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Un nuovo patto tra giovani e adulti alla ricerca del senso delle cose

Pubblicazione: 23.07.2020 - Onorato Grassi


La pandemia ha riproposto con una urgenza inedita e in modo completamente nuovo la
domanda fondamentale per chi fa scuola: perché educare?

Pubblichiamo le conclusioni dell’autore al convegno “Il rischio educativo nella scuola


dell’emergenza”, organizzato dall’Associazione culturale Il Rischio Educativo. 

Ora che stiamo tornando ad un’apparente normalità, non possiamo dimenticare che
il periodo vissuto negli ultimi mesi è stato qualcosa di eccezionale e sconvolgente,
uno dei più gravi e gravidi di conseguenze tra quelli vissuti dalle ultime generazioni.
La scrittrice polacca Olga Tokarczuk, premio Nobel per la letteratura per l’anno
2018, ha invitato, nei primi giorni della pandemia, a prepararsi “alla grande
battaglia per una nuova realtà, che non siamo ancora in grado di immaginare”,
descrivendo il radicale cambiamento che ha investito l’intero pianeta, e in
particolare il mondo occidentale, con queste parole: “Davanti ai nostri occhi si
dissolve come nebbia al sole il paradigma della civiltà che ci ha formato negli ultimi
duecento anni: che siamo i signori del Creato, possiamo tutto e il mondo appartiene
a noi. Stanno arrivando tempi nuovi”.
Altri hanno parlato di “delirio di onnipotenza” dell’uomo contemporaneo, messo in
crisi dal virus, di una sconcertante  riscoperta della fragilità umana, della
vulnerabilità dell’essere umano, resa evidente dalla “morte”, improvvisamente
divenuta familiare, tanto da generare paura e angoscia. Di tutto ciò ci si potrebbe
dimenticare, nell’illusorio ritorno a una apparente normalità, ma sarebbe una grave
mancanza, perché ci si priverebbe dell’insegnamento prezioso che la situazione
drammatica che abbiamo vissuto – e che continua tuttora nel mondo, con un
crescendo continuo, e che potrebbe riesplodere di nuovo anche in Italia – ha dato,
per una più realistica comprensione di sé e della vita. Delle tante cose successe e
delle tante esperienze, interiori ed esteriori, vissute in questo periodo sarà perciò
buona cosa conservare memoria e forse solo col tempo si riuscirà a comprendere
pienamente ciò che è successo in questi mesi.
Ma almeno due aspetti è già importante richiamare, per la loro evidenza.
Anzitutto l’iniziativa personale, nata da una consistenza personale che non ha
potuto essere nascosta ma è diventata fattiva e propositiva. “Le cose che abbiamo
scelto per la nostra vita”– come è stato detto in uno degli interventi che mi hanno
preceduto – e non solo un giusto senso del dovere, hanno mosso a fare tutto quello
che, in questi mesi, insegnanti, presidi, direttori hanno fatto, con un alto senso di
responsabilità nei confronti degli altri, soprattutto degli alunni con i quali erano
coinvolti.
In secondo luogo, l’agire insieme, dapprima quasi rincorrendo gli altri, alla ricerca
di risposte ai nuovi interrogativi posti dalla situazione, poi qualificando sempre di
più un cammino comune da compiere, e da compiere insieme. L’assidua
partecipazione ai momenti di lavoro comune di presidi, direttori e insegnanti è stata

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l’espressione di un metodo di impegno con la realtà, il cui valore non può essere
negato.
In un suo recente videomessaggio a un gruppo di educatori papa Francesco ha detto
che le crisi, se affrontate da soli, disorientano. Se invece le crisi sono affrontate
insieme si possono trasformare in opportunità. Per come voi avete affrontato la
pandemia, quella pandemia che ha segnato ciascuno di noi e ciascuno dei vostri
alunni, questa crisi non è stata subita ma è stata trasformata in una nuova
opportunità. Il fulcro di questa opportunità è riassunto in una frase che
frequentemente è stata ripetuta in questo periodo: “dobbiamo abbandonare ciò che
è superfluo e tenere ciò che è essenziale”. Una frase che, tra l’altro, esprime un
bisogno di autenticità e solidità, di maggior padronanza delle cose che vale la pena
tenere e delle cose che invece è meglio abbandonare.
Certo, non è facile coltivare solo ciò che è essenziale e liberarsi del superfluo, anche
perché è alquanto difficile capire che cosa sia essenziale e che cosa sia superfluo
nella vita, soprattutto nell’educazione; a volte la ricerca dell’essenziale può portare a
sacrificare ciò che sembra superfluo, ma che invece proprio superfluo non è,
rivelandosi, in altre circostanze, importante. È il difficile discernimento che ogni
educatore e ogni insegnante è costantemente chiamato a fare. Ma indubbiamente la
distinzione tra essenziale e superfluo è un buon criterio normativo, che, se
correttamente utilizzato, può dare buoni frutti.
Con linee e prospettive  non intendo ora delineare i passi e le scelte che le scuole
dovranno compiere, passi di cui ogni scuola è l’unica e assoluta responsabile.
Piuttosto vorrei raccogliere in tre principali punti la strada del lavoro finora
compiuto e testimoniato negli interventi che mi hanno preceduto e del lavoro che
sarà da compiere il prossimo anno. La questione fondamentale non è solo la
corretta comprensione del passato, ma il prepararsi e il predisporsi ad affrontare il
prossimo anno, l’intero prossimo anno, convinti che la strada da percorrere si
chiarirà col tempo, giorno dopo giorno, e che oggi se ne può indicare solo la
direzione e i contorni.
1. Il contenuto dell’educazione
In questi mesi, e anche negli interventi di questo convegno, è stata spesso sollevata
la domanda sul valore della scuola: “che cosa significa far scuola, che cos’è una
scuola, perché insegniamo, perché si educa?”. Il contenuto essenziale
dell’educazione non è questione puramente teorica, ma si pone al cuore di quella
che – uso l’espressione volutamente – è una rinnovata alleanza educativa. Il tema
dell’alleanza educativa, o del patto educativo,  è stato reso evidente e urgente dalla
pandemia e dall’isolamento sociale che ne è conseguito e che ha profondamente
mutato la vita scolastica. Alleanza educativa è un “rapporto fiduciario” tra più
persone, ma è anche l’identificazione del soggetto che compie l’azione educativa.
L’adulto, se non vuole cadere in forme di superficiale personalismo, è chi introduce
a un’esperienza di cui egli è parte, a un insieme di rapporti che egli vive e costruisce,
e, allo stesso tempo, stringe un patto con coloro che educa, per compiere un
percorso insieme. L’alleanza tra insegnanti, tra insegnanti e famiglie, tra insegnanti
e alunni, tra scuole e contesto sociale e civile, sono alcuni dei volti che tale “alleanza
educativa” può assumere e che, in questo periodo, sono stati messi alla prova,
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riscoperti, stimati e valorizzati. Negli accenni di collaborazione tra scuola e famiglia,
nei racconti delle iniziative di maestre della scuola dell’infanzia e primaria, si
possono scorgere i tratti più belli e umani di questa alleanza.
L’alleanza tra coloro che si dedicano all’educazione costituisce la condizione
essenziale della formazione delle nuove generazioni e della stessa scuola, ad ogni
suo livello, e richiede il personale coinvolgimento di tutti coloro che sono impegnati,
a vario titolo, nella comunicazione educativa.
Ora qual è il cuore e il motivo principale di questa alleanza? Non è la strategia o il
progetto per la realizzazione di un’immagine d’uomo, per la “creazione dell’uomo
nuovo”, come molte pedagogie del 900 hanno cercato di fare. Ho trovato in una
formulazione di papa Francesco, utilizzata nel già citato videomessaggio, la felice
espressione di questo motivo essenziale: “Educare è ricercare il senso delle cose. È
insegnare a ricercare il senso delle cose”. Siamo soliti dire che la giustificazione di
una scuola paritaria, non statale, sta nel progetto educativo, nel metodo che essa
segue per l’istruzione dei giovani, nelle finalità cui tende. Ora, questo progetto,
queste finalità, questo metodo, si identificano nella ricerca del senso delle cose e nel
modo in cui tale ricerca viene proposta e attuata. Ricordiamo che il “senso” non è
qualcosa che sta al di là della realtà ma è ciò che mette profondamente dentro la
realtà, come Luigi Giussani ha scritto ne Il rischio educativo  (“La realtà, non è mai
veramente affermata, se non lo è anche l’esistenza del suo significato”), ed è la
costante dell’intera azione educativa. Un’educazione tesa a far vivere il rapporto con
il reale è un insegnamento a ricercare il senso delle cose, di ogni cosa, da quelle
quotidiane a quelle eccezionali, nella convinzione che, per essere introdotti nella
realtà, occorre comprenderne il senso. È questa l’infaticabile opera della ragione e
l’incessante spinta dell’intelligenza, che la scuola deve favorire e che, per quanto
può, deve saper educare.
Un filosofo tedesco, Robert Spaemann, parla di una duplice polarità da cui
scaturisce il procedimento razionale: “l’uomo ha esigenza di essere libero e ha
l’esigenza di trovare dimora e sicurezza”. Da questa duplice esigenza, l’essere
umano è mosso a cercare il senso della realtà, sia come ricerca del senso della sua
libertà – non essendo necessitato, il suo agire dipende dalle sue scelte, le quali non
sono imposte, ma volute, e quindi devono essere motivate o giustificate – sia come
ricerca di sicurezza, di un’esistenza non sottoposta a pericoli, di una dimora ove
sopravvivere e vivere – di nuovo, l’esperienza della pandemia: l’insicurezza, l’essere
in pericolo, e la ricerca di soluzioni (di qui il frenetico ricorso agli “esperti”).
L’essere umano ricerca la sua dimora, la sua protezione e la sua salvaguardia; e
cerca anche di capire quale sia il suo posto nel mondo, il senso di quello che fa e del
suo essere libero.
Se da questa duplice polarità scaturisce il bisogno di conoscenza, questa si attua in
un altrettanto duplice modo, a seconda che il suo principale obiettivo sia il “come”
oppure il “che cosa” o il “perché”. Nel primo caso si parla di spiegazione, ossia della
conoscenza di come avvengono le cose: è una forma utile e funzionale di
conoscenza, che permette di capire come un fenomeno avviene o un dato elemento
funziona, così che lo si possa ripetere o utilizzare al momento opportuno. Nel
secondo caso si parla di comprensione, che è una sorta di presa dall’interno della
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realtà, conoscerla non solo per come si comporta e si svolge, ma per quel che è e per
il senso che ha, non fermandosi alla misurazione esteriore, ma entrando, per così
dire, dentro la cosa, secondo il metodo dell’esperienza, spesso ricordato negli incontri
dell’Associazione “Il rischio educativo”.
In entrambi i casi, ma soprattutto nel secondo, la ricerca del senso delle cose mette
insieme, quali compagni di una medesima opera, giovani e adulti, entrambi
impegnati a conoscere la realtà, e quindi ad affinare i mezzi per poterlo fare, e a
comprenderla nella sua ampiezza e varietà, senza ridurla o censurarla. Allora l’ansia
dei risultati e delle performances, cui anche le scuole si sono sottomesse, può lasciare
il posto alla dinamica autentica dell’azione educativa, che è ricerca pacata e
paziente, capace di dedizione e di ascolto – come i momenti di “silenzio” di questi
mesi dovrebbero avere insegnato –, e anche di costruzione, di invenzione, fino alla
creazione culturale.
Ricerca del senso, ascolto, costruzione comune, creazione di una cultura sono nomi
diversi della stessa azione e vita che fanno di una scuola quello che deve essere. Alla
domanda che cos’è una scuola possiamo con molta umiltà e discrezione dare una
risposta sulla base di quelle cose che abbiamo vissuto, che abbiamo imparato e
qualificare quindi anche una scuola paritaria, non solo per il miglior servizio che
essa offre, ma per l’idea educativa e formativa che la sorregge.

Presenza, relazione, maestro: “istruzioni” per formare uomini liberi


Pubblicazione: 31.07.2020 

2. Insegnamento e didattica a distanza


Il fenomeno nuovo che il mondo della scuola e dell’università hanno dovuto
affrontare, quale conseguenza della pandemia e dell’isolamento sociale, è stata la
didattica a distanza: insegnare non in un luogo fisico ma attraverso le Nuove
tecnologie della comunicazione (Ict). Ciò che da molte parti – agenzie, centri di
ricerca, grandi produttori di tecnologia informatica – si era cercato di fare negli
ultimi vent’anni, senza grandi risultati, in poche settimane è stato realizzato su vasta
scala e con una partecipazione numericamente rilevante. Senza grande
preparazione, gli insegnanti e gli studenti della scuola italiana si sono buttati,
bruciando i tempi, nella didattica a distanza, sia nella forma diretta della lezione
fatta dal vivo sia nella forma di lezioni registrate o di video conferenze.
In ogni tipo di scuola, dalle superiori alla scuola dell’infanzia, sono stati approntati
percorsi di formazione a distanza, talvolta con risultati non disprezzabili, e ciascuno
ha potuto constatare i vantaggi e i limiti di questa nuova forma di didattica. In
alcuni casi si è anche provveduto a fornire gli strumenti essenziali e le nozioni di
base della comunicazione online, aiutando molti insegnanti in un’attività che, da soli,
non sarebbero stati probabilmente in grado di svolgere.
Sin dall’inizio abbiamo preso le distanze da due principali posizioni contrapposte:
quella “attendista” di coloro che invitavano ad aspettare che la tempesta passasse,
per tornare alle modalità e agli strumenti consueti – e, più in generale, a un tipo di
scuola “tradizionale” – e quella “innovativa” di coloro che, cogliendo l’occasione,
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proponevano un radicale passaggio alla scuola digitale, con una rivoluzione dei
metodi di insegnamento, dei contenuti di insegnamento e dello stesso ambiente
scolastico (suddivisione delle classi, strutturazione delle aule, disposizione delle
postazioni). La nostra posizione è stata quella di valutare criticamente la possibilità
dell’insegnamento a distanza, richiesto dalle circostanze e divenuto necessario,
tenendo però fermi alcuni principi educativi e formativi, riassunti nella formula
“educare insegnando”, vale a dire: il valore educativo delle materie scolastiche e
dell’istruzione, da una parte, e la necessità della verifica personale dei contenuti
dell’insegnamento da parte di chi apprende.
Questi due principi sono stati sempre tenuti presente nell’attivazione dei vari
percorsi di didattica a distanza, con la disponibilità ad acquisire nuovi elementi per
una valutazione positiva di nuove forme di insegnamento e con il proposito di
sottoporre ad analisi critica ogni innovazione che fosse necessario o anche
auspicabile introdurre nell’insegnamento scolastico.
Dopo questi mesi possiamo riaffermare che l’insegnamento in presenza rimane il
fulcro dell’insegnamento scolastico: esso costituisce la modalità e la condizione
normale dell’attività scolastica e pertanto deve essere realizzato, appena le
condizioni lo permettano. Ma si è anche imparato che la modalità “in presenza” è
molto più ricca e piena di significati che l’essere insieme in un medesimo luogo e in
un medesimo tempo. Il termine “presenza” suppone una relazione, vale a dire
l’essere presenti a qualcuno, in un rapporto di reciprocità che costruisce la solidità
di un rapporto. Nella scuola questa relazione è molteplice – dal rapporto con i
compagni a quella con l’ambiente fisico e intellettuale, dal rapporto con gli
strumenti dello studio a quello con il contesto civile e cittadino in cui la scuola è
inserita –, ma principalmente è caratterizzata dal rapporto con un maestro.
Senza rinverdire esperienze del passato, anche di qualche secolo fa, si può però
convenire che il cuore della scuola non sono i programmi o le pratiche burocratiche,
di qualsiasi genere, ma è sostanzialmente il rapporto che gli allievi hanno con un
maestro, che decidono di seguire perché convinti che possono da lui imparare ciò
che altrimenti resterebbe ignoto. Una scuola priva di maestri è una scuola vuota e
anonima, dove l’interesse per lo studio facilmente degrada e si perde in pratiche
nozionistiche e puramente mnemoniche. Tant’è che, così come si deve garantire il
diritto di accesso alla scuola a ogni bambino e giovane, altrettanto si dovrebbe
garantire il diritto di “uscita” da una scuola che non insegna più nulla e che annoia
soltanto, ossia il diritto di scegliere la scuola che risponde ai bisogni di formazione e
di conoscenza.
Essere in presenza riporta quindi all’essere in relazione, e principalmente alla
relazione con un maestro. E tale maestro non è “l’insegnante meccanico” del
racconto di Asimov, ma un essere umano in carne e ossa, che, insegnando, comunica
se stesso, stabilisce un rapporto umano, non si accontenta di trasmettere
informazioni, ma coltiva il sapere.
Certo, le relazioni sono di vario tipo, dirette e indirette, attuali o distribuite nel
tempo, come ad esempio documentano gli epistolari di una volta. In tal senso,
anche le nuove tecnologie della comunicazione possono consentire di realizzare una
relazione e rappresentare forme di istruzione che non alterano l’insegnamento, ma
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lo coadiuvano e possono addirittura offrire delle opportunità per realizzarlo meglio,
opportunità che sono da cogliere e valorizzare. Ad esempio consentono di mettere
in contatto una classe o un’intera scuola con centri di ricerca lontani o con studiosi
che in altro modo sarebbe impossibile incontrare e ascoltare. Oppure permettono di
concordare una didattica comune fra scuole lontane, ma in rapporto tra di loro, così
da valorizzare il meglio che ciascuna di esse può offrire – una lezione su un
determinato argomento, un esperimento, uno studio specifico – facendolo diventare
una ricchezza per tutti. Il Progetto Ired-video, che è nato da qualche settimana e
diventerà operativo nel prossimo anno scolastico, si colloca in questa prospettiva:
raccogliere ciò che di buono esiste in ciascuna scuola per condividerlo con altre
scuole, attraverso video lezioni o video conferenze, in una programmazione
didattica concordata.
La scuola in presenza è, dunque, una relazione, nelle varie modalità in cui essa si
può realizzare e sviluppare. E tale relazione, o complesso di relazioni, ha come suo
fulcro la relazione con un maestro. Tuttavia, anche questa relazione, per quanto
importante e fondamentale, non è il termine ultimo né dell’istruzione né
dell’educazione. Nella relazione con un maestro non si impara ciò che egli pensa e
dice, ma ciò che, attraverso ciò che pensa e dice, viene fatto conoscere della realtà. Il
termine ultimo della relazione educativa è sempre la realtà, per quanto il maestro
possa essere geniale e affascinante. Perciò il vero maestro non disdegna, anzi
auspica, di essere superato dai suoi allievi, tende a scomparire, nel tempo, o ad
affiancare l’alunno secondo quella splendida immagine che si trova nel Rischio
educativo, ove, al raggiungimento della maturità, colui che è stato davanti, si pone al
fianco dell’alunno, nel cammino di adulti in cui la vita è affrontata e vissuta
costruttivamente.
È la realtà ciò cui si introduce. Il maestro è occasione per la comprensione della
realtà, per il rapporto con la realtà. Il genio educativo è proprio riconoscere l’essere
umano nella sua natura, cioè che l’essere umano non dipende da chi lo educa ma ha
in sé una natura, cioè criteri, esigenze, capacità che lo possono rendere capaci di un
rapporto costruttivo con se stesso e con le cose; è un elemento da tener presente
nella didattica nuova che si vuole fare. E la didattica nuova non è costruire il
ragazzo ma dar l’occasione perché il ragazzo sviluppi quella capacità che egli
possiede potenzialmente. È appunto la grande idea dei medievali che parlavano
di inventio e di disciplina, cioè della scoperta e dell’insegnamento, come delle due
strade per giungere al sapere, dicendo che la prima è possibile solo per pochissimi,
mentre per la maggior parte la strada è quella dell’insegnamento, e perciò si devono
fare le scuole, per portare tutti a comprendere le cose. Ma questa seconda strada, la
scuola, deve ricalcare il percorso che uno da solo potrebbe fare, se fosse dotato delle
capacità, delle doti e dei mezzi per poterlo fare, in base a quelle evidenze e principii
che a ogni essere umano sono dati, non dall’esterno, ma dalla sua stessa natura.
Che cosa hanno imparato: la crescita
La domanda emersa furtivamente all’inizio del periodo di isolamento è diventata
sempre più insistente, man mano che i giorni passavano: “che cosa impareranno i
nostri ragazzi in questi mesi?” Addirittura, in alcuni momenti, si è chiesto:
“Impareranno qualche cosa?” Ciò ha portato ad avere particolare attenzione verso
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l’obiettivo primario della scuola, che non è esclusivamente il suo buon
funzionamento (efficienza) né la buona condizione e realizzazione dei suoi
insegnanti, ma la crescita degli alunni. Una scuola va bene se coloro che la
frequentano, come studenti, imparano e crescono. Usiamo il termine “crescita” non
come è trattato nelle scienze economiche, ma in senso pedagogico, come
incremento di essere, di personalità, di doti e qualità individuali, fenomeno distinto
dallo sviluppo scolastico, che può essere identificato, ad esempio, con il
raggiungimento di determinati obiettivi o aumento del numero di alunni o attrattiva
sociale.
L’attenzione alla crescita degli alunni è la preoccupazione che una scuola, ed ogni
buon educatore, deve primariamente coltivare ed è anche motivo delle domande
che l’adulto deve continuamente farsi nel rapporto con i giovani: quanto serve loro
quel che viene proposto? Quanto crescono seguendo i nostri insegnamenti? Quanto
potenziano le loro capacità e disposizioni individuali? Sono domande che possono
anche mettere gli adulti con le spalle al muro, ma che sarebbe un errore non tenere
vive, come fonte di confronto e di verifica dell’operare nella scuola.
Il fatto che questa domande siano state frequentemente riproposte in questi mesi è
certamente un buon segno che quel che si sta facendo va nella giusta direzione e che
l’impegno profuso mira all’essenziale, senza perdersi in questioni secondarie.
Non è difficile vedere il risvolto sociale, economico e politico di questa
preoccupazione. Un paese cresce se crescono i suoi membri, non solo se i suoi
membri si conservano al livello dei loro predecessori, o addirittura se regrediscono.
Diversamente dalla crescita economica – per la quale vi sono indici di misurazione
quantitativa –, la crescita umana è difficilmente misurabile, sia per la maggior
complessità sia per l’incidenza di fattori non quantificabili. Tuttavia, non è difficile
prevedere che un prolungato tempo di assenza educativa e formativa potrebbe
produrre effetti catastrofici, pari o persino superiori a quelli che possono derivare
dal blocco della produzione industriale, del lavoro e del commercio. La perdita di
mesi, di un anno o più di scuola, può incidere negativamente su un’intera
generazione, provocando un vuoto culturale, psicologico, umano che, se non venisse
prontamente e fortemente riempito, potrebbe comportare conseguenze gravissime
sul piano dei comportamenti individuali e della vita sociale.
Il tema della crescita è un tema importantissimo, anche politicamente. E quello
degli insegnanti e delle scuole è di un valore inestimabile per l’intera società.
È perciò giusta la domanda: “che cosa hanno imparato i nostri allievi?”, ossia come
sono cresciuti e crescono nella scuola che è loro proposta.
Di qui, alcune considerazioni conclusive.
L’apprendimento non è solo l’assimilazione di nozioni, ma è far propria la
conoscenza della realtà nella sua complessità e varietà di elementi, in una sintesi
personale che si produce nel tempo e attraverso specifiche tappe. Di qui allora una
delle linee è quella di stabilire dei percorsi formativi, non solo coerenti con le
indicazioni nazionali dell’istruzione, ma anche conformi all’intenzionalità educativa
della scuola. Per fare ciò occorre una certa dose di creatività, come quella
dimostrata durante l’emergenza, e di rigore, nel giustificare e rendere controllabili i
cambiamenti che vengono introdotti. Nei confronti degli allievi si dovrà esercitare –
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soprattutto se le condizioni straordinarie createsi con la pandemia dovessero
protrarsi nel tempo – una valutazione di tipo formativo, non solo sommativo, in
modo tale che il percorso proposto sia compiuto con responsabilità e
partecipazione, sia condiviso personalmente e gli eventuali errori o ritardi siano
corretti e colmati in modo consapevole e critico.
Ciò non comporta l’abolizione del voto, che anzi può riacquistare valore come seria
considerazione dell’impegno e del lavoro dell’alunno, soprattutto in una probabile
situazione di didattica mista (in presenza e online) o nell’inaugurabile
proseguimento della didattica a distanza – molti studenti hanno richiesto, durante
l’emergenza, che il loro studio e le loro attività fossero valutate con chiarezza, come
riscontro e prova dell’importanza del loro impegno –; piuttosto significa completare
la valutazione dei risultati con la valutazione dei mezzi, delle capacità e della
correzione che l’allievo deve attuare e impiegare per conseguire gli obiettivi
prefissati.
Una seconda considerazione riguarda il curriculum  scolastico, divenuto di particolare
importanza dopo l’abolizione dei “programmi scolastici” e l’avvento degli obiettivi e
standard formativi. La definizione di un curriculum  è opera non facile, che comporta
l’impiego di varie risorse e competenze e che deve essere compiuta collegialmente,
nel rispetto della peculiarità delle differenti materie. Il curriculum  costituisce un
percorso intellettuale di istruzione e comprende gli elementi fondamentali della
“cultura di base” che la scuola, nei suoi vari livelli, deve offrire e i contenuti e i
metodi delle varie discipline. Per gli insegnanti la costruzione del curriculum  segna
l’uscita da una logica di dipendenza burocratica – esecuzione di direttive imposte
dall’alto – per passare a scelte meditate e deliberate che promuovano programmi di
studio coerenti con le esigenze educative e le finalità culturali della scuola. Anche
l’orario scolastico e la partizione degli insegnamenti potrebbe, sotto questo punto di
vista, essere riconsiderato e subire modifiche, nel rispetto della normativa
nazionale.
Una terza osservazione riguarda la ripresa del tema della personalizzazione, che negli
ultimi anni è stato messo da parte o utilizzato solo per particolari situazioni di
disabilità, ma che, di recente, è stato riproposto come metodo qualificante della
scuola paritaria e, in particolare, della scuola cattolica. Con personalizzazione non si
intende l’individualizzazione degli apprendimenti né, come anni fa si era obiettato,
il favorire alcuni alunni, maggiormente dotati, rispetto ad altri, creando così divari
ingiusti e inaccettabili – un problema che, tra l’altro, la pandemia ha risollevato e
che la scuola italiana deve cercare in ogni modo di prevenire e risolvere –, bensì la
corretta considerazione delle capacità di ogni allievo e del suo sviluppo intellettuale
e umano, come progressiva comprensione del senso delle cose attraverso quella
sintesi personale che ne contraddistingue la visione del mondo e il comportamento.
Infine, quarta considerazione, il periodo dell’emergenza sanitaria ha posto in luce il
ruolo fondamentale degli insegnanti. Se la scuola italiana ha continuato a
funzionare negli scorsi mesi è stato perché gli insegnanti l’hanno fatta andare
avanti, senza aspettarsi disposizioni dall’alto, spesso in ritardo e confuse. Ciò
riporta all’antico principio che “la scuola si fa sulla scuola” e che le migliori riforme

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sono fatte da coloro che la scuola la conoscono, la vivono e dedicano le loro capacità
ed energie a renderla “buona” e utile ai giovani e all’intera società.
L’autonomia della scuola, tanto invocata e proclamata, ha trovato nell’esperienza
degli scorsi mesi una grande occasione per essere riscoperta, praticata e
incrementata. In alcuni casi, a dispetto delle circostanze avverse, l’offerta formativa
è stata, grazie all’impegno di insegnanti preparati e ben disposti, addirittura
aumentata e arricchita. La mossa e l’impegno che molti insegnanti e molte scuole
hanno avuto nei mesi in cui il Covid-19 ha costretto tutti all’isolamento e a cambiare
i propri stili di vita, è un insegnamento da non perdere, nel futuro prossimo, ed è
una ben precisa indicazione di come, a partire dalla prima campanella del prossimo
anno scolastico, le scuole potranno ripartire.

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