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Capitolo 1

Fiat Auto: tra crisi e rinascita.

1.1 Una crisi che viene da lontano

“Avanti veloci”: questo è lo slogan utilizzato dall’A.D. del Gruppo Fiat


e di Fiat Auto Sergio Marchionne durante il recente incontro tenuto al Lingotto
nei giorni 8 e 9 Novembre 2006, nel quale di fronte ad una platea di analisti e
giornalisti ha illustrato il Piano Industriale per Fiat Auto relativo al quadriennio
2007-2010. Il messaggio è chiaro: Fiat ha lasciato alle spalle la crisi esplosa nei
primi anni del nuovo millennio, ora c’è un atteggiamento nuovo nei confronti
del futuro, più fiducioso nelle capacità di sopravvivenza e sviluppo
dell’industria automobilistica italiana. Una fiducia che appartiene solo a chi è
consapevole di aver superato positivamente una fase di transizione che ha
comportato una profonda revisione dell’intero sistema Azienda, una vera e
propria rivoluzione interna il cui esito non era affatto scontato. Al di là delle
mere cifre, che saranno illustrate brevemente nel corso della trattazione, quello
che risalta agli occhi è che Fiat oggi è viva, è riuscita a rialzarsi dopo anni
difficili, ed ora si dirige con convinzione verso un futuro non privo di insidie
ma aggredibile con forza, alla ricerca di un nuovo ruolo in Europa e nel Mondo
per i Marchi italiani, più consono alla loro storia e alla tradizione motoristica
italiana. Una posizione che solo qualche anno fa sembrava definitivamente
perduta, in un orizzonte di riferimento che arrivò a riservare al destino del
Gruppo il fallimento o la vendita del ramo automobilistico a qualche
investitore straniero. Una Fiat Auto debole e senza direzione, stretta dal
vincolo dell’alleanza con General Motors, con una situazione debitoria di
grandi proporzioni, anello debole di una catena di business e partecipazioni
altrimenti floride.

1
Non è mia intenzione, nel presente lavoro, analizzare le cause profonde che
agli inizi del nuovo millennio contribuirono all’emergere della crisi (demando
a questo scopo all’opera “Il caso Fiat”, di Giuseppe Volpato)1, ma alcuni dati
ed alcune considerazioni saranno utili per comprendere l’evoluzione e la
portata del più recente dissesto che ha interessato l’industria automobilistica
italiana, portandola fino ad un passo da prospettive che ne avrebbero potuto
pure sancire la fine, quanto meno nella configurazione odierna.

Diverse fasi di sofferenza hanno segnato la più che centenaria storia di Fiat
Auto, che a più riprese hanno fatto temere seriamente per il destino della
società. Tra le tante, possiamo citare il famoso sciopero di 35 giorni avvenuto
nel 1980, la battaglia finanziaria che vide opposti la famiglia fondatrice Agnelli
a Cesare Romiti e Mediobanca nei primi anni ‘902 ma la crisi che ha avuto
origine nei primi anni del 2000 e si è protratta di fatto fino all’anno appena
concluso, a giudizio di molti esperti ed analisti di settore dei quali troveremo
traccia in questa trattazione, è stata una di quelle che più in profondità hanno
minato la sopravvivenza dell’industria motoristica italiana quale realtà
industriale non soggetta a controllo da parte di investitori esteri o esterni alla
famiglia Agnelli. E pensare che fino al 2000 il quadro di riferimento era
positivo, e sembrava volgere ad un futuro particolarmente promettente. Con
ricavi che superavano i 57 miliardi di euro, Fiat era uno dei più grandi gruppi
industriali mondiali, operante in 61 Paesi con una Rete di 1.063 aziende
collegate, una forza lavoro di 220.000 dipendenti dei quali più della metà fuori
dei confini nazionali. Il Gruppo nel suo complesso possedeva 242 insediamenti
produttivi (167 all’estero) e 131 centri di ricerca (61 all’estero).

1
Volpato, 1996.
2
Whitford , Enrietti, Dicembre 2005.

2
Fiat Group era organizzato in 10 settori operativi: Automobiles, Agricultural
and Construction Equipment, Commercial Vehicles, Metallurgical Products,
Components, Production Systems, Aviation, Publishing and Communications,
Insurance and Services. Nonostante il processo di diversificazione avvenuto
negli anni ’90, il Gruppo rimaneva fondamentalmente legato all’automotive: i
tre core business dell’azienda (Automobiles, Agricultural and Construction
Equipment, Commercial Vehicles) contavano per il 78% delle vendite e un
ulteriore 15% era originato dai settori Metallurgical Products, Components e
Production Systems. In particolare, Fiat Auto rappresentava l’attività più
importante del Gruppo, con il 44% dei ricavi e il 33% sul totale dei
dipendenti3.

Senza addentrarmi nei particolari di quello che sarà l’argomento centrale della
seconda parte di questo lavoro, l’entrata in scena di General Motors (che il 13
Marzo 2000 acquista il 20% di Fiat) come alleato prometteva grandi vantaggi.
L’accesso alla banca organi (meccanici) e alla rete di vendita ed alleanze
internazionali del più grande produttore mondiale di autovetture, la possibilità
di sfruttare sinergie e risparmiare ingenti quantitativi di denaro attraverso la
razionalizzazione degli acquisti e la condivisione di costi di R&D (tra le molte
iniziative, la creazione delle unità Fiat-GM Purchasing e Fiat-GM Powertrain
in primis rispondevano a tali esigenze) e in generale il ritorno di immagine
permesso dal poter sviluppare le proprie attività sotto l’ombrello protettivo di
un gigante automobilistico, faceva pensare ad una strada in discesa per Fiat
Auto.

Del resto, all’epoca dell’entrata del socio americano nel capitale sociale di Fiat,
quest’ultima si trovava in una situazione ancora lontana dall’essere

3
Balcet, Enrietti, AITEG European Network

3
preoccupante. Il comparto dell’auto ancora generava profitti, $39m, con una
previsione di utile di $151 nel 2001 e un risultato atteso ancora maggiore per il
2002. Il 2001 tra l’altro era stato l’anno della riorganizzazione dell’Azienda in
Business Units relativamente indipendenti, ciascuna responsabile per la propria
performance economica e finanziaria, dando il via ad un processo di
razionalizzazione e ristrutturazione con ripercussioni anche nell’ambito
dell’occupazione, e grandi aspettative si riponevano nel modello Stilo, in uscita
nell’Ottobre e per il quale si prevedevano vendite molto consistenti (400.000
unità annue)4, per attaccare le posizioni consolidate di Volkswagen, Ford e
Renault nel cuore del mercato europeo. E gli esperti del settore
preannunciavano un gran successo per tale modello, di cui si elogiava il
comportamento stradale, la dotazione di serie all’avanguardia, e una qualità
finalmente alla pari dei migliori concorrenti tedeschi: ”They've turned out a
model that is Northern European in aspect" affermò Stephen Reitman, senior
auto analyst alla Merrill Lynch & Co. in London5, sottolineando il
raggiungimento di uno standard costruttivo all’altezza della migliore
concorrenza europea, Volkswagen in primis.

Ma tale svolta negli equilibri interni di Fiat Auto nascondeva in sé il germe


della crisi. “Una crisi che viene da lontano”, nelle parole di G.Volpato6,
derivante da fattori strategici e strutturali che vanno oltre al mero ammontare
del debito accumulato negli anni successivi, o la storica specializzazione in
auto piccole, con conseguenti margini di profitto più ristretti.
Fondamentalmente, gli investimenti messi in atto da Fiat negli anni ’90 si
rivelarono insufficienti rispetto alle necessità del Gruppo, ed inferiori a quelli
posti in essere dalla concorrenza, causando una situazione caratterizzata da

4
Fonte: Fiat.
5
Edmondson, 6 agosto 2001.
6
Volpato, 2002.

4
impianti produttivi obsoleti, magazzini più consistenti e un ROS risicato7. E
come affermerà Marchionne qualche anno dopo, la crisi fu generata anche
dall’aver stabilito piani industriali senza tener conto delle mosse della
concorrenza, e senza verificare che la struttura di Fiat Auto fosse adeguata a
supportare gli obiettivi strategici prefissati: “the plan was crafted without
assessing competitive response, and […] Fiat’s structure was inadequate to
meet the plan’s objectives”8. Sullo sfondo, non poco contribuirono le
operazioni per l’installazione di insediamenti produttivi in America Latina,
Brasile ed Argentina in particolar modo, che richiesero ingenti investimenti e
conobbero fortune alterne. Attualmente, accanto al successo di Fiat in Brasile
si deve considerare che lo stabilimento di Cordoba in Argentina cessò la
produzione, in seguito alla sfavorevole congiuntura interna che portò
l’Argentina in una crisi profondissima durante gli anni ’90.

L’erosione della quota di mercato, passata dal 14.6% degli anni ’80 al 10,9%
del 20009 era un primo segnale di un indebolimento della capacità competitiva
a livello globale, nonostante la posizione di forza detenuta nel mercato interno
protetto da restrizioni nei confronti dei players esterni (asiatici in particolare),
che assorbiva ancora ben oltre il 30% delle vendite totali del gruppo.
L’eccessiva attenzione rivolta all’Italia fu uno dei fattori che determinò
investimenti insufficienti a garantire lo sviluppo di un’adeguata rete di vendita
ed assistenza europea, il che non fece altro che peggiorare ulteriormente
l’immagine “povera” di Fiat nella percezione dei clienti potenziali europei, già
scarsamente attratti da un portfolio di prodotti obsoleti e che mal si conformava
con le ultime tendenze nel campo del design e del marketing automobilistico.
Mal sostenuti dalla Casa madre e costretti a vendere prodotti con sconti
altissimi, si assistette così all’abbandono di un numero crescente di dealers, che
7
Whitford, Enrietti, dicembre 2005.
8
www.just-auto.com, 27 luglio 2004.
9
Il dato, già preoccupante, era destinato a peggiorare ulteriormente fino a toccare il 6.6% nel 2005. Si
veda in proposito la tabella riportata in seguito.

5
passarono alla concorrenza lasciando scoperte aree strategiche all’interno di un
mercato europeo in cui nel frattempo i maggiori costruttori si disputavano il
presidio del territorio e infittivano la propria rete commerciale in modo da
assicurare un trattamento del cliente quanto più paritario possibile nelle varie
nazioni europee e garantire così una qualità del servizio offerto che fosse
influenzata nella minore maniera possibile dalla dislocazione territoriale. Si
assistette così a quello che, a mio avviso, da un lato si rivelava un paradosso
difficilmente giustificabile, e dall’altro era la logica conseguenza dell’essersi
spinti troppo oltre nella diversificazione senza la necessaria copertura
finanziaria per quel che riguarda Fiat Auto: Fiat non poteva contare su di un
prodotto di massa oltre la Punto, e contemporaneamente si trovava a non avere
più nemmeno le concessionarie che lo vendessero. Fiat si trovava in un vortice,
nel quale pareva difficile l’individuazione di una via di uscita che potesse
riportarla in una condizione di stabilità quanto meno fino a che non fosse stato
chiaro e condiviso il cammino da percorrere e le risorse necessarie per fare in
modo che gli sforzi da compiere risultassero efficaci e finanziariamente
sostenibili nel tempo. Un’indicazione di quanto la crisi stesse minando i
fondamentali aziendali può essere ricavata dalla semplice lettura dei dati riferiti
all’andamento delle immatricolazioni in Europa di Fiat a confronto con gli altri
Costruttori. Se solo nel 1990 una quota di mercato pari al 13,7% consentiva al
Gruppo di detenere la seconda piazza in Europa, dietro a VW e davanti a Ford
e PSA, nel volgere di un decennio una quota del 10% la relegava alla sesta
posizione, con un totale di immatricolazioni sceso a quasi il 50% di quello di
Volkswagen, che continuava ad essere il leader di mercato. Il trend negativo
negli anni a venire non conobbe sosta, fino a che nel 2005 si raggiunse
l’estremo inferiore, con una quota scesa al 6,6%, e un volume di vendita
dimezzato rispetto a quindici anni prima.

6
Tab.1.1: evoluzione delle quote di mercato in Europa.
Fonte:ccfa.com

Ed ecco quindi esplodere la necessità di provvedere ad un cambio radicale nel


proprio rapporto con il mercato: non più bassa qualità, non più prodotti non
supportati da un’adeguata rete commerciale, non più una Fiat fatta di piccole
auto di primo prezzo, che pochi margini permettevano e dalle quali invece Fiat
dipendeva, visto che il 74% delle immatricolazioni derivavano dalla sola
Punto: "We're trying to shift the center of gravity. When 74% of your sales are
in small cars, you're in the small-car business", affermò l’allora responsabile
marketing di Fiat Auto Juan Josè Diaz Ruiz10. Ed ancora, dice Garel Rhys,
docente di motor industry economics all’Unniversità di Cardiff: "Fiat now

10
Edmonson, 6 agosto 2001.

7
needs fantastic products to break out of the ghetto they are in.11" Il ghetto delle
auto piccole, povere di dotazioni, prive di appeal per i clienti che non volessero
o dovessero rivolgersi ad auto di segmento A o B, i cui margini assai risicati e
la concorrenza dei rivali generalisti e dei new player asiatici non contribuivano
a sostenere la redditività aziendale, che anzi spesso veniva ulteriormente
deteriorata a seguito dell’insorgere di vere e proprie guerre di prezzo.

E mentre l’alleanza con GM iniziava a dare i suoi frutti, mentre si preparava il


lancio dell’auto che avrebbe dovuto dare slancio a Fiat anche nel segmento C,
mentre si lavorava per ricostituire la competitività di Fiat nel mercato e nella
percezioni degli automobilisti, improvvisamente la crisi esplose. Una crisi
appartenente in primo luogo al comparto dell’Auto, diffusasi rapidamente nel
core business di un Gruppo assai diversificato, non solo scalzandolo dalla
posizione lungamente detenuta di primattore del mercato europeo, ma dando il
via ad un trend di risultati negativi così lungo e grave da rendere plausibili
scenari impensabili fino a pochi anni prima, e assai preoccupanti alla luce delle
conseguenze che avrebbero potuto comportare per il travagliato equilibrio
interno dell’Azienda.

Una crisi assai più grave di quanto avessero potuto prevedere gli analisti, gli
esperti, le banche e lo stesso management della Fiat, della quale il management
sembra prendere pienamente coscienza, anche pubblicamente, nel Dicembre
2001, quando Gianni Agnelli parla di un Fiat a due velocità, divisa tra settori
aziendali che si dimostravano redditizi e promettevano ulteriori sviluppi nel
prossimo fututo e l’Auto, intrappolata in una condizione di totale smarrimento,
ma soprattutto senza una chiara idea sulle scelte da compiere e sul cammino da
percorrere per ritrovare una competitività che sembrava smarrita, affievolita
sotto il peso di una clientela che sembrava avere voltato le spalle ai modelli

11
Edmonson, 6 agosto 2001.

8
Fiat che non fossero Punto ed il contemporaneo rafforzamento dell’offerta
degli altri OEMs nel mercato continentale. Il primo passo verso il tentativo di
recuperare le redini dell’Azienda fu di sostituire l’allora Amministratore
delegato Roberto Testore con un elemento di spicco quale Giancarlo Boschetti,
responsabile di Iveco e manager di grossa fama. La decisione non sortì gli
effetti sperati nell’ottica di un recupero di credibilità presso gli analisti di
settore, anzi, lungi dal tranquillizzare gli animi, alimentava il sospetto che il
cambiamento radicale del management di prima linea fosse sintomo di una
necessità di cambiamento di prospettiva e di approccio strategico alla direzione
aziendale che andasse ben oltre il normale avvicendamento di generazioni
successive di manager. Il mancato riconoscimento di una nuova fiducia,
assieme a risultati economici sempre meno soddisfacenti, contribuì
ulteriormente ad alimentare il senso di sfiducia, incertezza e incapacità di
reazione che aveva iniziato a permeare gli animi della compagine aziendale.
Nonostante i proclami ottimistici, e le dichiarazioni volte ad attribuire
all’influenza di fattori di ciclicità il declino delle quote di vendita prevedendo
come prossima la fine della parabola discendente, anche Paolo Fresco, l’allora
presidente di Fiat, giunse ad affermare che le perdite stavano diventando
talmente pesanti da risultare insostenibili nel lungo termine: “Over time, no
one can keep filling a black hole”12. A fronte di un’emblematica riduzione del
55% del venduto in Italia nel 2001, il peggior risultato annuale nel panorama
automobilistico europeo, a fronte di licenziamenti consistenti e una
conseguente ondata di proteste e scioperi, è lo stesso Fresco a rivelare che la
situazione era molto peggiore di quella che si poteva immaginare fino a poco
tempo prima: "There is no doubt that the challenge I'm faced with is much
bigger than I expected."13 Fiat auto si trovava stretta tra pressioni che la
scuotevano con forza: gli organi di stampa diedero il via ad un vero e proprio
bombardamento mediatico, il cui tema di fondo riguardava la stima della

12
Edmondson, Tierney, Fairlamb, Brady, Welch, 2002
13
Guyon, 2002.

9
distanza di Fiat dal baratro e di come questa si assottigliasse giorno dopo
giorno, con le banche creditrici che premevano per rivendicare la propria
esposizione finanziaria nei confronti di Fiat, le quote di mercato nel mercato
interno che iniziavano a risentire della crescente concorrenza di competitors
stranieri, che determinarono la riduzione della quota di Fiat dal 44% nel 1992 a
meno del 32% del ammontare totale delle vendite italiane nel marzo 2002. E
se la perdita di quota di mercato era l’aspetto che risaltava di più agli occhi
dell’osservatore esterno, era soprattutto all’interno dell’Azienda che si
producevano gli effetti più negativi: data la generale rilevanza dell’incidenza
dei costi fissi nei bilanci dei Costruttori di autovetture, una diminuzione del
venduto rappresentava un problema serio, che si doveva arginare attraverso le
opzioni a disposizione, ovvero la riduzione della capacità produttiva e/o della
manodopera. Per inciso, nel 2002 la capacità produttiva utilizzata era salita al
79% della disponibile, dopo la chiusura dello stabilimento di Rivalta: prima si
attestava al 70%, una cifra veramente bassa che contribuiva a peggiorare la
redditività degli impianti e dei prodotti in essi realizzati. La questione
sollevava un problema ulteriore, quello delle rappresentanze sindacali sul piede
di guerra non solo per il rifiuto della dirigenza di prendere in considerazione le
richieste di rinnovo dei contratti dei lavoratori, ma soprattutto per l’annuncio
della probabile chiusura di 18 stabilimenti, di cui 2 in Italia e di taglio di
migliaia di posti di lavoro14. Il clima di scontro conseguente non fece altro che
peggiorare la situazione complessiva, determinando una lunga serie di scioperi
e proteste tali da costringere Fiat a venire incontro alle istanze sindacali
nonostante la situazione difficile e la riduzione delle risorse finanziarie a
disposizione.

Non trovandosi in una situazione favorevole per competere


efficacemente nel mercato, Fiat cercava la maniera per rimanere a galla, in

14
Nel solo 2002, vengono tagliati in Italia 3.468 posti di lavoro in primavera, e 5.600 in Dicembre,
seguiti da ulteriori 2.500 nel Giugno 2003. Cfr. J.Whitford, A.Enrietti, 2005.

10
attesa di chiarire prima di tutto a se stessa quali azioni fossero da implementare
per riuscire ad emergere dallo stato di evidente sofferenza aziendale: in un
articolo di Businessweek dal titolo eloquente (“Fiat, running on empty”) ci si
chiedeva: “Management is in turmoil, cash is low, and there's no hot model in
sight. Can Fiat be saved?”. L’articolo continua: “While Fiat wielded its
political clout in Rome for decades to keep competition at bay, Volkswagen,
Peugeot, Renault, and Ford were battling for market share and catapulting
ahead of Fiat in quality, technology, and performance.”15: Le vendite di Stilo,
l’auto che doveva scalzare Volkswagen Golf dal gradino più alto del mercato
europeo delle auto compatte, raggiungevano a malapena il 60% delle
previsioni. Dal 1998, Fiat Auto perdette $2.5 miliardi, compresi $1.3 miliardi
nel 2001. “"Fiat [Auto] is finished" says a top executive at a European rival,
echoing the view of dozens of car-industry managers, suppliers, ex-Fiat execs,
investment bankers, consultants, and analysts interviewed by BusinessWeek”16.
La sensazione era quella di un declino che stava iniziando ad accelerare, e che
difficilmente avrebbe potuto essere arginato: sembrava che il destino di Fiat
fosse per realmente incerto per la prima volta nella sua storia, sensazione
aggravata dalla percezione di un clima di rottura tra proprietà e management
che le dichiarazioni pubbliche degli interessati non riuscivano a fugare
dall’opinione degli analisti e degli organi di stampa. Agnelli arrivò persino a
screditare pubblicamente Cantarella, delegittimandolo mentre era ancora in
carica e attribuendogli le colpe di un passato recente17, dimostrando come i
meccanismi di governance interna fossero logorati e privi di una direzione
chiara e condivisa. Ci provò Boschetti, elaborando un piano industriale che
razionalizzasse la struttura dell’Azienda (creazione di 5 business units), le
strutture di costo, intervenendo direttamente sull’occupazione (8100 erano gli
esuberi previsti), prevedesse cospicui investimenti per i tre anni a venire (2,5

15
Edmondson, Tierney, Fairlamb, Brady, Welch, 2002.
16
Edmondson, Tierney, Fairlamb, Brady, Welch, 2002.
17
Berta, 2005, pag.71 segg.

11
miliardi di euro anni in R&D), l’esordio di nuovi modelli in grado di
ringiovanire la gamma ed estenderla a segmenti ancora inesplorati, e che
soprattutto convincesse la platea finanziaria internazionale, gli analisti e gli
stakeholders del fatto che Fiat fosse ancora in grado di ritrovare la soluzione
giusta per uscire dalla crisi. Ma non ottenne, purtroppo, l’effetto sperato, per il
semplice motivo che non riuscì a fugare i sospetti che nemmeno il management
avesse le idee chiare riguardo il quando e il come si sarebbe concluso il
momento che ci si trovava a vivere. Un clima del genere iniziò a diventare
difficilmente sostenibile non solo per l’Azienda, ma per tutte le Istituzioni in
qualche maniera collegate al travaglio di Fiat, ovvero Banche, Governo,
Sindacati, Azionisti, tanto che Mauro Tedeschini, direttore di Quattoruote,
nell’aprire il numero di Maggio 2006, cita un editoriale di Eugenio Scalfari,
datato 11 dicembre 2002 e intitolato “La parola fine sull’auto italiana”: “In
platea, rabbiosi e impotenti, i lavoratori dell’automobile, nel loggione i
cittadini, che assistono stupefatti a questa incredibile rappresentazione di un
dramma umano, industriale e politico”18. Il tono rifletteva lo stato di difficoltà
che riguardava Fiat in primis, ma che in certa misura affliggeva l’intero
apparato industriale italiano, quello nato negli anni ’50 e ’60 e di cui Fiat era il
caposaldo indiscusso, avendo guidato il Paese nella svolta nel proprio modello
economico e che vedeva sgretolarsi i propri fondamentali sotto il peso di
un’improvvisa incapacità di confrontarsi apertamente con le spinte emergenti
dal contesto competitivo globale: “The demise of Fiat Auto as an independent
carmaker would also rock Italy Inc., revealing the painful truth not only about
Fiat's mismanagement but also about decades of flawed industrial policy. Italy
kept quotas on Japanese cars after other European countries had done away
with them. Rome also granted Fiat subsidies and other concessions. "The
terrible story of Fiat reflects the protectionism, ineffectiveness, corruption, and

18
Scalfari, 2002.

12
compromise typical of the way Italy has done business for the past 30 years,"19.
L’Economist, arrivò a definire “un carnevale” i fatti del 2002, anno in cui
emersero con chiarezza il lato “cattivo” degli attori coinvolti in tale vicenda:
l’impotenza della proprietà e del management (accusati di essere in procinto di
vendere il settore Auto a qualche investitore straniero in grado di garantire un
adeguato profitto al Gruppo), la scarsa capacità di intervento dell’azionariato,
l’opportunismo delle Banche, la sventatezza e superficialità del Governo
nell’affrontare la crisi20. Le uniche vie d’uscita che non contemplassero un
ulteriore intervento delle banche creditrici rimanevano la cessione degli assets
non strategici per Fiat Auto, sui quali gli Agnelli avevano fondato il processo
di diversificazione dei business dell’Azienda che era stato perseguito nel corso
degli anni, ma si iniziò a parlare anche di vendita di business più legati al core
aziendale, come il marchio Alfa Romeo e addirittura la quota di proprietà Fiat
in Ferrari (evento quest’ultimo effettivamente realizzatosi pur solo
parzialmente, con la cessione del 34% del capitale azionario a Mediobanca nel
2002. In molti stigmatizzavano tali manovre, il Financial Times commentava
dicendo che “è follia continuare a vendere solide attività redditizie per
sostenere un settore automobilistico privo di realistiche prospettive di
sopravvivenza”21, riferendosi in particolare alla vendita di Fiat Avio e Toro
Assicurazioni, altri scommettevano sul prossimo fallimento, o sulla vendita
spezzettata del settore automobilistico alla ricerca di un rapido realizzo finchè
ancora la situazione complessiva lo permetteva (ovvero prima che si
materializzasse l’ipotesi di bancarotta), per raccogliere quanto più possibile e
reinvestirlo nelle altre attività del Gruppo. E quando il 24 Gennaio 2003 muore
l’Avvocato, alle difficoltà pregresse si sommarono quelle legate a possibili
guerre di successione. Fortunatamente ciò non avvenne, dato che il nuovo

19
Edmondson, Tierney, Fairlamb, Brady, Welch, 2002
20
Cfr. Berta, 2005, e The Economist, 12 dicembre 2002.
21
Cfr. Berta, 2005, pag. 93.

13
assetto vide succedere nel ruolo di Presidente il fratello minore di Gianni
Agnelli, Umberto.

Per il nuovo presidente, l’imperativo era uno solo: porre le basi per
uscire dalla situazione di stallo in cui si era venuta a trovare l’Azienda,
rimediando alla mancanza di prospettiva industriale e stabilendo una serie di
linee guida che sapessero porre Fiat al riparo dalla crescente pressione
competitiva esercitata da concorrenti sia europei che asiatici, che erodevano le
quote di mercato di Fiat e imponevano nuovi standard qualitativi e tecnici che
la costringevano un ruolo di follower in difficoltà finanziarie e tecniche. Si
parla di “una situazione che vede Fiat Auto caratterizzata da una capacità
competitiva che ha già perso gran parte della spinta propulsiva manifestata
negli anni precedenti”22. Una Fiat Auto che nel volgere di pochi anni era
caduta al sesto posto tra i maggiori produttori europe, dopo essere stata a lungo
seconda solo a VW23, e ai cui deficitari risultati si doveva la responsabilità
ultima della situazione complessivamente negativa dell’intero Gruppo: divenne
improvvisamente evidente come negli anni precedenti non si seppero prendere
le decisioni giuste, al momento giusto e con l’adeguata rapidità necessaria a
garantire l’equilibrio e le prospettive del settore Auto. In generale, come
sottolinea Giuseppe Berta, “Fiat era bloccata nella morsa delle sue
contraddizioni: da un lato, l’aggancio con l’auto si tramutava in un abbraccio
mortale, per i limiti di un modello di globalizzazione povera, senza le risorse
necessarie a sostenere un impegno su più fronti continentali, dall’altro,
premevano i costi ingenti di una politica di diversificazione e di acquisizioni
che esigeva riorganizzazioni complesse e aveva quindi un ritorno differito.
Insomma, la Fiat scontava la colpa di avere effettuato delle scelte a metà”24.
Ed era questo il punto di partenza per la nuova compagine manageriale, lo

22
Volpato, 1996.
23
E.Sylvers, 10 novembre 2006.
24
Berta, 2005.

14
scenario a cui porre rimedio con segnali forti di discontinuità, la ratio che
guidò la formulazione del piano industriale presentato il 26 giugno 2003. Un
piano che venne accolto tiepidamente dalla stampa e dagli analisti, per una
certa indefinitezza nell’individuazione di possibilità di cambiamento di uno
scenario che sembrava destinare a Fiat un futuro da Costruttore di nicchia. Ma
intanto iniziò a prendere piede l’impressione che qualcosa si stesse muovendo,
anche se le perdite continuavano ad essere assai consistenti, nell’ordine di $9.3
miliardi nel periodo compreso tra il 1998 ed il 200325, l’eccesso di capacità
produttiva quasi drammatico (vendite globali di 1,8 milioni di auto, a fronte di
una capacità produttiva di 2,5 milioni), la situazione finanziaria in picchiata,
con un cash flow negativo previsto tra $1 e $1.5 miliardi in 2004, un debito che
sfiorava i 5,4 miliardi di dollari, ed una bancarotta evitata solo grazie
all’intervento delle banche, che grazie all’accordo del 2 Giugno 2002
accordarono un prestito convertendo di 3 miliardi di euro. Tale cifra avrebbe
dovuto essere ripagata nel Luglio del 2005, quando le stesse banche, in caso
del mancato saldo del debito, sarebbero diventate proprietarie del 24% del
capitale azionario di Fiat. E proprio il maxi-prestito, contribuì ad alimentare i
dubbi: "I think the company slides ever more deeply into the hands of the
banks, if not into bankruptcy”, affermò l’analista Stephen Cheetham. "And that
means a spiral into nothingness." 26. Le condizioni per l’accessione al prestito
bancario costringeva Fiat ad operare scelte drastiche per “fare cassa”,
disfandosi degli assets più remunerativi per risolvere la complessa situazione
di debito e carenza di liquidità. Tra l’altro come si deduce dalla tab.2, le
previsioni di mercato erano tutt’altro che rosee. Come ebbe a dire l’analista
Jochen Gehrke "Fiat's on its last chance. If they produce flops, the game is
over."27

25
cfr. Dati di bilancio del Gruppo, reperibili al sito internet della società.
26
Edmondson, Tierney, Fairlamb, Brady, Welch, 2002.
27
Edmonson, 24 giugno 2004.

15

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