui sostiene che l’unita Europea sia stata fatta solamente su una base
economica e quindi insufficiente in base al patriottismo costituzionale , poiche tale patriottismo
implica “solidarieta ” in senso sociologico, diversa rispetto alla solidarieta in senso comune, intesa
come il riconoscerci come parte di un tutto insieme agli altri, in quanto condividiamo qualcosa. Si
puo essere solidali solo a patto che vi sia un patriottismo costituzionale di fondo, ovvero vi sia un
consenso di fondo in base ai principi costituzionali dell’Europa, come ad esempio i principi di
libertè, egualitè e fraternite’, quei principi che strutturano la nostra identita di cittadini democratici.
Se noi mettessimo in discussione questi valori di fondo, la societa democratica smetterebbe di
essere tale, se si eliminasse la distinzione tra sfera religiosa e civile evidentemente ricadremmo in
una situazione incompatibile per la democrazia, perche lo spettro di uno stato teocratico dove vige
la legge religiosa evidentemente tornerebbe presente. Il patriottismo costituzionale di cu parla H. e
un aspetto molto interessante se pur prettamente perdente per quel che riguarda l’Europa,
consistente nel ritrovare una comunanza su dei principi giuridici, poiche la quinta essenza della
modernita occidentale e stata quella di rendere autonomo il diritto rispetto alla religione. Non puo
esistere democrazia senza l’autonomia del diritto rispetto alla religione e alla morale. Una posizione
interessante di cui parlare, e quella di Giovanni Sartori, nei primi anni 2000, scrisse un saggio
intitolato “Pluralismo, Multiculturalismo ed estranei”, l’autore ci porta a fare una riflessione dal
punto di vista concettuale, poiche in maniera impropria parlando di pluralismo, multiculturalismo,
differenze tra minoranze di cui vari autori multicuturalisti hanno dibattuto a lungo durante gli anni
‘90, si e fatto un errore concettuale. Si e confuso in concetto di multiculturalismo, con il concetto di
pluralismo, o meglio si e scambiato un dato di fatto con un progetto normativo. Considerato il fatto
che il mondo e ricco di differenze, Sartori afferma che l’errore sta nel passare a un progetto politico
e normativo che tende a valorizzare le differenze di fatto, quindi l’errore dei liberali secondo questa
logica perversa sta nel riconoscere una uguaglianza di tipo formale e di non rendersi conto, che
nella sfera pubblica vanno riconosciute tutta una serie di differenze (per esempio lo sposarsi
secondo il diritto della comunita di appartenenza). L’errore sta nel passare da un giudizio di fatto a
un programma politico, dovuto a un presupposto concettuale, filosofico e culturale di fondo, che e il
“Relativismo culturale”, consistente nel presupposto che siccome esistono differenze nel mondo, non
esiste la verita con la “v” maiuscola che noi possiamo conoscere e addirittura imporre agli altri e
siccome ogni affermazione con tale accezione in campo religioso, culturale e morale diventa una
discriminazione, allora diventa necessario accettare tutte le differenze e valorizzarle. La societa sara
liberale solo se accetta tutto cio che si presenta, perche qualora non accettasse alcune differenze
sarebbe fatta una discriminazione che violerebbe il relativismo culturale come presupposto, ovvero
il fatto che nel mondo ci sono differenze e ognuno la pensa come vuole. Chi siamo noi per imporre
ad altri usi e costumi o imporre ad altri le nostre regole? Chi siamo noi per dire cos’e la verita ? E
sempre frutto di una imposizione culturale, ovvero quella nostra nei confronti degli altri. Oggi
qualsiasi cosa venga detta nei confronti delle minoranze, subito viene percepita e interpretata come
discriminazione dell’altro e questo secondo Habermas, e l’esatta negazione della democrazia.
Sartori afferma che il concetto di multiculturalismo e stato utilizzato in questa concezione
impropria, come programma politico, di valorizzazione senza se e senza ma di tutte le differenze e
lo stato pertanto, per non essere incolpato di intolleranza e di discriminazione , deve riconoscerle e
addirittura valorizzarle. Questo e incompatibile con la vera idea di societa liberale, poiche un
liberale vero non ha problemi con la differenza, proprio perche nell’essere liberale esiste quella
famosa separazione della sfera religiosa da quella politica, ovvero lo stato deve essere neutrale
rispetto alle differenze, ma attenzione bisogna capire quali differenze. E fondamentale riconoscere
uno spazio garantito al singolo individuo, mentre consiste in un'altra concezione il riconoscere

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pratiche che negano diritti degli altri, pertanto bisogna fare attenzione alla valorizzazione di
determinate differenze negative per la societa . Dentro la polemica sul multiculturalismo, secondo
Sartori, c’e esattamente questo equivoco. Un altro importante quesito consiste nel considerare i
diritti umani come universali, il fatto che i diritti siano stati creati in occidente significa che non
siano trasportabili? Ovvero non siano condivisibili da altri? Il pregiudizio che c’e , dietro una logica
multiculturale e che le culture siano universi chiusi, senza comunicare tra di esse e quindi vanno
preservati secondo l’ottica del WWF. Questo e un presupposto sbagliato, mentre secondo il punto di
vista liberale le domande sono altre, si consente al cittadino di vivere come meglio crede purche ,
come dice Habermas, esso manifesti il patriottismo costituzionale, ovvero rispetti il patrimonio di
valori del contesto in cui e inserito. Una cosa e il concetto di multiculturalismo inteso in senso
normativo, ovvero il programma politico da realizzare dove la societa deve arricchire sempre di piu
la propria offerta di culture , opinioni, credenze e quant’altro, mentre un'altra cosa e il pluralismo,
inteso nella tradizione liberale come la separazione della sfera civile e della sfera politica e
ampliamento delle liberta all’interno della societa in cui si vive utilizzandole come meglio si
crede, senza intaccare le liberta degli altri cittadini. Una cosa e essere pluralisti e una cosa e
essere multi culturalisti. La domanda pertanto e quanto una societa puo diventare aperta dei
confronti delle differenze? Ancora oggi si cerca di dare una risposta a tale domanda.

1. (Montre al, 5 novembre 1931) e un filosofo canadese, che si e interessato soprattutto alla filosofia politica e alla filosofia
delle scienze sociali, oltre che alla storia della filosofia. I suoi maggiori contributi riguardano le aree del comunitarismo,
cosmopolitismo e i rapporti tra religione e modernita – in particolare la tematica della secolarizzazione.
2. nato nel 1962) e un filosofo politico canadese piu conosciuto per il suo lavoro sul multiculturalismo e animali etica.
Attualmente e professore di Filosofia e Canada Research Chair in Filosofia politica presso l'Universita della regina a
Kingston, e ricorrente Visiting Professor nel programma di Studi Nazionalismo presso la Central European University di
Budapest, Ungheria. Per oltre 20 anni, ha vissuto uno stile di vita vegan
3. (Breslavia, 28 luglio 1874 – New York, 13 aprile 1945) e stato un filosofo tedesco naturalizzato svedese.
4. (17 gennaio 1946) e una psicoanalista e saggista statunitense. Docente di psicoterapia e psicoanalisi alla New York
University. Nel suo pensiero la psicoanalisi si amalgama, grazie proprio alla prospettiva intersoggettiva, con il pensiero
elaborato dai movimenti femministi.

23
Will Kymlicka, il quale sostiene che il liberalismo

deve essere multiculturale e il multiculturalismo deve essere liberaleindividua tre


fattori fondamentali:

• 1. in alcune comunità come quella Americana esistono delle


comunità indigene a cui è stata sottratta la terra (come in SudAmerica e in Africa), lo stato
essendo liberale deve riconoscere alle minoranze il diritto alla gestione della terra
riconoscendo quindi la loro diversità.

• 2. Uno stato liberale deve riconoscere le varie autonomie regionali, garantendo


la sopravvivenza delle differenze linguistiche e dando la possibilità di tenere la propria
lingua come quella ufficiale.
• 3. Una società per essere veramente liberale deve essere accogliente nei confronti
degli immigrati, poiché una società che vuole essere aperta nei confronti delle minoranze
deve essere attenta a garantire l'accoglienza agli immigrati.

17 ott. JOHN RAWLS


Considerato il filosofo piu importante del 900, (Baltimora, 21 febbraio 1921 – Lexington, 24
novembre 2002). La sua prima opera da analizzare per comprendere pienamente il suo pensiero e
“liberalismo politico” pubblicata nel 1971. il panorama filosofico di quel periodo era molto
particolare, poiche a seguito della svolta linguistica (gia analizzata prima) molti filosofi sostengono
che la filosofia politica sia praticamente morta perche se tutta la nostra conoscenza e filtrata dal
linguaggio e se l'unico discorso dotato di senso e quello scientifico allora ogni discorso che riguarda
i valori ricade sulla semplice scelta razionale di ogni soggetto. Si e dunque pensato che la filosofia
non avesse piu nulla da dire sui valori razionali ma si dovesse solamente occupare di stabilire il
modo di parlare di questi valori (analisi solo linguistica ma non sostanziale). Per l'indagine
sostanziale si riteneva adatta solo la scienza politica. Nella sua opera “Teoria della giustizia” egli
rilancia l'idea di una riflessione filosofica in grande stile (secondo la visione classica di Bobbio e
cioe filosofia come approccio normativo, cercando di dare un'idea di come deve essere la societa ). Il
tema che lo interessa e quello della giustizia. Cosa significa che una societa e giusta? (es. Platone
sosteneva che una societa giusta era una societa governata dai filosofi, poiche portatori di verita ).
Nel mondo anglosassone, in quel periodo, il paradigma dominante era quello dell'utilita (piu una
cosa e utile alla maggioranza, piu e giusta). Secondo Rawis questo approccio presenta molti limiti,
poiche non e detto che una cosa utile alla maggioranza sia utile anche ad una minoranza. Dunque
egli, rifacendosi a Kant, propone un modello teorico valido per tutti (razionale) non basato sulla
soggettiva interpretazione (che non tenga conto delle personali inclinazioni).
La giustizia non puo coincidere con quello che i piu forti decidono (visione kantiana moderna).
Rawis propone allora un esperimento mentale, propone una proposizione originaria e cioe
un'assemblea costituente ideale in cui le parti che la compongono sono coperte da un velo di
ignoranza che nasconde tutti gli esiti della lotteria naturale (cioe non sapranno la natura sessuale
che avra nel mondo, il suo colore della pelle, ecc.) e della lotteria sociale(ignorera cioe il suo ruolo
nella societa futura, ecc.). Cio evitera condizionamenti nei principi generali di giustizia.
Immagina pero che le parti mantengano dei poteri morali:
o il senso di giustizia (mi fido degli altri, perche sceglieranno tutti per il bene);
o la teoria parziale del bene (interesse ad avere garantita la percentuale piu alta di beni
primari, cioe diritti, doveri, opportunita , ricchezza ecc.;
o il rispetto di se , che e un concetto fondamentale in Rawis. Nell'ingiustizia infatti la gente

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perde il rispetto di se stesso (es. smettere di cercare lavoro, ecc.) nel modello ideale invece a
tutti egarantito il rispetto di se stesso.
In questa situazione quali principi razionali (e uguali per tutti) verrebbero scelti? Secondo Rawis si
avrebbero 2 principi di gerarchici (il primo piu importante del secondo):
1. LIBERTA' (tutti dobbiamo godere delle stesse liberta e degli stessi diritti). Questo principio e
razionale perche così mi tutelo nel caso in cui io mi trovi nel caso peggiore una volta scoperta la
propria lotteria. Mi garantisce quindi tutela in ogni caso e tendo a tutelarmi nel caso peggiore;
2. DIFFERENZA e razionale perche mi garantisce che nel caso in cui nella lotteria abbia capacita
maggiori possa aspirare a qualcosa di piu elevato.
Affinche il principio di differenza sia applicabile occorrono 2 condizioni:
1. queste diseguaglianze devono essere frutto di una libera competizione ma su uguaglianza di
opportunita (equa opportunita e concorrenza);
2. nel lungo periodo queste diseguaglianze devono tornare utili anche alla parte piu bassa della
societa , cioe ai meno avvantaggiati. Perche questa situazione non puo creare polarizzazione
di ricchezza (troppo poveri e troppo ricchi). Dunque anche poveri devono essere messi nelle
condizioni di migliorarsi.
Questa visione, come gia detto si ispira fortemente a Kant, che aveva anch'esso cercato di
razionalizzare (attraverso il famoso imperativo categorico che rispondeva alla domanda: “il tuo

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comportamento e universalizzabile?”) questo test era utile a non far cadere la giustizia sotto
inclinazioni personali (quando fai una cosa chiediti cosa succederebbe se tutti facessero la stessa
cosa).
Secondo Rawis la proposizione originaria e una riproposizione procedurale del modello teorico
kantiano. Infatti egli ritiene i principi di giustizia come imperativi categorici che vanno rispettati
perche giusti, sono universalizzabili.
I soggetti della proposizione originaria sono soggetti autonomi dal punto di vista morale cioe sono
in grado di sottomettersi ad una legislazione universale, proprio come riteneva Kant. Gli animali ad
esempio non possono fare questo perche agiscono secondo istinto, l'uomo invece e
autonomo perche capace di poter fare il test dell'imperativo categorico.
Rawis dunque rilancia una nuova discussione oggettiva della/sulla morale.

19 ott. LIBERALISMO POLITICO


Rawls per posizione originaria intende interpretazione procedurale delle nozioni kantiane di
autonomia e imperativo categorico, sostanzialmente Rawls intende con questa espressione che
l’operazione che Kant aveva fatto nel campo della filosofia morale, ovvero, l’operazione di
sottoporre la propria massima al test dell’imperativo categorico, sostanzialmente viene trasferita
alla posizione originaria nel suo insieme, cioè non è più il soggetto che da solo, come voleva Kant, fa
il test dell’imperativo categorico, ma il modo di elaborare e trovare dei principi di giustizia che
abbiano un fondamento razionale viene affidata a questa situazione collettiva che chiamiamo
posizione originaria, in cui le parti avvolte dal velo di ignoranza guidate dal senso di giustizia e
guidate da una teoria parziale del bene si ritrovano a scegliere insieme questi due principi, ovvero,
il principio di libertà e il principio di differenza, questi principi hanno uno statuto analogo a quello
dell’imperativo categorico di Kant, cioè sono degli imperativi assoluti, ciò significa che vanno seguiti
“senza se e senza ma”, al contrario degli imperativi ipotetici. I principi di giustizia sono oggetto di
una scelta razionale, cioè la ragione per cui noi dobbiamo seguire questi principi è una motivazione
di tipo razionale, che viene supportata da argomenti e giustificazioni razionali. In ossequio a Kant
Rawls vuole che i principi di giustizia non siano scelti sulla base di quelle che sono le nostre
personali preferenze in ordine al bene e ai valori, quindi non deve essere la nostra visione del
mondo a farci scegliere ciò che è giusto o ciò che è sbagliato, ma deve essere un’argomentazione
razionale, cioè un’argomentazione che possa essere condivisibile da tutti, questo è il fulcro di un
approccio neokantiano come quello di Rawls. Il primo concetto sul quale dobbiamo riflettere è il
concetto di giustificazione, un concetto fondamentale in filosofia politica, cioè quando noi
discutiamo nell’arena pubblica in ordine a un qualunque argomento dobbiamo portare delle
giustificazioni, non abbiamo a che fare con teorie scientifiche dinanzi alle quali noi possiamo
scegliere qual è migliore perché spiega meglio come funziona il mondo, quando abbiamo a che fare
con questioni politiche o morali manca questo terreno comune che ci permette di scegliere tra
un’opzione ed un'altra, perché quando abbiamo a che fare con questo tipo di questioni abbiamo a
che fare con il senso che noi diamo alla nostra esperienza, qui entrano in campo le nostre visioni
profonde, quindi diventa un problema di giustificazione, ovvero, ciò che è più giusto e giustificabile,
non ciò che è più corrispondente all’ordine del mondo come voleva la filosofia antica, ma sono gli
argomenti che trovano una giustificazione migliore rispetto ad altri. Non si parla più di verità, ma
di giustificazioni e visioni più giustificate rispetto ad altre. Dopo la pubblicazione nel 1971 di
quest’opera, TEORIA DELLA GIUSTIZIA, si scatena un grande dibattito nel mondo anglosassone che
poi arriva anche in Europa, perché quest’opera suscitò subito una serie di obbiezioni, che possiamo
raggruppare in tre grandi categorie. Da un lato abbiamo le critiche dei pensatori cosiddetti

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comunitaristi, che sono molti attenti alla dimensione della comunità, per loro il soggetto non è mai
meramente razionale, ma il soggetto è sempre un “self”, un qualcosa che è calato all’interno di una
comunità di appartenenza perché noi cresciamo all’interno di reti di appartenenza come la famiglia,
le scuole, le chiese, le associazioni, la comunità politica nel suo complesso, quindi questi autori sono
molto attenti alla dimensione dell’ethos, cioè l’insieme dei valori e delle credenze condivise da un
certo gruppo che si identifica come comunità, non come un mero gruppo di persone mosse da
interessi individuali, che possono essere in conflitto tra loro ma piuttosto i comunitaristi sono
interessati a questa dimensione della comunanza di credenze e di valori che fa si che un gruppo
diventa una comunità. Questi autori contestano alla teoria della giustizia di Rawls la matrice
liberale di questa teoria, cioè contestano il fatto che Rawls ci parla sostanzialmente di individui, di
individui che nella posizione originaria sono avvolti da un velo di ignoranza e che devono stabilire i
principi di giustizia, per Sandel questa è un’astrazione, perché non esiste questo concetto di
individuo, perché è una costruzione artificiale, non è possibile costruire una situazione empirica
reale nel quale i soggetti ignorino gli esiti della lotteria sociale e naturale, perché a questo punto
non avremmo più a che fare con persone in carne ed ossa ma con costruzioni evidentemente, tutti
saremmo uguali, perché se ignoriamo gli esiti della lotteria sociale e naturale siamo tutti uguali,
perché ciò che ci distingue è il fatto che alcuni sono bianchi, alcuni sono atei, alcuni musulmani ecc..
proprio tutto ciò che Rawls vuole impedirci di conoscere ai fini della scelta dei principi di giustizia.
Il secondo punto che criticano i comunitaristi concerne il farro che Rawls sostiene che sia possibile
scindere le questioni di giustizia dalle questioni riguardanti il bene, per i comunitaristi questo non è
possibile perché ciò che noi riteniamo essere giusto dipende dalla nostra concezione del bene,
questa è la seconda accusa che fanno.
Anche all’interno della tradizione liberale Rawls ha ricevuto diverse critiche, qui possiamo
introdurre una distinzione, fra il liberalismo di destra e quello di sinistra, Rawls lo inseriamo
all’interno della corrente di sinistra, perché il tema della giustizia e dell’equità in lui è molto forte,
mentre ci sono molti liberali come Nozik che possiamo inserire nella corrente di destra i quali non
condividono l’aspirazione di Rawls della giustizia sociale, contestando il fatto che i liberali di
sinistra si siano un po’ “imbastarditi” con le idee politiche di provenienza comunista ma soprattutto
socialista, quindi al tema della giustizia distributiva, cioè al fatto che tutti dobbiamo avere una
quantità di beni “giusta “e non frutto di arbitrio. Robert Nozik1 legge una teoria della giustizia e 3
anni dopo, nel 1974,pubblica un’opera intitolata ANARCHIA,STATO E UTOPIA, in questo libro
emerge la tesi fondamentale di Nozik, lui richiamandosi alla visione liberale classica, che inizia dalla
riflessione di John Locke, dice che se io lavoro sono proprietario dei frutti del mio lavoro, nessuno
se ne può appropriare, soprattutto lo Stato, qui si annida la differenza tra i liberali di destra e i
liberali di sinistra, perché i liberali di sinistra come è abbastanza evidente nel caso di Rawls si
pongono il problema dello Stato, addirittura Rawls parlava della natura cooperativa della
società/Stato, quindi tutti dobbiamo prenderci cura degli altri, il principio di differenza aveva
proprio questa funzione di limitare gli effetti perversi della disuguaglianza e della logica del
mercato, è proprio questo il punto su cui Nozik non è d’accordo con Rawls. Il ragionamento che fa è
il seguente: se noi escludessimo un modello di tipo comunista, quindi non esisterebbe più un libero
mercato, non esisterebbero più diritti naturali, in primis il diritto di proprietà, quindi tutto
verrebbe regolato dallo Stato, una volta che noi mettiamo da parte questo modello e scegliamo un
ordinamento di libero mercato, dobbiamo tirare anche delle conseguenze logiche evidentemente.
Secondo Nozik le conseguenze sono che se noi abbiamo una libera competizione disciplinata da
regole, gli esiti della competizione devono essere considerati legittimi, quindi se noi accettiamo che
la società sia organizzata sulla base del libero mercato, quindi sull’idea della competizione, l’idea
stessa di giustizia sociale è un miraggio, come dice un altro liberale di destra che si chiama Aiech,
perché se c’è una libera competizione come quella del mercato come possiamo dire che gli esiti
siano ingiusti ? è chiaro che ci saranno alcuni imprenditori che prevarranno rispetto ad altri, perché
è la logica stessa del mercato. Quindi non si può tirare in ballo una categoria morale come quella
della giustizia sociale quando abbiamo a che fare con una libera concorrenza, ecco perché i liberali

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di destra considerano i liberali di sinistra come Rawls come dei liberali che sono stati contaminati
dalla “malattia “comunista e socialista, perché inseriscono il tema della giustizia sociale, che è un
tema che fu posto a partire dall’800 proprio da Marx e dai socialisti utopisti, il sistema della
ripartizione uguale delle risorse, ovvero, tutti dobbiamo essere uguali, l’uguaglianza non
meramente formale, ma l’uguaglianza sostanziale, questa era la grande battaglia di Marx. Quindi
tutte quello che Rawls dice ai fini del raggiungimento della giustizia sociale, per Nozik sono
inaccettabili, perché è inaccettabile il punto di partenza, cioè l’idea che lo Stato debba intervenire
per temperare e mitigare i risultati del mercato che sono considerati come ingiusti, perché se lo
Stato cominciasse a interferire nella logica del mercato porrebbe solamente un limite alla crescita
del mercato. Per esempio i liberali di destra contestano le politiche fiscali e tributarie volte a colpire
coloro che hanno più rispetto ad altri, dicendo che chi ha di più è perché è stato più bravo rispetto
ad altri e quindi se l’è guadagnato, quindi non ha senso punire i soggetti che hanno guadagnato di
più rispetto ad altri attraverso delle politiche fiscali oppressive nei confronti di questi soggetti,
perché potremmo avere degli effetti perversi. In definitiva i liberali di destra vogliono dire che più
lo Stato interviene nella società per creare una giustizia sociale più c’è il pericolo di effetti perversi,
perché più Stato significa più ,più politica significa più regole, più regole significa più limitazioni alla
libertà delle persone. La terza critica è quella mossa da un punto di vista femminista, nello specifico
c’è stata una studiosa di nome Hokin, la quale sostiene che nella teoria della giustizia manca il tema
della differenza di genere, perché gran parte delle ingiustizie a livello politico che troviamo nella
società degli anni 70 non vengono risolte dal paradigma della teoria della giustizia, perché uno dei
temi fondamentali è proprio quello della discriminazioni di genere, che non viene minimamente
affrontato da Rawls, perché una teoria della giustizia non affronta il tema della famiglia che è il
luogo principale in cui nasce la questione di genere, perché la nostra sensibilità morale nei
confronti della differenza di genere nasce innanzitutto in famiglia dove c’è una rigida separazione
dei ruoli tra maschio e femmina, quindi secondo la Hokin è proprio qui che bisogna cominciare a
riflettere per modificare la discriminazione di genere. Rawls in un saggio pubblicato negli anni 90
menziona questa critica della Hokin dicendo che anche se è vero che in una teoria della giustizia lui
non ha parlato del tema della famiglia, ma non l’ha neanche esclusa. Quindi queste sono le tre
grandi critiche che vengono fatte a una teoria della giustizia di Rawls, a questo punto Rawls
comincia a riflettere, in quanto per indole era un soggetto molto autocritico. A questo punto lui
nella prima metà degli anni 90 pubblica la sua seconda grande opera che si intitola LIBERALISMO
POLITICO, Rawls si è reso conto che nell’impianto generale della teoria della giustizia c’era un
errore, un errore che era contenuto nella terza parte dell’opera, lui precedentemente immaginava
che la teoria della giustizia diventasse una concezione generale del bene, quindi ci sarà una società
che da un punto di vista morale riterrà corretti i due principi di giustizia, ovvero il principio di
libertà e di differenza. Rawls dopo vent’anni si rende conto che questa concezione è errata perché
se si realizzasse veramente ciò che lui aveva previsto si finirebbe per avere una società non
pluralista con un’unica concezione del bene, quindi cambia idea su questo punto perché da liberale
dice che nella società noi abbiamo una differente percezione di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato,
quindi il pluralismo è una ricchezza della società in cui noi viviamo, quindi di conseguenza
l’obbiettivo di Rawls deve cambiare rispetto a prima, perché mentre una teoria della giustizia era
un’opera di filosofia morale, liberalismo politico è un’opera di filosofia politica come lui spiega nelle
prime pagine del libro. Può essere considerata un’opera di filosofia politica perché il tema al quale
Rawls si interessa è quello della stabilità sociale, la domanda alla quale vuole rispondere Rawls
diventa : quali soni i criteri grazie ai quali noi possiamo veramente garantire che una società
caratterizzata da un pluralismo sia stabile nel tempo, senza degenerare in un conflitto ? Nella sua
nuova opera Rawls parte dal presupposto che nel mondo esiste un fatto incontestabile, ovvero, il
pluralismo, nel senso che noi abbiamo opinioni diverse su tutto, quindi preso atto dell’esistenza del
pluralismo bisogna capire quali siano i criteri di giustizia che possano consentire la stabilità di una
società. C’è un secondo passaggio importante, Rawls nel suo libro è interessato alla concezione
politica, cioè lui presenta il liberalismo non come una concezione generale del bene e del mondo

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come quella kantiana e di altri liberali, ma esclusivamente come una concezione politica, quindi
questo libro non si basa su una visione metafisica (al di là della natura) della realtà. Le due idee
fondamentali di Rawls per rendere una società stabile in presenza di un pluralismo, ruotano
intorno a due concetti fondamentali che sono : consenso per intersezione e il concetto di ragione
pubblica. La sfida di Rawls è riuscire a dimostrare che anche se siamo in presenza di un pluralismo
all’interno della società è possibile trovare un accordo su alcuni principi politici di base,
fondamentalmente è in questo che consiste il liberalismo politico, quindi ancora una volta Rawls
sostiene la sua tesi di fondo, precedentemente espressa nella teoria della giustizia, ovvero, è
possibile scindere questioni attinenti al bene, cioè le nostre visioni del mondo, dalle questioni
politiche, cioè le questioni di giustizia. Secondo lui era possibile da un punto di vista empirico è
possibile riuscire a trovare questo accordo in ambito meramente politico, quindi il consenso per
intersezione è questo accordo che noi riusciamo a trovare sui principi di base della società, non su
tutto quello che riguarda la politica ma solamente sui principi di base, per esempio i principi
costituzionali. La caratteristica di questo consenso per intersezione è che deve essere un consenso
di tipo morale e non un semplice modus vivendi, che in sintesi significa che io sto in accordo con un
altro fino a quando mi conviene . Il consenso per intersezione invece è qualcosa di diverso, il
consenso che noi diamo sui principi base della società deve essere un consenso di tipo morale,
ovvero, la sfida che ci propone Rawls è di provare a immaginare un compromesso sui principi
politici che non vengono messi in discussione ogni qualvolta le elezioni politiche decretano la
sostituzione di una maggioranza come un’altra, quindi non si possono cambiare le regole del gioco
quando si vincono le elezioni, perché le regole del gioco rappresentano la base stessa del confronto
democratico, quindi per cambiare le regole del gioco ci deve essere un consenso di fondo a livello
parlamentare e della società nel suo insieme. Alla luce di tutto questo Rawls sostiene che il
consenso per intersezione deve avere un consenso morale, solo così è possibile immaginare una
società in cui c’è un pluralismo che emerge nel momento elezioni politiche, in cui ognuno vota per il
partito che rappresenta meglio i suoi ideali, ma questo pluralismo non divento un elemento di
instabilità per la società. Il consenso per intersezione si basa su un’altra idea importante, l’idea che i
valori politici non sono dei valori già presenti a priori nella società, che noi dobbiamo riconoscere,
come diceva Platone, ma i valori politici sono esito di una costruzione che facciamo tutti insieme,
questa idea prende il nome di costruttivismo politico. La seconda idea importante è quella di
ragione pubblica, per Rawls la ragione pubblica è una ragione che riguarda la sfera pubblica, cioè i
cittadini che ragionano insieme ad altri, è una questione che riguarda l’ambito del politico, quindi
questioni che riguardano tutti, perché nelle società pluralistica dice Rawls esiste innanzitutto una
cultura di sfondo, se c’è un pluralismo in una società esistono più visioni del bene, qualsiasi
interesse che possa essere condiviso appartiene alla cultura di sfondo di una società liberale.
Ognuno di noi fa parte di un’associazione, di un gruppo, di una chiesa, quindi dice Rawls che in
realtà la ragione privata non esiste, ma esistono in genere ragioni non pubbliche, cioè le ragioni
delle associazioni in cui noi ci riconosciamo, di conseguenza il nostro modo di pensare dipende dal
gruppo al quale apparteniamo, quindi nella cultura di sfondo di una società pluralistica esistono
tante ragioni non pubbliche, per esempio la ragione dei sindacati, la ragione di confindustriale
ragioni dei partiti, quindi ogni qualvolta ci sono degli interessi collettivi nasce una ragione non
pubblica. La ragione pubblica invece è l’opposto della ragione non pubblica, perché la ragione
pubblica dovrebbe essere una ragione che riguarda tutti a prescindere dal punto di vista all’interno
del quale ci situiamo, cioè la ragione non pubblica che condividiamo. In liberalismo politico il
titolare della ragione pubblica sono tutti coloro che appartengono alle istituzioni, per esempio i
giudici, i politici, tutti i funzionari della pubblica amministrazione perché se siamo in ambito
giudiziario per esempio il giudice deve valutare sulla base delle leggi, non può valutare in base a
quella che è la sua concezione personale del bene, per questo Rawls dice che negli Stati Uniti
l’organo che incarna la ragione pubblica è la Corte Suprema. Quindi nella società immaginata da
Rawls noi abbiamo una cultura di sfondo che coincide sostanzialmente con la società civile,
abbiamo tante ragioni non pubbliche e poi c’è invece il piano della ragione pubblica che riguarda

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soprattutto la Corte suprema nel caso statunitense, ma in realtà anche i politici dovrebbero essere
così, cioè un parlamento non dovrebbe fare una legge semplicemente a colpi di maggioranza,
perché i parlamentari rappresentano la nazione, questo è affermato anche nella Costituzione
italiana, dove troviamo il divieto del vincolo di mandato, quindi il politico dovrebbe provare ad
assumere il punto di vista della nazione nel suo insieme, chiaramente questo è più difficile farlo,
quindi per Rawls sia il politico che il giudice dovrebbero tendere ad assumere il punto di vista della
razionalità pubblica, che non è un punto di vista sostanziale ma formale, cioè dovrebbe
accompagnare il modo in cui noi affrontiamo i problemi politici. Il concetto di ragione pubblica però
è stato oggetto di molte critiche, perché è difficile immaginare che i soggetti, tra cui gli stessi giudici,
possano riuscire a mettere da parte le loro convinzioni profonde su quelle che sono le questioni
politiche più importanti. Quindi l’idea di ragione pubblica per come Rawls ce la presenta parte dal
presupposto che sia possibile scindere le questioni di giustizia dalle questioni relative al bene, però
non tutti sono convinti che questa cosa sia possibile ed effettivamente con il passare del tempo da
un certo punto di vista anche Rawls si convince di questo, perché mentre nel liberalismo politico lui
diceva che anche i cittadini hanno l’onere della ragione pubblica, per esempio quando si va a votare
secondo Rawls noi non possiamo votare in base al nostro personale tornaconto perché il voto non è
una questione privata, i cittadini dovrebbero provare a porsi dal punto di vista della ragione
pubblica. In un articolo che Rawls pubblica pochi anni prima di morire, troviamo l’idea di ragione
pubblica rivisitata, quando parla delle categorie di soggetti che devono onorare la ragione pubblica
non menziona più i cittadini, quindi è come se si fosse convinto del fatto che è un onere cognitivo
eccessivo, ritornando all’esempio del voto, chiedere al cittadino quando va a votare mettere da
parte la propria concezione del bene. Questa esclusione del cittadino apre tutta una serie di scenari
perché è chiaro che nell’ambito della discussione pubblica ci sono molti margini di manovra
affinché le ragioni non pubbliche a questo punto vadano a influenzare le nostre scelte politiche,
quindi bisogna riporsi la domanda da cui siamo partiti : è possibile scindere le questioni di giustizia
dalle questioni profonde sul bene, sulla nostra visione del mondo ? Secondo alcuni questo non è
possibile, però Maffettone immagina un escamotage teorico, una sua interpretazione del testo di
rawls,lui ragiona su un dato dicendo che in realtà Rawls ci parla del liberalismo su due piani
differenti ovvero, sul piano della giustificazione e sul piano della legittimazione, cioè, una cosa è
dire che io sono un liberale perché non esiste una verità assoluta, quindi in base a una teoria
metafisica, una cosa invece è dire, io sono liberale perché l’insieme dei principi per esempio della
cultura politica liberale potrebbero essere accettati da tutti, anzi noi sperimentiamo concretamente
che quando uno vive all’interno della società liberale in realtà si rende conto che sono i principi
migliori. Il primo tipo di discorso agisce sul piano della giustificazione filosofica, cioè io giustifico il
liberalismo come teoria generale, mentre il secondo tipo di discorso si muove sul piano della
legittimità politica. Maffettone sostiene che la teoria di Rawls agisce su questo secondo piano,
quella della legittimazione, cioè ogni qualvolta le persone si trovano a vivere all’interno di una
società politica in cui i valori costituzionali sono valori di tipo liberale, tipo riconoscimento
dell’uguaglianza formale, separazione tra sfera religiosa e sfera politica, tutti i cittadini ragionevoli,
cioè aperti al dialogo, manifestano un consenso nei confronti di questi principi, naturalmente un
cittadino fondamentalista evidentemente non accetterà alcuni principi di matrice liberale, tipo la
separazione tra sfera religiosa e politica. Secondo Maffettone questo consente a Rawls di
recuperare la dimensione storica della nostra esistenza, perché questi principi politici non vengono
calati dall’alto, ma si sono affermati nel corso del tempo con le lotte che noi uomini abbiamo fatto
nel corso della storia, pensiamo alla battaglia in nome della libertà religiosa che nasce a seguito
della riforma protestante, o alle battaglie combattute negli Stati Uniti per la liberazione dalla
segregazione raziale, tutte queste battaglie storiche hanno modellato il nostro senso di giustizia e
che ci hanno fatto convergere verso dei principi senza i quali noi ci sentiremmo privi di una tutela
potremmo dire, in ordine all’esercizio della nostra stessa libertà. Rawls dice che la sua non è una
visione comprensiva del bene, perché la sua è una visione politica. Le critiche sono state tante,
perché c’è l’idea che sia possibile separare il bene dal giusto, e non tutti sono d’accordo,

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complessivamente rimane l’idea di chi non si riconosce nell’idea di Rawls del carattere
eccessivamente astratto della sua teoria, è importante il tema della legittimazione politica, perché
sostanzialmente Rawls ci vuole dire che ognuno di noi ha una sua verità profonda però se
accettiamo il fatto del pluralismo, e quindi ci riconosciamo tutti diversi e di conseguenza anche
legittimati a pensare una cosa diversa rispetto agli altri, allora dice Rawls che dobbiamo accettare le
procedure democratiche. Quindi la stabilità è un tema squisitamente politico, dobbiamo riuscire, se
vogliamo essere veramente liberali, a scindere la nostra idea di verità rispetto alle questioni
politiche, quando abbiamo a che fare con l’ambito politico, abbiamo a che fare con soggetti che la
pensano in maniera diversa, quindi dobbiamo essere pronti a mettere da parte la nostra verità, ecco
perché Habermas in uno scambio storico che ebbe con Rawls diceva che la sua teoria avrebbe
funzionato soltanto per soggetti che erano già liberali, non può funzionare con un soggetto che non
è liberale e che non è pronto a scindere le questioni relative alla sua verità rispetto alle altre
questioni, per esempio un fondamentalista religioso, non accetta una separazione tra sfera civile e
sfera politica, quindi un soggetto di questo tipo non può ragionare secondo lo schema rawlsiano,
però anche qui Rawls dice che è un problema di prospettiva storica, perché secondo lui più un
soggetto vive all’interno di un certo contesto più è possibile che possa maturare una sensibilità
verso il consenso per intersezione, perché si renderà conto che i principi liberali gli consentiranno
di vivere come meglio crede, il problema è non imporre le proprie credenze ad altri, questa è la
sfida che sta dietro il progetto di Rawls.

1. (New York, 16 novembre 1938 – Cambridge, 23 gennaio 2002) è stato un filosofo e insegnante statunitense
dell’università di Harvard, esponente del libertarianismo e del miniarchismo, distanziandosi sia dalla scuola austriaca, sia
dall'anarco-capitalismo di Murray Rothbard che da altre correnti

24 ott. LA SCUOLA DI FRANCOFORTE


Introduciamo il discorso su Jürgen Habermas, l’etica del discorso e la democrazia deliberativa.
Habermas è un personaggio abbastanza importante, tutt’ora vivente di circa 90 anni, ed appartiene
ad una prestigiosa tradizione che è quella della cosiddetta Scuola di Francoforte: una serie di autori
molto famosi, come Herbert Marcuse, Max Horkheimer, massimi sociologi e filosofi del ‘900. Si
tratta di una tradizione di ricerca che cerca di “aggiornare” la tradizione del Marxismo, un pensiero
di sinistra che pone una serie di critiche puntuali nei confronti del capitalismo, della società di
massa novecentesca, del liberalismo.
Questa tradizione include diverse fasi:
- I generazione dei teorici critici (si chiama Teoria Critica della scuola di Francoforte) al quale
appartengono i nomi citati sopra;
- II generazione: allievi un po’ più giovani tra cui Habermas;
- III generazione;
- IV generazione: allievi ancora più giovani.

C’è un filo conduttore, una serie di idee, che dai fondatori di quest’approccio arrivano sino ad oggi.
Il centro è stato proprio Francoforte dove il fondatore di questa scuola, Max Horkheimer, diede vita
all’istituto per la ricerca delle Scienze Sociali. Un istituto con una sua rivista, dove tutti gli
intellettuali collaboravano per studiare un po’ la società contemporanea, in particolar modo il modo
in cui il capitalismo influisce nella società, l’esperienza ovviamente del Nazismo fu motivo di grande
disputa intellettuale, tutto all’insegna di un orientamento in senso lato Marxista, almeno nelle sue
prime manifestazioni.
Ci sono alcuni aspetti che accomunano un po’ questi autori: innanzitutto il riferimento al Marxismo;

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un altro fattore su cui bisogna riflettere è la tradizione ebraica. Molti sono di origine ebrea che
durante le persecuzioni naziste furono costretti ad emigrare, molti di loro andarono negli Stati
Uniti. Tornarono alla fine della guerra, ricostituirono l’Istituto e cominciarono a lavorare
ragionando sul nuovo ordine che si era venuto a creare dopo la caduta del totalitarismo di destra e
sul nuovo ordine globale che si venne a creare dopo la Seconda Guerra Mondiale.
A noi interessano gli aspetti filosofici per capire perché Habermas arriva a sviluppare un certo tipo
di discorso sulla democrazia e sulla società nel suo insieme.
Dal punto di vista filosofico siamo in presenza di una Teoria Critica: questi autori non hanno come
compito quello di fornirci una metafisica, una visione generale della realtà, non devono descriverci
in positivo ciò che è la società o come dovrebbe essere. Ma la Teoria si pone come critica, nel senso
che il momento intellettuale è un tentativo di criticare la società, cioè vedere dove una serie di cose
della società creano delle contraddizioni che danno origine a quelle che dai marxisti sono chiamate
“forme di alienazione”. Quindi la teoria critica include tutte le analisi che questi autori fanno sui
vari ambiti del sapere, volte a mettere in luce queste contraddizioni esistenti nei processi di
sviluppo, di riproduzione sociale. Nella società ci sono delle tendenze, e ciò a cui sono interessanti
questi autori, è comprendere come il capitalismo fa sviluppare la società, e quali contraddizioni
genera.
Avendo già studiato Rawsl sappiamo che la teoria normativa funziona identificando un modello
ideale (la posizione originaria era “aboliamo i due principi di giustizia”), poi proviamo sulla base del
modello ideale (ad esempio la Repubblica di Platone) a valutare la società concreta. La critica
quindi si pone partendo dall’ideale, confrontando la realtà con l’ideale.
Nel caso della teoria critica, il punto di partenza della critica non è la costruzione di un ideale
perfetto, ma è più che altro l’ideale generico, formale, di una società libera e non alienata. Noi
immaginiamo che sia possibile creare una società libera e non alienata, e sulla base di questo ideale
proviamo a verificare nell’esperienza empirica, nella società in cui viviamo, quanto ci discostiamo
effettivamente da un ideale di piena libertà. Sostanzialmente questo ideale è quello illuminista.
Ricordiamo che per Kant l’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità, cioè l’uomo deve
emanciparsi, non deve essere sottomesso a nessuna forma di autorità, deve pensare con la propria
ragione, deve discutere con gli altri, non deve esserci né la chiesa né il potere politico che stabilisce
ciò che è giusto e ciò che è sbagliato (morale eteronoma), invece la morale deve essere autonoma:
dobbiamo essere noi a scegliere la nostra legge. Kant diceva che quando tutte questa cose
sarebbero riuscite a realizzarsi, avremmo avuto una società pienamente illuminata, dove tutto
sarebbero in condizioni di libertà ed uguaglianza e dove la ragione sarà il criterio di base per
stabilire tutto, in ambito morale, giuridico e politico.
Da un certo punto di vista gli autori della Scuola di Francoforte hanno in mente come ideale questo.
Immaginiamo di esistere in una società perfetta, dove non ci sono forme di dominio, dove tutti
siamo liberi e uguali e dove questa ragione agisce. La società in cui viviamo non è una società di
questo tipo. Come arriviamo a fare un’analisi critica nei confronti della società? Innanzitutto
dobbiamo capire quali sono i capisaldi teorici di questi autori:
- Hegel: massimi esponenti dell’idealismo tedesco. Egli immaginava sostanzialmente che tutta la
società, la natura, altro non fosse che un momento interno alla vita dello Spirito. Con l’espressione
Spirito Hegel intendeva quello che nella tradizione cristiana si definiva Dio. Solo che quest’ultima
sostiene che Dio sia trascendente rispetto al mondo, Hegel invece immaginava che non ci fosse
questa separazione, ma che lo Spirito si faceva natura perché tutti noi siamo momenti interni alla
vita di questo Spirito (visione idealista della realtà). Il concetto fondamentale della filosofia
idealista di Hegel era il concetto di dialettica: legge di funzionamento e comprensione della realtà.
Esiste uno Spirito che si fa altro da sé, cioè che diventa natura, diventa storia, che riflette su se
stesso e che infine ritorna in se stesso (PROCEDIMENTO DIALETTICO: TESI, ANTITESI, SINTESI).
C’è un momento positivo (lo spirito), un momento negativo (lo spirito che si fa altro da sé), e infine
c’è un terzo momento nel quale lo spirito dopo essersi confrontato col negativo ritorna in sé, quindi
assume piena consapevolezza di se stesso (Spirito Assoluto= filosofia= comprensione

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estremamente razionale della realtà).
Quindi la dialettica è il modo in cui la realtà funziona, ma è anche il modo in cui noi conosciamo la
realtà. Infatti noi non conosciamo la realtà perché osserviamo qualcosa. Ad esempio, vogliamo
interrogarci su cosa sia la libertà, quindi proviamo a definirla. Questo per Hegel è sbagliato: noi
definendo la libertà siamo solo al primo momento della dialettica (tesi) nel quale affermiamo che la
libertà è la possibilità di fare ciò che si vuole, ma questa tesi se vuole essere una conoscenza di tipo
concettuale dobbiamo farla interagire con gli altri due momenti. Quindi dobbiamo contrapporla al
suo opposto. La libertà è la possibilità di fare ciò che vogliamo, ma se tutti quanti facciamo questo
cosa succede? L’anarchia (negazione/antitesi). Quindi arriviamo poi al terzo momento nel quale
comprendiamo realmente cosa sia la libertà: fare ciò che vogliamo senza ledere gli altri. Quindi
torniamo alla stessa affermazione che abbiamo fatto nel momento della tesi, però arricchiti della
conoscenza del negativo. Per Hegel il motore della storia, e il motore di comprensione della storia
da parte del filosofo è l’elemento della negazione: la storia umana non è qualcosa di irenico, la storia
ha un momento conflittuale (lotta servo-padrone) quindi sono le negazioni esistenti nella società
che ci consentono una comprensione concettuale di ciò che accade. Per Hegel le contraddizioni alla
fine vengono risolte, perché al momento della sintesi le contraddizioni si sciolgono perché lo Spirito
prende consapevolezza di sé tramite il Sapere Assoluto, per Hegel possiamo quindi spiegare tutto se
ci poniamo una prospettiva di tipo dialettico.
I teorici critici invece si rifanno a Marx.
- Marx è un allievo di Hegel, però prova a ribaltarlo. Infatti mentre la filosofia di Hegel è una filosofia
idealista, quella di Marx è una filosofia di tipo materialista. Marx sosteneva che l’errore di Hegel era
un errore di partenza: la realtà non è un prodotto dell’idea, ma esattamente il contrario: le idee
sono prodotte dalla realtà. E la realtà cos’è? La realtà è la lotta di classe. Quindi il punto di partenza
del materialismo storico di Marx era quest’idea: la storia è una lotta di classe, e le idee sono una
sovrastruttura di qualcosa di più profonda, che è il modo in cui una società è organizzata dal punto
di vista economico. Quindi il materialismo di Marx è questo: il filosofo deve portare verso la
rivoluzione, verso il superamento della società capitalistica, partendo da un’analisi scientifica di
come la società funziona. A differenza di ciò che pensava Hegel, non è vero che le contraddizioni alla
fine si risolvono. Marx diceva che le contraddizioni si risolvono solamente se si annulla l’origine di
queste contraddizioni. E qual è l’origine di queste contraddizioni? Il conflitto tra capitale e lavoro.
Nella società comunista si supererà il conflitto capitale-lavoro perché abolendo la proprietà privata
e collettivizzando i beni di produzione, si andrà verso una nuova organizzazione sociale che farà sì
che tutte le nuove forme di alienazione che partivano dall’organizzazione tipica della società
borghese, sarebbero state sorpassate. Quindi Marx aveva provato a correggere la narrazione
ottimistica hegeliana, ma rimaneva sempre ottimista poiché era comunque convinto di poter creare
un mondo perfetto, una società pacificata perché razionale. Quindi c’è ancora una visione positiva,
illuminista possiamo dire.
Ora, i francofortesi si muovo all’interno di queste categorie, solo che le superano entrambe. Da
Hegel i teorici critici riprendono il concetto di dialettica, quindi la società prosegue per
contraddizione. L’elemento della negazione è il motore della nostra esistenza concreta ma anche
dell’attività filosofica, cioè della riflessione che facciamo sulla nostra esperienza reale. E di Hegel i
teorici critici riprendono anche l’attenzione alla totalità. Cioè per i teorici critici questa analisi
doveva essere fatta appunto come l’aveva fatta Hegel, cioè essere finalizzata alla comprensione di
tutta la società nel suo insieme, infatti Hegel si occupava di tutto (storia, arte, filosofia, antropologia,
scienze naturali) e la stessa cosa provano a fare i teorici critici. Siamo essere umani che viviamo
all’interno di una forma di vita che riguarda tutto, quindi tutti gli ambiti sono interconnessi tra loro.
Quindi è necessario che la filosofia abbia questo sguardo critico nei confronti della totalità della
società, in tutti i suoi aspetti. Infatti questi autori, in particolare Adorno, si occupavano di un po’
tutti gli ambiti, quindi sono pensatori a 360° e riprendono quest’attenzione alla totalità esattamente
da Hegel. Però, mentre per Hegel era possibile conoscere razionalmente la totalità, cioè spiegare il
perchè, dal punto di vista descrittivo e normativo, le cose erano come erano. Nessun dover essere

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da raggiungere, come nell’impostazione platonico-normativa. Per Hegel la filosofia arriva dopo, cioè
qualcosa accade e il filosofo razionalmente deve essere in grado, tramite la dialettica, di spiegare
perché le cose sono come sono. Invece i teorici critici sostengono che questo non sia possibile, noi
non possiamo dare una spiegazione totale di tutto. È impossibile, altrimenti ricadremmo all’interno
di un concetto forte di sistema, inteso appunto come sistema hegeliano. I teorici critici affermano
che ci sono delle cose alle quali non si possono dare spiegazioni razionali. Su questo erano molti
influenzati da Walter Benjamin, intellettuale che morì a causa delle persecuzioni, che collaborò
soprattutto con Adorno pur non facendo parte della Scuola di Francoforte. Il tema che Benjamin
adottò fu quello della “sofferenza innocente”: di fronte alla sofferenza innocente non è possibile
dare una spiegazione hegeliana, questo tema infatti sfugge alle categorie hegeliane.
Da Marx invece questi autori riprendono la concezione materialista, cioè l’idea del conflitto sociale.
Sono autori che riflettono sul capitalismo, come il capitalismo influenzi i processi di riproduzione
sociale. Riprendono anche l’attenzione alla prassi: la filosofia non è mera riflessione. L’intellettuale
non è qualcuno che resta chiuso nella sua biblioteca, senza avere rapporti col mondo. L’idea di
intellettuale alla quale si richiamano gli autori della scuola di Francoforte è l’ideale illuminista
dell’intellettuale, cioè l’intellettuale che deve avere una funzione pubblica, deve aiutare la società ad
emanciparsi. Quindi non è un intellettuale chiuso, ma ha una funzione pubblica e soprattutto nella
tradizione marxista del 900 questo ideale divenne forte. Quindi la concezione materialista e
l’attenzione alla prassi sono i due ideali ripresi. Però anche qui abbiamo delle differenza. Rispetto a
Marx questi autori sostengono che il soggetto rivoluzionario non è solo il proletariato come
immaginava Marx. Marcuse ad esempio sosteneva che i soggetti rivoluzionari sono tutti coloro che
non si riconoscono nell’ordine dominante della società, cioè coloro che ne stanno ai margini e
subiscono tutte le forme di dominio: studenti, prostitute, criminali (sottoproletariato). Quindi non
c’è un’unica classe di riferimento come avveniva nell’ottica marxista, che vede solo due poli
(borghesi e proletari). Nella società del tardo capitalismo gli intellettuali hanno a che fare con
un’altra dinamica e ci sono distinzioni a livello sociale molto più complesse. Marcuse era uno dei
leader delle manifestazioni studentesche, insieme a Marx e Mao. Gli studenti dovevano rompere
l’organizzazione del sapere che era ancora rigidamente patriarcale, maschilista, autoritaria.
Marcuse, che era molto attento ai temi della psicoanalisi, lottava per la liberazione integrale
dell’eros, liberazione di tutto ciò che il capitalismo metteva ai margini. Da Marx si allontana un’altra
cosa: il fatto di avere sperimentato il socialismo reale, non vissero nell’Unione Sovietica però
avevano di fronte l’esempio di essa. Per cui molti di questi autori, in particolare Horkheimer, si
resero conto che il socialismo reale, cioè quell’esperienza storica che inizia come la rivoluzione
bolscevica del ’17 e che è stato il primo esempio storico di tentativo di applicare le teorie di Marx
alla realtà, ci si rese conto che l’abolizione della proprietà privata non aveva creato quella società
perfetta pienamente razionale, liberata, egualitaria di cui aveva parlato Marx. Quindi ci si rende
conto che in realtà la semplice abolizione della proprietà privata è un elemento insufficiente, perché
fenomeni di alienazione, oppressione, continuavano ad esistere. Per questo essi sono detti “teorici
marxisti non ortodossi”, perché negli anni ‘30/’40 il grande dibattito nell’ambito marxista era
esattamente questo: come dobbiamo porci nei confronti della rivoluzione d’Ottobre e dello
stalinismo? L’Unione Sovietica e il Partito Socialista russo devono essere un punto di riferimento
politico per tutti i movimenti comunisti nel mondo o no? Nel caso dei francofortesi la risposta è
abbastanza semplice, erano non ortodossi nel senso che non si riconoscevano nell’ideale realizzato
in Unione Sovietica.
Il terzo contributo fondamentale è quello della psicoanalisi. Questi autori si servono delle scoperte
di Freud per riuscire a spiegare i fenomeni di dominio. Freud è importante per aver scoperto la
dimensione inconscia dell’essere umano. Freud ha “smontato” il punto di partenza di tutta la
questione filosofica moderna concentrata sul concetto di “cogito”, il pensiero di Cartesio: l’uomo è
un soggetto razionale. Freud ci insegna che in realtà oltre alla ragione, abbiamo molto altro di cui
non siamo consapevoli. C’è quindi una sfera della nostra psiche di cui noi non siamo consapevoli se
non ci sottoponiamo alla terapia analitica. Il punto rivoluzionario a cui arriva Freud è che il vero

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motore dell’esperienza umana è esattamente questa dimensione non razionale. Nella formulazione
più matura di Freud lui immagina che la nostra psiche sia articolata in tre settori: Es, Super Io, Io.
- L’Es è la componente più profonda della nostra psiche, quella appunto di cui noi non siamo
assolutamente consapevoli, dove agiscono una serie di pulsioni (pulsione di morte e pulsione alla
vita). Il concetto di pulsione è diverso da quello di istinto: l’istinto non possiamo controllarlo, le
pulsioni invece si.
- il Super Io è l’insieme di codici, convenzioni, che la società ci impone. Quindi le spinte che
provengono dall’Es vengono regolate e contenute dal Super Io.
- l’Io è la nostra sfera razionale, ciò di cui siamo consapevoli. l’Io è il frutto dell’interazione tra Es e
Super Io. Un soggetto nevrotico è un soggetto che non è riuscito a operare una sintesi perfetta tra il
piano dell’Es e il piano del Super Io. Più questo rapporto non è regolato, più le forme di disturbo
psicologico emergono. Esse emergono quando il livello della coscienza è basso: per esempio quando
dormiamo emergono attraverso i sogni. Questa sorta di depressione, di nevrosi, va curata
attraverso la terapia analitica che tenta di risalire alla genesi, a ciò che ha bloccato le pulsioni in
questo rapporto tra Es e Super Io.
Freud fornisce alcune idee abbastanza diffuse: egli dice che quando l’uomo viveva nello stato di
natura (richiama Hobbes) non esistevano il bene e il male, quindi era uno stato invivibile. Quindi
come dice Hobbes l’uomo baratta la propria libertà con la sicurezza, delega al Leviatano il compito
di difenderlo e aliena il proprio diritto di natura: la libertà assoluta. Freud fa un passaggio ulteriore,
non solo si aliena dalla propria libertà, ma dalla propria felicità. Cioè l’uomo era un uomo fuori da
una società era anche più felice, perché la società impone delle regole per stare insieme. Quindi c’è
un prezzo da pagare nello stare in società. Noi abbiamo una nostra energia che si chiama “libìdo”,
orientata soprattutto da un punto di vista sessuale, per Freud essa è il motore dell’uomo. È energia
che vuole essere soddisfatta, solo che le convenzioni sociali ci impongono di contenere queste
pulsioni che abbiamo altrimenti ci scontreremmo continuamente. Quindi l’uomo guadagna in
termini di sicurezza, ma perde in termini di soddisfazione della propria libido. Quindi i disturbi
derivano dal fatto che questa libido non riesce perfettamente ad essere soddisfatta. I teorici critici
trovano tutto ciò rivoluzionario perché spiegano le ragioni per le quali gli uomini nella società
capitalistica, liberale, contemporanea, siano insoddisfatti: perché ci sono una serie di cose che
impediscono il pieno soddisfacimento di questa libido. Quindi lo stare in società implica dei
fenomeni di alienazione che possiamo spiegare appunto tramite la psicoanalisi.
Alcuni autori, come Marcuse, rilanciarono il tema della liberazione sessuale. Uno degli aspetti
importanti del ’68 fu appunto la rivoluzione sessuale. Marcuse in “Eros e civiltà” teorizza che la
civiltà ci impone un prezzo da pagare, in termini di soddisfacimento. La morale religiosa cristiana
che vede come tabù il sesso, impone una limitazione nei confronti del libero esercizio dell’eros. Noi
finiamo per essere sottomessi senza rendercene conto, questo è l’ideale più negativo in assoluto.
Horkheimer negli ultimi anni sosteneva che c’era un grosso pericolo nella società del capitalismo
avanzato: il problema del senso di fatto si spegnesse. Cioè nel momento in cui smetteremo di
domandarci il perché delle cose, se esiste un senso ulteriore rispetto al mero profitto, questa sarà
una società dove le persone saranno quasi come automi. Saremo tutti sottomessi alla società
neoliberista. A quel punto l’uomo crederà di essere libero ma non lo sarà. Quindi anche il marxismo
è una prospettiva da abbandonare perché l’ideale marxista di una società pacificata era esattamente
questo ideale: una società in cui tutti siamo uguali, tutti siamo uguali, lo Stato si sarebbe estinto,
perché avremmo semplicemente avuto un’amministrazione dell’esistente. Quest’ideale è totalmente
totalitario perché era l’idea che si potesse amministrare l’esistente e che tutto fosse giusto per come
era, senza poter andare oltre. Quindi viene meno il momento politico, il momento della critica, il
momento del superamento. Quindi anche l’ideale marxista andrebbe abbandonato.
Adorno era l’autore più pessimista, perché Marcuse immagina tutto sommato che un miglioramento
ci possa essere non a caso guidava le proteste del ’68, Adorno invece sosteneva che ciò che
contraddistingue l’uomo quando vive in società è la razionalità. Però secondo Adorno la razionalità
è qualcosa di totalitario in sé. Innanzitutto secondo Adorno la ragione è quello strumento che ha

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permesso all’uomo di vincere la sua sfida contro la natura, di potersi porre su un piano culturale. La
ragione è una caratteristica dell’essere umano volta a soggiogare il soggetto, cioè la natura. Dopo
che l’uomo ha sottomesso la natura, la ragione ha cambiato obiettivo: dalla natura è passato all’altro
uomo. Quindi la dialettica della razionalità umana è un procedimento che dalla sottomissione della
natura è arrivata alla sottomissione dell’uomo: il totalitarismo.
Adorno e Horkheimer scrissero insieme la “dialettica dell’illuminismo”: il percorso dialettico della
ragione. Illuminismo non è la corrente del 700, loro per illuminismo intendono la razionalità ampia
nel suo genere. La storia umana è un processo di decadenza, di totale sottomissione dell’essere
umano. Per cui la paura che questi studiosi avevano negli anni ’50 era l’idea di una società di massa
dove tutti siamo uguali, dove il concetto di individualità non ha più senso.
Un ultimo aspetto importante è la matrice ebraica. Dal punto di vista culturale e filosofico i
pensatori ebraici hanno sempre sottolineato l’impossibilità di definire l’assoluto, cioè Dio. Anche
nella religione ebraica è così, non c’è una raffigurazione di Dio. Siamo noi cristiani che raffiguriamo
Dio ad esempio con la barba bianca, che sta sulle nuvole, ecc. ma nella tradizione ebraica, così come
nell’islam, non c’è una rappresentazione del divino perché è considerata quasi una forma di
blasfemia. Horkheimer è tornato molto sul tema del divieto di rappresentare l’assoluto. Egli dice
che lo strumento con cui noi conosciamo la realtà è la ragione. Dio, se esiste, è qualcosa che fa parte
della nostra realtà anche se non possiamo avere un’esperienza diretta. Ora io della mia realtà posso
conoscere gli enti: gli studenti, la classe, il telefonino, il sole, ecc. quindi la mia ragione tramite
concetti mi permette di parlare della realtà. Ma gli enti di cui noi parliamo e che possiamo
esprimere tramite concetti, appartengono al relativo, non all’ambito dell’assoluto. L’assoluto per
definizione, dice Horkheimer rifacendosi alla tradizione ebraica, deve essere qualcosa di non
concettualizzabile, di non rappresentabile. Perché se fosse rappresentabile sarebbe uguale a tutti gli
enti della quotidianità di cui possiamo parlare tramite concetti e definizioni. Quindi se potessimo
dire cos’è Dio, Dio sarebbe uguale a tutto il resto. Ma Dio, se esiste, deve essere qualcosa di diverso
rispetto a ciò che noi possiamo conoscere tramite l’esperienza. Quindi Dio non deve essere
rappresentabile, altrimenti diventerebbe relativo. Ma cosa c’entra questo discorso con l’assoluto?
C’entra perché questi autori sono atei, ma mentre le teorie normative come quella di Rawsl
identificano l’assoluto terreno con la società retta dai principi di giustizia, che diventano l’elemento
a partire dal quale valutare la realtà concreta, l’assoluto terreno cioè la società pienamente
realizzata ed emancipata, non può essere espressa a parole. Noi abbiamo una tensione verso
quest’idea di assoluto terreno ma non possiamo esprimerla a parole, quindi è una tensione che
agisce da stimolo per la critica della nostra esperienza concreta. Quindi il punto di partenza della
critica diventa questa tensione nei confronti di questo universale, di questa società perfetta che ha
lo statuto di assoluto, ma che noi non possiamo definire anche perché, sostiene Adorno in maniera
molto pessimista, la storia umana è storia di repressione. Adorno si avvicina molto a Foucault per
certi versi, quando Foucault faceva una storia dei sistemi di potere legandone le varie forme di
episteme che si susseguono nella storia, e molti studiosi hanno cercato di intravedere appunto
analogie e dissonanze tra il progetto di Foucault e la teoria francofortese, perché entrambi sono
interessati al problema del potere, al modo in cui la cultura contribuisce al dominio, al ruolo
negativo che la scienza può avere in questa logica di dominio della società, quindi non più una
scienza come strumento di emancipazione come pensavano gli illuministi, ma la scienza come
strumento che è al servizio della logica di dominio.
Quindi il punto di partenza della teoria critica rimane il concetto di negatività sociale. La società in
cui viviamo non è una società pacificata come pensava Hegel. I teorici critici rifiutano quest’idea,
quindi la società non è pacificata perché c’è la sofferenza innocente. Gli autori più recenti della
teoria critica concepiscono questa negatività sociale non come una lesione dei principi di giustizia,
che è il modo in cui ragionerebbe un teorico rawlsiano, ma la negatività sociale è qualcosa di più
ampio. Non riguarda la semplice violazione dei principi che noi stabiliamo in astratto, ma i
fenomeni di negatività nella società nascono all’interno stesso dei processi di riproduzione della
società. Il capitalismo non è un semplice sistema economico di cui noi possiamo “infischiarcene”

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nella società in cui viviamo, perché la razionalità capitalistica sta colonizzando, dirà Habermas, tutti
gli ambiti della nostra esperienza. La tecnica non è un qualcosa che sta aldilà, uno strumento di cui
possiamo fare a meno, perché la tecnologia oggi è qualcosa che sta finendo per dominare l’uomo.
Quindi questa razionalità non è qualcosa di neutrale rispetto al modo in cui viviamo. Il modo stesso
in cui il capitalismo si sviluppa genera queste patologie. Non è che la negatività è una lesione di un
principio, di un imperativo categorico che vale sempre dall’uomo platonico fino all’uomo del 3500
d.C. non esistono questi ideali elaborati così, gli ideali sono sempre elaborati dalla prassi, perché
come ci ha insegnato Marx le idee sono sempre prodotte da noi. Quindi il compito della teoria
critica qual è? All’interno di una certa società, per esempio, quali sono gli ideali che vengono fatti
proprio da questa società? Ad esempio gli ideali di libertà ed uguaglianza, che sono quelli
dominanti, come si realizzano? E questi ideali, nella loro realizzazione concreta, finiscono per
essere addirittura travisati? Perché se così fosse saremmo in presenza di una contraddizione, di una
patologia sociale. Quindi a parole oggi tutti siamo a favore della libertà, ma dobbiamo capire come
realizzarla. Il sistema capitalistico è un ideale totalitario in sé, cioè a parole difende la libertà ma in
realtà non è così, anzi finisce con l’asservire sempre di più l’uomo. Qui dobbiamo capire i
meccanismi di riproduzione della società per capire dove nascono effettivamente queste patologie
sociali. Quindi, torna in campo l’idea della totalità: la teoria critica si occupa di tutta la società,
perché non possiamo tagliare la sfera dell’esperienza umana, ma tutto è in relazione soprattutto
nella forma di vita capitalistica dove l’elemento economico, che ha una certa razionalità
predominante (razionalità strumentale  Weber) è una razionalità sempre più invadente che,
come diceva Habermas, va colonizzando tutti gli ambiti della vita umana. Questo non è un discorso
molto astratto, noi oggi sentiamo parlare del primato dell’economia, della politica che non è
autonoma, della mentalità meritocratica ed economicistica che colonizza il mondo della cultura,
della scuola; esattamente ciò di cui parlavano questi studiosi quindi non è un discorso astratto, ma è
la realtà in cui viviamo in un certo senso.
Le patologie sociali quindi derivano dal fatto che quegli ideali che possono essere giusti in realtà
non sono applicati perfettamente, quindi gli ideali illuministici ai quali in teoria tutti ci richiamiamo
in realtà non sono applicati concretamente. Quindi le patologie sociali rappresentano una mancanza
di razionalità a livello sociale. Qua non si tratta di dire che un soggetto non è razionale perché non
rispetta una legge, come avrebbe detto Kant, qui parliamo della società nel suo complesso: abbiamo
una società che ha riconosciuto certi principi, ma che di fatto non riesce a realizzarli. Quindi aveva
ragione Hegel nel dire che la società del 1800 era più “razionale” rispetto alla società in cui c’era la
schiavitù, ma ancora oggi continuano ad esistere dei fenomeni di irrazionalità sociale.
Questa complessivamente è la teoria critica di Francoforte. Possiamo vedere che oggi gli esponenti
più giovani di questa teoria che continuano a proporre analisi critiche della società, si differenziano
rispetto alle due grandi correnti dominanti nella filosofia politica della seconda metà del 900, cioè i
liberali e i comunitaristi. I teorici critici si distinguono rispetto al liberalismo perché il liberalismo,
nel modo in cui loro lo rappresentano (che per il prof. Muscolino è un modo completamente
sbagliato), è una teoria che attribuisce dei diritti a dei soggetti, lo Stato deve essere minimo, e
manca un qualunque legame sociale che sia qualcosa di oltre rispetto agli interessi. Cioè l’individuo
sta in società perché ha interesse (Locke). Quindi nel modo in cui i liberali costruiscono la loro
narrazione secondo i francofortesi, il centro di tutto sono i soggetti portatori di diritti. Quindi le
ingiustizie sono la violazione di questi diritti. Il liberale quali domande di giustizia si pone nella
società? Il problema del merito, della proprietà, lo stato che non deve invadere la proprietà privata,
queste sono le domande che in genere si pongono i pensatori di matrice liberale. Ma manca,
secondo i teorici critici, una riflessione a tutto campo sul senso della totalità, sulla dinamica anche
cooperativa della società, sul concetto di prassi all’interno di una società. E soprattutto per i teorici
critici che sono sempre eredi di Freud, non ci si pone dal punto di vista liberale il tema della
sofferenza individuale, perché non avendo fatto propria la lezione della psicoanalisi per come
l’hanno mutuata i teorici critici, dal punto di vista liberale che problema c’era nel momento in cui
una persona è sofferente? Era un problema suo, che doveva risolversi nella sfera privata, ma non c’è

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una riflessione sul perché ad esempio erano stati originati questi disturbi che possono creare una
serie di problemi dalle strutture stesse della società, perché la società non esiste. Quindi ragionare
solo in termini di individui che hanno una serie di beni, come il sistema di diritti che li tutela, e poi
ognuno fa ciò che vuole; e senza una riflessione più profonda sul problema della vita buona cioè di
ciò che è giusto fare in generale, senza questo si perde una parte importante della nostra esperienza
umana perché noi non siamo soltanto individui che perseguiamo il nostro interesse economico in
competizione con gli altri, soprattutto è anche irrealista l’idea che l’individuo sia slegato rispetto
agli altri. Questo è il motivo per cui i teorici critici non si definiscono liberali, ma casomai
democratici. L’idea di democrazia è più interessante secondo questi autori, perché la democrazia fa
riferimento ad un ethos comune, cioè di una comunità che si organizza per gestire il potere.
È interessante anche il confronto con il comunitarismo. Anche i comunitaristi contestavano i liberali
per lo stesso motivo dei francofortesi. Il problema dal punto di vista francofortese è che i teorici
comunitaristi fanno loro un’idea di ethos che non va bene perché spesso il concetto di comunità a
cui fanno riferimento i teorici del multiculturalismo, è un concetto forte di comunità: una comunità
di sangue, una comunità etnica, una comunità raziale, religiosa, con un concerto forte di tradizione
che non è compatibile con lo scenario pluralista della società contemporanea. Per cui i teorici critici
invece sostengono che la comunanza la si deve trovare a livello razionale: non è l’essere religiosi
che può creare una comunanza all’interno di una società, perché se abbiamo idee religiose diverse
non ci intendiamo. Non può essere il sangue o l’etnia il collante la società perché altrimenti
dovremmo vivere in società slegate, su base etnico-raziale molto forte. Ma il consenso, ciò che crea
il legame sociale, deve avere origine nella ragione. Habermas diceva che la società deve guardare ai
valori attorno ai quali si struttura la convivenza organizzata, ma non in termini raziali o religiosi,
devono essere valori giuridici: patriottismo costituzionale. Dobbiamo considerarci membri
dell’Italia o dell’Europa non perché condividiamo un’unica religione, abbiamo lo stesso sangue, lo
stesso colore della pelle; ma dobbiamo ritrovarci in dei valori morali e giuridici che danno senso
alla comunità in cui viviamo. Quindi io divento membro di una data comunità quando ne sposo i
valori fondanti: libertà, uguaglianza, dichiarazione universale dei diritti dell’uomo  cioè il
patrimonio giuridico della modernità occidentale. Solo così Habermas ipotizzava fosse possibile
costruire l’Europa, non l’Europa dei mercati, ma l’Europa di una comunanza di valori giuridici.
Habermas ci permette di capire in che senso la dimensione collettiva della nostra esistenza va
rintracciata in un fondamento razionale. Ecco perché i teorici critici si muovono all’interno della
tradizione illuminista, come anche il marxismo. C’è l’idea della razionalità ma dobbiamo capire
perché la società presenti invece dei margini di irrazionalità. Società significa ragione, un insieme di
persone che vive in un territorio, in un dato periodo, che si dà delle leggi, cioè è un’organizzazione
razionale. Solo che questa razionalità alla fine fallisce, e perché? Compito della teoria critica è capire
perché, capire dove gli ideali vengono traditi nella prassi.
Tornando alla distinzione tra relativo e assoluto, più noi perdiamo la possibilità di immaginare che
le cose possano essere diverse perché sono relative, più il mondo in cui viviamo ci apparirà come
assoluto, cioè come un qualcosa che è così perché è giusto che sia così. Che è esattamente la
condizione che aveva lo schiavo nell’Atene del IV secolo che si rassegnava alla sua condizione, non
immaginando altro. La teoria critica serve a mantenere vivo questo senso della relatività del mondo
in cui viviamo, cioè è possibile che le cose vadano diversamente. Quindi siamo sicuri di essere
realmente liberi? O semplicemente ci omologhiamo a una serie di mode culturali con le quali
riempiamo di senso la nostra esistenza che non ha più un senso? Si è persa magari la
consapevolezza dei grandi ideali rivoluzionari: nel ’68 gli studenti protestavano per ottenere una
società migliore, per un’impostazione del sapere meno gerarchica, ecc ecc. oggi invece ad esempio
si occupano le scuole per anticipare le vacanze natalizie. Questi sono fenomeni di decadenza,
direbbero i francofortesi. Quindi il momento della razionalità è un momento fondamentale della
nostra esperienza.

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26 ott. HABERMAS
Habermas è il più importante e famoso interprete della seconda generazione della scuola. È un
allievo di Adorno e comincia la sua attività intorno agli anni 50. È importante la sua figura sia
perché è considerato come uno dei massimi filosofi viventi, sia perché negli anni ’90 ci presenterà
una grande teoria discorsiva del diritto e della democrazia.
Comincia a lavorare all’interno dell’Istituto insieme ad Adorno ed Horkheimer intorno agli anni ’50,
e ci sono una serie di problemi a livello culturale nella società tedesca di quel tempo. C’è il dramma
del totalitarismo e dell’olocausto; c’è un confronto a tutto campo sulla filosofia di Martin Heidegger
che è stato uno dei principali artefici-teorici del nazismo; c’è un problema relativo al comunismo
reale: com’è possibile attuare il marxismo senza ricadere negli errori dello stalinismo e della
rivoluzione russa? E poi c’erano dei problemi interni alla teoria critica stessa. Per esempio non era
molto chiaro quale fosse il problema sul quale la teoria critica si concentrava, perché i teorici critici
sono interessati a studiare il modo in cui la forma capitalistica influenza la società. Ed è proprio
questo uno dei problemi. Cioè il problema della società umana, il problema dell’alienazione, deriva
solo dal principio di scambio? Cioè dal principio cardine dell’economia di tipo capitalistico? O c’è
altro su cui ragionare? Perché se il problema fosse soltanto il principio di scambio, come mai
l’Unione Sovietica dove ormai non c’è più un’economia capitalistica, continuano ad esistere
fenomeni di alienazione ed è quindi un modello, come abbiamo detto, da rifiutare? Se il problema
non è solamente il principio di scambio, ma è qualcos’altro per esempio la natura totalitaria della
ragione, e qui richiamiamo Adorno che come abbiamo detto scrisse la “dialettica dell’illuminismo”
cioè, aveva tracciato una storia della razionalità umana come processo di asservimento prima della
natura e poi dell’uomo. Quindi la storia umana è una storia di decadenza in cui l’uomo finisce per
essere assoggettato perché la razionalità in sé è un qualcosa di totalitario. Secondo Adorno la
razionalità è un pensiero concettuale. Il concetto è quel qualcosa tramite il quale noi catturiamo un
aspetto della realtà. Ma ci sarà sempre un qualcosa del reale che sfugge al concetto, che cerca di
immagazzinarlo. Quindi nel momento in cui la razionalità utilizza i concetti, e i concetti sono un
tentativo di bloccare (immagazzinare) la realtà, a questo punto la storia della razionalità non può
che essere un processo di sottomissione. Per questo Adorno dice che la razionalità è in sé
totalitaria, perché il concetto è un tentativo di imporre un ordine alla realtà che però sfugge a
quest’ordine. C’è una frase molto famosa di Adorno nel suo libro “dialettica negativa”: <<l’utopia
della conoscenza sarebbe aprire l’aconcettuale con il concettuale, senza ridurlo ad esso>>.
L’aconcettuale è quell’elemento della realtà che non può essere concettualizzato, che però noi
proviamo a conoscere come un concetto. Ciò che noi dovremmo riuscire a fare, dice Adorno,
sarebbe riuscire ad aprire l’aconcettuale con il concettuale, senza però imporre questo tentativo di
controllo (utopia  una conoscenza che non sia una forma di imposizione, che poi diventa
totalitaria). Siccome la ragione non lo può fare, la ragione è di per sé totalitaria.
Habermas comincia a prendere le distanze da questo pensiero, perché secondo lui il rischio che si
ha con una prospettiva come quella di Adorno, è quella di offrirci una rappresentazione della storia
“decadente”, cioè una narrazione dove si perdono una serie di elementi importanti della storia
umana, in termini di progresso morale, di emancipazione. Perché se raffiguriamo la storia umana
come semplicemente una logica di dominio, come interpretiamo correttamente l’Illuminismo o la
Rivoluzione francese? Come facciamo a leggere positivamente la Dichiarazione dei diritti dell’uomo
all’interno di uno schema adorniano? La Democrazia è una forma di governo moralmente superiore
rispetto al totalitarismo, o sono entrambe facce di un unico processo totalitario di affermazione
della ragione umana? È questo il quesito che pone Habermas, al quale secondo lui non si può
rispondere positivamente nel momento in cui accettiamo un paradigma di tipo adorniano. Perché
tutto è negativo, cioè tutto è visto in termini di negazione e affermazione del dominio. Quindi il
punto di partenza di Habermas, soprattutto alla fine degli anni ’60 sarà questo. Nei primi anni della
sua riflessione Habermas è tutto sommato ancora molto vicino alle tesi dei francofortesi. Per

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esempio uno degli aspetti importanti della teoria critica di quegli anni era l’attenzione al sistema
dei media. I francofortesi guardano al sistema mediatico in maniera fortemente negativa, perché
sono tutti strumenti al servizio di quella che loro chiamavano “industria culturale”. Cioè nella
società di oggi l’uomo conta perché è un consumatore. Gli studiosi sono terrorizzati dall’idea di
massificazione, dove diventiamo tutti delle pedine nelle mani di un’industria culturale. Non siamo
più soggetti liberi di scegliere perché siamo tutti al servizio di questa gigantesca operazione
economico-culturale di cui noi siamo semplicemente pedine, e non attori protagonisti per come
pensiamo.
Habermas è molto affascinato da questa idea, e nella sua tesi di abilitazione (“storia e critica
dell’opinione pubblica”) riflette sul ruolo negativo die media nel processo di costituzione
dell’opinione pubblica. Ciò che caratterizza l’età moderna in Europa è l’affermazione progressiva
della Democrazia che si pone quando comincia a costituirsi una sfera pubblica come luogo di
discussione. E quando questa comincia a costituirsi, il problema della sovranità cioè dell’esercizio
del potere, comincia ad essere visto non più come un dato di natura (il re governa perché deve), ma
progressivamente, con l’affermazione dei principi democratici, si afferma l’idea che la sede della
sovranità è il popolo. Quindi la fonte del potere deve essere la libera discussione e la fonte di
legittimità del potere deve venire dal basso. Però, dice Habermas, le discussioni politiche sono
influenzati nella società contemporanea dai mass media che fanno un’opera di manipolazione della
sfera pubblica.
Nella seconda metà degli anni ’60 c’è un altro scritto interessante che si intitola “conoscenza e
interesse” pubblicato nel ’68. È interessante perché Habermas riflette sul nesso fondamentale tra la
conoscenza e l’interesse. La conoscenza umana non è mai qualcosa di neutrale, ma è sempre mossa
da un interesse (in questo Habermas resta fedele interprete di Marx). Habermas ragione sui
differenti tipi di interessi:
- Interesse teorico: interessi propri che muovono la scienza naturale. La fisica, la biologia,
sono mosse da un interesse: conoscere la realtà.
- Interesse pratica: riguarda le discipline storico-ermeneutiche. Io voglio comprendere per
agire. Cioè voglio comprendere ciò che è accaduto per capire come comportarmi.
Poi esistono delle discipline critico-riflessive che hanno come scopo quello di emancipare
l’uomo, di aiutare l’uomo ad emanciparsi. Tra queste abbiamo la psicoanalisi e la teoria
critica.
Questo testo comincia a far spostare Habermas da una prospettiva di tipo negativista come quella
di Adorno, verso una prospettiva più positiva che riguarderà tutti gli scritti degli anni ’70 fino ad
arrivare nel 1981 alla pubblicazione della sua opera più famosa che si intitola “teoria dell’agire
comunicativo”.
Negli anni 70 Habermas comincia a riflettere sulla svolta linguistica, cioè sul ruolo fondamentale
che ha il linguaggio come strumento di costruzione della nostra personalità, come strumento di
costruzione simbolica della società. Il linguaggio è una dimensione imprescindibile per l’analisi
filosofica. L’attenzione al linguaggio porta Habermas ad assumere una prospettiva di tipo post
metafisico: nel momento in cui riconosciamo che l’approccio nei confronti della realtà è sempre
mediato dal linguaggio, nessuno è detentore della Verità. Nessuno può dire come stanno le cose o
guadagnare il punto di vista dell’Assoluto. La svolta linguistica quindi impone la svolta verso il post
metafisico. Per questo egli rifiuterà le teorie del giusnaturalismo, del positivismo giuridico.
La svolta linguistica lo porta a riflettere sul fatto che il tentativo che Kant aveva fatto di fondazione
della morale tramite l’imperativo categorico, deve essere aggiornato. Cioè non posso più fare da
solo il test dell’imperativo categorico, perché se io sono un essere linguistico, se sono sempre calato
all’interno di una prassi linguistica, il famoso test dell’imperativo categorico devo farlo insieme ad
altri, perché i valori e le credenze che ho sono sempre formate all’interno di un contesto dialogico e
discorsivo comunicativo. Perché ciò che è giusto e ciò che è sbagliato va sempre deciso insieme ad
altri, non è qualcosa che posso stabilire da solo: le mie credenze si formano all’interno di una forma
di vita, cioè all’interno della comunità a cui appartengo. Quindi negli anni 70 Habermas opera un

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passaggio teorico: da un paradigma di tipo monologico a un paradigma di tipo dialogico.
Questi sono i primi punti sui quali Habermas propone di modificare la teoria critica, perché i suoi
maestri dal suo punto di vista non avevano dato considerazione al problema del linguaggio, ad
esempio secondo Habermas Adorno continua a ragionare in termini di soggetto che si pone nei
confronti della realtà, ma non c’è un’attenzione a questa dinamica dialogico comunicativa. Questo
sarebbe il primo tentativo di creare una teoria critica sistematica.
Riflettere sulla svolta linguistica, riflettere sulla necessità che la filosofia sia post metafisica,
abbracciare un paradigma di tipo dialogico-comunicativo e non più monologico, ci porta anche ad
interessarci agli aspetti pragmatici del linguaggio, e non agli aspetti meramente semantici. Parlare
non è semplicemente raffigurare la realtà ma è comunicare, ricercare un’intesa gli altri. A partire
dagli anni 70, Habermas ci presenta una monumentale teoria sociologica e filosofica che parte
proprio da questi aspetto: la natura post metafisica della filosofia, la natura linguistica della nostra
identità; e cerca di elaborare una teoria sistematica a partire da questi dati. Habermas pensa che il
linguaggio non è soltanto uno strumento di rappresentazione della realtà, ma ha una molteplicità di
usi, però c’è un’idea ancora più profonda: tra tutti gli usi del linguaggio ce n’è uno fondamentale che
è quello che, dal suo punto di vista, risponde ad una logica evoluzionistica  l’intesa. Cioè il
linguaggio serve per imporre una visione del mondo, ma la funzione più importante del linguaggio è
stata quella di ricercare un’intesa, cioè noi parliamo per comunicare con gli altri, per metterci
d’accordo su qualcosa. Quindi questa è la funzione prioritaria del linguaggio.
Quindi dobbiamo cominciare a comprendere quali possono essere le conseguenze a livello
sociologico e normativo, di questi assunti filosofici. Habermas riprende l’idea del dialogo per
provare a ragionare su quali conseguenze sia possibile tirare in questo campo da quegli assunti
teorici. Cosa significa che gli uomini parlano? Habermas introduce il concetto di situazione
linguistica ideale. È una costruzione ideale che ha la stessa finalità della posizione originale di
Rawsl: trovare un criterio in base al quale criticare la realtà concreta. Rawsl elabora l’idea della
posizione originaria grazie alla quale scopriamo i principi di giustizia che ci consentono di criticare
la realtà in cui viviamo, Habermas invece ragionando sul versante linguistico comunicativo inventa
l’idea di situazione linguistica ideale. Siccome da francofortese Habermas è molto sensibile al tema
della manipolazione linguistica, si domanda se è possibile immaginare una situazione nella quale la
comunicazione sia assolutamente trasparente, cioè priva di manipolazione o coercizione e logiche
di dominio. Per cui prova a costruire questa situazione linguistico ideale, nel quale tutti i
partecipanti alla discussione rispettano 4 pretese di validità: (se non si rispetta anche una di queste
pretese, in realtà non stiamo facendo un dialogo)
1. Giustezza: ognuno deve rispettare le norme che regolano il dialogo, se non sono disposto a
rispettare le norme non sto facendo un dialogo. Ad esempio se proibisco all’altro di parlare.
2. Verità: ognuno deve presentare i proprio argomenti nell’ambito della discussione in modo
che essi abbiamo un contenuto proposizionale vero, deve rappresentare un qualcosa, non
possiamo discutere sul nulla.
3. Veridicità: quando io presento delle teorie devo essere sincero quando le sostengo, cioè
devo crederci realmente. Non posso presentare argomenti solo per ingannare l’altro, perché
in questo modo non sto dialogando. Ma nell’affermare qualcosa devo essere sincero.
4. Comprensibilità: devo presentare i miei argomenti in modo che gli altri possano intenderli.
Ad esempio Renzo nei “Promessi Sposi” quando parla con l’avvocato afferma di non sapere
che farsene delle sue parole perché non capisce di cosa sta parlando. Quindi se voglio
assumere una posizione evo farmi intendere, devo rendere le mie credenze comprensibili a
tutti.
Quando ognuno di noi dialoga con un altro per discutere su qualcosa, se vogliamo eliminare
qualunque logica di dominio, dobbiamo rispettare queste quattro pretese.
Nella situazione linguistica ideale i partecipanti devono rispettare le quattro pretese e quindi alla
fine succede che si creerà un consenso unanime intorno alla credenza, tesi, che intercetta il
consenso di tutti. Quindi secondo Habermas il fatto di accettare che gli altri presentino le loro

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opinioni, significa anche che devo essere pronto a ritirare le mie quando mi rendo conto che le
opinioni del mio interlocutore sono più giustificate rispetto alle mie. Alla fine dell’argomentazione
rimarrà la tesi più giustificata, cioè quella su cui si intercetta il consenso di tutti i partecipanti. Cioè
si deve raggiungere l’unanimità.
Questa situazione linguistica ideale ha una natura profondamente kantiana. Mentre Kant immagina
che il test per l’imperativo categorico, necessario per fondare la morale in modo razionale, avvenga
a livello individuale; per Habermas il test per l’imperativo categorico diventa la situazione dialogica
stessa, cioè il confronto dialogico con gli altri. Questa etica è un’etica cognitivista, cioè nell’ambito
della situazione linguistica ideale noi mettiamo in campo un processo di conoscenza. Entro nel
dialogo con delle credenze, se sono fortunato alla fine della discussione le mie credenze avranno
intercettato il consenso di tutti, se sono stato meno fortunato sono stato io a cambiare le mie idee
perché mi sono convinto che la posizione di qualcun altro sia più giusta, più razionale. Quindi
mettiamo in moto un processo di maturazione interiore, da un punto di vista razionale, morale, ecc.
quindi parliamo di un’etica cognitivista, acquistiamo conoscenza. Però è un’etica al tempo stesso di
tipo formalistico, cioè Habermas ci descrive la forma che il nostro ragionamento morale deve avere
ma non ci dice cosa dobbiamo fare. Non è un’etica sostantiva, ma un’etica formale. Ed è un’etica
universale, cioè vale per tutti ed è razionale.
Una posizione etica di questo tipo serve ad Habermas per muoversi all’interno di due estremi
opposti: diritto naturale e positivismo giuridico. Il diritto positivo è il diritto posto, cioè elaborato
dalle istituzioni. Il diritto naturale è il diritto di cui parlano i teorici del giusnaturalismo, secondo cui
esiste un diritto di naturale, cioè esiste un ordine nelle cose che il diritto positivo dovrebbe
rispettare, e se non lo rispetta diventa un diritto ingiusto. Per i giusnaturalisti il diritto positivo
deve incontrare un limite nel diritto naturale. I positivisti giuridici invece sostengono che l’unico
criterio di legittimità del diritto è il fatto di essere posto dall’autorità. Quindi esiste solo il diritto
positivo. Soprattutto in età contemporanea, con la svolta linguistica, il positivismo giuridico è
diventato abbastanza influente, perché siccome non è possibile parlare di natura umana, di un
ordine del cosmo ecc. ecc. perché tutto è sempre mediato dal linguaggio, allora tutto ciò che
riguarda la morale, la politica, non può essere argomentato da un punto di vista razionale quindi
l’unico diritto esistente è il diritto positivo. Se una norma è elaborata dall’autorità competente
allora è giusta. I giusnaturalisti dicevano che una norma deve essere innanzitutto giusta, altrimenti
non è norma. Invece il positivismo giuridico si è concentrato su altri due aspetti che sono la validità
e l’efficacia. Alcuni positivisti sostengono che una norma è tale solo se è valida, cioè se è stata
emanata dall’autorità competente. Altri, soprattutto in Nord Europa, sostenevano invece che il
problema del diritto è la sua efficacia: le norme possono anche esistere ed emanate dall’autorità
competente, ma non sono efficaci, cioè di fatto è come se non esistesse.
Giustizia, validità, efficacia sono i tre poteri sul quale valutare una norma.
Habermas cerca di muoversi all’interno di questi due estremi: da un lato il giusnaturalismo che
sostiene che esistano dei criteri oggettivi e morali che il diritto positivo deve rispettare; e il
positivismo giuridico che invece nega che esistano questi criteri e che l’unico diritto giusto è il
diritto che esiste. Perché è importante questo aspetto? Perché se noi assumiamo una prospettiva
come quella positivista e la sposiamo al 100% diventa difficile immaginare un diritto di resistenza
nei confronti del sovrano, perché se il diritto è giusto per il fatto stesso di esistere perché
dovremmo criticare un atto di arbitrio del sovrano? Se oggi il sovrano dell’Italia decidesse che una
certa categoria di persone non godono più di una serie di diritti, per il fatto stesso che quest’atto
venga emanato dall’autorità competente, diventa di per sé un atto valido, giusto e quindi efficace.
Mentre la tradizione del liberalismo, che sosteneva l’esistenza di diritti naturali pre-statali
(proprietà, vita, libertà), sosteneva appunto che il potere politico deve rispettare dei diritti che
esistono prima, perché altrimenti diventa un potere arbitrario, non abbiamo più criteri per criticare
il potere. Mentre Locke diceva che quando lo stato viola questi tre diritti naturali, noi abbiamo un
diritto di resistenza verso il potere. Come facciamo a teorizzare un diritto di resistenza se sposiamo
una posizione di tipo positivista al 100%? Secondo Habermas è impossibile. Ma al tempo stesso ci si

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può muovere all’interno di una posizione post metafisica, come dicevamo. Cioè non posso dire che
esiste un ordine nel mondo, perché non ho un modo per poterlo argomentare; non posso dire che
esiste una natura umana perché se parlo di natura umana sto usando un determinato tipo di
linguaggio che può essere non condiviso dal altri. Quindi muoversi all’interno del post metafisico
significa non avere lo sguardo di Dio, e se non ho lo sguardo di Dio come faccio a parlare di una
legge naturale che tutti dovremmo condividere? Quindi sia il positivismo giuridico che il
giusnaturalismo sono due estremi che Habermas vuole rifiutare. Però vuole salvare le esigenze
positive di entrambi. Riconosce che l’unico diritto che esiste è quello positivo evidentemente, ma al
tempo stesso garantire dei margini di critica. E la posizione della linguistica ideale e
quest’attenzione alla linguistica comunicativa della nostra esistenza serve esattamente a questo.
Perché se noi diciamo che gli uomini sono esseri linguistici che dialogano tra loro, se noi diciamo
che il linguaggio ha la funzione di farci intendere cioè raggiungere un consenso morale, allora noi
capiamo che la quinta essenza della modernità occidentale è stata esattamente questa: quella di
rompere con la tradizione, dare vita ad una sfera pubblica che sia libera soprattutto rispetto
all’influenza del potere religioso e poi politico, una sfera quindi che sia luogo di discussione dove
tutti partecipiamo discutendo. E se tutti possiamo discutere significa che ad un certo punto possono
emergere delle critiche nei confronti dell’ordine costituito, nei confronti del potere, nei confronti
delle leggi. Quindi è l’elemento stesso della discussione che consente la critica. Cioè è il fatto stesso
che discutiamo che legittima la critica. Quindi con questa idea Habermas prova a muoversi al centro
tra il giusnaturalismo e il positivismo.
“Teoria dell’agire comunicativo” presenta in parte questi aspetti e ci parla della società da un punto
di vista sociologico, perché i teorici critici non sono filosofi che discutono solo delle idee, ma sono
anche sociologi perché l’attenzione alla categoria della totalità implica il bisogno di capire come la
società funziona. Dal punto di vista sociologica Habermas instaura un confronto serrato con la
teoria sistemica di Parsons. Parsons divide la società in sottosistemi, questa struttura viene
recuperata da Habermas che vede la società come articolata su due momenti: il sistema e il mondo
della vita.
Nel sistema ritroviamo alcuni ambiti dell’esperienza umana, per esempio l’economia, che sono
ambiti nei quali agisce una ben precisa forma di razionalità. Nel mondo economico, come ci ha
mostrato Weber, agisce una razionalità di tipo strategico-strumentale. Nel mondo economico
abbiamo a che fare con un conflitto tra imprenditori per un profitto, per cui noi cerchiamo di
comportarci sulla base di valori quali l’utilità, l’efficienza, il profitto; quindi tendiamo a
massimizzare la nostra utilità, questo è un tipo di agire strategico-strumentale: io tratto le cose
come mezzi per raggiungere di fini (ad esempio abbasso i salari dei lavoratori per aumentare i
margini di profitto).
Nel mondo della vita invece, non agisce una razionalità di tipo economico, quindi strategico-
strumentale. Ma agisce una razionalità di tipo comunicativo: esistono degli ambiti della nostra
esperienza (morale, diritto, politica) nei quali noi in teoria dovremmo discutere con gli altri per
capire ciò che dobbiamo fare. Quindi l’obiettivo non è massimizzare il nostro utile, ma l’obiettivo è
intendersi con gli altri.
Il problema è che nella società di massa del tardo capitalismo, la razionalità strategico-strumentale
che caratterizza il sistema, a poco a poco sta colonizzando anche il mondo della vita. Cioè ambiti nei
quali dovrebbe agire una razionalità di tipo comunicativo sono influenzati invece da una razionalità
di tipo strategico-strumentale. Esattamente quel primato dell’economico di cui si parla oggi. La
politica non è più autonoma rispetto all’economia.
Se l’età moderna l’abbiamo contraddistinta richiamando il concetto di sfera pubblica, cioè di un
luogo all’interno della società dove dovrebbe trovare legittimazione il potere grazie ai processi
dialogici, se questo è l’elemento fondamentale che ha contraddistinto l’esperienza della modernità,
con il capitalismo la forma di razionalità dominante è diventata quella strategico-strumentale.
Quindi il capitalismo avrebbe sostanzialmente fatto deviare questo percorso. Nella società di oggi
questo processo di colonizzazione del mondo della vita da parte del sistema, fa si che momenti di

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esercizio di questa razionalità comunicativa diminuiscano sempre di più.
Quindi, ricapitolando, l’attenzione al linguaggio porta Habermas ad insistere su questa funzione
importante della comunicazione: il linguaggio serve a comunicare. Complessivamente abbiamo
diverse tipologie di agire che corrispondono alle diverse tipologie di razionalità: abbiamo una
razionalità di tipo strategico-strumentale ciò significa che abbiamo una forma di agire strategico
strumentale che è quella del burocrate, dell’imprenditore.
Poi abbiamo una forma di razionalità comunicativa che dà vita ad una forma di agire comunicativo,
che è quello che noi incarniamo quando ci sediamo insieme agli altri a discutere per cercare
un’intesa su qualcosa.
In questa prima fase che culmina nel 1981 Habermas sostanzialmente fa ruotare il tutto intorno a questa intuizione della
colonizzazione del mondo della vita e immagina che il mondo vitale provi a combattere l’ambito del sistema per riuscire ad imporre
questa sua logica comunicativa verso la logica strategico-strumentale. Anche se è molto scettico sulle possibilità che questo possa
accadere, ma è sicuramente più positivo rispetto ad Adorno che non vedeva alcun margine di miglioramento e che aveva una
visione negativa della stessa modernità che era un momento interno a questa storia di decadenza. Mentre per Habermas sostiene
che nel momento della modernità si è avuto un momento di emancipazione reale, che corrisponde ad un bisogno antropologico
dell’essere umano, collegato al linguaggio. Perché se il linguaggio è nato è stato per fare uscire l’uomo dallo stato naturale allo stato
culturale.

tutti i partecipanti alla discussione


rispettano 4 pretese di
validità
• GIUSTEZZA
• VERITA'
• VERIDICITA'
• COMPRENSIBILITA'

2 NOVEMBRE CAPITOLO 2°
RIEPILOGO LEZIONE PRECEENTE
La volta precedente abbiamo introdotto il pensiero di HABERMAS sulla rottura critica perché siamo
passati dalla serie di autori che insistevano molto sul pensiero HEGLE-MARXISTA, sul tema della
negatività per passare ad un autore come Habermas che cerca di sviluppare un discorso più
organico e sistematico sulle potenzialità e razionalità della ragione umana, quindi la teoria
dell’agire comunicativo risponde a questo tentativo di recepire innanzitutto la svolta linguistica
avvenuta nella riflessione filosofica del 900 e vedere a partire, appunto, da questa svolta nei
confronti del linguaggio come era possibile articolare la difesa della razionalità e come vedremo

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oggi una difesa di tipo illuministico di emancipazione, quindi Habermas è un autore che si situa
all’interno della tradizione dell’illuminismo; ha una sensibilità più positiva rispetto ai suoi maestri,
in particolare rispetto ad Adorno il quale esprimeva una dialettica dell’illuminismo cioè una visione
della razionalità totalitaria in se, tutta la storia del genere umano non è che un processo di lenta
decadenza, di assorbimento prima della natura poi dell’uomo da parte dell’altro uomo; Habermas
invece prova a spostare il discorso sulla razionalità umana che sia più positivo perché il paradosso
limite della posizione dei suoi maestri, era quella di non poter fondare una visione normativa di
democrazia, se tutta la storia umana è una storia di decadenza come facciamo a cogliere gli aspetti
positivi all’interno della modernità, come facciamo a sostenere che la forma di organizzazione delle
pratiche sia superiore rispetto ad altre forme di organizzazione socio-politico, insomma sono
queste le sollecitazioni che Habermas esprime e inserisce nella della teoria critica.
Secondo Habermas esistono due distinte forme di razionalità, la RAZIONALITA’ STRATEGICA-
STRUMENTALE e la RAZIONALITA’ DI TIPO COMUNICATIVO ,da un lato abbiamo un AGIRE DI TIPO
ECONOMICO che è guidato dalla razionalità Strategica-strumentale, quindi è la razionalità che si
occupa del rapporto mezzo-fine ed esiste un tipo di razionalità di tipo comunicativo in cui la
razionalità precede il dialogo, se ci poniamo in un’ottica dialogica con i nostri simili per metterci
d’accordo su cosa sia giusto e cosa sia vero qui entra in gioco la razionalità di tipo comunicativo.
Ci sono 4 pretese di validità (verità-veridicità-comprensibilità-giustezza) che secondo
Habermas è necessario rispettare perché si possa realmente parlare di dialogo se non rispettiamo
anche solo una di queste pretese non stiamo dando vita ad un reale dialogo ma un tentativo di
manipolare il nostro interlocutore, quindi la situazione linguistica ideale era questa costruzione
controfattuale, dice Habermas, in cui ci si immagina appunto la visione delle condizioni grazie al
quale è possibile trovare una comunicazione completamente trasparente, libera da qualunque
logica di potere, è una situazione ideale e controfattuale e non storicamente esistente però come già
abbiamo visto nel caso di ROWLS queste costruzioni ideali ci servono per poi valutare la realtà
concreta.
Prendendo spunto da come il dialogo dovrebbe essere quindi la condizione ideale, io posso valutare
criticamente una società concreta perché riesco a vedere le idee, i valori, i principi che dovrebbero
guidare una situazione ideologica.
Quindi queste situazioni ideali o controfattuali ci servono per criticare la realtà esistente, anche
Habermas si situa all’interno della tradizione normativa come J.ROWLS, loro indagano sul come
dovrebbe essere una società; ROWLS tratta dei principi di giustizia della società, Habermas si
caratterizza sul tema del dialogo e della comunicazione che ci servono per arrivare a fondare la
superiorità della forma democratica rispetto a forme alternative e di organizzazione sociale-
politico.
Abbiamo visto anche che la teoria dell’agire comunicativo che Habermas pubblica nel 1981 è
l’immagine che la società sia divisa in sottosistemi o meglio la società nel suo insieme è divisa tra
sistema e mondo della vita, dall’altro lato abbiamo ambiti che invadono la logica del sistema come
l’ambito dell’economia, cioè ambiti dell’esperienza umana guidati dalla razionalità strategica-
strumentale
Esistono, invece, altri ambiti che Habermas chiama “mondi della vita” come ambito morale, in cui
agisce una razionalità di tipo comunicativo, quindi la società può essere vista come la divisione tra
sistema e mondo della vita.
Habermas sosteneva che uno dei pericoli della società capitalistica contemporanea era questa sorta
di colonizzazione del mondo della vita da parte del sistema, cioè ambiti che dovrebbero essere retti
dalla razionalità comunicativa in realtà cominciano sempre più ad essere guidati o meglio plasmati
dalla razionalità di tipo strategico-strumentale, il famoso primato economico di cui si parla oggi.
Habermas immagina che la razionalità comunicativa è come se venisse sempre più attaccata
sostanzialmente dalla razionalità strategica-strumentale.
FINE RIEPILOGO

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Un paio di anni dopo, nel 1983 Habermas continua il suo discorso e pubblica un’altra opera
importantissima intitolata l’etica del discorso, un opera importante perché Habermas vi fa il punto
della situazione su quello che è il suo fine, su quello che è il fine della sua teoria sull’agire
comunicativo e sostanzialmente Habermas ci spiega che vuole, da un certo punto di vista, difendere
la funzione storica che la filosofia ha avuto nella tradizione occidentale, cioè la filosofia secondo
Habermas ha avuto come compito quello di essere più stolto della razionalità.
La filosofia nasce in Grecia sostanzialmente, nasce sganciandosi così dal mito provando ad
interrogarsi su tutta una serie di questioni di cui abbiamo anche parlato nei nostri primi incontri,
che cosa è la giustizia, che cosa è il bene, che cosa è il bello, che cosa è l’essere etc. e si provava a
rispondere a queste domande ragionando non facendo affidamento alla tradizione, alla religione o
al mito. Questa idea della filosofia come argomentazione attraversa un po’ tutta la storia della
cultura occidentale e Habermas sostiene che nel 900 questa idea di argomentazione quindi della
razionalità è entrata in crisi per una serie di circostanze che adesso vedremo, quindi è necessario
salvare questa importante funzione della filosofia come discorso sistematico, come discorso
razionale sul quale possiamo convergere tutti perché basato sulla ragione e non su una fede, mito o
religione, è fondamentale, secondo Habermas, per il progetto della modernità difendere questa idea
della filosofia da qui l’importanza della razionalità comunicativa.
Cosa è successo nl 900 che ha messo in discussione questo discorso sulla filosofia? per esempio gli
scritti di WITTGENSTEIN che se voi ricordate trattava della funzione terapeutica della filosofia ,
riflettendo sul linguaggio e sugli usi linguistici , sosteneva che la filosofia avesse quell’unico compito
che era di descrivere la realtà, quindi la funzione terapeutica della filosofia era vista da W. nel senso
che la filosofia ci aiutava, comprendendo come il linguaggio funziona, a liberarci da tutte le ansie
metafisiche, da tutte queste domande alla quale non c’è una risposta che la filosofia possa dare.
Questa era appunto l’idea di W. “La filosofia non come discorso normativo, non come indagine
sull’assoluto ma come riflessione linguistica su modo in cui parlava, sul modo in cui il linguaggio
funziona”.
W. secondo Habermas era responsabile di questa crisi della visione tradizionale della filosofia,
filosofia come custode della razionalità.
Ovviamente ci sono anche altri autori responsabili di questa crisi, autori che identificano tutta la
storia dell’occidente come una visione metafisica cioè la filosofia intesa come attenzione alla
ragione ha finito per generare fenomeni di violenza perché il logos è violento in se, se la filosofia è
l’esercizio della razionalità e la razionalità si esercita tramite i concetti, il concetto che abbiamo
visto con Adorno esercita una violenza sulla realtà perché la blocca all’interno dei concetti.
Poi esiste un'altra serie di autori che oggi sono molto importanti che si rifanno, invece, alla filosofia
aristotelica, come i comunitaristi, questi autori quando si occupano di filosofia politica e di filosofia
morale sottolineano una serie di aspetti importanti, indagare con l’ethos, il cittadino non esiste in
quanto tale perché è sempre legato ad una comunità di appartenenza, queste posizioni secondo
Habermas sono molto pericolose perché una delle posizioni più importanti della modernità è
proprio l’idea del soggetto dotato di ragione che non è sottomesso a nulla, non è sottomesso alla
religione, alla tradizione; l’idea illuminista è questa, l’uomo deve ragionare da solo , deve fare un
uso pubblico della sua ragione non deve l’uomo essere sottomesso e tutto deve essere criticato
dalla ragione, questa è la grande battaglia degli illuministi, una battaglia che Habermas intende
continuare.
Quindi le posizioni aristoteliche di molti comunitaristi tendono a mettere in discussione questo
aspetto, per esempio se noi diciamo che non esistono dei criteri assoluti perché il nostro senso di
giustizia deriva sempre esclusivamente dalla comunità alla quale apparteniamo, come possiamo
pensare e legittimare una forma di resistenza e di critica nei confronti della comunità alla quale
apparteniamo?
Molti di questi autori che si rifanno ad Aristotele, secondo Habermas, rischiano di mettere in
discussione queste idee invece molto importanti, la possibilità della critica che ha un formamento
razionale.

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È vero che noi cresciamo all’interno di comunità, in dei contesti più o meno ampi, più o meno chiusi,
più o meno autoritari ma il fatto di essere educati in un certo modo non ci impedisce l’assunzione di
una prospettiva critica nei confronti del nostro contesto di appartenenza.
Habermas afferma che la nostra razionalità è un elemento importante, è ciò che ci distingue rispetto
agli animali, la razionalità è essenzialmente la libertà di dialogo con gli altri, razionalità appunto
comunicativa, è proprio questo tipo di razionalità che ha consentito agli uomini di evolversi.
L’illuminismo è un momento culturale che noi non possiamo abbandonare perché l’avere
enfatizzato l’importanza della ragione come facoltà dell’essere umano è un qualcosa che noi non
possiamo tralasciare.
Nel 900 esistono una serie di posizioni teoriche che attaccano la razionalità umana come gli
aristotelici e in parte anche i francofortesi.
Adorno, maestro di Habermas, ha criticato il concetto di ragione sostenendo che la ragione è
totalitaria in sé, la totalitarietà non è strumento di emancipazione ma è diventato strumento di
dominio.
Habermas prova a ribaltare completamente la prospettiva di DURKHEIM e ADORNO perché noi non
possiamo vedere la storia umana in termini di decadenza ma la storia umana è un progresso storico
e morale in nome appunto dell’emancipazione, di questo bisogno che l’uomo ha di essere libero. È
questo istinto che lo ha spinto ad uscire dalla sua mera dimensione neutrale assumendo una
dimensione di tipo culturale tramite il linguaggio, il fatto che parliamo, quindi comunichiamo con
gli altri è l’implicito bisogno, interesse emancipativo che c’è nell’essere umano, che è collegato
all’essere animali linguistici.
Nel linguaggio, quindi, c’è questo filo intrinseco verso l’intesa, il discutere con altri, se io voglio
discutere con altri è per trovare un punto di vista superiore rispetto alla mera lotta, un punto di
vista sulla quale tutti possiamo intenderci .Quindi questa, dice Habermas, è la dimensione
fondamentale dal punto di vista filosofico ed è l’unico modo di difendere la razionalità, una visione
della razionalità che tenga conto della svolta linguistica.
Non esiste più il soggetto cartesiano che è in dubbio, che riflette su se stesso.
Secondo Habermas il linguaggio è uno strumento, quindi siccome la razionalità umana è una
razionalità comunicativa ed è essenzialmente il progetto illuministico, va completato nel 900
implementando questa dinamica comunicativa che trova la sua realizzazione nella democrazia.
Quindi i passaggi sono:
1) La razionalità come facoltà di emancipare l’essere umano;
2) La razionalità comunicativa;
3) La democrazia come l’organizzazione sociopolitica che permette la manifestazione della
razionalità comunicativa
La ragione, la filosofia deve essere al servizio di questo progetto di emancipazione che trova nella
democrazia il suo luogo privilegiato perché in essa discutiamo.
Perché la democrazia è una forma di organizzazione superiore alle alte dal punto di vista morale?
Perchè nella democrazia in teoria dovremmo discutere mentre nelle forme di organizzazione
politica pre- moderne non si discuteva salvo nell’agorà greca, ma abbiamo il potere affidato alla
classe sacerdotale, agli anziani, alla tradizione, il potere politico che viene rispettato in un ordine
cosmico; mentre nella modernità con la scoperta della ragione, con l’idea di un emancipazione
dell’essere umano non più subordinato a nulla ma che sottomette tutto alla ragione, nascono le basi
per un progetto democratico
La democrazia come luogo che il popolo voleva, dice Habermas, esercita la sua sovranità.
Habermas assume una prospettiva diversa da quella di Adorno il quale ha una visione negativa
della democrazia perché quando si trasferì negli Stati Uniti, durante il periodo delle persecuzioni
raziali, fu ossessionato dalla società consumistica Americana.
Ma in realtà, come dicevamo prima, sono tanti i filosofi che nel 900 prendono distanza dalla
razionalità, alcuni li abbiamo già visti come FOUCAULT che vede il potere nella sottomissione, tutto
è frutto di una costruzione del potere (potere e sapere le due facce della stessa medaglia)

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Habermas rispetto alla prospettiva di Foucault e altre prospettive che nascono in Francia negli anni
60/70, prende una posizione completamente opposto, infatti nel 1985 scrive un altro testo che si
intitola “ IL DISCORSO FILOSOFICO SULLA MODENITA’ ” che fa proprio il punto della situazione sul
ruolo che H. vuole giocare nel dibattito. Nell’opera sostiene che la modernità non è semplicemente
un discorso storico (nel 1492 con la scoperta dell’America nasce la modernità) il problema non è
questo dice H. perché le periodicizzazioni storiche le facciamo noi, siamo noi che attribuiamo ad un
certo fenomeno un importanza simbolica.
Ciò a cui H. è interessato è una valutazione filosofica della modernità, cosa rappresenta la filosofia
durante la modernità?
La modernità rappresenta un periodo di forte emancipazione, nel periodo dell’illuminismo si
sviluppa questa idea della razionalità, della ragione umana come facoltà che deve criticare tutto,
l’uomo deve accettare il valore morale, estetico, un certo regime politico piuttosto che un altro
perché lo ha voluto da un punto di vista razionale, non perché qualcuno lo abbia deciso per lui.
Quindi come diceva KANT nel famoso scritto alla risposta della domanda “ che cosa è
l’illuminismo?” intende come l’uscita dell’uomo di minorità, è quel momento storico in cui l’ uomo
comincia ad essere autonomo, l’uomo deve valutare con la sua ragione ciò che è giusto e sbagliato
non a caso nell’età moderna nasce l’idea del progetto moderno di democrazia in cui è il popolo ad
esercitare la sua volontà.
Il progetto moderno di democrazia nasce dal fatto che non esiste nessun ordine al quale l’uomo
deve necessariamente sottomettersi.
Il problema che Habermas si pone nella prima metà degli anni 80 è esattamente questo, il
patrimonio filosofico della modernità, la battaglia in favore della razionalità, è un qualcosa che noi
possiamo abbandonare? Come sostiene la maggior parte dei filosofi del 900 (WRITTGSTEIN-
FRANFOFORTESI- FILOSOFI POST-MODERNI). IL POST MODERNO è UN ATTACCO ALLA
RAZIONALITA’,IN NOME DELL’ALTRO, DELL’INCONSCIO, ansi Habermas dice che la filosofia che si
sviluppa in Francia negli anni 60 e 70 non è altro che uno sviluppo dell’ età nicciana perché fu
proprio NIETZSCHE (si pronuncia “NICH”) ad attaccare per primo la ragione.
NIETZSCHE è stato l’autore che accusa la razionalità e la modernità europea di avere dimenticato
che in realtà la storia umana è il frutto di lotta e conflitti in cui i più forti vincono a danno dei più
deboli e il frutto del lavoro cristiano non è altro che senso di risentimento, perché il cristianesimo,
secondo lui, non è altro che un’invenzione di coloro che erano deboli e sofferenti che invece di
accettare il loro tragico destino si sono inventati l’idea di un Dio che un giorno li ricompenserà e
trasferirà in un altro mondo.
L’idea del superuomo nella filosofia nicciana era colui che imponeva i valori, per questo è un
pensatore anti-democratico, il superuomo deve imporre se stesso, i suoi valori.
Gli anni 60 hanno portato allo sviluppo di tutta una serie di tematiche che sono implicite nella
teoria di NIETZSCHE, come il tema della liberazione all’interno della scuola, l’idea della liberazione
sessuale, sono tutte tematiche che appunto risentono di questa eredità nicciana; che però dice
Habermas, è un eredità pericolosa perché una cosa è riconoscere che la ragione ha dei limiti, una
cosa è dire che dobbiamo abbandonarla; perché se noi abbandoniamo la ragione, la razionalità, per
come gli illuministi ci hanno insegnato a concepirla, come facciamo a criticare la società? Come
facciamo a criticare le cose che succedono? rischiamo di cadere in una sorta di stato hobbesiano, il
fatto di rinunciare al criterio di razionalità ed avere la lotta di tutti contro tutti.
È un po’ il tema di cui si discute anche oggi quando si parla di rapporti tra occidente e non, come ne
abbiamo parlato nella lezione dedicata ai post-colonial states, se noi abbandoniamo questa idea di
razionalità, critica e riflessiva, come facciamo ad importare dei discorsi normativi sugli usi e
costumi diffusi, come facciamo a difendere i diritti delle donne, o i diritti delle minoranze, come
facciamo a fondare il discorso sui diritti umani? Se non diamo un fondamento razionale a questi
diritti, a queste battaglie.
Se tutto è volontà di potenza come dice NIETZSCHE e i suoi epigoni francesi non c’è nessuno spazio
per la critica, anzi ricadiamo in una prospettiva pre-moderna, cioè la prospettiva dove, avendo

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delineato la prospettiva illuministica, il criterio del giusto e del vero ridiventa nuovamente la
tradizione o la religione o la legge dei più forti.
Quindi nel 1985 Habermas, invitato in una conferenza a Parigi, conclude questa conferenza con il
titolo “ IL DISCORSO FILOSOFICO DELLA MODERNITA’” che è proprio un attacco alla filosofia
francese post moderna(Foucault)
Il problema della filosofia post-moderna, di cui oggi sentiamo parlare, dal suo punto di vista si
attacca alla razionalità ma non si capisce con che cosa sostituirla, quindi venendo meno a
qualunque criterio che stabilisce ciò che è giusto e sbagliato, un criterio che sia esterno,
trascendente al contesto al quale operiamo, ricadiamo in un’ottica premoderna.
La soluzione per Habermas non è abbandonare la modernità ma completarla, la modernità è un
progetto incompiuto perché la società moderna non ha pienamente concretizzato la razionalità
comunicativa di cui Habermas parla.
Ciò a cui la società occidentale dovrebbe attenzionare è questa riduzione comunicativa
dell’esistenza che è l’unica che permette di fondare la democrazia. Se noi vogliamo sostenere che la
democrazia è una forma di governo superiore alle altre dobbiamo fare affidamento alla razionalità
comunicativa.
Il punto principale di questa questione è che il linguaggio umano viene inteso come forma di
interazione tra individui, regolata da apposite norme.
Habermas afferma che nel momento in cui vi è un dialogo il parlante automaticamente vuole 4 tipi
di pretese:
1) COMPRENSIBILITA’, deve utilizzare espressioni comprensibili in modo che parlante e
ascoltatore possano comprendersi a vicenda;
2) VERITA’, il parlante deve comunicare un contenuto vero;
3) VERIDICITA’, il parlante deve esprimere le sue vere intenzioni cosi che l’ascoltatore possa
avere fiducia in lui;
4) GIUSTEZZA, deve avere un fondo normativo riconosciuto, deve utilizzare espressioni
corrette in riferimento a norme e valori cosi che parlante e ascoltatore possano ritrovarsi
d’accordo.
I partecipanti alla discussione sono allo stesso tempo partecipi a interazioni sociali per cui non possono
essere rispettati come parti del dialogo se prima non vengono rispettati generalmente. Habermas non
segue questa linea di ragionamento lui si basa su 2 PRINCIPI FONADAMENTALI:

1) Il primo verte sull’etica del discorso e prende il nome di PRINCIPIO D : “possono pretendere
validità soltanto quelle norme che trovano il consenso di tutti i soggetti quali partecipanti ad
un discorso pratico”
2) Il secondo lo definisce PRINCIPIO U ovvero di universalizzazione, ogni norma valida devve
soddisfare le condizioni e gli effetti derivanti dalla sua universale osservanza; si può arrivare
ad un intesa solo attraverso il principio U in modo che siano valide quelle norme che
trattano n modo paritario gli interessi, i bisogni o le pretese.

Nel 1992 pubblica “FATTI E NORME” con cui si sofferma sul problema del rapporto tra diritto e
morale attestando l’autonomia del primo rispetto alla seconda, per chiarire questa tesi costruisce
una sorta di schema concettuale piramidale con un vertice e due derivazioni; al vertice vi è il
principio D( sono valide soltanto quelle norme che tutti gli interessati potrebbero approvare
partecipando a discorsi razionali”. Dal vertice del principio D si creano 2 principi U che si
riferiscono rispettivamente all’ambito morale e giuridico-politico

Il pensiero di Habermas può essere inteso come una riformulazione dell’imperativo categorico
Kantiano “agisci solo secondo quella massima stima che tu puoi volere, al tempo stesso, che diventi
una legge universale”.
HABERMAS “sono valide tutte quelle norme che i cittadini potrebbero volere, in quanto trattano
imparzialmente gli interessi di ciascuno, un idea che si avvicina molto a quella di RAWLS secondo
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cui la giustizia richiede imparzialità.
Habermas caratterizza il suo approccio morale come COGNITIVISTICO perché, appunto, ritiene che
le questioni sono suscettibili da trattamento razionale. In secondo luogo il suo approccio è
FORMAL-PROCEDURALE perché non mira a dire quali siano le norme giuste ma mostra il modo che
dobbiamo seguire per individuarle.
Utilizza un etica universalistica e deontologica perché non individua un ideale di vita buona ma
definisce COME dobbiamo interagire con gli altri. Nel 1994 nella TEORIA DELLA MORALE affronta
il problema della inadeguatezza della morale, solo un istituzionalizzazione giuridica può assicurare
l’osservanza generale delle norme moralmente valide; quindi il diritto è la dimensione in cui le
norme
A partire dall’opera “ FATTI E NORME” introduce una netta distinzione tra morale ed etica, mentre
la morale esprime il punto di vista del giusto, l’etica esprime il punto di vista del bene ovvero di ciò
che è buono per noi in quanto appartenenti ad una comunità giuridica.
Nelle società democratiche sono nate un serie di forme di resistenza del potere politico per cui, dice
Habermas, è solo la società democratica che può consentire lo sviluppo di questa dimensione
comunicativa della nostra esistenza, l’unica dimensione che ci permette di conservare l’eredità
dell’illuminismo, perché se la linea nich-post moderna accusa la ragione sostenendo che dobbiamo
abbandonare la razionalità perché non esiste nessuno assoluto, tutto è semplicemente logica di
potere, di dominio, invece noi dobbiamo salvare l’idea di assoluto però, dice Habermas, questo
assoluto non è più il Dio delle religioni, non è più il cosmo di cui parlavano le società pre-moderne
ma questo assoluto diventa la comunicazione stessa, la stessa situazione dialogica.
Ognuno di noi, nella società contemporanea, può sostenere ciò che è giusto o sbagliato attraverso il
dialogo che deve seguire un modello della situazione linguistica ideale.
Quindi nella società contemporanea caratterizzata dal pluralismo l’unica soluzione che abbiamo è
dialogare, nessuno può più dir di avere la verità, la visione corretta della visione umana, di quale sia
il fine dell’uomo, di cosa sia bene per l ‘essere umano, perché siamo esseri storici, però siccome ci
teniamo ad interagire con altri, dato che ci troviamo all’interno di società aperte, da società
caratterizzate dal pluralismo, in società laiche, in cui vi è separazione tra storia religiosa e civile, l
‘unico strumento che abbiamo per metterci d’accordo non è ammazzarci ma DIALOGARE.
La validità delle norme dipendono dal consenso che riescono a suscitare perché dobbiamo
discutere su ciò che è giusto e sbagliato, il principio di validità diventa la discussione stessa…
Più una norma intercetta consenso più sarà valida

Il progetto della modernità non è un progetto sbagliato, non è un progetto da abbandonare ma


completare, se vogliamo conservare l’eredità dell’illuminismo dobbiamo declinarlo in chiave
comunicativa perché la razionalità umana non è semplicemente una razionalità tecnocratica o
ideologica ma la razionalità ha anche la sua forma comunicativa, cioè nella storia umana abbiamo
anche fenomeni di discussione soprattutto in età moderna come l’affermazione della società di tipo
democratico, cioè possiamo vedere che sono tutti elementi che si tengono assieme: l’ottica
filosofica della visuale illuministica, l’idea di emancipazione, l’idea di razionalità comunicativa è un
blocco tematico che si pone in Habermas come grande difensore della modernità; la maggior parte
dei filosofi della seconda metà del 900’ camminano in un sentiero completamente opposto..
Habermas prova a difendere questa grande intuizione dell’illuminismo ovvero la dimensione
critico-riflessiva della nostra società che si può declinare attraverso la razionalità comunicativa,
non abbiamo più un soggetto che ragione da solo ma che ragiona con altri.
Nel 1988 Habermas pubblica un ennesimo testo “IL PENSIERO POT-METAFISICO” in cui chiarisce
determinati aspetti; la filosofia di Habermas non è finalizzata a dirci ciò che è giusto o ciò che è vero
si presenta come post-metafisica ovvero che è interessata a ragionare sul fatto che nessuno ha la
verità e quindi l’unica possibilità che abbiamo è discutere.
Quindi la sua filosofia tratta dell’essere e non si occupa della natura, a cosa è il mondo a come
funziona se esiste un Dio o meno, ma sui modi in cui dobbiamo risolvere questi problemi che è un
quesito molto diverso rispetto agli altri;

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"non dice cosa dobbiamo fare ma la procedura che dobbiamo seguire per capire come comportarci “
(prospettiva kantiana) attraverso il dialogo
((fa un esempio sui media (“ognuno cerca su internet la conferma di ciò che pensa”)…che vi risparmio
perché non è domanda di esame!!!))

(TROVERETE LA PAROLE “INDISTIFICZIONE” IL PROF UTILIZZA QUESTO TERMINE CHE


APPARENTEMENTE SEMBRA NON APPARTENERE ALLA LINGUA ITALIANA!!!)
La perdita della capacità critico-riflessiva in tutti gli ambiti (storico, politico, sociologico…) è il
pericolo della società in cui noi viviamo soprattutto dell’occidente.
Nel pensiero post-metafisico, diceva Habermas, la filosofia non avanza pretese di contenuto ma si
occupa della forma dei nostri discorsi, cosa gli argomenti devono avere.
Se prendiamo in considerazione il tema della religione, ( Habermas è ateo quindi fa discorsi
meramente intellettuali)HABERMAS ha sempre inteso il progetto illuministico come una
indistificazione del sacro, sacro cioè il trasferimento sul piano linguistico di tutto ciò che è sacro,
l’assoluto, Dio, la morale tutto ciò viene trasferito a livello linguistico, comunicativo dice Habermas.
Habermas negli anni 80 riteneva che questo processo che ha investito la società occidentale, la
società europea moderna implica una serie di conseguenze: separazione tra sfera religiosa e civile-
laicità- il fatto che le credenze religiose diventino credenze private e che addirittura finiranno con
lo scomparire-questa era la narrazione all’interno della quale Habermas esprime il suo pensiero.
Indistificazione perchè il ruolo del sacro nel passato oggi deve essere svolto dalla comunicazione e
quindi dal linguaggio soprattutto nella società democratica.
Alla fine degli anni 80 però comincia a riflettere sul fatto che le religioni non scompaiono
nell’orizzonte, le persone continuano ad essere religiose e chiedono il riconoscimento pubblico
della loro religiosità ed è qui che si interessa sul rapporto tra filosofia e religione, sostiene che fin
quando la razionalità comunicativa non riuscirà ad esaurire completamente la religione la deve
accettare, la deve mettere ai margini perchè sono “ VEICOLI DI SENSO” ( senso della morte)
Affinché la ragione comunicativa non riesce a sostituire le religioni allora bisogna tollerarle, anzi
per Habermas la ragione comunicativa non è né pro né contro la religione in se purché le religioni
abbiano nei confronti della società civile quell’atteggiamento tipico della società, accettino la
distinzione tra pubblico privato, la sfera civile e politica, accettino i processi di decisione collettivi e
quindi la validità di norme giuridiche sono collegate alla democrazia e non alla volontà di Dio.
Se le religioni rispettano queste regole la filosofia laica deve porsi nei loro confronti in maniera
neutrale; mentre in passato il pensiero laicista che Habermas aveva era quella di non considerare
così tanto le religioni perché erano un ostacolo nel processo di secolarizzazione e quindi di
modernizzazione della società.
Cosi alla fine degli anni 80 e inizio 90 Habermas comincia a cambiare sensibilità rispetto a questo
tema, al rapporto filosofia-religione, tra scienza e religione tra sapere laico e sapere religioso però
le idee religiose in questa fase del suo pensiero non possono accedere alla sfera pubblica, cioè non
si può partecipare ad una situazione ideologica portando argomenti in base alla mia religione
perché per principio non possono essere accettati dagli altri, i discorsi religiosi devono stare al di
fuori della sfera pubblica.
La sfera pubblica deve essere una sfera neutrale dove si presentano argomenti e discorsi che sono
passivi e universalizzabili quindi con una condivisione tanto più ampia possibile, gli argomenti
devono essere accettati da tutti.
Habermas negli anni 90 quando elabora la sua teoria discorsiva della democrazia ( ne parleremo
lunedì :D ) da un certo punto di vista sembra depotenziare la filosofia.
Lo schema di Habermas è che i filosofi nella modernità diventano una delle voci all’interno della
società civile così che possano prendere parte alla sfera pubblica, il filosofo non è colui che ne sa più
degli altri, probabilmente è più competente rispetto ad altri, ma è tutta la società messa insieme ad
esercitare l’attività della critica non è solo il filosofo.
L’attività di critica è l’attività esercitata da tutto il popolo nel suo complesso ovviamente all’interno
del popolo ci sono anche i filosofi.

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Quindi Habermas fa questo ulteriore passaggio che si radicalizza negli anni 90, il filosofo non è più

colui che guida la società ma partecipa alla discussione all’interno della società democratica
evidentemente; l’attività di critica consiste essenzialmente nel dialogare perché la democrazia non è
semplicemente un insieme di regole ma è un progetto in itinere, è chiaramente un insieme di
procedure. La democrazia è sempre una tensione, c’è sempre un elemento dinamico all’interno
come il fatto che discutiamo, nella sfera pubblica confluiscono tutte quelle istanze provenienti dalla
società (come le istanze di giustizia) che sollecitano continuamente il potere politico
La democrazia, secondo Habermas, non è uno stato ma è un processo che consiste in una serie di
procedure, quindi se la democrazia è un processo in itinere evidentemente l’attività della critica è
l’attività comunicativa esercitata dal popolo quotidianamente, per questo è importante lavorare
sulla costruzione dell’ethos democratico.
La critica che è essenza della democrazia ed emancipazione è un qualcosa che si esercita ogni
giorno e non solo al momento del voto, è un esercizio attivo della nostra razionalità.
Per Habermas la democrazia va pensata nei termini di un processo discorsivo pubblico, normato,
istituzionalizzato e proceduralizzato, basato sullo scambio di ragioni e rivolto alla definizione di un
quadro di norme giuridiche legittime di cui i cittadini possano riconoscersi come liberi ed eguali.
Per quanto riguarda il processo di autolegislazione democratica da cui scaturisce la legittimità delle
norme, si struttura giuridicamente attraverso un sistema dei diritti. Questo sistema rappresenta
una classificazione di diritti “ insaturi” che dovranno essere interpretati e sviluppati nell’esercizio
dell’autolegislazione si tratta di una serie di diritti fondamentale che il cittadino deve rispettare se
intende costituire una società democrazia, appartengono a questi diritti principalmente:
 diritto a pari libertà d’azione
 diritto di appartenenza associativa
 diritto a tutela giurisdizionale
 diritti politici
 diritti di ripartizione sociale
Habermas, infine, riflette sul tema della Carta Costituzionale; è necessario un custode come la<
Corte, che a prima vista potrebbe apparire come un istituzione che limitala sovranità popolare?
Secondo Habermas il compito della Corte dovrebbe essere quello, innanzitutto, di soffermarsi sulle
procedure ovvero di preoccuparsi che restino aperti i canali necessari per il processo di formazione
dell’opinione pubblica.

Lezione 7/11/2016
Habermas si pone come continuatore del progetto della modernità. Egli intende questo progetto
della modernità come il difendere e recuperare la funzione razionale della filosofia, cioè la filosofia
intesa come discorso razionale finalizzato alla causa della emancipazione umana, nel senso che
Habermas contro tutta una serie di posizioni filosofiche che si diffondono in Europa e in occidente a
partire soprattutto dagli anni ’60, che recuperano e sviluppano le verità di Nietzsche, egli tende a
difendere la razionalità contro autori, come Foucault, che attaccano prontamente la ragione e la
razionalità dichiarando il progetto della modernità come un progetto concluso, un progetto da
superare. Per H. il progetto della modernità era un progetto da completare, ancora da compiere. La
forma di razionalità che bisognava difendere era la razionalità comunicativa, poiché nella forma di
governo democratico il progetto della modernità può trovare il suo effettivo compimento, nel
dialogo e nella discussione, a differenza di altre forme di organizzazione politica in cui esiste una
classe, una cerchia della popolazione che è detentrice del potere, in virtù di una legge inesorabile
della storia, di una verità religiosa o laica, ecc., mentre in una democrazia è il popolo titolare della

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sovranità, e quindi la forma di governo democratico è quella che più si avvicina al modello dialogico
della situazione linguistica ideale.
Situazione linguistica ideale: cioè quella situazione dialogica in cui una serie di interlocutori
danno vita ad una comunicazione assolutamente trasparente e finalizzata al conseguimento dell’
intesa , quindi non una situazione dialogica finalizzata a manipolare o dominare o convincere con
artifici della retorica il nostro interlocutore, ma una situazione dialogica in cui ol fine è trovare
un’intesa su ciò che è maggiormente argomentato , su ciò che è più giustificato. Questo è il concetto
di intesa habermassiano, siccome l’uomo è un animale linguistico, per Habermas all’interno del
linguaggio c’è insita questa finalità verso l’intesa, a questo serve il linguaggio, questa è la funzione
che il linguaggio ha svolto storicamente per l’evoluzione del genere umano. Con il linguaggio
abbiamo creato un sistema di simboli che ci ha permesso di uscire dallo stato naturale e di accedere
al nostro essere animali culturali.

ETICA DEL DISCORDSO


L’intesa, dice Habermas, è il conseguimento di un accordo su una tesi che riconosciamo come
valida, quindi non è a ribasso ma è a rialzo, cioè noi ci convinciamo che questa tesi è la migliore
rispetto a quella che avevo prima di entrare nella situazione linguistica ideale, cioè nella situazione
dialogica con gli altri, volendo richiamare Rawls, è una sorta di consenso per intersezione, cioè un
consenso morale nei confronti della tesi che risulta vincitrice all’interno della situazione linguistica
ideale. Il principio di validità delle norme quindi è sostanzialmente il consenso, più una norma può
ottenere consenso da parte dei partecipanti alla discussione, più questa norma va considerata
valida. Se il discorso argomentativo verte intorno alla ricerca di norme che regolino l’interazione
sociale, questo può funzionare, giungendo ad un’intesa, solo quando si fa guidare da un principio
argomentativo che Habermas chiama Principio U (di universalizzazione). Nella tradizione del
giusnaturalismo, cioè della teoria della legge naturale, una norma giuridica, quindi di diritto
positivo, è valida solo se si uniforma all’ordine morale, che può essere l’ordine del cosmo, un
comandamento divino per chi è religioso, quindi c’è una norma esterna rispetto al diritto positivo,
appunto la legge di diritto naturale; per Habermas invece oggi questa posizione non è più
praticabile, poiché viviamo in un orizzonte post metafisico, viviamo in una società dove ognuno ha
un’idea diversa, di chi sia di Dio, di che cosa sia la natura umana, dei valori morali, viviamo
all’interno di una situazione di pluralismo morale, quindi per Habermas il criterio di validità delle
norme non può più ancorarsi alla prospettiva giusnaturalistica, come se esistesse un valore esterno,
un ordine del mondo, un comandamento divino sul quale tutti conveniamo, manca questo
fondamento, quindi di conseguenza il criterio di validità delle norme deve coincidere in
qualcos’altro, cioè il consenso (se discutiamo perché abbiamo opinioni diverse, ciò che è valido alla
fine della discussione, è ciò su cui troviamo un consenso). Negli scritti degli anni ’70 fino alla fine
degli anni ’80, H. immagina che è possibile raggiungere l’unanimità all’interno di una situazione
linguistica ideale, attraverso un gioco di pretese di validità (cioè abbandonare le nostre teorie dopo
che ci rendiamo conto che ce ne sono altre più giustificate rispetto alle nostre, l’idea di essere
sinceri quando sosteniamo un’opinione) che se provassimo a realizzare pianamente, si arriverebbe
all’unanimità, questa comporta lo scartare le teorie che sono meno giustificate, al fine di trovare un
consenso unanime tra tutti gli interlocutori, tra tutti i partecipanti alla prassi linguistico-
comunicativa, su un’unica tesi. Questa è una visione ottimistica, in teoria dovrebbe essere possibile
raggiungere questa unanimità, almeno a livello ideale, è chiaro che sul piano della prassi, cioè della
realtà storica, empirica, concreta è difficilmente realizzabile. Questa è un’idea che egli sviluppa
all’interno della “teoria dell’agire comunicativo” e soprattutto nel testo “ l’etica del discorso”. Nel
“discorso filosofico della modernità”, testo dell’85, H. invece difende questa sua idea della
modernità come progetto che va realizzato, che va compiuto, contro tutte le teorie della filosofia
francese postmoderna. Michel Foucault è uno degli autori di cui H. polemizza, poiché secondo H.
non si può ridurre tutta l’esperienza umana ad una logica di potere, non si può sostenere che anche
nelle democrazie il discorso sull’emancipazione umana, ad esempio, sia un discorso retorico, un

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discorso di potere, perché questo significa disconoscere ciò che storicamente è accaduto in età
moderna , tutte le battaglie fatte in favore dei diritti delle donne, dei diritti delle minoranze,
l’importante ruolo che ha avuto la rivoluzione francese, le battaglie in favore dei diritti sociali e
politici, queste sono tutte battaglie storiche nelle quali secondo Habermas si realizza questo
progetto della modernità. Foucault invece riduce tutto a potere, secondo questo autore, ad
esempio, il discorso della emancipazione è una bufala, una costruzione retorica, come Nietzsche
considera tutti i valori semplicemente come frutto di una logica di potere. Questi sono due diversi
modi di interpretazione della realtà che però hanno anche degli effetti normativi, cioè sul modo in
cui noi ci poniamo nei confronti del “dover essere”.
La domanda che Habermas si pone nei confronti di coloro che si richiamano a Michel Foucault, a
Nietzsche, al postmoderno è quella di quali siano i criteri per agire, se tutto è semplicemente una
logica di potere, è realmente possibile domandarsi perché una certa pratica è ingiusta? Dove risiede
il criterio per stabilire ciò che è giusto e ciò che non lo è? Come si affronta il problema del male se
tutto è frutto di una logica di potere? Quando ci poniamo una domanda di giustizia è perché ci
troviamo di fronte a qualcosa che riteniamo ingiusto dal punto di vista morale, di approccio ai
valori. Ma se i valori non esistono secondo la tesi di Nietzsche, sostenuta anche da Foucault, in base
a che cosa critichiamo pratiche come la schiavitù, o pratiche di riduzione dei diritti delle minoranze,
come facciamo a impostare un discorso sui diritti se non crediamo al concetto di natura umana?
Anche il concetto di natura umana è frutto di una logica di potere.
La filosofia di Habermas si pone in un atteggiamento di sfida nei confronti di questa filosofia che è
diventata ed è tutt’ora dominante.

MODELLO DI DEMOCRAZIA DI CUI PARLA HABERMAS


“Fatti e norme” è un’opera in cui Habermas tratta il tema della democrazia. Con questo titolo
l’autore vuole farci riflettere su una caratteristica della società democratica, cioè che la democrazia
non è mai una situazione definitiva, raggiunta una volta per tutte, ma un processo in itinere, anzi
secondo Habermas è insita nella dinamica democratica una tensione tra la fattualità e la
normatività (fatti e norme). Le società democratiche sono società in cui noi all’interno delle prassi
dialogiche che caratterizzano questo tipo di società, facciamo emergere continuamente domande di
giustizia, che chiedono al potere politico di essere declinate, quindi esiste sempre una tensione tra
ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. Questa è la caratteristica della società democratica, non è
una società statica come la società descritta da Platone ne “la Repubblica”, dove ciò che è giusto e
ciò che è sbagliato è stabilito a priori, non è una società come quella profetizzata da Marx, in cui c’è
una semplice amministrazione delle cose, dove una volta abolita la proprietà privata, una volta
socializzati i mezzi di produzione, il concetto stesso di Stato si estinguerà, poiché arriveremo ad
una semplice amministrazione delle cose, ci saranno alcuni bisogni materiali e tutti quanti
decideremo come meglio organizzarli, questa è una società dove non c’è più un problema di
giustizia. Per Habermas la società democratica è sempre animata da una tensione, sul piano della
fattualità, cioè l’insieme dei rapporti economici, politici, culturali che ci caratterizzano in un dato
momento storico, e la normatività, ciò che vorremmo essere, ciò che vorremmo realizzare, in
termini di giustizia, in termini di beni, quindi il motivo per il quale dialoghiamo in una democrazia è
per risolvere problemi di giustizia, problemi di ogni ordine e grado e il voler risolvere questi
problemi fa si che in una società democratica c’è sempre in maniera strutturale questa tensione tra
il piano della fattualità e il piano della normatività.
Sono tre gli elementi fondamentali perché si possa parlare di una democrazia:
 Soggetto deliberante di natura collettiva che noi chiamiamo popolo
 Oggetto su cui deliberare
 Processo deliberante
Le visioni della democrazia sono tante, ed Habermas prende posizione contro queste visioni della
democrazia alternative rispetto alla sua :

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 Visione della democrazia liberale
 Visione della democrazia repubblicana
 Visione della democrazia come metodo.
Habermas critica la visione della democrazia come metodo la quale afferma che affinché una
società sia democratica devono essere presenti alcuni elementi, come ad esempio, le libere elezioni.
Habermas sostiene che questa visione di democrazia come metodo non sia sufficiente, perché in
realtà se osserviamo alcune società oggi esistenti, in cui sono previste libere elezioni, ci rendiamo
conto che non si possono definire società democratiche (es. Iran, Turchia, Cina). Ci possono anche
essere libere elezioni, ci posso essere referendum continui, ma se manca un elemento
fondamentale che è la libera circolazione delle informazioni, dovuta alla restrizione dei mass media,
ad una limitazione di internet, non ci si può creare un punto di vista alternativo e critico rispetto a
quello che ci propone il potere costituito, non ci sarà quindi un consenso democratico, poiché la
democrazia deve vivere in un confronto critico secondo il modello dialogico di Habermas. Le libere
elezioni quindi sono una condizione necessaria affinché si possa parla di democrazia, ma non
sufficiente. una società dove vi sono delle restrizioni operate dal potere politico nei confronti della
libera circolazione delle informazioni, sarà una società non pienamente democratica (per questo
motivo Habermas fu molto critico alcuni anni fa nei confronti della situazione politica italiana,
quando Berlusconi era al potere, egli sosteneva che vi era un conflitto di interessi tra chi esercita il
potere politico e chi detiene una fetta consistente del sistema di informazione del paese). I mass
media devono essere indipendenti rispetto al potere politico per potere svolgere quella funzione di
critica, di sollecitazione nei confronti dei processi di formazione dell’ opinione pubblica. Se chi
controlla i mass media è anche detentore del potere politico si viene a creare una sorta di
cortocircuito, quindi possono esserci vari elementi necessari per il buon funzionamento di una
società democratica, ma se manca la libera circolazione dell’informazione, quella società non sarà
mai pienamente democratica poiché non vi sarà mai un’opinione pubblica adeguatamente formata
e critica.
Un’altra visione che Habermas contesta è la visione della democrazia repubblicana. I
repubblicani sono degli autori che è difficile ricondurre ad un’unica matrice, sostanzialmente i
repubblicani che criticano Habermas quando si occupa di democrazia, sono i repubblicani
comunitaristi, cioè quell’insieme di autori che sostengono, criticando i liberali per esempio, che in
realtà la vita di una comunità è una vita fatta da legami comunitari, non c’è l’individuo di cui parlano
i liberali, ma noi siamo sempre soggetti inseriti all’interno di una comunità, il nostro senso si
giustizia, i nostri valori politici, derivano sempre dall’ethos della comunità alla quale apparteniamo.
Per Habermas questa è una prospettiva molto pericolosa, poiché non è una prospettiva pienamente
in linea con la tradizione linguistica, cioè la tradizione della ragione che è anche critica dell’ethos
della comunità alla quale apparteniamo; il pericolo è quello che si tende a ridurre il momento della
razionalità, in favore di altri elementi, come ad esempio, la comunanza di sangue, la comunanza
della storia, la comunanza della razza, la comunanza della nazione, una certa idea di società che è
tipica di una serie di movimenti di matrice aristotelica, comunitarista, che tendono a vedere il
collante della società in questo ethos morale di fondo. Se noi apparteniamo ad una società, è perché
condividiamo una serie di valori forti, in termini di storia nazionale, di legami di sangue, di razza
ecc.… Per Habermas tutte queste prospettive sono pericolose per una democrazia intesa come
processo dialogico e critico continuo, perché è come se il soggetto in sé non esistesse, il soggetto è
sempre parte di una collettività. I diritti politici in questo quadro, comunitario e repubblicano,
finiscono con l’essere strumentali, nel senso che diventa fondamentale fare politica per realizzare la
nostra essenza di cittadini all’interno della polis, all’interno del partito, all’interno della società in
cui viviamo, quindi la politica diventa funzionale al mantenimento di questo etos, la politica diventa
il modo con il quale organizziamo noi stessi in quanto cittadini. Se sono legato alla mia società da un
legame di sangue, ho il dovere morale di fare politica, per preservare la continuazione storica di
quella società. In base all’idea aristotelica, io devo fare politica, nel fare politica organizzo me stesso
in quanto cittadino, questo è un ideale che i repubblicani comunitaristi oggi ripresentano. È un

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dovere civico fare politica, poiché non posso disinteressarmi della cosa pubblica come vogliono i
liberali che sono interessati solo alla dimensione privata dell’esistenza umana, noi abbiamo il
dovere di partecipare alla vita associata e quindi alla politica in senso ampio. Però questo dice
Habermas diventa una visione oppressiva, sono obbligato a fare politica perché ho un legame non
soltanto di tipo morale e razionale, ma proprio un legame di sangue, genetico con i miei simili, per
cui sono costretto a fare politica per preservare questo ethos di fondo. La visione repubblicana della
democrazia quindi, è essa stessa pericolosa, perché potrebbe finire col tradire la quintessenza della
visione moderna di democrazia, intesa invece come critica, come un processo di formazione
dell’opinione pubblica che può criticare il potere politico. Dal punto di vista repubblicano come
possiamo muovere una critica nei confronti dell’ethos dominante, nel momento in cui, secondo
questi teorici, noi siamo costituiti da questo ethos dominante? Siamo cittadini in quanto parte di un
progetto collettivo, quindi non abbiamo nessuna legittimità di criticare il progetto collettivo stesso
che ci costituisce. Tutte le visioni della democrazia non liberale dice Habermas, sono visioni della
democrazia che presentano questo forte momento costitutivo, l’ethos collettivo, che porta a
declinazioni religiose (il bisogno ad es. che la società ridiventi cristiana, poiché c’è bisogno di un
ethos collettivo forte), dal punto di vista habermassiano sono tutti tentativi di vedere una comunità
forte alla base, però il pericolo è che i diritti individuali vengano lesi, perché sempre subordinati
all’elemento collettivo. Per Habermas se la visione della democrazia come metodo era insufficiente,
perché una serie di procedure sono condizioni necessarie ma tutto sommato insufficienti perché ci
sia una democrazia, le visioni repubblicane della democrazia di matrice aristotelica soprattutto o
comunitarista, peccano per eccesso, perché richiedono troppa politica, una presenza della politica
non tollerabile per una società pienamente pluralista. In realtà però anche la visione liberale della
democrazia, alla quale Habermas è più vicino rispetto alle altre due, presenta dei limiti importanti,
questo ci permette di vedere alcune differenze anche con Rawls, che emergono soprattutto in uno
scambio che i due ebbero nel 94/95 sul “journal of philosophy”, nel quale ci fu un botta e risposta
tra questi due filosofi su problema della democrazia e sulle rispettive visioni filosofiche, il
liberalismo politico da parte di Rawls e la democrazia deliberativa da parte di Habermas. H.
sostiene che il limite della visione liberale della democrazia risiede in questa fortissima scissione
che c’è tra dimensione pubblica e dimensione privata, l’idealtipo democratico secondo i teorici
liberali è che il cittadino si occupi della sua vita nel suo privato, al momento delle elezioni si attiva
la sua funzione pubblica e va a votare, questo è un po’ l’ideale descritto di Shumpeter. Shumpeter si
fece promotore di una particolare visione della democrazia elitaria, secondo lui sono le élite che
governano, queste élite si contendono le fette dell’elettorato, quindi il compito che ha un partito
polito, un leader politico quando si presenta alle elezioni, non è presentare un programma politico
finalizzato a realizzare la verità platonica, ma piuttosto un programma politico finalizzato ad
intercettare un consenso elettorale. Il cittadino democratico secondo questa visione, esercita la sua
sovranità solo nel momento delle elezioni, anzi per essere più precisi il cittadino decide chi deve
governare, quindi il popolo non esercita la sua sovranità continuamente. Secondo Habermas
l’errore di fondo di questa visione è come abbiamo visto, che la sovranità si attiva solo nel momento
delle elezioni, ma l’elemento più profondo di tipo filosofico e soprattutto cognitivo, è cioè che i
liberali hanno una visione del mondo secondo cui tutti siamo consumatori, siamo consumatori
quando andiamo al supermercato, ma siamo consumatori anche quando facciamo politica, perché
secondo i liberali l’uomo ha una serie di preferenze di tipo economico, religioso, culturale
insindacabili, poiché per il liberale un valore importantissimo è il valore della libertà. In un
orizzonte pluralista dove nessuno è detentore della verità ognuno è libero di perseguire le scelte
che ritiene più opportune col proprio piano di vita, con le proprie credenze, quindi anche in campo
politico secondo H. ognuno va a votare secondo le proprie preferenze individuali, quindi
sostanzialmente la tradizione liberale guarderebbe al cittadino democratico in analogia al
consumatore. È come se l’uomo politico fosse un consumatore, solo che invece di scegliere beni
materiali egli scegliesse dei prodotti di tipo politico. Secondo Habermas l’elemento che viene a
mancare nella prospettiva liberale è la discussione deliberativa, cioè il confronto critico tra le

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persone, perché il presupposto epistemologico del liberalismo è che il soggetto ha uno stock di
preferenze che sono immutabili. Mentre il presupposto della visione comunicativa di Habermas è
che i soggetti dialoghino, non siano chiusi in se stessi, non siano degli automi programmati che non
possono modificare le proprie preferenze, è nel dialogo che noi modifichiamo il nostro punto di
vista. Per Habermas, noi dobbiamo immaginare la società democratica come una società nella quale
siamo cittadini ogni giorno, la società democratica non la si fa cambiare soltanto nel momento delle
elezioni, ma in ogni momento della nostra esistenza, come il pagare le tasse, rispettare il codice
della strada, quindi siamo cittadini democratici sempre, qualsiasi cosa facciamo, questo ci permette
il cosiddetto affinamento della capacità critica. Il momento delle elezioni è l’esito finale di una
prassi comunicativa quotidiana , anche ascoltando un telegiornale si mette in atto una dinamica di
tipo democratico, acquisiamo delle informazioni attraverso le quali ci creiamo un’opinione su un
dato problema, quindi non possiamo disinteressarci dalla sfera pubblica come vorrebbero i liberali
e occuparci soltanto della nostra sfera privata. In realtà l’idea tipica della modernità, dell’opinione
pubblica come elemento di critica continua nei confronti del potere politico è un qualcosa che si
può realizzare soltanto se siamo attivi nella sfera pubblica, quindi se non ci disinteressiamo come
vorrebbero i liberali; uno degli di maggior pericoli nella società contemporanea secondo gli autori
che si rifanno a quest’idea di Habermas, è l’alto grado di depoliticizzazione, o l’alto tasso di
astensionismo alle elezioni politiche per esempio un segnale pericoloso, poiché in un momento in
cui possiamo esercitare la nostra capacità di critica nei confronti di chi ha gestito il potere fino a
quel momento, se ce ne disinteressiamo è come se prendessimo un congedo dalla sfera pubblica,
come se potessimo occuparci solo del privato senza avere un impatto nella sfera pubblica.
Per Habermas è necessario partecipare in tutte le forme, non si deve fare necessariamente politica
attiva, se no si cadrebbe nell’errore del repubblicanesimo, la politica va vista in senso ampio,
partecipare alla vita della comunità in tutte le sue accezioni è una cosa positiva e fondamentale,
perché siamo sempre situati all’interno di reti comunicative, quindi dalla società civile emergono
una serie di flussi dialogici che tramite la sfera pubblica, cioè il luogo in cui ci scontriamo, vanno a
sollecitare il potere politico, per cui le domande di giustizia che sorgono dal basso, tramite la sfera
pubblica provano ad influenzare il potere politico. Habermas parla di una tensione costitutiva della
società democratica, tra fattualità e normatività, se non ci fosse questa tensione, non ci sarebbero
domande che vanno dal basso verso l’alto, cioè dal mondo della vita verso il sistema, se tutto fosse
perfetto non avremmo problemi di giustizia, ma siccome siamo degli animali linguistici che
dialogano calati all’interno di una prassi storica, siamo soggetti bisognosi di normatività. Secondo
Habermas la società democratica è quella che meglio permette di rispondere a questo bisogno di
giustizia, di emancipazione, di sentirci rispettati dagli altri, di sentirci soggetti tutelati nell’esercizio
dei nostri diritti, quindi in misura migliore ci permette di realizzare l’idea della modernità. Per
Habermas è importante il momento pedagogico per fare emergere la capacità critico-riflessiva del
cittadino, per lui il momento della discussione è funzionale a questo, il cittadino democratico, non
può non sapere come funziona lo Stato, il Governo, quindi non può disinteressarsi della sfera
pubblica. Se noi vogliamo educare il cittadino, dobbiamo educarlo ad avere questo atteggiamento
dialogante nei confronti degli altri, perchè l’elemento che distingue la prospettiva habermassiano
rispetto a quella dei liberali, è che noi dobbiamo essere pienamente consapevoli che le nostre
opinione cambiano nel tempo perché noi non siamo dei meri consumatori, la dinamica del cittadino
è diversa dalla dinamica del consumatore, quando consumiamo beni non ci poniamo un problema
normativo, mentre se siamo parte di una collettività democratica anche i confini tra ciò che è
privato e ciò che è pubblico vengono decisi da tutti. la natura delle cose non distingue la sfera
privata da quella pubblica, ma siamo noi che facciamo questa distinzione, secondo Habermas anche
il vero liberale che è attento alla dimensione privata dell’esistenza deve riflettere sul fatto che la
distinzione tra pubblico e privato è una mera distinzione culturale e che è affidata all’interno della
società democratica ad un processo di ridefinizione continua ( es. questioni di bioetica, sono
questioni in cui emerge il confine tra pubblico e privato. Chi decide ciò che è privato e ciò che è
pubblico? Tutti insieme discutendo e partecipando alla prassi democratica, non ci sono altre

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alternative, se non dobbiamo affidarci ad un partito o ad una classe sacerdotale che sanno già a
priori ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ma andrebbe contro la visione moderna della
democrazia). La visione democratica di Habermas si stacca rispetto alle tre visioni alternative di
democrazia, per quest’attenzione al momento critico riflessivo e per la tensione tra fattualità e
normatività. Per Habermas quando si dialoga non si deve trovare un compromesso a ribasso o
rialzo come direbbe Rawls ( a lui interessa che si trovi un accordo tra posizioni diverse), dialogando
si modifica anche il nostro punto di vista di partenza, ecco perché Habermas sostiene che la sua
etica è di tipo cognitivo, cioè che accresce la nostra conoscenza nel campo morale. Per un liberale ci
sono posizioni diverse e bisogna trovare una sintesi, cioè, ciò che è condiviso dalla maggior parte
delle persone, ma non è necessario trovare l’unanimità, se una persona si ostina a non voler
dialogare con gli altri, verrà sottomesso alla maggioranza. Habermas invece vorrebbe che quando
noi discutiamo di una questione, ci mettessimo in gioco, provassimo ad argomentarla, cambiando
anche idea, quindi lanciandoci nel dialogo in questo modo propositivo e costruttivo, alla fine
raggiungeremo l’unanimità, perché dovremmo essere pronti a convergere su ciò che ottiene più
consenso, su ciò che è più argomentato rispetto ad altre posizioni. È questo l’elemento di differenza,
per il liberale la finalità politica sarà quella di evitare il conflitto e di trovare una soluzione, mentre
per H. è un discorso di accrescimento interiore. Per Habermas il dialogo ha una funzione cognitiva,
serve a migliorare, a modificare le nostre opinioni, la dimensione del dialogo e quindi della sua
valenza cognitiva, è un momento imprescindibile per una democrazia, ed è questo il motivo per cui
Habermas non si definisce mai liberale, ma repubblicano , non di matrice aristotelica, ma un
repubblicano kantiano. Quando si è occupato del problema dell’Europa, di come costruire la base
europea, a differenza di alcuni che sostengono che era necessario richiamare le identità religiose, di
sangue ecc.. Habermas ha scelto la via del patriottismo costituzionale , cioè il legame tra i cittadini
che vogliono realizzare o costruire l’Europa, che deve essere un legame che verte su valori giuridici,
cioè l’insieme delle libertà attorno alle quali si sono identificate le democrazie occidentali, e non su
valori di tipo morale o religioso.
Habermas ha una visione complessa della democrazia, la democrazia è un processo in itinere, non è
uno stato definitivo, è una prospettiva in cui Habermas parla per esempio della necessità
dell’esistenza di tre poteri, legislativo che produce le norme, che deve recepire gli input provenienti
dalla società civile, il potere politico deve elaborare norme che nascono dall’esigenza forte
dell’argomentazione ( non si può fare una legge solo per la maggioranza non tenendo conto delle
minoranze), le leggi devono rispondere al bisogno forte di consenso, perché il criterio di validità è
sempre il consenso; il potere esecutivo ha il compito di applicare le leggi; il potere giudiziario,
soprattutto quello della Corte costituzionale, ha il potere di controllo e di tutela. Per H. la Corte
costituzionale ha il potere di verificare che i canali tramite i quali le domande di giustizia dalla
società civile vanno verso il potere politico siano canali sempre aperti, siano canali inclusivi e non
esclusivi nei confronti delle minoranze, dei gruppi e delle subculture presenti nella società. È
importante verificare questo flusso di informazioni che dal basso va verso l’alto e dall’alto torna
verso il basso e che sia un flusso continuo, di scambio verso il centro e la periferia. In questo modo il
diritto assume una configurazione fondamentale nel discorso di Habermas, perché il diritto adesso
diventa complementare rispetto alla morale, mentre nella “teoria dell’agire comunicativo”, (circa 15
anni prima) egli sosteneva che il diritto è un ambito che nasce a causa dell’incompletezza della
morale, quindi è necessario fare delle leggi che realizzino ciò che a livello morale viene stabilito;
oggi invece Habermas si rende conto che il diritto non è subalterno alla morale, ma è
complementare alla morale, ovvero totalmente autonomo rispetto alla morale. *Per chiarire questa
tesi egli crea una sorta di scema concettuale piramidale, con un vertice e due derivazioni. Al vertice
della costruzione non si trova un principio morale, ma un principio discorsivo”D” che afferma che
“sono valide quelle norme che tutti potenziali interessati potrebbero approvare partecipando ai
discorsi razionali”. Il principio del discorso precisa Habermas si colloca al disopra della distinzione
tra sfera del diritto e sfera dalla morale, rimanendo neutrale rispetto ad esse; esso non f a altro che
esplicare il punto di vista capace di fondare parzialmente le norme d’azione in generale, prima che

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queste ultime si differenziano in norme morali e norme giuridiche. La disposizione del principio Dal
vertice della triangolazione habermassiano fa presupporre che tutte le questioni pratiche ,
indipendentemente dalla loro natura (morale, giuridica, politico-giuridica) possano essere trattate
razionalmente e giudicate imparzialmente all’interno di una prassi discorsiva che coinvolga i
potenziali interessati. Dal principio D, discendendo dal vertice verso la base, si ricavano poi due
diversi principi, il principio della universalizzazione “U” e il principio democratico, che si
riferiscono, rispettivamente, all’ambito morale e all’ambito giuridico-politico. Il principio U deriva
da una specificazione del principio del discorso nel caso di norme giustificabile nella prospettiva
universalizzante di un’imparziale e paritaria considerazione degli interessi; il principio democratico
nasce invece dalla specificazione del principio D per norme che si presentano in forma giuridica.
Esso stabilisce che “possono pretendere validità legittima solo le leggi approvabili da tutti i
consociati in un processo discorsivo di statuizione a sua volta giuridicamente costituito”. Il
principio democratico, pertanto, “fornisce forza legittimante al processo della produzione
giuridica”, e può essere concepito come il frutto dell’istituzionalizzazione giuridica del principio D:
al suo interno si contempera infatti la dimensione della validità discorsiva delle norme con
l’imprescindibilità, nel caso delle società moderne, di un ordinamento giuridico che regoli le
interazioni tra i cittadini. Le leggi valide saranno prodotte democraticamente attraverso processi
deliberativi appropriatamente giuridificati e istituzionalizzati, come quelli che informano le nostre
democrazie. In virtù della mediazione operata dal principio democratico, Habermas mostra il nesso
concettuale interno che lega Stato di diritto e democrazia.*
Habermas comincia a rendersi conto che l’unanimità nella situazione linguistica ideale non si può
realizzare al contrario di quanto pensava negli anni 80, perché quando noi abbiamo a che fare con
questioni profonde, c’è un pluralismo dei valori che non è superabile per via meramente
argomentativa, non è sufficiente il dialogo perché due persone alla fine possano trovare un accordo,
perché può anche non trovarsi ed entrambe le persone hanno una propria legittimità nel sostenere
le proprie posizioni. Alla fine anche i discorsi morali non necessariamente tendono al consenso
unanime, ed anche a livello ideale Habermas si rende conto che esiste un pluralismo di valori che è
irriducibile. Questa irriducibilità si declina attraverso il diritto, sarà il numero a decidere, il
procedimento democratico dirà qual è l’opinione prevalente, automaticamente questo si traduce in
normativa, in diritto positivo. Il diritto è quel momento in cui l’irriducibilità dei valori trova una sua
sintesi concreta. Il momento del diritto dice Habermas, visto che è autonomo rispetto alla morale,
risponde all’esigenza di rispetto del pluralismo, il momento del diritto è un momento in cui noi
discutendo con gli altri, facciamo valere la nostra concezione del bene, la nostra opinione che non
possiamo mettere da parte, se non su alcuni aspetti. Attraverso la prassi democratica deleghiamo
alle istituzioni la soluzione di alcuni problemi che noi come semplici individui non siamo in grado di
realizzare. Ad esempio se ci poniamo su un piano moralmente morale, abbiamo il dovere di aiutare
tutte le persone che muoiono di fame, ma è ovvio che non possiamo farlo, come risolviamo questo
problema? Aggregandoci tutti insieme e delegando le istituzioni, ma per fare questo non abbiamo
bisogno di un piano morale ma di un piano giuridico, il piano del diritto. Diritto e morale sono
dunque ambiti autonomi che però si richiamano tra loro.
Processo di autolegislazione democratica
Un altro elemento importante da non trascurare è quello tra dimensione privata e dimensione
pubblica. Tradizionalmente i liberali pongono l’accento sulla priorità della sfera privata, quindi dei
diritti civili, il liberale è sempre attento a porre un freno al potere politico per tutelare i diritti
naturali, come direbbe Locke ( proprietà, libertà e vita) i democratici invece sostengono che la
visione liberale può portare alla disgregazione della società, se si sta troppo attenti alla dimensione
privata si perde il riferimento alla dimensione collettiva di riferimento. La tradizione radica-
democratica incarnata, per esempio da Rousseau del contratto sociale , privilegia l’autonomia
pubblica del cittadino, ovvero il momento dell’autolegislazione collettiva da parte di una comunità
che detta legge a stessa, a scapito dell’autonomia privata del singolo, limitata negli ambiti e nei
confini stabiliti dall’esercizio dell’autonomia pubblica. Habermas dice che in realtà la nostra

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autonomia privata non è in contrapposizione con la nostra autonomia pubblica, si implicano
reciprocamente, perché ciò che è privato è ciò che è pubblico è stabilito dalla discussione pubblica
stessa, non è scritto nella natura delle cose. Oggi questa visione non è più proponibile poiché il
confine tra pubblico e privato è un confine sempre in via di definizione. I diritti degli individui sono
il presupposto della democrazia perché se noi non riconoscessimo i diritti alla persone, queste non
sarebbero libere di partecipare alla prassi democratica, perché non godrebbero della libertà di
espressione, di coscienza, cioè di tutti i diritti difesi dai liberali. Lo scambio di legittimazione che
costituisce la trama della legittimazione della prassi democratica, non potrebbe aver luogo se a
ciascuno non fosse attribuito lo status giuridico di titolare di diritti individuali. I diritti
dell’individuo difesi dal liberismo devono essere concepiti come condizione dell’autonomia
pubblica dei cittadini. I liberali dovrebbero rendersi conto che il confine di questi diritti è stabilito
dal potere politico che riceve gli input dal processo democratico. Quindi autonomia pubblica e
privata si richiamano reciprocamente, poiché ciò che è privato è sempre stabilito a livello pubblico,
siamo noi che decidiamo ciò che è pubblico e ciò che è privato. All’interno di una società
democratica, c’è una coappartenenza di autonomia pubblica e autonomia privata. Habermas si pone
al centro tra i due estremi, la democrazia comunitarista da un lato e democrazia liberale dall’altra,
una che enfatizza il momento pubblico della nostra esistenza e l’altra invece il momento privato.
Negli anni ’90 Habermas arriva a teorizzare questa idea di democrazia, riflettendo soprattutto sulle
posizioni alternative che ci sono sul mercato, per esempio quando abbiamo parlato di potere
riallacciandoci alla teoria sistemica di Parsons, ma anche di Luhmann , abbiamo riflettuto sul fatto
che soprattutto un questo autore tedesco non a caso, si arriva quasi ad un perdita della normatività,
perché la democrazia per Luhmann non esiste, per lui è una semplice organizzazione, dove c’è
sempre un momento di manipolazione, di retorica, ma non c’è nessuna superiorità morale della
democrazia rispetto ad altre società, perché il potere è di tipo sistemico secondo Luhmann.
Habermas ha polemizzato molto con Luhmann, la sua visione di democrazia nasce proprio da
questa contrapposizione, la tensione tra fattualità e normatività serve a dimostrare contro
Luhmann e coloro che si richiamano a lui, che non è vero che la democrazia è un luogo dove non ci
sono fenomeni di emancipazione, ma la società in cui viviamo oggi è sicuramente superiore alle
società più antiche, se prima una categoria di persone non poteva votare e adesso lo può fare,
questo è un progresso morale secondo Habermas, Luhmann direbbe di no. Il nostro senso di
giustizia la nostra tensione verso la dimensione normativa è connaturata al fatto di vivere insieme
agli altri, senza che nessuna classe, nessuna religione abbia una posizione di dominio, se crediamo
nella democrazia dobbiamo seguire questa idea. È anche il confronto con Weber che lo spinge verso
questa dimensione normativa, Weber tendeva a far coincidere le questioni di legittimità con quelle
di legalità, visto che viviamo in una società dove c’è il politeismo dei valori, non si può parlare
razionalmente dei valori, nella società contemporanea ciò che è giusto è ciò che è legale, cioè
legittimamente prodotto dall’autorità, questo è un tema presente anche in Hobbes, “non è la verità
ma l’autorità che fa la legge “, presente nel positivismo giuridico di Kelsen, “ una norma è valida
soltanto se prodotta dall’organo competente”. Non ci si pone più il problema della giustizia, un
ordinamento giuridico è costituito da norme che sono valide perché prodotte in modo lecito, quindi
la legittimità di una norma dipende dalla legalità, cioè dalla correttezza del procedimento
legislativo. Secondo Habermas anche questa prospettiva non è sufficiente, perché anche se una
norma è prodotta in modo legale, noi possiamo percepire quella norma come ingiusta, e quindi
servirci dei procedimenti democratici per modificarla, quindi non è vero che la legittimità si
esaurisce nella legalità, perché se così fosse il diritto positivo sarebbe un orizzonte che non
possiamo mai trascendere.

CRITICHE CHE VENGONO MOSSE AD HABERMAS


Habermas si è confrontato con tutta la filosofia contemporanea e non solo, dal pragmatismo al
postmoderno , ai francofortesi, al repubblicanesimo a Wittgenstein. Negli ultimi anni ha cambiato
opinione su tante cose, soprattutto su filosofia e religione, ha fatto degli studi interessanti sul

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problema della secolarizzazione, parla di un società postsecolare. È un pensatore strano, in tanti
oggi non lo considerano più un uomo intellettuale di sinistra nonostante provenga dalla tradizione
dei francofortesi, di Adorno, Durkheim…ecc. non viene più visto come un pensatore di sinistra
perché sostiene la necessità di un dialogo positivo con la religione per esempio. Nel 2004 ebbe a
Monaco un dialogo con Joseph Ratzinger e con lui presentò tutta una serie di idee innovative. Questi
sono motivi per cui in Italia è stato fortemente osteggiato da una certa cultura di sinistra .

Critiche dei liberali,


sostengono che tutto sommato egli sia un democratico, interessato alle collettività che creano
norme, cosa che per i liberali non si può fare, cioè l’idea delle collettività che danno vita a delle
norme è qualcosa che nei fatti accade, ma non ha questo peso che Habermas gli attribuisce.
Habermas è troppo democratico e poco liberale, è poco attento ai diritti del mercato e più attento
allo Stato che deve regolare il mercato, è molto attento ai diritti sociali, essendo un pensatore di
sinistra è attento anche ad aspetti, come il diritto all’assistenza sanitaria, all’assistenza
pensionistica, che da una visione liberalista vengono avversati, poiché l’attenzione ai diritti sociali
ha portato per esempio allo Stato assistenziale e ai paradossi del welfare state secondo i teorici
liberali di destra. Ponendo troppi lacci al mercato e avvalorando lo Stato si sono create delle grosse
perversioni, delle grosse degenerazioni, quindi da parte liberale è questo quello che si critica ad
Habermas

Critica avanzata da Amartya Sen e Marta Nussbaum


Secondo questi autori la democrazia deve essere una forma di governo in cui noi distribuiamo le
risorse tra i cittadini in base alle capacità che i cittadini hanno, quindi se un cittadino è meno capace
perché ha meno doti naturali rispetto ad un altro, lo Stato dovrebbe riuscire a compensare questa
diseguaglianza iniziale, si chiama infatti approccio delle capacità “capability is approuce “; la finalità
della società democratica è quella di permettere a tutti i cittadini di raggiungere un certo livello di
benessere, quindi lo Stato attraverso la ripartizione delle risorse deve riuscire per esempio a
risolvere e controbilanciare queste diseguaglianze di partenza che ognuno di noi ha in termini di
talenti, di opportunità ecc.. Secondo questi autori l’approccio di Habermas è troppo timido, perché è
un approccio che non segue questa linea, è più vicino ai liberali, secondo il punto di vista di Amartya
sen e Marta Nussbaum , perché in Habermas i diritti sociali sembrano essere funzionali ai diritti
politici, nel suo discorso che rompe con la tradizione marxista, il problema è semplicemente quello
di consentire alle persone di partecipare alla discussione pubblica, una persona deve essere
educata per poi potere partecipare alla sfera pubblica. I diritti sociali vengono visti in funzione dei
diritti politici, non come fini in se, la società nel suo complesso deve avere come fine quello
dell’equità della distribuzione delle risorse, non perché debbano essere tutte uguali ma
proporzionali alle capacità di ognuno, quindi i diritti sociali diventano il fine della politica
democratica; mentre in Habermas i diritti sociali sono solo funzionali ai diritti politici, i diritti più
importanti tra i diritti civili, politici e sociali, rimangono quelli politici.

Critica della tradizione francofortese. Habermas dopo la pubblicazione della “ teoria


dell’agire comunicativo” viene totalmente criticato all’interno della tradizione francofortese,
soprattutto da quelli che stanno più a sinistra. Tra tutte queste critiche possiamo ricordare quella di
Axel Honneth che è il massimo rappresentante delle terza generazione della scuola di Francoforte.
Honneth critica Habermas in un punto, quando dice che ciò che è importante all’interno della vita di
una società democratica è tutto ciò che riesce a guadagnare una sua visibilità all’interno della sfera
pubblica. Le domande di giustizia che provengono dalla società hanno come unico canale la sfera
pubblica, quindi il potere politico può occuparsi di tutte quelle domande di giustizia che hanno una
visibilità pubblica. Honneth dice invece che se noi guardiamo la società democratica di oggi, ci
accorgiamo che esistono tutta una serie di categorie di persone, di subcultura, di minoranza, che
non hanno una rappresentanza cognitiva, che non hanno una visibilità mediatica, ma che hanno dei

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problemi di giustizia; nella teoria di Habermas tutte queste domande non possono ottenere una risposta, poiché non riescono ad
entrare nella sfera pubblica, cioè nel canale comunicativo che influenza il potere politico. Honneth ritiene che Habermas abbia
eliminato un altro elemento importante del marxismo, Il conflitto, poiché per Habermas è importante l’intesa che si crea attraverso
il dialogo. per Honneth è il conflitto il vero motore della società, non il consenso razionale , perché nella discussine pubblica che noi
facciamo all’interno delle procedure democratiche, sei noi discutiamo è perché c’è un conflitto alla base, di classe per esempio, tra
opzioni diverse, e non sempre il conflitto ottiene un consenso razionale. Questo conflitto emerge soprattutto tra maggioranze e
minoranze, e sono le minoranze che si pongono in conflitto rispetto alle maggioranze, questo è un tema che emerge soprattutto nel
multiculturalismo, quindi il conflitto alimenta la vita democratica della nostra società. Infine Honneth sostiene che la normatività
non deriva semplicemente dalle argomentazioni, ma ciò che è giusto e ciò che è sbagliato dipende dal riconoscimento di noi stessi.
L’uomo è un soggetto che vive all’interno di relazioni, innanzitutto familiari, e ciò che l’uomo chiede è il riconoscimento di se stesso
e della propria dignità, all’interno della famiglia in termini di amore, nella società in termini di solidarietà, quando non siamo
riconosciuti nella nostra dignità dice Honneth, là poniamo una domanda di giustizia. Anche Habermas si pone il tema del
riconoscimento, ma egli si limita a dire che il nostro riconoscimento è risolto nel momento in cui noi riconosciamo pari diritti a tutti,
mentre per Honneth non è così, non basta riconoscere formalmente l’uguaglianza di tutti (molti sono rappresentati formalmente
ma nella sostanza non hanno un’adeguata rappresentanza politica, non hanno visibilità mediatica), quindi il riconoscimento deve
essere un riconoscimento della propria identità che si costruisce all’interno di reti comunicative, all’interno della famiglia, delle
chiese, dei gruppi ecc… e in ultimo della società civile nel suo complesso.

Per Habermas sono 3 gli elementi fondamentali che denotano una


Democrazia
• Soggetto deliberante
• Oggetto su cui si delibera
• Processo deliberante

9 nov. REPUBBLICANESIMO E LINGUAGGIO


POLITICO.
La nostra esperienza è un’esperienza mediata dal linguaggio, nessuno attinge alla realtà in maniera
neutrale, nessuno ha un punto di vista neutrale sulla realtà. Per questo il linguaggio politico è uno
degli argomenti sui quali i filosofi politici di oggi riflettono almeno da una trentina d’anni a questa
parte , perché il linguaggio in sè è politico, se per politica abbiamo un’accezione ampia. La politica
che cos’è? La politica è un tentativo di dare una rappresentazione della realtà intrisa di valori, di
opinioni, di credenze, di narrazioni sul senso della vita, su quali siano i valori più importanti.

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Il linguaggio in sé è politico e noi, quindi, nei confronti del linguaggio possiamo lavorare a più livelli;
possiamo operare a livello della teoria politica riflettendo sulle categorie più che sul significato
delle teorie che adoperiamo. Populismo, dittatura, democrazia, bene comune sono tutti concetti che
costituiscono il linguaggio specialistico della politica. Possiamo pure occuparci del modo in cui gli
attori politici in carne ed ossa utilizzano le risorse del linguaggio, quindi ci poniamo sul piano della
prassi politica concreta. Quali sono i messaggi che possono essere veicolati da un certo partito, da
un certo attore politico e come si raggiunge questo obbiettivo? Lo studio del linguaggio si può
approcciare da diversi punti di vista; uno studio meno accademico ma più finalizzato alla prassi
politica stessa.
Nei confronti del linguaggio abbiamo posizioni variegate: da un lato abbiamo per esempio
Habermas che sostiene la necessità di ragionare e di impegnarsi su una dinamica di tipo
comunicativo perché, secondo lui, il linguaggio e la comunicazione sono una risorsa positiva
all’interno di un mondo pluralista come quello in cui viviamo . Se noi escludiamo la comunicazione
e il dialogo cosa rimane nella società democratica per dirimere i conflitti, per decidere ciò che è
giusto e ciò che sbagliato? Quella di Habermas è una visione indubbiamente ottimista benché
provenga dalla tradizione francofortese e questo è un aspetto che viene rimproverato da tanti
autori, per esempio Chomsky che è un intellettuale anarchico americano, diventato famoso per i
suoi studi sulla linguistica generativa, ha preso delle posizioni molto radicali sulla politica
americana, sul ruolo dell’America nello scenario mondiale ritenendo che tutta la vita politica
americana, e non soltanto americana, è manipolata dai media perché il linguaggio serve a
manipolare sostanzialmente l’opinione pubblica, quindi tutto il discorso di Habermas, dei teorici e
della democrazia che sperano che l’opinione pubblica possa essere una sorta di stimolo di fronte al
potere costituito è una grande bufala, è un illusione secondo Chomsky. In realtà il potere dei media
è talmente pervasivo il meccanismo di formazione dell’opinione pubblica è sempre manipolato e il
cittadino è più uno spettatore che un attore attivo all’interno della società democratica; prospettive
condivise anche da altri autori, ad esempio il sociologo francese Pier Bourdieu, di formazione
marxista, molto famoso per una serie di lavori che ha fatto alla fine degli anni ’60, enfatizza molto il
ruolo dell’habitus.
L’habitus è una sorta di seconda natura che noi abbiamo, sulla base di ciò che ci viene insegnato a
scuola, che ci viene trasmesso dalla società, quindi il modo in cui noi ragioniamo e percepiamo la
realtà è influenzato da tutto questo. Il modo di pensare di Bourdieu è influenzato dalle classi
dominanti, l’ habitus che noi abbiamo risente delle narrazioni e delle strutture alle quali noi
veniamo allevati, educati, formati. Lo spirito critico, difficilmente riesce a costituirsi se ci sono dei
ceti dominanti, soprattutto a livello di media, a livello dell’ istruzione, quindi il linguaggio è
essenzialmente già politico; anche nel femminismo, abbiamo parlato di alcune autrici le quali
sostenevano che tutta una serie di distinzioni che noi facciamo, come quella tra natura e cultura, tra
artificiale e naturale, in realtà sono dei costrutti culturali a se stessi, perché definire un qualcosa
culturale è già un atto linguistico. Quindi di conseguenza non esiste neanche una discriminazione
evidente tra ciò che è naturale e ciò che é culturale, anche la distinzione tra natura e cultura è frutto
di una decisione di tipo culturale perché siamo sempre calati all’interno di un linguaggio;
qualunque linguaggio struttura la realtà, la nostra esperienza del reale, e non soltanto da un punto
di vista descrittivo ma anche da un punto di vista valutativo, quindi è interessante stare attenti a
tutte queste dinamiche, a tutte queste dimensioni del linguaggio, c’è la dimensione semantica, c’è il
modo in cui il linguaggio rappresenta la realtà, ma soprattutto la dimensione pragmatica. Cosa
facciamo quando parliamo in un certo modo? Quali sono gli effetti di un certo tipo di usi linguistici
rispetto agli altri? Per quanto ci riguarda, dal punto di vista espressamente politico cominciamo a
riflettere su come possiamo utilizzare il linguaggio al livello della prassi. Chi fa politica conosce
bene per esempio, l’importanza dei simboli, a differenza di un approccio Habermassiano che è
molto interessato alla dimensione razionale dei nostri argomenti. Chi fa politica concreta, invece, sa
che i simboli sono molto importanti.
Cosa si intende per simbolo? Il simbolo è un qualcosa di più ampio rispetto al semplice segno fisico

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o non fisico. Il simbolo è qualcosa che richiama una comunanza per esempio: una comunanza di
valori, una narrazione. Perché è importante la dimensione simbolica? La dimensione simbolica è
importante perché, anche se noi non ne siamo consapevoli, purtroppo esiste tutta una sfera della
nostra esperienza cognitiva e morale che è non consapevole, che é irrazionale. Ecco il simbolo a
creare una comunanza proprio sulla dimensione non razionale e non consapevole della nostra
esperienza, ad esempio i comizi servono a creare una comunanza simbolica, una comunanza di
valori, quindi diventa un progetto politico volto al futuro, le battaglie sui simboli sono importanti
perché servono a prendere voti, perché ci sono tantissimi soggetti che andranno a votare
democrazia cristiana o partito comunista perché ritrovando il simbolo automaticamente si
identificano con una narrazione, con un insieme di valori, di credenze, di opinioni e quindi il voto
viene dato quindi spesso anche in base a questo, la dimensione simbolica è una dimensione
fondamentale della nostra esistenza anche se spesso ne siamo consapevoli per questo a livello
politico i simboli sono importanti, non a caso ci sono tutta una serie di eventi che entrano nella
storia dei partiti (ad esempio portella della ginestra diventa un simbolo di lotta politica). La
dimensione simbolica non é una dimensione che vuole essere eliminata dalla nostra esperienza
perché noi siamo soggetti dotati, come la psicanalisi ci ha insegnato, di una dimensione razionale
conscia, ma esiste anche un qualcosa di più profondo. I simboli non sono qualcosa che vengono
dopo la politica, poiché la politica stessa è un processo simbolico, perché lo spazio sociale come ci
ha spiegato Pier Bourdieu è uno spazio simbolico, perché é sempre uno spazio che é costruito dal
nostro linguaggio, dalle nostre categorie.
Tutto è politica nel senso alto del termine, nel senso che tutto ciò che noi facciamo è costruito dal
linguaggio, dalle categorie che noi adoperiamo, sia a livello descrittivo ma soprattutto a livello
narrativo. La dimensione simbolica della nostra esperienza è una dimensione imprescindibile, e nel
gioco politico è focalizzata su questa dimensione. Molto importante il rapporto tra linguaggio e
retorica. La retorica non é un qualcosa che dal di fuori si aggiunge all’argomentazione politica, il
momento retorico è un momento costitutivo dell’argomentazione politica, perché se non ci stiamo
confrontando con una questione morale, politica, una qualunque questione, il momento del
tentativo di convincere il nostro interlocutore costruendo un’argomentazione sistematica è
imprescindibile, la retorica storicamente era questa, e la retorica poi ha ritrovato alcuni momenti
come il momento dell’inventio cioè la scelta degli argomenti con i quali devo strutturare la mia tesi,
la tesi che voglio sostenere nel dibattito con gli altri; poi abbiamo la dispositio, ovvero il modo in cui
devo combinarli tra loro; poi abbiamo il momento della elocutio, cioè le tecniche discorsive che
devo adoperare per presentare gli argomenti, ed in infine il momento dell’actio, ovvero il tono della
voce.
Il momento dell’inventio, dispositio, elocutio, ed actio sono tutte modalità di comunicazione
intercettate a finalizzare il consenso del nostro interlocutore.
La retorica è connaturata al linguaggio politico, non in qualcosa che arriva dopo. La realtà è troppo
complessa per poterla controllare in tutte le sue sfaccettature, quindi il compito del politico è quello
di semplificare la realtà a colui che lo ascolta. Gli strumenti retorici diventano fondamentali per
veicolare un certo messaggio funzionale all’ottenimento del voto. Il politico tenderà a manipolare
perché il suo obiettivo è quello di ottenere voti, ma se noi tendiamo ad attuare un’analisi critico-
riflessiva da lettore che non vuole essere manipolato e vuole esercitare un voto consapevole allora
bisogna affinare questa capacità critico-riflessiva, ovvero riuscire a distinguere dove l’ideologia
diventa manipolazione; è sbagliato dire che esiste un giornalismo e un’informazione neutrale, ma
non è vero neanche che tutto è ideologia e manipolazione. Molto importante il concetto di
stereotipo che viene introdotto da Walter Lippman, nel 1922 all’interno delle scienze sociali. Lo
stereotipo è una sorta di concetto, di immagine che ci serve a semplificare la realtà; tutta la nostra
vita è animata da stereotipi perché danno vita a dimensioni simboliche. Non possiamo conoscere
tutto il mondo, non possiamo avere esperienza di tutto, quindi ci affidiamo a stereotipi.
Lo stereotipo è importante perché è costitutivo della nostra visione della realtà e dalla
rappresentazione simbolica della realtà, però lo stereotipo può giocare un ruolo anche di chiusura,

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come il discorso dell’ideologia. (L’ideologia è un qualcosa di costitutivo quindi non possiamo non
essere ideologici cioè dobbiamo avere un punto di vista sulla realtà, ma questo punto di vista può
diventare chiuso nei confronti dell’alterità, ossia nei confronti di chi ha un punto di vista diverso
rispetto al nostro, ragion per cui non dobbiamo scambiare lo stereotipo con la realtà stessa). Lo
stereotipo serve a semplificare la realtà ma contemporaneamente può diventare un momento di
chiusura o di distorsione nei confronti della realtà.
La parola repubblicanesimo come la parola libertà, liberalismo, socialismo, comunismo, in realtà
sono parole vuote se noi non le riempiamo di un contenuto perché esistono tanti autori liberali,
esistono diverse accezioni del termine libertà, esistono diversi modi di declinare il
repubblicanesimo, d’altra parte il termine repubblica è adoperato fin dall’antichità classica, lo usava
Cicerone, lo usavano i Romani e i greci. Molto importante è distinguere le parole dai concetti: una
cosa è la parola libertà, un’altra cosa è il concetto che attribuiamo alla parola libertà perché i
concetti e le parole non parlano da sole, non hanno un significato autonomo, siamo noi che
attribuiamo un significato alle parole. Di Repubblica se ne parla anche in età moderna, pensiamo a
Kant che parlava di repubblica e non a caso Habermas si definisce un repubblicano Kantiano, a
differenza dei repubblicani Aristotelici, ma di repubblica se ne parla anche in età medievale, la res-
pubblica cristiana, di repubblica parlavano anche in età risorgimentale.
Il termine “Repubblica” è un concetto importante e diffuso nel lessico politico occidentale; il nostro
testo pone l’accento sulla distinzione tra repubblicanesimo di matrice aristotelica,
repubblicanesimo di matrice neoromana e repubblicanesimo aristotelico. Il rappresentante più
importante e l’esponente più famoso dell’ approccio repubblicano è John Pocock, d’origine
australiana è stato molto vicino a Skinner e ha costituito la Cambridge School. Pocock sostiene che
le teorie repubblicane sono state molto importanti nella tradizione politica occidentale ma sono
state soppiantate dalle teorie liberali, dal modo liberale di guardare alla politica. J. Pocock sostiene
che la rivoluzione americana, presenta molte affinità con la tradizione repubblicana. In età
medievale e nel corso dell’umanesimo molti autori sono stati richiamati alla tradizione
repubblicana aristotelica; in realtà servono delle matrici repubblicane classiche dietro i principi che
hanno spinto la rivoluzione americana, quindi esiste un linguaggio alternativo rispetto al linguaggio
della modernità che è diventato quello liberale, vicino al linguaggio repubblicano che è un
linguaggio alternativo perché è basato su delle parole chiavi che sono diverse rispetto a quelle
liberali. Quali sono le parole chiavi del linguaggio politico liberale?
Per esempio la nozione di contratto, la nozione di diritto, di libertà sono il lessico dominante dei
nostri giorni. I teorici repubblicani, invece sostiene Pocock, in età medievale e poi anche durante
l’umanesimo e il rinascimento, avevano un linguaggio politico diverso, non esisteva il concetto di
contratto e le parole più importanti erano altre. La parola più importante era bene comune e si
operava una netta distinzione tra vizi e virtù, perché i teorici repubblicani in età medievale e
rinascimentale sostenevano che i cittadini dovevano essere virtuosi e la città doveva essere giusta,
virtuosa e stabile. Non è un problema essere liberi o avere stipulato contratti tra i cittadini e tra
coloro che determinano il potere, ma il problema è essere virtuosi; i repubblicani sono interessati
alla religione civile e l’America è un tipico esempio di religione civile. Le immagini dominanti che
danno vita a una sorta di religione civile sono delle narrazioni, nella quale si identifica ogni
cittadino americano, a prescindere dalle sue credenze. Nel caso americano questa religione civile è
un concetto molto semplice perché è una nazione che ha una visione salvifica nei confronti del
mondo per l’idea che sia la nazione prescelta da Dio. Sostiene Pocock, e con lui poi tanti altri, che
all’inizio della modernità tra la fine del 1400 e del 1600 in Italia c’erano una serie di autori legati
all’esperienza dei comuni, ad esempio Machiavelli, Guicciardini, che si richiamavano all’esperienza
della repubblica; questi autori ritrovavano nella classicità dell’antica Grecia un linguaggio politico
che non era finalizzato sulla nozione di diritto soggettivo, di libertà o di contratto sociale come
fonte delle norme giuridiche. Secondo Pocock, invece, il linguaggio repubblicano era attento ad
altre cose: come al concetto del dovere civico che ognuno di noi ha di partecipare alla vita politica
del paese cui appartiene. Skinner ha una lettura un po’ diversa rispetto a quella di Pocock, anche se

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fanno parte entrambi di questa famigerata Cambridge School. Skinner ha una visione diversa di
questo repubblicanesimo, ha una visione neo-romana; Skinner afferma che in realtà questi autori,
alle soglie della modernità quando parlavano di repubblica, non lo facevano richiamandosi agli
scritti di Aristotele, ma lo facevano piuttosto richiamandosi agli scrittori romani quindi alla
tradizione giuridica romana (Quintiliano, Cicerone, Sallustio, ecc…). Non è vero, quindi, che il
repubblicanesimo ha una matrice di tipo aristotelico, perché in realtà negli scritti di Machiavelli in
particolare emerge questa vena repubblicana di tipo romana, e non aristotelica.
Secondo Pocock per coloro che si richiamano alla tradizione aristotelica è importante la
partecipazione politica, cioè la politica diventa un fine in sè dell’essere umano, (io devo fare politica
per realizzare me stesso in quanto cittadino); Secondo Skinner per i romani, invece, la politica non
ha questa funzione, la politica è semplicemente uno strumento, non è un fine in sè, è un mezzo per
realizzare altri fini, se no tutti dovremmo fare politica, che è quello che sosteneva Aristotele(tutti i
cittadini ateniesi maschi maggiorenni dovevano fare politica perchè realizzavano la loro essenza di
cittadino). L’essenza di essere umano diceva Aristotele, io la realizzo nel fare politica e quindi nel
partecipare attivamente nella vita della polis. Per i romani non era così invece, si partecipava alla
politica magari in alcuni frangenti della nostra esistenza, ma semplicemente questo consentiva la
realizzazione di altri fini, ma la politica in se non è un fine, quindi dice Skinner in realtà il modo in
cui Machiavelli e tanti altri autori in età umanistico-rinascimentale guardavano al
repubblicanesimo era di matrice romana non aristotelica. E questo è molto importante perché ci
permette di fare una grossa distinzione tra due diverse definizioni di libertà: per Pocock e per i
repubblicani di matrice aristotelica, l’uomo è realmente libero quando fa politica (se io non faccio
politica, non sono realmente libero, quindi uno stato diventa totalitario, dittatoriale e autoritario
quando impedisce ai cittadini di fare politica) questa è una visione positiva della libertà, io sono
libero quando faccio qualcosa, che è l’ideale aristotelico rappresentato da Pocock. Il testo in cui
Skinner ritrova la definizione di libertà è il Digesto nel quale c’è una netta distinzione tra il
cittadino e lo schiavo. Lo schiavo è il soggetto che non è sui juris, cioè che non è dotato di capacità
giuridica e la sua esistenza dipende da un altro, quindi non è un soggetto di diritto. Viceversa, il
cittadino è colui che è libero, cioè titolare di diritti. La libertà nell’immaginario romano non consiste
nel fare qualche cosa, ma è uno status: o si è liberi o non lo si è, o sono schiavo o non lo sono. (Non é
che io sono libero perchè faccio politica, è il fatto di essere libero che mi consente di fare politica,
proprio perchè sono cittadino posso andare a fare politica). Solitamente noi usiamo il verbo
emancipare in modo intransitivo, cioè sono io che mi emancipo, nel lessico romano era il contrario,
infatti era l’uomo libero che emancipava lo schiavo (io padrone emancipo l’altro). Il termine
emancipazione ha cambiato significato modificando tutta la percezione della realtà. Ci sono anche
altri autori che possiamo inserire all’interno del repubblicanesimo come Micheal Sandel, Charles
Taylor. Per esempio Sandel afferma che c’è una dimensione etica profonda nell’appartenenza ad
una società, per lui la comunità costituisce una sorta di involucro all’interno del quale tutti noi come
cittadini ci dobbiamo riconoscere. Micheal Walzer era un gradissimo repubblicano e sostiene che la
cittadinanza era il luogo per esercitare la virtù di cittadino, quindi non è un qualcosa che si possiede
ma è una virtù che dobbiamo esercitare continuamente. Walzer ha in mente il modello
dell’integrazione nazionale americana, che funzionava fino ad alcuni anni fa (non a caso in America
parliamo continuamente di italo-americani, afro-americani, cioè non soltanto si riesce a mantenere
un legame con la propria comunità, ma ci si riconosce in un impianto etico generale che è quello
della costituzione). Phin Pettit è un autore interessante perché afferma che la società democratica è
una società dove ci sono alti livelli di contestabilità; ciò che distingue, dal suo punto di vista, una
società democratica da una non-democrazia è la possibilità di contestare. Più una società è
democratica più fratture devono esserci al suo interno. Secondo Pettit dobbiamo insistere sul
conflitto perchè la società è democratica quanto più è contestabile, quando i margini di
contestabilità non ci sono, una società smette di essere democratica. Se mancano i momenti di crisi,
di contestazione, evidentemente tendiamo all’omologazione e a limitare i margini di esercizio della
nostra libertà. Anche altri autori come Hardt e Negri hanno sostenuto una serie di tesi interessanti;

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Negli ultimi anni viviamo in una sorta di impero globale senza un centro ben preciso, ma c’è una
logica liberista imperante e le uniche forme di resistenza nei confronti di un potere così inteso è
rappresentato dalle moltitudini. Secondo Negri l’ideale verso il quale dovremmo tendere è quello di
una repubblica universale in cui tutte le moltitudini comincino a decostruire questa narrazione
dominante che è quella del paradigma neo-liberale.
Il repubblicanesimo è quindi una corrente che ci interessa sia dal punto di vista storico, sia nelle
storie delle idee politiche, sia nella filosofia politica e sia nella storia del pensiero politico
occidentale, che possiamo far risalire in una sua tendenza ad Aristotele in un altra sua tendenza alla
tradizione romana.
I repubblicani hanno una visione diversa. Il problema non é il diritto, una società non è stabile non
è buona, non è giusta se ci sono diritti ma se i cittadini sono virtuosi, se i cittadini compiono i propri
doveri, se c’è una religione civile.
Secondo Skinner possiamo avere 3 diverse distinzioni del concetto di libertà:
Positiva: ovvero io sono libero quando realizzo la mia essenza di cittadino (visione positiva della
libertà).
Visione Repubblicana Neo-Romana: io posso essere libero quando non sono dipendente dalla
volontà di altri (visione negativa della libertà).
Libertà Negativa Liberale: esiste una seconda accezione negativa della libertà che è la libertà di cui
parlano i liberali (io sono libero quando nessuno interferisce con le mie scelte) quindi un concetto
di libertà come non-interferenza, non come non-indipendenza.
Mentre il concetto di libertà repubblicana ha a che fare con lo status (io sono libero o non lo sono),
per i liberali, invece, l’essere libero riguarda le azioni che noi facciamo (se io faccio qualcosa senza
che nessuno mi ostacola, allora sono libero, quindi più le leggi mi pongono dei divieti meno io sono
libero).
Quindi legge e libertà per i liberali stanno in opposizione; mentre per i repubblicani neo-romani
leggi e libertà vanno insieme (perché le leggi servono a disciplinare la libertà, una libertà che noi
abbiamo perché il nostro status è di essere libero).

14 nov. UTILITARISMO.
L’utilitarismo è una corrente filosofico - politica abbastanza recente, è una dottrina filosofica di natura
etica per la quale è "bene" (o "giusto") ciò che aumenta la felicità degli esseri sensibili. Si definisce
perciò "utilità" la misura della felicità di un essere sensibile. Viene considerato fondatore di tale
corrente Jeremy Bentham. Egli fu un filosofo Inglese vissuto nella seconda metà del 700. I filosofi
fondatori di tal pensiero iniziano a riflettere su un possibile nesso tra le questioni di giustizia e quelle di
utilità. Ricordando che per Kant l’idea di giustizia si identificava con la possibilità di universalizzazione,
ovvero un comportamento era giusto se universalizzabile (imperativo categorico) e che analogamente
Habermas si rifaceva ad una questione di consenso, adesso per i filosofi utilitaristi il fondamento della
giustizia diviene l’utilità. Le questioni di giustizia coincidono con quelle dell’utilità: Una norma è giusta
se è utile.
Per capire tutto ciò bisogna fare un passo indietro, risalire all’epoca in cui riflette Bentham…
Perché Bentham riflette su tale nesso ?? Egli parte da una considerazione di tipo antropologica; infatti
si chiese come funzioni l’essere umano. Secondo Bentham l’uomo è un essere che si muove secondo
principi base, ovvero: “cerca il piacere e fugge il dolore”. Egli quindi propone in campo politico un
modello che possa agevolare l’uomo nell’applicazione di tali principi. Allora, dal punto di vista del
legislatore, “una norma è giusta se massimizza l’utilità” . Più le persone sono felici, più il legislatore
comprende che le norme da lui poste in essere sono giuste; ovvero una norma è giusta quando produce
effetti benefici nella vita pratica dell’uomo. La giustizia non coincide più con cose che non fanno parte

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del nostro mondo.. non coincide più con il consenso.. ma coincide con l’utilità.
Questa nuova visione filosofica della giustizia è quindi anche empirica, ovvero scientifica, ovvero può
essere sperimentata tra la vita delle persone.. a differenza del passato dove la giustizia veniva cercata
solo in astratto. Piacere e dolore possono allora essere quantificati e controllati attraverso uno studio
scientifico e quindi empirico. L’Europa di quel tempo era però in continua evoluzione, per tal motivo
non abbiamo soltanto la visione del fondatore Bentham, ma il suo pensiero è stato analizzato da altri
autori che successivamente lo hanno arricchito con altrettante riflessioni personali. Ad esempio John
Stuart Mill comincia a riflettere in termini utilitaristici sulla partecipazione ( e sul ruolo) delle donne
nella società politica di quell’epoca; egli si pose anche il problema degli operai e su come sia cambiato il
loro ruolo con l’industrializzazione.. Successivamente Sidgwick ,nel contesto storico dell’età vittoriana,
riflettette su tali problematiche e sembrò preoccupato della perdita di stabilità e di autorevolezza che
stavano avendo la moralità comune e le istituzioni politiche, egli infatti nelle sue riflessioni mise in
primo piano la capacità dell’ utilitarismo di rendere conto di quelle regole etiche che costituiscono il
nucleo della moralità comune. L'approccio che ha l'utilitarismo con la politica guarda al contesto storico
sociale in cui si sviluppano le scelte pubbliche(tale approccio riprende il pensiero di Hume e Smith),per
gli utilitaristi le problematiche politiche sono risolte non attraverso un contratto o un patto, ma nei
risultati che essa permette di ottenere. Inoltre secondo l impostazione utilitarista il compito più
importante del governo è quello di garantire un amministrazione delle risorse pubbliche di qualsiasi
genere sulla base di criteri di giustizia. Nel 900 le cose cambiano nuovamente.. viene posto un netto
confronto tra “Giustizia in termini di Equità”, come proposto da John Rawls , contro “Giustizia in termini
di Utilità” come invece sosteneva Bentham. Ricordiamo che Rawls propone la sua tesi criticando
proprio il pensiero utilitarista, non accettando l’idea che i due concetti potessero avere un nesso. Ad
esempio, egli sostenne che sia un paradosso distribuire delle risorse in modo iniquo, se questa
distribuzione è utile alla maggioranza.. si cade senza dubbio in errore, in quanto si andrebbero a ledere i
diritti delle minoranze; andrebbero sacrificati dei diritti in nome dell’utilità per la maggioranza. Allora
Rawls ci parla di Efficienza piuttosto che di utilità, immaginando lo Stato come un’impresa che debba
minimizzare i costi. Per Kant tutto ciò è inaccettabile.
A partire dagli anni 70 del ‘900 allora, si pone un nuovo quesito: In che rapporti stanno giustizia ed
utilità? La visione utilitarista è senza dubbio la più realista ovvero, sia i problemi che la stessa giustizia
nascono proprio dall’esperienza umana, all’interno dello spazio della politica, ovvero da ciò che succede
all’interno della società; per tal motivo le norme vanno sempre calate nel contesto in cui ci si trova.
(Cosa è lo spazio della politica? La nostra società! Contratti, norme..) D'altronde le norme non possono
“calare dall’alto” senza prima analizzare il contesto nel quale devono entrare. Questo aspetto è molto
importante per gli utilitaristi, dal momento che deve esserci una relazione tra quello che i cittadini si
aspettano e le norme che verranno prodotte; le istituzioni infatti non vivono da sole ma insieme al
consenso del popolo. I liberali che si rifanno alla tradizione Kantiana e che criticano l’utilitarismo
quindi, vedono gli uomini che ragionano come dei consumatori, come se gli esseri umani agissero solo
in termini di preferenze. In realtà, le “preferenze” individuali non vanno viste con negatività, perché la
massimizzazione delle preferenze è parte integrante della natura umana. Esse vanno allora valutate in
senso ampio del termine, non attraverso una logica puramente egoistica, le preferenze non fanno altro
che determinare il pluralismo della società, esse non sono soltanto portatrici di conflitti. In modo
implicito invece, già a partire da Rawls, le preferenze vengono guardate con negatività, tanto che egli
tenta di eliminarle, tramite il velo dell’ignoranza, nel momento in cui devono essere emanate le norme
giuridiche. Secondo gli utilitaristi invece, la politica deve andare a tutelare tali preferenze, in quanto
sono elementi fondamentali per la determinazione del consenso; i cittadini accentuano la legittimità nel
momento in cui hanno riscontri positivi dalla politica, ovvero dalla produzione delle norme. La
legittimità è quindi consenso e fiducia tra cittadini e legislatori, il rispetto delle norme avviene grazie a
questo tipo di rapporto e non più a causa del timore verso le sanzioni. I dibattiti contemporanei
investono altrettanti nuove tematiche.. un esempio è senza dubbio il tema concernente i Diritti Umani.
Gli utilitaristi difendono tali diritti, per il semplice fatto che se questi fossero tutelati, allora verrebbe
“esclusa” la possibilità che gli esseri umani soffrano. Le società nelle quali vengono lesi i diritti umani

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sono senza dubbio le società in cui certe categorie di persone sicuramente soffrono. Esempio classico
sono: le donne, i bambini, gli anziani, o minoranze appartenenti ad una classe sociale … Tutto ciò è
ricollegato al concetto antropologico di essere umano , il quale cerca piacere e fugge il dolore; pertanto
è compito della politica minimizzare la sofferenza all’interno della società. Per tal motivo, la democrazia
viene considerata come la miglior forma di governo, in quanto includendo tutti è sicuro che minimizzi la
sofferenza e che permetta alle persone di migliorare la loro condizione “in senso ampio”. Nei giorni
d'oggi Joseph Stiglitz, un'economista vivente, affronta tale argomento nel libro “In un mondo perfetto.
Mercato e democrazia nell’era della globalizzazione” (2001): egli afferma che la condizione prevalente
del nostro secolo è determinata da grande incertezza, da un'imperfetta distribuzione delle
informazioni, e dalla connessa difficoltà di porre in atto adeguate politiche di stabilizzazione, tutto ciò vi
è dato dalla fase di globalizzazione che stiamo avendo . L'obiettivo verso il quale bisogna tendere è
dunque il raggiungimento di regole migliori, veramente più democratiche. In ciò la nozione di
«trasparenza» è davvero fondamentale. Bisogna porsi il problema anche delle generazioni future. Gli
utilitaristi, in conclusione, hanno quindi una visione completamente diversa di giustizia, la quale va ad
identificarsi in una specifica domanda: Qual è l’effetto che una norma ha sulla vita delle persone??
(Effetto intenzionale o meno). Questa è la domanda che deve porsi chi dove poi produrre le norme. La
“sensibilità utilitaristica” ha come obiettivo proprio quello di focalizzarsi sull’effetto concreto che la
norma produrrà. Un esempio è la norma sull’eutanasia. A quale scopo noi impediamo a qualcuno di
“non curarsi” se per tale individuo la vita non vale più tanto quanto al tempo in cui era in salute?? Senza
dubbio questa norma tocca il campo del “primato della vita”. Allora gli utilitaristi si chiedono: la vita va
intesa in senso biologico o in senso culturale?? Ecco la dimostrazione che la “sensibilità utilitaristica”
non è strutturata soltanto in astratto, ma viene calata all’interno dell’esperienza umana.

LA GIUSTIZIA INTROVABILE.
In cerca di una definizione …

Molte discipline come la filosofia politica, la filosofia morale, nascono dalla ricerca di un ideale di
giustizia, ovvero cerchiamo il “come sarebbe giusto che fossero le cose” dopo aver analizzato “come
sono le cose ” nell’esperienza sensibile … MA COSA è LA GIUSTIZIA?? Il concetto di “giustizia” è un
concetto non può essere determinato senza prima aver preso in considerazione altri concetti:
libertà, proporzionalità, solidarietà, uguaglianza, riconoscimento. La ricerca filosofica del concetto
“giustizia” va quindi a costituirsi un po’ come un mosaico, di un concetto collegato ad altri concetti.
Fatta questa considerazione, sarà facile preannunciare, che per molti autori il concetto di
“GIUSTIZIA” è un concetto in INDEFINIBILE. Abbiamo prova concreta nel momento in cui ognuno di
noi pensa all’ideale di giustizia; è chiaro che essendo esseri umani tutti diversi ognuno avrà le sue
esigenze, pertanto ognuno di noi definirà cosa sia giusto o meno facendo delle considerazioni
nettamente soggettive.
Ad oggi sappiamo che non è possibile definire la giustizia, ma ciò non ci impedisce di provare a
farlo; per tal motivo dobbiamo sempre prendere in considerazione l’aspetto analitico dei concetti.
Partiamo con una prima suddivisione tra: SENSO OGGETTIVO e SENSO SOGGETTIVO di giustizia.
Il senso oggettivo fa sicuramente riferimento a quale debba essere lo schema base di una società
affinché questa sia considerata giusta, quali debbano essere i nostri diritti ed i nostri doveri, ed in
base a quale criterio vengono distribuiti i beni primari all’interno della società (potremmo
prendere in considerazione il pensiero di Rawls).
Il senso soggettivo invece, si riferisce ad un comportamento di tipo individuale, ovvero come ogni
singolo cittadino debba comportarsi. Per alcuni il comportamento di un individuo è giusto quando

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si identifica con la legge, per altri invece un cittadino si comporta in modo giusto quando è virtuoso,
ovvero quando è in grado di riconoscere una legge ingiusta e quindi non la rispetta. Fatte queste
premesse: dobbiamo sempre rispettare la legge? O bisogna ricorrere alla “non obbedienza”
seguendo una morale soggettiva?? Come per il concetto stesso di giustizia non abbiamo una
risposta. Essa infatti dipende da come ci poniamo nei confronti del concetto in questione. C’era chi
guardava la giustizia da un punto di vista della morale, ma potremmo anche partire da un punto di
vista politico, o religioso … non abbiamo una risposta certa. La giustizia allora, si pone sicuramente
tra diversi ambiti: politica, morale, diritto e persino economia … pertanto la tesi iniziale
dell’indefinibilità trova sicuramente sostegno.
Anticamente la Giustizia venne raffigurata come una “dea bendata” , avente da un lato una bilancia e
dall’altro una spada. Ma cosa simboleggiano questi elementi?? La bilancia fa sicuramente
riferimento all’equità (es. ad ognuno il suo, rispettare ciò che è mio e ciò che è dell’altro) , mentre la
spada rappresenta la sanzione, l’imposizione di una forza, la punizione verso chi non ha rispettato le
regole (es. chi ha ucciso è giusto che debba essere punito).
Ma fondamentale è il significato della benda, che è simbolo di imparzialità. La giustizia va tutelata
indipendentemente dal fatto che un particolare individuo la richieda, essa fa infatti riferimento ad
un qualcosa di trascendente rispetto alla volontà dell’uomo. La Giustizia è quindi un qualcosa che
dipende da un’idea innata di moralità. Platone sarà proprio colui che inizierà a parlare “dell’idea di
giustizia” come idea innata e trascendente; dall’altro lato invece abbiamo lo stato di natura
concepito da Hobbes, il quale non possiede giustizia e per questo occorre che l’uomo si elevi dallo
stato di natura allo Stato civile, in modo da potersi appellare ad un “terzo” individuo, quindi
imparziale, che possa risolvere le controversie.
La benda però ha un duplice significato. Essa infatti ci indica non soltanto che la giustizia debba
essere imparziale, ma che in realtà non ci sarà mai una vera e propria giustizia totale, ovvero una
giustizia piena che soddisfi tutte le individuali richieste di giustizia.
L’autore quindi ci sottolinea che alla “giustizia” vanno affiancati i termini: prudenza e moderazione.
Questi elementi sono venuti meno nei regimi totalitari nati nei primi anni del 900.. Senza dubbio la
seguente frase di Popper: “tutti i tentativi dell’essere umano di portare il paradiso su questa terra
in realtà hanno portato soltanto all’inferno” , rappresenta al meglio l’errore commesso da quei
regimi totalitari che volendo effettuare un tentativo di ricerca ed applicazione di una “giustizia
totale” hanno ottenuto soltanto effetti negativi. (Il rifermento è mirato senza dubbio all’ideale
nazista, il quale professava uguaglianza a spese della sofferenza del popolo …).

La Giustizia in Età Classica ….

Platone.

Platone è colui con il quale non solo nasce la Filosofia classica, ma non solo, infatti è sua la prima
riflessione sistematica riguardo l’ideale di “giustizia”. La visione Platonica delle Poleis viene
considerata “organicistica”, ovvero egli considera la Polis come un “organismo vivente”. Platone
spiega tutto ciò tramite una metafora: quella del corpo umano. Il corpo umano è in salute quando
ogni organo svolge correttamente la propria funzione, e così è anche per le Poleis, quando ogni
classe sociale svolge la propria funzione, allora siamo in presenza di una società giusta. Allora
Platone elenca quelle che per lui sono le classi sociali: “le tre classi sociali”.
Lavoratori: coloro i quali si occupano della produzione dei beni primari.
Guerrieri: coloro i quali si occupano di difendere la Polis dagli attacchi esterni.
Filosofi: coloro i quali, essendo pensatori, devono stare al governo. I filosofi in buona sostanza sono
coloro i quali devono monitorare il funzionamento della società.
Inoltre, avendo questi al governo, non si avrà mai bisogno di leggi positive, essi sapranno sempre
cosa è giusto fare ed in quale momento, avranno sempre una soluzione ad ogni problema; in parole
povere i filosofi sono “la mente della società”.

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Ogni uomo appartiene ad una classe piuttosto che ad un’altra a seconda della sua propensione
naturale: se un soggetto è più propenso alle riflessioni intellettuali, oppure se è più propenso a
funzioni di manualità. A comprendere tutto ciò saranno gli educatori, ovvero gli stessi filosofi,
ovvero coloro appartengono più alta classe sociale. Quella platonica è senza dubbio anche una
visione “metafisica” della giustizia, in quanto l’organizzazione della Polis deve rispecchiare l’ordine
dell’iperuranio, ovvero l’ordine del cosmo. Ovviamente, tutto ciò, non può che essere fatto dai
filosofi-sacerdoti, soltanto loro potranno essere in grado di armonizzare l’ordine terreno con
l’ordine cosmico. La giustizia viene quindi raggiunta nel momento in cui un’organizzazione
rispecchia l’altra.

Aristotele.

“Etica nicomachea” : è l’opera in cui Aristotele scrive una serie di considerazioni analitiche relative al
concetto di giustizia. In che modo utilizziamo questa parola? Aristotele distingue quindi due modi di
approccio al termine: giustizia come virtù e giustizia come attributo di una costituzione politica. Questo
ci riporta alla precedente distinzione tra giustizia oggettiva e giustizia soggettiva. Ma non è la sola
distinzione aristotelica del termine, infatti egli ci propone nell’opera anche un giusto naturale ed un
giusto convenzionale.

Il giusto naturale è un qualcosa che prescinde dalla società presa in considerazione, esso fa
riferimento ad un qualcosa che riteniamo “giusto secondo natura”, ovvero cose che sono uguali
indipendentemente dalla società.
Il giusto convenzionale invece, dipende dalla società in cui ci troviamo, in quanto il giusto è
relativo alle diverse leggi, dai diversi usi, che vigono nelle differenti società.
La riflessione aristotelica si muove rispetto a due assi teorici: Un asse relativo al rapporto tra
giustizia e legalità, l’altro al rapporto tra giustizia ed uguaglianza.

Giustizia e legge: Aristotele dice che ingiusto è colui che non rispetta la legge, in quanto il fine
ultimo della legge è proprio il bene comune, ovvero la felicità dei cittadini; pertanto un soggetto che
non rispetta il diritto positivo è ingiusto in quanto va contro gli interessi della comunità ed
ovviamente contro i suoi stessi interessi.
Aristotele, nonostante allievo di Platone, si distacca completamente dal pensiero del suo maestro,
prendendo quindi posizioni opposte. Egli infatti non si fida degli uomini, affermando che si arrivi
alla giustizia soltanto tramite un diritto positivo, tramite quindi la legge. Platone contrariamente
affidava la giustizia ai filosofi, che se pur dotati di grande intelletto erano comunque esseri umani,
ed in quanto tali non erano di certo immuni alle tentazioni terrene. Secondo Aristotele infatti, anche
i politici devono rispettare le leggi, essi non sono superiori né rispetto alle leggi né rispetto agli altri
cittadini. Oggi questi temi ritornano … Come nella riflessione populista … Noi oggi ci affidiamo alle
persone, come se esse fossero in grado di “decidere per noi” ,ci affidiamo a figure carismatiche. Ma
anche questi uomini potranno essere corrotti dalle passioni.

Giustizia ed uguaglianza: Quando noi parliamo di giustizia senza accorgercene facciamo


sicuramente riferimento al concetto di uguaglianza. In realtà , in natura, non esiste l’uguaglianza,
ma abbiamo una pura disuguaglianza, basti guardare la morfologia di ogni essere umano. Così noi
tentiamo di plasmare la natura cercando di trovare un’uguaglianza artificiale che compensi la
diseguaglianza naturale. Esistendo tale diseguaglianza quindi, l’uomo cerca attraverso le leggi di
pareggiare questo squilibrio iniziale per cercare di dare a tutti le stesse possibilità, permettere a
tutti di partire da una stessa posizione. In questi termini allora, ciò che è giusto si trova in un
qualcosa che sta al di fuori rispetto alle parti, la giustizia risiede quindi nell’imparzialità. Infatti
colui che è giudice deve essere terzo rispetto alle parti in causa, la giustizia quindi ha a che fare con
la medietà.

71
1900: La situazione diventa complicata …
Abbiamo già analizzato Habermas…
La giustizia coincide con l’ordinamento esistente.
La nostra epoca è un’ epoca metafisica, ovvero nessuno può dire di conoscere la verità assoluta,
nessuno può dire cosa è giusto e cosa è sbagliato … allora ciò che è giusto è ciò che è positivo , ciò
che viene descritto dal legislatore.
Il mondo concreto può essere valido ed efficace indipendentemente che sia giusto o meno, sono tre
questioni completamente differenti. Cambia così il modo di pensare, non vi è un ordine preciso da
rispettare come quello dell’iperuranio.
In realtà questa concezione viene criticata, in quanto è possibile che l’ordinamento giuridico leda i
diritti individuali e di esseri umani ..la giustizia quindi come può estraniarsi

Anni 80: La giustizia viene considerata in chiave “distributiva”, ovvero attraverso quale criterio
vengono distribuiti i beni sociali all’interno della società, ai diversi soggetti che compongono la
società.

PARADIGMA POSTMODERNO: diversi autori, inseriti nella filosofia postmoderna, cerca di dare
congedo alla modernità, ovvero quel momento in cui l’occidente ha elaborato grandi narrazioni ..
Es. POSITIVISMO,LIBERALISMO …
Con essi invece non credono nelle grandi narrazioni, in quanto queste hanno chiare basi
metafisiche, ovvero nascono da concetti analizzati nella filosofia classica : ragione, etica ..
Oggi invece dobbiamo prendere in considerazione il LOGOS.
Con il postmoderno terminano le grandi narrazioni.
Non esiste in assoluto alcun criterio di “cosa è giusto e cosa è sbagliato”
Anche il concetto stesso di giustizia è una finzione, dobbiamo abbandonare il modo di affrontare
questi discorsi.. Tutti noi viviamo all’interno di narrazioni retoriche, tutti i valori non hanno agganci
con la realtà, sono imposizioni ideologiche di potere. Dobbiamo quindi abbandonare l’idea di
giustizia, Nietzsche ci ha insegnato questo, o meglio i filosofi post moderni affermano che la
filosofia occidentale è tutta un’illusione proprio perché segue un filo SOCRATOPATONICO che non è
reale, i valori sono tutti frutto di potere, la filosofia nasce proprio da una imposizione di potere.
Tutto è volontà di potenza. Anche il discorso sui diritti umani ha senso solo se partiamo dalla
cultura occidentale, solo dall’imposizione dell’occidente rispetto al resto, qualunque ordinamento
giuridico è frutto di uno scontro. I concetti sono metafore che hanno vinto rispetto ad altre .. non
sono qualcosa che sta nell’iperuranio.
Accanto ai postmoderni che decompongono il concetto di giustizia ne troviamo altri, come ad
esempio Carl Schmitt, famosissimo filosofo tedesco, il quale ha riflettuto nouns nemein:
spartire i problemi di giustizia hanno a che fare con problemi di ripartizione, di questioni concrete
di distribuzione. Questo è l’origine della giustizia. Così la riflessione di Scmith diventa
complementare rispetto a quella dei postmoderni.
Vi è un legame tra giustizia e violenza, ma questo lo sapevano anche i greci. L’ingiustizia, secondo la
mitologia, consiste nell’uomo che cerca di andare oltre al fato, tanto che gli dei punivano il
comportamento umano.

16 nov. “GIUSTIZIA” nel corso della storia..

Riprendendo l'enigma greco sul rapporto tra violenza e giustizia: ricordiamo che i greci collegano il
rapporto tra questi due concetti alla mitologia, ma in realtà non riescono a risolvere il dilemma. Il
rapporto viene simboleggiato dalla parentela tra Dike (dea della giustizia) ed Erinni (le divinità
della vendetta). Questo enigma non è possibile da risolvere razionalmente, ovvero i due concetti
non possono essere scissi.

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Età Arcaica …
In quest'epoca, il concetto di giustizia non viene mai declinato con l'accezione di virtù, ovvero la
giustizia non viene mai concepita come un comportamento virtuoso di un singolo
individuo.(Ricordiamo la 'giustizia soggettiva', la quale faceva riferimento al comportamento
individuale.) Questa accezione di giustizia è quindi completamente assente nella riflessione arcaica,
ovvero nel periodo precedente alle riflessioni dei grandi pensatori classici. Di quest'epoca non
abbiamo molte testimonianze, ma possiamo dedurre la concezione di giustizia di quei pensatori
tramite la mitologia, che manda un chiaro messaggio: la giustizia ha a che fare con l'ordine cosmico.
Esiste infatti un qualcosa che ha a che fare con l'ordine della natura, all'interno del quale noi siamo
inseriti.

Età Classica …

Platone.
Come ben sappiamo, egli scrisse diversi dialoghi, ma relativamente alla tematica analizzata,
possiamo ricordarne due: "Protagora" e "La Res Pubblica". Nel primo dialogo intitolato
"Protagora", Platone ci presenta una indagine genealogica del concetto di giustizia. Egli immagina
che nello stato originario non esistesse la giustizia, ma gli uomini fossero tutti in conflitto tra di
loro. La giustizia è un dono degli dei, ovvero Zeus inviò Ermes messaggero degli dei), e questo però
agli uomini il rispetto e la giustizia, insieme alla divisione del lavoro. Gli dei quindi spiegano agli
uomini i criteri con i quali devono vivere, ovvero il modo in cui devono organizzare la loro
esistenza. L'uomo naturale è invece incline alla violenza, pertanto potrebbe creare uno status
pacifico. Se la giustizia non è quindi nella natura umana, i cittadini vanno senz'altro educati ad
essere giusti. Nella "Res Pubblica" invece, ritroviamo la divisione della società in tre classi:
lavoratori, guerrieri e filosofi. Ricordiamo che secondo Platone gli unici che possano essere in grado
di governare sono questi ultimi, in quanto sono gli unici ad essere in stretto contatto con la verità.
Solo i filosofi conoscono le idee che stanno nell'iperuranio. In questo quadro, la giustizia consiste
nell'equilibrio tra le classi, monitorato ovviamente dai filosofi, che permetta ad ognuna di essa di
svolgere il proprio compito. Nei primi libri di quest’opera Platone inserisce un dialogo che avviene
tra 4 personaggi: Socrate, Trasimaco, Cefalo e Polemarco. Egli così cerca di farci ragionare sul
significato che noi giornalmente diamo alla parola giustizia. Ogni personaggio esprime quindi il suo
punto di vista ... Per Cefalo ad esempio, la giustizia coincide con il vivere secondo onestà, ovvero
rispettando le leggi e rispettando i patti. Per Polemarco invece vede la giustizia differentemente;
infatti egli crede che sia giusto aiutare gli amici e recare danno ai nemici, ovviamente un
comportamento contrario non sarebbe considerabile come un comportamento virtuoso. Il dibattito
però si focalizza maggiormente sulla diversa concezione di ‘giustizia’ che hanno Socrate e
Trasimaco. Quest’ultimo rappresenta la riflessione sofista (corrente filosofica diffusissima, alla
quale si contrappone la filosofia platonica), Socrate invece rappresenta il punto di vista platonico.
Trasimaco quindi afferma che la giustizia coincide con ‘l’utile del più forte’ , quindi sul piano politico
ciò che è giusto viene stabilito da chi vince, ovvero chi vince stabilisce ciò che è giusto che
inevitabilmente coinciderà con gli interessi dei vincitori. Socrate invece cerca di far ragionare
Trasimaco, dicendogli che in realtà ciò che lui afferma non è realizzabile. Egli afferma ciò in base al
presupposto che se realmente la giustizia coincide con l’utile del più forte, inevitabilmente chi è più
debole sarà costretto a soffrire; una società che soffre non sarà mai duratura e di conseguenza, la
giustizia non può rispecchiare la concezione di Trasimaco. Platone ci vuole quindi dire che
affrontando in modo errato il tema della giustizia, si incorre nel rischio di una degenerazione
governativa, ovvero l’instaurarsi di un governo tirannico. Egli infatti considera la tirannide come la
peggiore forma di governo, essa infatti nasce proprio dalla degenerazione dell’uomo che si lascia
trasportare dalle passioni. La visione Platonica è quindi una visione metafisica di giustizia. Nei suoi
scritti più ‘maturi’ , in particolare nel dialogo intitolato “la legge”, egli scrive che l’ordine della polis
deve coincidere con l’ordine del cosmo; ad occuparsi di controllare che questo accada è compito dei

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filosofi-sacerdoti. Come già anticipato, Platone lega l’idea di giustizia all’anima: un cittadino sarà
giusto come un corpo è sano; il momento educativo sarà quindi fondamentale per la vita del
cittadino.
Platone è un po’ un archetipo rispetto al tema della giustizia, in quanto nella sua filosofia possiamo
riscontrare un po’ tutte le concezione che verranno ad essa attribuite nel corso della storia.

Aristotele.
Egli fu un allievo di Platone, che però prenderà delle distanze dall’ ”accademia” del suo maestro, in
quanto si renderà conto di non condividere la “teoria delle idee” . Questa infatti, secondo Aristotele,
non faceva altro che portare ad una duplicazione della realtà: una fenomenica ed una noumenica
(nell’iperuranio). Aristotele ha quindi un punto di vista più ‘empirico’ rispetto al suo maestro, ed
infatti egli riporta questo suo modo di vedere anche rispetto al tema della giustizia. Questo tema
viene trattato nel LIBRO V dell’opera aristotelica più famosa: l’ “Etica Nicomachea”. Aristotele
comincia a parlare di giustizia introducendo il suo aspetto polisemico, ovvero non esiste un unico
concetto di giustizia. È ingiusto chi viola la legge, chi non rispetta l’uguaglianza, chi vuole avere più
dell’altro in modo arbitrario (tre esempi che portano a diverse concezioni della giustizia). Un’altra
accezione di giustizia è imparzialità ovvero la medietà, sicuramente rappresentata dal giudice.
Infine, Aristotele afferma che la giustizia è la virtù più importante, ovvero la virtù perfetta.
Innanzitutto egli fa una divisione analitica, distinguendo una ‘giustizia generale’ da una ‘giustizia
particolare’ . La ‘giustizia generale’ riguarda il rispetto della legge, in quanto questa serve ad
orientare l’uomo verso il bene comune, ovvero verso il bene della collettività. La ‘giustizia
particolare riguarda invece i diversi tipi di rapporti che noi possiamo avere con i nostri simili, il
modo in cui interagiamo. Questa tipologia di giustizia si distingue a sua volta in: giustizia
distributiva e giustizia commutativa. La differenza tra queste risiede nel tipo di proporzione
adoperata per conseguire la giustizia stessa. Nel primo caso abbiamo a che fare con una proporzione
di tipo geometrico, mentre nel secondo caso abbiamo a che fare con una proporzione di tipo
aritmetico. La prima tipologia di proporzione fa riferimento ad una distribuzione diseguale, in
quanto ci sono persone che sono più meritevoli di altre, dare di più a chi merita di più. La seconda
tipologia invece, ha a che fare con l’esatta uguaglianza; ad esempio nel momento in cui arrechiamo
danno ad un vicino, dobbiamo risarcirlo in proporzione al danno stesso. Si tratta quindi di una
‘giustizia riparatrice’. Questi sono due modi diversi di vedere la giustizia, non necessariamente
incompatibili. Dopo aver analizzato tutti i modi in cui Aristotele definisce e commenta il concetto di
giustizia, si può chiaramente dedurre che vi è una “logica generale di fondo” che accomuna tutte le
distinzioni, la quale lascia sicuramente intendere che giustizia è: “dare a ciascuno il suo”, applicato
poi ai diversi contesti. Ma da chi è stabilito cosa spetti ad ognuno? Senza dubbio dalla legge. Ma la
legge a questo punto deve essere giusta in sé, giusta a priori. Allora nasce un circolo vizioso
all’interno della concezione aristotelica di giustizia. Anche la filosofia aristotelica è considerata
fondamentale come base per le filosofie future.

Dai Greci ai Romani …

Cicerone.
Anche i Romani ci tramandano una riflessione sul concetto di giustizia. Essi integrano i pensieri già
sviluppati dai greci, associando un nuovo concetto a quello che abbiamo già analizzato: La
prudenza. Cicerone infatti nel suo scritto “De Officis” introduce proprio una riflessione su questo
concetto, dicendoci che la prudenza è fondamentale. I governanti, ovvero i politici, sono coloro i
quali più di tutti devono essere giusti, ma per esserlo devono necessariamente agire con prudenza;
se essi non agiranno secondo prudenza allora saranno dei governanti ingiusti. Essi devono inoltre,
come tutti, rispettare e sottomettersi alla legge. Infine, le stesse leggi da loro formulate devono
avere come obiettivo il bene comune, l’utile per tutti, e non il bene personale dei governanti. Infine

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questi ultimi, devono avere come fine governativo quello di mantenere l’armonia sociale, ovvero la
concordia tra i cittadini. Questi elementi sono fondamentali affinché i governanti vengano ritenuti
‘giusti’.

Nel Medioevo …
In questo periodo la riflessione sulla giustizia viene arricchita da un fondamentale elemento: Il
Cristianesimo. Ricordiamo che questo periodo storico è caratterizzato da una forte influenza Cristiana.
Quando facciamo riferimento al cristianesimo ci riferiamo senza dubbio al grande testo sacro: La Bibbia;
testo diviso in antico testamento e nuovo testamento. Come viene interpretata allora la giustizia
nell’Antico Testamento, ovvero nella sola parte riconosciuta sacra dagli Ebrei?. Tutto si concentra su una
discordanza tra: l’idea di un Dio che dà la grazia contrariamente all’idea di un Dio che punisce coloro i
quali non rispettano i suoi comandamenti; insomma un Dio vendicatore. Questa tensione fa allora si che
nel mondo giudaico nasca il legalismo ebraico, ovvero un atteggiamento di forte attenzione nei riguardi
dell’osservanza delle leggi. Ricordiamo che lo stesso Gesù destava scalpore, agli occhi degli ebrei, in
quanto non rispettava la legge (stava con i malati, lavorava il sabato …). L’idea di giustizia quindi consiste
nel rispettare tutta una serie di precetti che disciplinano quotidianamente la nostra esistenza, ma la
giustizia più in generale coincide con la legge del taglione, ovvero una perfetta simmetria: ‘occhio per
occhio, dente per dente’.

Nel Nuovo Testamento invece il discorso cambia, in quanto si insidiarono nuove concezioni che
scardinarono questa concezione di giustizia. Adesso infatti, Dio viene concepito come misericordia,
pertanto la giustizia viene legata alla speranza. Perché alla speranza? Questo legame nasce da una
riflessione dei cristiani, i quali ragionano su di un semplice fatto: se vi è una vita al di là di questo
mondo, e Dio è in grado di essere misericordioso, allora gli uomini non saranno mai in grado di
realizzare la vera giustizia in questo mondo. Ecco allora che la giustizia viene concepita come
speranza di una futura giustizia piena, realizzabile soltanto dopo la morte. Così anche un altro
concetto viene associato alla giustizia: la carità. Un uomo è giusto soltanto se è caritatevole; se
riesce ad assumere ‘la prospettiva di Dio’, in quanto la ragione umana non potrà mai realizzare
giustizia su questa terra, soltanto Dio potrà realizzarla.
Secondo alcuni studiosi però, all’interno del nuovo testamento rimane una tensione irrisolvibile: C’è
o no una tensione tra Dio come misericordia e l’idea di una dannazione eterna, ovvero l’idea che
l’uomo possa trascorrere l’eternità all’inferno? … Hans Kelsen, in particolare, sostiene che questa
questione non sia stata risolta dalla teologia cristiana. Come è possibile collegare una colpa terrena
con una dannazione eterna? …
Presa coscienza di queste premesse, possiamo analizzare lo specifico pensiero di: Agostino
D’Ippona e Tommaso D’Aquino .

Agostino.
Egli vive tra il IV ed il V secolo d.C. La sua riflessione parte dal confronto tra Socrate e Trasimaco,
contenuto nel dialogo platonico la ‘Res pubblica’, ovvero, tra un’ idea di giustizia come morale contro
un’idea di giustizia come utilità del più forte. Agostino allora fa una riflessione: se la giustizia fosse vera
la concezione espressa da Trasimaco, che differenza ci sarebbe tra una comunità politica ed una
comunità di briganti? Che differenza potrebbe esserci, se la giustizia coincide con la violenza? Agostino
quindi afferma che la teoria di Trasimaco non funziona, la giustizia quindi non può avere a che fare
soltanto con forza e violenza.

Agostino concepisce gli uomini come una massa di dannati, tutti affetti dalla macchia del peccato.
Ricordiamo che è Agostino colui che ci tramanda il concetto di peccato originale così come noi oggi

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lo intendiamo … L’uomo pertanto ha necessariamente bisogno della grazia di Dio.
Nella sua opera : “La Città di Dio”, Agostino ci dice che l’esperienza umana è una lotta continua tra
‘città di Dio’ e ‘città degli uomini’ , ovvero uno scontro tra due diversi modi di porsi dei confronti
dell’esistenza. Chi vive nella città degli uomini vive secondo ‘amor sui’, ovvero amore verso se
stesso e chiusura verso l’altro; mentre chi vive nella città di Dio vive secondo ‘amor dei’, ovvero in

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grazia di Dio, ed apertura verso gli altri uomini.
In tutto questo, la politica viene considerata da Agostino come luogo di violenza, ma allo stesso
tempo come l’unica possibilità per poter arginare il male, che come detto è senza dubbio una
componente umana. Allora la politica, e quindi anche la violenza, divengono un male necessario per
un bene più grande. La politica è uno strumento che ci permette di limitare gli effetti negativi che
scaturiscono dal peccato.
Il rapporto cristiano con la violenza è quindi un rapporto di tensione, in quanto per alcuni è per
l’appunto un male necessario, mentre per altri bisogna guardare oltre e non bisogna mai ricorrere alla
violenza.

Agostino quindi successivamente si interrogherà sulla questione di: Guerra Giusta. Una guerra può
essere considerata giusta, solo e soltanto se è finalizzata alla pace, e se precedentemente si è tentato
di risolvere in modo pacifico la questione sullo scontro.

Tommaso D’Aquino.
Egli vive diversi anni dopo, nel 1200. Tommaso ha una sensibilità diversa rispetto ad Agostino,
infatti la sua riflessione non parte dalla filosofia platonica, ma da quella filosofia Aristotelica.
Egli quindi non considera più il genere umano semplicemente come una massa dannata, ma ne ha
una visione più positiva, in quanto crede che la ragione umana sia in grado di produrre qualcosa di
positivo anche senza un necessario riferimento teologico, senza quindi un necessario intervento di
Dio. Il rapporto tra fede e ragione viene affrontato quindi in modo più ottimista.
La giustizia per Tommaso è un ‘abitus’ , ovvero una disposizione, cioè un qualcosa che orienta il
nostro comportamento. Quindi un soggetto è giusto quando ha una predisposizione di questo tipo.
La giustizia inoltre coincide con il bene comune, pertanto bisogna rispettare le leggi, perché queste
sono finalizzate alla realizzazione del bene comune.
Con Tommaso abbiamo un ulteriore passo fondamentale nell’analisi del concetto di giustizia, ovvero il
rapporto già menzionato che si crea tra il concetto stesso di giustizia ed il concetto di carità. Dal
momento che noi uomini non potremo mai realizzare una giustizia piena, è la carità che deve
completare la giustizia.

Cosa si intende per ‘carità’? Il concetto di carità in età medievale assume un significato diverso
rispetto a quello greco. Mentre in età greca il concetto di carità era legato al concetto di amore
(amore in senso di eros), ad oggi il concetto di carità è legato al concetto di donazione, ovvero nel
mostrarsi disponibile verso il prossimo. ‘Agape’ che non coincide perfettamente con l’ ‘eros’.

Età moderna …
In età moderna abbiamo grandi trasformazioni; ricordiamo infatti essere caratterizzata da diverse
novità. In primo luogo dalla scoperta dell’America, data che segna per l’appunto l’inizio di
quest’epoca storica; in secondo luogo invece, dalla rottura della comunità cristiana, ovvero dalla
nascita del protestantesimo . Quali conseguenze politiche abbiamo? Ricordiamo che a quei tempi la
religione era fondamentale, vi era quasi un ‘tolleranza’ del potere temporale rispetto al potere
spirituale. La divisione del cristianesimo quindi, porta ad una crisi della Res pubblica Cristiana,
retta ovviamente dal papa. Non tutti i cristiani, conseguentemente alla rottura, si riconosceranno
nella figura del papa come capo religioso.
Tutta questa situazione conduce diversi pensatori alla ricerca di una nuova spiegazione alla
legittimazione del potere, che non abbia più a che fare con la religione, ed è per questo che nascono
le teorie del ‘contratto’, ovvero le teorie giusnaturaliste. Si comincia quindi a parlare di un ordine
già esistente in natura, un ordine che il diritto positivo deve rispettare .

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John Locke. In natura esistono dei diritti inalienabili: vita, libertà e proprietà. Se una comunità politica
non rispetta questi diritti già presenti in natura, che prescindono dal tipo di professione religiosa, sarà
lecita una resistenza politica, in quanto ritenuta comunità illegittima.

Adesso è quindi la natura ad essere utilizzata come criterio per definire la giustizia, infatti i diritti

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preesistenti sono quelli che se rispettati conducono alla giustizia, all’essere giusti.
Locke polemizza con un altro teorico inglese di quel tempo: Robert Filmer , il quale invece portava
avanti una teoria ‘patriarcale’ del potere, ovvero il potere trova legittimità in Dio. Locke invece,
viene considerato il padre della tradizione liberale, in quanto sostiene che il potere temporale deve
essere autonomo rispetto al potere spirituale.

Thomas Hobbes.
Hobbes è radicalmente antiplatonico, in quanto nella famosa disputa fra Trasimaco e Socrate, egli
prende la parte di Trasimaco. Hobbes infatti sostiene che una volta entrati in un ordinamento
giuridico, le leggi verranno prodotte inevitabilmente da chi detiene il potere, quindi dal più forte,
che si identifica nel Leviatano.
(“Leviathan è un’opera Hobbesiana , il leviatano è un mostro marino biblico)
“Non è la verità che fa la legge ma l’autorità”. Hobbes diviene sempre più un punto di riferimento,
all’interno del processo di autonomizzazione dello stato rispetto alla religione; si prendono infatti
grandi distanze dalla verità, che lasciano il posto allo stato legiferante.
Sia Tommaso che Agostino riflettono sul tema delle leggi: una legge ingiusta , ovvero una legge che non
ricerca il bene comune, non è una legge ma un atto di arbitrio. Si deduce così che diritto e legge nella
concezione medievale non coincidono , ovvero il diritto rappresenta ciò che a priori è giusto ed
appartiene alla natura, la legge invece poteva essere ‘contestata’. In età moderna questo cambia, i due
concetti finiscono per collassare l’uno dentro l’altro … Rimane allora una questione irrisolta: come può
uno stato essere ingiusto?

Hegel.
Egli tentò di risolvere la questione, affermando che lo stato è una sostanza etica in base alla quale
noi esistiamo, ovvero, noi esistiamo in quanto nasciamo membri di uno stato, in quanto membri di
una comunità. Lo stato quindi non è neutrale rispetto ai valori, contribuisce infatti alla formazione
dei singoli cittadini. È allora lo stato che ci rende liberi secondo Hegel, e non il contrario. La visione
hegeliana però riserva un pericolo: il totalitarismo, ovvero lo stato è tutto e il cittadino è nulla.
La visione hegeliana è infatti fonte d’ispirazione per i regimi totalitaristi del 900, i quali ritenevano
lo stato ontologicamente superiore rispetto all’individuo. Sarà poi la “dichiarazione dei diritti
dell’uomo” che permetterà l’affermarsi definitivo dei diritti individuali, e quindi dei cittadini.
(Alcuni teorici considerano la ‘dichiarazione’ come la vittoria del giusnaturalismo sul positivismo)
Con la recente ‘scristianizzazione’ degli stati occidentali, ovvero con la perdita d’importanza
dell’elemento religioso, si è andato incontro a quello che Weber ha definito ‘politeismo dei valori’ ,
ovvero, cioè non si può parlare in modo razionale dei valori, questi hanno a che fare con l’ambito
dei sentimenti. Per tal motivo i positivisti dicono che lo stato deve, contrariamente a ciò che
sosteneva Hegel, essere neutrale rispetto ai valori.
Un altro evento che caratterizza l’età moderna è senza dubbio la progressiva nascita del capitalismo.
Accanto a questa, troviamo anche una nuova teoria politica: il liberalismo.

Ecco che tutti i modi di vedere la giustizia analizzati con Aristotele tornano..

Questa teoria politica infatti, ha una visione commutativa della giustizia, ovvero giustizia come
applicazione di una logica aritmetica. Ovviamente questa visione rispecchia le logiche di mercato:
compro qualcosa per il corrispettivo prezzo.

Il socialismo invece, prima in età moderna e poi in età contemporanea, si farà sostenitore della
giustizia distributiva, ovvero della modalità tramite la quale vengono ripartite le risorse.
Questa visione riguarda sia i socialisti utopisti che la riflessione Marxista..

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Marx . Egli disse che non basta l’ uguaglianza solamente sul piano formale, perché in realtà lo
stato, inteso come ordinamento giuridico, è nient’altro che uno strumento a servizio alla classe
borghese; è quindi necessaria un’uguaglianza in senso pratico, ovvero sul piano distributivo. È qui
che Marx prende le distanze da Hegel, in quanto questi sosteneva che le diseguaglianze presenti

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nella società civile vengono in realtà sanate dallo stato.
Per Marx quindi, le leggi , ovvero il diritto, non sono altro che una sovrastruttura ideologica, cioè un
qualcosa che serve a mantenere la subordinazione della classe proletaria rispetto alla classe borghese. È
allora necessario lo scoppio di una rivoluzione, affinché vengano abolite le sovrastrutture, quindi la
distinzione tra classi, segnando quindi la nascita di un’uguaglianza sostanziale, affinché ci sia una società
giusta.

In conclusione quindi, Marx afferma che la distribuzione deve avvenire ‘ad ognuno secondo i propri
bisogni’… Egli immagina la storia come una continua lotta tra classi che terminerà con il
comunismo. Prima di quest’ultimo però, è necessario attraversare una fase transitoria: la dittatura
del proletariato. In questa fase la ripartizione delle risorse avviene seguendo un metodo
meritocratico. Nella fase di comunismo inoltrato invece, la forma di ripartizione delle risorse sarà:
“ad ognuno secondo i propri bisogni, da ognuno secondo le proprie capacità”. Tutto ciò è considerato
come una ‘scommessa antropologica’, che diviene possibile se ci inoltriamo nell’ottica di pieno
comunismo.

23 Nov.La Giustizia introvabile (cap. 5 – 6 – 7)

GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA
Questa tipologia di giustizia insieme a quella commutativa e retributiva, è affrontata da Aristotele.
La giustizia distributiva deve essere analizzata capendo quali sono i criteri da utilizzare per
ripartire i beni, in che cosa consiste una giusta distribuzione e quali sono i criteri secondo il quale
una distribuzione viene ritenuta giusta. Una volta che tale distribuzione è giusta bisogna capire se
riguarda qualcosa di naturale, oppure capire se il giusto è qualcosa che costruiamo noi riparando
una disuguaglianza esistente in natura.
Quali sono i beni oggetto di una distribuzione? O meglio quali sono i beni di cui ci si occupa quando
ci poniamo la domanda sulla giustizia distributiva? Sono il potere in senso ampio, la ricchezza, il
prestigio e i beni che sono oggetto della questione di giustizia su cui ci si interroga sulla loro giusta
distribuzione, come dice Rawls sono i beni sociali primari: reddito, opportunità, diritti, doveri, il
rispetto di se. Uno dei problemi sui quali riflettono i Greci, con Platone ed Aristotele, è il fatto che in
natura già si hanno situazioni di disuguaglianza. Gli uomini non sono uguali in natura, questo è il
punto di partenza della discussione. Come si corregge questa situazione? L’oggetto del contendere
risiede sui criteri che stanno alla base della ripartizione, con Rawls si è visto che in età
contemporanea la soluzione è adottare un punto di vista kantiano che ci permetta di individuare dei
principi di giustizia che siano quanto più oggettivi e razionali possibili. In età moderna una prima
riflessione possibile è quella che fa riferimento a John Locke, vive nel ‘600 durante il periodo
turbolento della storia inglese ed è considerato il padre del Liberalismo poiché immagina che
l’uomo esca dallo stato di natura presente nella società civile, che noi oggi definiamo stato (con il
termine moderno), per tutelare i suoi diritti di natura. Locke afferma che esistono tre diritti di
natura: vita, proprietà e libertà che appartengono all’uomo in quanto tale, prima del suo ingresso
nella società. La teoria liberale è attenta a porre dei limiti all’esercizio del potere, i limiti che Locke
attribuisce al potere sono costituiti appunto da questi diritti di natura. Quando il potere viola questi
diritti, il cittadino ha diritto di opporsi e resistere al potere. Locke è il primo nell’ambiente liberale
ad affrontare un discorso sistematico intorno ai limiti da apporre intorno al potere politico,
pertanto questi limiti già identificati come diritti naturali vanno apposti prima che l’uomo entri in
società e prima che stipuli il contratto, ovvero nello stato di natura dove l’uomo in quanto tale ha
già questi diritti naturali. Il pensiero di Locke è importante, se si fa un accostamento con il pensiero
di Hobbes, entrambi sono dei pensatori contrattualisti, entrambi immaginano che ci sia un
momento di passaggio dallo stato di natura allo stato politico, però concepiscono lo stato di natura
in maniera completamente diversa. Secondo Locke esistono diversi tipi di diritti di natura, mentre
per Hobbes esiste solo un tipo di diritto naturale, che è la possibilità di ogni uomo di appropriarsi di

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qualsiasi cosa che gli permetta di fare. Per Hobbes lo stato di natura è pertanto uno stato infernale,

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di guerra civile continua, perché non esistendo nessuna distinzione del bene e del male e tra cosa è
giusto e cosa è male, si ha una guerra continua di tutti contro tutti. La paura che ha l’uomo di questa
situazione caotica, lo porta a stringere accordi con il Leviatano, il singolo individuo aliena il proprio
diritto di natura e di libertà al potere politico (Leviatano) in cambio della sicurezza. È importante
differenziare Hobbes a Locke, perché mentre per Hobbes non esiste nessun criterio per definire ciò
che è giusto e ciò che è ingiusto e quindi non possono esistere i diritti naturali come il diritto di
proprietà, Locke invece prova a fornire un argomento in tale direzione, nello stato di natura benché
non esista un ordinamento giuridico perché non siamo ancora nella società politica, si possono
trovare alcuni criteri per definire ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, soprattutto in ordine alla
fondazione del diritto di proprietà. Come si fa a legittimare nello stato di natura il diritto di
proprietà? La legittimazione può avvenire con il lavoro dell’uomo che sta al centro della ideologia
liberale; Locke prova a sostenere e argomentare che è vero che nello stato di natura non esiste
nessuna legge ufficiale, non c’è una autorità esterna, però è vero che nel momento in cui l’uomo
deve sopravvivere deve utilizzare delle risorse che sono a disposizione di tutti, ma se ad esempio un
contadino coltiva un campo, i frutti di tale coltura, legittimamente appartengono a colui che lo ha
coltivato. Ha più diritto chi ha coltivato il campo, rispetto a chi è passato li vicino al campo,
pretendendo di impossessarsi dei frutti e quindi di accaparrarsi queste risorse.
Locke sostiene che il diritto di proprietà ha un fondamento nel lavoro, diventando successivamente
fondamento della tradizione liberale. Stessa ideologia si ha parlando del pensiero di Nozik, quando
contestava Rawls, secondo la quale lo stato non si deve far propria una politica di ripartizione delle
risorse che mette in discussione il primato del lavoro cioè del merito. Nel momento in cui si è in un
economia di libero mercato, è il merito che deve essere il criterio di ripartizione delle risorse, tutto
ciò è argomentato nella riflessione di Locke. Secondo lui con lo sviluppo del mercato e con
l’introduzione della moneta si crea un economia di tipo dinamico che subentra alla economia tipica
del baratto. Il sistema si evolve grazie alla introduzione della moneta e fa si che la distribuzione non
sia più una distribuzione di natura ma una distribuzione artificiale basata sulla moneta che diventa
essa stessa un bene deteriorabile. Sostanzialmente nell’età moderna si pongono due grossi
paradigmi che giungono fino a i giorni d’oggi: Da un lato vi sono una serie di autori che sostengono
che la proprietà privata sia un diritto naturale perché è fondata sul lavoro e che l’ordine sia di tipo
naturale, perché è dallo stato di natura che l’uomo deve lavorare per vivere; Dall’altro lato si ha un
paradigma che nasce dal pensiero di Jean J. Rousseau, secondo cui nello stato di natura in realtà,
l’uomo ha una sorta di comunanza originaria dei beni rispetto agli altri. La proprietà è una
costruzione artificiale dell’uomo, e con essa inizia un’epoca di decadenza dell’essere umano e della
storia.
Tale pensiero si evince dai “Saggi giovanili” di Rousseau basata sull’origine della disuguaglianza,
dove lo studioso immagina che la storia umana per come la si conosce oggi in età moderna, sia
andata in decadenza dal momento in cui l’uomo ha recintato per la prima volta un terreno
rivendicando il proprio diritto di proprietà. Rousseau sottolinea il fatto che la proprietà privata è un
atto umano artificiale naturale e con esso incomincia il processo di decadenza della storia umana.
Questi sono due paradigmi alternativi che accompagnano tutta la storia dalla riflessione politica
moderna a quella contemporanea, perché con Rousseau, inizia quella che oggi è definito il
paradigma di Filosofia Sociale, seguita da tutta una serie di autori che si richiamano alla tradizione
socialista-marxista, che richiamandosi appunto a Rousseau, sono interessati a vedere tutte quelle
che oggi chiamiamo patologie sociali, dipendenti da questo paradigma, dal libero mercato e dalla
proprietà. I socialisti utopisti come Marx ed Enghel, immaginavano fosse possibile superare gli
squilibri della società moderna soltanto abolendo la proprietà privata, il passaggio più importante
per Marx era che questo passaggio dalla società borghese fosse possibile solo tramite la rivoluzione,
mentre altri socialisti utopisti pensavano che fossero possibili una serie di esperimenti che
avrebbero portato al superamento della società capitalista. Marx propugnava un analisi scientifica
del modello capitalistico che si evince dal famoso scritto “Il Capitale” sostenendo insieme ad Enghel
che fosse necessario l’atto rivoluzionario. La classe proletaria avrebbe dovuto intestarsi questo atto

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rivoluzionario, violento, di insurrezione e di ribaltamento che avrebbe poi acconsentito alla
creazione di una società comunista, dove non essendoci la proprietà privata ed essendoci una
socializzazione dei mezzi di produzione avrebbe portato ad un uguaglianza tra classe
imprenditoriale e lavoratori, tutto sarebbe stato gestito da tutti, ovvero una forma di democrazia
radicale e sostanziale. Il punto di partenza che a noi interessa è che, è stata la proprietà privata a
portare alla crisi della società umana, che giustifica il libero mercato e tutte le contraddizioni che
caratterizzano la società borghese ottocentesca, quella che Marx conosceva in particolar modo era
la società inglese, poiché le teorie di Marx vengono fatte osservando l’Inghilterra degli anni ’40
durante quel processo della rivoluzione industriale che era già in fase avanzata. Negli altri paesi
come l’Italia, Francia e Germania, la rivoluzione industriale non aveva prodotto i suoi effetti che
avverranno nella seconda metà dell’800, mentre in Inghilterra questo processo analizzato da Marx,
era ben avviato già nella prima metà dell’800. I socialisti e i comunisti in particolare, si definiscono i
veri democratici, sostenendo che se si pone un problema di giustizia e di uguaglianza nella società,
si deve superare l’ordine borghese. Tale ordine è sbagliato perché riconosce un uguaglianza di tipo
formale, tutti sono uguali di fronte la legge, ma poi da un punto di vista economico ogni soggetto è
diverso, perché vi è una classe proprietaria dei mezzi di produzione e una classe di produttori, la
diagnosi di Max pertanto era che le leggi di funzionamento del capitalismo, a poco a poco avrebbero
portato la società verso una grande polarizzazione; da una lato pochissimi detentori dei mezzi di
produzione (borghesi) e dall’altro una vasto numero di produttori ovvero il proletariato che
avrebbe inglobato tutte le classi intermedie. L’atto rivoluzionario pertanto sarebbe stato nell’ordine
delle cose, poiché essendoci stata una sterminata massa di gente povera, sarebbe stato naturale
avviare la rivoluzione. Questo grosso modo è la schema marxista, la vera democrazia non può non
essere comunista o socialista, deve essere una democrazia sostanziale e non meramente formale.
Uguaglianza formale, quella difesa dalla tradizione liberale è tale perché si limita a riconoscere
soltanto a livello formale l’uguaglianza di tutti ma poi in realtà si è diversi. Anche oggi nella nostra
società possiamo essere ricchi o poveri, siamo uguali di fronte alla legge, però se abbiamo problemi
con la giustizia e possiamo permetterci un avvocato migliore rispetto ad un avvocato di ufficio,
magari possiamo avere una risoluzione del processo in maniera diversa. Questo per fare capire che
ancora oggi si discute su tutta questa serie di dinamiche, affermando che l’uguaglianza meramente
formale è insufficiente, vi sono tutta una serie di tematiche riguardanti l’istruzione, la previdenza
sociale e la sanità dove è necessario l’affermazione di un uguaglianza di tipo sostanziale. Vi è un
rapporto o tensione all’interno della storia occidentale degli ultimi due secoli tra l’affermazione
dell’uguaglianza formale e sostanziale, diventando un tema di giustizia retributiva, ovvero come
dobbiamo distribuire i beni tra gli individui? Il modello estremo è quello radicale-socialista (beni
ripartiti in maniera uguale fra tutti), all’estremo opposto vi è il modello anarco-liberale del mercato
sostenente, che una volta accettata la presenza di un sistema di libera concorrenza (ciò che si
chiama capitalismo) lo stato non deve occuparsi di distribuire i beni in questo modo, perché questo
porta a delle degenerazioni, si comprime la libertà di iniziativa economica in virtù di un ideale etico,
ovvero quello dell’uguaglianza sostanziale predicata dai socialisti. Se si scarta il modello radicale-
socialista ed entriamo all’interno di un sistema di libero mercato, quale diventa il criterio di
ripartizione dei beni? Esistevano società pre-moderne dove non si era ancora sviluppato una realtà
di tipo capitalistico, dove il criterio di ripartizione dei beni, ovvero il criterio di giustizia, coincideva
con lo status di rango sociale. In base al ruolo che si aveva nella società, si ottenevano una serie di
privilegi, come avveniva in età medievale, dove chi apparteneva al ceto nobiliare, aveva tutta una
serie di diritti e privilegi derivanti dalla posizione sociale. Stesso discorso valeva per il clero, il
sistema delle corporazioni secondo il quale in base alla corporazione di appartenenza, spettavano
una serie di diritti e prerogative. Qual è il limite teorico di questo criterio di ripartizione delle
risorse? Sostanzialmente la staticità sociale, la società cetuale era una società dove era impossibile
ascendere la scala sociale, poiché l’individuo aveva una serie di diritti e doveri che erano legati alla
classe sociale di appartenenza. Una società cetuale è quindi una società ferma dal punto di vista
della scala sociale, non vi sono criteri per passare da una classe ad un'altra, in quanto ancora non si

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è sviluppato un economia di tipo borghese-liberale, che invece in età moderna porterà a sovvertire
questo ordine. Un altro criterio di ripartizione può essere il criterio del bisogno, in una società
bisogna distribuire i beni in base al bisogno che hanno i cittadini , questo è l’ideale che secondo
Marx, dovrebbe caratterizzare la società del comunismo pienamente realizzato. Anche in questo
modello vi è un limite, consistente nel fatto che non è evidente come sia possibile applicare
pienamente un criterio di giustizia di questo genere, perché vi è un presupposto nascosto nel
ragionamento di Marx, ovvero che la società idealizzata è una società che va al di là delle
circostanze di giustizia. Per capire tale affermazione bisogna fare un passo indietro, Marx esprime
attraverso la prima parte della sua opera “Il Manifesto”, un elogio della borghesia, non è vero che la
critica, ma invece parte dal riconoscimento di una funzione storica che la borghesia e il sistema
capitalista hanno avuto. Questa funzione è stata quella di aumentare la ricchezza e di avere
abbattuto le barriere tra gli stati, in virtù dell’atteggiamento cosmopolita del borghese, pertanto il
capitalismo è un sistema che produce ricchezza e fa uscire l’uomo dallo stato di bisogno. Il
problema risiede nella ripartizione di questa ricchezza, Marx immagina che la società comunista
poteva nascere soltanto dopo la società borghese-capitalista, ovvero si affermerà quando ci sarà il
massimo sviluppo delle forze produttive, ci sarà una ricchezza smisurata che verrà ripartita in
maniera equa sulla base del bisogno e dopo avere socializzato i mezzi di produzione e aver abolito
la proprietà privata, si sarà superata la fase borghese. Ritornando al punto di prima, Marx afferma
che la società sarà una società che andrà al di là delle circostanze di giustizia, ovvero una società in
cui non ci sarà più un problema di ripartizione di beni perché scarsi, poiché il sistema capitalistico
ha fatto si che tali beni siano abbondanti. Va analizzato il pensiero di un altro filosofo scozzese
del’700 David Hume, secondo il quale l’uomo si deve porre un quesito: quando si pone il problema
di giustizia? Quando i beni sono scarsi dice Hume, quando i beni sono in abbondanza l’uomo non si
pone la problematica di giustizia. Il problema di giustizia si può superare secondo diversi criteri: il
rango, il bisogno e il merito, mentre la società ideata da Marx, è una società che va al di là delle
circostanze di giustizia e non si pone il problema della scarsità delle risorse, poiché immagina che
dopo il capitalismo ci saranno beni in abbondanza, ovviamente tutto ciò è un utopia in quanto nella
realtà dei fatti i beni sono scarsi. Questo ragionamento ci dà spiegazione del fatto che Marx si è
sempre rifiutato di dare una visione del mondo del futuro, in quanto non ne era in grado, lo si
evince dalla sua nota espressione “mi rifiuto di dare ricette per l’osteria del futuro”, questo si
contrapponeva al suo spirito scientifico, ovvero la sua volontà di analizzare la società per quello che
era, quindi era un qualcosa che affidava agli altri e ai suoi successori. Da un punto di vista teorico si
può immaginare che, la società del comunismo ideata da Marx prevede che il criterio di ripartizione
dei beni deve essere il bisogno, ovvero ognuno deve contribuire con i propri meriti, ma ottiene i
beni secondo le proprie esigenze. Chi invece si riconosce nella tradizione liberalista, ha sempre
difeso fin dall’età moderna il criterio di ripartizione dei beni basato sulla prestazione o sul merito,
secondo la quale ognuno vengono ripartiti i beni in base al proprio fare nella società, ovviamente in
una economia di libero mercato, il criterio di ripartizione sarà quello del merito. Se vi è un
economia volta a produrre ricchezza ed è caratterizzata da valori come l’innovazione, l’efficienza, la
concorrenza, ecc. il criterio principale di ripartizione dei beni deve essere il talento, che si
ripercuote nella prestazione che si offre nella società e più si è capaci a sopravvivere all’interno del
mercato, più gli saranno attribuiti beni. Questo oggi fa parte del paradigma neo-liberista, che
enfatizza il criterio della prestazione, tale criterio si presta a diverse interpretazioni, che oggi sono
affrontate secondo il proprio orientamento filosofico. Uno degli studiosi che si è occupato di tale
argomento è stato Norberto Bobbio, secondo il quale il principio di prestazione può essere
differenziato in varie parti, si può essere attenti al concetto di prestazione come il lavoro che si
svolge, a prescindere del risultato che si raggiunge, oppure si può premiare una prestazione perché
al di là del risultato si trova un impegno da parte del soggetto che lo ha svolto (es. la valutazione
scolastica), pertanto questo criterio essendo interpretato in maniera diversa comporta un
interpretazione diversa di cosa intendiamo per prestazione. Ciò che si contesta al paradigma neo-
liberista, è l’enfasi eccessiva sulla prestazione finale, non ci si preoccupa delle condizioni di

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partenza della competizione ma solo del risultato finale che porta la prestazione, analizzando la
situazione dell’Italia di oggi si evince proprio questa enfasi del paradigma neo-liberale che ha
portato a una scarsa applicazione di distribuzione della giustizia. Se è chiaro che le risorse scarse
vanno a chi ha raggiungo un certo risultato, ciò comporta a polarizzare sempre di più ad aumentare
il gap tra chi ha di più e chi ha di meno contestualizzando le teorie con la realtà che oggi ci circonda.
Il problema della distribuzione di risorse scarse può essere analizzando grazie all’apporto di uno
studioso di orientamento liberale, l’austriaco Friedrich August Von Hayek, che rappresenta l’alfiere
di tutte quelle posizioni che si pongono in maniera critica contro l’idea di giustizia distributiva.
Hayek diceva in un suo saggio, che l’idea di giustizia sociale è un miraggio, un sotterfugio secondo il
quale gli ideologi socialisti reintroducono la dinamica di libero mercato aperta alla concorrenza a
un idea di tipo etico, ovvero quello della giustizia sostanziale e dell’uguaglianza assoluta.
Hayek afferma che se si ha a che fare con un libero mercato dove c’è una dinamica di competizione
e libertà, non si può immaginare che lo stato debba realizzare degli obiettivi etici ben precisi, in
quanto per fare questo dovrebbe alzare la tassazione, intervenire per correggere elementi distorsivi
del mercato alterando la dinamica della concorrenza, con effetti peggiori rispetto a quelli di una
economia libera da tasse ed impedimenti di vario genere utilizzati ad hoc dallo stato per intervenire
sulla giustizia sociale. (Questa è una teoria che può funzionare che il prof. Muscolino condivide in
parte) Il problema sta nel vedere come interagiscono la dimensione economica e la dimensione
etica, Hayek viene accusato di essere insensibile nei confronti della giustizia che il libero mercato
crea, se la società fosse interamente capitalistica, se non avessimo dei beni gestiti e tutelati dallo
stato, come la sanità, l’istruzione, la tutela dell’ambiente, ecc, il pericolo sarebbe che il malaffare, la
corruzione e l’egoismo degli imprenditori portino a far perdere di vista tutta una serie di beni che
hanno una finalità pubblica in quanto beni comuni (oggi vi è un dibattito su questi temi). Questa
dimensione, in alcuni autori liberali di destra si perde, mentre con Hayek si analizzano anche coloro
che stanno fuori dal mercato, affermando che lo stato deve aiutare chi sta fuori le logiche di mercato
con dei sussidi di disoccupazione verso: i disoccupati, i malati, i bambini, i disabili e gli anziani che
possano essere tutelati. Come dobbiamo guardare la nostra società? Come una organizzazione
pianificata (modello socialista)? O come un organismo che si evolve spontaneamente sulla base
della libertà dei cittadini avverouna società civile che si evolve? Tra questi due estremi si hanno
tutta una serie di posizioni intermedie, l’esperienza del welfare state che ha caratterizzato
soprattutto i paesi europei a partire dal secondo dopoguerra a cercato di mediare tra questi due
modelli estremi, accettando l’economia di libero mercato e garantendo le libertà di tipo individuale,
ma stando attenti anche a tutti gli effetti perversi che il mercato crea. I due modelli della giustizia
distributiva sono, un economia pianificata da un lato e un economia totalmente libera, mentre il
welfare state, si situa al centro di tali modelli estremi. Contemporaneamente sul terreno filosofico
politico, si hanno tre diversi approcci interessanti. Una prima tipologia di approcci sono quelli di
Habermas e Rawls, denominati approcci normativi che fanno coincidere i problemi di giustizia con
questioni relative alle procedure che l’uomo adotta, ovvero procedure necessarie per scegliere
principi di giustizia, che nel caso di Habermas si identificano con procedure dialogico-comunicative,
si decide tutti insieme ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, oppure immaginiamo una situazione
ideale, la posizione originaria di Rawls, per stabilire dei principi di giustizia. Habermas e Rawls
affrontano il tema della giustizia distributiva da un punto di vista normativo, immaginano delle
situazioni ideali attraverso il quale si può capire quello che è giusto e poi valutare la realtà concreta
sulla base ideale, la posizione originaria da un lato e la posizione linguistica ideale dall’altra.
Una seconda tipologia denominata approcci neo-aristotelici, sono affrontati da premio Nobel
indiano Amartya Sen o la filosofa americana Marta Nussbaum, tali approcci intesi come approcci
delle capacità (capability approach), criticano il punto di vista di Habermas e Rawls, perché
sostengono che quando si ha a che fare con la distribuzione di beni primari o sociali, bisogna stare
attenti alle diverse capacità che si hanno, in quanto gli individui non sono tutti uguali pertanto non
bisogna cadere in quella uguaglianza formale che tanto ha criticato Marx nell’800. Se vivessimo
negli stati Uniti degli anni ’40, non potremmo dire che siamo tutti uguali in quanto esistevano

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minoranze come le persone di colore che avevano delle difficoltà differenti rispetto al soggetto
bianco, per non parlare delle donne di colore rispetto le donne bianche, pertanto bisogna stare
attenti alle capacità dei soggetti, anche di tipo fisico e bisognerà nel momento di distribuire i beni di
poterli ripartire anche a quei soggetti che hanno scarse capacità per garantire la loro
sopravvivenza. Non è sufficiente riconoscere un uguaglianza formale a tutti e poi dare al mercato
libero il compito di distribuire le risorse sulla base della libertà e della concorrenza, ma bisogna che
lo stato intervenga con il criterio della capacità, per far migliore le posizioni più svantaggiate. Chi
avrà bisogno di più perché ha delle carenze (anche fisiche), avrà di bisogno dell’intervento della
stato. Questo approccio per alcuni può essere considerato alquanto vago, poiché la categoria del
bisogno è generica, chi può indicare con precisione quanto un soggetto ha bisogno? Nel modello
immaginato da questi studiosi, non è il soggetto che chiede allo stato il proprio sostentamento, ma
sarà lo stato a identificare una particolare categoria di soggetti a cui destinare uno stock di beni
necessari in modo tale che tutti i soggetti possano compensare il loro deficit di partenza.
Chi stabilisce tale deficit? Per esempio esistono casi di persone aventi determinati deficit fisici, che
in realtà riescono perfettamente ad avere una vita realizzata e piena. Una situazione di deficit fisico
di partenza pertanto non pregiudica il raggiungimento di un traguardo se si è interessati al
risultato, la realtà sta in mezzo, in quanto un minimo di redistribuzione delle risorse da parte dello
stato appare necessaria, si tratta di capire come essa deve avvenire. Questi approcci neo-aristotelici
rimangono nel vago, con la categoria del bisogno, perché il pericolo potrebbe essere un
atteggiamento paternalistico dello stato, in quanto tali approcci stabiliscono a priori ciò che è giusto
realizzare nei confronti di ogni singolo individuo e i beni che verranno ripartiti dovranno essere
funzionali rispetto una serie di standard stabiliti dallo stato. Come si è detto prima il concetto di
distribuzione dei beni oscilla tra due poli opposti (pianificazione totale da un lato e piena libertà
concessa dal mercato dall’altro) la verità ovviamente sta al centro. Una terza tipologia di approccio
da analizzare e quella che fa riferimento all’approccio del riconoscimento, il teorico che
maggiormente lo affronta fu Axel Honneth, allievo di Habermas a Francoforte, ovvero l’esponente
più importante della terza generazione di tale scuola. Honneth sostiene che i processi di
riproduzione sociale, non avvengono perché si cerca l’intesa come affermava Habermas, ma
avvengono perché c’è un conflitto, riportando all’interno della teoria critica la teorica marxiana del
conflitto. La società si evolve perché ci sono conflitti, differentemente al marxismo ortodosso che
sosteneva che il conflitto coincidesse con la lotta di classe per un motivo economico, Honneth
sostiene che nella società pluralista contemporanea, il conflitto non ha una motivazione
prettamente economica e quindi la lotta di classe (ripartizione di beni materiali). Esistono tutta una
serie di conflitti che caratterizzano la nostra società, che hanno a che fare con il bisogno che ogni
individuo ha per quel che riguarda il proprio riconoscimento innanzitutto di tipo identitario,
culturale, religioso e sessuale, queste sono le battaglie che oggi si combattono. Oggi la società è
molto più stratificata e pluralista, esistono molti bisogni diversi rispetto al passato e quindi anche
se si sposa un sistema di tipo liberale borghese in senso ampio in uno stato di diritto, bisogna
rendersi conto che accanto a quello che i marxisti chiamavano lotta di classe , esistono tutta una
serie di domande di giustizia finalizzate a un bisogno di riconoscimento che innesta dei conflitti
sociali. Per Honneth i soggetti entrano in conflitto per avere riconosciuti tutta una serie di identità:
sessuale, religiosa, culturale, delle minoranze per poter far parte della società in cui vivono.
L’approccio del riconoscimento va contro la tradizione liberale, perché dal punto di vista di questi
teorici il liberalismo tende al solito a livellare le differenze interessata a creare uno spazio neutrale,
il cosiddetto spazio pubblico, per poi relegare nella sfera privata tutte le differenze. I teorici del
riconoscimento sostengono che il bisogno identitario e del suo riconoscimento, ha bisogno anche
delle sfera pubblica e non è qualcosa che può essere marginata nel privato, vi è bisogno di un
riconoscimento pubblico pertanto il limite tra sfera privata e pubblica non è così rigido come
pensano i liberali, tutto ciò alimenta il conflitto. Il confine tra pubblico e privato è sempre in via di
definizione, non è qualcosa che è iscritto nelle cose, siamo noi a decidere ciò che ha rilevanza
pubblica e ciò che la rilevanza meramente privata, l’importanza della discussione all’interno della

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democrazia come spiega Habermas è fondamentale proprio per questa ragione. Visto che viviamo
in un orizzonte post-metafisico o post-moderno, in cui nessuno è detentore della verità, soltanto
nell’ambito della discussione si possono fare emergere punti di vista alternativi e trovare delle
sintesi accettabili.

GIUSTIZIA COMMUTATIVA
La giustizia commutativa è quella che riguarda gli scambi all’interno del mercato, la logica del “do ut
des” (io do affinché tu dia). La logica del mercato, basata sul principio di scambio è una logica
tipicamente moderna che accompagna la nascita e lo sviluppo di una economia di libero mercato
che poi ha influenzato a livello politico lo sviluppo della società liberale e democratica. Esistono
società studiate dagli antropologi, soprattutto da quelli che si occupano di condizioni economiche, i
quali mostrano come le modalità di ripartizione delle risorse nelle altre società erano diverse
rispetto a quelle tipiche delle società di scambio. I criteri di ripartizione dei beni che c’erano ad
esempio in una società di allevatori o cacciatori, erano criteri già scritti, che prevedevano che a
prescindere di chi catturava la preda, parte della caccia venisse data al capo e il resto ripartito agli
altri in un certo modo. In altre società esiste il criterio della reciprocità, nel momento in cui si fa un
dono l’altro è tenuto a corrisponderlo, solo in un secondo momento con la nascita della società del
libero scambio e con l’introduzione della moneta, si supera l’economia del baratto e si va verso una
economia di tipo spersonalizzato, poiché è la moneta che garantisce la spersonalizzazione del livello
economico. È importante prendere in considerazione il pensiero di Karl Polanyi, autore di un testo
importante intitolato “La Grande trasformazione”, dove l’autore afferma che ci sia un errore da
parte della tradizione liberale, che è quello di ritenere il mercato, come una sorta di sistema
naturale (visione essenzialista del mercato), si pensa che il mercato sia qualcosa di astorico, un
qualcosa che funziona naturalmente così, invece Polanyi, spiega che questo ideale in realtà si
impone intorno alla metà del’700, quando nasce l’economia politica ovvero quando si impone il
paradigma liberale. Secondo Polanyi il mercato non è un qualcosa di insito nella dimensione della
nostra esperienza individuale e associativa e che è separata rispetto agli altri ambiti della nostra
esperienza (ambito morale, politico, religioso, giuridico ,ecc.), ma in realtà il mercato è integrato
nella nostra esperienza insieme a tutti gli ambiti. È stata una scelta ideologica compiuta da una serie
di autori del’700, quella di ritenere che il mercato funzionasse in un certo modo sempre e
comunque senza gli altri ambiti e che tutte le società dovessero attraversare la fase dello sviluppo
capitalistico per superare le forme di scambio di baratto delle forme pre-moderne. In realtà non è
così afferma Polanyi, poiché grazie agli studi antropologici economici, si evince che il sistema di
scambi di beni funziona in modo molto diverso tra le varie società umane, perché il modo in cui
vengono scambiati i beni, dipende dalle regole, dagli usi, dalla religione, dalla morale, dalle
credenze di fondo di una certa società, pertanto il mercato non è una realtà che esiste in maniera
naturale, ma è un costrutto artificiale. Nell’economia in cui viviamo, ovvero neo-liberista, si è
influenzati dalle regole del libero mercato e dal criterio della prestazione, ovvero del
raggiungimento di uno specifico risultato, mentre scelte morali di fondo potrebbero orientare il
mercato in maniera diversa, non bisogna soltanto stare attenti al raggiungimento del risultato, ma
anche alle condizioni di partenza del mercato. Solo se si hanno pari opportunità si ci può affidare al
risultato finale per valutare e distribuire i beni, mentre se le condizione di partenza sono diverse, il
risultato finale sarà falsato. Polanyi invita a stare attenti, al modo in cui il sistema di scambio si è
integrato all’interno della società, l’ideale che si è venuto a creare a partire dal’ 700, è quello di un
mercato dis-embeddend, cioè disintegrato. L’economia non è avulsa dalla società, ma deve
essereembedded, vale a dire integrata, radicata proprio all’interno della società con altri ambiti
(morale, giuridico, politico, ecc.), siamo noi che con le regole discipliniamo il mercato. Esistono altre
riflessioni in merito a quello che è il giusto prezzo, che riguardano il tema del valore che pongono la
domanda: a cosa corrisponde il valore di un bene? Può corrisponde al lavoro che si impiega per
produrre il bene, può corrisponde, a come dice la svolta marginalista contemporanea, a rapporto
tra domanda e offerta, oppure il giusto prezzo che sta a metà tra questi due estremi. Come posso no

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essere valutati certi beni? Ci sono beni ad esempio, riguardante i beni di consumo che andrebbero
valorizzati all’interno del mercato in ragione a considerazioni diverse rispetto ai beni di
sussistenza. Per questo motivo oggi la tassazione preme maggiormente verso i beni di consumo, si
preferisce aumentare per esempio le imposte sulle sigarette rispetto a un bene primario come il
pane. Vi è un tratto culturale che caratterizza la nostra società contemporanea, identificata come
neo-liberalista, che si basa sulla sacralità dei contratti, poiché viviamo in una società di libero
mercato, la logica del contratto è la logica più importante. Quando due soggetti decidono di fare
qualcosa senza creare del male ad altri, perché lo stato deve intervenire? Per rispondere a tale
domanda si deve fare riferimento al dibattito sulla maternità surrogata (gravidanza a pagamento)
presentato da Michael Sandel nel suo recente “Justice. What’s the Right Thing to Do?”. Quando in
America si venne a creare per la prima volta questo problema, vi fu un dibattito giuridico e morale
portato avanti da una corte federale, sul caso di una coppia (che non poteva avere figli), che aveva
stipulato un contratto con una madre surrogata che aveva messo a disposizione il proprio utero. Al
termine della gravidanza, la madre decise di non dare il figlio, poiché ormai lo sentiva come
qualcosa di suo, non rispettando il contratto stipulato antecedentemente con la coppia. La corte di
giustizia locale, con propria sentenza, dette ragione alla coppia, affermando che l’accordo doveva
essere ritenuto valido e quindi reso esecutivo sulla base del principio “pacta sunt servanda”( i patti
devono essere osservati), in quanto nessuna delle parti aveva costretto l’altra; una seconda
sentenza venne emanata dalla Corte Suprema, poiché la madre non si arrese alla prima sentenza e
si oppose andando all’ultimo grado di giudizio. La seconda sentenza argomentava che fermo
restando la sacralità dei contratti la maternità suppletiva era equiparata a una compravendita di
neonati (o comunque alla vendita dei diritti di una madre sul proprio figlio che non sono vendibili
in cambio di una somma di denaro) e quindi ritenuta illegittima. Da un lato, l’argomentazione
poggia sulla teoria utilitaristica della giustizia, secondo la quale i contratti vanno comunque
rispettati perché favoriscono il benessere generale ( in quanto le persone che sottoscrivono il patto
ne traggono entrambe un vantaggio), e sulla teoria libertaria della libertà, secondo la quale la
libertà dell’individuo conseguente alla sua piena disponibilità del proprio corpo va comunque
sempre massimizzata; dall’altro lato, l’argomentazione si fonda all’opposto sulla tesi kantiana
secondo cui le persone vanno trattate non come mezzi ma come fini, in quanto esseri razionali,
meritevoli di dignità e di rispetto. Sandel si sofferma sulla tesi della filosofa morale Elisabeth
Anderson, che analizzò il dibattito sul caso di maternità surrogata da un punto di vista marxista,
immaginandolo come un fenomeno in piena regola di alienazione. La madre surrogata (forza
lavoro) che ha portato avanti la gravidanza, alla fine si aliena dal proprio lavoro, il contratto
certifica la madre come merce, di conseguenza porta avanti la gravidanza (prestazione di lavoro) e
successivamente viene remunerata dalla coppia (datore di lavoro), ma alla fine del proprio lavoro
l’oggetto del proprio lavoro (il bambino) viene totalmente alienato.

GIUSTIZIA RETRIBUTIVA
Mentre la giustizia commutativa riguarda la logica dello scambio, la giustizia retributiva si occupa
del rapporto tra delitto e castigo. Nel momento in cui si commette un reato, nei confronti dello stato
o di un altro cittadino, che tipo di sanzione bisogna pagare? In età arcaica, riprendendo la tradizione
ebraica si può ricordare, la famosa “legge del taglione”, secondo la quale se si causa un danno a un
soggetto la sanzione che si paga dovrà essere proporzionale al danno causato (occhio per occhio,
dente per dente). La legge del taglione pone un problema, percepito già a quei tempi, è che questo
ideale radicale di giustizia che magari può convincere in primo acchito, in realtà aspirava
concretamente a una logica di vendetta che innalzava la conflittualità sociale. La legge del taglione
si inseriva all’interno di una visione generale dell’agire umano, cioè la vita associata dell’uomo deve
rispettare il comandamento divino e l’ordine profano della nostra esperienza in realtà deve
rispecchiare l’ordine sacro, poiché quando si commette un reato si viola un ordine che è sacro.
L’obbligo di sanzionare diventa una sorta di dovere etico, per questo si innesta la logica di vendetta,
ovvero si inserisce in una logica che deve ristabilire l’ordine divino che è stato violato dal reo,

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quindi la logica di vendetta portava a perpetuare questa logica di violenza. Nella Grecia arcaica
l’idea di giustizia retributiva è già chiaramente attestata nei tragici, ma successivamente incominciò
a penetrare un ideale diverso, di una giustizia terza rispetto alle parti in causa, che sia in grado di
andare oltre la mera logica della vendetta. L’Orestea di Eschilo è la trilogia drammatica che ha per
tema una catena di colpe e di delitti. L’ultima, “le Eumenidi”, rappresenta il superamento della
logica di vendetta a opera della logica di giustizia. In essa si racconta come Atena (dea della
giustizia), si contrappone alle Erinni (dee della vendetta) sostenendo nel processo nei confronti di
Oreste, che non fosse meritevole di una punizione, mentre le Erinni erano le parti accusatrici
sostenevano che Oreste venisse punito perché aveva ucciso la madre. Atena sostiene che Oreste non
avesse commesso quel reato così grave di cui era stato incolpato, pertanto la giustizia coincideva
con qualcosa di altro che va oltre la mera logica della vendetta. In Aristotele, vi è un ulteriore
passaggio in avanti, in quanto incomincia a farsi lentamente strada un idea razionalistica e
utilitaristica della pena; Aristotele afferma che bisogna rifiutare la legge del taglione, poiché la legge
come compito ha quello di educare il cittadino, mentre è l’autorità che ha il compito di punire. Se
non vogliamo seguire la logica violenta che porta alla guerra civile disgregando la società, secondo
Aristotele, la giustizia deve essere affermata da un terzo, quindi dalla polis e dalle autorità delle
città , soltanto così si potrà fermare la logica della violenza. Con Aristotele si inaugura un’ideologia
che poi in età moderna verrà affermata da Weber, con l’affermazione del monopolio legittimo della
forza dello stato su un determinato territorio che è incaricato di punire coercitivamente coloro che
commettono un reato. La stato essendo terzo potrà garantire che la giustizia sia imparziale, per non
ricadere negli errori che considera la giustizia come la legge dei più forti. Un altro passaggio
importante si ha in età medievale con Tommaso D’Aquino, con la differenziazione del concetto di
reato con quello di peccato, affermando che non tutti i peccati vanno perseguiti, poiché la
persecuzione di tutti i peccati è eccessivamente negativa per la stabilità sociale, pertanto esistono
alcuni peccati non perseguiti dall’autorità politica. Su questo passaggio il punto più importante lo
segneranno i filosofi illuministi, tra cui Cesare Beccaria, secondo cui il concetto di peccato viene
nettamente separato dal concetto di reato. Il diritto penale nella accezione moderna, ovvero un
diritto penale separato soprattutto dalla religione, affonda le proprie origini nel periodo illuminista
ed è stato soprattutto l’illuminismo giuridico italiano ad aver portato a questa riflessione. I reati
non possono essere considerati analoghi ai peccati, bisogna imparare a scindere questi due aspetti,
aprendo alla laicizzazione dello stato su cui l’illuminismo ha insisto molto, tra l’altro i filosofi
illuministi, incominciano a riflettere su un piano di filosofia della storia e sul fatto che c’è una grossa
novità nel periodo in cui loro vivono, ovvero l’attenzione alla ragione e come tutte le società
dovessero attraversare alcune fasi. Nelle società arcaiche vigeva la legge del taglione, più lo spirito
umano progredisce, più la razionalità umana si diffonde, più si diffonderanno non soltanto una
società di libero mercato, ma soprattutto si diffonderà un sistema di giustizia spersonalizzato e
imparziale. Come affermava un altro filosofo illuminista Montesquieu, si possono riscontrare nelle
evoluzioni della società percorsi di questo genere.

2 teorie importanti
Kant sostiene una teoria retributiva della pena, cioè sostiene che è importante intendere la legge
del taglione non semplicemente secondo la logica della vendetta, ma come un tentativo di
riequilibrare la situazione antecedente di giustizia, è funzionale a ricostruire un ordine di tipo
morale. Queste idee che derivano dalla sua visione morale portano a fare nuove considerazioni, per
esempio sostiene che se l omicidio va punito, ci sono casi che non vanno puniti come il duello e l
infanticidio, è a favore del duello perché io sfido a duello qualcuno per salvare il mio onore, l’onore
è un valore importante nella sua società, nel caso dell’infanticidio il valore da tutelare è quello della
famiglia, l omicidio di figli nati al di fuori del matrimonio non deve essere considerato un omicidio
perché li si sta tutelando il bene supremo della famiglia che è la cellula fondante della società.
Ancora più interessanti sono le teorie di Hegel, il massimo rappresentante dell’idealismo tedesco,
ed elabora una visione etica dello stato, sosteneva al contrario dei liberali che non esistono gli

90
individui in se, ma gli stati che danno una consistenza ontologica agli individui. Non esistono
individui di cui parlano Locke, Kant, ma la nostra liberta si esercita sempre in contesto di tipo
statale, soprattutto in età moderna . Hegel dice“ l ingresso di dio nel mondo lo chiamiamo stato” lo
stato rappresenta l ingresso di dio nel mondo, cioè l affermazione della razionalità della liberta a
livello giuridico e politico. Il concetto fondamentale di Hegel è la dialettica che usa come legge di
funzionamento della realtà che si sviluppa in modo dialettico(tesi antitesi e sintesi), questo c’entra
con il diritto penale perché Hegel ha una visione retributiva della pena , perché cosa è il reato? È la
violazione di una legge, quindi il ragionamento di Hegel è che lo stato è costituito da regole, da
diritti, leggi ed è un momento positivo, il reato è il momento della negatività , la sanzione o la pena
è il momento della sintesi cioè il superamento della contraddizione e la restaurazione della
positività. Quindi è una visione etica complessiva del diritto penale, una concezione retributiva
della pena. Quindi la pena è la negazione della negazione, cioè la pena va a negare il reato cioè quell’
elemento che era una negazione in se.
Alla fine di questo capitolo sul diritto penale viene ricordato il caso di Luigi Farraioli il quale ha
scritto il libro “Diritto ragione teorie del garantismo penale” e in questo testo presenta tutta una
serie di idee fondamentali in ordine al garantismo nell’ambito del diritto penale, cioè come il diritto
penale deve essere organizzato in maniera garantista, cioè in maniera tale da rispettare i principi di
un ordinamento liberale, un ordinamento in cui il singolo ha dei diritti da far valere nei confronti
dello Stato. Nel libro ci sono 10 principi che vengono ricordati a tal proposito : il principio di
retributività, di legalità, di necessità, di offensività, di materialità, di colpevolezza, di
giurisdizionalità, accusatorio, onere della prova e del contradditorio. Vale la pena di riflettere più
approfonditamente su alcuni di questi principi, per esempio sul principio di legalità, cioè io non
posso essere accusato di un reato se non c’è una legge che costituisce il reato, oppure, il principio di
materialità, il reato deve essere di tipo materiale, cioè l’azione da punire deve essere un qualcosa di
concreto, non un semplice pensiero, perché non possiamo perseguire mere opinioni, oppure, il
principio di colpevolezza, il reato è sempre personale, io non posso penalmente accusare qualcuno
per un reato compiuto da altri, oppure, il principio accusatorio, giudice, difesa e accusa devono
essere separate, non possono esserci figure che stanno sullo stesso grado, un altro principio
importante è quello del contradditorio, è necessario che ci sia una difesa, praticamente sono tutti
elementi sul quale ragioniamo che sono fondamentali se vogliamo parlare di un sistema penale che
sia garantista nei confronti dei diritti dei soggetti.
Ora cominciamo a parlare di giustizia riparatrice ,è un tipo di giustizia che riguarda una
determinata categoria di reati, sono delle ingiustizie commesse nei confronti di intere popolazioni.
Pensiamo per esempio alle ingiustizie commesse nel primo colonialismo, negli Stati Uniti per
esempio se ne parla tanto a proposito degli indiani d’America, la conquista del west ha dato vita a
tutta una serie di ingiustizie nei confronti delle popolazioni autoctone, di cui ancora oggi ci sono i
discendenti e abitano in alcune di quelle zone, quindi il problema che si pone in questo caso è : è
possibile riparare torti che sono stati compiuti ai tempi della conquista del west oggi, visto che ci
sono i discendenti sia di coloro che hanno subito le ingiustizie, sia di coloro che le hanno commesse
? Questo è un classico caso di giustizia riparatrice, quindi ci sono delle ingiustizie che sono state
commesse in passato nei confronti di intere popolazioni che hanno degli effetti ancora oggi ,se non
altro sulla memoria. Quindi come ci poniamo nei confronti di questo particolare modo di voler fare
giustizia se prendiamo spunto dai principi elencati da Ferraioli, emergono una serie di paradossi e
di contraddizioni ,perché per esempio anche se i miei nonni e i miei antenati hanno commesso delle
ingiustizie nei confronti dei discendenti degli indiani, ma sono io responsabile penalmente di
questo ? Se prima abbiamo detto che la responsabilità in campo penale e morale è assolutamente
personale non posso essere accusato di ingiustizie commesse da chi è vissuto 150 anni fa anche se è
un mio parente di sangue. Poi c’è un problema analogo che sorge nel caso dei tribunali di guerra,
pensiamo al caso di Norimberga, chi vince una guerra civile o addirittura tra Stati processa gli altri,
un caso sintomatico è senza dubbio quello nazista, perché questi soggetti furono condannati per
crimini contro l’umanità, la Harendt solleva tutta una serie di questioni interessanti dal punto di

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vista filosofico, il problema è questo : da chi sono gestiti i tribunali di guerra ? Come abbiamo detto
prima la risposta è che vengono gestiti dai vincitori, questo entra in collisione con i principi elencati
da Ferraioli, per esempio il fatto che il giudice debba essere terzo rispetto alle parti in causa, quindi
non soltanto abbiamo un’accusa che è fatta dai vincitori ma abbiamo anche i giudici che
appartengono alla categoria dei vincitori, questo naturalmente crea uno squilibrio in ordini alla
parità tra difesa, accusa e alla terzietà del giudice della componente giudicante. Un altro problema
di ordine morale e non più giuridico e penale è che coloro che vengono accusati non solo sono i
perdenti, e già questo li pone in una situazione di svantaggio ,ma partono già appartenendo alla
categoria degli accusati, quindi loro sono già colpevoli in quanto perdenti, questo naturalmente
genera un problema di tipo morale.

CAPITOLO 9
Quando noi abbiamo a che fare con la giustizia abbiamo a che fare con un terreno minato, perché è
un campo che si situa a metà tra settori affini, giuridico, morale, politico e questo ci porta al
problema dei valori. Cosa sono questi valori ? Nel 900 c’è stata una tendenza nell’ambito della
filosofia politica, tendenza che possiamo definire positivismo che ha cercato di neutralizzare il
problema dei valori dicendo che un ordinamento è giusto per il fatto stesso che esiste, le leggi sono
giuste se sono emanate dagli organi competenti, altrimenti sono ingiuste. Mentre la tradizione
giusnaturalista sosteneva che una caratteristica fondamentale della legge era la sua razionalità, cioè
il fatto di essere giusta, una legge che non è finalizzata al bene comune non può essere definita
legge, quindi anche se una legge viene emanata da un organo competente, ma non è finalizzata al
bene comune non merita l’appellativo di legge ma di arbitrio. Il problema nella concezione
positivista è che finiamo spesso con il confondere due piani: il piano della legalità e il piano della
legittimità, ovvero una cosa finisce con l’essere considerata legittima soltanto perché è legale. La
giustizia in senso ampio non coincide col mero rispetto della regola o della legge, anche Aristotele
aveva chiaro questo concetto, perché lui aveva introdotto il cosiddetto principio di equità, ovvero, ci
sono dei casi in cui si deve ricorrere al principio di equità, che è un qualcosa che va oltre il mero
giusto legale, infatti lui faceva una distinzione tra giusto naturale e giusto legale, il giusto legale è ciò
che è stabilito dalla legge, mentre ci sono dei casi in cui il giudice per fare giustizia deve andare al di
là della semplice interpretazione letterale, perché a volte applicare la legge in maniera rigida
potrebbe causare l’effetto paradossale di generare degli effetti non giusti. Alcuni sottolineano la
pericolosità del principio di equità, per esempio Weber, che sosteneva che da un certo punto di
vista il principio di equità è un qualcosa che può far vacillare il principio della certezza della legge,
perché se il giudice può ricorrere all’equità andando oltre la legge, i cittadini non avrebbero più
certezze che la legge sia il punto di riferimento ultimo. Quindi il principio di equità va contro l’ottica
illuministica della legge ,gli illuministi, per esempio Montesqieu, sostengono che i giudici in ordine
alla garanzia dei diritti del cittadino non dovevano avere nessuna funzione creativa, cioè
interpretativa del diritto, perché sono solamente dei meri esecutori delle leggi. Oggi invece ci si è
resi conto che questa enfatizzazione del primato della legge rischia di avere degli effetti paradossali,
per questo è ritornata in campo la vecchia idea aristotelica dell’equità, la legge in sé non è tutto, ci
sono delle situazioni in cui la legge non arriva perché gli ordinamenti giuridici non riescono a
disciplinare tutti gli ambiti della nostra vita, quindi al di là di quello che sostenevano ingenuamente
gli illuministi il giudice ha sempre una funzione attiva nel momento in cui deve interpretare le leggi,
però bisogna capire quanto questa funzione del giudice può spingersi oltre, nel nostro libro sono
introdotti due concetti a tal proposito : la creatività dissennata e la prudenza feconda. Lo spirito di
equità al quale ci richiama Aristotele e la categoria della prudenza alla quale ci richiama Tommaso
D’Aquino vuole che il giudice si faccia portatore di una prudenza feconda, perché la creatività
dissennata del giudice ,cosa molto diffusa oggi in Italia purtroppo porta alla mancanza totale della
certezza della legge, è successo infatti che una stessa legge in parti diverse dell’Italia viene applicata
in maniera diversa. Per questo motivo oggi è diventato importante il ruolo delle Costituzioni,
perché la Costituzione è quell’elemento che funge come baluardo a difesa del cittadino, perché se la

92
Costituzione è la legge che fonda lo Stato al di là delle nostre differenze ideologiche diventa
quell’elemento all’interno del quale ci sono dei valori fondamentali della convivenza organizzata
che devono servire da difesa contro le ingerenze di qualunque potere, quindi i poteri devono essere
sottomessi alla Costituzione perché sono disciplinati e istituiti dalla Costituzione stessa, perché c’è
un pericolo, a tal proposito il nostro libro richiama Tocqueville, perché il pericolo che aveva
intravisto dietro la funzione creativa dei giudici è l’avanzamento verso un processo di
giuridificazione totale, la nostra società è sempre più oggetto di norme, e più le norme aumentano e
più si comprimono gli spazi di libertà. Un altro elemento sul quale riflettere è quello degli effetti
della globalizzazione perché, se per esempio il punto di riferimento di Weber continuava a essere lo
Stato, come titolare della sovranità, oggi non è più così, perché noi non abbiamo di fronte soltanto lo
Stato, ma per esempio nel nostro caso al di sopra dello Stato abbiamo l’Unione Europea, l’Onu e
varie organizzazioni internazionali, insomma c’è tutto un riferimento anche legislativo che va al di
là dello Stato, a cui lo Stato a volte deve addirittura sottomettersi in certi casi, quindi nel mondo
globalizzato in cui siamo sempre più legati con gli altri lo Stato ha perso quella funzione che aveva
in età moderna, ovvero, essere la fonte di produzione privilegiata delle norme, se le norme dicono
gli illuministi rappresentano l’elemento della razionalità che struttura lo spazio sociale, nel
momento in cui noi priviamo lo Stato di questa funzione principale evidentemente la dobbiamo
attribuire ad altri soggetti, cioè alle organizzazioni internazionali, ecco perché il paradigma dei
diritti di stampo liberale non funziona più secondo molti studiosi, anche all’interno di uno Stato
quando ci poniamo un problema di ripartizione delle risorse il paradigma liberale che è basato
sull’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, sull’uguaglianza dei diritti e dei doveri in cui il
mercato fa tutto. Per esempio c’è una filosofa americana che si chiama Marta Nusbaum che insieme
a Marzia Sen hanno dato vita al cosiddetto approccio delle capacità, loro sostengono che bisogna
andare al di là del paradigma liberale, cioè i beni sociali primari (reddito, istruzione, sanità ecc.)
vanno ripartiti in base alle capacità di ognuno di noi, in base ai bisogni che ognuno di noi ha, se io
ho più bisogno rispetto ad altri devo avere una quota di beni sociali più alta rispetto ad altri sennò
la concorrenza del mercato è falsata in partenza, non abbiamo un’equa condizione di partenza.
Questo è un tipico modo di criticare il modello liberale, che è il modello che tende a neutralizzare le
differenze e a trattare tutti come uguali, però siamo tutti diversi sotto vari aspetti, in quanto uomini
e donne, in quanto bianchi e non bianchi, in quanto musulmani, cattolici o atei, quindi la discussione
filosofica di cui stiamo trattando focalizza l’attenzione proprio su questo negli ultimi anni, perché
gli Stati devono prendere in considerazione queste differenze, non ci si può limitare a
marginalizzare le differenze nella sfera privata come volevano i liberali, perché la distinzione tra
privato e pubblico è una distinzione essa stessa culturale, non è scritto da nessuna parte cosa sia
privato e cosa sia pubblico e quindi non lo possiamo stabilire, siamo noi che costruiamo la
distinzione tra pubblico e privato, e i conflitti politici nella nostra società spesso in ambito bioetico
derivano proprio da questo : cos’è privato e cos’è pubblico ? dove ha termine il pubblico e dove
inizia il privato ? dove lo Stato può reclamare la sua superiorità rispetto alle scelte individuali e
dove invece comincia lo spazio meramente privato ed è il singolo a dover stabilire cosa fare . Altri
aspetti interessanti riguardano invece la giustizia tra generazioni, abbiamo dei doveri morali che
possono tradursi in valori giuridici, quindi in vincoli legislativi per tutelare le generazioni future ?
Anche questo è un modo di ragionare sulla giustizia oggi. Un’altra domanda che possiamo porci è:
abbiamo diritti nei confronti degli animali? Ci sono stati tanti filosofi, tra cui Peter Singer, che si
sono occupati di queste questioni, pone un argomento, sul quale riflettere, lui diceva che una parte
importante della nostra sensibilità morale si è sviluppata per impedire sofferenza, noi certe cose
non le facciamo nei confronti degli esseri umani perché causano sofferenza, perché allora
dovremmo fare soffrine gli animali? Perché gli animali appartengono al mondo come noi, perché
fare soffrire loro piuttosto che gli esseri umani? La questione di fondo di tutte le battaglie che noi
facciamo è quella di diminuire la sofferenza, se io voglio che qualunque minoranza abbia più diritti
è perché non averne causa sofferenza, questa è la questione di fondo. Ma Esiste una differenza di
tipo materiale di tipo fisico, perché c è il divieto di tortura? Perché io non posso fare male a

93
qualcuno per estorcere una confessione, quindi è un diritto umano quello di non essere torturati,
perché nei confronti degli animali non c'è questa sensibilità? E' giusto causare questa sofferenza? Se
ci fossero modi per rendere questa morte meno dolorosa sarebbe più giustificabile? Il
ragionamento di Singer ha ricevuto alcune critiche, per esempio è evidente come la prospettiva di
Singer non sia una prospettiva antropocentrica, cioè come quella cristiana che vede al centro
l'essere umano, anzi la specie umana è considerata identica alle altre. In ambito bioetico Singer tira
delle conseguenze che gli hanno portato problemi, lui riflette anche sull'infanticidio e dice perché se
l'umano non nasce dobbiamo crearci problemi? Perché deve esserci questo divieto nei confronti
dell'aborto? Il divieto nei confronti dell'aborto si giustifica nel momento in cui noi abbiamo il culto
della vita, del valore della vita, ma una vita intesa in senso biologico, materiale, ma la vita dice
Singer è una costruzione culturale, quindi è forviante sostenere che non si possa abortire, è
sufficiente dire che non credo in dio e dovrei godere della possibilità di abortire, ma lui radicalizza
questo argomento arriva a dire, se è lecito l'aborto come io sostengo perché non dovrebbe essere
lecito l'infanticidio? Se ad esempio una donna non aveva fatto dei controlli durante la gravidanza, il
bambino nasce e si scopre che è affetto da una grave malformazione perché non legittimare l
infanticidio? Che differenza c’è tra sopprimere una vita al settimo mese o 4-5 minuti dopo la
nascita? Esiste una differenza morale forte tra queste due situazioni? Quali sono i criteri forti con i
quali stabiliamo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato? Singer sostiene che tra un feto all'ottavo
mese ed un bambino appena nato non c'è molta differenza, è soltanto la nostra sensibilità morale
cristiana che ci porta a fare considerazioni di tipo diverso, nell'antica Roma l infanticidio era una
pratica assolutamente praticabile perché fino a quando non c'era il riconoscimento da parte del
genitore allora il figlio non acquistava capacità giuridica. Sono temi sul quale riflettere perché le
scelte iniziali che non facciamo in ordine ai criteri per discernere ciò che è giusto e ciò che è
sbagliato, poi portano ad altre conseguenze, perché per esempio se l esigenza etica che noi abbiamo
è quella di diminuire la sofferenza perché non possiamo eliminare soggetti che soffrono? Anzi le
risorse che possiamo risparmiare dal curare questi soggetti particolarmente problematici li
possiamo utilizzare per migliorare le cure in ambito della prevenzione, non sono questioni teoriche
ma che poi si traducono in politiche vere e proprie.

GIUSTIZIA GLOBALE E GIUSTIZIA LOCALE


Il fatto che viviamo in un mondo globalizzato dove ogni stato è sempre più legato insieme agli altri,
è fondamentale avere uno sguardo più ampio, però questo pone dei problemi, perché se viviamo in
una società mondiale dove siamo sempre più legati rispetto ad altri, i vecchi criteri di ripartizione
delle risorse che andavano bene all'interno di una cornice statale ora non valgono più, quindi
diventa necessario secondo alcuni introdurre dei principi di giustizia distributiva che tengano in
conto questa nuova dinamica della interdipendenza globale, per cui da un certo punto di vista
ritorna il problema del rapporto tra giustizia e beneficenza, tra giustizia e carità. A partire da
Cicerone, la contrapposizione classica tra giustizia e beneficenza è rimasta un punto fermo
dell'ideologia morale dell'occidente fino ad anni recenti. L'autore Adam Smith in “Teoria dei
sentimenti morali “illustra come la beneficenza è sempre libera, non può essere estorta con la forza,
la sua mancanza non porta a punizioni, ma la sua manifestazione produce gratitudine, il nostro
benvolere non è circoscritto in alcun confine. Un altro autore, l’Abate Genovesi, riprendendo la tesi
della beneficenza come virtù morale che deve essere regolata dalla prudenza, enuncia 3 regole
generali del beneficare: 1) di non ridurci nello stato di non poter vivere. 2) che non si nuoccia al
diritto della famiglia. 3) che non si benefichi l'estraneo a spese della patria. Il benessere individuale,
quello della famiglia, quello della nazione hanno la precedenza sui doveri della benevolenza. Il
dibattito sulla giustizia internazionale si sviluppa alla fine del XX secolo in termini di giustizia
distributiva, quando vi era uno squilibrio di ricchezza tra i paesi del nord e sud. L'autore Pontara
individua 3 principi fondamentali: 1) il principio di sovranità territoriale, si nega ogni legittima
pretesa, da parte di una nazione svantaggiata, sulle risorse di uno stato economicamente
privilegiato. 2) il principio di supererogazione nazionale, si afferma che ogni atto di aiuto collettivo

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non è la conseguenza di un obbligo morale o giuridico, ma il frutto di una scelta di politica estera
motivata. 3) il principio della condizionalità e della discrezionalità degli aiuti, si intende vincolare
l'erogazione degli aiuti a determinare condizioni di natura politica o ideologica. Non si può dire che
la giustizia locale risolva i problemi di equità ma si possono conseguire risultati prossimi all'equità.
La giustizia non può esaurirsi nel mero rispetto delle regole del mercato, ma c'è un qualcosa che va
oltre che prima si chiamava beneficenza, carità ma che oggi deve trovare una sua articolazione in
politiche concrete reali. Quindi il problema della giustizia distributiva riguarda anche quest'aspetto.
Questa dimensione dell'interdipendenza globale crea dei problemi importanti, dobbiamo avere una
sensibilità diversa che va oltre la mera categoria della statualista, quello è un paradigma che si è
esaurito con la modernità, ormai abbiamo a che fare con scenari globali e dobbiamo riflettere a
partire dalla categoria della globalità.

GUERRA GIUSTA
Tema molto attuale, la guerra è una particolare modalità politica dell'esercizio della violenza, c'era
un giurista tedesco Carl Schmitt che in un famoso articolo intitolato ”Concetto di Politico” sostiene
che ciò che contraddistingue l'ambito del politico da quello economico, giuridico ,estetico, morale è
la contrapposizione amico-nemico: una relazione è politica quando l'altro è nemico a livello
potenziale, quindi c'è la possibilità di un conflitto. Le dinamiche politiche sono dinamiche che hanno
a che fare con il conflitto e in casi estremi diventa guerra tra stati. E' interessante questa distinzione
che fa Schmitt, però in realtà se noi risaliamo al mondo greco, classico, alcune idee iniziano a
maturare anche li, ad esempio i greci sostenevano che la guerra fosse qualcosa che riguardava i
greci e i barbari, cioè ciò che i greci non erano, mentre i conflitti tra le polis erano chiamati stasis,
c'era una distinzione tra i conflitti tra polis e tra i greci in conflitto con altri. Anche qui emerge il
carattere fortemente razzista dei greci. Il problema della guerra giusta inizia in età medievale,
perché c'è la diffusione del cristianesimo, il tema della carità, dell'uguaglianza, del porgere l'altra
guancia, temi che fanno maturare una posizione particolare nei confronti della violenza, per cui i
grandi filosofi della patristica e della scolastica ,come Agostino e Tommaso D'Aquino si
interrogavano su quando la guerra potesse essere giusta, perché l idea dell'amore universale
entrava in collisione con la logica del mondo, che era una logica fatta da guerre, lo stesso Agostino
vive il periodo di guerra, era una cosa che accompagnava l esperienza quotidiana. Agostino riflette
su alcuni elementi: una guerra può essere ritenuta giusta solo se è condotta dal sovrano, cioè
dall'autorità legittima, non da un semplice generale, ma da colui che può muovere la guerra e la
guerra non può contraddire i comandamenti divini. Tommaso successivamente dice: che la guerra
difensiva o offensiva è giusta soltanto se è dichiarata dall'autorità legittima e solo se c è una giusta
causa, oltre è necessario che il fine ultimo della guerra sia la pace, cioè io sovrano posso muovere
guerra se sono stato aggredito ma il fine ultimo è quello del raggiungimento della pace, e infine
bisogna mettere il nemico nelle condizioni di riparare al proprio torto, sennò la guerra non può
essere definita giusta. Nel testo vengono citati altri autori come Francisco de Vitoria, Ugo Grozio che
riflettono soprattutto nel periodo a cavallo tra la fine del medioevo e gli inizi della modernità sul
significato del concetto di guerra giusta, e ci si rifà a categorie tipiche del giusnaturalismo, cioè
esiste un ordine del mondo e la guerra deve essere finalizzata a ricostituire questo ordine qualora
sia stata violata e non deve essere mossa per capriccio, deve essere mossa da giusta causa, sono
sempre le categorie portanti della sensibilità cristiana che muovono tutti questi autori. Però ci sono
alcuni come Erasmo da Rotterdam che sostiene che il concetto di giusta causa è ambiguo, perché
entrambe le parti si riterranno nel giusto, quindi il criterio della giusta causa non sembra un
criterio risolutivo in caso di guerra per capire chi ha torto e chi ha ragione. Nell'età illuministica, nel
700, anche qui inizia a maturare una sensibilità nuova nei confronti della guerra, una sensibilità che
deriva dall'attenzione alla ragione, la guerra è un atto di arbitrio, quindi c 'è una ragionevole fiducia
da parte dei filosofi illuministici che quanto più le nostre relazioni saranno razionali, tanto più le
nostre società saranno razionali, tanto più la guerra tenderà a sparire come soluzione dei conflitti
tra stati, questa è soprattutto la prospettiva delineata da Kant nel famoso opuscolo “Per la pace

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perpetua”. Altri sostengono che questa prospettiva sia ingenua nel senso che finché non ci sarà un
super stato-nazione, un super stato mondiale, i motivi di conflittualità tra stati ci saranno sempre,
Kant affronta questa questione e sostiene che la prospettiva di un super stato a livello globale non è
una prospettiva perseguibile perché un super stato mondiale sarebbe uno stato che diventerebbe
esso stesso totalitario quindi gli stati devono esistere con entità diverse, la sua speranza è che
aumentando il processo morale si tenderà a utilizzare strumenti diversi per risolvere le
controversie, il famoso utopismo illuminista.
Hegel invece aveva un'idea diversa della guerra: aveva una visone etica della guerra, siccome gli
autori della storia dice Hegel sono gli stati, non c'è nessun entità al di sopra, allora le guerre
servono per il progresso, la guerra è uno strumento di avanzamento della storia, tutte le forme di
organizzazione non razionali soccombono durante le guerre.
In età contemporanea il tema si sposta perché abbiamo un'esperienza storica diversa, perché
abbiamo i conflitti mondiali. Dei conflitti mondiali, in particolare il primo, passato alla memoria
come la grande guerra, nella memoria collettiva la vera discontinuità, il vero conflitto devastante
non fu tanto la seconda guerra ma la prima perché è stata la prima guerra che aveva rotto con tutte
le forme di belligeranza passate, è stata una guerra totale che coinvolgeva intere popolazioni, e non
è un caso che l'autore che abbiamo nominato prima Carl Schmitt ha riflettuto proprio su questo,
diceva che storicamente il problema della guerra è stato affrontato in 3 modi diversi:
1. il primo periodo è quello della res pubblica cristiana, ovvero in età medievale, li avvenivano dei
conflitti, però su questi conflitti era possibile capire chi aveva torto e chi ragione perché vi era
un'autorità superiore che era la chiesa.
2. in età moderna invece Schmitt parla di Ius publicum europea, non esiste più un'autorità
superiore ma abbiamo soltanto gli stati che competono tra loro. A cosa serve la politica in questa
particolare fare? Serve a mitigare gli effetti della guerra.
3. Questo schema salta con la prima guerra mondiale perché con essa si afferma sulla scena delle
ideologie disumanizzanti che portano al conflitto totale, non più a guerre per reclamare legittimità
su alcuni territori, ma nasce l'esigenza di combattere il nemico, sono guerre mondiali che diventano
disumanizzanti, quindi dice Schmitt tutto il discorso sulla guerra giusta è un discorso ideologico.
Portinaro, che è l 'autore del libro sottolinea che Schmitt, che era un nazista, non si rende conto che
in realtà a disumanizzare la guerra nel 900 sono state quelle ideologie totalitarie nelle quali è stato
Schmitt a fornire la propria adesione, non è la teoria della guerra giusta ciò che causa questa
degenerazione dei fenomeni bellici, ma queste ideologie totalitarie che hanno causato la
disumanizzazione della guerra, ben vengano le teorie sulla guerra giusta che provano ad
interrogarsi per individuare dei criteri che possano contenere queste degenerazioni di violenza a
cui le guerre vanno incontro. Quindi il problema oggi quando parliamo di guerra è che ci muoviamo
tra due grandi insiemi: da un lato abbiamo coloro che sono portatori di un pacifismo assoluto, la
guerra è sbagliata senza se e senza ma, dall'altro lato abbiamo autori che sostengono che ci sono dei
casi in cui bisogna intervenire. Il pacifismo assoluto come risponde di fronte a certi episodi? Se c'è
un paese in cui c'è un genocidio in atto, la comunità internazionale ha l obbligo di intervenire o no?
Una cosa è dire che uno stato vicino si arruoli il diritto di intervenire e muove una guerra, un'altra
cosa è se lo decide la comunità internazionale, stesso episodio ma due scenari diversi. Nel momento
in cui ci riconosciamo nella dichiarazione dei Diritti dell'uomo, nel momento in cui ci sono delle
organizzazioni sovranazionali come l'ONU , la legittima internazionale può essere per esempio uno
dei criteri per definire una guerra giusta piuttosto che ingiusta? Guadando alle ultime guerre di
questi anni vediamo che nei confronti dell'Iraq non c'era una legittimazione internazionale da parte
dell'ONU, mentre c'era nel caso dell'intervento nella Iugoslavia dove c'era un genocidio in atto.
Quindi dobbiamo, per tornare alla saggezza degli antichi, riprendere categorie come quella della
prudenza, con prudenza si intende non stare attenti a ciò che si fa ma provare a valutare,
circostanza per circostanza, dove è possibile e giusto intervenire piuttosto che non intervenire.
Alla fine Portinaro richiama alla distinzione tra etica dei principi ed etica delle intenzioni: se
seguiamo l'etica dei principi per cui è sbagliata la violenza senza se e senza ma, allora dobbiamo

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abbandonarci nelle braccia dell'utopismo assoluto e quindi alla non violenza assoluta, ma un
politico invece è chiamato ad esercitare una responsabilità e deve valutare le conseguenze delle
azioni che fa nelle situazione nelle quali interviene, quindi un richiamo ad una prudenza sembra la
prospettiva più idonea nel campo della guerra. Il mondo perfetto non si realizzerà mai ma possiamo
riflettere su quali criteri possano consentire di discernere fra situazioni inverse.

Linguaggio, Storia e Politica


Ludwig Wittgenstein e Quentin Skinner

Il terzo libro è dedicato ,sostanzialmente, a due figure Ludwig Wittgenstein e Quentin Skinner. È un
testo che serve per spiegare meglio dei discorsi che già abbiamo fatto e affrontarli da un punto di
vista epistemologico.
Uno dei temi del corso è stata l’attenzione all’aspetto del linguaggio o meglio al rapporto tra
linguaggio e razionalità, cominciare a riflettere sul fatto che tutta la nostra esperienza, compresa
quella politica, è un’esperienza di tipo linguistica (se ricordiamo la lezione che abbiamo dedicato a
Wittgenstein, uno dei punti sui quali il filosofo insisteva è il fatto che la nostra razionalità non esiste
in sé, esempio del bambino che impara a parlare, non esiste una razionalità, un modo di pensare,
dell’idee, dei valori a cui si aggiungono solamente i nomi delle parole a seconda se nasciamo in una
famiglia italiana, tedesca ecc. ma tutta la nostra esperienza è di tipo linguistica).
Nell’ambito della filosofia politica il tema del linguaggio è stato affrontato successivamente a quella
che abbiamo chiamato svolta linguistica. Wittgenstein è uno dei padri della cosiddetta svolta
linguistica, cioè la filosofia nella prima metà dell’900 ha cominciato a spostare un po’ la propria
attenzione, passando dai tradizionali oggetti di cui si è occupato Dio, mondo e uomo verso il
linguaggio, cioè l’oggetto di studio della filosofia diventa il linguaggio cioè ci si rende conto che la
nostra esperienza del mondo è sempre un’esperienza mediata dal punto di vista linguistico e se
questo è vero allora diventa necessario non più interrogarsi su che cosa sia giusto, sbagliato, se
esiste Dio ecc. ma diventa fondamentate come noi affrontiamo questi problemi che cosa significa la
parola Dio ? che cosa significa la parola libertà? Quindi, intorno la metà del 900, i filosofi
cominciano a studiare il modo in cui noi parliamo, non più gli oggetti ma il modo in cui noi parliamo
degli oggetti.
Tutto ciò vale anche in campo della politica a tal punto che alcuni autori cominciarono a parlare
,alla fine degli anni cinquanta, di una vera e propria morte della filosofia politica come disciplina.
Alcuni dicevano che se la nostra esperienza del mondo, anche in campo politico, è sempre
linguistica allora tutti i discorsi che normalmente si sono fatti nel passato sono discorsi inutili, nel
senso che nessuno può ritenere serio oggi nel novecento il vecchio ideale platonico del filosofo, cioè
come colui che conosce la Verità con la v maiuscola, ovvero una verità che sia al di fuori della storia,
dello spazio, del tempo e che noi avremo il compito di realizzare, se noi siamo essere linguistici
significa che siamo esseri storici, cioè calati sempre nella storia quindi non è possibile attingere a
questo livello superiore, di conseguenza discutere sulla giustizia, per esempio, non significherà più
cercare di capire quest’ordine iperuranico come diceva plotone su quale noi dobbiamo modellare la
nostra esperienza concreta ma in maniera più umile il filosofo dovrebbe semplicemente limitarsi ad
analizzare i significati delle parole che noi adoperiamo quando noi parliamo di giustizia.
Quindi siccome contemporaneamente a questa svolta linguistica in filosofia si sviluppa anche una
particolare attenzione, nella cultura occidentale, nei confronti del primato delle scienze empiriche,
le scienze che ci danno una conoscenza quantitativa, da questo punto di vista in ambito politologico
la disciplina più importante diventa la scienza politica. La vera disciplina negli anni sessanta, nel
mondo anglosassone, che si riteneva che ci desse una conoscenza empiricamente controllabile di
che cosa fosse la politica era la scienza politica perché ci parla di come funziona la società, i sistemi

97
elettorali, i partiti, in altre parole ci parla della realtà politica.
Tutto ciò avviene perché ci furono un gruppo di autori, neopositivisti, che interpretavano il
Tractatus Logico-Philosophicus (opera di Wittgenstein) in maniera particolare, infatti secondo loro
Wittgenstein ci aveva detto che le cose più importanti erano quelle che ci diceva la scienza, perché
l’unico linguaggio dotato di senso.
Il neopositivismo ha fatto si che si diffondesse quest’idea: l’unica disciplina dotata di senso che ci
parla della politica è la scienza politica, la filosofia politica deve essere una semplice analisi
linguistica. Questa è la tipica posizione che in Italia ha assunto Norberto Bobbio che è il padre della
filosofia politica come disciplina accademica, infatti egli affermava “che tra tutti i vari modi di
praticare la filosofia politica quello che io prediligo è questo: la filosofia politica come analisi del
linguaggio”. Quindi il filosofo politico ha il compito di analizzare, elaborare un lessico ideale della
politica e poi lo scienziato politico adopera questo lessico svolgendo le sue analisi di tipo empirico e
quindi controllabile. Possiamo quindi affermare che la filosofia politica ha un ruolo propedeutico
nei confronti della scienza politica. Bobbio ha introdotto l’approccio di Hans Kelsen, teorico
neopositivista che lavorava all’interno del Circolo di Vienna, in Italia.
Se prendiamo in considerazione, invece, John Rawls che pubblica nel 1971 la “Teoria di Giustizia”, il
suo contributo nel mondo anglosassone è quello di rilanciare una discussione filosofica della
politica.
La filosofia entra in crisi non soltanto per questo approccio scientifico ma anche per la diffusione
degli ideali marxisti, soprattutto in Europa dove il marxismo ha un grande sviluppo durante le due
guerre mondiali. Legato agli ideali marxisti vi è l’affermazione che quando noi andiamo ad
analizzare una società, il piano politico di tale società va analizzato prendendo in considerazione il
piano economico. Quindi parlare di una reale autonomia della filosofia politica cioè del politico in
realtà è un’illusione dal punto di vista marxista perché la politica in realtà dipende dai rapporti
economici.
In realtà, intorno alla fine degli anni 60, a Cambridge nasce un gruppo di studiosi, in cui possiamo
inserire Quentin Skinner, che provano a svolgere un’operazione intellettuale molto interessante;
perché questi autori, in particolare Skinner, recepisce l’insegnamento delle Ricerche Filosofiche di
Wittgenstein, e lo porterà a sviluppare un modo di studiare la filosofia politica diverso rispetto a
tutti gli approcci che sono dominanti in Europa. Questi autori che sono Skinner, Pocock e una serie
di altri autori lavorano tutti intorno all’’università di Cambridge , per questo cominciano ad essere
definiti con un’etichetta ben precisa quella di “Cambridge School”.
Questi autori, in particolare Skinner, cominciano a elaborare una critica radicale nei confronti della
tradizione filosofica analitica che diventa dominante dopo Wittgenstein nei paesi di lingua inglese.
Il modo in cui i filosofi analitici, a partire dalla seconda guerra mondiale, praticano la filosofia come
analisi linguistica li porta ad avere una certa sfiducia nei confronti della storia in quanto veniva
ritenuta solamente un dettaglio. Inoltre per questi filosofi analitici i classici erano importanti solo
nella misura in cui anticipavano problemi o soluzioni che noi oggi nel novecento riteniamo
importanti, quindi se io studio Aristotele devo capire cosa ha detto Aristotele sulla base dei
problemi e delle soluzioni che oggi noi abbiamo. Quindi il rapporto con la storia secondo questi
filosofi analitici si struttura nel seguente modo: io studio gli autori del passato in relazione al
presente e mi porrò nei confronti del classici, in maniera positiva o negativa, in base alla risposta
che questi classici hanno dato ai problemi che noi oggi abbiamo nel presente. Gli autori del passato
vengono, quindi, catalogati in due grosse categorie:
1. Pensatori che si sono posti sul sentiero del progresso, cioè quelli che hanno anticipato
problemi e soluzioni sulle quali noi oggi diciamo che abbiamo trovato un consenso;
2. Pensatori che hanno ostacolato il progresso perché hanno sostenuto idee e posizioni che
sono opposti a quelli che oggi noi abbiamo.
Quindi, infine, possiamo affermare che il filosofo analitico si pone come giudice nei confronti della
storia.
L’operazione che gli autori della Cambridge School fanno è quella di demolire quest’idea, infatti

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provano a recuperare questo legame tra indagine filosofica e indagine storica. Quindi il nuovo
paradigma che comincia a nascere in questa scuola ha un impatto rivoluzionario.
Nel 1969 Skinner pubblica il “Meaning and Understanding in the History of Ideas”, dove prova a
fornire delle idee nuove su che cosa sia la conoscenza storica. In questo testo Skinner comincia a
criticare quelle che lui definisce scuole storiografiche riduzioniste, in quanto secondo lui esistono
una serie di approcci filosofici che si pongono nei confronti della storia in maniera sbagliata, per
questo li definisce riduzionisti. Quali sono questi approcci? Sono:
• L’approccio marxista uno storico marxista in genere cerca di ricostruire il contesto
economico nel quale un autore opera, quindi da questo punto di vista ci avviciniamo in parte a
Skinner perché possiamo dire che è un approccio di tipo contestualista. Tuttavia vi è una differenza
importante perché nell’approccio marxista non c’è un’autonomia del politico perché ognuno viene
visto come frutto della classe a cui appartiene, mentre Skinner afferma che questo modo marxista
di ragionare è riduzionista perché il linguaggio che forma ognuno di noi sia una sorta di gabbia,
quindi se io nasco nella classe borghese non posso fare altro che gli interessi della classe borghese
ecc. In maniera ancora più ampia se io nasco all’interno di un certo contesto dove ci sono una serie
di idee, io non posso che seguire queste idee. Questo è un presupposto forte ancora oggi, anche da
parte di chi non si considera marxista. La domanda che si pone Skinner è: come spiegare il fatto che
due persone, a parità di contesto, pensano in maniera differente? Questa domanda ci fa capire che il
presupposto iniziale è sbagliato. Skinner afferma che se noi vogliamo fare realmente un’analisi di
tipo storico questa non deve essere finalizzata esclusivamente a comprendere il conflitto sociale
che c’è in una certa epoca storica, ma piuttosto un’analisi di tipo storico è un po’ più ampia, cioè se
io voglio studiare Aristotele devo studiare, conoscere e comprendere il contesto in cui Aristotele
operava, quindi conoscerne i valori, le tradizioni ecc. Tuttavia, dice Skinner, a me non deve
interessare capire il perché un autore ha detto quello che ha detto, ma io sono interessato piuttosto
a comprendere ciò che un autore ha fatto rispetto al contesto in cui si pone; perché Machiavelli ha
detto quello che ha detto e i suoi contemporanei dicevano altre cose? Io devo capire cosa un filoso
ha fatto nel preciso momento in cui operava, in relazione al contesto. Quindi la ricostruzione del
contesto diventa fondamentale per comprendere come ogni autore si pone nei confronti del
contesto in cui opera.
• L’approccio di Leo Strauss secondo Strauss la filosofia politica ha come compito quello di
rispondere a delle domande eterne, ci sono delle domande che accompagnano l’essere umano
anche in ambito politico. Tutto ciò aveva portato Strauss a sostenere e ad interpretare certi autori,
come ad esempio Machiavelli, in maniera sbagliata secondo Skinner perché: secondo Strauss
all’inizio della modernità avviene una frattura, cioè mentre la storia della filosofia, intesa come
disciplina che cerca di arrivare alla verità, era stata tale fino all’età moderna, mentre in quest’ultima
un autore come Machiavelli rompe questa tendenza del sapere verso la verità. Questo approccio
non può che essere criticato da Skinner, perché se noi siamo esseri storici non è vero che
rispondiamo e che ci interroghiamo sempre sulle stesse cose, quindi il punto di partenza di Strauss,
in filosofia politica esistono dei problemi eterni, è sbagliato perché anche se ci possono essere delle
domande simili tra autori che appartengono ad epoche storiche diverse, tali domande
appartengono ad orizzonti culturali che sono diversi, quindi anche il senso di quella domanda
assume una configurazione completamente diversa. Inoltre Skinner afferma che se noi partiamo dal
presupposto di Strauss possiamo finire per criticare un autore come Machiavelli, però attenzione
dice Skinner se noi critichiamo Machiavelli come fa Strauss, perché lo consideriamo immorale, noi
stiamo facendo un giudizio che non è storico, se per giudizio storico intendiamo cercare di capire
un autore nel periodo storico in cui viveva, ma è di tipo filosofico. Quindi secondo Skinner
l’approccio di Strauss va rifiutato perché parte da un presupposto sbagliato, ovvero che vi sono
delle domande eterne.
• History of ideas (maggior rappresentate è Lovejoy) Lovejoy diceva che: se noi studiamo il
lessico politico dobbiamo studiare le cosiddette idee-unità; ad esempio se prendiamo in
considerazioni il termine giustizia (idea-unità), noi dobbiamo dare una definizione della giustizia e

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vedere come storicamente quest’idea si è realizzata nei vari contesti che sono oggetto di attenzione
da parte dello storico delle idee. Qual è l’errore di questo approccio secondo Skinner? Skinner
,rifacendosi al secondo Wittgenstein (il significato di una parola dipende dal suo uso) , afferma che
non è possibile definire in maniera assoluta e definita un concetto come quello di giustizia per
esempio. Al contrario Skinner afferma che se io voglio definire il termine giustizia devo,
innanzitutto, capire in quale contesto mi muovo, perché in qualunque contesto mi trovo devo
considerare, ad esempio, le categorie culturali del contesto in cui mi trovo. Per spiegare meglio
questo concetto Skinner negli ultimi anni prende in considerazione Nietzsche. Quest’ultimo nel suo
testo che si intitola “Genealogia della morale” dice una cosa importantissima: “tutto ciò che ha
un’essenza storica non può essere oggetto di una definizione”. Spieghiamo meglio questo concetto
con un esempio: noi possiamo dare la definizione di triangolo, o meglio una definizione assoluta,
perché il triangolo non ha un’essenza storica è una figura geometrica per l’appunto, mentre non
possiamo fare la stessa cosa con il concetto di bello, brutto, giustizia ecc. perché hanno per
l’appunto un’essenza storica, sono in evoluzione e quindi non possiamo dare una definizione
assoluta cioè condivisibile da tutti. Quindi l’idea di Lovejoy è destinata al fallimento, perché non
possiamo definire delle idee-unità.
Queste scuole riduzionistiche, quindi, secondo Skinner vanno rifiutate in virtù di un approccio più
contestualista. Gli errori che molti storici fanno vengono definiti da Skinner come mitologie e sono
sostanzialmente tre:
• odotto molto
gli storici tendono ad armonizzare il tutto, a dare una coerenza al tutto. Anche questa è una
mitologia afferma Skinner, perché chi l’ha detto che un autore non può aver cambiato idea? Perché
viene considerato sbagliato il cambiamento di idea di un autore. L’uomo comune cambia opinione
perché non dovrebbe farlo un filoso o uno scienziato politico?

cioè io studio un autore del passato focalizzando tutta l’attenzione su una dottrina, un elemento; ad
esempio il problema dello stato. Ma la domanda che si pone Skinner è: siamo sicuri che l’elemento
su cui stiamo focalizzando l’attenzione sia lo stesso elemento dello studioso che stiamo studiando?
• Mitol
del passato sulla base delle conseguenze, degli effetti che le loro opere hanno avuto. C’è un testo
molto famoso di Popper che si chiama “La società aperta e i suoi nemici” ed è un’opera dove Popper
critica tre autori: Platone, Hegel e Marx definendoli profeti del totalitarismo, quindi difensori della
società chiusa. Questo, afferma Skinner, è un tipico esempio di mitologia della prolessi, cioè Popper
avrebbe fatto l’errore di studiare Platone, Hegel e Marx partendo dagli effetti che secondo lui le loro
opere avrebbero avuto sul presente. Ma è possibile, dice Skinner, incolpare Platone di cose o eventi
che sono accaduti secoli dopo? Skinner risponde dicendo che non è possibile.

7 Novembre 2016.

Preso atto degli errori commessi dalle scuole storiografiche: Mitologia della prolessi, mitologia della
coerenza, mitologia della dottrina; qual è la proposta in positivo che avanza Skinner? Come si deve
porre lo storico nei confronti della storiografia? Che cosa deve fare lo storico rispetto all’autore che
deve studiare? Abbiamo già accennato all’idea che ‘significato’ coincide con uso.
Es: se lo storico ha a che fare con l’idea di libertà, non può analizzare il concetto fine a se stesso, ma
deve analizzarlo all’interno della società nella quale viene preso in considerazione. Quindi, gli
strumenti della svolta linguistica, vedono questo modo che propone Skinner di invitare a riflettere
sull’arsenale concettuale dello storico. Oltre al contributo di Wittgnenstein, è bene ricordare anche
quello di altri due studiosi (due inglesi) : John Hostin e Paul Grais , sono due filosofi che lavorano
ad Oxford alla fine degli anni 50. Essi riflettono sulla visione pragmatica del linguaggio, ovvero il
linguaggio non serve soltanto a rappresentare la realtà, ma serve anche a fare cose. “Come fare cose
con le parole” è appunto un famosissimo testo di Hostin. Essi quindi affermano che il linguaggio ha

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una funzione performativa e pragmatica, noi dobbiamo vedere il linguaggio come strumento di
azione e non solo come un modo attraverso il quale possiamo rappresentare la realtà. ‘teoria degli
atti linguistici’: questi autori lavorano su questa teoria, che appunto vede il linguaggio come azione
e non come mero veicolo di pensiero.
Torniamo quindi al concetto di ‘significato’.
Grais, studiando il significato, dice che noi possiamo parlare di questo, in riferimento ad una
situazione conversazionale. Es: la madre che torna a casa e chiede alla baby sitter come sia andata la
giornata.. questa risponde la casa non è crollata … Allora per Grais ciò significa che la conversazione
ha avuto luogo, ovvero la situazione conversazionale è andata a buon fine. Linguisticamente la
risposta non è pertinente alla domanda, ma evidentemente il mero significato letterale va superato.
Il significato quindi non è qualcosa di privato, ma qualcosa di pubblico, e soprattutto non coincide
con la parte letterale, il significato va ricavato dalla parte generale del discorso. ( Esempio dell’occhio
schiacciato.. ) Anche per Wittgneistein il linguaggio era qualcosa di pubblico, in quanto la
comunicazione riguarda più soggetti. Il significato sta nella natura pubblica del linguaggio.
Questo discorso, secondo Skinner , è importantissimo per l’analisi storica, perchè se è vero che
dobbiamo situare l’autore nel contesto, allora se volessimo studiare ad esempio Aristotale, non
possiamo studiare i suoi scritti in maniera letterale, poichè il pubblico che doveva ricevere le sue
teorie è di circa 2000 anni fa, quindi se si vuole comprendere storicamente Aristotale, bisogna
ricostruire tutto il tessuto delle convenzioni linguistiche dell’epoca dello scrittore, perchè solo cosi si
può capire il vero messaggio che l’autore vuole trasmettere ,quindi dobbiamo impersonarci negli
individui della sua epoca per poter avere una visione più ampia di colui stiamo studiando. È con la
comprensione del periodo di appartenenza dell’autore che possiamo riuscire ad intuire quando
questo si scosta dai pensieri del suo tempo e diventa un innovatore ideologico, esempio lampante è
Machiavelli che nei suoi testi, come “il principe”, utilizza il termine ‘virtù’ in maniera diversa rispetto
al contesto di appartenenza, quindi diventa appunto un innovatore. Skinner inoltre dice che
dobbiamo capire il ‘move in argument’, ovvero capire il perchè un determinato autore scrive un
testo, il testo stesso allora è un’ azione politica, in quanto con ciò si vuole immettere un nuovo
pensiero nella società, si vuole partecipare ad un dibattito, ad esempio come fece Aristotale parlando
della schiavitù, egli inserì una nuova idea per criticare quella instaurata dai filosofi sofisti di quel
tempo.
Allo stesso modo fece Hobbes, parlando del Leviatano. I testi, analizzati in questo diventano
sicuramente più interessanti da analizzare. Dobbiamo quindi capire che contributo voleva portare un
autore nel contesto in cui viveva …
Lo scopo dello storico è quello di ricostruire il contesto per comprendere le argomentazioni proposte
dall’autore analizzato.
‘La teoria degli atti linguistici’ è quindi importante per fa capire che sia il linguaggio, che anche i testi
sono delle azioni.
Robin Collingwood , è un altro autore da prendere in considerazione. Questo è un filosofo degli anni 30,
che elaborò una logica famosa, che si chiama: logica della domanda e della risposta.

Egli fu un autore molto caro a Skinner, in quanto gli permettè di correggere Strauss, quando questi
affermava che esistono delle domande eterne in filosofia. Per Skinner infatti, non esistono domande
eterne in filosofia, perché ogni contesto storico, così come ogni autore, è diverso dall’altro; per tal
motivo noi dobbiamo imparare a leggere le cose che sono scritte in un testo come delle risposte,
risposte in relazione alle domande che vengono poste in quello stesso contesto. Le domande sono
quindi diverse. Es. le domande che si poneva Platone sono senza dubbio diverse da quelle che ci
poniamo noi oggi.. come la domanda su come debba essere la società.
Chiarita la questione storica possiamo parlare alla questione filosofica.
Secondo capitolo: confronto tra Skinner e Foucault. Quest’ultimo negli anni 60, pubblica una serie di
opere in cui analizza: il tema del potere, il tema della storia, il tema del linguaggio … e ci sono molte
affinità ed alcune differenza con il pensiero di Skinner; in particolare Foucault rimane uno
strutturalista, ovvero per lui non esiste l’uomo, perché ognuno scrive, ed ognuno di noi è costituito

101
dalle strutture all’interno delle quali vive. (morte dell’autore) . Skinner invece va oltre queste
strutture, non le considera come una gabbia, come qualcosa di non modificabile, ma piuttosto le
strutture sono delle risorse. Egli quindi contesta anche il pensiero marxista …
Le ripercussioni in ambito filosofico sono molteplici secondo il professore …
Innanzitutto perché queste recuperano un ponte tra la discussione filosofica e la dimensione storica.
Per troppo tempo infatti si è ritenuto di poter fare filosofia senza considerare la storia.. Un'altra
conseguenza sta nel fatto che la filosofia politica non è un indagine di tipo neutrale; perché se è vero
ciò che abbiamo detto sul linguaggio, ( ovvero sul fatto che il linguaggio in senso ampio è il nostro
modo di parlare del mondo, sia in termini descrittivi che normativi) ,allora la filosofia politica,
essendo interna all’universo linguistico evidentemente, è un modo di guardare il mondo , così ogni
filosofo politico ha dato pensieri diversi che sono a loro volta frutto appunto di una particolare
visione del mondo. Allora dietro il linguaggio c’è sempre una posizione di potere. Le costruzioni
teoriche che noi facciamo ,secondo Skinner, sono delle costruzioni di potere, ovvero delle narrazioni,
delle ideologie … Se così non fosse tutte le filosofie sarebbero uguali, senza interferenze del pensiero
degli stessi filosofi..(intuizione foucoultiana, infatti il potere qui è da intendersi come lo intendeva
Foucault, ovvero come espressione di pensiero ). Quindi, questa attenzione alla componente storia,
ci porta a dire che c’è un legame inscindibile tra filosofia ed ideologia. In alcuni testi troviamo un
pensiero opposto, ovvero la filosofia è il contrario di ideologia, in quanto per ideologia si intende
chiudere il pensiero, mentre la filosofia apre il pensiero verso una ricerca della verità. Vista così,
possiamo anche essere d’accordo; tutto allora dipende da come intendiamo il concetto di ideologia,
ovvero se lo intendiamo in senso positivo o negativo. Nel primo caso è da intendere positivamente
(nel senso ampio, compatibile con la filosofia, il nostro sapere non può essere neutrale perché noi
siamo entità diverse da dio, noi abbiamo sempre un’ idea nella nostra mente) , nel secondo invece è
da intendere negativamente ( ideologia come mentalità chiusa, esempio cardine è l’ideologia del
totalitarismo).
Se quando parliamo di questioni politiche, abbiamo a che fare con il mondo delle ideologie (intese
positivamente) :
La retorica che ruolo ha in tutto questo? Ad oggi il termine retorica è utilizzato come sinonimo di
chiacchiera, ovvero, viene utilizzato come un qualcosa di non effettivamente considerabile … In
realtà Skinner dice che intorno al 1500, gli umanisti trattavano questioni su tutti questi argomenti …
Essi dicevano che c’era un legame molto stretto tra ideologia e retorica … quindi mentre in ambito
scientifico noi abbiamo un riferimento per dire ciò che è vero e ciò che non lo è (es. terra che gira
intorno al sole e non il contrario.. ) , quando parliamo di questioni morali, giuridiche, non abbiamo
questa possibilità di affermare ciò che è giusto e ciò che non lo è .. ci manca questo criterio di
paragone con la ‘verità’. Evidentemente noi parliamo di argomenti politici partendo da un punto di
vista nostro, personale. Ecco che la retorica diventa un momento strutturale, non è più qualcosa che si
aggiunge e che pregiudica il nostro ragionamento, diviene un tratto costitutivo dell’argomentazione
filosofica stessa, perché io devo argomentare, devo convincere gli altri … Ciò ovviamente deriva dal
fatto che non abbiamo prove utili che smentiscano quello che noi diciamo … Per citare Habermas, ciò
che riceve più consenso, ciò che è più giustificabile diventa valido, quindi giusto ,quindi vero. PER
ANALIZZARE UNA TEORIA FILOSOFICA è ALLORA NECESSARIO L’ELEMENTO DELLA RETORICA.
Momento di Retorica, momento di filosofia, e modello di ideologia politica: sono tutte situazioni
collegate tra di loro … Dobbiamo quindi abbandonare l’idea di una verità assoluta, di un qualcosa che
sta al di là dell’iperuranio, perché siamo tutti all’interno di un contesto linguistico.
Skinner ci parla di ‘paradiastole’ . Ma cosa è? Come funziona? Si tratta di una figura retorica molto
utilizzata tra gli umanisti romani, poi in età medievale ed infine rinascimentale … Essa funziona nel
seguente modo : si parte da una considerazione di base, la quale vede il confine tra vizi e virtù molto
labile. (esempio i genovesi vengono considerati avari, ma loro direbbero di essere parsimoniosi … )
Parlando di questi temi, come abbiamo detto, non ci sono delle basi per dire che la mia visione sia
più giusta rispetto a quella di un altro, pertanto posso solo offrire delle ridescrizioni retoriche della
realtà, ovvero posso solo giocare sul piccolo confine che c’è tra vizio e virtù … un comportamento

102
vizioso per la maggioranza allora, deve essere descritto nuovamente mettendo in luce gli elementi
positivi … Quindi spesso il dibattito politico consiste in questo, in una ridescrizione retorica della
realtà. (Es. dell’inciucio … ) La lotta politica è quindi sempre la stessa, ovvero ha come oggetto
sempre gli stessi fatti, ma gli attori cercano di presentarli in maniera sempre diversa, utilizzando per
l’appunto l’arte della retorica.
Questo è uno dei motivi per i quali ancora oggi vi sono delle divisioni all’interno delle società, perché
alcuni fatti sono divenuti simboli importantissimi all’interno di una grande narrazione, ovvero quella
narrazione condivisa da più persone.
Habermas. In tutto questo discorso, Skinner prende posizione contro le filosofie politiche di
aspirazione neokantiana, in particolare contro la filosofia di Habermas e di Rawls. Egli infatti scrisse
“Habermas’s Reformation” , una critica abbastanza dura nei confronti del filosofo tedesco. Gli scritti
di Habermas in quel periodo venivano tradotti anche in inglese, quindi dobbiamo prestare attenzione
anche ai momenti nei quali le opere, e gli stessi autori vengono recepiti. Esempio, solo negli anni 80,
vengono tradotte le opere pienamente liberali in italiano, perché venivano selezionati determinati
autori piuttosto che altri.Skinner nella sua opera contesta sostanzialmente tre aspetti dell’opera
“teoria dell’agire comunicativo” di Habermas. In primo luogo critica il fatto che Habermas cerchi di
elaborare una teoria della razionalità, perché appunto la teoria dell’agire comunicativo vede la ‘ratio
della comunicazione’ come una razionalità superiore rispetto alle altre, rispetto alla ratio strategico-
strumentale. Skinner riprende quindi il pensiero del ‘secondo Wittgenstein’ , dicendo che è
sbagliato considerare una ratio superiore ed una inferiore, e che Wittgenstein ci ha insegnato che il
linguaggio funziona in molti modi .. così anche la ragione … non possiamo stabilire che l’intesa sia un
valore superiore rispetto ad un altro uso del linguaggio. La seconda critica mossa, è in relazione al
fatto che Habermas si muove all’interno del così detto ‘ paradigma della filosofia sociale’ , iniziato da
Rousseau, il quale vede il male della società dipendere dalle strutture. Tutta la tradizione Marxista si
muove su questo pensiero .. Spiegato in termini marxisti : aboliamo la proprietà privata, ovvero il
male della società, e risolveremo il problema. Il terzo punto sul quale Skinner si trova in disappunto è
quello riguardante la situazione linguistica ideale, per Skinner infatti le costruzioni ideali non
servono sostanzialmente a nulla. Infine, sullo stesso giornale sul quale vengono scritte le critiche di
Skinner, esce, diverso tempo dopo, un articolo opposto, presentato proprio da colui che si è occupato
della traduzione dell’opera di Habermas nel mondo anglosassone. Questo accusa Skinner, in primo
luogo di essersi concentrato soltanto sugli scritti degli anni 70 di Habermas; in secondo luogo invece,
egli attacca Skinner di non aver compreso la situazione linguistica ideale, in quanto Habermas non
pretendeva si realizzasse una situazione di questo tipo, ma era un modello sul quale poi valutare la
realtà. Il professore è d’accordo con la prima critica, ma non con la seconda. Secondo il prof infatti,
Skinner è consapevole che la situazione ideale sia contro fattuale, ma proprio per questo Skinner dice
che non serve a nulla; anche perché ricordiamo che lo stesso Habermas negli anni 90 ritiene che
l’unanimità non può essere raggiunta. Al di là del dibattito tra il difensore di Habermas e di colui che
lo attacca, vi sono delle reali differenze tra le due filosofie. Innanzitutto il modo di considerare la
modernità. Infatti, se Habermas ne è un difensore, Skinner si pone quasi negativamente verso la
modernità, perché il lessico repubblicano è stato soppiantato dal lessico liberale. Vi è poi un’ultima
differenza, che riguarda un confronto attraverso Wittgenstein. Skinner infatti, è totalmente d’accordo
con la filosofia di Wittgenstein, mentre Habermas critica l’idea di terapeutica all’interno della
filosofia; contesta che la filosofia non venga considerata da Wittgenstein come cognitiva, ma solo
come analisi di linguaggio. Allora Habermas propone di tornare alla filosofia che porta alla
conoscenza. Skinner dal canto suo, nonostante sia d’accordo, trasferisce questo aspetto terapeutico
alla storia, la quale ci consente di uscire da un ‘atteggiamento parrocchiale’ (come dicono gli inglesi);
ovvero di guardare il mondo così come lo si conosce, senza studiare l’alterità. In realtà studiare le
differenze, studiare la storia, ci aiuta a comprendere i nostri limiti, ci aiuta a confrontarci con
l’alterità a comprendere come gli altri ragionavano. Habermas: ritiene sia possibile elaborare una
grande teoria sociale, ovvero come funziona la società; Skinner: ritiene che non sia possibile
elaborare una teoria di questo tipo, non possiamo prevedere i cambiamenti della società.

103
12 Dicembre 2016.

Come abbiamo già detto, Skinner è nettamente contrario alla filosofia di Habermas, soprattutto nel
momento in cui questo descrive una situazione ideale , che sostanzialmente per Skinner è inutile, in
quanto non ci porta a nulla di concreto e realizzabile.
Ecco perché Skinner critica Rawls. Egli infatti non condivide, come per Habermas, la situazione
ideale descritta in “teoria della giustizia”. La sua idea base è la stessa: cosa ce ne facciamo delle
situazioni ideali?
Un altro aspetto che Skinner contesta a Rawls è il concetto di libertà. Per quale motivo? Perché
Rawls le leggi servono a comprimere le libertà , mentre per Skinner le leggi servono come disciplina
per il popolo.
Inoltre Skinner , analizza il concetto di libertà un po’ diversamente …
Innanzitutto egli contesta la troppa importanza che Rawls da alla corte suprema. Infatti Skinner, da
vero repubblicano, pensa che debba essere il parlamento il momento di sintesi, ovvero il momento
in cui vengono risolte le controversie politiche. Altro punto sul quale Skinner ha da ridire, è il
momento in cui Rawls non crede che sia necessaria una conoscenza storica per parlare di filosofia
… Skinner diversamente, come già visto , pensa che la conoscenza della storia invece, sia un
elemento fondamentale per poter analizzare i fatti e quindi stilare una riflessione filosofico politica.
Skinner infatti dice che tutto parte da un’indagine storica.
Confronto con : APPROCCI LINGUISTICI. Nel 900 abbiamo la SVOLTA LINGUISTICA , ovvero
l’introduzione della riflessione sul linguaggio, tema del quale cominciano ad occuparsi diversi
filosofi.
Nel libro si parla molto di Bobbio. Possiamo quindi analizzare delle evidenti differenze con
l’approccio che invece ha Skinner nei confronti del linguaggio.
Bobbio si richiama al neopositivismo, ovvero al ‘Tractatus’ di Wittgenstein, il quale pensa che il
compito della filosofia sia quello di analizzare il linguaggio per dar vita ad un linguaggio
formalizzato. Bobbio quindi sostiene che il compito della filosofia politica sia quello di creare un
linguaggio politico formale, linguaggio che sia poi propedeutico alla scienza politica. Come nasce
questo linguaggio? Tramite definizioni concettuali, quindi il compito del filosofo politico è questo,
deve essere imparziale, ed è come se si trovasse in una condizione di superiorità rispetto agli altri,
in quanto deve effettuare questa analisi ed introdurre questo tipo di linguaggio formale. Questo
approccio viene visto come : APPROCCIO DI ANALITICA CONCETTUALE . Bobbio quindi crede che
dobbiamo dare una definizione univoca dei concetti, in quanto uno dei motivi per i quali nascono i
conflitti politici è proprio questo, perché ognuno intende le cose in maniera diversa …
Skinner non può ovviamente essere d’accordo, in quanto il tentativo di Bobbio è quello di dare una
definizione condivisa di un concetto, ma se il concetto dipende dall’uso storico, noi non potremo
mai riuscire a dare questa definizione assoluta di concetto politico. In “Genealogia della morale” ce
ne parlò anche Nietzsche, secondo il quale i valori non esistono, e sono quindi indefinibili. Inoltre
per Bobbio ricordiamo che il filosofo politico è in posizione terza rispetto alle parti in causa,
rispetto ai partiti ad esempio, è quasi uno spettatore che per prima cosa deve definire i concetti sui
quali i partiti in causa si stanno scontrando … per Skinner non è possibile, il filosofo è un cittadino
con un po’ più di spirito critico, ma è assolutamente anche parte in causa nello scontro, e non
potendo dare definizioni il suo compito evidentemente non è quello identificato da Bobbio.
Confronto con: STORIA CONCETTUALE TEDESCA.

Dopo la seconda guerra mondiale, in Germania, troviamo una serie di autori i quali provano a
ricreare un legame tra la riflessione filosofica e la riflessione storia, sul terreno del lessico, ovvero
del linguaggio politico.
Il filosofo di riferimento per il confronto è Reinhart Koselleck. Quest’ultimo e Skinner hanno a loro
volta fonti diverse dalle quali formare il loro pensiero.
Di conseguenza:
Koselleck nasce come studioso dell’illuminismo. Egli dice che nel 1750 avviene un cambiamento

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nella mentalità europea, ovvero si crea una frattura (termine tradotto rispetto a quello tedesco
usato da lui) nella storia intellettuale dell’Europa. Perché il 1750? Perché intorno a quella data,
secondo lui, cambia la percezione del tempo. Il filosofo sosteneva che il nostro modo di
approcciarci al tempo dipenda da due categorie metastoriche: ORIZZONTE ASPETTATTIVA e
SPAZIO DELL’ESPERIENZA. Questo fa si che le società prima del 1750 erano caratterizzate da un
primato della prima categoria, mentre dopo il 1750 vi è un approccio caratterizzato dalla seconda
categoria. Riguardo alla prima, possiamo far riferimento alle società pre-moderne statiche, ovvero
se io fossi stato nobile allora mi aspettavo di essere nobile anche in futuro, se invece fossi stato
povero mi sarei aspettato di rimanere povero anche nel futuro …. Non vi era molta possibilità di
cambiare, il futuro è quindi condizionato al passato, in rapporto con il passato: il mio futuro dipende
dal mio passato. Nelle società moderne invece, tutto questo cambia, con lo ‘spazio dell’esperienza’
noi cominciamo a decidere del nostro futuro, noi ci diamo un futuro in base alle nostre capacità e
alla nostra preferenza … il futuro diventa libero , luogo di esercizio dell’attività politica. Ricordiamo
che il tempo viene visto in modo diverso nel corso della storia … prima in modo circolare e poi in
modo lineare con il cristianesimo … Cambiando il rapporto con il futuro quindi, nascono i concetti
di politica moderni come la democrazia … I concetti politici quindi , per Koselleck , acquistano un
significato FUTUROCENTRICO , ovvero dipendono dal diverso rapporto che noi abbiamo con il
tempo … Es. del termine Rivoluzione, che cambia dalla rivoluzione Francese alla Gloriosa
rivoluzione …
Cosa contesta allora Skinner? Egli dice che il discorso di Koselleck può essere valido soltanto per
determinati paesi, per la Francia ad esempio … ma non per tutti i paesi europei … infatti in
Inghilterra non vi è stato alcun rovesciamento di tipo politico …
In ambito meramente filosofico inoltre, Skinner dice che il discorso di Koselleck funziona, ma ciò
significa che il fattore dal quale dipende il cambiamento della nostra società è il tempo, la
percezione che noi abbiamo del tempo. A questo punto Skinner contesta a Koselleck di non aver
fatto una dimostrazione relativa ad una ‘teoria di cambiamento della società’ che dimostri come il
tempo sia il fattore determinante. Per Skinner quindi si torna al una situazione ideale, in quanto
non è possibile realizzare una dimostrazione di questo tipo …
Non ha infine senso, secondo Skinner, parlare di una ‘struttura temporale’ dei concetti, in quanto
questi non sono altro che strumenti che noi utilizziamo all’interno del linguaggio. (Non possiamo
dire che, a seconda del tempo, il concetto di democrazia sia migliore rispetto al passato … )
SKINNER: È una autore repubblicano, si occupa della storia del repubblicanesimo . Lui si muove
all’interno del ‘repubblicanesimo neo romano’. Egli analizza il concetto di libertà, e dice che nel
corso della storia noi troviamo sostanzialmente tre diverse accezioni: 2 negative ed 1 positiva.
Prima accezione negativa: Libertà come ‘non interferenza’.

Concetto ripreso da Rawls, Locke … Dai liberali insomma. Skinner però crede che la libertà in
questo senso sia troppo formale e poco sostanziale, tanto che riprende la definizione che Hobbes da
di uomo. Egli disse che l’uomo è un insieme di atomi, pertanto ciò che impedisce il suo movimento è
lesione di libertà. Come sottolineato quindi, troppa formalità.
Seconda accezione negativa : Il soggetto è libero quando la sua esistenza non dipende da nessuno.
Libertà come Status … ripreso dal repubblicanesimo neo romano … Concezione che appoggia Skinner …
Fisicamente possiamo essere anche liberi, ma se la nostra vita dipende da qualcuno (mentalmente) noi
non siamo realmente liberi. Al tempo dei romani esistevano gli schiavi ed i padroni, o si era liberi o non
lo si era.

Accezione positiva: Libertà come realizzazione della propria essenza. Esempi:


Aristotele: uomo politico. Religiosi: chi vive secondo le leggi di Dio.

Da dove riprende Skinner questa divisione tra accezione positiva e negativa di libertà? Da Isaiah
Berlin, il quale scrisse un famosissimo articolo su questo argomento. Berlin per libertà positiva
intende la libertà politica, ovvero la libertà nell’andare a votare, manifestare la nostra volontà. La

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libertà positiva è un chiaro esempio di
‘ LIBERTA’ DI ’ . Per libertà negativa invece, Berlin intende le ‘ LIBERTA’ DA ’ , ovvero le forme di

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libertà nelle quali lo stato non deve intervenire, ad esempio la proprietà. Per Skinner
però, tutto questo è contraddittorio, in quanto se guardiamo in modo attento questa
distinzione, ci rendiamo conto che le tue tipologie di libertà vanno necessariamente
l’una sull’altra. Quando io vado a votare, è necessario che nessuno mi impedisca di
farlo, quindi la ‘libertà di’ è collegata alla ‘libertà da’ e viceversa.

Capitolo finale, esito finale ….. ‘Wittgenstein e la relatività nello sguardo’ .


Cosa intende Wittgenstein con relatività nello sguardo? Al professore il
pensiero di Wittgenstein sembra il seguente: se analizziamo la nostra
esperienza, ci possiamo rendere conto che non vi sono opinioni neutrali,
abbiamo sempre a che fare con prospettive e punti di vista differenti. Avere
punti di vista diversi però, non significa cadere necessariamente nel
relativismo, nessuno degli autori analizzati è un relativista. Non è simbolo di
contrarietà dire che non esiste una definizione assoluta dei concetti e poi
sposare solo una delle accezioni relative ad un concetto; questo in quanto vi
sono diverse opinioni di cui alcune sono più condivisibili ed altre meno,
sempre per il fatto che non vi è un criterio x dire ciò che giusto e ciò che è
sbagliato. Analizzare il linguaggio ci serve quindi a capire questo, che non
esiste una verità e che ognuno di noi ha dei punti di vista diversi, che possono
anche essere cambiati nel corso della nostra vita. Rispettivamente alla
tematica in questione, possiamo introdurre il pensiero di due autrici: Iris
Murdoch e Cora Diamond. La prima è inglese e lavora ad Oxford, la seconda
è più giovane ed è americana. Entrambe hanno provato a vedere quali
conseguenze si possono tirare in campo morale dalle ricerche filosofiche di
Wittgenstein. Con Skinner abbiamo visto le conseguenze politiche, con loro
possiamo vedere quelle a livello morali.
Joan Iris Murdoch ci dice che noi, quando proviamo a risolvere un problema,
facciamo intervenire la nostra moralità, ovvero mettiamo in campo concetti
morali; facciamo questo però, in quanto noi ci definiamo come soggetti
neutrali, ovvero come soggetti aventi concetti neutrali del mondo. In realtà
così non è, perché lo stesso piano descrittivo attraverso il quale noi
descriviamo la realtà è un piano valoriale … noi descriviamo la realtà
prendendo già in considerazione i nostri valori. Piano descrittivo e piano dei
valori sono quindi in relazione tra loro, la nostra percezione presenta già
moralità. Questo è ciò che ci insegna W. … ( dobbiamo intendere il linguaggio
in senso molto ampio) Cora Diamond si concentra su una questione: cosa
sono i valori? I valori sono a priori oppure no? Ad esempio in età pre-moderne
i valori venivano identificati come qualcosa di trascendentale, ma se i valori
sono a priori, come facciamo noi ad avere opinioni diverse sulle cose??
Viceversa coloro che dicono che i valori non esistono o meglio, che sono solo
delle proiezioni costruite da noi, come possiamo giustificare il momento in cui
riconosciamo che un nostro diritto è stato leso? Un diritto che in realtà
riconosciamo come oggettivo … Diamond allora fa un’analogia con un quesito
che si pone Wittgenstein: cosa sono i numeri? I numeri sono uno strumento
linguistico che ci permettono di parlare della realtà....allo stesso modo i valori,
sono un modo che noi abbiamo di strutturare la nostra esperienza nel mondo,
che dipende dalla società in cui viviamo, perché ricordiamo che noi siamo
soggetti calati all’interno della storia … Riteniamo veri dei valori perché ci
crediamo, perché li viviamo … Il problema del relativismo però è dietro
l’angolo, perché se siamo sempre noi a parlare dei valori, si può parlare di

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progresso di valori?? ….

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