5.0 Generalità
I rivelatori sono trasduttori che ricevono fotoni e producono un segnale elettrico che puo' essere
amplificato e reso intellegibile. Un buon rivelatore deve preservare la maggior parte
dell'informazione presente nel flusso di fotoni. Si dovranno quindi ottimizzare i seguenti parametri:
1) Efficienza quantica: la percentuale di fotoni che viene convertita in un segnale utile deve essere
massimizzata. Questo obbiettivo viene raggiunto in modo diverso per differenti tipi di rivelatori e lo
descriveremo in dettaglio nel seguito.
2) Linearità: e' la proporzionalità tra potenza radiativa osservata (o flusso di fotoni) e segnale
elettrico in uscita. Una accurata linearità e' una caratteristica utile per un rivelatore (anche se non
essenziale) perché la risposta del rivelatore a diversi livelli di radiazione incidente e' descritta da
una sola costante di proporzionalità. Nel caso il rivelatore non fosse lineare, può sempre essere
calibrato, ovvero si può misurare la relazione non lineare tra potenza in ingresso e segnale in uscita.
In ogni caso in ciascun punto di lavoro si può definire una costante di proporzionalità tra potenza in
ingresso e segnale in uscita, che è detta Responsività ℜ.
3) Rumore: Tutti i rivelatori producono del rumore che si sovrappone al segnale dovuto ai fotoni
incidenti. Questo ha diverse cause (vedi cap.2), e provoca una incertezza sul segnale d' uscita che
deve essere minimizzata. Questo richiede di solito il raffreddamento del rivelatore (vedi paragrafo
4.0) per ridurre il rumore di origine termica, ed una buona tecnologia di costruzione per eliminare
altre cause di rumore (contatti, microfonia etc.). Il parametro che descrive il rumore in modo
indipendente dal tipo di rivelatore e' il NEP (Noise Equivalent Power), definito come la potenza (in
W) che in 1 secondo di integrazione produce un segnale pari alla deviazione standard del rumore
del rivelatore: e' quindi il minimo segnale rivelabile da un rivelatore. Se si assume che il rumore del
rivelatore sia di tipo gaussiano, l'errore prodotto sulle misure va come [1/( √N)], dove N e' il
numero di misure indipendenti. Infatti la stima dell' errore sulla media e' pari alla deviazione
standard divisa per la radice del numero di misure indipendenti. D' altra parte il numero di misure
indipendenti e' proporzionale al tempo di integrazione, e l' errore da associare alla misura diminuira'
quindi come la radice del tempo di integrazione. Si preferisce quindi dare il NEP in W/[√Hz], in
modo che sia chiaro come modificare le stime del rumore per tempi di integrazione diversi da 1
secondo. Detto 〈∆S2 〉1/2 tale valore rms delle fluttuazioni del segnale, si avra' evidentemente
〈∆S2 〉1/2
NEP = (5.1).
ℜ
Il rumore e la responsivita' (e quindi il NEP) possono dipendere dalla frequenza del segnale elettrico
in uscita dal rivelatore. In tal caso
〈∆S2 (f) 〉 1/2
NEP(f) = (5.2)
ℜ(f)
dove ∆S2 (f) e' lo spettro di potenza delle fluttuazioni del segnale.
4) Intervallo dinamico: e' il rapporto tra il massimo di livello di segnale che puo' essere misurato
mantenendo il rivelatore in un regime approssimativamente lineare e il minimo segnale rivelabile. I
bolometri sono i rivelatori con maggiore intervallo dinamico (restando approssimativamente lineari
in un intervallo di circa 7 ordini di grandezza), mentre i rivelatori ad accumulo di fotoelettroni
(camere CCD) hanno un intervallo dinamico di 4 o 5 o.d.g..
5) Numero di pixel: numero di zone di cielo (o del piano focale del telescopio) che il rivelatore
puo' osservare contemporaneamente. Nel caso sia maggiore di uno, si parla di solito di rivelatore a
mosaico (array). Nel caso sia un numero molto maggiore di uno, si dice che il rivelatore puo'
produrre immagini. Esempi tipici di rivelatori che possono produrre immagini sono la lastra
fotografica e la camera CCD. Tipici rivelatori ad un solo pixel sono i radiometri (a singola antenna).
6) Tempo di risposta: il minimo intervallo di tempo entro il quale il rivelatore puo' seguire le
variazioni di potenza in ingresso.
7) Risposta spettrale: L'intervallo di frequenze in cui il rivelatore puo' essere utilizzato. Un
rivelatore con ampia efficienza spettrale puo' essere usato in un grande numero di osservazioni a
lunghezze d'onda diverse, che vengono selezionate usando opportuni filtri interposti tra la sorgente
e il rivelatore.
8) Banda spettrale: La banda di frequenze che vengono rivelate simultaneamente dal rivelatore. E'
al massimo uguale alla risposta spettrale, ma di solito e' molto piu' ridotta, perche' il rivelatore viene
usato insieme ad uno spettrometro o ad un filtro, selezionando una o piu' bande di interesse per la
misura specifica.
Nelle bande UV, V, IR, l' assorbimento di un fotone da parte di un semiconduttore ha di solito
effetti molto importanti sulle proprieta' elettriche. Quindi la maggior parte dei moderni rivelatori di
radiazione utilizza semiconduttori.
Distingueremo infine tre categorie di rivelatori:
a) Rivelatori quantici: ogni singolo fotone arrivando sul rivelatore produce un effetto misurabile
(ad esempio emissione di un fotoelettrone). Nel caso piu' comune dei rivelatori a semiconduttore, l'
elettrone di conduzione generato dal fotone puo' avere tre effetti: produrre un cambiamento
chimico; variare la corrente elettrica nel cristallo; essere introdotto direttamente nell' amplificatore
di uscita. Esempi di rivelatori quantici sono i contatori proporzionali, i fotomoltiplicatori, i
fotoconduttori, i fotodiodi, le CCD, le lastre fotografiche.
b) Rivelatori termici: assorbono i fotoni e termalizzano la loro energia. Quindi non reagiscono al
singolo fotone, ma piuttosto all' effetto integrato di un certo numero di fotoni. Si usano quando l'
energia dei fotoni no n e' sufficiente a strappare elettroni da un metallo e nemmeno a produrre
elettroni o lacune di conduzione in un semiconduttore: questo succede a lunghezze d'onda maggiori
di 200 µm. L' energia termica cosi' ottenuta produce un cambiamento nelle proprieta' del rivelatore
(elettriche, o piu' in generale fisiche) che induce un segnale elettrico misurabile. Grazie alla loro
capacita' di misurare con precisione l' energia accumulata cominciano ad essere usati anche come
rivelatori X. Esempi di rivelatori termici sono i bolometri e la cella di Golay.
c) Rivelatori coerenti: Rivelano l'ampiezza del campo elettrico dell' onda elettromagnetica
associata alla radiazione osservata, misurando la differenza di potenziale prodotta da questa in una
antenna. Conservano quindi l' informazione di fase associata all' onda elettromagnetica. Vengono
usati principalmente nelle bande radio e submillimetrica. Grazie alla capacita' di conservare l'
informazione di fase si possono far interferire tra loro i segnali provenienti da antenne separate da
una certa distanza e puntate nella stessa direzione. Si ottiene cosi' un interferometro, uno strumento
radioastronomico capace di enorme risoluzione angolare (fino al millesimo di secondo d'arco).
Come tutte le classificazioni, anche questa non e' esente da eccezioni. Esistono infatti particolari
rivelatori in cui il carattere termico e quello quantico o quello coerente sono mescolati (esempio
tipico sono i mixer ad antimonuro d' indio o i bolometri elettronici).
5.1.1 La lastra fotografica: ha subito una enorme evoluzione dopo la sua invenzione (Niepce, circa
1830), e possiamo assumere che la relativa tecnologia abbia raggiunto oggi il suo limite. I vantaggi
di questa tecnica sono la semplicita' d'uso e l' enorme numero ( ∼ 1010 ) di 'pixel equivalenti' presenti
in una lastra fotografica di grandi dimensioni. E' inoltre un supporto piuttosto stabile dell'
informazione, con una buona dinamica (intervallo dinamico maggiore di 100). Questo significa che
non richiede memorie di massa ulteriori: ciascuna lastra puo' contenere fino a ∼ 8 bit ×1010 pixel =
10000 MBytes di informazione.
A riprova dell'importanza ancora attuale della fotografia astronomica, basta pensare che le piu'
importanti survey del cielo sono state eseguite con telescopi Schmidt e grandi lastre fotografiche,
con risoluzione di pochi secondi d'arco: nell' emisfero nord (δ > - 33o ) e' disponibile la Palomar Sky
Survey (PSS) nel rosso e nel blu, con magnitudini limite rispettivamente 20 e 21; nell' emisfero sud
(δ < -17o ) sono disponibili le survey dell' European Southern Observatory e dell' Anglo Australian
Telescope (blu, m.l. 23, e rosso, m.l. 22).
La lastra fotografica ha anche svantaggi: una bassa efficienza quantica (5% al massimo), un
intervallo dinamico limitato, una cattiva linearita' e la necessita' di usare un microdensitometro per
trasformare l'informazione analogica contenuta nella lastra in forma numericamente e
quantitativamente elaborabile.
Una sezione schematica di una lastra fotografica e' mostrata in fig.5.1. I grani di alogenuro d'
argento sono i rivelatori; essi sono sospesi in uno strato di gelatina (una enorme molecola organica
con circa 5 ×105 u.m.a.) formando l'emulsione fotografica, che e' depositata su una lastra di vetro,
che fornisce stabilita' meccanica e planarita' al sistema. Al di sotto della lastra di vetro e' presente
uno strato antialone, che limita la riflessione indietro verso l' emulsione della luce, che, essendo
sfuocata, impressionerebbe l' emulsione in un anello intorno alle sorgenti piu' brillanti (fig.5.1B).
Il processo fisico su cui si basa la fotografia e' il seguente (ipotesi di Gurney-Mott): un fotone
incidente su un grano di alogenuro d' argento eccita un atomo mandando un elettrone in banda di
conduzione. Tutti gli elettroni liberati in questo modo si fermano sui centri di intrappolamento
(impurezze o difetti del reticolo cristallino), che acquistano cosi' una carica negativa. Questa attrae
ioni di argento liberi, che si combinano con gli elettroni formando atomi d' argento. La trappola
diventa cosi' sempre piu' efficiente e cattura sempre piu' elettroni liberi. In questo modo dentro il
cristallo di aloge nuro si forma un aggregato contenente da qualche atomo fino a qualche centinaio
di atomi di argento puro. Alla fine dell' esposizione si sara' formata la cosiddetta immagine latente: i
cristalli che si trovavano nelle zone illuminate dai fotoni avranno aggregati di argento, mentre quelli
che si trovavano nelle zone buie saranno rimasti semplici cristalli di alogenuro d' argento.
A questo punto si sviluppa la lastra, immergendola in una soluzione che converte i cristalli di
alogenuro d' argento in argento. La reazione e' molto lenta. ma se il cristallo ha gia' un aggregato
d'argento al suo interno, questo agisce da catalizzatore, e la reazione e' molto piu' veloce. Nelle
emulsioni piu' sensibili bastano da tre a sei atomi d'argento per grano per catalizzare la conversione
del grano in argento, mentre nelle emulsioni normali sono necessari piu' di dieci atomi (questo
concorre a produrre la bassa efficienza quantica caratteristica delle lastre fotografiche). Lo sviluppo
quindi si eseguira' tenendo la lastra nella soluzione per un tempo sufficiente a trasformare i grani
esposti ai fotoni in grani d'argento (opachi), ma abbastanza breve da non trasformare in argento
anche gli altri grani (che rimarranno quindi trasparenti). Il processo di sviluppo viene fermato
immergendo la lastra in una soluzione (fissaggio) che dissolve e lava via tutto l' alogenuro d'argento
residuo.
La gelatina e' un buon supporto dei grani perche' permette una ottima penetrazione delle soluzioni
usate per sviluppo e fissaggio; l' unico svantaggio e' che assorbe la radiazione UV (λ < 235 nm).
Inoltre per l' estrazione di un elettrone dall' alogenuro (di solito bromuro) d'argento e' necessaria una
energia maggiore di 2.82 eV, e quindi l' emulsione fotografica semplice risponde solo al blu (235
< λ < 440 nm). La risposta della lastra puo' essere estesa all' UV riducendo lo spessore della
gelatina, in modo da esporre alla radiazione i grani nudi di alogenuro d'argento. Per estendere la
sensibilita' al rosso si fanno assorbire ai grani dei coloranti sensibili al rosso (dye sensitization). I
fotoni assorbiti nel colorante durante l' esposizione creano elettroni di conduzione anche nel grano,
innescando cosi' il processo fotografico. Usando coloranti opportuni si puo' estendere la sensibilita'
del processo fotografico fino a 1160 nm (infrarosso, emulsione Kodak I-Z).
La sensibilita' della lastra (cioe' il rapporto tra opacita' della lastra e intensita' luminosa incidente
durante l'esposizione) dipende dalle dimensioni dei grani. Infatti, indipendentemente dal volume del
grano, e' necessario in prima approssimazione sempre lo stesso numero di atomi d'argento nel grano
per innescare il processo di sviluppo e conversione in argento del grano intero.
Fig. 5.1: Sezione schematica di una lastra fotografica (sinistra). A destra in alto e' mostrata la
formazione di un alone da parte dei raggi riflessi sulla superficie inferiore del supporto. Questo
alone puo' essere considerevolmente ridotto introducendo uno strato antiriflesso sul fondo del
supporto.
Fig. 5.2: Curva caratteristica di una lastra fotografica: si riporta il logaritmo della Opacita' in
funzione del logaritmo del flusso accumulato durante l'esposizione(in J/m^2). Si distinguono
quattro regimi di funzionamento della lastra: partendo da bassi illuminamenti si ha nebbia (fino al
punto A), zona di non reciprocità (da A a B), zona lineare (da B a C, con pendenza g), e zona
saturata e solarizzata (oltre C).
Se il grano e' grande, la densita' che esso concorre a produrre e' maggiore. Quindi le emulsioni a
grana grossa sono le piu' sensibili, mentre quelle a grana fine sono meno sensibili (come e' ben noto
agli appassionati di fotografia). Si deve quindi scegliere un compromesso tra sensibilita' della lastra
e risoluzione angolare. Il test della risoluzione si fa fotografando sulla lastra una immagine
composta da righe bianche e nere alternate. La lastra avra' un potere risolvente tanto maggiore
quanto maggiore e' il numero di coppie di linee per millimetro che possono venire distinte una volta
eseguito lo sviluppo. Lastre a basso contrasto (grana fine) possono avere un potere risolvente di
circa 400 coppie di linee per millimetro, mentre le lastre ad alto contrasto hanno di solito un potere
risolvente dell' ordine di 100 linee per millimetro.
La risposta di una lastra fotografica e' descritta dalla curva caratteristica (fig.5.2), nella quale si
riporta l'opacita' della lastra in funzione del flusso di energia luminosa accumulato sulla lastra
durante l' esposizione.
L' opacita' viene misurata attraverso un microdensitometro, uno strumento che punto per punto
illumina la lastra con una intensita' Io e misura la corrispondente intensita' trasmessa dalla lastra I. L'
opacita' e' definita come l' inverso della trasmissione, cioe' O = Io /I. La densita' della lastra e'
definita come D = - log10 O.
Nella curva di risposta della lastra si distinguono quattro regimi:
A esposizioni molto basse domina una 'nebbia' dovuta ad una minima densita' di grani che, a causa
di altri processi, vengono sviluppati anche se non esposti.
Segue una zona di non reciprocita', che inizia nel punto marcato A in fig 5.2, dove l' immagine
fotografica comincia a essere visibile al di sopra della 'nebbia'. Se nella lastra si producesse una
opacita' O, dipendente solo dal numero di fotoni raccolti, una volta fissata l' opacita' il tempo di
esposizione T dovrebbe essere inversamente proporzionale al flusso di fotoni F (reciprocita'):
O ∝ FT (5.3).
A bassi livelli luminosi questa reciprocita' non e' rispettata, principalmente perche' gli elettroni
fotoprodotti possono separarsi dalle trappole prima che si formi un aggregato di argento efficiente ai
fini dello sviluppo. In queste condizioni la risposta della lastra e' estremamente non lineare.
Segue una zona lineare, che e' quella normalmente utilizzata per ottenere immagini astronomiche.
Qui vale la (5.3). Il contrasto dell' immagine e' dato dalla pendenza γ della curva caratteristica. Il
segnale (l' immagine) si separa nettamente dal rumore (la 'nebbia') tanto piu' quanto piu' grande e' γ.
Ad alti flussi la maggior parte dei grani viene esposta e si ha la saturazione della lastra.
Data la complessita' della curva caratteristica delle emulsioni fotografiche, e' necessario eseguire,
per ogni osservazione di interesse fotometrico, una esposizione di calibrazione fotometrica, ovvero
la fotografia di sorgenti di intensita' nota. L' insieme di queste sorgenti dovra' coprire un ampio
intervallo di luminosita', in modo da poter calibrare la lastra su un ampio intervallo dinamico. La
lastra di calibrazione e la lastra di misura dovranno appartenere allo stesso lotto di lastre ed essere
state conservate in condizioni identiche, nonche' essere ipersensibilizzate e sviluppate allo stesso
modo. In questo modo si possono ottenere, nel migliore dei casi, immagini fotografiche con errore
fotometrico dell' ordine del centesimo di magnitudine.
Raffreddando la lastra fotografica durante l' esposizione si riduce l'agitazione termica, e quindi si
riduce la tendenza dei foto-elettroni ad allontanarsi dalle trappole. Questo sposta la non reciprocita'
a livelli di illuminamento molto piu' bassi. Inoltre si usa anche pre-esporre la lastra con una debole
intensita' uniforme, che produce su tutti i grani un numero di fotoelettroni appena inferiore al
numero necessario per innescare lo sviluppo: in questo modo si migliora la sensibilita' a oggetti
deboli, e si riduce la non reciprocita'. Maggiori dettagli sulle lastre fotografiche possono essere
trovati su Kitchin (1984) e su Eccles et al. (1983).
5.1.2 Fotoconduttori intrinseci: Sono i piu' semplici fotorivelatori elettronici a stato solido,
costruiti con semplici cristalli semiconduttori. Sfruttano l' assorbimento nel cristallo di un fotone di
energia maggiore della gap tra banda di valenza e banda di conduzione del materiale
semiconduttore. L' energia del fotone rompe un legame e crea una coppia elettrone - lacuna. Questi
possono migrare nel cristallo contribuendo alla fotocorrente, che viene amplificata e misurata.
La relazione tra energie e lunghezza d'onda e' data da E = hν, che in unita' pratiche risulta essere
1.24
λ(µm) = (5.4).
E(eV)
Per la fotoconduzione intrinseca basta ricordare che la gap per il Si e' ∆E ∼ 1.16 eV, mentre per il
Ge ∆E ∼ 0.75 eV, per cui tale processo puo' essere sfruttato fino a 1.65 µm di lunghezza d'onda.
Altri semicoduttori meno comunemente utilizzati sono GaP (2.25 eV), PbO (1.90 eV), GaAs (1.35
eV), InP (1.25 eV), GaSb (0.78 eV), InAs (0.33 eV), InSb (0.18 eV), che estendono l' uso dei
fotoconduttori intrinseci fino a 6.9 µm.
I rivelatori di questo tipo possono essere costruiti in grandi mosaici (array), con dimensioni fino a
106 pixel, buona uniformita' di prestazioni ed alta efficienza quantica. Sono di questo tipo le CCD
(charge coupled devices), i rivelatori per basse luminosita' capaci di creare immagini e piu' usati in
astronomia ottica.
Lo schema base di questi rivelatori e' mostrato in fig.5.3. Un campione di cristallo semiconduttore e'
montato in un circuito di alimentazione (bias, o polarizzazione) che permette di applicare una
differenza di potenziale tra due facce opposte del rivelatore (sulle quali sono depositati degli
elettrodi metallici), creando cosi' un campo elettrico approssimativamente uniforme al suo interno. I
portatori di carica presenti all' interno del cristallo generano allora una corrente nel circuito di bias. I
portatori vengono generati tramite due processi fisici diversi: l' eccitazione termica e l' eccitazione
fotonica, che si ha quando il cristallo viene illuminato con fotoni di energia superiore alla gap.
L' eccitazione termica puo' essere resa trascurabile se si raffredda sufficientemente il cristallo. Il
numero di elettroni eccitati termicamente nella banda di conduzione (che ha il limite inferiore ad
energia Ec) e'
⌠∞
no = f(E) N(E) dE (5.5)
⌡ Ec
dove f(E) e' la distribuzione di Fermi Dirac delle energie degli elettroni
1
f(E) = (5.6)
1 + e (E - EF) / kT
e N(E) e' la densita' di stati nella banda. La relazione tra f(E), N(E) ed no e' mostrata
schematicamente in fig.5.4. Si definisce la densita' effettiva di stati Nc all' energia Ec dalla relazione
⌠∞
Nc f(Ec) = f(E) N(E) dE (5.7).
⌡ Ec
Si puo' dimostrare (vedi ad es. Kittel pg.316) che
2 πmn kT 3/2
*
Nc = 2 (5.8)
h2
dove mn * e' la massa efficace degli elettroni liberi nel cristallo (per il Si mn * ≅ 1.1 me). Inoltre di
solito Ec - EF >> kT (kT ≅ 0.024 eV a 300 K). Quindi la (5.6) si riduce a f(Ec) ≅ e - (Ec - EF) / kT . Si ha
allora la seguente espressione per il numero di elettroni in banda di conduzione
2 πmn kT 3/2 - (E - E ) / kT
*
no = 2 e c F (5.9)
2
h
Fig. 5.3: Fotoconduttore. Si tratta di un cristallo di semiconduttore opportunamente drogato, con
elettrodi metallici su due facce opposte. Il circuito di bias permette di generare un campo elettrico
uniforme E all' interno del semiconduttore. Il flusso di fotoni N' genera portatori di carica nel
semiconduttore, che, a causa del campo elettrico, si muovono verso i contatti, generando una
fotocorrente proporzionale al flusso incidente.
Fig. 5.6: Coefficiente di assorbimento in funzione dell'energia dei fotoni per Silicio (A), Germanio
(B) e Antimonuro d' Indio (C).
Fig. 5.7: Diverse geometrie usate per massimizzare il cammino dei fotoni all' interno dei cristalli
fotoconduttori. A sinistra rivelatore a contatto trasparente, con riflessione sulla faccia opposta
all'ingresso. A sinistra rivelatori trapezoidali.
Tabella 5.1: Fotoconduttori estrinseci: si riportano la lunghezza d'onda di cut-off, la sezione d'urto
per assorbimento di fotoni e la temperatura ottimale di operazione.
Elenchiamo ora le cause di rumore di origine fondamentale nei fotoconduttori.
Il segnale e' una corrente, e le fluttuazioni spontanee di corrente in una resistenza sono date dalla
formula del rumore Johnson (2.22):
4kT
〈∆i 〉 =
2
∆f (5.16)
R
per avere basse fluttuazioni si devono usare basse temperature e resistenze molto alte. Questo
comporta la difficolta' di usare amplificatori ad altissima impedenza di ingresso (vedi paragrafo
5.1.5). E' utile calcolare la fluttuazione di carica nel rivelatore causata dal rumore Johnson: l'
energia immagazzinata nel rivelatore (che ha una capacita' C) e' data da 1 /2 C 〈∆V2〉 = 1 /2 k T, e
quindi
〈∆Q2〉 = 〈∆V2〉C2 = kTC (5.17)
Questa formula sara' utile per il calcolo del reset noise, che e' presente se si usano particolari metodi
di lettura del segnale dal rivelatore (vedi piu' avanti, paragrafo 5.1.5).
Il rumore di generazione e ricombinazione (vedi (2.41) ÷ (2.47)) e' prodotto dalla casualita' (shot
noise) delle ricombinazioni dei portatori di carica presenti nel cristallo. Esso e' presente per
ambedue i processi che generano portatori (termico e fotonico). Supponiamo di nuovo che il
numero di portatori generati termicame nte sia trascurabile. Resta il rumore di generazione e
ricombinazione per i portatori fotoeccitati. Esso e' legato al flusso incidente nel modo seguente: il
numero totale di portatori di carica generati nel cristallo nel tempo t e' dato da n = a ηA [dN/dt] t.
La fluttuazione rms di questo numero e', secondo la statistica di Poisson ∆n = √n = √{a A η[dN/dt]
t}, mentre la carica totale accumulata e le sue fluttuazioni sono Q = e n e ∆Q = e ∆n. Abbiamo visto
che la fotocorrente e' data dalla (5.10)
i dn
. .
i = e Gpc η A a = G e = ⇒
(5.18)
N Q
eG dt
Quindi la quantita' i/eG e' la derivata di una quantita' fluttuante in modo poissoniano. Possiamo
allora utilizzare la relazione (2.19) che collega la fluttuazione rms di una qualsiasi quantita'
fluttuante allo spettro di potenza della sua derivata (come fatto per ottenere la (2.42)):
〈∆i (f) 〉 2 〈∆n 〉 2
wi/eG (f) df = df = 2 df
e2 G2 t
e quindi
〈∆n 〉 2 .
〈∆i (f) 〉 df = e G 2
2 2 2
df = 2 e2 G2 a A η N df
(5.19)
t
Supponendo che questo sia il rumore dominante si puo' ricavare il NEP del fotoconduttore (usando
la (5.12)):
NEP =
〈∆i2 〉1/2
=
hc 2aA
.
N =
__ P
(5.20)
ℜ λ √ √2a √ hν
η
η
dove P e' la potenza radiativa incidente sul rivelatore. In questo caso il NEP puo' essere migliorato
solo aumentando l' efficienza quantica η o riducendo il flusso radiativo (background) P. Ad
esempio, per una potenza di background dell' ordine di 10-8 W, caratteristica di un telescopio con
specchio a temperatura ambiente, ed una efficienza quantica η ∼ 0.1, si ha a λ = 100 µm un NEP
∼ 10-14 W/[√Hz]; invece per un background dell' ordine di 10-15 W, caratteristico di un eseperimento
su satellite, si ha alla stessa lunghezza d'onda un NEP ∼ 10-17 W/[√Hz].
A queste sorgenti di rumore, di origine fondamentale, va aggiunto il rumore 1/f, dovuto di solito
alla tecnologia di realizzazione dei contatti sul cristallo.
Abbiamo gia' detto che il rivelatore va fatto funzionare in condizioni di BLIP. Anche in queste
condizioni, il numero di fotoni prodotti dall' ambiente visto dal rivelatore dovra' essere minimizzato
rispetto al numero di fotoni del segnale di origine astrofisica effettivamente da rivelare. Nasce
quindi la doppia necessita' di (a) raffreddare criogenicamente il fotoconduttore, riducendo cosi' il
rumore Johnson, e portandolo ad operare in condizioni BLIP; (b) minimizzare il fondo radiativo
prodotto dall' ambiente, e cioe' da ottiche, strumento, atmosfera, fondo interplanetario e galattico.
Le prime due emissioni possono essere minimizzate raffreddando il sistema ottico; la seconda
portando l' esperimento al di fuori dell' atmosfera terrestre, utilizzando un veicolo spaziale (vedi
fig.4.9).
Il tempo di risposta dei fotoconduttori dipende da un certo numero di fattori indipendenti. Il primo
e' la costante di tempo RC del circuito in cui e' inserito il rivelatore. Infatti questo ha una capacita'
intrinseca ineliminabile. Nel caso di fig. 5.3 si ha semplicamente un condensatore a facce piane e
parallele (i contatti) riempito con un dielettrico (il semiconduttore). La capacita' e' quindi
A Ko ε o
Cr = (5.21)
L
Questa capacita' e' in parallelo alla resistenza del rivelatore, che e' di solito estremamente alta
(anche 1014 Ω). Inoltre in parallelo alla capacita' intrinseca del rivelatore si trova la capacita' di
ingresso dell' amplificatore, che deve quindi essere minimizzata.
Una secondo motivo di lentezza di risposta nei fotoconduttori e' il tempo di vita media delle cariche.
La conducibilita' del cristallo potra' cambiare (in seguito ad una variazione del flusso di fotoni) solo
dopo che tutte le cariche generate dal flusso precedente si sono ricombinate. Questo significa che la
costante di tempo del rivelatore non puo' essere inferiore alla costante di tempo di ricombinazione.
Un terzo fenomeno che limita il tempo di risposta e' il rilassamento dielettrico, che nasce da
fenomeni di carica spaziale all' interno del rivelatore. Consideriamo un fotoconduttore usuale con
mobilita' elettronica maggiore della mobilita' delle lacune e con alto guadagno fotoconduttivo. Se
supponiamo che la condizione iniziale sia di buio, e accendiamo all' improvviso il flusso di fotoni, l'
alta mobilita' degli elettroni rispetto alle lacune produce una mancanza temporanea di elettroni nel
cristallo, vicino all' elettrodo negativo, perche' questi si sono prontamente diretti verso l' elettrodo
positivo riversandosi nel circuito di bias. Resta nel cristallo un eccesso di cariche positive che si
muovono lentamente. La conseguente separazione di cariche crea un campo elettrico che si oppone
al campo di polarizzazione tra gli elettrodi, e riduce quindi il guadagno fotoconduttivo finche' non
viene neutralizzata dall' ingresso di nuovi elettroni dall' elettrodo negativo. Si puo' vedere che il
tempo scala di questo fenomeno e'
ε
τr = (5.22).
σ
Va notato che la conducibilita' σ e' proporzionale al flusso di fotoni, e quindi la costante di tempo
del rivelatore aumenta a bassi flussi fotonici e puo' diventare la costante di tempo dominante in
condizioni come quelle astronomiche. Ad esempio per flusso di background dell' ordine di 107 ÷8
fotoni/cm2 /s la costante di tempo risulta di 0.3 ÷3 s.
Se ne puo' concludere solo che i tempi di risposta dei fotocondut tori dipendono moltissimo dalle
condizioni sperimentali, e possono variare dai ns ai secondi.
5.1.3 Fotoconduttori estrinseci. Abbiamo visto nel paragrafo sui fotoconduttori intrinseci che la
risposta a grandi lunghezze d' onda e' limitata ad energie superiori all' energia di gap, che per il Si
ed il Ge corrisponde a lunghezze d' onda di 1 e 1.6 µm rispettivamente. Esistono altri composti
semiconduttori con energia di gap inferiore, ma in generale non e' possibile usarli con impedenze
sufficientemente alte da minimizzare il rumore Johnson. Per lavorare nell' infrarosso si deve quindi
usare un differente sistema. Questo consiste nell' aggiungere delle impurezze al semiconduttore
(atomi droganti).
Consideriamo ad esempio la struttura cristallina del Si, mostrata in fig.5.8A, dove sono evident i i
legami covalenti nei quali ciascun atomo di silicio mette i suoi elettroni di valenza in comune con
altri atomi di silicio, in modo da completare la shell elettronica piu' esterna.
Se si introduce come impurezza un elemento della colonna V della tavola periodica (es. P, As, Sb),
ciascun atomo di questo puo' mettere in comune quattro elettroni, e resta con un elettrone in piu'
(fig.5.8B), molto debolmente legato all' atomo. Questo puo' essere facilmente portato in banda di
conduzione per eccitazione termica o per assorbimento di un fotone. Aggiungendo impurezze di
questo tipo, che sono dette per ovvi motivi donatori, si realizza un semiconduttore drogato di tipo n,
perche' tende a generare portatori di carica negativi. Si forma cosi' un livello di impurezze vicino
alla banda di conduzione. Se la concentrazione di impurezze e' tale da garantire un buon
assorbimento dei fotoni, i fotoconduttori estrinseci possono essere usati come rivelatori. Il
funzionamento e' identico a quello dei fotoconduttori intrinseci, ma l' energia richiesta per eccitare
la fotoconduzione non e' piu' l' energia della gap ∆E, ma l' energia ∆ED << ∆E di eccitazione dal
livello di impurezze alla banda di conduzione. Questi rivelatori funzionano quindi con fotoni di
lunghezza d' onda maggiore.
Se invece si introducono nel cristallo atomi di elementi della colonna III della tavola periodica
(accettori, ad es. B, Al, Ga, In), questi possono mettere in comune solo tre elettroni. Resta quindi
una lacuna, che puo' essere facilmente colmata da un elettrone di un atomo adiacente (fig.5.8C). Di
nuovo si e' generato un portatore di carica facilmente liberabile, ma positivo. Si parla quindi di
semiconduttori drogati di tipo p, che di nuovo possono funzionare come fotoconduttori per fotoni di
energia superiore all' energia di eccitazione ∆EA.
Di solito si indicano i semiconduttori drogati con la sigla X:Y dove X e' il cristallo puro e Y e' il
drogante: ad esempio Ge:Ga vuol dire Germanio drogato in Gallio. Le proprieta' dei fotoconduttori
estrinseci piu' comuni sono riportate in tab.5.1.
L' efficienza sara' sempre proporzionale allo spessore ottico del cristallo (vedi eq. 5.14), ma stavolta
si avra'
τD (λ) = ND σD(λ) l = aD(λ) l (5.23),
dove σD (λ) e' la sezione d' urto per eccitazione di impurezze, ND la densita' di droganti nel cristallo
ed l il cammino all' interno del cristallo. Si nota subito da tab.5.1 che σD e' grossolanamente simile o
maggiore di σI. D' altra parte pero' ND << N, e quindi i fotoconduttori estrinseci avranno una
efficienza parecchio inferiore a quella degli intrinseci. Si deve quindi cercare di massimizzare la
densita' di drogante. Ma questo puo' essere fatto solo entro certi limiti. Una prima limitazione deriva
dal limite di solubilita' del drogante nel cristallo. Tuttavia ben prima di raggiungere questo limite
avvengono importanti cambiamenti nelle proprieta' elettriche del cristallo. Ad esempio nascono dei
modi di conduzione difficili da controllare, come la "hopping conduction": quando gli atomi di
drogante sono sufficientemente vicini tra loro nella struttura cristallina, la funzione d' onda dell'
elettrone di conduzione puo' sovrapporsi in modo non trascurabile con quella dell' atomo drogante
piu' vicino, e l' elettrone puo' saltare da una impurezza all' altra direttamente. Un secondo modo
nasce quando gli atomi di drogante sono talmente vicini che il principio di esclusione di Pauli forza
il livello di impurezze a trasformarsi in una banda. Nascono allora stati disponibili della banda di
impurezze, e puo' avvenire la conduzione con bassissimi incrementi di energia all' interno della
banda di impurezze. A causa di queste limitazioni i livelli di densita' dei droganti accettabili sono
dell' ordine di 1015 cm-3 .
A
C
Date le sezioni d' urto indicate nella tab.5.1 si vede che i coefficienti di assorbimento sono circa 3
ordini di grandezza inferiori a quelli dei fotoconduttori intrinseci. Quindi i rivelatori a
fotoconduzione estrinseca devono essere molto grandi (dimensioni dell' ordine del mm), in modo da
ottenere uno spessore ottico sufficiente, e quindi una alta efficienza quantica.
L' introduzione di impurezze aumenta decisamente l' eccitazione termica di portatori di carica.
Supponendo che nel cristallo drogato di tipo n siano presenti sia donori (densita' ND) che (in
quantita' inferiore) accettori (densita' NA). Si puo' dimostrare (Kittel) che la densita' di elettroni in
banda di conduzione e'
2 πmn kT 3/2
*
ND - NA 2
n= 2 e-[(E i)/ kT] (5.24)
N A + ND δ h2
dove δ e' la degenerazione del livello fondamentale dei donori ed Ei l' energia di ionizzazione.
La (5.24) permette di studiare l' effetto delle impurezze (pochissime ma inevitabili) presenti anche
nei fotoconduttori intrinseci: la piu' difficile da rimuovere e' il boro, che ha una energia di
eccitazione particolarmente bassa (0.045 eV). Un campione particolarmente puro di Si puo' avere
una densita' residua di atomi di boro di 1013 cm-3 (si confronti con i 5 ×1022 cm-3 atomi di Si per
avere una idea del livello di purezza ottenibile con l' attuale tecnologia dei semiconduttori).
Assumendo ND = 0 e T = 77 K si vede dalla (5.24) che praticamente tutti gli accettori sono
ionizzati, e la densita' di portatori di carica e' circa 1030 volte superiore a quella che avevamo
calcolato dalla (5.9) assumendo il cristallo perfettamente puro. Una tecnica che si usa per limitare il
problema della conduzione eccitata termicamente e' la compensazione. Si aggiungono al drogante
naturalmente presente nel cristallo, quantita' molto ben calibrate di drogante di tipo opposto
(compensante). In questo modo si cerca di ottenere ND≅ NA, riducendo significativamente il numero
di portatori eccitati termicamente (vedi eq. 5.24). Di solito comunque e' molto meglio partire da un
cristallo piu' puro possibile ed aggiungere una modesta quantita' di impurezze opposte piuttosto che
dover compensare pesantemente un cristallo meno puro. Infatti non esistono impurezze di tipo
opposto con uguali energie di eccitazione, e quindi il grado di compensazione dipende dalla
temperatura di operazione. Inoltre si deve ricordare che si sta lavorando a livelli di concentrazione
di circa 1013 cm-3 , ed e' decisamente difficile regolare precisamente queste minuscole quantita' di
materia.
Tornando ai fotoconduttori estrinseci, dove invece le impurezze devono essere relativamente
abbondanti, la (5.24) mostra che la bassa energia di eccitazione delle impurezze rende necessario
raffreddare il rivelatore estrinseco a meno di 77 K se si vuole farlo operare in BLIP. In fig.5.9
riportiamo l' andamento schematico del numero di portatori n eccitati termicamente in banda di
conduzione a differenti temperature. Riportiamo il logn in funzione di 1/T. Sono presenti in
generale tre processi: la conduzione intrinseca eccitata termicamente, la conduzione termica
estrinseca e la fotoconduzione dovuta al background radiativo. Le conduzioni di origine termica
sono rappresentate in questo diagramma da rette con pendenza negativa, tanto maggiore quanto
maggiore e' l' energia di attivazione. Quindi la curva relativa alla conduzione termica intrinseca e'
molto ripida, essendo l' energia della gap ∆E dell' ordine di 1 eV, ed e' dominante a temperatura
ambiente. Appena la temperatura scende (77 K) questa diventa invece trascurabile rispetto alla
conduzione termica da impurezze, che sono ancora tutte ionizzate (linea orizzontale con ordinata
logN D). Per temperature ancora inferiori il numero di impurezze ionizzate comincia a diminuire,
seguendo una retta decrescente meno ripida della precedente perche' l' energia di attivazione ∆ED e'
inferiore a quella della gap. A temperature ancora inferiori anche questo processo diventa
trascurabile rispetto alla conduzione eccitata dal flusso di fotoni (linee orizzontali [dN/dt]1 e
[dN/dt]2 ). Qui il rivelatore opera in condizioni di BLIP. Cio' avviene a temperature tanto piu' basse
quanto piu' basso e' il fondo radiativo (basta confrontare le linee [dN/dt]1 e [dN/dt]2 ). A parita' di
flusso, le temperature devono essere tanto piu' basse quanto piu' grande e' la lunghezza d'onda da
osservare. Infatti per osservare grandi lunghezze d'onda si devono usare impurezze con bassa
energia di attivazione, e quindi la pendenza della conduzione termica estrinseca e' inferiore: si
confrontino le linee corrispondenti a energie di eccitazione delle impurezze ∆ED1 e ∆ED2
decrescenti. Le normali temperature di operazione dei diversi fotoconduttori estrinseci sono
riportate in tab.5.1. I fotoconduttori estrinseci sono di solito raffreddati con elio liquido. Questo
complica l' uso del rivelatore, rendendo necessario un sistema criogenico ad elio liquido ed
aumentando il costo di operazione del rivelatore.
Le piu' grandi lunghezze d' onda osservabili con fotoconduttori estrinseci sono circa 120 µm (Ge
drogato in Ga o in Sb). Per osservare lunghezze d' onda ancora piu' lontane si possono usare
fotoconduttori estrinseci di tipo p stressati. Si applica cioe' una notevole forza (ad esempio con una
vite che pressa il cristallo) in una direzione del reticolo. Nei fotoconduttori di tipo p la conduzione
avviene rompendo e ricreando i legami covalenti (moto della lacuna). Se questi sono stressati e'
necessaria meno energia per romperli, e quindi la conduzione e' facilitata. E' ovvio che questa e'
solo una spiegazione ragionevole ma intuitiva. Un effetto particolarmente drammatico si ottiene
quando si sollecitano reticoli del tipo del diamante lungo l' asse cristallino 100: la sollecitazione
puo' modificare la simmetria del cristallo da cubica a tetragonale, cambiando completamente la
struttura delle bande. In questo modo la risposta dei fotoconduttori Ge:Ga e' stata estesa oltre 200
µm (Kazanskii et al. 1977, Haller et al. 1979). Di questo tipo sono alcuni dei fotoconduttori usati sul
satellite ISO.
In fig.5.10 riportiamo la sensibilita' spettrale di diversi fotoconduttori estrinseci. Come si vede
questi rivelatori coprono la banda infrarossa media e lontana, particolarmente difficile da osservare
da terra a causa dell' assorbimento da parte del vapor d' acqua atmosferico. Eppure in questa regione
spettrale c'e' la maggior parte dell' energia emessa da nubi interstellari e protostellari, in forma di
continuo emesso da polvere a temperature comprese tra 20 e 100 K e di righe di atomi, ioni e
molecole i cui livelli energetici possono essere eccitati dall' energia cinetica presente nel gas
interstellare. Per questo i rivelatori a fotoconduttore sono utilizzati soprattutto in missioni su aereo,
pallone stratosferico e su alcuni satelliti lanciati recentemente.
Il primo di questi e' stato IRAS, in cui un telescopio di 60 cm di diame tro raffreddato a circa 5 K
(fig.4.10) ha eseguito una survey praticamente completa del cielo in 4 bande centrate a 12 µm
(Si:As), 25 µm (Si:Sb), 60 µm e 100 µm (Ge:Ga). I rivelatori (62 in totale) erano raffreddati a 2.6 K
e montati nel piano focale (Focal Plane Array FPA) come mostrato in fig.5.11. IRAS ha una
importanza fondamentale nell' astronomia infrarossa: per la prima volta e' stata eseguita la mappa di
tutto il cielo infrarosso, con la scoperta e la catalogazione di circa 250000 sorgenti (di cui circa la
meta' non ha controparte ottica). D' altra parte, proprio perche' concepito come strumento di survey,
IRAS non aveva ne' una grande risoluzione angolare (circa 1 minuto d'arco) ne' la possibilita' di
eseguire l' analisi spettrale della radiazione.
Queste lacune verranno colmate dal satellite ISO, il cui la ncio e' previsto nel 1995, e che utilizza un
telescopio raffreddato simile a quello di IRAS, ma una strumentazione al piano focale molto piu'
evoluta. Al contrario di IRAS, ISO e' stato pensato come un vero osservatorio, che puo' eseguire
studi dettagliati di sorgenti particolarmente interessanti. In ISO sono presenti quattro strumenti. Il
primo e' una camera infrarossa (ISOCAM) con risoluzione dell' ordine di qualche secondo d' arco
tra 2 e 20 µm (grazie a 2 mosaici di 32 ×32 elementi, il primo in InSb per lunghezze d' onda fino a
5.5 µm, il secondo in Si:Ga per lunghezze d' onda fino a 17 µm). Il secondo strumento e' un
fotometro polarimetro (ISOPHOT) comprendente rivelatori singoli e piccoli mosaici per fotometria
tra 3 e 200 µm. La risoluzione angolare e' di qualche secondo d' arco a 3 µm e peggiora aumentando
la lunghezza d' onda (dato il diametro relativamente piccolo dello specchio primario). In totale ci
sono in ISOPHOT 144 fotoconduttori, comprendenti anche 4 Ge:Ga stressati per la banda a 200
µm, e 26 filtri spettrali montati su ruote che permettono di selezionare il filtro piu' opportuno per la
banda di lunghezze d'onda da studiare. Terzo e quarto strumento sono gli spettrometri a brevi
lunghezze d' onda (SWS) e grandi lunghezze d' onda (LWS). Il primo e' uno spettrometro a reticolo
e Fabry Perot che potra' eseguire l' analisi spettrale tra 2.4 e 45 µm con una risoluzione spettrale λ/
∆λ ∼ 1000. I rivelatori sono In:Sb, Si:Ga, Si:Sb e Ge:Be. Il secondo e' uno spettrometro a reticolo e
Fig. 5.9: Dipendenza generale del numero di portatori di carica n in un fotoconduttore estrinseco, in
funzione della temperatura. Per alte temperature domina la conduzione intrinseca eccitata
termicamente. A temperature piu' basse tutti i donori sono ionizzati: n = ND. A temperature ancora
inferiori non tutti sono ionizzati ed il numero di portatori dipende dalla temperatura, piu' o meno
ripidamente a seconda dell' energia di eccitazione DED . A temperature ancora inferiori (dell' ordine
di pochi K) il numero di portatori fotoeccitati e' superiore a quello dei portatori eccitati
termicamente (condizioni di BLIP). La temperatura a cui questo succede dipende dal fondo di
fotoni N' presente.
Fig. 5.10: Sensibilità di diversi fotoconduttori estrinseci in funzione della lunghezza d'onda: con
differenti cristalli e droganti si copre tutta la banda infrarossa fino a circa 200 mm.
Fig. 5.11: Il mosaico di fotoconduttori montato nel piano focale del telescopio del satellite IRAS
(focal plane array, FPA). In A e' visibile uno schema del telescopio e la posizione dell' FPA. In B
una pianta dell' FPA con la disposizione dei 62 rivelatori. In C uno schema esploso di un modulo
contenente 8 dei 62 rivelatori, ed il suo montaggio nell' FPA. Da Beichman et al., IRAS explanatory
supplement,JPL D-1855, 1984.
Fig. 5.12A: Il satellite ISO
Fig. 5.12B: Mappa del piano focale di ISO: sono confrontate le dimensioni dei pixel dei diversi
rivelatori dei 4 esperimenti (ISOCAM, ISOFOT, SWS, LWS) presenti sul satellite.
Fig. 5.14: Segnali registrati dai rivelatori del satellite IRAS normalmente (sinistra, sono presenti
solo eventi da raggi osmici), sopra al polo sud (centro, la densità di raggi cosmici aumenta), e nella
South Atlantic Anomaly (destra, dove le fasce di radiazione si spingono a quote piu' basse, fino a
quasi intersecare l' orbita di IRAS a 900 Km di quota). Questi segnali sono stati registrati senza
circuiti di deglitching.
A causa di quest' effetto il rivelatore non e' piu' rispondente alla calibrazione di laboratorio, ed i dati
relativi risultano difficilmente utilizzabili. Inoltre, nonostante l' aumento di responsivita', il rapporto
segnale / rumore peggiora a causa del grande numero di spikes: il risultato e' quindi una
notevolissima degradazione delle prestazioni del rivelatore. Per il ripristino delle condizioni di
lavoro originali bisogna aspettare alcune ore. Si puo' accorciare questa attesa in due modi. Il primo
consiste nell' aumentare molto la corrente di bias (ed era la tecnica utilizzata su IRAS: la tensione di
bias normale era di 280 mV, e veniva innalzata per qualche minuto a 3 V). Un altro sistema e'
riscaldare il rivelatore (ad esempio per il Si:Ga operante a 4 K si deve innalzare la T a 20 K) ma
questo e' decisamente poco pratico. Un ultimo sistema, che verra' utilizzato su ISO, e' quello del
Flash di radiazione infrarossa: bastano pochi secondi di illuminazione con una sorgente IR intensa
per ripristinare le condizioni iniziali di lavoro.
Una soluzione radicale del problema consiste nella riduzione del volume del rivelatore. Questa e'
possibile usando fotoconduttori recentemente sviluppati, detti a 'blocked impurity band' (BIB).
5.1.5 Circuiti di lettura (readout electronics): Il circuito piu' semplice per amplificare il segnale
prodotto da un fotoconduttore e' illustrato in fig.5.16A. Si tratta semplicemente di un partitore di
tensione realizzato con una resistenza di carico RL e la resistenza del rivelatore RD. Questo fa
passare una corrente attraverso il rivelatore e si misura la tensione ai suoi capi. Tuttavia un sistema
cosi' semplice e' accettabile solo dove sono richieste sensibilita' modeste. Per ottenere una
variazione di tensione ragionevole ai capi di RD e' necessario che sia RL ∼ RD. Infatti la
variazione di resistenza provocata dalla variazione del flusso fotonico associata al segnale da
rivelare provoca una variazione di tensione in uscita
∆V RL /RD ∆RD
= (5.31)
Vb ( 1 + RL/RD)2 RD
che e' massima per RL ≅ RD. Siccome per ridurre il rumore Johnson si deve aumentare molto RD
(che puo' essere ∼> 1012 Ω), si ha una costante di tempo RC molto lunga (anche piu' di un
secondo, per capacita' tipiche del rivelatore dell' ordine di alcuni pF. Inoltre questo circuito no n
mantiene una tensione di bias indipendente dal livello di background.
L' amplificatore a transimpedenza (fig.5.16B) risolve i precedenti problemi. In questo circuito l'
amplificatore operazionale utilizza la reazione negativa attraverso Rf per mantenere V1 = V2 ,
aggiustando If in modo che sia uguale ed opposta a ID (la fotocorrente). Il bias del rivelatore puo'
essere aggiustato regolando V2 .
Un diverso sistema di lettura e' l' amplificatore ad integrazione. Questo si puo' usare se non e'
necessario ne' mantenere la tensione di bias molto costante ne' ottenere un tempo di risposta veloce,
ma si vuole ottenere il minimo rumore possibile. Lo schema e' mostrato in fig.5.17. La carica
fotoprodotta si trasferisce dal rivelatore ad un condensatore CG che la immagazzina. Questo
condensatore puo' essere la capacita' di ingresso di un transistor FET o MOS-FET, che e' dell'
ordine di 10-13 F. La corrente che deposita la carica in CG e' modulata dal flusso di fotoni:
⌠T ⌠T .
Q(T) = i(t) dt = A ηGpc dt (5.32)
⌡0 ⌡0 N
e se il flusso fotonico e' costante durante il periodo di integrazione t,
.
Q(t) = A ηGpc t ; 0 < t < T (5.33).
N
La carica si accumula quindi nel condensatore in maniera lineare come mostrato in fig.5.17.
Quando ha prodotto una tensione sufficientemente superiore al rumore dell' amplificatore, si
connette all' amplificatore e si misura la tensione V(t1 ). Poi si chiude l' interruttore di reset e subito
dopo si misura la tensione di zero V(t2 ).
Fig. 5.16: Circuiti di lettura per fotoconduttori. In A e' il circuito di bias piu' semplice. In B l'
amplificatore a transimpedenza (vedi testo per la descrizione del funzionamento).
Fig. 5.17: Lettura di fotoconduttori con amplificatore ad integrazione. A sinistra lo schema. A destra
il segnale in uscita in funzione del tempo. Le frecce R indicano gli istanti di reset. Il flusso di fotoni
e' proporzionale alla pendenza delle rampe di integrazione. Gli istanti t1, t2 e t3 sono usati per la
lettura del segnale e la valutazione delle pendenze (vedi testo).
La carica accumulata sarà quindi
Q(T) = C ( V(t1 ) - V(t2 ) ) (5.34)
dove si suppone che il guadagno in tensione del FET sia unitario. La carica Q(T) e' la somma della
carica accumulata dalla fotocorrente, della corrente di buio del rivelatore e della corrente di perdita
del gate del FET. L' incertezza nella misura e' dovuta a varie cause. Prima di tutto il rumore del FET
(o dell' amplificatore seguente). Secondariamente, il rumore Johnson del circuito RC parallelo, pari
a 〈∆Q2 〉 = kTC (vedi eq. 5.17). Infatti si sta usando un circuito RC parallelo sia durante
l'integrazione (interruttore di reset aperto) che durante il reset (interruttore chiuso). Nel primo caso
pero' il circuito RC e' formato dalla resistenza (altissima) del rivelatore e dalla capacita' del gate, per
cui la costante di tempo e' lunghissima (100 s per una C ∼ 10-13 F ed una RD ∼ 1015 Ω). Ne segue che
la fluttuazione di carica (5.17) puo' avvenire solo su tempi lunghi rispetto al tempo di integrazione,
essendo quest' ultimo molto minore di RC. Si puo' dire quindi che durante il periodo di integrazione
il reset noise e' congelato, e la carica si accumula senza rumore nel condensatore. Quando l'
interruttore di reset viene chiuso, invece, il circuito RC e' formato dalla capacita' del gate e dalla
resistenza dell' interruttore, molto bassa, per cui la costante di tempo e' breve e si ha tutto il reset
noise previsto dalla (5.17). E' quindi preferibile fare prima la lettura di zero (immediatamente dopo
il reset, t2 in fig.5.17) e poi la lettura del segnale (alla fine dell' integrazione, immediatamente prima
del reset successivo, t3 in fig 5.17). In questo modo il rumore kTC e' congelato e non contribuisce
alla misura. D' altra parte in questo modo si misurano V(t2 ) e V(t3 ) piuttosto distanti nel tempo, e
quindi si deve avere un sistema di amplificazione (FET e stadi successivi) esente da rumore 1/f: con
il primo metodo di misura invece V(t1 ) e V(t2 ) sono campionati dopo un brevissimo intervallo
(quello necessario per il reset) e quindi solo il rumore ad alte frequenze contribuisce. Si tratta quindi
di valutare caso per caso quale sia il contributo maggiore al rumore della misura, ed adottare di
conseguenza il primo o il secondo metodo. Una terza strategia consiste nell' aggiungere una terza
lettura durante il reset: tale lettura permette di valutare l' andamento del rumore 1/f e di sottrarlo, ma
in ogni caso aggiunge un terzo contributo alla somma in quadratura degli errori di misura.
Per congelare il rumore di reset e' utile che la capacita' di ingresso del FET non sia piccolissima. D'
altra parte pero' piu' e' grande C e minore e' la tensione che si genera, a parita' di carica accumulata,
sul FET. Siccome la quantita' osservabile e' la tensione, e' bene che questa sia notevolmente
maggiore del rumore in tensione del FET. Nella maggior parte degli amplificatori ad integrazione e'
questo rumore che limita la misura.
L' amplificatore ad integrazione e' decisamente non lineare: infatti via via che la carica si accumula
sulla capacita', la tensione di polarizzazione del rivelatore (V bias - VC) diminuisce, e quindi
diminuisce il guadagno fotoconduttivo del rivelatore. La linearita' e' garantita solo nella zona in cui
VC << Vbias, che da' un limite superiore alla carica totale accumulabile.
Possiamo a questo punto descrivere il primo tipo di elettronica di lettura per matrici di rivelatori
(array) fotoconduttivi: si tratta di una matrice di transistor MOSFET che funzionano come
amplificatori ad integrazione. Questi sono cresciuti su un singolo substrato di silicio con piazzole in
oro connesse a ciascuno dei gate dei MOSFET. La disposizione geometrica delle piazzole ricalca
quella delle analoghe piazzole di uscita del mosaico di rivelatori fotoconduttivi (che sono ricavati da
un differente semiconduttore, ad esempio GaAs o InSb a seconda delle lunghezze d'onda da
misurare). Sulle piazzole del rivelatore e dell' amplificatore vengono evaporati degli strati d' indio;
poi si allineano amplificatore e rivelatore e si pressano insieme. L' indio si salda a pressione su
ciascuna delle piazzole, e si creano cosi' migliaia di saldature che tengono insieme i due componenti
e realizzano le necessarie connessioni elettriche. Ulteriori MOSFET permettono di selezionare
(indirizzare) il pixel voluto della matrice all' istante desiderato, accendendo il corrispondente
amplificatore ed eseguendo la lettura della tensione all' uscita. Durante l'integrazione invece i
MOSFET restano spenti, in modo da evitare l' accumulo di cariche dovute alla corrente di perdita
del gate. Questo metodo di lettura e' detto diretto (direct readout), perche' per ciascun pixel del
rivelatore c'e' un amplificatore completo. E' evidente che con questo sistema non si possono
realizzare array di grandi dimensioni, data la complessita' e la notevole dissipazione di potenza
elettrica del sistema che ne risulterebbe.
5.1.6 CCD: I CCD (Charge Coupled Devices) sono mosaici di rivelatori a fotoconduzione
(intrinseci), in cui ciascun pixel ha un condensatore di integrazione. Si utilizza un sistema di
trasferimento della carica accumulata per portarla sequenzialmente sul gate di un unico FET di
uscita.
Vediamo intanto come funziona un singolo pixel (fig.5.19). Supponiamo ad esempio che la zona
fotosensibile sia un cristallo di silicio drogato di tipo p. Su questo e' evaporato uno strato spesso di
ossido di silicio, che e' un ottimo isolante, e sopra a questo e' evaporato un elettrodo metallico.
Questa struttura e' un condensatore metallo-ossido-semiconduttore (MOS). Il fotoconduttore viene
connesso a massa, mentre l' elettrodo e' mantenuto ad una tensione positiva (V g) durante la misura.
Questa tensione respinge le lacune dalla zona vicina all' ossido isolante, creando una regione 'di
deplezione', nella quale invece si accumulano gli elettroni fotoprodotti. Questa regione e' detta
ßerbatoio" di cariche. Assumiamo anche qui che non ci sia apprezzabile eccitazione termica. Si puo'
continuare ad accumulare elettroni nel serbatoio finche' il campo elettrico da essi generato non
controbilancia quello di polarizzazione generato da Vg. A quel punto non c'e' piu' modo di attrarre
altri elettroni ed il serbatoio di accumulo degli elettroni e' pieno. Il numero di elettroni accumulabili
nel serbatoio e' dato da
QW = C o (Vg - VT ) (5.35)
dove Vg e' la tensione sull' elettrodo, mentre VT e' una tensione minima (di soglia) necessaria per la
formazione di un serbatoio di cariche. La capacita' del condensatore MOS e' data da
A
Co = ε (5.36)
xo
dove A e' l'area dell' elettrodo, mentre xo e' lo spessore dello strato di ossido di Si ed ε la costante
dielettrica. Numeri tipici sono Vg - VT ∼ 3 V, xo ∼ 0.5 µm, A ∼ 25 ×25 µm2 . Si ottiene allora una
capacita' del serbatoio di ∼ 106 e-.
Per permettere l' arrivo dei fotoni sul cristallo drogato p si possono usare contatti trasparenti (di
silicio pesantemente drogato) essendo lo strato di ossido isolante trasparente al visibile e all' UV.
Pero' il silicio pesantemente drogato non e' trasparente al blu (vi avvengono transizioni dirette); si
preferisce allora illuminare la CCD dal retro (backside illuminated CCD). Per fare questo pero' si
deve ridurre molto lo spessore del substrato di Si, in modo che i fotoni siano assorbiti vicino alla
regione di deplezione.
Per la lettura della carica accumulata nei serbatoi dei diversi pixel si adottano diverse strategie, che
devono permettere di trasportare questi diversi 'pacche tti' di cariche fino all' amplificatore d' uscita,
senza contaminazioni reciproche e senza perdere cariche lungo il cammino. Descriviamo qui l'
operazione della cosiddetta CCD a tre fasi. Questa (fig.5.20) contiene tre insiemi di elettrodi E1 , E2 ,
E3 per ogni pixel, ciascuno connesso ad una diversa linea di alimentazione V1 , V2 , V3 . E1 e' l'
elettrodo su cui avviene l' accumulo di fotoelettroni durante la misura. Durante la misura (fase A in
fig.5.20) tutti gli elettrodi E1 si trovano ad una tensione V1 positiva, mentre gli elettrodi E2 e E3
sono tutti a massa. Finita l' integrazione V2 viene portata anche essa positiva (fase B in figura), il
serbatoio di carica si estende anche sotto E2 e gli elettroni si distribuiscono uniformemente sotto E1
ed E2 . Avvenuta la ridistribuzione, si porta a massa gradatamente V1 , (fase C in figura) con il
risultato che tutte le cariche che durante l' integrazione si trovavano sotto E1 sono state trasportate
sotto E2 , l' elettrodo adiacente. La tensione va portata a zero gradatamente per evitare che nessuna
carica sia spinta violentemente fuori dal serbatoio e si possa ricombinare. Questo trasferimento di
cariche puo' essere continuato lungo la fila di elettrodi portando a massa V3 (fase D) e cosi' via. In
questo modo tutti i pacchetti di cariche accumulate sui diversi pixel della fila arrivano
sequenzialmente all'amplificatore d'uscita.
Fig. 5.19: Struttura di un pixel di CCD: il componente e' costituito da in fotoconduttore intrinseco
(Si) drogato p e da uno strato di ossido di silicio isolante. Sullo strato di SiO 2 e' evaporato un
elettrodo metallico. Polarizzando l' elettrodo positivamente si forma nel Si una regione di
deplezione che funziona da serbatoio per gli elettroni fotoprodotti durante l' esposizione alla luce
(che avviene dalla parte destra: backside illuminated CCD).
Fig. 5.20: Meccanismo di lettura della CCD a tre fasi. Sono mostrati 2 pixel successivi (e 1/3 del
terzo pixel) di una fila di pixel della CCD. Per ogni pixel sono presenti tre elettrodi (tre fasi).
Durante l' esposizione A) solo il primo elettrodo di ciascun pixel e' positivo. I fotoelettroni si
accumulano nel sottostante serbatoio. In (B) inizia l' operazione di lettura: anche il secondo
elettrodo viene reso positivo e gli elettroni si distribuiscono. In (C) poi solo il secondo elettrodo e'
positivo, e si e' ottenuta la traslazione del pacchetto di elettroni fotoprodotti di 1/3 di pixel. Il
processo continua in (D) e cosi' via: in questo modo tutti i pacchetti di fotoelettroni vengono
trasferiti sequenzialmente all' amplificatore d' uscita, che e' connesso all' estremo destro della fila di
pixel.
Durante il trasferimento di carica sopra descritto il substrato e' mantenuto leggermente negativo, in
modo da attirare le lacune su di se', eliminando il rischio di perdite di carica per ricombinazione. E'
estremamente importante infatti massimizzare l' efficienza di trasferimento degli elettroni da una
cella di immagine (insieme degli elettrodi E1 , E2 , E3 ) alla successiva. Si deve pensare infatti che per
arrivare all' amplificatore di uscita ciascun pacchetto di elettroni deve subire centinaia di questi
trasferimenti, ed una minuscola perdita su ciascun trasferimento (ad esempio 1 e- su 1000) puo'
completamente svuotare il pacchetto prima che arrivi all' uscita. La tecnologia attuale permette di
ottenere efficienze di trasferimento (CTE, charge transfer efficiency) del 99.999 %, in modo da
limitare a meno dell' 1% la perdita totale di e- del pacchetto. Ad esempio per ottenere una efficienza
del 99.999 % le tensioni di clock (V1 , V2 , V3 ) devono avere un periodo 14 volte superiore alla
costante di tempo del processo di spostamento delle cariche da un elettrodo al successivo. Questo
limita il periodo a circa 1.5 µs, e quindi il tempo di lettura di una immagine di 500 × 500 pixel a
circa 0.5 s.
Il numero di trasferimenti richiesti per ciascun pixel per raggiungere l' amplificatore d' uscita
dipende dalla architettura della CCD. Nell' architettura piu' semplice tutte le celle d' immagine di
una stessa riga sono in serie, e sono trasferite in un registro d' uscita che sequenzialmente manda in
uscita le differenti righe. In questa architettura la luce non deve raggiungere i pixel durante la lettura
(e' quindi necessario un otturatore) oppure il tempo di lettura deve essere trascurabile rispetto al
tempo di integrazione. Questo non e' un problema per l' uso astronomico. Invece nelle CCD
commerciali (per telecamere ad es.) la carica viene trasferita dopo l' esposizione (che di solito e'
breve) in una zona della CCD protetta dalla luce, e poi letta.
Le prestazioni tipiche delle CCD astronomiche sono le seguenti: rumore di lettura di circa 10 e-,
capacita' di circa 500000 e- (e quindi una dinamica di circa 16 bit), corrente di buio di circa 0.01 e-/s
(a 200 K, non misurabile a 100 K), risposta spettrale mostrata in fig.5.21. Come si vede la
sensibilita' e' decrescente nel rosso (come ci si aspetta per fotoconduttori intrinseci).
Tutte le CCD presentano sia variazioni di guadagno da pixel a pixel (dal 10 al 15 %) che pixel
difettosi. Per quanto riguarda le variazioni di guadagno, si possono misurare espone ndo la CCD ad
una sorgente diffusa ed uniforme (ad esempio la luna fuori fuoco, o un lenzuolo posto sull' apertura
del telescopio...), ed acquisendo cosi' una immagine di riferimento (flat field). L' immagine
astronomica acquisita verra' corretta (flat fielding) dividendo il segnale di ciascuno dei pixel per il
segnale corrispondente ottenuto nell' immagine di riferimento. Il passo successivo consiste nell'
eliminare dall' immagine astronomica l' emissione diffusa dal cielo. Questo si ottiene sottraendo
pixel a pixel una immagine ottenuta nelle condizioni piu' simili possibili da una zona si cielo libera
da sorgenti. Per quanto riguarda i difetti di fabbricazione, e' comune la presenza di pixel "caldi", che
sono saturati, cioe' riempiti di elettroni termici, indipendentemente dall' esposizione alla luce.
Questi vengono semplicemente eliminati dall' immagine. Altri pixel sono invece inefficaci nella
rivelazione e nel trasferimento di pacchetti di carica. In questo caso il problema e' piu' grave,
perche' rovina no le letture di tutti i pixel seguenti nella stessa riga. Questo difetto si evidenzia
quindi in righe spurie nell' immagine. Le stelle molto brillanti producono poi caratteristiche 'scie'
luminose nell' immagine: questo e' dovuto alla piccola inefficienza di traferimento degli elettroni:
un pacchetto di 1 milione di elettroni che si propaga lungo una fila lasciando dietro di se' anche solo
un elettrone ogni 100000 puo' seriamente contaminare i pixel illuminati dal solo fondo cielo, che
poteva aver prodotto solo 10 elettroni per pixel. Ulteriori difetti dell' immagine sono dovuti alla
ionizzazione prodotta da raggi cosmici (in media uno o due eventi al minuto). Alcune immagini da
CCD astronomiche sono mostrate in fig.5.22. Per ulteriori informazioni sulle CCD si veda Mackay
(1986); lo stato dell' arte nell' uso di CCD ad altissima sensibilita' e' riportato in Tyson (1988,
1991).
Fig. 5.21: Efficienza spettrale tipica delle CCD.
Fig.5.22: Immagine CCD della galassia di Seyfert ESO G144-195. A sinistra e' mostrata l'immagine
originale (5 minuti di esposizione in banda R; a destra la stessa immagine una volta corretta per le
non uniformità del rivelatore.
5.1.7 Rivelatori a fotoemissione
In questi rivelatori si usa il processo fisico della fotoemissione, in cui un fotone assorbito estrae un
elettrone dal materiale del rivelatore. Questo elettrone viene catturato e, per mezzo di campi elettrici
o magnetici, accelerato in modo da produrre una corrente ben rivelabile. Questi rivelatori sono
molto veloci (fino a 1 ns di tempo di risposta), hanno una buona efficienza quantica (dal 10 al 30 %)
e sono molto lineari (almeno finche' il flusso di fotoni e' basso e si possono distinguere i singoli
fotoni che arrivano).
La fotoemissione avviene quando i fotoni incidono su un elettrodo di materiale opportuno, detto
fotocatodo, che puo' essere metallico o semiconduttore. Il fotocatodo e' mantenuto ad un potenziale
negativo, in modo da allontanare efficientemente l' elettrone una volta estratto. I metalli hanno
bassa efficienza quantica perche' riflettono efficientemente i fotoni in arrivo. L' energia necessaria
all' estrazione e' dell'ordine di 2 eV, e la probabilita' di estrazione di un fotoelettrone cosi' generatosi
e' dell' ordine del 30 %. La riflettivita' dei semiconduttori va dal 25 al 50 % per cui la efficienza
quantica va dal 15 al 75 %. La soglia a basse energie dipende dal tipo di materiale, e l'efficienza
spettrale di differenti fotocatodi e' mostrata in fig.5.23. Esistono altri meccanismi che generano l'
estrazione di fotoni dal fotocatodo. Uno di questi e' l' eccitazione termica, descritta dall' equazione
di Richardson-Dushman, che deriva la 'corrente di buio' di origine termica:
4 πme
ID = e [kT]2 A e-W e/kT (5.37)
3
h
dove A e' la superficie del fotocatodo, We l' energia di estrazione e T la temperatura. Usualmente
raffreddare il fotocatodo a -20oC ÷-80oC e' sufficiente per ridurre la corrente di buio di origine
termica al di sotto dagli altri contributi. Un altro metodo per ridurre la corrente di buio termica
consiste nel ridurre l'area sensibile. Questo puo' essere fatto anche a posteriori, raccogliendo ed
amplificando solo gli elettroni emessi da una piccola zona del fotocatodo, e deflettendo via gli altri.
Altre sorgenti di corrente di buio sono gli elettroni estratti dai raggi cosmici, dagli urti delle
molecole di gas residuo nell' ampolla sottovuoto contenente il fotocatodo, e da perdite elettriche.
Il segnale generato nel rivelatore da un flusso [dN/dt] di fotoni per cm2 e per s (con energia
maggiore di We) e' semplicemente
.
Is = e η N A (5.38)
ed essendo la potenza incidente sul fotocatodo pari a W = h ν[dN/dt] A si ha una responsivita'
Is e ηλ
ℜ= = (5.39).
hcW
Siccome gli elettroni sono prodotti in eventi ind ipendenti, la fluttuazione nel loro numero sara' data
dalla statistica di Poisson. Si possono rifare esattemente gli stessi calcoli delle equazioni (5.18 ÷
5.20) con a = 1 ottenendo lo spettro di potenza delle corrispondenti fluttuazioni di corrente
.
〈∆I(f) 〉 = 2 e η Α N
2 2
(5.40)
si ha quindi
NEP =
〈∆I(f)2 〉 1/2
=
hc .
2A N (5.41).
ℜ λ √
η
Fig. 5.23: Efficienza spettrale di diversi fotocatodi.
Fig. 5.24: Rivelatori fotoemissivi. In alto si vede lo schema base di un fotomoltiplicatore. Sono
schematizzati il fotocatodo FC, i dinodi Di , l' anodo A e la catena di partitori resistivi. Sotto sono
schematizzate le strutture dei dinodi di 5 tipi di fotomoltiplicatori reali. A destra e' schematizzato un
rivelatore dotato di moltiplicatore a microcanale. Questo puo' essere realizzato in grandi mosaici
(microchannel plates) ottenendo cosi' un intensificatore d' immagine.
Se invece la causa dominante di rumore sono le fluttuazioni della corrente di buio (shot noise)
〈∆Ib(f)2 〉 = 2 e Ib (5.42)
il NEP e' dato da
NEP =
〈∆Ib(f)2 〉 1/2
=
hc 2 Ib (5.43).
ℜ λ √ e
In generale si dovra' fare la somma in quadratura dei due termini: quindi la sensibilita' del
fotomoltiplicatore sara' specificata fornendo l' efficienza quantica e la corrente di buio.
Il fotomoltiplicatore (fig.5.24) e' il piu' comune rivelatore fotoemissivo. I fotoni estraggono
elettroni da un fotocatodo FC mantenuto ad un notevole potenziale negativo. Questi sono accelerati
e fuocheggiati per mezzo di opportuni campi elettrici finche' non incidono sul primo dinodo D1 , un
elettrodo trattato superficialmente con un materiale che emette molti elettroni quando ne riceve uno
di alta energia. Questi elettroni vengono accelerati da potenziali sempre crescenti (ottenuti con la
catena di partitori resistivi) verso i dinodi successivi Dn , dove viene ottenuta ogni volta una
moltiplicazione del segnale, finche' l' impulso di corrente cosi' generato viene raccolto dall' anodo
A. Se [dN/dt]A fotoni per secondo incidono sul fotocatodo, il numero di elettroni che nel tempo t
viene emesso e'
.
n1 = A ηt = ηno (5.44)
N
ammettendo che tutti vengano trasferiti al primo dinodo, e che questo abbia un guadagno d (numero
di elettroni prodotti per elettrone incidente), il segnale emergente dal primo dinodo sara'
n2 = d n1 = d ηno (5.45)
ed il segnale ottenuto dopo m dinodi di uguale efficenza sara'
nout = dm ηno (5.46)
e si puo' quindi ottenere un notevole impulso di corrente partendo da un solo elettrone fotoestratto:
questo amplificatore e' detto moltiplicatore elettronico. Di solito il rumore del fotomoltiplicatore e'
dovuto soprattutto al fotocatodo, ma anche il moltiplicatore elettronico puo' produrre rumore. Infatti
i dinodi devono avere un guadagno sufficiente se si vuole che l' amplificatore sia efficace. La
fluttuazione quadratica media del segnale in uscita dal primo dinodo (amplificazione d1 ) avra' due
componenti: d1 2 n1 (cioe' il rumore del segnale in ingresso semplicemente amplificato) ed n2 (la
fluttuazione del segnale d' uscita): la fluttuazione rms sara' quindi √{ d1 2 ηno + d1 ηno }. Il rapporto
segnale rumore del segnale emergente dal primo dinodo e' quindi
d1 ηno ηno
S √
= = (5.47).
N √ d1 ηno + d1 ηno
2
_______
√ 1 + 1/d1
Iterando questo ragionamento ai dinodi successivi (amplificazione d) si trova che il rapporto
segnale su rumore per il segnale emergente dalla catena di dinodi è
ηno ηno
S √ √
= ≅ (5.48)
N
__________________________ __________________
√ 1 + (1/d1)(1 + 1/d +1/d2+...) √ 1 + (1/d1)(1/(1 - 1/d))
Si vede quindi che si puo' ottenere un rumore vicino al limite poissoniano ηno solo se l'
amplificazione del primo dinodo e' notevole. Si usano a questo scopo dinodi ad affinita' elettronica
negativa, che possono produrre d1 = 10 ÷20, introducendo un peggioramento del rumore
trascurabile.
Una forma alternativa di moltiplicatore elettronico e' costituita dal microcanale. Si tratta di un
tubetto di vetro lungo e sottile, curvato e ricoperto di materiale dinodico. Ai capi del tubo viene
mantenuta una notevole differenza di potenziale. Gli elettroni dal fotocatodo vengono accelerati,
entrano nel tubetto, collidono con le pareti del tubetto dove vengono generati elettroni secondari che
sono a loro volta accelerati. Se il tubetto e' curvato in modo opportuno, gli elettroni secondari
vengono focalizzati verso l'uscita del tubetto, dove si trova l' anodo. Il principale svantaggio di
questo moltiplicatore e' che l' amplificazione per ogni moltiplicazione e' solo d ∼ 2 ÷3, e quindi e'
presente una significativa degradazione del rapporto segnale rumore del fotocatodo. Anche la
corrente di buio e' molto piu' elevata che nei fotomoltiplicatori. Il vantaggio consiste nel fatto che si
possono costruire dei grandi mosaici di microcanali detti microchannel plates. Questi vengono usati
negli intensificatori d' immagine, dei quali un esempio e' mostrato in fig.5.24.
Fig. 5.26: Tipiche curve di carico di un bolometro raffreddato a 0.3 K. La retta riportata per
confronto rappresenta la caratteristica di una resistenza isoterma. La non linearità delle curve di
carico e' dovuta al fatto che la resistenza del bolometro non è costante: è funzione della potenza
dissipata sul bolometro stesso e anche della potenza di background (che vale per le due curve 0 e 30
nW).
Vb RL
dV = dR ≡ I F dR
RL + R RL + R
che potra' essere amplificato e misurato.
Vogliamo ora trovare qual e' il legame tra la potenza radiativa incidente sul bolometro (in Watt) ed
il segnale in uscita (in Volt), cioe' la Responsivita' ℜ del rivelatore. Il rapporto tra la potenza
assorbita dal bolometro (che e' sempre una frazione η < 1 di quella incidente) e segnale in uscita e'
detto Responsivita' elettrica del bolometro. Un primo fattore da cui dipende la responsivita' e' il
parametro resistivo
1 dR
α=
R dT
che da' la variazione percentuale di resistenza al variare della temperatura. Il materiale di cui e'
costituito il bolometro dovra' avere α piu' grande possibile: questo e' uno dei motivi per cui
usualmente non si utilizzano metalli (α relativamente piccolo e positivo) ma piuttosto cristalli
semiconduttori a basse temperature (α relativamente grande e negativo). Il segnale prodotto da una
variazione di temperatura dT sara' quindi
dV = αI F R dT (5.49).
Vogliamo ora trovare la responsivita' del bolometro. In condizioni stazionarie avremo
Q
Q + P = Gs (T-To ) → P = Gs T - (To + ) (5.50)
Gs
dove Gs e' la conducibilita' termica media tra T e To del materiale con cui e' realizzato il contatto
termico tra bolometro e riferimento di temperatura (usualmente un filo metallico). Si vede subito
che operare con una rilevante potenza di background Q equivale ad innalzare la temperatura di
riferimento To di Q/G s, rendendo quindi inutile l'uso di complicate apparecchiature criogeniche. E'
quindi fondamentale stabilire le condizioni di background radiativo in cui operera' il bolometro per
utilizzarlo nel modo migliore.
Se alla potenza di background si sovrappone un segnale radiativo ∆Q, questo provochera' una
variazione di temperatura ∆T, conseguentemente una variazione di resistenza e quindi anche di
potenza dissipata ∆P. Si deve quindi differenziare la relazione precedente tenendo conto di tutti
questi effetti; inoltre, in condizioni non stazionarie, il segnale ∆Q andra' anche a modificare il
contenuto di calore del bolometro, in quantita' dipendente dalla sua capacita' termica C. Si scrivera'
quindi
dGs d ∆T
Q + ∆Q + P + ∆P = Gs (T-To ) + ∆T (T-To ) +Gs ∆T + C (5.51)
dT dt
ovvero, utilizzando l'equazione statica (5.50)
d ∆T dGs
C + Gs + (T-To ) - P B α ∆T = ∆Q (5.52)
dT
dt
dove si e' esplicitata
dP d V2 d R RL-R dR RL-R
Vb2 = Vb =P α ≡PBα .
2
= =
dT dT R dT (R+RL)2 (R+R L )3
dT L
R +R
La (5.52) si riscrive definendo una conducibilita' termica equivalente Ge = G s + [(dGs)/ dT] (T-To ) -
P B α. Qui Gs + [(dGs)/ dT] (T- To ) e' detta conducibilita' dinamica e P B α e' il termine di
interazione elettrotermica. Questo puo' essere interpretato intuitivamente cosi': per bolometri
negativi (α < 0) l' ingresso termico aggiuntivo ∆Q produce un aumento della temperatura e quindi
un abbassamento della resistenza, facendo quindi diminuire P e simulando quindi un maggiore
contatto termico. Il bolometro opera quindi con una conducibilita' termica efficace che puo' essere
decisamente maggiore di quella statica. Si puo' allora scrivere l'equazione del bolometro
d ∆T
C + Ge ∆T = ∆Q (5.53).
dt
E' molto comune rivelare radiazione modulata ad una ben precisa frequenza, in modo da poterla
distingure efficientemente dal background utilizzando la tecnica di modulazione e demodulazione
sincrona (vedi cap.3 par.2). Risolveremo quindi la (5.53) nel caso che il segnale radiativo sia
modulato sinusoidalmente (∆Q = ∆Qo ejωt ) e ricercheremo soluzioni del tipo ∆T = ∆To ej(ωt- φ).
Sostituendo nella (5.53) si ottiene subito
∆To ejφ
=
∆Qo
j ωC + Ge
e quindi si trovano subito lo sfasamento della variazione di temperatura rispetto alla variazione di
potenza incidente
ωC
tanφ = ≡ ωτe (5.54)
Ge
e la responsivita' elettrica
∆V ∆T αI F R ℜe(0)
ℜe(ω) = = αI F R = = (5.55).
∆Q ∆Q G
e√ √
o o
1 + ω2 τe2 1 + ω2 τe2
Si vede facilmente che e' necessario operare un compromesso tra tempo di risposta e responsivita':
per ottenere una alta responsivita' si dovrebbe isolare bene il bolometro dal riferimento di
temperatura, cioe' rendere Ge piu' piccola possibile: questo pero' allungherebbe notevolmente il
tempo di risposta τe del bolometro. L' unica soluzione e' quella di abbassare contemporaneamente a
Ge anche la capacita' termica C del bolometro. Questo si puo' ottenere usando cristalli con alta
temperatura di Debye raffreddati a temperature molto basse (C ∼ aT + bT3 ). Si noti che la
responsivita' diminuisce ad alte frequenze come l' inverso della frequenza di modulazione: i
bolometri utilizzati in astrofisica o in spettroscopia sono rivelatori decisamente lenti, con tempi di
risposta dell' ordine dei millisecondi. Recentemente sono stati sviluppati bolometri ottimizzati per lo
studio di fasci molecolari o per spettroscopia γ in cui la responsivita' e' stata sacrificata a favore del
tempo di risposta, che arriva al µs.
Per ottenere una alta responsivita', come era prevedibile, si deve inoltre utilizzare un materiale con
alta α. Aumentare I ed R porta invece degli svantaggi dal punto di vista del rumore, come si vedra'
nel seguito: quindi I e' limitata di solito al nA, mentre R e' limitata al MΩ. Possiamo quindi vedere
numericamente dalla (5.55) l' ordine di grandezza della responsivita' di un tipico bolometro
criogenico a 0.3 K: per il Ge drogato e compensato si puo' ottenere α ∼ 10 ÷100 K-1 . Il valore della
responsivita' e' quindi determinato se si specifica Ge. Ma questa e' determinata dalla costante di
tempo, che vogliamo sia abbastanza breve, ad esempio τe∼ 5 ms, e della capacita' termica.
Supponendo di fare un piccolo cristallo di Ge, cubico, di 200 µm di lato, incollato ad un assorbitore
di radiazione in zaffiro, dimensioni 2 mm × 2 mm × 35 µm: a 0.3 K si ha una C ∼ 5 ×10-12 J/K e
quindi Ge = C / τe∼ 10-9 W/K. Sostituendo nella (5.55) e supponendo F ∼ 1 si ottiene
αI F R 10 ·1 ×10-9 ·1 ·1 ×106 V V
ℜe(0) = = ≅ 10 7
.
Ge 1 ×10-9 W W
Vale la pena di notare che la costante di tempo effettiva τe e' legata alla costante di tempo termica
τth dalla relazione
1 1
C C
τth = = αP B = τe αP B (5.56):
Gd Ge 1 + 1+
Ge Ge
si vede subito che le due costanti di tempo possono essere decisamente differenti, e che il bolometro
negativo ha un tempo di risposta inferiore a quello termico.
5.2.2: Misure elettriche della responsività. La responsivita' ottica del bolometro ℜopt puo' essere
misurata facendo osservare al rivelatore una sorgente di brillanza nota B (ad esempio un corpo nero,
oppure alternando con un chopper due corpi neri a temperature diverse ottenendo cosi' un segnale
alternato). Si misura allora il segnale in uscita dal bolomentro (∆V) e il throughput del sistema AΩ,
e si ricava
∆V
ℜopt = (5.57)
A ΩB
Si capisce pero' che questa misura e' difficoltosa, perche' non e' facile realizzare corpi neri o
sorgenti standard di calibrazione a queste lunghezze d' onda. D' altra parte se si vuole solo
ottimizzare le prestazioni del rivelatore, e' sufficiente misurare una quantita' proporzionale alla
responsivita' ottica, ad esempio la responsivita' elettrica
ℜopt
ℜe = (5.58)
η
dove η e' l'efficienza di assorbimento della radiazione da parte del bolometro, cioe' il rapporto tra
potenza assorbita dal bolometro e potenza radiativa incidente sul bolometro. Questa puo' essere
misurata senza ricorrere a sorgenti radiative, tramite misure di tipo elettrico. A questo scopo si
devono misurare la resistenza R = V/I e l' impedenza dinamica Z = [dV/ dI] del bolometro. Le due
quantita' ovviamente non coincidono, a differenza di quanto accade per la normali resistenze
elettriche isoterme, perche' la resistenza del bolometro dipende dalla potenza in esso dissipata P =
VI e quindi il legame tra I e V non e' lineare. In fig.5.26 e' riportata una tipica curva di carico (I
versus V) misurata per un bolometro negativo: da essa si possono ricavare sia R che Z, almeno per
bolometri lineari, cioe' nei quali la resistenza e' funzione solo della potenza assorbita dal bolometro.
Il legame tra Z e ℜe si puo' ricavare partendo dal parametro di variazione
dlogP R dP
H= = (5.59)
dlogR P dR
che descrive l' abilita' del bolometro a 'sentire' una variazione di potenza: e' questa una caratteristica
intrinseca del bolometro, che non dipende dal fatto che la potenza sia dissipata per effetto Joule o
assorbita dalla radiazione incidente. Possiamo quindi calcolarla nel primo caso:
V/I d(VI) R+Z
H= = (5.60).
VI d(V/I) Z- R
Se inseriamo il bolometro nel circuito di bias (fig.5.25), e supponiamo che oltre alla potenza di bias
si abbia una addizionale potenza radiativa Q, si puo' scrivere:
1 d(VI + Q)
H=
I2 dR
e tenendo conto che ℜe(0) = [dV/ dQ] e che in questo caso [dV/ dI] = - RL si ottiene
R 1 1
1- +
RL I ℜe(0)
H= :
R
1+
RL
confrontando con la (5.60), che vale in generale, si ottiene la formula di Jones (1954) per la
responsivita' elettrica statica
1 RL Z - R
ℜe(0) = (5.61)
I 2 R Z + RL
che si cercava. E' evidente che un buon bolometro deve avere una caratteristica V-I molto curvata
(Z-R ≠ 0), preferibilmente a basse correnti. Va notato che nella realta' i bolometri possono
presentare una piu' o meno marcata non linearita', cioe' una dipendenza della resistenza dalla
potenza e anche dalla tensione applicata. In tal caso la formula di Jones non e' valida (Mather,
1984).
Confrontando la (5.61) con la (5.55) si ottengono le relazioni (valide per RL >> Z, R, caso
abbastanza frequente)
αP Z-R αP Z+R
= 1+ = (5.62)
Ge 2R Ge 2R
e
R+Z Ge Gd
=1+ = (5.63)
R-Z αP αP
utili nel seguito.
5.2.3: Rumore nei bolometri. Esaminiamo ora le varie cause di rumore in un bolometro. Siccome
l' elemento sensibile del bolometro e' una resistenza, sara' sicuramente affetta da rumore Johnson: ai
suoi capi avremo quindi una tensione fluttuante E(t) con spettro di potenza dato dalla (2.24)
wE (f) = 4 k T R (5.64)
Si puo' sicuramente usare l' approssimazione di rumore bianco nell' intervallo di frequenza di
funzionamento dei bolometri, f < 103 Hz. Per costruzione, il bolometro e' una resistenza non
isoterma, e ci si aspetta che gli scostamenti dall' equilibrio termodinamico producano una
correzione significativa allo spettro dato dalla (5.64). Si considera quindi un bolometro in assenza di
radiazione, nel quale viene dissipata solo la potenza di bias. In tal caso la fluttuazione di tensione ai
capi del bolometro sara' la somma di quella dovuta al rumore Johnson ∆E (t) e di quella che deriva
dalle conseguenti fluttuazioni di temperatura ∆T: si avra' cioe' ∆V(t) = αV ∆T(t) + ∆E(t) (si
considera qui la corrente costante). Conseguentemente la fluttuazione di potenza sara' ∆P(t) = αP
∆T(t) + I ∆E(t) . Introducendo questo risultato nell' equazione del bolometro si ha
d ∆T d ∆T
C + G ∆T = ∆P → C + Ge ∆T = I ∆E .
dt dt
Sviluppando in serie di Fourier le quantita' dipendenti dal tempo:
si ottiene
C ∑ jω n ej ωn t an + Ge ∑a n ejωn t = Io ∑c n ej ωn t
da cui
αVo Io αP
dn = cn 1 + = cn 1 +
Cjωn + Ge
Ge ( 1 + jωn τe)
per cui la tensione complessiva di rumore sara'
αP
∆V (t) = ∑ cn ej ωn t
1+
Ge ( 1 + jωn τe)
e quindi
τe 2 1 + ω2 τth2
wV(f) = 4kTR (5.65).
τth 1 + ω τe
2 2
Il confronto tra (5.65) e (5.64) mostra che il rumore Johnson in un bolometro negativo (τe< τth )
viene ridotto. Questo effetto e' spesso chiamato reazione elettrotermica, e si puo' spiegare
fisicamente pensando che le fluttuazioni positive di tensione (dovute al rumore Johnson) provocano
un aumento della dissipazione, e quindi una diminuzione della resistenza, che rende meno probabili
alte fluttuazioni di tensione. Viceversa per le fluttuazioni negative. In totale si ha una diminuzione
della probabilita' di alte (in modulo) fluttuazioni di tensione, cioe' una diminuzione del rumore
Johnson, che puo' arrivare anche al 60 %. In termini di impedenza si ha (utilizzando le 5.62)
R+Z 2 1 + j ωτth 2
wV(f) = 4kTR
2R 1 + j ωτe
che si generalizza nel caso di resistenza di carico RL finita:
R+Z 2 1 + j ωτth 2 RL
wV(f) = 4kTR .
2R 1 + j ωτ e L
R + Z
Si puo' allora calcolare il NEP Johnson
____
√WV(f) = ____ R+Z
NEP J =
√4kTP Z-R √ 1 + ω2 τth2 (5.66)
ℜ
Questa e' detta formula di Mather (1982).
Si possono inserire nella formula precedente i valori numerici tipici di un buon bolometro a T ≅ 0.3
K: P = R I2 ≅ 106 ·(10-9 )2 W ≅ 10-12 W , (Z+R)/(R-Z) ≅ 10 e quindi
W W
Fig. 5.28: Dipendenza della resistenza dalla temperatura per cristalli di Ge drogato in Ga attraverso
trasmutazione neutronica (Haller 1985). E' evidente l' alto valore di a . La legge 5.72 descrive molto
bene i dati sperimentali.
5.2.4: Il bolometro criogenico a semiconduttore . Concentriamoci adesso su un bolometro
criogenico a semiconduttore, che e' il piu' utilizzato in applicazioni astrofisiche. Vogliamo vedere
come la responsivita' ed il rumore del bolometro dipendono dalla potenza radiativa di background Q
e dalla potenza di tipo Joule dissipata nel bolometro P: questi sono i due parametri che l' utilizzatore
puo' variare per ottimizzare l' operazione del rivelatore. Per i nostri scopi costruiremo un modello
semplificato di bolometro ideale, in cui R dipende solo da T (e' frequente invece avere R = R(T,V)
nei bolometri reali).
Abbiamo visto che la conduzione a basse temperature in un semiconduttore dipende dai dettagli del
drogaggio, e che differenti modi di conduzione sono 'congelati' operando a temperature sempre piu'
basse. A temperature inferiori a 1 K l' unico processo di conduzione ancora attivo e' la hopping
conduction (vedi paragrafo 5.1.3). In tal caso la resistenza elettrica e' legata alla temperatura da
relazioni del tipo
R = R∞ e[A/( Tm)] (5.71)
con m che vale 0.25, 0.5, 1 a seconda del tipo di drogaggio del semiconduttore e del tipo di
meccanismo di conduzione attivo alla temperatura considerata (Zwerdling et al. 1968, Mott 1969,
Redfield 1973, Miller 1960, Haller 1985). Consideriamo un caso particolare con m = 0.5 (vedi
fig.5.28):
R = R∞ e√{[(δ)/ T]} (5.72).
Inoltre supponiamo che la conducibilita' termica non dipenda dalla temperatura (ci basta che questa
sia una buona approssimazione in un ristretto intervallo di temperature intorno a To ). Avremo
quindi dalla (5.50)
P+Q
T = To + (5.73)
Go
e la tensione ai capi del bolometro sara'
__
√PR √ P R∞ e
V= = √{ δ/ [T + (P+Q)/G ]} (5.74)
o o
δ
P δ
P √ δ/ [To + (P+Q)/Go ] = -
δQ
2 Go T √ T
1 δ
= 1+P √ δ/ [To + (P+Q)/Go ]
2I δQ
da cui
δV 1 γ
= 1- .
δP 2 I 2
dP/dQ puo' essere calcolata supponendo la corrente nel bolometro costante e quindi P = I2 R, con I2
costante ma R = R(P): differenziando si ha
dP dR d
= I2 = I2 R √ δ/ [To + (P+Q)/Go ] =
dQ dQ dQ
δ dP
= I2 R √ δ/ [To + (P+Q)/Go ] 1 +
δQ dQ
da cui
dP γ
=-
dQ 2+γ
e sostituendo le tre derivate nella (5.75) si ha infine
1 γ
ℜ=- (5.77)
I 2+γ
dove la corrente I puo' essere espressa come
I=
P
=
P
(5.78)
√ R
√ R∞ e√{δ/T}
I parametri che determinano la responsivita' sono quindi Go , δ, R∞ (caratteristiche costruttive del
bolometro), P (che invece puo' essere variata dallo sperimentatore, variando la corrente di bias I) e
T, che, a parita' di bias, dipende dal background Q e dalla temperatura di riferimento To attraverso
la (5.73).
Per l'utilizzatore e' interessante studiare la funzione ℜ(P,Q), in modo da vedere, al variare della
potenza di background, quale sia la migliore potenza di bias da dissipare nel bolometro.
Introduciamo a questo scopo tre ulteriori parametri adimensionali: r e' il rapporto tra potenza di bias
e potenza di background r = P/Q; q = Q / Go To e' proporzionale alla sola potenza di background, e a
= δ/ To . Si ha allora
r q √a
γ= (5.79)
3/2
(1 + q + qr)
mentre
I=
To Go r q
(5.80)
√ R∞ e[√(a / (1 + q + rq))]
e quindi si puo' calcolare facilmente ℜ dalla (5.77). Riportiamo in fig.5.29A un esempio di
andamento di ℜ(r,q),
Dalla figura e' evidente che la responsivita' diminuisce drasticamente all' aumentare della potenza di
background, inoltre, a parita' di background, esiste una potenza di bias ottimale che massimizza la
responsivita'. Con questa potenza di bias si porta la temperatura del bolometro a essere circa il 10%
superiore a To .
Anche la sensibilta' del bolometro (NEP) puo' essere calcolata in funzione degli stessi parametri.
Assumiamo in questo modello ideale che le uniche cause di rumore siano rumore Johnson (5.64),
fononico (5.70), e fotonico, nel quale trascureremo il termine ondulatorio, come nell' eq.2.60.
Avremo quindi
4kTR
NEP =2
+ 4 k Go T2 + 2 Q h ν (5.81)
ℜ2
In fig.5.29B e' riportato l' andamento di NEP(r,q). E' di nuovo evidente che il NEP peggiora
drasticamente all' aumentare della potenza di background (diminuisce la responsivita' e aumenta il
rumore fotonico); inoltre, a parita' di background, esiste una potenza di bias ottimale che minimizza
il NEP, e tale bias coincide in pratica con quello che massimizza la responsivita'.
I parametri scelti corrispondono ad un ottimo bolometro a 0.3 K, Va notato che il NEP ottenibile in
condizioni di basso background radiativo e' dell' ordine di 5 ×10-17 W/[√Hz]: questo corrisponde ad
una sensibilita' notevolissima, che permette di studiare anisotropie del fondo cosmico a 3 K dell'
ordine di ∆T / T ∼ 10-5 in pochi secondi di integrazione, o di misurare l' emissione termica dei cirri
interstellari a lunghezze d'onda millimetriche (vedi paragrafo 5.2.6). Siamo pero' lontani, come
anticipato all' inizio, dalla detezione dei singoli fotoni: a 1000 µm di lunghezza d'onda ciascun
fotone trasporta una energia di 2 ×10-22 W, ed il rumore sopra riportato corrisponde ad un flusso
minimo rivelabile di un secondo di integrazione pari a 2 ×105 fotoni al secondo.
Va notata inoltre l' enorme sensibilita' del termometro usato in un bolometro di questo tipo: il NEP
sopra riportato implica che si riescono a rivelare variazioni di temperatura fisica del bolometro ∆T
∼ NEP/Go ∼ 2 ×10-7 K .
Il modello sopra illustrato, pur portando a conclusioni in prima approssimazione corrette, e' molto
semplificato, e serve per dare un' idea generale dell' infuenza dei parametri Q e P sulle prestazioni
del bolometro. Un modello piu' dettagliato di bolometro dovra' tenere conto degli effetti del
feedback elettrotermico e della dipendenza della conducibilita' termica dalla temperatura. Si veda il
lavoro di Chanin e Torre (1984) per un modello di questo tipo.
Fig. 5.29A: Risultati del modello di bolometro ideale a semiconduttore. Si considerano i seguenti
paramentri: T0 = 0.3 K, G0 = 3 10^{-10} W/K, Rinfty = 4.2 W, D = 49 K, l = 1000 mm. E' riportata
la responsivita' in unita' di 10^7 V/W.
Fig. 5.29B: In B e' riportato il NEP in unita' di 10^(-17) W/\sqrt{Hz}. E' evidente la condizione di
funzionamento ottimale (minimo NEP, massima responsivita') per P / 0.1 G0 T0 e Q/ G0 T0 .
5.2.5: Tecnologie costruttive dei bolometri.
Il bolometro fu inventato nel 1880 dal fisico americano S.P. Langley. Nella versione originale si
trattava di un ponte di Weathstone in cui due resistenze di rami contigui erano sostituite da sottili
strisce di platino annerite: una delle strisce era coperta, mentre l' altra poteva scaldarsi se esposta a
radiazione infrarossa. Si trattava quindi di bolometri metallici (α positivo), a sensibilita' piuttosto
bassa se confrontata con l' attuale stato dell' arte. Langley stimo' la sensibilita' del suo miglior
bolometro nel 1900, affermando che era possibile rivelare variazioni di temperatura della striscia di
metallo (di 50 µm di larghezza) dell' ordine di 10-7 K, e che questo corrispondeva ad osservare l'
emissione di una mucca a 1/4 di miglio di distanza. Possiamo stimare da questa frase la minima
potenza rivelabile: la potenza che arriva sul rivelatore (di area S quando si confronta quella emessa
da una sorgente (di area A a distanza D a temperatura Ts) con quella dell' ambiente circostante (a
temperatura Ta) e'
θ2 π A
∆I = S Ω[ B(Ts) - B(Ta) ] = S π [ B(Ts ) - B(Ta) ] = S σ[ Ts4 - Ta4 ] .
2
2 2 D
e sostituendo S ∼ 5 ×10-7 m2 , A ∼ 1 m2 , D ∼ 400 m , Ts ∼ 310 K, Ta∼ 280 K si ottiene ∆I ∼ 6 ×10-10
W. Col suo bolometro Langley misuro' per la prima volta lo spettro di emissione solare a lunghezze
d'onda fino a 5 µm.
Per ulteriori significativi progressi si deve arrivare agli anni '60, in cui F.J.Low (1961) dell'
Universita' dell' Arizona invento' il bolometro criogenico a semiconduttore, caratterizzato da un
bassissimo rumore e da una banda di sensibilita' estesa a tutte le lunghezze d'onda dell' infrarosso.
Negli anni '70 venne inventato da N. Coron (1972) il bolometro composito, in cui vengono separate
le funzioni di misura della temperatura ed assorbimento della radiazione, incollando un termometro
a semiconduttore, di piccole dimensioni, ad una piastrina assorbente di dimensioni confrontabili con
la lunghezza d' onda da osservare. Il NEP dei migliori bolometri compositi criogenici a
semicoduttore, dell' ordine di 10-17 W/[√Hz] corrisponde nella scala di sensibilita' di Langley all'
osservazione di una mucca distante 12000 Km in 1 secondo di integrazione (senza telescopi o
ottiche aggiuntive).
In fig.5.30 e' mostrato un esempio di bolometro composito classico. L' efficienza di assorbimento η
puo' essere dell' ordine del 50% se si utilizza come assorbitore una piastrina di zaffiro o diamante
(materiali ad alta θD) di spessore 50÷200 µm, di dimensioni maggiori di quelle della lunghezza d'
onda da rivelare, con una evaporazione di circa 200 Å di bismuto su un lato. In questo modo si
ottiene una resistenza superficiale R\sqcup tale che Z0 /R\sqcup = n-1 dove Z0 e' l' impedenza del vuoto
ed n e' l' indice di rifrazione del dielettrico assorbitore: questa e' la condizione per non avere
riflessioni ed avere un assorbimento indipendente dalla frequenza (Nishioka et al. 1978) E' anche
possibile, con una opportuna scelta dello spessore, sfruttare le riflessioni interne ed ottenere η ∼ 90
% su una banda ristretta di lunghezze d'onda.
Il termometro e' invece un cristallo semiconduttore nel quale si deve minimizzare C e massimizzare
α: e' quindi l'elemento piu' critico del bolometro. Il cristallo e' di solito un piccolo cubo di Ge
attaccato all' assorbitore con Epoxy o con Indio (per avere una bassa C). I contatti elettrici su due
facce opposte del cristallo devono essere fatti con grande cura, data la corrente di bias relativamente
alta che potrebbe produrre un grosso rumore di contatto. Di solito si usano contatti metallizzati
ottenuti per ion- implantation e ricottura. La conduzione a temperature molto basse in Ge e' di tipo
"hopping", si basa cioe' sul tunnelling di lacune da accettori non compensati ad accettori
compensati. In queste condizioni, piccole variazioni della concentrazione di drogante e di
compensazione provocano grosse variazioni di α ed R. Per questo motivo si usa drogare il cristallo
facendo diffondere il drogante in un forno, realizzando cosi' un gradiente di drogaggio. Si taglia poi
a fettine il cristallo, trovando il pezzo con le migliori caratteristiche. Evidentemente questa
procedura e' estremamente lunga e costosa.
Fig. 5.30: Bolometro composito classico. L'assorbitore e' un film di Bi depositato su un substrato di
Zaffiro o diamante (dimensioni tipiche 3 mm* 3 mm * 50 mm). Sul substrato e' incollato il cristallo
semiconduttore (Ge:Ga) che fa da termometro (dimensioni tipiche 500^3 mm^3). Il tutto e' sospeso
per mezzo di fili di nylon di piccolo diametro (10 mm ). Il contatto termico G e' realizzato per
mezzo dei due fili metallici connessi agli estremi del semiconduttore.
In B le configurazioni dei due mosaici (91 e 37 bolometri) che verranno montati nello strumento. In
C il fotometro completo di sistema criogenico per il raffreddamento dei bolometri a 0.1 K, grazie ad
un refrigeratore a diluzione 3He-4He (da Gear e Cunningham, 1990, ESA-SP-314, pg.353).
Fig. 5.35: Cella di Golay. In A e' visibile la cella vera e propria, composta da una finestra
trasparente all' infrarosso (A), il film assorbente all' interno della cella di misura (B), la membrana a
specchio deformabile (C), il suo supporto (D), la finestra ottica posteriore (E), la cella di ballast (F)
ed il capillare (G) (da Golay M.J.E., 1947, Rev. Sci. Instr., {\bf 18}, 357).
In B e' visibile il rivelatore completo di diodo fotoemettitore, sistema ottico focalizzatore, griglia e
rivelatore a fotodiodo per la misura della deformazione della membrana deformabile (da Hickey
J.R. e Daniels D.B., Rev. Sci. Instr., 1968, 732).
Si realizza quindi un rivelatore termico, sensibile ad una vasta gamma di lunghezze d'onda, in cui l'
elemento termometrico e' la pressione di un gas (rivelatore pneumatico). I principali svantaggi della
cella di Golay sono la sua lentezza (τ ∼ 10 ms), la sua microfonia ed il rumore. Quest' ultimo,
elevato in assoluto, e' attribuibile al moto browniano del gas nella cella, ed e' quindi il minimo
ottenibile per un rivelatore termico a temperatura ambiente: in questo senso la cella di Golay si
avvicina al rivelatore termico ideale. Purtroppo e' impossibile in pratica raffreddare la cella di Golay
a temperature criogeniche (causa liquefazione del gas e problemi di tenuta della membrana
deformabile). Il primo prototipo di questo rivelatore fu sviluppato da Golay durante la seconda
guerra mondiale (Golay, 1947). Un accorgimento interessante, presente fin dal rivelatore di Golay,
e' quello della cella di ballast. E' evidente che la cella sopra descritta soffrirebbe di una enorme
deriva termica: piccole variazioni della temperatura ambiente provocherebbero variazioni di
pressione del gas e quindi sbilancerebbero il sistema ottico anche in assenza di segnale radiativo.
Per evitare questo problema si crea intorno alla cella di misura una seconda cella, detta 'di ballast',
connessa alla cella di misura attraverso un capillare. In questo modo le fluttuazioni a lungo termine
della temperatura provocano la stessa variazione di pressione nelle due celle, e non producono
segnali misurabili. L' impedenza del capillare e' sufficientemente elevata da impedire la
ridistribuzione della pressione per variazioni relativamente veloci della pressione nella cella di
misura, quali quelle prodotte dal segnale infrarosso modulato: queste produrranno quindi la
flessione dello specchio a membrana e verranno rivelate. C'e' inoltre un ulteriore notevole
vantaggio: Golay ha dimostrato che se i centri di gravita' delle due celle coincidono, le accelerazioni
lineari non producono, almeno in prima approssimazione, alcuna differenza di pressione tra le due
celle. Si elimina cosi' gran parte della microfonia, che e' una delle principali limitazioni di questo
rivelatore.
5.3.1: Radioricevitori
Consistono in una antenna (che converte il campo elettromagnetico in una differenza di potenziale
alternata), un amplificatore a basso rumore, sufficientemente veloce da poter amplificare la tensione
alternata alla frequenza della radiazione da misurare entro una certa banda di frequenza, ed un
circuito rivelatore integratore che permette di avere in uscita un segnale continuo proporzionale all'
ampiezza del campo elettromagnetico in ingresso integrata sulla banda di frequenze di sensibilita'
(total power). Alternativamente si puo' connettere la tensione amplificata ad un banco di filtri o ad
un altro sistema di analisi spettrale (vedi 5.3.4) in modo da estrarre l' informazione spettrale insita
nel segnale. Se invece di un rivelatore lineare si utilizza un rivelatore quadratico si avra' in uscita un
segnale proporzionale al valore quadratico medio del campo elettromagnetico, ovvero
proporzionale all' intensita' della radiazione.
La transizione da campo elettromagnetico a differenza di potenziale in un cavo coassiale puo' essere
effettuata in modi diversi: a bassissime frequenze l' antenna puo' essere un semplice dipolo, e la
differenza di potenziale si sviluppera' tra i due bracci del dipolo (fig.5.36A e B). A frequenza piu'
alte l' antenna puo' essere a tromba (fig.5.36C), con transizione a una guida d' onda: la differenza di
potenziale viene misurata tra la guida d' onda ed un probe, collocato in posizione opportuna nella
guida d'onda. Una antenna a tromba (feed horn) ha una direttivita' superiore al dipolo, cioe' riceve
onde elettromagnetiche solo da un angolo solido un ben definito (e dipendente dalla sua geometria e
dalla lunghezza d'onda). Sia l' antenna a dipolo che la feed horn possono essere montate nel piano
focale di un telescopio, realizzando cosi' un radiotelescopio (fig.5.36D).
5.36: Radioricevitori. A seconda della lunghezza d' onda si usa come antenna un dipolo connesso
direttamente all' amplificatore (A, per frequenze dell' ordine di 100 KHz), un dipolo con ground
plane, connesso all' amplificatore attraverso un cavo schermato (B, per frequenze dell' ordine del
MHz), o una antenna a tromba (C, per frequenze dell' ordine del GHz o superiori), connessa all'
amplificatore per mezzo di una guida d' onda G ed un 'probe' P che realizza la transizione al cavo
schermato C. In ogni caso l' amplificatore amplifica direttamente una differenza di potenziale alla
stessa frequenza della radiazione da misurare: questo e' possibile solo a frequenze inferiori a
qualche decina di GHz. All' uscita dell' amplificatore si trova un circuito raddrizzatore e integratore
che permette di ottenere una tensione continua proporzionale all' ampiezza del campo elettrico della
radiazione da misurare.
In D e' mostrato un insieme di 4 antenne a dipolo che vengono utilizzate al pia no focale del
radiotelescopio da 100 m di Effelberg (Max Planck Institut fur Radioastronomie, Bonn). In E una
semplice antenna a tromba per radiazione a 35 GHz.
5.37: Tipica risposta in potenza di una antenna (sezione a f costante)
5.38: Elementi costruttivi del radiotelescopio di Effelsberg da 100 m (sinistra). A destra una foto del
telescopio Parkes.
Definiamo ora alcune quantita' importanti per la caratterizzazione di radioricevitori e radiotelescopi.
Nel caso delle antenne, essendo il diametro dell' antenna confrontabile con la lunghezza d'onda
della radiazione in esame, cio' che si osservera' sara' una figura di diffrazione generata dalla
radiazione incidente. Questo effetto definira' la risposta angolare dell' antenna. Sia P (θ, φ) la
potenza raccolta dall' antenna ad un angolo θ, φ dall' asse ottico. Si definisce la risposta in potenza
dell'antenna (antenna power pattern) come la distribuzione normalizzata
P(θ, φ)
Pn (θ, φ) = (5.85)
Pmax
Un andamento tipico di una sezione della Pn e' mostrato in fig.5.37, dove si possono osservare il
lobo principale ed i lobi secondari. La HPBW (Half Power Beam Width) e' la larghezza del beam
principale a livello Pn = 0.5. L' angolo solido dell' antenna e' definito come
⌠
ΩA = P (θ, φ) d Ω (5.86)
⌡4π n
e l' angolo solido del beam principale e'
⌠
ΩM = Pn (θ, φ) d Ω (5.87).
⌡ Mainlobe
L' efficienza dell' antenna e' η = Ω M / ΩA.
La risoluzione angolare ottenibile da un radiotelescopio a singolo disco e' θHPBW ∼ λ/ D dove D e' il
diametro dello specchio primario del telescopio: e' evidente che i radiotelescopi devono essere di
grandi dimensioni per ottenere risoluzioni angolari appena confrontabili con quelle ottenibili nel
visibile. In fig.5.38 sono mostrati il radiotelescopio da 100 metri di Effelsberg (Germania) e quello
da 64 m di Parkes (Australia).
Il ricevitore vede l' antenna come una resistenza (e' un circuito risonante) che gli trasferisce potenza.
La temperatura d' antenna e' definita come la temperatura di una resistenza che trasferisce al
ricevitore la stessa potenza fornita dall' antenna. Siccome la tensione disponibile ai capi della
resistenza a circuito aperto e' 〈∆V2〉 = 4 k Ta R ∆f e il massimo trasferimento di potenza si ha
quando la resistenza e' uguale alla impedenza della antenna, la potenza trasferita e'
〈∆V2〉 P
P= = k Ta ∆f → Ta = (5.88)
4R k ∆f
La temperatura d' antenna e' quindi solo una diversa scala di misura delle intensita' di radiazione. In
condizioni molto specifiche, ad esempio quando la sorgente e' un corpo nero a temperatura Ts,
osservato nella regione di Rayleigh-Jeans, la potenza raccolta dall' antenna (una sola
polarizzazione) sara'
1 1 2 k Ts
P= A ΩB (Ts) ∆f = AΩ ∆f = k Ts∆f → Ta = Ts
2 2 λ2
dove si e' usato il teorema d' antenna (2.33).
Fino a pochi anni fa i radioricevitori potevano essere usati solo a frequenze inferiori a pochi GHz,
essendo questa la frequenza massima di operazione dei normali transistor bipolari usati negli
amplificatori. Recentemente sono stati sviluppati dei transistor HEMT (High Electron Mobility
Transistor), che permettono di amplificare segnali fino a molte decine di GHz, il che ha permesso di
usare questo tipo di ricevitore anche nelle microonde. Questi transistor, realizzati in Ga-As, possono
essere raffreddati fino a pochi K, e possono avere temperature di rumore di qualche K a 30 GHz.
Una grande difficolta' di operazione dei radioricevitori e' il notevole guadagno che devono avere per
rivelare i deboli segnali astronomici. Se il guadagno supera 80 ÷ 100 dB, anche una piccolissima
frazione del segnale di uscita che ve nga riportata all' ingresso (ad esempio per accoppiamento
induttivo) puo' provocare una violenta autooscillazione del sistema, rendendolo inutile. E' quindi
importantissima la schermatura degli stadi di ingresso del radioricevitore.
Rivelatore quadratico come generatore di inviluppo. Nel pannello superiore sono riportati in
funzione del tempo i due segnali di ingresso (dal cielo, ampiezza piccola, frequenza n1=17.5 GHz ),
e dall'oscillatore locale (ampiezza maggiore, frequenza n2= 15.9 GHz ). Nel pannello inferiore e'
riportato il quadrato della somma dei due segnali ed il suo valor medio su tempi lunghi rispetto a
1/n1 e 1/n2 (curva sinusoidale a bassa frequenza). Questo secondo segnale e' ottenibile da un
rivelatore quadratico relativamente lento, ed e' evidentemente proporzionale all' inviluppo del
precedente. La sua frequenza e' la differenza n1 - n2 = 1.6 GHz e quindi puo' essere amplificato con
un normale radioricevitore. Attraverso un rivelatore quadratico e' quindi possibile eseguire una
conversione verso il basso del segnale da misurare.
Un esempio di componente con caratteristica non lineare e' il diodo. I diodi Schottky (giunzioni
metallo - semiconduttore) sono particolarmente adatti per operazione ad alte frequenze. Altri
componenti con caratteristica fortemente non lineare sono le giunzioni SIS (superconduttore -
isolante - superconduttore) usate per miscelatori a basso rumore ad alte frequenze. Supponiamo
quindi di applicare ad un rivelatore quadratico la somma delle tensioni generate dall' oscillatore
locale (sinusoidale, monocromatico)
V sin(ωL t + δ L)
e dal segnale da rivelare (supposto anche esso monocromatico per semplicita')
E sin(ω S t + δ S)
otterremo una corrente in uscita
I = α[ V sin(ωL t + δ L) +E sin(ω S t + δ S) ]2
ed applicando le formule di addizione
1
I= α(E2 + V2 )
2
1 π
- αE2 sin(2 ω S t + 2 δ S + )
2 2
1 π
- αV sin(2 ωL t + 2 δ L +
2
) (5.89).
2 2
π
- αV E sin[(ω S + ωL) t + (δ S + δ L + )]
2
π
+ αV E sin[(ω S - ωL) t + (δ S - δL + )]
2
Si ottiene quindi nella corrente di uscita la sovrapposizione di diverse componenti a frequenze 0, ω S
- ωL, 2 ωS, ω S + ωL, 2 ωL. Tra tutte queste frequenze, utilizzando un filtro passa banda opportuno si
puo' selezionare la sola frequenza differenza (cioe' il segnale corrispondente all' inviluppo del
segnale somma, che' cio' che ci interessa). Il rivelatore quadratico produce quindi un segnale alla
frequenza differenza, detta anche IF, o frequenza intermedia:
ν IF = |ν S - ν L| (5.90).
Si puo' vedere facilmente che lo stesso segnale di frequenza intermedia puo' essere generato in due
modi: quando la frequenza dell' oscillatore locale e' inferiore alla frequenza della radiazione in
studio e viceversa (mantenendo la stessa differenza, in modulo, tra le due frequenze: e' questa la
ragione del valore assoluto nella 5.90). Quindi l' insieme di mixer e rivelatore quadratico trasforma
due frequenze della radiazione in studio (dette mirror frequencies e simmetriche rispetto alla
frequenza dell' oscillatore locale) in una unica frequenza intermedia (fig.5.41.A). Se si prendono
precauzioni per eliminare una delle due frequenze il ricevitore e' detto single sideband (SSB),
altrimenti e' detto double sideband (DSB).
Fig. 5.41: In un radiometro eterodina si puo' produrre segnale in uscita a frequenza nIF sia con un
segnale monocromatico in ingressonS a frequenza maggiore di quella dell' oscillatore locale nL che
con un sengale monocromatico in ingresso a frequenza minore. Quello che conta e' il valore
assoluto della differenza: nIF = |nS - nL | . Esistono quindi due frequenze 'specchio' che generano la
stessa frequenza intermedia (A). Se il segnale in ingresso non e' monocromatico, si produrra' una
banda di frequenze intermedie, ciascuna delle quali roviene da due frequenze specchio del segnale.
Il ricevitore e' quindi sensibile a due bande di frequenze del segnale, l' estensione delle quali
dipende dalla banda di sensibilita' dell' amplificatore a frequenza intermedia (B).
Fig. 5.42: Relazione tra lo spettro del segnale dal cielo e lo spettro del segnale a frequenza
intermedia. In A si mostra un possibile spettro del segnale dal cielo (continuo piu' righe). Nel caso
di un radiometro a Single Side Band (B) la banda laterale superiore viene soppressa, e I(nIF )=a V
E(nL-nIF ). In realta' la soppressione non e' totale e qualche residuo delle righe piu' intense della
banda laterale superiore e' ancora presente nei dati (tratteggiato). Nel caso di un radiometro a
Double Side Band I(nIF )= a V [ E(nL+nIF ) + E(nL-nIF )] e lo spettro IF e' la somma dei due spettri
(uno dei quali e' specchiato). In ogni caso il segnale IF contiene tutte le informazioni spettrali
presenti nel segnale originale nelle due bande di sensibilita' del radiometro: si puo' quindi eseguire
spettroscopia ad altissima risoluzione.
Se la radiazione in studio non e' monocromatica, si puo' ripetere il ragionamento precedente per
tutte le frequenze che la compongono. Dato quindi un oscillatore locale con frequenza ν L ed un
filtro passabanda con banda ∆νIF, all' uscita del rivelatore quadratico avremo tutta una banda di
frequenze intermedie, che risulta dalla down conversion di tutte le ν S tali che ν S - ν L e ν L - ν S
appartengono alla banda passante ∆νIF. Quindi l' insieme di mixer piu' rivelatore quadratico e'
sensibile a due bande di frequenze, ciascuna ampia ∆νIF, disposte simmetricamente intorno alla
frequenza dell' oscillatore locale (fig.5.41B). Valgono in ogni caso le definizioni di mixer DSB o
SSB. La larghezza della banda ∆νIF e' determinata dalla massima frequenza che puo' venire
amplificata dallo stadio successivo. Questo e' l' amplificatore a frequenza intermedia, realizzato di
solito a transistor bipolari o HEMT, e raffreddato a temperature criogeniche, insieme al rivelatore
quadratico, per ridurne il rumore. La frequenza massima amplificabile e' dell' ordine di qualche
GHz per transistor bipolari, o qualche decina di GHz per HEMT.
L' ampiezza del segnale a frequenza intermedia e'
I(ν IF) = αV [E(ν L + ν IF) + E(ν L - νIF)] (5.91)
cioe' proporzionale al prodotto tra segnale dell' oscillatore locale e segnale da misurare. Se si
aumenta la potenza dell' oscillatore locale (che di solito e' molti ordini di grandezza superiore a
quella del segnale da misurare) si puo' aumentare il guadagno del mixer, portando il segnale IIF ad
un livello molto superiore al rumore dell' amplificatore IF e degli stadi successivi. Il segreto dell'
altissima sensibilita' dei radiometri eterodina risiede quindi nella possibilita' di generare un forte
segnale IF partendo da un debole segnale da misurare ed usando un potente oscillatore locale. D'
altra parte l' oscillatore locale deve essere estremamente stabile, perche' qualsiasi variazione del suo
livello si propaga direttamente in una variazione del segnale IF, cioe' aggiunge rumore alla misura.
Il rivelatore quadratico separa la parte di rivelatore detta front-end, (mixer, antenna, rivelatore
quadratico) in cui circolano segnali a radiofrequenza, da quella detta back-end, in cui si amplifica e
si analizza il segnale IF misurandone l' ampiezza e/o lo spettro. A volte mixer e rivelatore
quadratico sono integrati in un unico componente non lineare sul quale avvengono
contemporaneamente somma dei due segnali e rivelazione. Il back-end piu' semplice e' quello che
misura il segnale totale compreso nella banda di sensibilita' del ricevitore (total power): in questo
back-end il segnale IF viene connesso ad un circuito di seconda rivelazione, che ne misura l'
ampiezza media su un tempo di integrazione dell' ordine di alcuni secondi, producendo quindi una
tensione continua che puo' essere agevolmente misurata.
5.3.4: Back-ends
Se si e' interessati alla spettroscopia del segnale all' interno della banda di sensibilita' ∆νIF del
ricevitore, si possono usare dei back-end che analizzino spettralmente il segnale IF. Ne esistono di
tre tipi: a banco di filtri, ad autocorrelazione, acusto-ottici. Lo spettro del segnale IF e' legato in
modo diretto allo spettro del segnale da misurare ad alta frequenza, esistendo una relazione lineare
(la 5.90) tra ciascuna frequenza IF e la frequenza originale del segnale. Siccome i circuiti elettronici
di filtraggio possono avere una banda passante molto stretta, δν IF / ν IF≅ 10-3 , si vede subito che si
puo' ottenere una risoluzione spettrale altissima sulla radiazione in studio: dalla 5.90 si ha subito la
risoluzione spettrale
Fig. 5.43: Temperatura di rumore in funzione della frequenza di operazione. A sinistra ricevitori
con differenti sistemi di amplificazione (da Rohlfs K., Tools of Radio Astronomy, Springer Verlag);
a destra ricevitori a giunzione SIS (da Sutton E.C., 1990, ESA-SP-314, pg. 199).
Fig. 5.44A: A sinistra: Spettro tipico di una nube interstellare densa: il continuo e' dovuto
all'emissione termica della polvere interstellare; sovrapposte a questo sono visibili righe rotazionali
e vibrazionali di differenti specie molecolari. A destra: Spettro di transizioni maser dell'acqua
osservato a 22 GHz (sopra) e a 321 GHz (sotto) nella nube molecolare W3. La risoluzione spettrale
della seconda misura e' l/ Dl= c / Dv = 2 10^6. (Da Menten et al., 1990, ESA-SP-314, pg. 243).
Fig. 5.44B e C: Spettro della regione di formazione stellare Orione-KL intorno a 325 GHz: sono
visibili una riga dell' acqua e righe di altre molecole complesse. (Da Menten et al., 1990, ESA-SP-
314, pg. 243).
νS νS ν IF νS
= = (5.94)
∆νS ν L - ν S δν IF δν IF
Numeri tipici per un radiometro a ν S∼ 100 GHz sono ν IF∼ 1 GHz e δνIF∼ 1 MHz, per cui la
risoluzione spettrale data dalla (5.94) puo' arrivare a 105 . I radiometri eterodina sono quindi gli
strumenti da usare per studi spettroscopici avanzati, e la maggior parte della fisica del mezzo
interstellare e della cosiddetta astrochimica si basano su risultati ottenuti da grandi telescopi
millimetrici accoppiati a radiometri di questo tipo. Grazie a questi strumenti e' stata scoperta la
maggior parte delle molecole interstellari (vedi fig. 5.44).
Il back-end a banco di filtri e' il piu' semplice concettualmente: si connette il segnale IF ad un
grande numero di filtri passa banda ad alto Q, con frequenze e bande passanti organizzate in modo
da ricoprire uniformemente tutta la banda ∆νIF con risoluzione δνIF. Ovviamente piu' e' alta la
risoluzione richiesta e' piu' filtri servono per ricoprire l' intera banda ∆νIF. Ad esempio il banco di
filtri usato al telescopio millimetrico IRAM da 30 metri ha 512 filtri, ciascuno con banda di 1 MHz,
e ricopre quindi una banda IF di 0.5 GHz. Uno strumento di questo tipo e' quindi molto costoso ed
ingombrante. Inoltre non e' facile costruire filtri centrati a frequenze diverse e con forma della
risposta in frequenza esattamente uguale, come e' necessario per l' esecuzione di misure spettrali
accurate.
Il back-end ad autocorrelatore e' molto piu' compatto. Si basa sul teorema di Wiener-Kinchine
(2.11) che collega la funzione di autocorrelazione R(τ) del segnale IF al suo spettro di potenza.
Quello che si misura negli spettrometri ad auotocorrelazione e' quindi R(τ), cioe' il valore medio del
prodotto tra il segnale ed il segnale ritardato di τ, al variare di τ. Questo prodotto puo' essere
eseguito usando moltiplicatori analogici, che possono essere costruiti usando sommatori e rivelatori
quadratici grazie all' identita'
[ x(t) + y(t) ]2 - [x(t) - y(t)]2 = 4 x(t) y(t) (5.95).
Tuttavia esistono problemi di stabilita' nell' operazione di questi componenti analogic i che possono
introdurre notevoli errori sistematici. Un metodo che e' diventato standard negli ultimi anni consiste
nel misurare la funzione di autocorrelazione di una trasformazione del segnale piuttosto che del
segnale stesso. Ad esempio si puo' dimostrare che se si considera il segnale y(t) = sgn(x(t)), (che
vale 1 se x(t) > 0 e -1 se x(t) < 0 ) la sua funzione di autocorrelazione Ry (τ) e' legata alla Rx (τ) dalla
legge dell' arcoseno
2 Rx (τ)
Ry (τ) = arcsin
π Rx (0)
a patto che x(t) sia un processo casuale gaussiano, il che vale di solito per il segnale IF. Quindi
misurando Ry (τ) si puo' ricavare
π
Rx (τ) = Rx (0) sin[ Ry (τ) ] (5.96)
2
e facendone la trasformata di Fourier si puo' ricavare lo spettro del segnale IF. Il vantaggio di
misurare Ry invece che Rx consiste nel fatto che y(t) e' un segnale digitale ad 1 bit (puo' avere solo
due valori) ed e' quindi elaborabile con circuiti digitali, che garantiscono stabilita' assoluta (Weinreb
1963): con questi autocorrelatori digitali si possono eseguire integrazioni di molte ore senza traccia
di drift. Inoltre la forma della risposte spettrale e' determinata dal processo di trasformata di Fourier,
ed e' quindi perfettamente conosciuta e costante per tutti i canali dello spettrometro. Uno schema a
blocchi di un autocorrelatore digitale ad 1 bit e' mostrato in fig.5.45.
Fig. 5.45: Spettrometro ad autocorrelatore digitale a un bit (da Rohlf, Tools of Radio Astronomy,
Springer Verlag) per l' analisi spettrale della IF.
Riferimenti capitolo 5