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Santo Padre, la pandemia pone alla Chiesa nuove, urgenti e complesse sfide a
livello morale. La crisi sanitaria, che ha generato una diffusa e
preoccupante crisi economica, sta facendo emergere la fragilità dei nostri
sistemi sociali. Tale situazione impone alle nostre comunità di ravvivare la
creatività della carità con proposte e gesti significativi, arrivando alle radici dei
problemi. Secondo Lei cosa può fare la teologia morale per un fruttuoso
accompagnamento formativo delle coscienze?
La pandemia è una crisi universale. Tutti sappiamo che da una crisi non se
ne esce rimanendo uguali a prima. Ne usciamo migliori o peggiori, sia a
livello individuale che sociale. Tutto dipenderà dal come gli Stati
programmeranno il post-Covid: se in modo umano, o se solo in modo
tecnico, ossia se guarderanno prevalentemente allo sviluppo economico,
finanziario, oppure se sceglieranno di ripartire dalle persone,
che ovviamente valgono sempre molto di più di un semplice profitto o di
un dato finanziario.
Credo che il punto sia educare le coscienze a pensare in maniera differente,
in discontinuità con il passato. Ciò che ci aspetta è certamente un tempo
difficile, con un aumento della povertà e della fame.
Tutti dobbiamo agire con responsabilità, se vogliamo o no una umanità
più umana, senza schiavi, senza uomini e donne sfruttati. Dobbiamo
domandarci se vogliamo ancora nazioni che sfruttino altre
nazioni, privandole – ad esempio – delle loro ricchezze naturali,
soprattutto in questo momento in cui si avverte un bisogno crescente di
risorse specifiche da impiegare per le nuove tecnologie che stanno
diventando il nuovo petrolio, il nuovo oro. Non ha senso che una nazione
si impegni da una parte a dare un sistema politico democratico a una
nazione più povera, e poi trattenga per se l’usufrutto del suo sottosuolo. È
inaccettabile che questo modo di pensare e di vivere rimanga uguale dopo
la grande crisi della pandemia. Bisogna fare delle scelte coraggiose
che impongano un cambiamento. Ma nessun cambiamento è possibile, se
non cambia la visione e la percezione della realtà intorno a noi. Credo che
la teologia morale debba aiutare per consapevolizzare quei “peccati” che il
mondo ormai ha inglobato nella sua normalità e non li percepisce più come
tali.
C’è una sintonia tra il pensiero di sant’Ignazio e quello di sant’Alfonso?
Sant’Ignazio parla di partecipazione affettiva alla vita di Cristo. C’è secondo
Lei qualcosa di simile nel pensiero alfonsiano?
Credo di si. Per sant’Ignazio, ad esempio, è importante coinvolgere nella
meditazione, anche nella lettura del Vangelo l’affetto. Questo porta l’uomo
morale, il teologo, a essere syn-pathico con la persona che ha dinnanzi. In
questo modo non penserà mai all’altro solo come un peccatore, come un
malvagio da condannare. Anche lui è peccatore. L’altro che gli va incontro
è un uomo che cerca Dio e viene al confessionale perché sta cercando Gesù.
E Gesù non condannava mai preventivamente il peccatore. La Sua durezza
era ed è contro una mentalità sbagliata, ma accanto alla durezza della
condanna del peccato Egli mostra una tenerezza infinita per ogni uomo,
anche per il più peccatore. Gesù condanna il peccato e non il peccatore.
la versione integrale dell’intervista verrà pubblicata nel prossimo fascicolo di Studia Moralia (58/2 luglio
dicembre 2020)
[1] Francesco, «Progettare passi coraggiosi per meglio rispondere alle attese del popolo di
Dio» in Studia Moralia 57/1 (2019) 13-16.