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A
CAPITOLO TERZO
p.
TEORIE SULLA DISTRIBUZIONE DEL POTERE
NELLA SOCIETÀ
S.
Sommario: 1. Teoria delle élite. - 2. Teoria pluralista. - 3. Teorie sul totalitarismo e
sull’autoritarismo. - 4. Regimi democratici. - 5. Conclusioni: eletisti, pluralisti e marxi-
sti.
i
br
1. TEORIA DELLE ÉLITE
li
Una «élite» è comunemente intesa essere un gruppo con funzioni di
comando e di direzione sul contesto sociale, per via di privilegio, o di ca-
se
pacità, o di entrambi i fattori. La cosiddetta teoria delle élite si occupa della
distribuzione del potere nella società, a partire dalla distinzione tra governa-
ti e governanti. La base della teoria elitista si può sintetizzare così: in qual-
Es
no, è quella fra le due classi dei governanti, la meno numerosa, e dei governa-
ti, la maggioranza delle persone: quest’ultima è sempre diretta dalla prima,
legalmente o arbitrariamente, pacificamente o violentemente, mentre la pri-
ig
.
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— Pareto (1916): approccio psicologico;
— Burnham: approccio economico;
p.
— Wright Mills (1956): approccio istituzionale.
A) Impostazione organizzativa
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Mosca e Michels sostengono che l’esistenza di una élite e la sua posi-
zione dominante sull’intera società poggino le proprie basi sulla sua capaci-
tà organizzativa, cosicché nella società «ogni individuo si trova solo davanti
alla totalità della minoranza organizzata» (Mosca, 1966): la minoranza, pro-
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prio perché organizzata, domina la maggioranza, scarsamente o per niente
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organizzata. A sua volta il gruppo dominante comprende, solitamente, due
livelli di leadership: un livello superiore, cioè un gruppo ristretto di soggetti
che prendono le decisioni politiche fondamentali, e un livello inferiore, cioè
li
un gruppo più ampio, che funge anche da fonte di reclutamento, con funzio-
ni di leadership secondarie. In generale l’élite viene considerata da questi
se
autori identica alla classe di Governo.
L’autorità è dunque la misura del rapporto di dominio tra la minoranza
organizzata e il resto della società. Il rapporto di autorità che intercorre tra
Es
liberale (il movimento opposto, per cui l’autorità fluisce dalle masse verso
l’élite). Una stessa duplice dinamica vale per quanto riguarda il recluta-
ht
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La possibilità di un ricambio di tipo più radicale, che superi il movimento dal livello infe-
riore a quello superiore dell’élite, è ammessa da Mosca nel caso in cui la maggioranza
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scontenta riesca a rovesciare il gruppo dominante, il che avrebbe come conseguenza il
formarsi di una nuova minoranza organizzata, all’interno della maggioranza, con funzioni
di Governo. Mosca era antidemocratico: riteneva infatti che le funzioni di leadership in
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una società dovessero essere appannaggio di una classe dominante di Governo, la quale
ha la prerogativa di manipolare l’intera società nel proprio interesse, e manifestava anche
una certa avversione al sistema elettorale a suffragio universale, anche se ammetteva l’ine-
luttabilità alla tendenza storica all’allargamento del suffragio. Successivamente, ammise
che i sistemi di governo rappresentativo e le autorità di tipo liberali fossero più adeguate al
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controllo degli interessi generali che le élite devono garantire.
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L’opera di Michels concentra la sua attenzione soprattutto sui partiti
politici. Studiando l’organizzazione, ad es., dei partiti socialisti europei al-
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l’inizio del XX secolo, e in particolare quella del Partito socialdemocratico
tedesco, egli elabora la cosiddetta legge ferrea dell’oligarchia, cioè la leg-
ge dell’autoriproduzione del dominio da parte di poche persone in un grup-
se
po più ampio, per cui il potere reale viene sempre esercitato da una mino-
ranza anche in contesti, quali quelli dei partiti, in cui nominalmente sarebbe
la massa degli iscritti a dover controllare le leadership e le dinamiche di
Es
reclutamento.
Michels teorizza dunque l’importanza dell’organizzazione, quale ele-
mento fondamentale che caratterizza la complessità delle attività umane,
nonché il suo nesso indissolubile con l’esistenza di una leadership, vale a
©
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Sia Michels sia Kornhauser considerano comunque la manipolazione
della maggioranza della società da parte dell’élite dominante la condizione
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normale di ogni contesto sociale contemporaneo.
B) Impostazione psicologica
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Le teorie di Pareto, contemporaneo di Mosca, si concentrano di più
sugli aspetti psicologici e antropologici del potere. Egli ritiene che gli esseri
umani non agiscono in realtà secondo logica, ma giustificano logicamente
le proprie azioni servendosi di valori e ideologie che sono come delle deri-
i
vazioni (così le chiama), e che a loro volta producono stati mentali e istinti,
br
chiamati residui, i quali costituiscono la reale base delle azioni umane. I
residui, secondo Pareto, sono di due tipi:
— istinti di combinazione: hanno a che vedere soprattutto con l’uso delle
li
idee e dell’immaginazione. Gli individui che agiscono sulla base di que-
sto tipo di impulsi costituiscono una tipologia di personalità dominante
se
che Pareto chiama «volpi», intelligenti, creative, pazienti, tendenzial-
mente manipolatrici, inclini al compromesso e capaci di gradualità e di
perseveranza nelle azioni;
Es
— persistenza degli aggregati: hanno a che vedere con gli aspetti che esal-
tano la continuità del comportamento e la stabilità. Sono propri di per-
sonalità agenti che Pareto definisce «leoni», inclini alla risolutezza, allo
scontro, all’impazienza, all’ordine e all’inflessibilità.
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si verifica ciò che Pareto chiama una circolazione delle élite, in un proces-
so continuo in cui le volpi sostituiscono i leoni gradualmente, e i leoni rim-
piazzano le volpi, viceversa, di solito in maniera improvvisa.
op
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la tendenza accentratrice e la durezza per quanto riguarda i leoni. General-
mente, la riproduzione e il reclutamento dei gruppi dominanti avviene o per
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evoluzione, o per rivoluzione. Come per Mosca, anche secondo Pareto le
élite si compongono di due livelli: uno superiore, ovvero le élite di Gover-
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no, che determinano direttamente o indirettamente le decisioni politiche, e
una inferiore, o élite non governanti, con funzioni di leadership nella so-
cietà, ma in secondo piano rispetto alle decisioni politiche fondamentali. In
questo modo la nozione di élite o gruppo dominante assume in Pareto un
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significato che abbraccia una parte più ampia della società rispetto alle con-
cezioni di Mosca e di Michels, avvicinandosi a quello che comunemente si
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intende per élite sociale. È importante sottolineare però che Pareto sostiene
come le élite non siano originate dalle forze economiche e sociali (Marx),
ma dalle caratteristiche e dalle qualità umane dei membri che le compongo-
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no, cioè dalle capacità individuali e dagli istinti. Il punto di vista di Pareto
è, dunque, radicalmente individualistico: le élite sono composte da indivi-
se
dui che agiscono in quanto tali, spesso senza la capacità di prevedere il
risultato delle proprie azioni e di quelle altrui, e nemmeno accomunati da
fini condivisi e coerenti.
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C) Impostazione economica
Come Marx, anche James Burnham afferma l’idea che chi controlla i
mezzi di produzione possiede anche il potere reale, ma ritiene che, diversa-
mente dal periodo della rivoluzione industriale, il controllo dei mezzi di
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produzione non appartenga più alla classe dei capitalisti, ma sia invece de-
tenuto da una élite di tipo nuovo, che comprende i soggetti che hanno com-
ht
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te è profondamente radicata nelle strutture della società. In generale si tratta
di un complesso industriale-politico-militare, composto da gruppi domi-
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nanti dotati di una certa dinamicità, che si spostano e si sovrappongono. In
questa struttura complessa, i soggetti più importanti costituiscono la vera e
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propria élite del potere: individui che si trovano «in posizioni tali da poter
trascendere l’ambiente dell’uomo comune; le loro decisioni hanno conse-
guenze più vaste […]. Stanno a capo delle alte gerarchie e delle organizza-
zioni della società moderna (1956)».
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Dunque, al livello supremo, abbiamo una struttura dominante unita da
obiettivi consapevoli, anche di tipo cospirativo, o da valori comuni e condi-
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visi, il cui potere ha il suo fondamento non su fattori economici come la
classe sociale, la ricchezza, o individuali, come le capacità ecc., bensì deri-
va esclusivamente dalla sua stessa posizione.
E) Sviluppi delle teorie elitiste
li
se
Una verifica delle teorie elitiste riguarda l’indagine sulla selezione dei
membri che compongono le élites e la riproduzione di tali gruppi dominan-
ti, vale a dire:
Es
se si può dire che in generale i membri delle élites non sono rappresentativi
della particolare configurazione socio-economica da cui provengono, per-
ché costituiscono uno status a sé.
yr
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pacità di autoriproduzione delle élites nelle proprie posizioni di potere. Se è
vero che gli incarichi politici sono molto spesso elettivi, e che in molti casi
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l’elettorato ha la facoltà di scegliere fra due o più candidati, bisogna riscon-
trare che però la facoltà di selezionare a monte le candidature appartiene
S.
sovente a delle oligarchie, secondo la definizione di Michels, cioè a dei
piccoli gruppi di leaders politici di partito, e che le differenze fra i candidati
per quanto riguarda la loro posizione socio-economica sono minime.
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È da menzionare la ricerca empirica svolta da Folyd Hunter su: Community Power Struc-
ture: A Study of Decision-makers (1953). Questo tipo di approccio è definito percettivo o
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reputazionale. Si tratta di un sondaggio svolto nella città statunitense di Atlanta, chieden-
do a un campione selezionato di cittadini chi realmente, secondo loro, prendesse le decisio-
ni fondamentali, all’interno di un elenco composto da notabili locali (leaders cittadini, espo-
li
nenti della camera di commercio, editori di giornali ecc.). Il risultato dell’inchiesta portò
Hunter alla conclusione che Atlanta era controllata e dominata da un’élite degli affari. È
chiaro però che questo tipo di approccio, che si basa di fatto sulle percezioni, sulle impres-
se
sioni e sulle opinioni, non risolve il problema dello scarto tra impressioni soggettive e
realtà oggettiva, così come quello della distinzione tra potere potenziale e potere effettivo.
2. TEORIA PLURALISTA
I teorici pluralisti contestano le teorie delle élite concentrando la loro
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critica sulla stessa definizione di élite; essi hanno cercato di stabilire, pren-
dendo in esame una casistica di decisioni politiche già avvenute, se le élites
siano veramente responsabili dei risultati dei processi decisionali.
ig
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Robert A. Dahl, in Chi detiene il potere? (1961), compie un esame
statistico dei processi decisionali in una città statunitense (New Haven), a
p.
proposito di tre specifici temi (il riassetto urbano, l’istruzione pubblica e la
nomina delle cariche politiche locali) in un periodo di tempo definito. Egli
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giunge così alla conclusione che su queste tre questioni i processi decisio-
nali erano determinati da tre gruppi chiusi ma distinti: secondo Dahl non
esiste perciò un singolo gruppo dominante che detiene il potere, ma esiste
invece una pluralità di interessi, i quali operano per influenzare le decisio-
i
ni in misura ineguale fra loro, a seconda soprattutto della disponibilità di
risorse. In questo modo, Dahl traccia un quadro che si configura piuttosto
br
come un sistema di competizione reciproca di élites, operando, nel caso
specifico, una distinzione tra tre gruppi:
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a) i «notabili economici»;
b) i detentori delle cariche politiche;
se
c) i «notabili sociali».
Un tale sistema viene così definito un «Governo di molti», ovvero una
poliarchia: le strutture politiche dello Stato garantiscono una sorta di con-
trattazione e di competizione tra i vari interessi organizzati, sulla base del
Es
consenso (quasi totale, a parte piccole minoranze) da parte della società alle
sue strutture politiche. Abbiamo dunque un quadro sociale costituito da una
pluralità di interessi particolari minoritari, in continua competizione fra loro,
nel quale nessun gruppo che costituisce un interesse particolare è destinato
©
Questa è anche l’opinione di Nelson Posby (1963): l’esercizio del potere è svolto in genere
da una poliarchia, in cui coloro che hanno la responsabilità dei processi decisionali tengono
conto, almeno formalmente, di tutti gli interessi e prestano ascolto a tutti i punti di vista.
Così, le teorie pluraliste ci offrono il concetto di gruppo di pressione, o gruppo di interes-
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se, ovvero un gruppo organizzato che influenza le decisioni politiche per tutto ciò che
riguarda i propri interessi e le proprie posizioni di potere. In tal modo, le società vengono
viste come composte da molteplici interessi organizzati, i più forti dei quali possiedono una
yr
capacità di pressione sui governi. Già nel 1908 una visione del genere veniva tracciata da
Arthur F. Bentley, nella sua opera Il processo di Governo (1908). Negli anni Cinquanta,
poi, la nozione di gruppo di interesse è stata teorizzata da David Truman, in The Govern-
mental Process (1951). Secondo i pluralisti, un interesse esistente in una società cerca
op
sempre di organizzare la propria rappresentanza. In questo modo, essi hanno dato il via alle
odierne ricerche in campo politico sui gruppi di pressione, inaugurando le teorie contem-
poranee su quella che viene definita la tesi della fine delle ideologie, secondo la quale nelle
società liberal-democratiche sarebbe presente una sorta di accordo generale fra tutte le
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Teorie sulla distribuzione del potere nella società 51
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parti sociali e tutti gli interessi sulle mete da perseguire, mentre il disaccordo esisterebbe
soltanto sui mezzi di realizzazione. Questa visione ha come modello di riferimento senz’al-
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tro la società e il sistema politico americano tra gli anni Cinquanta e Sessanta, mentre
maggiori difficoltà essa incontra nell’essere applicata ad altri sistemi politici. Ad ogni modo,
le teorie pluraliste costituiscono la principale alternativa ai modelli elitisti, se naturalmente
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si lascia da parte il marxismo.
Le maggiori critiche ai pluralisti vertono sul fatto che tutti questi studi
non hanno la capacità di essere generalizzabili, perché potrebbero riguar-
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dare soltanto dei casi atipici, cioè appunto delle piccole città, non estendibi-
li nemmeno ai governi locali degli USA, e tantomeno a livello nazionale.
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Che le società siano composte da vari interessi in competizione è evidente,
ma è anche chiaro che coloro che esercitano in potere, così come coloro che
esercitano un’influenza sul potere, sono sempre un’esigua minoranza. È
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vero che non si tratta sempre di un’unica minoranza, ma è anche vero che
di solito la maggioranza della società accetta il sistema politico in cui essa è
se
rappresentata. Insomma, le teorie pluraliste presentano riscontri che, nella
maggior parte dei casi, sono non dimostrabili universalmente, così come
anche, d’altra parte, le prove fornite dalle teorie elitiste. A ben vedere, la
Es
teoria pluralista potrebbe anche essere considerata come una sorta di va-
riante delle teorie delle élite, con la differenza che viene prospettata una
situazione di varie élite in competizione fra loro invece del dominio di una
singola élite.
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ghilterra, l’Europa del XVIII sec., definita come «l’età dell’assolutismo»,
o il periodo contemporaneo fra la prima e la seconda guerra mondiale, noto
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come «l’epoca delle dittature».
Nella storia del pensiero, già Platone concepiva un Governo da parte di
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re-filosofi, e Aristotele ci dà la definizione di tirannide, Hobbes concepisce
il potere assoluto di un Leviatano, Marx teorizza la dittatura del proletariato
in vista di una realizzazione umana che avrebbe il suo compimento in una
società comunista senza classi migliore di quella che l’hanno preceduta. Per
i
definire più esattamente la nozione di totalitarismo, si può dire che essa si
inserisce nel concetto di assolutismo, ma portandolo alle sue estreme con-
br
seguenze, in quanto un regime totalitario sottopone a controllo assoluto l’in-
tera società; mentre invece l’onnipervasività dell’obbedienza imposta della
tirannide, dell’assolutismo e della dittatura possono essere soltanto relative,
li
e, soprattutto, non implicano necessariamente, cosa che invece caratterizza
il totalitarismo, l’unione dell’obbedienza sociale con qualcosa che si può
se
definire come fede. Esistono allora due impostazioni nella definizione di
totalitarismo.
1) Un’impostazione di tipo fenomenologica, proposta da Carl J. Friedri-
Es
«Il totalitarismo è un sistema in cui gli strumenti tecnologicamente avanzati del potere
politico sono gestiti senza restrizioni dalla leadership centralizzata di un movimento di
élite allo scopo di attuare una totale rivoluzione sociale, ivi incluso il condizionamento
op
dell’uomo sulla base di certe assunzioni ideologiche arbitrarie proclamate dalla leadership,
in un’atmosfera di unanimità coattiva dell’intera popolazione (1967)».
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Teorie sulla distribuzione del potere nella società 53
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Secondo questi autori, dunque, ciò che definisce il totalitarismo non è
solo il grado maggiore in cui la società viene penetrata e controllata dal
p.
potere politico, ma è anche la volontà di trasformare, attraverso tale
controllo e penetrazione, la società al fine di uniformarla con l’idealiz-
S.
zazione che si esprime nell’ideologia.
2) Un’impostazione cosiddetta «essenzialista», così definita in quanto mira
a definire le «essenze», ovvero gli attributi che spiegano le caratteristi-
che di un regime totalitario. Così, secondo Hannah Arendt l’essenza
i
del totalitarismo è il terrore (1951), mentre secondo Jacob L. Talmon
br
è l’assunzione di un’esclusiva verità in politica. È da ricordare anche la
definizione di Harry Eckstein e Davis Apter, secondo i quali il totalita-
rismo si caratterizza per il venir meno della distinzione tra Stato e grup-
li
pi sociali, così come tra Stato e personalità individuale. Insomma, si può
dire che ciò che contraddistingue il totalitarismo consiste in generale in
se
un tipo di organizzazione del sistema sociale che implica il controllo
politico in tutti gli aspetti della vita pubblica e privata degli individui.
A) Arendt, Talmon e Adorno
Es
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Jacob L. Talmon collega (1952) addirittura il totalitarismo alle idee
comparse nel XVIII sec., al concetto rousseiano di volontà generale, e al
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giacobinismo nella Francia della Rivoluzione. Talmon propone così un’in-
terpretazione prevalentemente ideologica del fenomeno: il totalitarismo può
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assumere forme ideologiche di destra (l’Italia fascista, la Germania nazi-
sta), come anche di sinistra (il comunismo dell’URSS, i regimi dell’Europa
dell’est, la Repubblica Popolare cinese ecc.). Per quanto riguarda la sinistra
totalitaria, Talmon la definisce come totalitarismo democratico, laddove
i
cioè i gruppi dirigenti presumono di interpretare e di realizzare la reale vo-
lontà democratica del popolo, come avviene per es. nella dottrina leninista
br
del centralismo democratico, che garantisce una discussione democratica
all’interno del Partito comunista, ma lo delega come guida esclusiva.
Vi è poi anche una interpretazione di tipo psicologico del totalitarismo e
li
delle sue origini; esso viene spiegato cioè in base alle tendenze psicologiche
particolari di alcuni individui (come l’intolleranza, l’aggressività, la predi-
se
sposizione alla sottomissione all’autorità ecc.), i quali, organizzati in gruppi
particolarmente attivi e disciplinati, si impadroniscono del potere. A questo
proposito, è da ricordare l’interpretazione di T.W. Adorno in La personali-
Es
tà autoritaria (1950). Qui si cerca di misurare proprio gli aspetti della per-
sonalità che portano a tendenze inclini all’instaurazione e all’accettazione
di contesti politico-sociali totalitari: Adorno elabora così, in questo senso,
una serie di scale, tra cui la più celebre e ricordata è la scala F, quella sul
fascismo.
©
Tutte queste ricerche e analisi sono databili tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, nel
contesto immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, e si concentrano quin-
yr
di maggiormente sul totalitarismo di tipo fascista, e in particolare sul fenomeno del nazi-
smo in Germania, sulla personalità di Hitler ecc., mentre ancora non si ha una conoscenza
adeguata sulle caratteristiche più negative dello stalinismo in URSS; queste sono, ad esem-
op
pio, le critiche principali rivolte ad Adorno. Ora, sebbene anche la Arendt concentri mag-
giormente l’attenzione sul totalitarismo nazista in Germania più che su quello dell’URSS,
pur non ignorandolo, Talmon in realtà prende in considerazione quasi esclusivamente quel-
lo dei regimi comunisti. Si può dire, in conclusione che si tratta di teorie le quali, prese
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Teorie sulla distribuzione del potere nella società 55
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singolarmente, si mostrano necessariamente parziali e non esaustive come spiegazioni di
un fenomeno che si caratterizza invece per la sua complessità (Michael Rush, 1992). Sia la
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Russia prima della Rivoluzione bolscevica che la Germania di Weimar presentavano in
realtà una società in cui i disagi e le incertezze degli individui trovarono delle risposte in
qualche modo adeguate nell’avvento del regime sovietico in Russia e poi del nazismo in
S.
Germania, e dunque, dal punto di vista della considerazione storica, risulta addirittura ov-
vio che le masse fossero psicologicamente predisposte e adattabili all’instaurazione di re-
gimi totalitari. Insomma, i fattori di cui tener conto in eventi storici così importanti sono
molti, comprese quelle circostanze particolari in cui tali eventi si sono verificati.
i
B) Cenni storici
br
Occorre allora, proprio anche per contestualizzare la nascita delle forme
storiche più importanti del totalitarismo, ricostruire molto brevemente il
contesto in cui i bolscevichi di Lenin hanno preso il potere in Russia nel
li
1917, nonché la successiva ascesa al potere di Hitler e dei nazisti in Germa-
nia.
se
— Nel febbraio del 1917 viene deposto lo zar in Russia, e i bolscevichi
entrano nel Governo provvisorio di Kerenskij. Il ritorno di Lenin dalla
Germania cambia radicalmente questa linea: l’obiettivo diviene la presa
Es
il primo partito del Reichstag, pur calando a 196 seggi, anche per via
dell’estrema frammentazione partitica del Reichstag. Le difficoltà a for-
mare un Governo portano poi, nel gennaio 1933, alla chiamata all’inca-
ig
tedesca, e infine di indire nuove elezioni nel marzo dello stesso anno,
quando il partito nazista ottenne 288 seggi (il 44 per cento), un risultato
op
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Appare dunque cruciale, ai fini di tracciare delle linee interpretative ge-
nerali sull’origine dei totalitarismi, quella che è la personalità, e soprattutto
p.
il ruolo del leader, ma anche l’uso che viene fatto del potere una volta che è
stato conquistato. In entrambi i casi, infatti, il potere viene usato quasi im-
S.
mediatamente per instaurare un regime totalitario, collocando uomini di
fiducia nei posti chiave per il controllo dell’ordine pubblico, e dunque attra-
verso l’uso sistematico del terrore: gli oppositori vengono eliminati, i media
controllati strettamente, e l’ideologia viene integralmente diffusa nella so-
i
cietà.
br
— I Paesi dell’Europa dell’Est che cadono sotto l’egemonia e il controllo
politico e militare dell’Unione Sovietica presentano una dinamica più
o meno omogenea nel processo di instaurazione dei regimi totalitari:
li
una volta instaurati, tali regimi agiscono rapidamente per consolidarsi e
per garantirsi un’invulnerabilità dall’interno con l’uso del terrore. Si
se
tratta di regimi imposti di fatto dall’URSS, e dipendenti dall’appoggio
sovietico. Gli eventi del 1989 mostrano infatti che una volta che l’Unio-
ne Sovietica arriva al suo punto di crisi, tali regimi crollano uno dopo
l’altro in un processo a catena.
Es
Cinese, tutti i regimi comunisti dell’Europa dell’Est, e poi la Corea del Nord,
Cuba, il Vietnam ecc.
C) Il totalitarismo come idealtipo
ig
— un’unica ideologia, pervasiva in tutti gli aspetti della vita politica, so-
ciale e culturale; le arti, la storia, devono riflettere l’ideologia, e rivelare
quella verità, persino lo sport funge da icona ideologica. In breve, tutte
op
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— le figure dei leader dominanti, ovvero il dominio di un singolo indivi-
duo sullo Stato e la società. Gli esempi sono molti: da Stalin in URSS,
p.
Hitler in Germania, Mussolini in Italia, Mao per quanto riguarda la Re-
pubblica Popolare Cinese, a Fidel Castro a Cuba, Ho Chi-minh in Viet-
S.
nam, Tito in Yugoslavia, Kim Il-sung in Corea del Nord. La storia poi ci
mostra come il potere assoluto dei leader dominanti sia più solido nella
fase originaria dell’instaurazione del totalitarismo e del suo consolida-
mento, rispetto alla fase successiva: a parte il fascismo e il nazismo —
i
regimi dipendenti dai propri leader al punto da far sollevare il dubbio se
fossero riusciti a sopravvivere a un’eventuale successione, qualora non
br
fossero stati sconfitti militarmente —, si può riscontrare come i succes-
sori di Stalin in URSS, di Mao in Cina, di Hoxha in Albania, di Ho Chi-
min in Vietnam, hanno avuto ancora un potere stabile, grazie alla strut-
li
tura dei partiti comunisti, ma non altrettanto consolidato come quello
dei leader precedenti;
se
— l’instaurazione e il mantenimento di un clima di terrore, ovvero la pre-
senza costante di strutture di informatori nell’intera società, l’utilizza-
zione diffusa dello strumento della delazione, insomma la presenza con-
Es
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A
momento che il termine totalitario designa uno stato di cose assoluto. Dun-
que tale categoria idealtipica presenta in realtà delle difficoltà nella sua ap-
p.
plicazione nei casi particolari, perché appunto, a stretto rigore, non si è data
nessuna società totalitaria in senso assoluto, ma questo concetto ha invece
S.
un suo valore per quanto riguarda la comparazione e la scala dei casi parti-
colari dello stesso genere: ci consente, ad es., di stabilire che la Germania
nazista era una società in cui il totalitarismo era più radicato e consolidato
rispetto a quello dell’Italia fascista, così come si può riscontrare che l’Unio-
i
ne Sovietica di Stalin era senz’altro più totalitaria di quella post-staliniana.
Per quanto riguarda l’aspetto della socializzazione politica, anche qui
br
l’idealtipo del totalitarismo presenta qualche difficoltà, dal momento che la
socializzazione, in una società totalitaria, dovrebbe svolgersi completamen-
te e con successo, mentre invece l’esperienza, ad es., dei regimi comunisti
li
dell’Est dimostra come ciò può verificarsi solo in apparenza, vista la veloci-
tà con cui tali regimi sono caduti.
se
Dal punto di vista dei valori, infine, il totalitarismo si caratterizza per
l’imposizione di un gruppo di valori ben definiti che non ammettono l’espres-
sione di valori alternativi, e dunque indica un preciso rapporto che lega l’ideo-
Es
«Sistemi a pluralismo politico limitato, la cui classe politica non rende conto del proprio
ig
operato, che non sono basati su una ideologia guida articolata, ma sono caratterizzati da
mentalità specifiche, dove non esiste una mobilitazione politica capillare e su vasta scala,
salvo in alcuni momenti del loro sviluppo, e in cui un leader, o a volte un piccolo gruppo,
yr
esercita il potere entro limiti mal definiti sul piano formale, ma in effetti piuttosto preve-
dibili (1991)».
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— assenza di mobilitazione guidata;
— comando del leader o di un gruppo ristretto;
p.
— indeterminatezza dei limiti del potere.
In realtà il limite tra regime autoritario e regime totalitario è abbastanza
S.
sfumato e spesso di difficile individuazione: elementi di autoritarismo mi-
schiati a un contesto totalitario erano ad es. presenti nell’Italia fascista, come
la sopravvivenza della Chiesa e della corona. Si può dire anche che non è
spesso così facile distinguere tra ideologia e mentalità specifica, o anche
i
stabilire una distinzione tra i gradi della mobilitazione sociale (Fisichella,
br
1988-2002; Pasquino, 2004). Vediamo allora che Linz opera una distinzio-
ne fra sei differenti tipi di autoritarismo:
— regimi autoritari di tipo burocratico-militare, come ad esempio quelli
li
caratterizzanti molti Paesi dell’America Latina nel recente passato;
— regimi autoritari a statalismo organico: rispetto al primo tipo, si carat-
se
terizzano per un maggior controllo sulla partecipazione sociale e in ge-
nerale sulla mobilitazione della società, attraverso la presenza di struttu-
re organiche, organizzazioni corporative ecc.;
— regimi autoritari di mobilitazione, caratterizzati per la fase successiva
Es
rimangono in piedi certe strutture di tipo totalitario anche nella fase suc-
cessiva alla caduta delle vecchie oligarchie totalitarie di potere: ad es. i
Paesi ex-comunisti dell’Europa dell’Est, la Russia post-comunista ecc.
ig
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A
democratici, oggetto del prossimo paragrafo, sono in maggioranza rispetto
a quelli caratterizzati da totalitarismo o autoritarismo (Huntington, 1993).
p.
4. REGIMI DEMOCRATICI
S.
Democrazia è un termine di non facile definizione, caratterizzabile so-
stanzialmente soltanto rispetto al suo termine antinomico, cioè la non de-
mocrazia. È dunque difficile tracciarne i confini precisi, considerando
anche il fatto che quasi tutti i regimi contemporanei si sono proclamati come
i
democratici, anche qualora non lo fossero di fatto. Si potrebbe dunque par-
br
tire dalla definizione data da Abramo Lincoln del significato del termine
democrazia: «Governo del popolo, dal popolo, per il popolo». Anche que-
sta definizione, però, rimane generica e presenta dei problemi: nelle società
li
democratiche di oggi, infatti, solo una minoranza di cittadini è coinvolta
regolarmente in attività politiche di Governo, e dunque il «Governo del po-
se
polo» si caratterizza di solito più per un Governo rappresentativo del popo-
lo, col rischio che le reali esigenze del popolo siano pur sempre soltanto
interpretate dalla rappresentanza politica.
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A) Cenni storici
Le origini storiche della democrazia vanno ricercate nell’antica Grecia,
ovvero nelle città-stato del periodo classico, la polis, ma bisogna ricordare
che quelle esperienze di democrazia diretta riguardavano in realtà soltanto
©
regime democratico, come governo di molti, non era visto con particolare
favore: se Platone associava la democrazia alla demagogia, una sorta di
precondizione alla possibilità della tirannide, anche Aristotele la conside-
ig
rava quale una specie di perversione politica, pur introducendo degli ele-
menti che hanno alcuni tratti in comune con le moderne idee democratiche,
come per esempio la sua concezione di Governo responsabile della pòlis. È
yr
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A
Persino al tempo della Rivoluzione americana tale concezione è stata man-
tenuta: i padri fondatori degli Stati Uniti d’America associavano la garanzia
p.
dei diritti dei cittadini liberi (libertà di parola, di associazione, di religione,
dall’arresto arbitrario, così come la libertà di voto) all’assunzione di re-
S.
sponsabilità. Alle origini della storia americana sono bensì riscontrabili for-
me interessanti di partecipazione democratica diretta dei membri delle pri-
me comunità, come ad esempio i caucus, ovvero riunioni cittadine con po-
teri decisionali ed elettivi, ma mai esse hanno assunto il carattere della par-
i
tecipazione universale e del voto. La democrazia effettiva, ovvero il diritto
di voto esteso a tutti (anche alle donne, e a tutti non sulla base del censo) è
br
dunque senz’altro una conquista recente nella storia politica occidentale.
B) Consenso ed elezioni
li
Il tratto distintivo della democrazia consiste nel consenso dei governati,
nell’espressione della volontà popolare, e dunque nel controllo popolare
se
da parte dei governati. Nella storia del pensiero moderno tale idea del con-
trollo popolare e di un governo eletto è stata introdotta dai teorici contrat-
tualisti come Locke, mentre Rousseau ha espresso una concezione di de-
Es
crazia è considerabile, data la varietà delle sue forme, soltanto in modo rela-
tivo, vale a dire comparando quelli che possono essere pensati come i diffe-
renti livelli di democrazia. Nei regimi democratici il consenso popolare si
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realizza attraverso le elezioni, ma tale metodo apre a sua volta una comples-
sità di questioni pari almeno alla differenziazione delle possibili forme di
tali regimi: ad esempio, se il diritto di voto sia esteso a tutti o meno, se le
op
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A
sistema elettorale, se esse seguano il criterio della maggioranza relativa o di
quella assoluta ecc.
p.
La democrazia rappresentativa contiene poi al suo interno la possibilità
di meccanismi di controllo diretto o indiretto, di modo che la realtà delle
S.
democrazie moderne arriva di fatto a eccedere in complessità la semplice
definizione della democrazia quale «Governo della maggioranza». Si tratta
di:
— meccanismi diretti: l’elettorato partecipa direttamente nelle decisioni
i
particolari, quali la scelta dei leader e la definizione dei programmi po-
br
litici. Gli strumenti di tale modalità sono, ad es., per quanto riguarda la
scelta dei leader, la revoca, ovvero la possibilità che parti dell’elettorato
hanno di confermare e rieleggere i rappresentanti eletti prima che sia
li
compiuta la scadenza regolare dei termini elettorali, e per quanto riguar-
da le decisioni e i problemi politici particolari, lo strumento del referen-
se
dum. In molti Stati americani sono presenti entrambi questi strumenti
diretti, così come in molti Stati europei;
— meccanismi indiretti: consenso e controllo vengono esercitati attraver-
so delle strutture che costituiscono delle mediazioni tra elettorato e go-
Es
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A
americana, poi, sancisce una serie complessa di pesi e contrappesi per rego-
lare il funzionamento di questa separazione dei poteri, quali, ad es., l’appro-
p.
vazione delle nomine presidenziali da parte del senato, o il diritto di veto
presidenziale sulle nomine parlamentari.
S.
Il problema principale delle democrazie moderne come governo dei molti
è quindi, paradossalmente, quello di limitare il potere della maggioranza,
per impedire la possibilità di abusi da parte di una maggioranza permanen-
te, stabilendo precisi confini e contrappesi al potere maggioritario, vale a
i
dire quello di evitare la possibilità di ciò che pensatori quali come Toque-
ville e J.S. Mill hanno definito come «dittatura della maggioranza» (To-
br
queville, 1835-1840), intendendo con questa definizione il rischio che una
maggioranza incolta possa prendere il sopravvento su una minoranza illu-
minata e responsabile. Si tratta di una questione cruciale nel mondo con-
li
temporaneo e nel dibattito attuale sulla democrazia; si pensi ai problemi che
sorgono da una situazione che vede il potere nelle mani di una maggioranza
se
stabile su base etnica o religiosa, con la possibilità quindi di discriminazioni
nei confronti delle minoranze (ad es. la situazione dell’Irlanda del Nord fra
il 1920 e il 1972, dove la maggioranza protestante-unionista ha effettiva-
Es
mente compiuto una serie di abusi e discriminazioni nei confronti della mi-
noranza cattolica-nazionalista).
Nella definizione di regime democratico è dunque centrale la garanzia
del rispetto dei diritti delle minoranze e della tolleranza delle loro opinio-
ni, ovvero il problema dell’equilibrio tra poteri della maggioranza e diritti
©
questione resa ancor più complessa dalla presenza, nelle società contempo-
ranee, della cosiddetta opinione pubblica, cioè dalla possibilità di influen-
zare estensivamente, attraverso i mezzi d’informazione, l’opinione di vasti
ig
a quelle che sono le condizioni materiali e reali degli individui: ciò che
infatti caratterizza molte società democratiche contemporanee è proprio
questa contraddizione tra l’eguaglianza formale dei diritti dei cittadini e la
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64 Capitolo Terzo
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A
diseguaglianza sociale ed economica. È ovvio, infatti, che agli individui
preoccupati del soddisfacimento dei propri bisogni e alla propria sopravvi-
p.
venza non bastano i diritti garantiti dalla democrazia sul piano formale.
A questo proposito, molti teorici hanno posto l’attenzione sull’esistenza
S.
di un nesso causa-effetto che lega lo sviluppo economico alla democrazia.
In particolare Lipser (1960) afferma l’esistenza di questa relazione causale,
cercando di dimostrare che le società che maggiormente hanno soddisfatto
i bisogni materiali degli individui che ne fanno parte hanno anche sviluppa-
i
to sistemi politici di tipo democratico, per quanto riguarda soprattutto i red-
diti, l’industrializzazione, l’urbanizzazione e l’istruzione. Da parte sua,
br
Rokkan sostiene che la stabilità politica dei regimi democratici deve fon-
darsi, prima ancora che sull’equità economica, sulla garanzia di quelle che
chiama istanze non negoziabili: la lingua, la religione e la cultura. C’è da
li
dire, però, che il fatto che la stabilità politica sia il fattore più importante per
lo sviluppo di sistemi democratici è tutto da dimostrare: secondo Rush (1992)
se
la stabilità politica si configura come una condizione necessaria ma non
sufficiente per lo sviluppo della democrazia, in quanto la sua diffusione
eccede di fatto i regimi di tipo democratico, sia dal punto di vista storico che
Es
In conclusione possiamo dire che non è in realtà determinabile con certezza che i meccani-
ht
smi democratici siano i più funzionali e i più appropriati, né per quanto riguarda la stabilità
del sistema politico, né per quanto riguarda lo sviluppo economico-sociale e la soddisfa-
zione materiale dei suoi membri. A ben vedere, a parte gli elementi fondamentali indivi-
ig
duati per definire che cos’è una democrazia (consenso, volontà popolare, elezioni, divisio-
ne dei poteri, tolleranza delle opinioni), essa va considerata, più che un fatto meramente
oggettivo, un sistema di valori e atteggiamenti condivisi (Rush), di modo che caratteriz-
zare compiutamente la categoria di democrazia è un’impresa difficile, in quanto non posso-
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