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Didier Plassard (Université Paul Valéry-Montpellier3),
Silvia Carandini, Clelia Falletti, Renzo Guardenti, Luciano Mariti,
Ferruccio Marotti (presidente), Antonella Ottai, Paola Quarenghi, Mirella Schino,
Ferdinando Taviani, Luisa Tinti, Valentina Valentini, Valentina Venturini
BIBLIOTECA TEATRALE

AUDIO-VIDEOTECA TEATRALE / 13
Diretta da Valentina Valentini
VALENTINA VALENTINI

NUOVO TEATRO MADE IN ITALY 1963-2013


con saggi di
Anna Barsotti, Cristina Grazioli, Donatella Orecchia

BULZONI EDITORE
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica,
la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo,
compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.
L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171
della Legge n. 633 del 22/04/1941

ISBN 978-88-6897-006-2

© 2015 by Bulzoni Editore S.r.l.


00185 Roma, via dei Liburni, 14
http://www.bulzoni.it
e-mail: bulzoni@bulzoni.it
7 RAFAEL SPREGELBURD

Agli artisti italiani

RIVOLTATE LE INGIURIE FATENE PEZZI SERENI


RIVOLTATE LO SGUARDO IL
PENTIMENTO, RIVOLTATE LE BRACCIA
I PARAMENTI LE INSEGNE
SPEZZATE LE OSSA
NON TRANGUGIATE NON DORMITE
TENETEVI ALL’ERTA
CERCHIATE LA VITA. FATECI UN SEGNO.
… TORNATE. TORNATE TUTTI, NON SI PUÒ
STARE MORTI PER SEMPRE
(Mariangela Gualtieri, Antenata, 1992)
9 RAFAEL SPREGELBURD

Sommario

13 Avvertenza

15 Donatella Orecchia, Il sito web “Nuovo Teatro Made in Italy”


17 Premessa
21 Valentina Valentini, Teatro – letteratura – musica: manifesti, querelle, inter-
media 1963-1967
21 1. Fatti, atmosfere
28 2. L’attrazione della letteratura per un teatro di dissenso e sperimenta-
zione
31 3. La querelle fra letteratura e teatro: il Gruppo 63
36 4. L’attore è il poeta della lingua orale: il Manifesto di Pier Paolo Pasolini
39 5. Il teatro al centro della società: il convegno di Ivrea
42 6. Intermedia, teatro musicale: la linea del Sessanta
49 Valentina Valentini, La linea del Settanta (1968-1977): mettersi in viaggio
53 1. Usciamo dai teatri, dagli spettacoli, dai ruoli
56 2. Il teatro per cambiare il mondo
60 3. Le arti esorbitano, per cercare una base comune. Il manifesto
dell’arte povera
63 4. Camion: viaggio-sosta, scarico-carico
66 5. Scrivere un libro collettivo: un corpo di gioia
72 6. Fra il 1968 e il 1977: azione, postavanguardia, terzo teatro
78 7. Implosivo/espansivo
81 Valentina Valentini, Fra fine e rinascita: le linee dell’Ottanta (1978-1988)
81 1. La coscienza infelice di fine anni Settanta
86 2. Neoavanguardie/postavanguardie/postmoderno/transavanguardia
89 3. Postmoderno: paesaggio metropolitano
93 4. La riflessione teorica: antropologia e postmoderno = interculturale
10 SOMMARIO

98 5. Aurorale: rinasce l’opera


105 Valentina Valentini, Le ideologie: un vizio di cui liberarsi. La linea dei No-
vanta 1989-1999
105 1. Revisionismo e conciliazione
111 2. Abitare una transizione. Il bilancio del pregresso
115 3. Essere postumi
119 4. Un pre-teatro televisivo che racconta storie vere
121 5. Quasi un epilogo
125 Valentina Valentini, Liveness – gioco – frontalità: la linea del Duemila 1999-
2013
126 1. La tragedia: la fine che è principio
129 2. Progetto: produzione di formati intermediali
130 3. Drammaturgie dei corpi diffusi
132 4. Reality Trend e Pop
136 5. Narrare per elisioni e dettagli
138 6. Gioco – evento – scena
141 7. Interpellare frontalmente lo spettatore
143 Valentina Valentini, Le drammaturgie dello spettacolo e del testo letterario
143 1. Continuo e discontinuo nel Nuovo Teatro
145 1.1 La tradizione del Nuovo Teatro
149 1.2 Culture di adozione e orfananza
152 1.3 Il workshop come modo produttivo
156 1.4 Scrittura scenica come modo compositivo
160 2. La vocazione teatrale di Pier Paolo Pasolini
160 2.1 Esperienze
164 2.2 Per un teatro efficace
171 3. Giovanni Testori: Nel ventre del Teatro
171 3.1 Il verbo si fa carne
174 3.2 Edipus e Cleopatràs: la latrina teatralica
179 4. Franco Scaldati: Il teatro è un giardino incantato dove non si muore mai
179 4.1 Testi fluidi e senza genealogia. Il divenire è l’eterno
184 4.2 Un teatro-mondo sensoriale
189 4.3 Figurine marionette ombre doppi
SOMMARIO 11

192 4.4 Essere teatro: “a tenebra, u so’ tiatru rappresenta… e iu? Io co-
struisco ombre”
197 Valentina Valentini, La drammaturgia dello spazio
197 1. Rottura senso-motoria
202 2. Lo spazio dinamico e simultaneo
204 3. Spazio sonoro-cromatico
207 4. Lo spazio analitico
208 5. La scena monitor
210 6. Paesaggio e erranza
213 7. Costruire lo spazio
214 8. Installazione e digital space
219 Valentina Valentini, I modi plurali dell’attore
219 1. L’attore è il tema: questioni critiche e metodologiche
222 2. Attore come corpo collettivo
225 3. Il mancare del linguaggio e del soggetto: dal monologo all’assolo
230 4. Bloccare il corpo e liberare la voce
232 5. La parola come evento
235 6. Autofiction
237 7. Eccedere la rappresentazione
238 8. Attore-macchina-scultura-animale-cyborg
240 9. L’ampio spettro del performer
243 10. Il corpo sonoro è l’attante
249 Anna Barsotti, Drammaturgia dello spettacolo: attore-autore e scritture di scena
249 1. Eduardo, Fo, Moscato, Benigni: la linea dell’attore-autore come
identità italiana
257 2. In principio era Eduardo
264 3. Il mondo di Fo
273 4. Moscato, menestrello o Pulcinella noir
283 5. Benigni, demone e buffone del contado toscano
291 Donatella Orecchia, L’attore e le “tradizioni” del Nuovo Teatro
291 1. Avanguardia e tradizioni. «L’avanguardia che esplora e conserva»
296 2. Il (non)attore-artifex: parodia tragicomica della tradizione. Carmelo
Bene
12 SOMMARIO

303 3. L’attore lirico-jazz: il leader e la batteria. Leo e Perla e il “teatro


dell’ignoranza”
311 4. L’attore-joueur: la tradizione ricostruita, la lingua-corpo e tortura
della recitazione. Carlo Cecchi
317 5. Attore epico analitico. Carlo Quartucci
322 6. Epilogo: Antonio Neiwiller
325 Cristina Grazioli, Proiezione, spazio, materia: comporre e scomporre con la luce
325 1. Un modello luminoso e frammentato: il cinema oltre il cinema
325 1.1 Riverberi futuristi
328 1.2 Frammenti luminosi. Film e arti visive
331 1.3 Il cinema senza macchina da presa
333 2. Luce dramma
333 2.1 Costruire con la luce
337 2.2 Luce e assenza
339 3. Doppi, riflessi, voci, fantasmi
339 3.1 Un bagno di luce (cinematografica) per lo spettro dell’attore
342 3.2 Proiezione ombra materia
348 3.3 Buio voce luce
350 3.4 Proiezione, moltiplicazione
353 3.5 Luce scritta nel vuoto: l’assenza come figura
359 Bibliografia
365 Nota biografica
367 Indice dei nomi
291 RAFAEL SPREGELBURD

L’attore e le “tradizioni” del Nuovo Teatro


Donatella Orecchia

1. Avanguardia e tradizioni. «L’avanguardia che esplora e conserva» 1


Se il termine avanguardia ha spesso suscitato perplessità e diffidenze 2 da
parte di molti dei teatranti che hanno dato l’avvio al processo di ripensamento
radicale della scena italiana all’inizio degli anni Sessanta, non è certo per un
legame di continuità con la Tradizione del teatro ufficiale. Il percorso della
maggior parte di costoro, al contrario, prende l’avvio da una cesura, da
un’orfananza o, quantomeno, da una relazione problematica con la tradizione
teatrale recente. All’interno di tale contesto, la specificità del rapporto con la
tradizione più radicata nella storia del teatro italiano degli ultimi secoli, quella
dell’attore, assume un rilievo particolare. E problematico anch’esso.
Tre elementi si intrecciano: il primo luogo, il così definito “ritardo” della
scena italiana rispetto alla modernizzazione che la regia avrebbe incarnato nel
resto dell’Europa alla fine del XIX secolo3; quindi, lo sgretolarsi progressivo nei
primi venti anni del Novecento di un sistema di organizzazione, produzione,
tutela e trasmissione dei saperi e delle tecniche, che per secoli aveva retto il tea-
tro italiano: la compagnia itinerante di ruolo4; infine, il processo di normalizza-

1
È il titolo di un articolo di Maurizio Grande del 1978, pubblicato su «Rinascita» (3
marzo 1978, pp. 16-17). L’avanguardia, sostiene Grande, «esplora i mezzi più idonei per una
conservazione reale della tradizione, della storia e del passato culturale tramite l’esclusività della
sua appropriazione e del suo ri-uso nell’oggi» (p. 16); anzi, l’avanguardia è «l’unica via di con-
servazione e di continuazione, di ripresa e di salvaguardia della tradizione e delle sue possibi-
lità di parlare nell’oggi» (p. 17).
2
Cfr. le parole di Leo de Berardinis (fra l’altro in Leo e Perla: una coppia nel mito
dell’avanguardia, «Giornale di Sicilia», 16 settembre 1979); di Carmelo Bene (in C. Bene e G.
Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 1998, p. 124); di Carlo Quartucci (in Colloquio
con Carlo Quartucci. Roma, 3 dicembre 2000, in D. Orecchia e A. Petrini (a cura di), Materiali
per una storia del teatro italiano di contraddizione. “Aspettando Godot”, Teatrostudio, Genova
1964, «L’Asino di B.», n. 6, p. 180); di Rino Sudano (in Colloquio con Rino Sudano. Torino, 28
novembre 2000, ivi, p. 155).
3
L’impostazione originariamente proposta da Silvio d’Amico e ripresa da buona parte
della critica e da qualche teatrante è stata già ampiamente messa in discussione (M. Schino, Sul
“ritardo” del teatro italiano, «Teatro e Storia», aprile 1988).
4
Elaborato all’interno di un’economia familiare, il sistema delle compagnie di prosa (ca-
292 DONATELLA ORECCHIA

zione e di razionalizzazione che investe complessivamente la scena italiana ne-


gli anni trenta 5. La storiografia contemporanea ha già affrontato questi nodi in
alcuni importanti studi, che valgono come riferimenti preliminari per il nostro
discorso (Meldolesi, Schino, Jandelli); ma vale la pena di ricordare un aspetto
della storia di quegli anni, troppo spesso posto in secondo piano.
Se è infatti vero che, alla disgregazione di quell’insieme di regole, di tra-
dizioni, di pratiche legate alla struttura organizzativa della compagnia otto-
centesca non si sostituisce nulla che sia capace di traghettare, da un modello di
produzione a un altro, i saperi sedimentatisi nel corso dei secoli, tuttavia è an-
che vero che, nei primi venti anni del Novecento, si affermano in Italia alcune
esperienze teatrali altre. E tali esperienze, sebbene non saranno in grado di
fermare quel processo di dissolvimento in corso e se, non a caso, si sviluppano
in zone ‘marginali’ del teatro, indicano tuttavia alcune linee di ricerca di
grande interesse anche per il futuro.
Nascono per esempio alcuni ‘piccoli teatri’ che si fanno promotori di pro-
poste culturali ambiziose, capaci di attrarre nei loro programmi alcune delle
più interessanti realtà teatrali italiane ed estere (dagli Indipendenti di Braga-
glia, al teatro d’Arte di Pirandello, al Teatro d’Arte di Torino di Riccardo
Gualino). E poi, soprattutto, arriva a piena maturità negli anni Dieci il teatro
di varietà, la cui struttura organizzativa, i cui luoghi di manifestazione, i cui
spettatori e le cui regole e radici culturali sono profondamente diverse dal tea-
tro di prosa. Di qui provengono artisti come Ettore Petrolini, Raffaele Viviani
e, più tardi, Totò; e qui si afferma complessivamente un tipo di attore comico
che avrà molta più fortuna della breve parabola del varietà. Suoi tratti pecu-
liari sono, fra gli altri6: la vocazione solista tanto in scena quanto nella vita ar-
tistica; l’autonomia dal testo scritto; la riscrittura dei repertori condivisi;
l’improvvisazione; l’intertestualità plurilinguistica; il rapporto non garantito
con lo spettatore; il lavoro sulla sintesi e, talvolta, sul frammento, data la bre-
vità del tempo a disposizione per la realizzazione – e quindi la fruizione – del
numero; la solitudine, tanto nel momento creativo quanto in quello econo-

pocomicale, itinerante, di ruolo) non regge, infatti, l’urto con l’affermarsi di logiche e pratiche
industriali proprie del nuovo secolo, con l’invasivo affermarsi dei grandi trusts che coinvolgono i
principali teatri italiani, con la competizione del cinema, con il tramonto del mercato interna-
zionale, e così via.
5
Sono gli anni questi in cui si afferma un modello d’attore che Claudio Meldolesi ha con
efficacia definito «dell’antilingua recitativa» (Claudio Meldolesi nel suo Fondamenti del teatro
italiano. La generazione dei registi, Sansoni, Milano 1984, pp. 31-32) e che va a corrodere defini-
tivamente dall’interno, fino a sostituire, il modello attorico della tradizione ottocentesca.
6
Marco De Marinis in Capire il teatro. Lineamenti per una nuova teatrologia (La casa
Usher, Firenze 1988) sintetizza alcuni di questi tratti. In particolare si sofferma sul concetto di
autotradizione. Per un approfondimento rimando a quelle pagine: pp. 177-78.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 293

mico organizzativo 7 e l’assenza di quella rete di convenzioni collettive che de-


finiscono il teatro di prosa di quei tempi (compagnie capocomicali e sistema
dei ruoli) che lo predispongono a un particolare modo di mettersi in relazione
con le “tradizioni del teatro”, attuali e del passato. La vivacità e la forza con la
quale il varietà si estende è parallela alla rapidità con cui declina (già negli
anni Venti il fenomeno può dirsi concluso e l’affermazione della rivista e poi
della rivista di lusso ne occupano in gran parte lo spazio). Eppure, per rivoli
sotterranei e lungo sentieri inusitati, ricompare a tratti, a frammenti, come
provocazione, ma anche come sapienza della scena, rapporto vivo con lo
spettatore, pratica attoriale solitaria, pratica della riscrittura e della parodia.
Diverso è il discorso relativo al teatro dialettale (il particolare napoletano),
che fiorisce affermandosi sulla scena e nella drammaturgia con attori-autori
quali Scarpetta, prima, Peppino ed Eduardo De Filippo, poi, eredi di una tra-
dizione ricchissima (si pensi almeno a Petito) che vacilla meno che altrove,
che si chiude in sé piuttosto che esaurirsi, autoalimentandosi per anni e ri-
comparendo poi vivace, negli anni Sessanta, a nutrire con una tradizione di-
versa, parte della ricerca teatrale di allora.
La generazione di teatranti del Nuovo Teatro che, all’inizio degli anni Ses-
santa, si afferma sulle scene italiane propone un ripensamento complessivo del
linguaggio della scena contemporanea anche attraverso un confronto/scontro
con questa sua storia novecentesca: dunque, da un lato con quella tradizione
d’attore interrotta e compromessa e, dall’altro, con quei percorsi, apparente-
mente marginali, che sapranno a distanza di anni dare linfa vitale al rinnova-
mento radicale della scena. Alla presa d’atto dell’esaurimento di una tradi-
zione d’attore di prosa e della sua sostituzione, nel teatro ufficiale, con lo ste-
reotipo di una tradizione (che prosegue e reitera l’antilingua recitativa)8, la
prima stagione del Nuovo Teatro si muove infatti alla ricerca di una diversa

7
L’attor comico non è organizzato in compagnia, gestisce autonomamente i contratti con i
proprietari dei teatri e con gli impresari; è dunque assolutamente solo nelle fasi relative ai processi
di produzione economico organizzativi, come spesso è solo in scena, se non accompagnato da una
figura femminile, in duetto.
8
Giuseppe Bartolucci, nel farne una sintesi, scriverà: «La caratteristica comune e indica-
tiva che ne viene è di un cattivo e deplorevole buon senso interpretativo, ove scetticismo e mo-
ralità, astrattezza e finalità, si danno stranamente la mano, tecnicamente eludendo e umana-
mente corrodendosi su quel fantasma di pubblico consumatore, la cui immagine persiste sui
nostri palcoscenici [...], per un lato [...] l’interpretazione passando da un’eleganza esteriore a un
decadentismo di maniera, di dubbia riconoscibilità storica e morale; per l’altro, passando da
una accentuazione sensoriale a una reviviscenza naturalistica senza efficacia, per la stessa dub-
bia conoscibilità storica e morale»: G. Bartolucci, Teatro-corpo, teatro-immagine, Marsilio, Ve-
nezia 1970, p. 32. Su Bartolucci e l’attore e, più in generale, sull’attore e il Nuovo Teatro cfr. G.
Mancini, Percorsi dell’attore nel nuovo teatro italiano, in G. Bartolucci, Testi critici 1964-1987, a
cura di V. Valentini e G. Mancini, Bulzoni, Roma 2007.
294 DONATELLA ORECCHIA

costellazione di riferimenti, che partecipano tutti alla costruzione di una


scrittura scenica e, dunque, più o meno esplicitamente, a nuovi modelli reci-
tativi. E, quando non giunge alla totale rimozione della figura umana dalla
scena (l’esempio di Mario Ricci è in questa prima fase il più emblematico), si
muove tuttavia fra lo spostamento del proprio interesse dal teatro drammatico
verso altri linguaggi (in particolare visivo, musicale e cinematografico) e una
ricerca interna al linguaggio della scena, ma verso culture teatrali e attoriali
“altre”, marginali o straniere, comunque alternative e usate per la loro carica
oppositiva rispetto alla convenzione egemone.
A questo punto è utile il riferimento alle pagine che Fabio Dei, dalla pro-
spettiva di un’antropologia critica, ha dedicato al folk, alla cultura popolare e al
concetto di tradizione. Ecco: la questione chiave, scrive Dei, «riguarda la neces-
sità di rileggere riflessivamente il problema della demarcazione della cultura
popolare, spostandosi dal problema di “che cosa è veramente popolare o folklo-
rico” al problema del come, in determinati contesti storico-culturali e ad opera
di determinati soggetti intellettuali, si costituisca l’idea stessa di una cultura po-
polare» 9. Il riferimento agli studi di Bauman sull’inizio degli interessi per il fol-
klore nell’Ottocento europeo come «aspetto dello sforzo intellettuale, tipico di
quell’epoca di transizione, di comprendere i fondamentali cambiamenti appor-
tati dall’avvento della modernità» 10, illumina anche il contemporaneo. «“Tradi-
zione” è concetto che emerge sempre all’interno di una consapevole modernità:
tant’è vero che i suoi confini mutano costantemente, con il mutare dello spazio
di quello che potremmo chiamare il nostro progetto esistenziale di modernità. È
la modernità che in un certo senso produce la tradizione» 11.
Nel momento in cui, come accade nel teatro italiano degli anni Sessanta,
un certo progetto di modernità si incrina e altre progettualità (che assimilano
anche il dato della crisi, ma non della fine del moderno) vengono elaborate, il
concetto di tradizione viene ovviamente ridefinito e rifondato.
Proprio qui si colloca il modo in cui la “riscrittura delle tradizioni” del
Nuovo Teatro s’incontra con il ripensamento della scena e con l’innovazione
che caratterizza la ricerca di questi anni. E in ciò l’eredità del teatro di varietà
è particolarmente significativa, per quella sua modalità di porsi in relazione
con le tradizioni del teatro, secondo un procedimento che prevede l’innesto e

9
F. Dei, Dove si nasconde la cultura subalterna? Folk e popular nel dibattito antropologico
italiano, in M. Pavanello e M. Santova (a cura di), Bulgaria-Italia. Dibattiti, culture locali,
tradizioni, Casa Editrice dell’Accademia delle Scienze, Sofia 2006, p. 151. Cfr. anche F. Dei,
Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura popolare, Meltelmi, Roma 2002.
10
R. Bauman, Foklore, in R. Bauman (a cura di), Folklore, Cultural Performances, and
Popular Entertainments, Oxford University Press, New York 1992, pp. 30-31.
11
F. Dei, Dove si nasconde la cultura subalterna? Folk e popular nel dibattito antropologico
italiano, cit., p. 151.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 295

la contaminazione con culture diverse (popolari e non, italiane e non, teatrali


e sempre anche musicali), la riattivazione di tradizioni moriture, il loro capo-
volgimento parodico 12. Alla continuità si sostituisce la discontinuità e,
insieme, la costruzione di una tradizione capace di inscrivere in sé la cesura
con il recente passato e la conflittualità con la cultura ufficiale.
Inoltre, l’importanza e insieme la problematicità del rapporto con il po-
polare, che caratterizza alcuni percorsi artistici che tratteremo in seguito, trova
già nel varietà un importante antecedente. Pensiamo innanzitutto a Petrolini,
a Viviani, a Totò: tutti e tre sono espressione consapevole (e critica) non solo
della cultura popolare, intesa come una delle radici da cui muove, nei modi e
nei contenuti, l’elaborazione formale del loro linguaggio; ma anche, della
cultura popolare nella sua fase di crisi e di trasformazione, investita cioè dai
processi di industrializzazione che stanno riconfigurando il mercato dello
spettacolo (e l’avvio di una cultura di massa) ai primi del Novecento.
E dunque, in sintesi, le culture teatrali (italiane e non, popolari e non)
verso le quali gli attori di questa stagione del Nuovo Teatro si rivolgono per
rifondare un’altra tradizione sono, appunto: il varietà (Petrolini: Bene, Quar-
tucci, Sudano, de Berardinis; Totò e Viviani: de Berardinis), il teatro napole-
tano, in particolare di Petito (Cecchi, Neiwiller), di Eduardo De Filippo
(Bene, Cecchi, Neiwiller), ma anche e ancora di Viviani e di Totò; la sceneg-
giata napoletana (de Berardinis e Peragallo); i pupi siciliani (Quartucci); le
processioni e le feste religiose napoletane (de Berardinis e Peragallo, Neiwil-
ler). Con questi elementi si intrecciano riferimenti non italiani, quali: il Li-
ving Theatre (Quartucci, de Berardinis, Cecchi, i Santella); il pensiero e la
drammaturgia di Brecht (tutti), di Artaud (Bene esplicitamente a partire dal
1966; Cecchi, Neiwilller), di Beckett (Quartucci, Tatò, Sudano, de Berardinis,
Cecchi), di Jarry (Bene, i Santella); la riscoperta e il ‘riuso’ di alcune istanze
proprie delle avanguardie e in particolare del futurismo e del costruttivismo
russi (Quartucci, Bene, Cecchi), del futurismo italiano (Bene); del kabarett
berlinese (Neiwiller); l’incontro e l’esperienza con la pedagogia del mimo
francese (de Berardinis e Quartucci con Roy Bosier).
L’eterogeneità della cultura di riferimento investe anche altre aree lingui-
stiche: la musica, la letteratura, la poesia, l’arte figurativa e l’architettura, ita-
liane e non, contemporanee e non. Vale qui la pena ricordare almeno, e in-
nanzitutto, il rapporto con la musica che è in questa prima stagione del
Nuovo Teatro più significativa di altre in relazione all’attore: o come ele-
mento di provocazione contrappuntistica nel processo creativo (Quartucci che

12
Cfr. D. Orecchia, Temi e questioni di metodo per lo studio del comico grottesco in Ettore
Petrolini, in R. Caputo, L. Mariti (a cura di), Culture del teatro moderno e contemporaneo, Edi-
campus, Roma 2013, pp. 153-168.
296 DONATELLA ORECCHIA

allena i suoi attori facendoli recitare sulla musica di Stockhausen) o fonda-


mento strutturale del proprio teatro (Leo de Berardinis e Perla Peragallo
prima con la musica dodecafonica, in particolare Schönberg, che si alterna a
Verdi, ma anche alle canzoni popolari napoletane, e poi con il jazz; Bene per
il quale la musica è da sempre punto di partenza della sua attorialità, da Ros-
sini a Verdi alle sue collaborazioni con Gianni Luporini, Vittorio Gelmetti;
Quartucci e Stravinskij e le collaborazioni con Sergio Liberovici, Giorgio Ga-
slini, Vittorio Gelmetti e Fiorenzo Carpi) 13.
Le pagine che seguono si focalizzano sui teatranti della prima genera-
zione del Nuovo Teatro che, tutti nati intorno agli anni Trenta, esordiscono
alla fine dei Cinquanta (nel 1959 Bene con il Caligola, Quartucci con Aspet-
tando Godot, Remondi con la Moschetta) o nei primi anni Sessanta: Claudio
Remondi, Carmelo Bene, Carlo Quartucci, Leo de Berardinis, Cosimo Ci-
nieri, Perla Peragallo, Rino Sudano, Anna D’Offizi, Carlo Cecchi; poco più
giovani, Carla Tatò è qui presa in considerazione perché profondamente le-
gata al percorso di Quartucci. Antonio Neiwiller, qui inserito in un breve pa-
ragrafo finale, permette di mantenere aperto e problematico il discorso, tra-
ghettandolo oltre gli anni.
All’interno di tale contesto, sono stati individuati quattro modelli formali
d’attore che ci sono parsi più significativi nella prima fase del Nuovo Teatro,
enucleati in rapporto alla funzione che l’attore assume all’interno della scrit-
tura scenica: il (non)attore-artifex; l’attore lirico jazz; l’attore-joueur; l’attore
epico-analitico. Ciascun modello è analizzato attraverso un taglio storico che
affronta il particolare modus in cui quel modello si è realizzato (investendo
così questioni di poetica e di stile) soprattutto in relazione all’eredità interrotta
di cui si è detto e al rapporto con le tradizioni altre del teatro. Nell’epilogo,
una riflessione sull’ossimoro delle tradizioni che Neiwiller incarna non indi-
vidua un altro modello, bensì un territorio problematico di ricerca.

2. Il (non)attore-artifex: parodia tragicomica della tradizione. Carmelo Bene


«Avrete molte volte letto sui manifesti teatrali specialmente di caffè-con-
certo, la parola ‘creatore’ o ‘creatrice’ […]. Creare è un’altra cosa: è mettere al
mondo ciò che non esisteva prima. Il resto più che creare si chiama imitare […].
L’arte sta nel deformare. Si può essere deformatori colossali: esempi di grandi ar-
tisti deformatori: Dante, Michelangelo, Medardo Rosso, Beethoven, Victor
Hugo»14. Così scrive Ettore Petrolini. Se un antecedente a Carmelo Bene può

13
Si veda al sesto paragrafo del primo capitolo, in questo stesso volume.
14
E. Petrolini, Appunto autografo senza titolo, in Biblioteca Burcardo di Roma, Fondo
Petrolini, Autografi e Carteggi, Coll. AUT-PETR-04-B01-15. I corsivi sono nostri.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 297

essere rintracciato nella storia del teatro italiano del Novecento, questi è certa-
mente Petrolini 15 e proprio per la forza e la determinazione con la quale, dal
palco privilegiato del varietà nei primi decenni del Novecento, ha saputo passare
a contrappelo tutta la cultura a lui contemporanea. Attraverso un’attenta e sa-
piente riscrittura delle diverse tradizioni artistiche, Petrolini ha articolato una
poetica e uno stile d’attore che hanno fatto della parodia il modus principale del
suo operare: in cui metalinguaggio16 e grottesco si sono intrecciati in un’opera-
zione di decostruzione linguistica insuperata fino a Carmelo Bene.
Non si tratta di creare, appunto, ma di riscrivere “deformando”. Di una
scrittura scenica che è “di-scrittura” 17. Che trova nel corpo attoriale dell’artista il
suo luogo espressivo per eccellenza 18 e nella parodia tragico grottesca la sua cifra
stilistica. La sua urgenza nel rapporto conflittuale con il proprio tempo. «Si ri-
scrive perché non si può scrivere… Riscrivo soprattutto perché lo sento e mi
sento inattuale. Riscrivo perché mi vergogno di appartenere al mio tempo» 19.
Carmelo Bene 1966: una paradossale «emanazione tirannica e istrionica
dell’attore» 20, come la definì Ennio Flaiano, che si dilata fino a investire tutti i
codici spettacolari, in un modo apparentemente simile al Grande Attore ita-
liano dell’Ottocento: «un inconscio ritorno alle origini di quest’arte» 21 che, in
realtà, ne è un capovolgimento parodico. A partire dal singolare modo in cui
Bene lavora con il suo corpo d’attore, sul quale si sedimenta una lunga e stra-
tificata tradizione e una prodigiosa sapienza tecnica, e dal modo in cui, con
altrettanta prodigiosa sapienza, decostruisce il linguaggio, «toglie di scena»
l’Attore, elimina la «rappresentazione», si dipana buona parte della sua poetica
e prassi teatrale dai primi anni di attività e fino alla fine degli anni Settanta22.

15
«Studiavo anche Ettore Petrolini. Lo studiavo più di Ruggeri e Zacconi. Quella voce ta-
gliente, quegli occhi di ghiaccio. Quel palese disprezzo per il pubblico, che gli attori italiani si
sognano. Ci sono delle scimmie che ci provano a imitare Petrolini, avendo dei vocioni. Petro-
lini era invece taglientissimo»: C. Bene e G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 61.
16
Per la centralità dell’aspetto metalinguistico in Petrolini, cfr. in particolare le pagine di
E. Sanguineti, Il gesto verbale di Petrolini, in F. Angelini (a cura di), Petrolini la maschera e la
storia, Laterza, Roma-Bari 1984.
17
C. Bene, Opere, Bompiani, Milano 1995, p. 3
18
Bartolucci parla di un segno-base che è la sua persona-corpo e il suo essere scrittura-
azione.
19
C. Bene, L’orecchio mancante, Feltrinelli, Milano 1970, p. 172.
20
E. Flaiano, Il rosa e il nero di Carmelo Bene. Come vi piace di William Shakespeare (10
novembre 1966), in Id., Lo spettatore addormentato, Rizzoli, Milano 1983, p. 310.
21
Ibidem.
22
La distinzione fra un primo e un secondo Carmelo Bene o, quantomeno, la sottolinea-
tura di una discontinuità nel suo percorso di ricerca, è segnalata ormai da molti storici del tea-
tro: Petrini segnala una fase allegorico grottesca cui succede una simbolista (A. Petrini, Amleto
da Shakespeare a Laforgue per Carmelo Bene, ETS, Pisa 2004); Giacché colloca la discontinuità
298 DONATELLA ORECCHIA

«Per essere un grande attore uno deve avere tutti i requisiti ottocenteschi,
sia chiaro», anzi, meglio ancora se ha quelli di «Richard Burbage, di Shake-
speare, cioè degli interpreti elisabettiani che erano veramente completi, che pen-
savano a tutto» 23. Gli fa eco Carlo Cecchi in una testimonianza di rara efficacia
sui suoi primi anni di attività artistica, indicando il modo in cui Bene si rifà a
quella tradizione, capovolgendola parodicamente: «Era come se l’aura perduta
dell’Attore non la si potesse ritrovare se non attraverso il suo doppio; un doppio
derisorio e celebrativo allo stesso tempo» 24. Cioè a dire: Bene si colloca entro il
solco della storia del Grande Attore italiano – e quindi della tradizione teatrale
romantica innanzitutto – per esserne, consapevolmente, l’appendice tragico
grottesca. Del Grande Attore egli conosce «in maniera prodigiosa le tecniche
[…] e se ne serve; ma per che cosa? per deriderlo e per deridere la sua pretesa di
rappresentazione» 25, la sua idea di personaggio, di eroismo tragico, la sua ten-
sione al sublime. Per ribaltarne parodicamente l’identità 26.
I primi Amleto [FOCUS] sono in questo senso un emblematico esempio e
l’esplicitazione lampante della questione centrale della poetica di Bene, la ragio-
ne della parodia, della riscrittura destrutturante. Amleto è «un saggio sulla figura
dell’artista, sul suo funerale e sull’impossibilità dell’artista nell’arte borghese» 27,
afferma Bene, un saggio sull’impasse che è il tratto caratterizzante di tutta l’arte
contemporanea e, dunque, di tutto il teatro28. In una scena paradossalmente
«irrappresentabile» 29, Amleto è dunque per Bene-attore il terreno per la ricerca
di una presenza scenica segnata dal paradosso: di un attore che è un non-attore.

nel passaggio dalla non-rappresentazione all’irrappresentabile (P. Giacché, Carmelo Bene. Antro-
pologia di una macchina attoriale, Bompiani, Milano 2007 (II ed.), pp. 83-84).
23
Intervista a Carmelo Bene in M.G. Gregori, Il signore della scena. Regista e attore nel tea-
tro moderno e contemporaneo, Feltrinelli, Milano 1979.
24
C. Cecchi, Contro la rappresentazione, in AA.VV, Per Carmelo Bene, Linea d’ombra, Mi-
lano 1995, p. 68.
25
Ivi, pp. 68-69.
26
Operazione questa evidente fin dalle prime recite; non tanto nel Caligola, quanto
piuttosto nell’Amleto, in Pinocchio, in Gregorio e poi in Spettacolo Majakovskij, in Salomè, Faust
o Margherita, Nostra Signora dei Turchi, Il rosa e il nero, fino alla Cena delle Beffe, Romeo &
Giulietta, Riccardo III.
27
E. Z., Questa sera al Quirino torna Carmelo Bene con il suo pessimismo, «Momento sera»,
8 gennaio 1976, cit. in A. Petrini, Amleto da Shakespeare a Laforgue per Carmelo Bene, ETS, Pisa
2004, p. 87. Allo studio di Petrini rimando per un’analisi dell’Amleto di Bene. Cfr. anche il
[FOCUS] dedicato agli Amleto.
28
Cfr. R. Bianchi e G. Livio, Incontro con Carmelo Bene, «Quarta Parete», marzo 1976.
29
«Quando dico è irrappresentabile, dico è però, il teatro, è quindi è, ma poi irrappresen-
tabile. È con l’accento. Io non ho detto che il teatro non è rappresentabile, che è un’altra cosa: il
teatro è irrappresentabile. Qui i misticismi cadono tutti»: sono parole di Carmelo Bene, in Ivi,
p. 110.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 299

Come dare forma a ciò? Il non-attore liquida innanzitutto il personaggio:


ne nega la compattezza, ne smonta la coerenza, lo usa a pretesto. Del perso-
naggio proprio della tradizione romantica del Grande Attore italiano, così
come di quello psicologicamente definito del naturalismo, ma anche di quello
investito dalla crisi di fine Ottocento, resta solo la memoria sedimentata e re-
cuperata a frantumi. Tutto concorre a decostruirlo.
Innanzitutto, scompare l’intreccio all’interno del quale il personaggio
moderno trova la sua ragione e identità. La storia di Amleto è citata, non mai
rappresentata. Le scene, nella prima versione del 1962, si svolgono simulta-
neamente su più palcoscenici. Scompare il dialogo intersoggettivo. Del testo
dialogato (della parte), al quale l’attore di tradizione fa riferimento, non re-
stano che brandelli, pezzi montati in “a solo” 30, a loro volta posti in relazione
contrappuntistica con gli “a solo” degli altri attori in scena. Negli Amleto (dal
primo e fino alla versione del 1975) gli “a solo” procedono in autonomia, si-
multanei o sovrapposti, in una costruzione polifonica di voci costretta all’inco-
municabilità; in un assemblaggio di battute tratte dalle diverse scene e mon-
tate simultaneamente31 in «chiave letteraria joiciana» 32.
Attraverso la disarticolazione del linguaggio a ogni livello della costru-
zione scenica, Bene rompe l’unità della rappresentazione; attraverso il mon-
taggio di parti che mantengono una loro autonomia contrappuntistica, rea-
lizza un’opera che è «sintesi lirica in perpetua contraddizione con se stessa» 33,
che non è mai espressione di una soluzione, bensì processo in via di defini-
zione, impossibilitato a concludere 34.
Presa a pugnalate l’illusione rappresentativa, fra l’altro con quei copioni
sui leggii sparsi sul palco, da cui Bene strappa le pagine prima di pronunciare
le battute, la scena si fa poi decisamente metateatrale a partire dal 1965, con
l’inserimento esplicito di Laforgue 35. La «tragica esitazione amletica diventa
qui l’esitazione parodica del teatro a rappresentare Amleto: la scena non è al-

30
V. Valentini, Dopo il teatro moderno, Carlo Politi ed., Milano 1989, pp. 87-96.
31
«Ensemble vocale di Amleto, Claudio, Marcello, Francesco e Bernardo. Amleto che sfo-
glia un copione e annota mentalmente e parla d’altro da sé: Oh così questa troppo solida carne
si fondesse, ecc… e Claudio nel suo “Benché la memoria sia ancora verde del nostro caro fra-
tello Amleto re… ecc..”. Orazio allo spettro con i suoi “Parla! … ecc»: C. Bene, Amleto di W.
Shakespeare, in Id., Pinocchio Manon e Proposte per il teatro, Lerici, Milano 1964, p. 102.
32
Vice, Amleto disgregato, «Giornale d’Italia», 23-24 ottobre 1962. Nel 1965 «una specie di
collage dell’Amleto, con sovrapposizioni di battute, falsetti, isterismi, dizioni in coro»: S. Surchi,
Compromesso l’Amleto del terribile Carmelo, «La Nazione», 14 aprile 1965.
33
C. Bene, La voce di Narciso, in Id., Opere, cit., p. 1005.
34
Il rifiuto della formalizzazione compiuta e lo spostamento dell’attenzione sul processo
compositivo continuamente in fieri piuttosto che sul prodotto definito come linea costante del
Nuovo Teatro in questi anni.
35
Cfr. A. Petrini, Amleto da Shakespeare a Laforgue per Carmelo Bene, cit.
300 DONATELLA ORECCHIA

tro che il luogo di un’impasse portata all’estremo» 36. Ne è un chiaro esempio


l’incipit, dove gli attori vestiti in frak si affaccendano a preparare i bauli per la
loro tournée, passandosi il copione di mano in mano. Sembra, scrive Roberto
Tessari in relazione all’Amleto del 1975, «l’orchestra che sperimenta violini e
fiati prima di esercitarli con ordine su uno spartito», spartito che è tuttavia
«opera d’un artifex che non propone un’armonia esterna agli orchestrali, ma si
cala nel loro inarmonico incontro casuale complicandolo con la propria ‘di-
sarmonia’»37. Il non-attore è infatti anche la negazione del regista demiurgo,
«coordinatore social-filologico e artistoide […] il deus ex machina del simula-
cro definitivamente squalificato a confezione teatrale» 38. Assumere su di sé
tutte le funzioni spettacolari (di costumista, di scenografo, di direttore delle
luci, infine di regista) vale per Bene come prolungamento necessario dell’esse-
re attore/non-attore piuttosto che come coordinamento esterno del materiale
scenico da organizzare. L’artifex è regista per eccedenza del proprio protago-
nismo: «dilatazioni naturali e persino involontarie di un attore esposto»39. De-
leuze ha per questo motivo prediletto il termine «operatore» anziché attore,
per sottolineare l’atto della trasformazione dell’opera in operazione 40, lo spo-
stamento dal prodotto al processo.
E dunque, riassumendo ed ampliando oltre all’Amleto (che vale qui come
emblema di un percorso più vasto e articolato): Bene agisce in relazione alla
tradizione secondo un doppio percorso. Più di chiunque altro nel Nuovo
Teatro, affronta di petto la tradizione romantico-decadente del grande attore
proponendosi come sua appendice parodico grottesca; rispetto alle tradizioni
altre e marginali, assimila alcuni tratti propri del Varietà (soprattutto, attra-
verso Petrolini) nella riscrittura come deformazione, nell’irriverente rapporto
con il testo scritto, nel metalinguaggio quale conseguenza della riscrittura
parodica, talvolta anche nella costruzione spettacolare “a numero chiuso”
(Gregorio, cabaret dell’Ottocento), sempre e comunque nel dialogo contrap-
puntistico con la musica (come il varietà, l’attore non è concepibile al di fuori
di un rapporto con la musica/suono).

36
Ivi, p. 114.
37
R. Tessari, Un Amleto e una armatura, in R. Alonge e R. Tessari, Immagini del teatro
contemporaneo, Guida, Napoli 1977, p. 397. Sulla regia di Bene come una regia della crisi
rinvio al mio La regia della crisi. Frammenti per un dialogo. Carlo Quartucci, Carmelo Bene, Leo
de Berardinis e Perla Peragallo, in A. Audino (a cura di), Corpi e visioni. Indizi sul teatro contem-
poraneo, Artemide, Roma 2007.
38
C. Bene, La voce di Narciso, in Id., Opere, cit., p. 1010.
39
P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p. 56.
40
G. Deleuze, Un manifesto di meno, in C. Bene e G. Deleuze, Sovrapposizioni. Riccardo
III di Carmelo Bene. Un manifesto di meno di Gilles Deleuze, Feltrinelli, Milano 1981, p. 195.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 301

Facciamo ora ritorno in modo più circostanziato alla recitazione, per


sottolineare, pur nella continuità di alcune linee di ricerca, la discontinuità del
percorso di Bene.
Tutta sopra le righe, violenta, deformata, nell’Amleto del 1964, e poi del
1965 e degli spettacoli coevi, «alterna il grido o la distensione in acuti lanci-
nanti al sussurro volutamente inintelleggibile, a fonemi, spezzature, borbo-
rigmi […], mentre anche i movimenti sono eccessivi, provocatori, ripetuti, se
non fosse per degl’imprevedibili sincopati» 41.
Una recitazione, violenta, provocatoria che caratterizza non solo i primi
Amleto, ma anche Gregorio cabaret dell’Ottocento, i primi Pinocchio, Spettacolo
Majakovskij, Addio porco, i Polacchi, Nostra Signora dei Turchi: qui elementi
contrastanti convergono a smontarsi e contraddirsi e qui, sono ancora parole
di Carlo Cecchi, «uno strano espressionismo ‘dionisiaco’», non privo di mo-
menti di ebbrezza, è tenuto a bada da «una specie di parodia, di autoparo-
dia» 42. Da un lato, «uno straziato mostrarsi al pubblico nudo di qualsivoglia
“personaggio”, eppure costretto dalla finzione del “bell’argomento” a un per-
sonaggio “isterico, convulso, disintegrato” che non è più il personaggio di
Carmelo Bene ma è Carmelo Bene, artefice in scena che mostra un teatro
ineluttabilmente degradato e corrotto» 43; dall’altro «auspice Petrolini (“Stu-
diavo anche Ettore Petrolini. Lo studiavo più di Ruggeri e Zacconi”)44, un
continuo, contraddittorio, implacabile autocontrollo che lo porta a raggelare e
a mantenere sotto il segno di una poetica infine allegorica e straniata la sua
presenza scenica»45, a rivoltare in farsa ogni tentazione tragica o drammatica.
Il non-attore è infatti «la perfetta fusione del grande attore critico e
dell’istrione-cabotin» 46: e così l’irregolarità del cabotin, il disordine e l’impreve-
dibilità nell’atto comico, interrompono e ostacolano l’azione al grande attore,
costringono la critica a farsi autocritica parodica, come «alimentazione e rive-
lazione di un tragico che, proprio perché contraddetto ‘sospeso’, s’impone
come unico colore e dolore dominante»47. Il non attore rivela la sua natura cri-
tica e tragicomica.
Nonostante alcune significative linee di continuità, la cesura del percorso
di Bene alla fine degli anni Sessanta, e in seguito alla parentesi cinematogra-
fica che lo tiene per qualche anno lontano dal teatro, incide anche sull’attore

41
F. Quadri, Colloquio con Carmelo Bene, in Id., Il teatro degli anni settanta. Tradizione e
ricerca, Einaudi, Torino 1982, p. 310.
42
C. Cecchi, Contro la rappresentazione, cit., p. 68.
43
A. Petrini, Amleto da Shakespeare a Laforgue per Carmelo Bene, cit., p. 107.
44
C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 61.
45
A. Petrini, Amleto da Shakespeare a Laforgue per Carmelo Bene, cit., p. 108.
46
C. Bene, La voce di Narciso, in Id., Opere, cit., p. 1026.
47
P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p. 50.
302 DONATELLA ORECCHIA

che è Bene48. La fase anarchica lascia il posto al disincanto e a una specie di


stoicismo, cui si collega da principio una recitazione dai tratti più introversi.
Nell’Amleto del 1975, per esempio, non domina più il «grottesco beffardo e
impudente dei primi anni», quanto piuttosto un «doloroso sentimento della
fine» 49: «Questo è l’Amleto più comico e più funebre che sia mai stato imma-
ginato» 50.
Al venire meno della sovrapposizione di scene recitate simultaneamente
si sostituisce qui un montaggio di pezzi che potremmo definire cinematogra-
fico, con la conseguenza di isolare ancor più, in modo quasi espressionistico, i
singoli interventi recitativi (gli a solo) e di scomporre la scena in «sparpagliati
frantumi con soprassalti e trabalzi e bruschi passaggi» 51. Immagine e parola
sempre più hanno rapporti di dissociazione, mentre l’uso saltuario del play
back, che accentua qui l’elemento epico e straniato 52, prelude a un ben più
ampio uso della tecnologia e del lavoro sulla phoné, che caratterizzerà il per-
corso di Bene, soprattutto dal Manfred in poi.
Certo, Bene sosterrà più tardi di avere iniziato nel primo decennio a reci-
tare «come già avessi incorporata una strumentazione fonica a venire»53. Ep-
pure, solo in seguito, a partire dagli anni ottanta, dagli “spettacoli concerto”,
tutto ciò diviene espressione di una poetica di cui la phonè è il cardine, mentre
il corpo si manifesta come “macchina attoriale”, strumento fonatorio.
I concerti che s’inaugurano con il Manfred e proseguono con Spettacolo-
concerto-Majakovskij, l’Hyperion, l’Egmont, ma anche I canti orfici, l’Adelchi, Pi-
nocchio [FOCUS], Macbeth, Lorenzaccio, Homelette for Hamlet, fino ad Hamlet-
suite [FOCUS], sono espressione di una cesura nel percorso di Bene, il prevalere,
da un certo momento in avanti, della tensione positiva verso l’irrappresentabile
(anziché di quella conflittuale e antagonista della non-rappresentazione), di un
lirismo simbolista (anziché di un allegorismo grottesco), dell’invenzione del
canto (anziché del rifiuto e della demolizione della finzione). Ne sono esempi

48
Ci sono, già prima del 1968, alcuni sintomi interessanti del cambiamento di Bene.
Nell’edizione dell’Amleto del 1967, in un’apparente posizione defilata, seduto in proscenio,
Bene scruta, legge piccoli bigliettini, sussurra, bofonchia, ride e commenta la scena, rinun-
ciando al protagonismo espanso e violento degli anni precedenti. Ma è una parentesi. Anche
Arden of Feversham del 1968 va nella stessa direzione, di sottrazione della presenza attoriale di
Bene dalla scena, che troverà poi una differente forma per dirsi, dopo il temporaneo abbandono
del teatro durante la parentesi del cinema. Cfr. S. Margiotta, Il Nuovo Teatro in Italia 1968-
1975, Titivillus, Corazzano 2013, pp. 21-24.
49
A. Petrini, Amleto da Shakespeare a Laforgue per Carmelo Bene, cit., p. 145.
50
Bene in D. Righetti, Il principe triste è diventato un clown, «Il Giorno», 28 ottobre 1975.
51
A.M. Ripellino, Che donnina, quell’Amleto, «L’Espresso», 25 gennaio 1976, p. 63.
52
G. Prosperi, Carmelo-Amleto follia con metodo, «Il Tempo», 10 gennaio 1976.
53
C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 337.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 303

chiari gli elementi strutturali di questi spettacoli-concerto: movimenti degli at-


tori ridotti, presenza di musicisti in scena, prevalenza della scrittura musicale e
vocale su quella scenica, ampio uso del play-back e sempre più sofisticata stru-
mentazione fonica. «Il C.B. degli anni ’80 viaggia su enormi tir e i suoi diven-
tano allestimenti da grandi concerti rock. Gli ingegneri del suono i suoi interlo-
cutori privilegiati. Le sue “scatole sonore”, il play-back, l’amplificazione, i mi-
crofoni ipersensibili, monitor-spie da diecimila watt in scena, banchi effetti ca-
paci di riverberare, clonare, echeggiare, registratori multipiste digitali, campio-
nature elettroniche del suono e della voce, ecc…» 54.
Alla base di questa ricerca d’attore, la voce, in cui tende a riassumersi
tutto il teatro di Bene. Una voce che, spiega Gaetano Luporini, sa essere poli-
fonica in modo analogo alla polifonia per un solo strumento delle Suites per
violoncello di Bach: una polifonia «attuata tramite segmentazione delle frasi
musicali in cellule ritmico-melodiche, in cadenze, in pause che richiamano
altrettante risposte imitate o contraddette», «un tessuto vocale quanto mai va-
riegato», solcato da incisi ritmici, sospensioni, cambi di registri, pause, rallen-
tamenti e accelerazioni 55. Il corpo è macchina attoriale intesa come strumento,
mentre la gestualità residua è ormai composta solo «di lampi e languori, di
abbandoni attoniti e di bruschi contorcimenti del volto» che continuano tutta-
via «a trasmettere i motivi di un disagio attoriale che ormai, più che contro la
scena, è contro il suo stesso canto»56.

3. L’attore lirico-jazz: il leader e la batteria. Leo e Perla e il “teatro


dell’ignoranza”
«La presenza in scena dell’attore lirico è una sintesi teatrale, un blocco
unico tra autore, interprete, scenografo, luci: è un tutt’uno che però esprime se
stesso. L’attore lirico non “rappresenta”, ma è teatro. Non fa teatro, è teatro.
Non produce merce, non è merce. È» 57.
La donna (Perla) è «D’Annunzio, Di Giacomo, Roberto Murolo, France-
sca Bertini, e forse anche l’opera», Leo è «Schönberg, e l’atonalità, è il roman-
ticismo dell’angoscia, e a tratti il tentativo di recupero dell’origine popolare

54
Ivi, p. 336.
55
G. Luporini, Un ricordo per Carmelo, Lucca, 10 luglio 2002, in A CB, a cura di G. Costa,
Editoria & spettacolo, Roma 2003, p. 53.
56
P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p. 138.
57
Per un teatro jazz. Intervista con Leo de Berardinis, a cura di O. Ponte di Pino, in
http://www.trax.it/olivieropdp/leo83.htm; pubblicata originariamente in J. Gelber, La connec-
tion con l’intervento di Leo de Berardinis, Ubulibri, Milano 1983.
304 DONATELLA ORECCHIA

con il free-jazz» 58; il padre (Sebastiano Devastato) è «l’irrompere della tromba,


della luce finalmente a giorno, della sceneggiata»59.
La «recitazione in dialetto della sceneggiata» si incontra in uno stesso
spazio con «la declamazione, deformata, frammentata, sillabata e parodiata, di
versi (fra l’altro Baudelaire e Rimbaud posti come epigrafi ai due tempi) e di
prose di ogni genere» 60. Un’orchestrina di musicanti (tutti sottoproletari di
Marigliano, vestiti di nero) campeggia al centro della scena, entra in un rap-
porto d’improvvisazione jazzistica con gli attori, smembra le canzoni napole-
tane in «sconnessi brandelli acustici, le flebili frasi del cuore si ingorgano in
mulinelli di gridi» 61. Sugli schermi sono proiettate in simultanea immagini di
vita campestre da cartolina, dei vicoli di Napoli, di fiori e nuvole d’oro: imma-
gini dove reale e kitsch si intrecciano senza soluzione di continuità. Al rumore
il compito di straniare il kitsch «con incastri di rugghi e gracidamenti viscerali,
di vocaboli mozzi e protervi barriti da musica barrelhouse» 62.
È il 1971: Leo e Perla sono a Marigliano da un anno e portano in scena
‘O Zappatore [FOCUS], da una famosa sceneggiata su versi di Libero Bovio e
musica di Ferdinando Albano, l’unico spettacolo vero e proprio del periodo.
Dopo i primi anni di attività romana 63, dopo il Convegno di Ivrea e il
Don Chisciotte accanto a Carmelo Bene, nel 1970 Leo e Perla hanno infatti
scelto di abbandonare la capitale per un «disgusto storico e esistenziale» nei
confronti del teatro contemporaneo ufficiale e delle cantine, ma anche per una
impasse che ha investito il loro già allora raffinatissimo teatro: «dal ’70, ci
siamo trasferiti a Marigliano, ho incominciato a far divorare dal dialetto gli
strumenti personali acquisiti negli anni sessanta e diventati ormai dopo il ’68
reazionari» 64.
A Marigliano, un paese dell’entroterra campano, dove si stabiliscono in
una masseria insieme a Cosimo Cinieri, Sasà Siniscalchi e Piero Panza, Leo e
Perla avviano un processo «violento e doloroso, senza nessun margine per

58
G. Fofi, I Padri Zappatori, «Ombre rosse», marzo 1974.
59
Ibidem.
60
A. Blandi, “Sceneggiata” d’avanguardia, «La Stampa», 12 aprile 1972.
61
A.M. Ripellino, Mezza Napoli nel tritacarne, «L’Espresso», 19 novembre 1972, p. 22.
62
Ibidem.
63
Si veda in questo volume al capitolo secondo, di Valentina Valentini.
64
L. de Berardinis, Marigliano, in F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia (materiali
1960-1976), Einaudi, Torino 197, p. 298. Rimando anche in questo caso alle pagine di Barto-
lucci sulla luce-movimento, sulla funzione innovatrice totale degli elementi luce, corpo, ru-
more intesi come segni di un linguaggio che procede per composizione e scomposizione, in un
delirio scenico che si fa «strumento stilistico in grado di rovesciare una situazione di rapporti
scenici tradizionali»: G. Bartolucci, La luce-movimento-rumore in De Beradinis-Peragallo, in Id.,
La scrittura scenica, Lerici, Roma 1968, p. 56.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 305

delle facili pacificazioni» 65: di conoscenza del territorio e dei suoi abitanti,
della loro cultura che si impasta e reagisce con la propria, in un cortocircuito
rigenerante66.
È bene ricordare che l’attenzione per la cultura popolare è atteggiamento
diffuso negli anni Cinquanta e Sessanta in Italia e gli studi antropologici, in
particolare i lavori di Ernesto de Martino, ne sono il segno più chiaro e im-
portante. La nozione, d’impronta gramsciana, di cultura popolare e di folklore
si afferma nei principali studi: da un lato come un «agglomerato indigesto di
frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute
nella storia, della maggior parte delle quali, anzi, solo nel folclore si trovano i
superstiti documenti mutili e contaminati» 67; dall’altro, per il suo stesso con-
trapporsi alla cultura ufficiale e delle classi colte, come espressione di «una se-
rie di innovazioni, spesso creative e progressiste, determinate spontaneamente
da forme e condizioni di vita in processo di sviluppo e che sono in contraddi-
zione, o semplicemente diverse, dalla morale degli strati dirigenti» 68.
L’influenza di questo modo di intendere il popolare sul Nuovo Teatro
non è diretto; eppure, il particolare percorso di Leo de Berardinis e Perla Pe-
ragallo a partire dal 1970 è certamente erede di quella temperie culturale e di
quella sensibilità, in un momento in cui a loro pare consumata la prima fase
del teatro di ricerca italiano69.
Intesa la cultura popolare in senso gramsciano, come «agglomerato indi-
gesto di frammenti», «superstiti documenti mutili e contaminati» di culture
antiche, talvolta reazionarie, ma comunque in contraddizione con la cultura
egemone, l’obiettivo è porsi nella situazione di fare reagire se stessi e la propria
sapienza scenica, la propria cultura di origine (la propria “ignoranza”) con
materiali inediti; realizzare quell’operazione di destrutturazione e contami-
nazione dei materiali, delle forme, dei generi e dei linguaggi che, all’interno
della cultura così detta alta e di fronte a un pubblico della borghesia colta e

65
N. Garrone, “Con me la sceneggiata diventa teatro di classe”, «La Repubblica»,10 giugno
1976.
66
L’attività non prevede da principio la creazione di nuovi spettacoli, quanto piuttosto la
realizzazione d’interventi pubblici che coinvolgano gran parte del paese: «Improvvisavo scene,
io, Sebastiano... Facevo partecipare tutta la popolazione ... Discutevo ... Abbiamo fatto mostre
di quadri [...] Li facevo discutere ... E interviste. Moltissime»: Incontro con Leo de Berardinis e
Perla Peragallo, a cura di R. Bianchi e G. Livio, «Quarta parete», nn. 3-4, 1977.
67
A. Gramsci, Quaderni dal carcere, a cura di V. Gerratana, vol. III, Quaderno 27 (XI)
1935, Einaudi, Torino 2007, p. 2312.
68
Ivi, p. 2313. Cfr. F. Dei, Dove si nasconde la cultura subalterna? Folk e popular nel dibat-
tito antropologico, cit.
69
Cfr. per esempio anche le pagine di Franco Quadri in Materiali per una non-introdu-
zione, in Id., L’avanguardia teatrale italiana (materiali 1960-1976), cit., vol. I.
306 DONATELLA ORECCHIA

intellettuale romana, non è più possibile. La “lingua altra” è usata nella sua
contraddizione con la lingua di partenza attorica di Leo e Perla «come corpo
contundente», cosicché «dall’urto, schegge di attualità s’incidono sulla lingua
poetica producendo cortocircuiti, dislivelli parodici, drastiche interruzioni» 70.
E facciamo ritorno a ‘O Zappatore. Dalla sceneggiata tradizionale 71
(esempio emblematico di rappresentazione della cultura popolare napoletana
che, sebbene negli anni Settanta in decadenza, esprime ancora un importante
riferimento per la comunità del sottoproletariato urbano e rurale campano),
Leo e Perla traggono il materiale per un apologo sull’arte contemporanea e
sulla propria esperienza recente. Ecco che le tre figure, il padre (Giggino), il
figlio (Leo de Berardinis), la signora (Perla Peragallo), rappresentano cia-
scuno simbolicamente una dimensione culturale specifica: il padre, la sceneg-
giata; la donna, la decadenza del mondo melodrammatico tardo ottocentesco
borghese; il figlio il prodotto del costume e della moda che si nutre di jazz,
come i figli della borghesia anni Cinquanta e che si trasforma in hippy nei
Sessanta, suona il sassofono e forse è un artista d’avanguardia. Attraverso
l’attore, le tre culture, con i loro modelli recitativi di riferimento, coesistono
sullo stesso palcoscenico e la forza del contatto (senza manipolazione) 72 pro-
voca cortocircuiti imprevisti e un confronto, nei fatti, di punti di vista, di tecni-
che, di disperazioni.
In particolare, le caratteristiche d’attore di Leo de Berardinis trovano qui
nuova e inedita collocazione e significato. Fin da principio attento alla defini-
zione raffinata del gesto altamente formalizzato, senza sbavature 73 e insieme
sempre straniato, con un atteggiamento intellettuale e una cifra parodica e au-
toparodica, Leo costringe qui se stesso entro una situazione scenica che rende
evidente il nodo centrale della sua problematica artistica: il «signorino con il
sax» è metafora del tragico impasse nel quale si muove l’arte d’avanguardia, che
non può farsi effettivamente borghese come non può, d’altra parte, recuperare a
pieno una vitalità popolare, ma si danna fra l’atonalità di Schönberg e la libertà
improvvisativa del jazz e finisce giocando a scacchi, bendato e solo, al centro del

70
Faccio riferimento a una riflessione di Francesco Muzzioli in L’alternativa letteraria,
Meltemi, Roma 2001, p. 45.
71
Genere teatrale popolare che nasce ufficialmente nel 1919, in seguito all’emanazione di
una legge che aumenta le tasse sugli spettacoli di varietà basati sulle canzoni: la sceneggiata,
prendendo lo spunto da una canzone, sviluppa tuttavia una trama e può essere pertanto classi-
ficata come commedia. Cfr. per un discorso articolato P. Scialò (a cura di), La sceneggiata-Rap-
presentazioni di un genere popolare, Guida, Napoli 2002.
72
F. Quadri, Materiali per una non-introduzione, cit., vol. I, pp. 26-27.
73
Cfr. G. Manzella, La bellezza amara. Arte e vita di Leo de Berardinis, La casa Usher,
Lucca 2010, p. 101. A Manzella rimando per un’analisi dell’intero percorso di Leo de Berardi-
nis, anche successivo agli anni qui trattati.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 307

palco. Inoltre avviene allora l’approfondimento dell’uso del dialetto, già speri-
mentato nel periodo romano, ma qui vissuto più in profondità, «dialetto usato
non in senso veristico, ma in quelle che chiamo intonazioni concrete – da non
confondere con la musica concreta – cioè pezzi, frammenti, da inserire nella
composizione, alla maniera pop. Quindi una aggregazione abbastanza com-
plessa di un fraseggio completamente inventato con un altro fraseggio, che è la
traduzione del fraseggio originario nel quale vengono inserite sillabe e parole. È
la sintassi sonora che dovrebbe far parte del bagaglio di ogni attore, di quello che
chiamo attore jazz, o attore lirico» 74.
Perla Peragallo è qui una ballerina che «bianchissima trottola, si aggira e
barcolla come un’afflitta Taglioni da caffè concerto», la sciantosa-cigno con i
piedi fasciati come una ballerina classica che ora «si accuccia avvilita» e ora
«prorompe in urli e crampi grotteschi, rabbiosa come una Gonerilla da barac-
cone», ora con ingenua soavità «vezzeggia, quasi a volerli acquietare, i dannati
strumenti. Blandisce il violino, strofina con una pezzuola il clarino, i tamburi,
carezza la tromba e la posa come una bambola su un nero guanciale da carro
mortuario» 75: il «viso bianco-violaceo», «la voce è un rantolo volgare, viscerale;
il modo di camminare goffo animalesco, feroce; le unghie scure, le dita sono
tese, graffiano lo spettatore per insegnargli chissà quale canzone di miseria e
di abbandono» 76. Qui, come d’ora in avanti accadrà, la potente presenza sce-
nica di Perla, il suo temperamento tragico, la sua raffinata sensibilità musicale,
il suo virtuosismo vocale si coniugano sempre più con qualcosa di visceral-
mente sanguigno e cerebrale insieme, una specie di forza popolaresca violenta,
una furibonda ribellione fisiologica che ha forse messo a fuoco proprio negli
anni di Marigliano e che trova forme dissonanti per esprimersi, «gesti animali,
eppure sordamente anelanti a una angelicità»77, scriverà Guerrieri qualche
anno più tardi, «smorfie scimmiesche, urla con voce squarciata di guitta e di
rivendugliola» 78: una rabbia sorda, quasi ancestrale, che diviene il perno in-
torno al quale ruota l’intero spettacolo e indica, come un basso continuo, il
tempo della recita79.

74
L. de Berardinis, Per un teatro jazz, cit.
75
A.M. Ripellino, Mezza Napoli nel tritacarne, cit.
76
M. d’Abbicco, Appuntamento per una denuncia, «Rocca», n. 17, 1 settembre 1976, cit. in
M. La Monica, Il poeta scenico, Perla Peragallo e il teatro, Editoria e spettacolo 2002, p. 65.
77
G. Guerrieri, Pulcinella e Viviani tornano dal futuro, «Il Giorno», 4 maggio 1975.
78
A.M. Ripellino, Lazzaro fa il marameo, «L’Espresso», 29 giugno 1975.
79
Così spiega Leo de Berardinis: «essendo lei arrabbiata sempre in un determinato modo,
forse -...forse può determinare quel punto focale attorno al quale... in effetti lei ha sempre fatto
da perno allo spettacolo...», Incontro con Leo de Berardinis e Perla Peragallo, a cura di R. Bianchi
e G. Livio, cit., p. 181.
308 DONATELLA ORECCHIA

Ricordando questi anni Giuseppe Bartolucci scriverà: «Ne derivavano rap-


presentazioni sempre più lugubri, sempre più perdute, dove gli anormali per-
sonaggi di un paese, un po’ pazzi, un po’ idioti, erano costretti a esibire la loro
grandiosa capacità a non farsi assorbire … Leo-Perla, da un lato mettevano in
mostra la loro inguaribile tensione verso il diverso, verso l’emarginazione, in
un isolamento voluto e disperato, dall’altro lato lasciavano derisoriamente an-
dare alla deriva i loro compagni di strada, e li insultavano, li massacravano,
con pietà dolcissima di fondo» 80.
E qui, in questa discesa all’inferno, «la loro vena interpretativa si irrora di
una immaginario diabolicamente vitale, di una visionarietà dove brandelli di
vita e di cultura galleggiano»81.
Assoli [FOCUS] è, non a caso, il titolo dello spettacolo del 1977 che vede ri-
dotta la presenza degli attori di Marigliano, eliminata la contrapposizione
dialettica fra mondi e culture e assorbita entro il linguaggio del singolo
l’esperienza di quegli anni trascorsi. In scena Leo («gagà di periferia, cappello
in testa e bavero rialzato, l’aria vissuta e un po’ blasée, l’occhio annoiato di chi
la sa lunga»)82, Perla (vestitino e calzamaglia nera, parla in uno pseudo dia-
letto partenopeo con inflessioni francesi) e Nunzio Spezia; alle luci, Ciccio
Capasso. Fra montagne di polistirolo bianco, circondati da quattro file di
lampadine bianche e verdi (luminarie di una festa distrutta), qualche mattone,
una radiolina, una lamiera nera in formica (il mare), le quattro figure si muo-
vono quasi sempre a carponi.
È particolarmente chiaro qui il ruolo sostenuto da Leo e Perla, la figura
di Leo rispetto all’ensemble jazzistico.
Leo è “leader”, regista in scena e, insieme, è parodia del regista: coordi-
natore di frammenti che non si possono tuttavia comporre in un tutto orga-
nico, responsabile di mantenere l’esile filo di una trama che è «una trama folle
allucinata asintattica, spezzata lacerata»83. Su questo esile filo narrativo (un
intellettuale per fare soldi va a Parigi dove s’incontra con un mondo quasi
subumano; sogna di costruire un «ponte intercontinentale» insieme a un so-
cio; la donna che costruisce un ponte dalla buca del suggeritore fino al mare
per il suo topolino) Leo può incastonare i frammenti degli altri, che presto si
fanno pezzi (assoli) a formare un concerto dissonante: «lei passionalmente
grintosa nel dialetto napoletano che si è assunta, lui più controllato, occhieg-
giando ironicamente l’avanspettacolo, entrambi elaborando stralci da sceneg-

80
G. Bartolucci, Tra Carella e Leo (1977), in Id., Testi critici 1964-1987, cit., p. 272.
81
Ivi, p. 273.
82
P. Giovannini, I bassifondi di Leo e Perla, «Il Resto del Carlino», 7 marzo 1977.
83
G. Livio, I poeti dovrebbero essere sacri. Perla Peragallo, «L’Asino di B.», novembre 2002,
p. 21.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 309

giata, dove però la trama non importa più nulla, ma in compenso valgono
tutti gli imprestiti e le divagazioni, perché ogni citazione venga ricondotta at-
traverso una mediazione deformata e stravolgente a un dato popolare, e prati-
camente annientata»84.
Accanto a lui, Perla «un riferimento costante, qualcosa di fisso, la martellata
che arriva ogni tanto» 85, assolve alla funzione – che nel jazz è svolta solitamente
dal batterista – di definire il tempo e di tenerlo e, insieme, di sviluppare un di-
scorso che si manterrà sempre parzialmente autonomo e parallelo rispetto a
quello degli altri; infine, provocati, stimolati, talvolta straniati nel loro recitare da
Leo-leader, gli altri attori o musicisti costruiscono le parti della recita.
A distanza di qualche anno l’esperienza di Marigliano è ormai comple-
tamente conclusa e assimilata entro il nuovo percorso di Leo e di Perla 86. Na-
sce allora, nel 1978, Avita murì [FOCUS]: «una tragicomica ballata di morte» 87.
«Lui è un Pulcinella calcagnato che tenta di parlare fiorentino, lei una Co-
lombina storpia aggrappata alle stampelle» 88: due maschere della tradizione
che nel meridione rappresentano, l’una, il sottoproletariato, la fame atavica
sempre insoddisfatta; l’altra, la purezza e insieme la concretezza della terra e
della procreazione, qui tuttavia degradate. Lui parla in fiorentino, lei è storpia;
i loro dialoghi sono luoghi comuni, proverbi smozzicati, di una cultura popo-
lare che torna a brandelli. Come «sopravvissuti cercano delle parole che non
trovano più, si confrontano con un discorso ormai inutile, ripescano luoghi
comuni del più vieto avanspettacolo, quiproquo da far impallidire il primo
Ionesco, s’arrabattono con una caccavella elevata alla dignità di figlio, improv-
visano sopra Stravinskij della colonna sonora un mirabile concerto con due
lattine di birra vuote e le loro voci ai microfoni» 89. «La stessa disarticolazione,
il girare a vuoto del linguaggio, che Beckett o Ionesco hanno attribuito alla
comunicazione borghese […] si applica qui al mondo della popolarità impro-
babile, pur cercata come ancora di salvezza. Essa si rovescia, su questa scena,

84
F. Quadri, Assoli, «Panorama», 22 marzo 1977.
85
Incontro con Leo de Berardinis e Perla Peragallo, cit., p. 180.
86
Di ciò Leo de Berardinis dà ragioni diverse rispetto a quel che parte della critica di al-
lora sostiene (l’esaurimento, cioè, e il fallimento degli anni di Marigliano): «Ora facciamo lo
spettacolo da soli per vari motivi. Primo, perché la gente che sta con noi è gente che lavora [...]
hanno bisogno di essere occupati, mica fanno gli artisti nel senso borghese [...] e quindi non
potendo io affrontare una spesa economica di questo tipo: mi hanno lasciato, giustamente. Il
secondo fatto è che io e Perla dopo tutte queste esperienze volevamo riverificarci da soli in
scena»: Intervista a Leo de Berardinis: S. De Matteis, Leo e Perla: lavorare col sud che c’è al nord,
«Scena», n. 3/4, 1978, p. 35.
87
L. Lapini, Una tragicomica ballata di morte, «Paese sera», 28 gennaio 1978.
88
F. Quadri, Avita murì, «Panorama», 14 febbraio 1978.
89
Ibidem.
310 DONATELLA ORECCHIA

in brandelli: resti di dialetto, tiritere di “nonsense”, associazioni banali e idiote


di suoni, “calembours”, citazioni della retorica sentimentale, dell’oleografia di
cartoline, delle illustrazioni di appendice, o delle “maschere” della rappresen-
tazione tipica (Eduardo e Totò) della napoletaneità» 90.
Da Stravinskij, che dà il tempo iniziale, e dai proverbi smozzicati, i due
attori passano infine a un linguaggio altro, astratto, in cui «suono e rumore,
canto e parlato sono un tutt’uno» e il concerto improvvisato su lattine di birra
diventa «una salmodia atroce sull’umanità ormai agonizzante» 91.
L’ipotesi, che aveva in gran parte mantenuto in vita l’esperienza di Mari-
gliano, è venuta a decadere perché sono mutate le condizioni storiche e sociali.
Nel corso degli anni Settanta, «i meccanismi dell’industria culturale rendono
problematico l’assunto per cui, a una determinata appartenenza di classe, cor-
risponderebbe una sfera relativamente autonoma della produzione, della cir-
colazione e della fruizione di prodotti culturali» 92. «Abbiamo sbagliato strada
un’altra volta… purtroppo… fortunatamente» è una delle ultime battute di
Avita murì.
Nel 1981 Perla Peragallo abbandona le scene. La sua presenza, tuttavia,
dietro le quinte degli spettacoli di Leo e nei corsi della sua scuola “Il mulino
di Fiora” 93, segnerà ancora per qualche anno la storia del teatro italiano, al-
meno per alcuni. Leo proseguirà da solo. «Lo sforzo a questo punto, per Leo,
diventava quello di assumere su di sé anche la parte di Perla. Di far sua una
tragicità più femminile […]. Comincia qui, almeno nell’immaginario, l’avvi-
cinamento di Leo alle radici della tradizione teatrale», la sua necessità di riap-
propriarsi di un passato sentito nostalgicamente come assente: Gianni Man-
zella ricorda Petrolini, Viviani, Totò, il varietà, e poi Artaud, Keaton, Mari-
netti, Majakovskij, Beckett 94. Ricorda le serate al Beat 72 in cui, ospitato da
Simone Carella, Leo aveva licenza di intervenire a piacere nel corso delle se-
rate, in improvvisazioni estemporanee a rievocare, come indossando una ma-
schera sempre differente, episodi e figure di una tradizione da ricostruire95.
Eppure tutto il percorso precedente era già stato un confronto con le tra-
dizioni. Dove si colloca allora la cesura? Una cesura nel percorso personale,
che coincide con un mutamento profondo del contesto sociale e culturale, con
riflusso degli anni Ottanta. Da un lato, Leo in scena progressivamente assorbe

90
A. Cascetta, Anche Pulcinella un mito distrutto, «Il Popolo», 19 aprile 1978.
91
G. Davico Bonino, Pulcinella, Colombina poi la fine del mondo, «La Stampa», 7 aprile 1978.
92
F. Dei, Dove si nasconde la cultura subalterna? Folk e popular nel dibattito antropologico, cit.
93
Fra i suoi allievi Roberto Latini, Ascanio Celestini, Ilaria Drago, Valentina Capone.
94
Leo de Berardinis Re incarna Buzzi, Cangiullo, Corra, Buster Keaton, Majakovskij, Ma-
rinetti, Palazzeschi, Petrolini, Totò, Raffaele Viviani, di e con Leo de Berardinis.
95
G. Manzella, La bellezza amara. Arte e vita di Leo de Berardinis, cit., pp. 106-109.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 311

nella propria recitazione una tragicità più femminile, come sostiene Manzella
(percorso che culminerà nell’Ilse dei Giganti della Montagna del 1993) e pro-
cede intanto verso uno stile più sobrio, più assorto; dall’altro si apre alla con-
divisione, e presto alla pedagogia, riscoprendo nella propria storia artistica e
nelle tradizioni del teatro quei saperi e quelle memorie che si fanno fonda-
menti di un essere attore nella contemporaneità («attore si nasce, ma si di-
venta» amava ripetere Leo).
Chiusa dunque la parentesi romana, i tempi dell’eversione e anche del suo
fallimento, con The connection (1983), nuovo spettacolo epilogo, Leo ricomincia
a Bologna. E il nuovo inizio avviene presto all’insegna di Shakespeare (Amleto,
poi Lear, poi la Tempesta), dell’apertura a nuove collaborazioni e dell’avvio di
un percorso pedagogico che da allora in poi si alternerà con momenti di assoluta
solitudine scenica (per esempio l’Uomo capovolto del 1987). In questi anni si
colloca anche il confronto diretto con Eduardo (Ha da passa’ ‘a nuttata, 1989) e
con Totò (Totò, principe di Danimarca, 1990) [FOCUS].
Leo nei tempi della ricostruzione: attore e operatore culturale, attore e
pedagogo. Per riprendere a costruire dopo le macerie, in un tempo in cui ac-
canto alla «necessità della sperimentazione come superamento dei limiti fissati
[…] resta l’irrinunciabile vitalità del conflitto» 96. «Ogni volta è un azzera-
mento totale. Ogni volta bisogna ricominciare daccapo. In ogni spettacolo,
nego il teatro facendolo. In questo senso si tratta di “teatro-saggio”, di teatro
usato come strumento di conoscenza» 97.

4. L’attore-joueur: la tradizione ricostruita, la lingua-corpo e tortura


della recitazione. Carlo Cecchi
«Il teatro non è mai naturalistico. Anche se ha a che fare con un testo
naturalistico, il teatro è sempre convenzionale. E anche là dove lo rinnega, ha
un rapporto con un qualche rito perduto. Per naturalezza intendo il luogo
naturale per l’attore. Nel teatro napoletano esistono medi, piccoli e minimi
attori, ma è quello spazio che è diverso. È un diverso modo di essere in quello
spazio, dove l’elemento gioco, il play, è molto importante, vitale. In teatro av-
viene nel momento in cui avviene, lì e allora, e questo non l’ho mai ritrovato
nel teatro italiano»98.
L’Accademia d’Arte Drammatica di Roma (frequentata dal 1969 al 1970 e
poi abbandonata), il teatro a Napoli (durante gli anni universitari e, poi, in

96
Ivi.
97
L. de Berardinis, Per un teatro jazz, cit.
98
C. Cecchi, Datemi un attore, intervista a cura di M. Grande, «Rinascita», n. 37, 1984, p. 21.
312 DONATELLA ORECCHIA

una breve esperienza in compagnia con Eduardo De Filippo 99), l’incontro con
il Living Theatre: di qui prende l’avvio il percorso di ricerca di Carlo Cecchi
attore. E se lasciare l’Accademia è il primo atto di opposizione al teatro istitu-
zionale a lui contemporaneo e alla formazione lì impartita, il Living Theatre è
il contesto in cui impara «il valore della partecipazione collettiva, la plasticità
del gesto, l’esattezza dei ritmi vocali e dinamici, l’uso della sottolineatura sonora
(con qualche imprestito dei Bread and Puppet e anche della scuola americana
di Chaikin), il senso dello spazio in cui lo spessore dei corpi si fa scenografia» 100,
mentre l’esperienza del teatro napoletano è la via per trovare finalmente un
modello di riferimento, una tradizione di appartenenza. Solo qui, e in partico-
lare accanto a Eduardo De Filippo 101, Cecchi incontra una lingua-corpo, da un
lato, e riconosce un gioco scenico reale (fra attori e con lo spettatore) dall’altro,
che saranno le basi su cui proseguirà la sua ricerca come attore e regista-in-
scena (molto vicino al capocomico), due dimensioni, nel suo caso non scindibili,
di una unica identità teatrale. «Sono soprattutto un attore, regista attraverso
l’attore, sono un attore che recita, ma che pensa anche sul recitare» 102.
Quando nel 1968 si costituisce la compagnia del “Granteatro” 103, Cecchi
ne è il regista-capocomico e tale resterà in tutti gli anni successivi, anche
quando cambieranno gli altri componenti. Già il nome, Granteatro, è una di-
chiarazione di poetica nella sua chiara allusione parodica al Piccolo Teatro
milanese di Strehler e di Grassi e nella presa di distanza dal modello, non solo
da loro incarnato, di teatro di regia italiano, una regia sostanzialmente disin-

99
È singolare che Carlo Cecchi, fiorentino di nascita, formato almeno in parte all’Accade-
mia di Roma, elegga Eduardo De Filippo quale riferimento culturale fondante del proprio es-
sere attore, come materiale da modellare e rielaborare; Eduardo che al contrario è, per il conte-
sto teatrale napoletano di ricerca di quegli stessi anni in cui Cecchi esordisce (Teatro Esse,
Fratelli Santella...), un peso, una tradizione invadente, troppo ingombrante emotivamente e
culturalmente e, in quanto tale, quasi reazionaria. Un teatro da cui allontanarsi anche fisica-
mente. Cfr. M. Porzio, La resistenza teatrale. Il teatro di ricerca a Napoli dalle origini al terremoto,
Bulzoni, Roma 2011, pp. 137-145 e 359 e sgg.
100
F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia (materiali 1960-1978), cit., vol. I, p. 23.
101
«La compagnia di Eduardo era infinitamente superiore al teatro di Mosca, che ho visto
e che oggi è un teatro noiosissimo, solo di maniera»: C. Cecchi, La lingua, il corpo, la scena, in-
tervista a cura di S. De Matteis e V. Dini, «Dove sta Zazà», 1, 1993, p. 32.
102
1968-1978 esperienze d’attore, intervista a Carlo Cecchi a cura di E. Agostini, «Quaderni
di Teatro», novembre 1978, p. 68.
103
Fondata insieme a Paolo Graziosi, Peter Hartmann e Angelica Ippolito, dopo
l’esperienza del “Teatro scelta” (a fianco di Claudio Meldolesi, Gianmaria Volontè, Franco
Prattico) e della “Compagnia del Porcospino”, il Granteatro si scioglie dopo l’esperienza di
Prova del Woyzeck e si ricostituisce l’anno successivo, con lo stesso nome ma differenti compa-
gni: Aldo Pugliesi, Giancarlo Palermo, Maria Luisa Prati e Augusto Pesarani.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 313

teressata al problema della recitazione 104. Fin dal 1970 Cecchi ha chiaro il
«problema principale […]. Da una recitazione mistificata e mistificante come
passare a un gioco reale? […] Reale che è l’opposto di realistico, luogo infido
per il teatro dove si nasconde ormai la difesa ossessiva del lavoro alienato
dell’attore» 105. Di qui anche la questione della lingua: «Come fare esplodere il
castello linguistico decretato dal fascismo come lingua del teatro italiano, ac-
cademizzato, stabilizzato e riaffermato quotidianamente sui palcoscenici na-
zionali?» 106. Sono già interessanti sperimentazioni la prima Prova del Woyzeck
nel 1969 e le Statue movibili di Antonio Petito del 1971, in cui la riscrittura
scenica personale di Carlo Cecchi si incontra con un lavoro collettivo «in vista
di un linguaggio materializzante su elementi di cultura-vita». «Con Cecchi
non siamo sulla soglia di un’ironia deformante e nemmeno nell’ambito di
un’immaginazione astratta; viviamo invece dentro un’ironia straniante ed una
correlazione naturalistica», o detto altrimenti, sempre da Bartolucci, «uno
straniamento corporeizzato e un’esasperazione cosciente»107.
È il 1971 quando il Granteatro porta sulla scena il Bagno di Majakov-
skij 108 [FOCUS].
Così recita il programma di sala: «L’unica tradizione che il GRANTEA-
TRO considera come termine dialettico del suo lavoro è quella del teatro dia-
lettale italiano, il teatro dialettale come forma totale di teatro popolare, l’erede
cioè della Commedia dell’Arte. È nel riconoscimento di questa tradizione che il
GRANTEATRO ha incontrato alle radici la teoria del teatro epico di Brecht».
Qualche anno più tardi Cecchi ricorderà Il bagno come il momento in cui
divenne pienamente consapevole dell’elemento base della sua ricerca (che era,
insieme, il tallone d’Achille di tanto teatro di avanguardia dei suoi tempi): che
«il teatro non è la scena (= luogo degli attori) ma il rapporto fra la scena e la
sala, fra lo spettacolo e gli spettatori» 109, che il teatro, cioè, è “gioco reale”, il
suo tempo è il presente, il suo modello vivente il teatro napoletano110, un tea-
tro in cui il teatro «avviene nel momento in cui avviene, lì e allora», qualcosa

104
M. De Candia, Carlo Cecchi. Intervista, «Ridotto», 12 dicembre 1983, p. 15: «i registi (e
qui non voglio ricreare l’opposizione stupida e banale tra l’attore e il regista) non si sono occu-
pati troppo della recitazione, che è l’anima del teatro, in un tempo in cui occuparsi della recita-
zione vuol dire fare un grande lavoro di ricerca e di invenzione».
105
C. Cecchi Lo spazio tragico (nota sul Woyzeck), «Teatro», n. 1, 1970, p. 121.
106
Ibidem.
107
G. Bartolucci, Crudeltà e candore del “Woyzeck”, in Id., La politica del nuovo, Ellegi,
Roma 1973, p. 107.
108
Cfr. S. Margiotta, Il nuovo teatro in Italia 1968-1975, Titivillus, Corazzano 2013, pp. 87-89.
109
C. Cecchi, Autobiografia del Granteatro, intervista con Carlo Cecchi a cura di G. Fofi del
27 ottobre 1974, in F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia (materiali 1960-1976), cit., p. 392.
110
C. Cecchi, Datemi un attore, cit., p. 21.
314 DONATELLA ORECCHIA

che, afferma Cecchi non ho «mai trovato nel teatro italiano»111. Tutto questo
in opposizione alla «tradizione melodrammatico-veristico-naturalistica che,
grazie soprattutto all’intelligentissimo lavoro della triade Costa-Strehler-Vi-
sconti è più o meno il canone dell’attore italiano» 112.
In scena, contraffazione caricaturale, precisione dei ritmi e dei tempi delle
gag, contaminazione con il modello popolare della sceneggiata napoletana da
cui deriva una specie di «stile buffonesco e cialtrone» 113, una cifra recitativa
antinaturalistica e straniata che trova «una sua genuina matrice popolaresca»,
«come una specie di grosso avanspettacolo» 114, compongono una lingua tea-
trale e d’attore nella quale, come il programma di sala annuncia, il teatro
epico di Brecht viene a radicarsi nella tradizione del teatro dialettale.
In particolare Cecchi, «con la fissità della sua maschera gessosa di clown»,
un Trionfalov freddo e distaccato con «una parola che gli esce di gola atona e
lunga e piana», coniuga felicemente la stilizzazione recitativa e la naturalezza
(come Eduardo insegna) 115 complice la lingua-corpo napoletana che Cecchi
ha assunto fin da allora come propria 116. Ed ecco la risposta all’interrogativo
sopra riportato: come fare esplodere la lingua italiana imposta in teatro? Cec-
chi vi sostituisce – in fasi progressive di avvicinamento e di sperimentazione –
il corpo della lingua napoletana 117.
Un discorso a parte merita il Woyzeck del 1973 a Torino. Le prove aperte
con gli operai calabresi del Lingotto sono allora il terreno sul quale il Gran-
teatro sperimenta il rapporto fra «avanguardia e tradizione popolare» connet-
tendo la ricerca sulle forme linguistiche con una «situazione storico-politica e
spaziale precisa» 118, in un confronto reale con e per una comunità precisa. Il
cortocircuito fra tradizione popolare (non più napoletana ma calabro lucana,
in relazione con gli operai presenti alle prove e compartecipi della costruzione

111
Ibidem.
112
C. Cecchi, Autobiografia del Granteatro, cit., p. 393.
113
F. Quadri, Il bagno, «Panorama», 10 febbraio 1972, p. 11.
114
R. De Monticelli, Via libera alla fantasia popolaresca, «Il Giorno», 23 febbraio 1972.
115
«Il Cecchi ha derivato questo suo distacco ironico da Eduardo senz’altro, aggiungen-
dovi una sua mobilità nevrotica e un suo segno alienato»: G. Bartolucci, Crudeltà e candore del
“Woyzeck”, cit., p. 109.
116
F. Quadri, Il bagno, cit.
117
«L’attore deve avere un corpo adatto alla scena e il mio corpo “italiano” non era; come a
dire, il mio corpo non riusciva ad incarnare la certezza della mia recitazione […] il mio corpo ha
poco a che fare con la lingua italiana e ha più a che fare, come rapporto storico culturale, biografi-
camente vissuto, con la lingua napoletana, con Scarpetta, con Petito, con... Con il corpo della lin-
gua napoletana»: L’isola di Carlo. Colloquio con Carlo Cecchi a cura di R. Cirio, «L’Espresso», 11
ottobre 1992, p. 138. Cfr. C. Meldolesi, Gesti parole e cose dialettali. Su Eduardo, Cecchi e il teatro
della differenza, «Quaderni di teatro», n. 12, 1981.
118
C. Cecchi, Autobiografia del Granteatro, cit. 397.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 315

dello spettacolo) e la partitura di Büchner conduce ad abbandonare il reperto-


rio di gesti, stilemi acquisiti e scoprire la tradizione popolare all’interno e nel
confronto con i contesti reali. Effetto al quale contribuiscono con notevole effi-
cacia le scene e i costumi di Franz Prati, che intelligentemente ha saputo fon-
dere le esigenze d’una moderna stilizzazione con gl’ingenui motivi dei «teloni»
utilizzati dai cantastorie 119.
Nel 1974 Cecchi e il Granteatro si cimentano per la seconda volta 120 espli-
citamente con la tradizione napoletana, e in particolare con Petito, in ‘A morte
dint’o lietto ‘e don Felice [FOCUS]. Qui, in una sperimentazione di registri, di
stili, di azioni e reazioni sceniche, «il comportamento degli attori si divideva in
cinque modi di recitare diversi» 121. Eppure, qualcosa nello spettacolo dice an-
che che non sono più i tempi di Petito, né di Scarpetta, e neppure di Eduardo.
Ed è soprattutto Cecchi-attore a indicare la strada.
Cesare Garboli, uno dei testimoni che più efficacemente ha colto questo
aspetto, scrive – a proposito di una replica di ‘A morte dint’o lietto – di una re-
citazione sempre come «fra virgolette», in cui lo «scetticismo di un’indole so-
gnatrice e disincantata», con quella «grazia esausta e leggera, insieme vizza e
infantile», celebra l’arte antica come fosse un sogno lontano, come una favola
d’altri tempi e lascia che i meccanismi che si sono stratificati nella storia del
teatro (compresa la farsa di Petito) «cigolino con tutta la loro ruggine, senza
affatto rimetterli a nuovo» 122.
L’incontro con la tradizione teatrale napoletana si evidenzia qui nella sua
complessità: come strada per riattivare il teatro nella sua dimensione autentica
di play, di gioco reale, di accadimento irripetibile e necessario per uno spetta-
tore preciso e concreto; come esempio di cultura che tenacemente resiste alla
dissoluzione omologante, che mantiene ancora un saldo rapporto con il tes-
suto sociale di riferimento; ma anche e sempre come uno solo dei poli del tea-
tro di Cecchi, in rapporto dialettico con l’altro, profondamente radicato nella
cultura dell’artista, dove il gioco del teatro non è mai il trionfo della gioia e
dell’affermazione di sé, quanto piuttosto strumento di autodistruzione e di
tortura123 che si intreccia con la coscienza della «perdita di “ovvietà” del gesto
artistico, con lo sgretolarsi del suo statuto nella società dei consumi» 124.

119
A. Paladini, Anche a Spazio zero è di scena “Il bagno”, «Il Dramma», aprile 1972, p. 27.
120
La prima volta era stata con Le statue movibili di Petito, nel 1971.
121
C. Cecchi, Autobiografia del Granteatro, cit., p. 399.
122
C. Garboli, Cecchi prima maniera, «Il Mondo», 13 giugno 1975, ora in Id., Un po’ prima
del piombo. Il teatro in Italia negli anni Settanta, Sansoni, Milano 1998, p. 114.
123
C. Garboli, Falbalas. Immagini del Novecento, Garzanti, Milano 1990, pp. 138-141.
124
A. Petrini, Un attore di contraddizione. Note sul teatro di Carlo Cecchi, «L’Asino di B.»,
p. 75, saggio a cui rimando per un approfondimento della poetica artistica di Cecchi e per
un’analisi de L’uomo la bestia e la virtù.
316 DONATELLA ORECCHIA

Sul finale di ‘A morte dint’o lietto ‘e don Felice, «il braccio inerte di Pulci-
nella, rigido e penzoloni, la spalla contratta sotto un’immaginaria bastonatura,
la voce afona, che gli muore in gola, insinuano il sospetto che Carlo Cecchi
voglia dirci qualcosa. Forse che la gioia del teatro, con tanto parlare che si fa di
teatro, non esiste più»125.
Si mescolano fin da allora in Cecchi alcuni tratti che renderanno il suo
stile attorico inconfondibile: quell’incuranza nel recitare con le spalle alla
platea, quel buttare via le battute e inceppare la fluidità del dire, una tendenza
quasi a cancellarsi dalla scena «a nascondersi, a mettersi in ombra, a sparire
negli angoli; a rattrappirsi» 126 pur restando il perno della recita, quell’indo-
lenza meridionale, quella comicità paradossale da cupa maschera mediterra-
nea, talvolta livida e gelida 127, le accelerazioni e gli improvvisi rallentamenti,
quasi a sospendere il gioco 128, un «modo di recitare allusivo e trattenuto,
sparso di vaste pause più o meno allibite, ritmate dalla comica iterazione di
parole o mozziconi di parole, monosillabi, interiezioni al limite del fonema» 129
e, insieme, l’antipsicologismo, la disarticolazione dei movimenti a tratti burat-
tineschi, quella sofferenza tesa ed accigliata 130, lo straniamento persistente,
una esasperata artificialità, il gioco smascherato della convenzione.
«A me non interessa il ‘come se’. Io cerco il ‘come è’»: il teatro è sempre
convenzione e dunque e sempre smascheramento del ‘come se’ naturalistico.
In questa prospettiva, anche l’uso del dialetto che talvolta compare (e non
solo di quello napoletano) 131 non ha mai finalità mimetiche; anzi il più delle
volte funziona come strumento di straniamento, di distanziazione dal perso-
naggio: una dialettalità aspra, innaturale, astratta, stilizzata. Qualcosa di ana-
logo accade anche all’improvvisazione, che diviene talvolta tanto esplicita da
manifestarsi nel suo tratto di «simulazione dell’improvvisazione, del recitare ‘a

125
C. Garboli, Cecchi prima maniera, «Il Mondo» 13 giugno 1975, ora in Id., Un po’ prima
del piombo, cit., p. 115.
126
C. Garboli, Falbalas. Immagini del Novecento, cit., p. 139.
127
R. De Monticelli, Don Giovanni combatte contro i fantasmi, «Corriere della Sera», 23
marzo 1979.
128
«Di solito gli attori italiani fra una battuta e un’altra aspettano sempre un po’. Nel mio
teatro, invece, si attacca subito come in una partita da ping pong. Però ci sono dei punti in cui
tutto si deve sospendere e il silenzio diventa una presenza perché è una sospensione in cui il
play, il gioco, passa attraverso il silenzio. I miei silenzi, allora, sono una sorta di doppia provo-
cazione: agli attori che stanno recitando con me e al pubblico»: “Gioco a calcio col teatro”, inter-
vista a Carlo Cecchi, a cura di M.G. Gregori, «L’Unità», 8 febbraio 1997.
129
R. De Monticelli, Lazzi e dialetti per il “Borghese”, «Corriere della Sera», 22 luglio 1977.
130
C. Garboli, Falbalas. Immagini del Novecento, cit., p. 137.
131
Ricordiamo per esempio vari dialetti (veneziano, napoletano, toscano) nel Borghese genti-
luomo del 1977, il fiorentino nella Mandragola del 1979 e il napoletano ne La locandiera del 1993.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 317

soggetto’» e che svolge pertanto «un ruolo in qualche modo paragonabile a


quello dello straniamento epico» 132.
«Una recitazione tutta “in levare”, con bruschi mutamenti di ritmo – ra-
pide accelerazioni e arresti improvvisi, battute buttate via e silenzi meraviglio-
samente scanditi – fatta di spezzature, sprezzature, dissonanze; inframmez-
zata da impedimenti di vario tipo procurati dallo stesso Cecchi per accentuare
la spigolosità e la forzatura (la assoluta non naturalità) della sua presenza in
scena: è anche questo il ruolo del megafono nella Prova del Woyzeck di Büch-
ner (1969) o, più recentemente, dei krapfen in Ritter, Dene, Voss, della bottiglia
di vino sempre alla bocca in Leonce e Lena, dei grissini nella Locandiera: tutti
mezzi per impedire il fluire sciolto della recitazione e spezzarne piuttosto la
continuità» 133.
Sintesi magistrale di stilizzazione e naturalezza, Eduardo De Filippo re-
sta maestro insuperato, ma, nello stesso tempo, punto di partenza nei fatti
messo in discussione. Quell’elemento che Cesare Garboli ha focalizzato in
mirabili pagine 134 e che riguarda il lato oscuro e sofferto di Cecchi attore, la
vulnerabilità della sua azione in scena, vulnerabilità che coinvolge tutti, attori
e spettatori, in una sensazione di allarme e di pericolo (come se la finzione
fosse sempre sul punto di rompersi), una recitazione perseguita come «danna-
zione», come «strumento di autodistruzione», una specie di «tortura», è il suo
modo particolare e unico di rielaborare la tradizione del “gioco reale” del tea-
tro napoletano.

5. Attore epico analitico. Carlo Quartucci (e Carla Tatò)


Carlo Quartucci si ritrae presto dal ruolo di attore (a partire dal 1963) per
assumere quello esclusivo di regista. Nonostante ciò, l’attorialità sarà sempre
al centro della sua riflessione teorica e della sua pratica teatrale, sia attraverso
una progettualità registica che assimila la logica della composizione aperta
(dove improvvisazione degli attori e intervento estemporaneo del regista du-
rante l’atto teatrale, con funzione di «disturbo» e di provocazione più che di
composizione e coordinamento); sia ricercando per l’attore, e insieme all’attore,
una forma nuova.
In particolare, rispetto alla questione di un nuovo attore, la ricerca avviata
nei primi anni (1959-1970), all’insegna della stilizzazione formale, lontana da
ogni «imitazione veristica e approssimazione psicologica per risalire a un lin-
guaggio mimico tipicamente clownesco […] con l’assimilazione di un certo

132
G. Raboni, Attenti, il Castello vi ascolta, «Corriere della sera», 27 febbraio 1997.
133
A. Petrini, Un attore di contraddizione, cit., p. 66.
134
C. Garboli, Falbalas. Immagini del Novecento, cit., pp. 136-141.
318 DONATELLA ORECCHIA

figurativismo astratto» 135, ma anche di elementi tipici di una gestualità popo-


lare, si frange a partire da Cartoteca 136 nel 1965 e deflagra in Zip. Tuttavia, solo
a partire dal progetto “Camion” e poi dall’incontro con Carla Tatò, un nuovo
modo di intendere l’attorialità prende forma e consistenza 137.
Nel 1971 Carlo Quartucci compra un camion, lo dipinge di bianco e ini-
zia il suo viaggio nelle periferie italiane: nel Camion si vive, si mangia, si rac-
colgono materiali sonori, video. Camion è palcoscenico, cabina di registra-
zione, spazio di ospitalità, casa, teatro. È “luogo teatrale” e vera e propria
“struttura della messa in scena”, in cui si coniugano incessante mobilità, ri-
cerca di situazioni e pubblici nuovi colti nel loro contesto quotidiano, improv-
visazione e riuso continuo dei materiali accumulati (registrazioni, riprese vi-
deo, giornali, testimonianze…). Risale a quegli anni l’inizio di un percorso di
riflessione sull’attore che ne vede estesa l’identità fino a investire tutte le figure
coinvolte nell’azione teatrale: l’attore-narratore (Carla Tatò, che si unisce al
progetto di “Camion” dal 1972), l’attore-trasformista (Luigi Mezzanotte),
l’attore-scrittore (Luigi Gozzi) e poi, ben presto, anche il danzatore, il musici-
sta, il pittore e, non da ultimo, il regista-servo di scena (Quartucci), tutti coin-
volti nella più ampia costruzione di un linguaggio pluricodice e pluriprospet-
tico, ciascuno esprimendo il proprio punto di vista artistico a partire dal pro-
prio specifico 138.
Liberata dal vincolo dell’interpretazione del testo, della linearità di sviluppo
di una trama, della centralità del personaggio, l’azione teatrale si presenta come
una sorta di mobilissima “costruzione collettiva in continuo mutamento” da
parte di tutti gli artisti/attori coinvolti; un momento di ricerca e un atto conosci-
tivo compiuto attraverso l’incontro che, nella differenza dei punti di vista di
partenza, trova la sua ragione più profonda e necessaria. L’azione nel tempo
presente dello spettacolo, infatti, non è solo quella dell’attore tradizionalmente

135
G. Bartolucci, La materialità della scrittura scenica (elementi per un teatro ‘nuovo’), in
Catalogo del Festival Internazionale del teatro di prosa. La Biennale di Venezia, Marsilio, Venezia
1967, ora in Id., Testi critici 1964-1987, cit., pp. 105-6. Cfr. anche il dossier D. Orecchia e A.
Petrini (a cura di), Materiali per una storia del teatro italiano di contraddizione. “Aspettando Go-
dot”, Teatrostudio, Genova 1964, «L’Asino di B.», n. 6, gennaio 2002, pp. 128-265.
136
Cfr. a questo proposito per un’analisi dello spettacolo: L. Cavaglieri, Verso la «libertà
totale della scena»: Cartoteca di Carlo Quartucci, in AA.VV., Teatro e teatralità a Genova e in
Liguria. Drammaturghi, registi, scenografi, impresari e organizzatori, a cura di F. Natta, Edizioni
di pagina, Bari 2012.
137
Si veda, in questo volume, il capitolo secondo, di Valentina Valentini.
138
Sia nel modo di intendere il linguaggio della scena complessivamente, sia l’attore in par-
ticolare, si ritrovano interessanti sintonie con le riflessioni di Filiberto Menna (confluite ne La
linea analitica dell’arte moderna, Einaudi, Torino 1975), che fu fra l’altro un riferimento di Quar-
tucci per l’analisi di Mondrian (F. Menna, Mondrian. Cultura e poesia, Edizioni dell’Ateneo,
Roma 1962).
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 319

inteso, bensì dell’intero gruppo di teatranti, che in quel tempo e in quello spa-
zio, contribuiscono come ‘attori’ alla costruzione della recita (durante lo spetta-
colo, per esempio, il drammaturgo scrive e passa frammenti di copione al regista
che, come servo di scena, li passa poi all’attore-trasformista). Non c’è fusione,
ma costruzione polifonica. Non la deflagrazione di un punto di vista (come in
Carmelo Bene, per fare l’esempio più emblematico), bensì coesistenza polifo-
nica di più punti di vista.
Quale eredità, allora, per questo teatro?
Da un lato la decostruzione, anche per il ruolo e la funzione dell’attore, del
modello grandattorico: «L’attore nobile, in una struttura teatrale codificata, è il
“grande attore”; l’attore di una struttura che sta ai margini, e che è, come tutte le
strutture che stanno ai margini, una forza politica, è l’attore-trasformista. L’altra
faccia di questa struttura messa alla porta è la narrazione, il racconto» 139.
Dall’altro il recupero di un’altra tradizione, quella della narrazione po-
polare, come forma artigianale della comunicazione che attinge all’esperienza
(in parte propria e in parte riferita) e la trasforma in esperienza per coloro che
ascoltano 140.
All’attore narratore Carla Tatò va invece il compito cardine di dare voce al
racconto corale, di testimoniare di fronte ai compagni e agli spettatori una me-
moria da condividere, pezzi di una storia già accaduta della quale, come narra-
tore epico, è depositario. «La fonte a cui attingono tutti i narratori è il racconto
di un’esperienza tramandata di bocca in bocca; in passato l’esperienza veniva
fatta da mercanti-viaggiatori e ascoltata dai contadini e dagli artigiani sedentari.
In questo senso il racconto era uno scambio di esperienza. Storicamente c’è an-
che un’altra dimensione del narrare: il racconto tragico legato alla persona di un
viaggiatore che ad ogni tappa arricchisce la storia di nuova esperienza […]. Io
devo raccontare, invece di interpretare la psicologia di un personaggio; non ho
quindi nulla con cui confrontarmi se non il bagaglio storico del racconto»141.
Il ruolo del narratore, a differenza di quello dell’attore-interprete, è un
comportamento aperto, non un prodotto finito. Non prevede la memorizza-
zione delle battute, ma adesione con il proprio vissuto e scambio di esperienza
con chi ascolta. In opposizione alla consuetudine del teatro che prevede perso-
naggi, psicologie, dialoghi, trame e, possibilmente, immedesimazione dello

139
Un dialogo in viaggio sull’attore di camion, in E. Fadini, C. Quartucci, Viaggio di Ca-
mion dentro l’avanguardia, ovvero la lunga cinematografia teatrale 1960/1976, Cooperativa edito-
riale Studio Forma, Torino 1976, pp. 88-89.
140
Il riferimento delle riflessioni sul narrare e sul narratore, soprattutto per Carla Tatò, è W.
Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nikolai Leskov, in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti,
Einaudi, Torino 1955.
141
Dagli appunti di Carla Tatò durante la lavorazione di Robinson Crusoe del 1975, ripor-
tati in E. Fadini e C. Quartucci, Viaggio di Camion dentro l’avanguardia, cit., p. 49.
320 DONATELLA ORECCHIA

spettatore, Carla Tatò narra in terza persona; il suo racconto non si dispiega con
linearità di svolgimento, né con fluidità, ma a frammenti, pezzi di una storia.
Esempio di questo primo periodo è Nora, Nora sei proprio una donna (1972)
da Casa di bambola di Ibsen, spettacolo recitato in balere, strade, piazze, che rac-
conta la storia di Nora Helmer dal momento in cui abbandona il tetto coniu-
gale; un abbandono che corrisponde a quello che Camion ha compiuto allonta-
nandosi dal teatro istituzionale. Qui la critica a tanta tradizione scenica che ha
fatto del testo di Ibsen un terreno fertile per le interpretazioni psicologiche e
naturalistiche si fa evidente: Carla Tatò non recita le battute di Nora previste da
Ibsen, ma agisce una Nora fuori scena, una Nora che è attrice nell’impossibilità
di fare uso di parole funzionali a un determinato teatro, un teatro da smontare.
L’attore narratore compie insieme un’azione performativa e metaliguistica.
E così sarà nella seconda versione, Nora Helmer in tournée [FOCUS],
che raccoglie i materiali, le immagini, gli oggetti dello spettacolo precedente e
di Camion (Teatro Uomo di Milano, 10 aprile 1975). In questa occasione il
testo viene smontato e ricostruito attraverso l’uso di didascalie 142 che si fanno
versi, l’intervento di personaggi che vengono ascoltati dai protagonisti come
ipotetici interlocutori di ipotetiche conversazioni telefoniche, monologhi im-
provvisati e continui scambi di parte tra i due attori (Carla Tatò e Luigi Mezza-
notte). «Lui più ieratico con irresistibili effetti distruttori, lei giocando magi-
stralmente sulla deformazione della parola» 143. Tutto ciò poggiato su di un tap-
peto sonoro, dato dallo scorrere continuo di un nastro registrato e sulla proie-
zione ininterrotta di immagini, alternate a sequenze filmiche. L’operazione,
«attraverso lo smontaggio del testo», si fa «analisi strutturalista» demistificante
del teatro borghese e dell’ideologia della famiglia 144. Eppure ciò non basta.
All’attore narratore urge anche il compito di dire e condividere qualcosa che ri-
guardi l’esperienza, quella propria e quella raccolta negli incontri con le donne
avvenute nelle campagne. Perché la narrazione è legata a chi la fa. E il narratore
porta con sé in scena, nelle operazioni di carico e scarico di Camion, nei teatri,
nelle campagne, nelle piazze, la propria esperienza, d’attore e di donna e, in-
sieme alla volontà di raccontare, anche la sua impossibilità. Perché l’esperienza

142
«Abbiamo preso tutti i comportamenti di Nora dalle didascalie: entra, esce, prende. Ab-
biamo capito che quello era il comportamento borghese. Abbiamo raccontato le didascalie di
Ibsen […] La didascalia è tutta la sostanza del teatro borghese e racconta, appunto, tutti i com-
portamenti»: C. Quartucci, Dialogo tra Quartucci e Fadini, in E. Fadini e C. Quartucci, Viaggio
di Camion dentro l’avanguardia, cit., p. 75.
143
Intervento di Franco Quadri su Nora Helmer in tournée del 1975, riportato in La Zattera
di Babele 1981-1991. 10 anni di parola, immagine, musica, teatro, Catalogo a cura de Zattera di Ba-
bele, Tip. Press 80, Firenze 1991, p. 42.
144
Ibidem.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 321

della modernità ha compromesso la possibilità dell’epos145. Per questo possono


essere richiamati solo a frammenti e per questo la forma della testimonianza
non potrà che essere sempre una continua frantumazione e ricomposizione del
linguaggio usato e una deformazione della parola.
Su questa linea proseguirà da allora in avanti la ricerca di Quartucci e
Tatò. Quando, conclusa l’esperienza di Camion, a partire dal 1980 insieme a
Carla Tatò Quartucci dà vita con Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Roberto
Lerici, Rudi Fuchs al progetto artistico “La Zattera di Babele o della dram-
maturgia delle Arti”, prima con sede a Genazzano e poi in viaggio per le ca-
pitali europee, l’attore-narratore mantiene il tratto epico in una recitazione
che, tuttavia, una maggiore vicinanza con l’universo del tragico piega verso
forme di liricità spezzata. Non si tratta certo, neppure in questo caso, di recu-
perare né la tragedia né l’epos classici, la cui crisi segna al contrario l’intera
storia della modernità. Entrambe le forme sono frequentate qui, al contrario,
come residui pietrificati di ciò che furono e significarono. L’ampliamento in-
ternazionale delle collaborazioni della “Zattera”, a partire dalla partecipazione
a «documenta 7» (a Kassel), diretta da Rudi Fuchs 146, e poi al Rosenfest di
Berlino nel 1984147, colloca l’attore dentro un contesto drammaturgico ancora
più ampio, sebbene analogo a quello precedente. Accanto ad artisti come Jan-
nis Kounellis, Giulio Paolini, Roberto Lerici, Giovanna Marini, i fratelli Co-
lombaioni, Giancarlo Schiaffini, ora anche Daniel Buren, Per Kikerby, Law-
rence Weiner, Henning Christiansen, Dorota Abramowicz, ballerini, cantanti
e mimi partecipano a una costruzione collettiva, ciascuno a modo proprio, at-
tore. Carla Tatò, attore della parola, in un’ulteriore articolazione della fun-
zione del narratore (ora anche messaggero), conduce il suo racconto che si di-
sfa in ritmi spezzati, sconnessi, procede per accumuli sonori, impennate di
intensità, parole ingoiate e poi sputate; è racconto di qualcosa che non ha una
linearità, che s’inceppa, che esplode in un caos in cui la crisi dell’ordine e della
certa condivisione dei valori dati si fa affannosa ricerca e invenzione formale.

145
W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nikolai Leskov, cit.
146
Qui la “Zattera di Babele” porta Opera Suite documenta 7, Didone, Platea, Scene di Con-
versazione, Scene di Periferia, Funerale, di Jannis Kounellis, Roberto Lerici, Giovanna Marini,
Giulio Paolini, Carlo Quartucci e Carla Tatò. Kassel, «documenta 7», Museo Fridericianum,
Staatstheater, Schloss Bellevue, Salzmannfabrik; Scene di conversazione, di Carlo Quartucci e
Giulio Paolini, con Carla Tatò, Albrecht Brand, Piero Brega, Maria Habrat, Ryszard Ole-
jniczak, Horst Schafer, Trude Schumacher, Hellmoth Vivell. Kassel, «documenta 7», Schloss
Bellevue.
147
In particolare a Berlino viene sviluppato il progetto sulla Pentesilea di Kleist con Can-
zone per Pentesilea, frammento scenico di Carlo Quartucci da Heinrich von Kleist, musiche
originali di Giovanna Marini, con Carla Tatò; e Rosenfest Fragment XXX, tre sguardi di Carlo
Quartucci su Heinrich von Kleist.
322 DONATELLA ORECCHIA

6. Epilogo: Antonio Neiwiller e l’attore come ossimoro della tradizione


Sebbene un poco più giovane (nasce a Napoli nel 1948), Neiwiller è at-
tivo fin dall’inizio degli anni Settanta 148 con un percorso in cui il recupero di
una eredità culturale che affonda nella tradizione napoletana costituisce uno
degli assi portanti della sua ricerca (di regista, prima, e di regista e attore poi).
Come per Cecchi e per Leo, che vi arrivano però dall’esterno, e a differenza di
molti gruppi e attori napoletani dell’inizio degli anni settanta che, al contrario,
rifiutano radicalmente il rapporto con la propria tradizione (Martone, Servillo
e molti altri legati a Spazio Libero e alle rassegne di Bartolucci), Neiwiller
cerca le sue radici anche lì, nel patrimonio teatrale napoletano e in quello
dello spettacolo popolare campano. L’universo poetico di Petito e la sua lin-
gua, esempio magistrale di destrutturazione linguistica, con quel «garbuglio
studiatamente confuso» e quello «stravolgimento lessicale» e sintattico, sono il
primo riferimento per un teatro in cui la tradizione entra immediatamente
come parodia «in conflitto con gli statuti letterari e con la norma dei generi
contaminandoli, frantumandoli, capovolgendoli, snaturandoli» 149. Don Fausto
da Petito è la prima tappa di un percorso che sperimenta la lingua della comi-
cità popolare e, insieme, la supera nella direzione di una fantasia poetica e
onirica. In Quanto costa il ferro 150 il lavoro sulla tradizione (comprese le feste
popolari, le sacre rappresentazioni, la ritualità magica) si intreccia con
l’allegoria brechtiana «e lo sguardo sul mondo magico e drammatico delle
classi subalterne, come in una pagina di Ernesto de Martino, ci parla di arcai-
che sofferenze del tempo presente» 151. A partire di qui la ricerca sulle avan-
guardie e le tradizioni popolari iniziano a intrecciarsi, a segnare la futura linea
di un percorso che incontrerà presto altri maestri: Karl Valentin, Dada 152,
Pasolini, Pessoa, Paul Klee, Majakovskij, Tarkovskij.

148
La prima esperienza è accanto a Massarese al Centro Teatro Sud.
149
Sono parole di Franco Carmelo Greco in A. Petito, Palummella zompa e vola, a cura di
F.C. Greco, Bellini, Napoli 1989, p. 19. Con quel linguaggio caratterizzato dall’«ambivalenza
semantica, le inversioni sintattiche e concettuali, il garbuglio studiatamente confuso, lo stravol-
gimento lessicale» (L.M. Lombardi Satriani e D. Scarfoglio, Pulcinella: il mito e la storia, Leo-
nardo, Milano 1992, p. 835) Petito è inoltre un importante esempio e maestro di destruttura-
zione linguistica, cara a Neiwiller.
150
Dopo Don Fausto, Quanto costa il ferro? da Brecht non intende essere «una mistificazione
popolare, popolaresca» bensì «una penetrazione verticale e orizzontale del testo assimilato e rein-
ventato in un patrimonio di gesti tipicamente nostri», in un atteggiamento artistico che ricorda
quello di Cecchi e del Gran Teatro negli stessi anni. Dal programma di sala di Quando costa il
ferro?, regia di Antonio Neiwiller, 1976. Cfr. M. Porzio, La resistenza teatrale, cit., p. 394.
151
A. Grieco, L’altro sguardo di Neiwiller, l’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2002, p. 32.
152
Berlin Dada (Napoli, Teatro Sancarluccio, 1978) è la prima regia di Neiwiller all’interno
della Cooperativa Teatro dei Mutamenti, al quale aderisce ufficialmente a partire dal 1978.
L’ATTORE E LE “TRADIZIONI” DEL NUOVO TEATRO 323

E fin qui la particolarità di Neiwiller regista e del suo lavoro con l’attore in
riferimento alla tradizione popolare è limpido. Eppure l’interesse all’interno del
discorso sul Nuovo Teatro si colloca anche nel modo in cui Neiwiller traghetta
il suo mondo teatrale (poetico, linguistico, attoriale) oltre gli anni Ottanta. Due
elementi intervengono all’inizio di quella decade a ridefinirne il percorso: uno
personale, l’incontro con Kantor attraverso La Classe morta, che lo spinge a una
lunga pausa di riflessione; uno contestuale, la vorticosa trasformazione della so-
cietà dei consumi, l’impatto violento della massificazione e della omologazione
che avrebbe minato irrimediabilmente la possibilità stessa di pensarsi nel tempo
e, dunque, di pensare una qualsivoglia tradizione.
«Dietro questo cattivo rapporto tra passato e futuro, dietro questa muta-
zione del senso del tempo mi chiedo se è possibile fermare qualcosa e dire: “io
questa cosa la voglio guardare per vent’anni per capire che è»153.
Da allora in avanti, Neiwiller radicalizza la sua ricerca, accentua la di-
mensione esistenziale del suo teatro. Da allora diviene un imperativo etico ri-
pristinare innanzitutto una memoria di sé, «di cui ogni singolo è depositario e
custode assoluto», che possa essere un argine contro la dissoluzione di ogni
esperienza del tempo e di ogni memoria possibile. Anche il lavoro dell’attore
deve ripartire di qui, dalla «costruzione giorno per giorno, lenta, faticosa, di
un proprio universo poetico» 154, intessuto di una memoria che è altrettanto
faticosa operazione di recupero di vissuti stratificati dentro di sé. La tradizione
allora non è più un contenuto, né una maestra di forme, non è un punto di
partenza esterno a sé, né un territorio all’interno del quale muoversi, non è un
linguaggio da citare, non sono stilemi da riprendere. La tradizione napole-
tana, che è stata il primo patrimonio riscoperto al quale appartenere, resta la
matrice per la costruzione di una memoria di sé, in vista di un teatro visiona-
rio, poetico, astratto, informale. Un teatro scarno ed essenziale, in uno spazio
interiorizzato e degradato, fatto di bui e squarci di luce, di materiali poveri e di
pochi ma concretissimi oggetti (gli stessi spesso, da uno spettacolo a un altro),
che assumono valore simbolico, come lacerti di memoria, frammenti di in-
cubi, di tragedie comuni; con un attore la cui azione parte sempre dal silenzio
che resta l’elemento dominante anche quando interviene la parola, l’origine
del gesto e del suono, la dimensione della solitudine (e dell’isolamento), lo
spazio dell’ascolto. L’ultimo spettacolo di Neiwiller, ormai profondamente
malato, è L’altro sguardo [FOCUS]. Qui, nelle prime sequenze, l’attore, seduto

153
Antonio Neiwiller, da un intervento tenuto probabilmente presso l’Università di Urbino
nel 1987, la cui registrazione audio è stata fornita da Giancarlo Savino, cit. in M. Porzio, L’arte
silenziosa di Antonio Neiwiller, «Culture teatrali», 2/3, primavera autunno 2000, p. 245-246.
154
Sono parole di Neiwiller in un’intervista del 1991, in occasione della prima di Dritto
all’inferno, in Pasolini e l’utopia, «Il Giornale di Napoli», 8 novembre 1991.
324 DONATELLA ORECCHIA

dietro un telo bianco, evoca, attraverso vecchie nenie napoletane, canti e ri-
chiami dei venditori ambulanti, una memoria antica, un’appartenenza intima
a una storia, mentre il suo corpo sembra disfarsi in un mondo che si sta de-
componendo lentamente. Pessoa, Majakovskij, Tarkovskij, Petito, Eduardo
tornano poi in versi affastellati, gli uni accanto agli altri, fino a che l’attore,
spalancata la porta, grida verso la strada le frasi di Domenico di Nostalghia di
Tarkovskij: «Il male vero del nostro tempo è che non riusciamo più a ricono-
scere i grandi maestri. La strada del nostro cuore è coperta d’ombre. Bisogna
ascoltare le voci che sembrano inutili. Bisogna che nei nostri cervelli, occupati
dalle lunghe tubature delle fogne, dai muri delle scuole, dall’asfalto, dalle pra-
tiche assistenziali, entri il ronzio degli insetti. Qualcuno deve gridare che co-
struiremo piramidi. Non importa se poi non le costruiremo. Bisogna alimen-
tare il desiderio. Bisogna tirare l’anima da tutte le parti. Le cose grandi spari-
scono. Solo quelle piccole durano».

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