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Nuova Storia
Nuova Storia
sommario:□ Il calcio dalle origini a oggi. □ L'evoluzione della tecnica di gioco. □ Gli schemi tattici.
□ Le tecniche di allenamento. □ Le regole. □ L'arbitraggio. □ Le attrezzature e gli impianti. □ Gli
stadi del calcio. □ Le organizzazioni internazionali. □ Aspetti legislativi. □ Doping. □ Aspetti
economici. □ Il calcio-mercato. □ Il calcio e la televisione. □ Calcio e sponsor. □ Il tifo. □ La
violenza e le tragedie del calcio. □ I grandi incidenti delle squadre. □ Gli scandali del mondo del
calcio.
Le origini
Ricco di fascino è un viaggio a ritroso nel tempo alla ricerca di attendibili antenati di quello che è
oggi definito il più grande spettacolo del mondo. Anche in una ricostruzione breve e sommaria,
appare però fondamentale, nonché storicamente corretto, procedere a una suddivisione preliminare.
Non prenderemo sistematicamente in considerazione tutti i giochi con la palla in uso nell'antichità,
ricerca che risulterebbe senza fine, bensì soltanto quelli che presentano sostanziali e indiscusse
analogie con il calcio attuale.
Cronologicamente, le prime manifestazioni di quello che potremmo definire protocalcio si ebbero in
Estremo Oriente, come dimostrò il francese Jules Rimet, al quale si deve la creazione e il lancio, nel
1930, del primo Campionato del Mondo di calcio. Già nel 25° secolo a.C., l'imperatore cinese Xeng
Ti obbligava gli uomini del suo esercito a praticare, fra i vari esercizi di addestramento militare, un
gioco imperniato sul possesso di un oggetto sferico, molto simile a un pallone di oggi, formato di
sostanze vegetali, tenuto insieme e ammorbidito in superficie da crini annodati (secondo una
versione più poetica, da soffici capelli di fanciulla). Il gioco era chiamato Tsu-Chu. Un millennio
più tardi, in Giappone aveva largo seguito il Kemari, finalizzato non più all'avviamento alle armi,
ma al diletto delle classi nobili. Si giocava su un campo segnalato, agli angoli, da quattro tipi diversi
di albero: un pino, un ciliegio, un mandorlo e un salice. Il pallone, il cui strato esterno era di pelle,
misurava 22 cm di diametro ed era manovrato con le mani e con i piedi, una sorta di rugby ante
litteram. Peraltro, molto gentile: il gioco, infatti, veniva spesso interrotto per scambi di scuse e
complimenti.
Attorno al 1000 a.C., nella Grecia era in auge l'epískyros (il nome derivava da sk´yros, la linea
centrale che divideva in due parti il campo) che, insieme a tanti altri e più importanti usi ellenici, fu
trapiantato a Roma dove prese il nome di harpastum e assunse connotazioni decisamente più
brutali. L'arpasto consisteva nel rubarsi la palla, senza troppi complimenti, e divenne il passatempo
preferito dell'esercito. Lo praticavano con grande soddisfazione i legionari di Giulio Cesare,
suddivisi in squadre regolari, e furono quindi probabilmente loro a farlo conoscere ai britanni
durante l'invasione dell'isola, gettando così un seme destinato a germogliare copioso nella terra
destinata a dare ufficialmente i natali al calcio moderno.
Le fortune di tutti i giochi con la palla declinarono poi bruscamente nel Medioevo, per un generale
deprezzamento delle attività ludiche. Il divieto di praticarli riguardò dapprima i soli religiosi. In
seguito progressivamente questi giochi furono messi al bando per tutti, anche perché causa di
incidenti e di violenze che originavano veri e propri tumulti e sottraevano i soldati alle attività
militari.
Anche in altre civiltà, come in quella maya, si praticarono forme di protocalcio. Nell'antico
Messico, per esempio, il gioco consisteva nel far passare il pallone, che non poteva essere toccato
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con le mani, attraverso un piccolo foro nel muro. Il pallone era di caucciù massiccio e pesava tre
chili e mezzo. Evidente la simbologia erotica, un connotato che, secondo Desmond Morris autore
del fortunato saggio La tribù del calcio (1981), è presente anche nella versione attuale del gioco.
Il calcio fiorentino
In Europa fu il Rinascimento, con la rivalutazione del mondo classico e il ritrovato culto per la
bellezza e la forza, a favorire il ritorno alle attività ludiche e agonistiche. Nel pieno splendore
dell'età medicea, Firenze ne divenne la capitale. Già nel 1410 un anonimo poeta fiorentino,
cantando le glorie e le bellezze della città, accennava a una popolarissima forma di divertimento che
veniva espressamente chiamata 'gioco del calcio'. Piero de' Medici, appassionato cultore di questa
attività agonistica, chiamò alla sua corte i più abili giocatori, dando così vita al primo esempio di
mecenatismo applicato al calcio. I Medici furono anche i primi a capire che il gioco costituiva una
formidabile valvola di sfogo per il malcontento popolare (alla stessa guisa dei circenses romani) e
quindi si impegnarono a incoraggiarlo e a diffonderlo.
Le regole prevedevano la contrapposizione di due squadre formate da un numero variabile di
giocatori: 20, 30 o 40 a seconda delle dimensioni del terreno. La formazione standard era composta
da 27 giocatori: 15 attaccanti (corridori), 4 centrocampisti (sconciatori), 4 terzini o trequarti (datori
innanzi), 4 difensori (datori indietro). Sei arbitri controllavano e dirigevano il gioco da una
tribunetta laterale. Il pallone poteva essere colpito con i piedi o afferrato con le mani, con le quali
non era però consentito lanciarlo. L'obiettivo di entrambe le squadre era di collocare il pallone in
una porta custodita da uno dei difensori, il solo che potesse utilizzare le mani, come l'attuale
portiere; il gol era chiamato 'caccia'. Si trattava di autentiche battaglie, di grande violenza, che si
protraevano per una giornata intera.
Esaminato con la mentalità attuale, il calcio fiorentino mostra alcune affinità con il calcio moderno
e altre con il rugby. Come osserva Antonio Ghirelli nella sua Storia del calcio in Italia (1954), nel
ventennio fascista al calcio fiorentino fu attribuito il ruolo di autentico e unico precursore del
football, nell'intento di negare una gloria inglese e sottrarre così alla 'perfida Albione' il merito,
oggettivamente indiscutibile, di aver dato i natali nel 19° secolo al calcio come viene oggi inteso,
nello spirito e nelle regole. È comunque un fatto che anche il celebre Vocabolario della Crusca
(edito per la prima volta nel 1612) annotasse questa definizione: "È calcio anche nome di un gioco,
proprio, e antico della città di Firenze, a guisa di battaglia ordinata, con una palla a vento,
rassomigliantesi alla sferomachia, passato da' Greci a' Latini e da' Latini a noi".
Riservato in un primo tempo ai nobili, il calcio fiorentino si aprì presto alla ricca borghesia dei
mercanti e dei banchieri, e in seguito ai più abili giocatori di tutte le contrade, oltre ai veri
professionisti reclutati dai Medici. In declino a partire dal 18° secolo, il calcio fiorentino viene ora
tenuto in vita essenzialmente come spettacolo tradizionale e folcloristico, un modo di ritrovare le
proprie radici con infiammate sfide in Piazza della Signoria, a memoria degli antichi campanilismi.
Il calcio e le Olimpiadi
Dopo Parigi, anche Saint Louis, sede delle Olimpiadi del 1904, aveva ospitato a titolo ufficioso un
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torneo calcistico, ma si era trattato di un evento assai modesto e limitato all'area nordamericana, nel
quale il Canada aveva prevalso sugli Stati Uniti. La linea britannica, tesa a fare del torneo olimpico
un vero confronto mondiale, si affermò, com'era logico, nei Giochi del 1908, ospitati a Londra, che
segnarono l'ingresso ufficiale del calcio nel programma del CIO. Ormai si giocavano regolari
campionati nazionali in tutta Europa e in Sud America e si stavano moltiplicando, sia pure in modo
spontaneo e caotico, i confronti internazionali. Le Olimpiadi, però, esigevano dai partecipanti lo
status di dilettante puro e questo si rivelò presto un ostacolo. Non tutti i paesi, infatti, potevano
godere dell'esemplare organizzazione del calcio inglese, dove, a livello di prima divisione, dilettanti
e professionisti erano in grado di coesistere senza traumi di sorta. Così il giocatore più forte, famoso
e rappresentativo della nazionale olimpica inglese (che vinse, ovviamente, la medaglia d'oro,
battendo in finale la sorprendente Danimarca) era Vivien Jack Woodward (architetto di successo),
autentico dilettante, ma allo stesso tempo un tiratore formidabile, in grado di ricoprire tutti i ruoli
d'attacco.
Alle successive Olimpiadi del 1912, a Stoccolma, prese parte anche l'Italia, che era entrata nella
FIFA nel 1905 e aveva iniziato la sua attività internazionale nel 1910 con una netta vittoria sulla
Francia. Ben 11 furono le nazioni partecipanti, ma la competizione restava confinata in ambito
europeo, senza poter svolgere, come invece era in programma, il ruolo di un Campionato del
Mondo, perché le fortissime rappresentative sudamericane erano penalizzate dalle difficili
comunicazioni del tempo. Infatti, fra il viaggio di andata e ritorno in piroscafo e la durata del
torneo, per Argentina, Uruguay e Brasile si trattava di un impegno di due mesi abbondanti,
eccessivo per un dilettante, vero o presunto che fosse. L'Inghilterra vinse ancora, e ancora in finale
sui danesi. Il suo asso era Ivan Sharpe, degno erede di Woodward. Il riscontro storico è importante,
perché fu questa l'ultima competizione internazionale vinta dagli inglesi sino ai Mondiali di Londra
del 1966, ben 54 anni più tardi. Quanto all'Italia, affidata al giovane Vittorio Pozzo, fu eliminata
dalla Finlandia, ma batté i padroni di casa svedesi nel torneo di consolazione, ottenendo nella
circostanza il primo successo all'estero della sua storia. Abbandonata la divisa bianca delle origini,
la squadra già indossava la maglia azzurra divenuta poi tradizionale. Pochi giorni dopo il successo
sulla Svezia, la nazionale italiana fu però battuta dall'Austria con il netto punteggio di 5-1. Secondo
la poco ortodossa spiegazione fornita da Pozzo, l'esito non esaltante della spedizione era da
imputare allo scarso impegno negli allenamenti dei calciatori italiani, distratti dai 'liberi costumi' del
Nord Europa. Fu, questa, l'ultima Olimpiade prima che la grande guerra imponesse un lungo arresto
all'attività sportiva nel Vecchio Continente.
La 'rivoluzione olandese'
Con il trionfo messicano del Brasile (che si aggiudicava definitivamente la Coppa Rimet, destinata
alla nazione che avesse per prima conquistato tre titoli mondiali) si apriva la stagione del calcio
degli anni Settanta, straordinariamente ricca di novità epocali. Già sul finire del decennio
precedente non erano sfuggiti, agli osservatori più attenti, i primi annunci di un fenomeno che
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avrebbe costituito un vero spartiacque nella storia del calcio: nel 1969, alla finale della Coppa dei
Campioni, era imprevedibilmente approdata una formazione olandese, l'Ajax di Amsterdam, che il
tecnico Rinus Michels aveva costruito basandosi su canoni assolutamente innovativi rispetto alla
tradizione. Composta da un nucleo di giovani talenti allevati con cura nel vivaio del club, quindi
abituati da anni a giocare con un grande senso del collettivo, l'Ajax esprimeva sul campo un tipo di
gioco che non si era mai visto. La sua autentica rivoluzione consisteva nell'abolizione dei ruoli: i
difensori si sganciavano in attacco e gli attaccanti rientravano in copertura nell'ambito di una
manovra ad alto ritmo, che non concedeva agli avversari né punti di riferimento fissi, né, di
conseguenza, la possibilità di adottare efficaci contromisure. Il suo uomo di maggior talento, Johan
Cruijff, si muoveva con una rapidità impressionante, abbinata a una tecnica di primissimo ordine.
Quasi a significare la sua rottura con il passato, portava sulla maglia il numero 14, non
identificandosi in nessuno degli undici ruoli tradizionali. In realtà era un attaccante completo, con
un grande senso del gol, ma che variava di continuo la sua posizione sul campo e aggrediva la porta
partendo da lontano, con micidiali accelerazioni.
Alla finale europea ‒ dove era arrivato dopo una serie di vittorie rocambolesche, di sensazionali
rimonte, di punteggi nettissimi ‒ l'Ajax incontrò l'avversario peggiore che potesse capitargli: il
Milan. Impostato dall'allenatore Nereo Rocco sui canoni più avanzati del calcio all'italiana, animato
in campo da Gianni Rivera, bloccato in difesa su rigorose marcature individuali e con la regia del
grande Cesare Maldini, il Milan riuscì, infatti, a disattivare con estrema facilità i rivoluzionari
meccanismi di gioco olandesi. Cruijff fu subito escluso dalla manovra e la difesa in linea dell'Ajax,
che applicava in modo sistematico la trappola del fuorigioco (avanzando simultaneamente a ranghi
compatti per lasciare le punte rivali in posizione irregolare), venne neutralizzata dal tempismo di
Rivera, in grado di cogliere l'attimo giusto per lanciare a rete, in una zona del campo praticamente
deserta, il cannoniere Pierino Prati. La sconfitta dell'Ajax fu quasi un massacro e lì parve chiudersi
quel tentativo di inventare un gioco nuovo e di imporlo come modello vincente. Il trionfo milanista
si rivelò, invece, il canto del cigno del calcio tradizionale. L'Ajax era stato tradito dalla sua
inesperienza e, forse, da una certa dose di presunzione, ma a partire dalla stagione seguente i club
olandesi, prima con il Feyenoord e poi, per tre anni di seguito, con lo stesso Ajax, furono i
dominatori delle competizioni europee riservate ai club.
Più laboriosa si rivelò, invece, la trasposizione nella rappresentativa nazionale di quel modulo.
L'Olanda aveva collezionato una lunga serie di sconfitte, conoscendo proprio negli anni Cinquanta e
Sessanta il suo periodo più oscuro. Un anno dopo che l'Ajax, pur sconfitto in finale, aveva stupito e
incantato la critica internazionale, la nazionale olandese fu esclusa dai Mondiali messicani, perché
eliminata in fase di qualificazione, come già era successo nelle tre edizioni precedenti. I giocatori
erano praticamente gli stessi che giocavano nell'Ajax, ma va anche detto che non erano troppo
sensibili allo spirito di bandiera, a cominciare proprio da Cruijff, che nel corso della sua lunga e
straordinaria carriera antepose sempre l'interesse personale all''amor di patria'. Il modello olandese,
comunque, ebbe un immediato impatto su un calcio che già avvertiva forte l'esigenza di un
cambiamento. Il gioco 'totale' (con figure inedite come il pressing, cioè l'aggressione sistematica e
in forze dell'avversario in possesso di palla, in ogni zona del campo; la già citata tattica del
fuorigioco, con spettacolari e sincrone avanzate dell'intera linea difensiva; il tourbillon determinato
dai continui scambi di ruolo), se applicato da interpreti di valore, si rivelava altamente spettacolare.
Tornavano di moda gli alti punteggi, che il pragmatico, seppur efficacissimo, calcio all'italiana
aveva invece contribuito a congelare, privilegiando la fase difensiva e rarefacendo la fase d'attacco.
Il calcio olandese, cui si ispirarono tecnici d'avanguardia di ogni paese, era in effetti diverso da tutti
i precedenti tipi di gioco, anche se, ovviamente, non poteva non riproporre alcune soluzioni già
sperimentate. La linea difensiva a quattro, per es., si rifaceva al 4-2-4 brasiliano, che però non
prevedeva il ricorso alla trappola del fuorigioco.
In precedenza, l'interscambio dei ruoli era già stata adottato con successo dalla Grande Ungheria,
ma su ritmi meno frenetici e con una chiara prevalenza dell'abilità tecnica sul vigore atletico. La
vera originalità del modulo olandese fu di giocare un calcio fisico con la proprietà tecnica tipica dei
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campioni sudamericani. Come era già capitato all'Ungheria degli anni Cinquanta, anche l'Olanda
chiuse la sua grande stagione senza aver colto allori: fu seconda in due Campionati del Mondo
consecutivi, sempre alle spalle della nazionale padrona di casa (la Germania Ovest nel 1974 e
l'Argentina nel 1978), e quest'ultima circostanza costituisce qualcosa di più di un'attenuante, se si
tiene conto della rilevanza che in quel periodo, come abbiamo visto, assumeva il fattore campo.
L'addio di Cruijff
Il ferreo duopolio Germania Ovest-Olanda, secondo ogni ragionevole previsione, era destinato a
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confermarsi nel Campionato d'Europa del 1976, considerati come una concreta possibilità di
rivincita rispetto al Mondiale tedesco di due anni prima. In effetti, le due squadre favorite giunsero
senza problemi nel quartetto delle finaliste, completato dalla Iugoslavia, paese ospitante, e dalla
solida Cecoslovacchia, squadra di scarsa fantasia ma di robusto collettivo, provvista di sufficiente
cinismo tattico per opporsi alle formazioni più quotate senza il minimo timore reverenziale. Il
duello tra Beckenbauer e Cruijff si spostava su ribalte diverse, senza tuttavia perdere il suo ruolo di
principale attrattiva del cartellone calcistico.
Proprio in quegli Europei, disputatisi in proibitive condizioni atmosferiche, si verificarono due fatti
importanti: la Cecoslovacchia batté prima l'Olanda in semifinale e poi la Germania Ovest in finale e
la perenne conflittualità all'interno della squadra olandese, lacerata da rivalità insanabili, determinò
la rottura definitiva di Cruijff con la propria nazionale. Cruijff, che pure in campo rappresentava il
perno del gioco totale, si faceva guidare nelle scelte e negli atteggiamenti da un assoluto
individualismo. Aveva già lasciato l'Ajax per il Barcellona, cedendo alle lusinghe economiche di un
favoloso contratto proprio alla vigilia dei Mondiali 1974: una decisione che la federazione olandese
aveva dovuto subire, senza mai accettarla del tutto. Per partecipare alle finali del Campionato
d'Europa, poi, aveva preteso un compenso straordinario, il che gli aveva del tutto inimicato la
maggioranza degli altri giocatori. La sconfitta fece precipitare la situazione. Cruijff lasciò l'Olanda,
chiudendo la sua carriera in nazionale senza quei successi che la sua classe e il suo talento naturale
avrebbero sicuramente meritato. In questo, fu costretto a invidiare il suo rivale Beckenbauer, vero e
proprio collezionista di trofei.
L'abbandono di Cruijff e dei giocatori a lui più legati, parve così chiudere la breve ma esaltante
stagione della Grande Olanda. Invece, una formazione olandese di minore qualità, ma solida e unita
più che in passato sotto il profilo morale, riuscì a raggiungere ancora la finale nel Mondiale del
1978, anch'essa, come la precedente, giocata contro la nazionale di casa: questa volta al posto della
Germania Ovest c'era l'Argentina e il fattore campo si fece sentire in modo ben più pesante.
L'Argentina aveva organizzato il Mondiale con la ferma determinazione di vincerlo per offrire
evasione e sfogo alla popolazione oppressa dalla dittatura militare e per dare all'opinione pubblica
mondiale ‒ che la guardava con giustificato sospetto ‒ una dimostrazione di alta efficienza
organizzativa. Il trionfo finale, che sotto il profilo sportivo fu anche un meritato, e persino tardivo,
riconoscimento per una delle scuole calcistiche più forti di ogni tempo, lasciò aperti molti
interrogativi su quell'esito scontato. Oltre all'Olanda, altre due squadre si dimostrarono all'altezza
del titolo: il Brasile, forse vittima di una combine tra Argentina e Perù, e l'Italia, uscita dal periodo
di crisi e ammirata come la miglior nazionale, in chiave tecnica e tattica, di quel Mondiale.
Le fasi principali
L'elevata qualità tecnica del calcio odierno, soprattutto ai massimi livelli, è tutt'altro che un dato
scontato, in quanto è stata raggiunta gradualmente nel corso di una storia lunga e travagliata. Il
successivo evolversi dei sistemi di gioco e della tattica è stato sempre strettamente congiunto allo
sviluppo delle capacità tecniche dei calciatori, che sono andate continuamente progredendo in virtù
di un'applicazione sempre più assidua e intensa e di un insegnamento sempre più efficace e
razionale. Il football nacque nel 1863 in Inghilterra, quando i calciatori si separarono dai giocatori
di rugby proprio per prendere le distanze dallo svolgimento rude di quel gioco in cui sono consentiti
l'aggressione e il placcaggio dell'avversario. Introducendo regole che punivano l'uso della violenza,
il calcio metteva in primo piano l'abilità più specificatamente tecnica. Nei primi anni ai calciatori
era consentito 'stoppare' il pallone anche con le mani, mentre solo il passaggio e il tiro in porta
dovevano essere eseguiti con il piede. Queste 'azioni di mano', sia pur limitate, erano necessarie a
garantire un buon flusso di gioco, dato che l'abilità dei calciatori nel controllare il pallone con il
corpo e con il piede era ancora molto poco sviluppata. Soltanto nella stagione sportiva 1871-72 fu
introdotta la regola che proibiva a tutti i calciatori, tranne il portiere, di toccare la palla con le mani.
Ciò determinò la necessità di apprendere nuovi modi per controllare il pallone e di migliorare tutto
il repertorio della tecnica individuale.
All'epoca delle origini, comunque, quando il regolamento prevedeva il fuorigioco totale (era in
fuorigioco, cioè, chiunque si trovasse davanti alla linea della palla in qualsiasi zona del campo) e gli
allenamenti si svolgevano saltuariamente, l'impostazione tecnica individuale lasciava molto a
desiderare. L'unico elemento tecnico in cui i calciatori mostravano una certa abilità era il dribbling,
perché il gioco si sviluppava in forma essenzialmente individualista: colui che di volta in volta era
in possesso del pallone puntava direttamente verso il portiere avversario e, in dribbling, tentava di
andare in gol da solo. Gli 'stop' erano approssimativi, i pochi passaggi che era inevitabile eseguire
erano per lo più imprecisi, i tiri in porta e i calci al pallone venivano effettuati prevalentemente con
la punta del piede. Si trattava, in definitiva, di una tecnica rudimentale, grossolana e improvvisata.
Successivamente, nel periodo di applicazione del 'sistema piramidale' e del 'metodo', si sviluppò una
tecnica che rispondeva ai più importanti principi di gioco collettivo e consentiva d'altra parte alle
individualità di notevole rilievo di emergere. Il tocco della palla divenne più leggero e più morbido,
il repertorio degli 'stop' e delle finte si arricchì enormemente, le preziosità stilistiche e acrobatiche
divennero patrimonio di molti giocatori e l'impostazione tecnica individuale divenne mediamente di
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buon livello, con inevitabili riflessi sul miglioramento del gioco collettivo e dell'aspetto
spettacolare. Nel secondo dopoguerra, con l'affermazione del 'WM' in tutto il mondo, tranne che nei
paesi del Sud America, si ebbe la fase della specializzazione della tecnica in relazione al ruolo che i
giocatori ricoprivano in gara. Nel 'WM', infatti, i ruoli erano ben distinti e definiti sia per la
posizione dei giocatori in campo sia per i compiti da svolgere. Le funzioni di difensori,
centrocampisti e attaccanti erano completamente differenti e circoscritte a zone del campo ben
delimitate: mentre i difensori si occupavano di respingere l'offensiva avversaria, i loro compagni di
attacco, a circa 40 m di distanza, assistevano passivamente all'esito dello scontro; allo stesso modo
si comportavano da spettatori i difensori quando la palla si trovava nelle vicinanze della porta
avversaria. Non esisteva collaborazione tra giocatori di reparti diversi e ognuno era responsabile
soltanto di ciò che avveniva nella sua zona di competenza. Anche da un punto di vista tecnico,
l'addestramento era differente per difensori e attaccanti. Ai primi, per lo più giocatori alti, robusti,
vigorosi, venivano proposte prevalentemente esercitazioni per le varie forme di tackle, per il colpo
di testa, per i rinvii lunghi al volo di collo-piede; l'allenamento dei secondi era invece finalizzato al
tiro in porta, al dribbling, al cross da fondo campo con conclusione a rete di testa o di piede. Una
tecnica particolare, messa a punto negli anni Cinquanta dai difensori del 'WM' e consacrata a livello
internazionale nel 1954 quando la Germania divenne per la prima volta, in modo clamoroso,
campione del mondo, è stata quella del 'tackle scivolato', diffusasi in seguito in Italia soprattutto
sull'esempio di un calciatore straniero che la praticava in modo magistrale: il difensore tedesco
Schnellinger. Nel 1974, ai Campionati del Mondo in Germania Ovest, l'Olanda inaugurò il
cosiddetto 'calcio totale'; questo tipo di gioco allargava notevolmente il raggio d'azione di ogni
giocatore, che si alternava ininterrottamente fra attacco e difesa non rimanendo più ancorato a una
sola zona del campo. Di conseguenza, cominciò a diffondersi (affermandosi poi definitivamente) un
tipo di addestramento tecnico non più legato alle particolari e differenti funzioni di ciascun ruolo,
ma caratterizzato dal principio dell'eclettismo mirato alla formazione di calciatori di elevata tecnica
generale, capaci di eseguire con il pallone, in maniera corretta e disinvolta, tutto il repertorio dei
gesti previsti dalla tecnica calcistica individuale e di agire, con efficacia, in ogni zona del campo e
nelle diverse situazioni di gioco. Anche per il portiere ‒ non più relegato per tutta la durata della
partita sulla linea di porta, ma costretto a intervenire anche fuori dell'area di rigore per svolgere la
funzione di libero nei momenti in cui, lontano dalla propria porta, scattava il fuorigioco dei
compagni del reparto difensivo ‒ si cominciò ad avvertire l'esigenza di un addestramento più
generale, tendente, in altri termini, a sviluppare non solo le abilità specifiche all'uso delle mani, ma
anche quelle richieste agli altri giocatori in campo. È da precisare, comunque, che una sostanziale
evoluzione tecnica del ruolo del portiere, soprattutto per quanto riguarda la maggiore frequenza del
gioco di piede, si è avuta dal 1996 in poi, da quando cioè è stata introdotta la nuova norma che vieta
al portiere l'uso delle mani in caso di retropassaggio volontario di un compagno.
La 'piramide' di Cambridge
Lo sviluppo delle strategie di gioco fu senza dubbio agevolato dal fatto che il calcio di fine secolo si
giocasse soprattutto in ambiente universitario: l'evento agonistico, infatti, divenne oggetto di studio,
in vista di un suo progressivo perfezionamento. Il college di Cambridge, uno dei più prestigiosi
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d'Inghilterra, ideò una formula rimasta fondamentale nella storia del calcio e alla quale, in ultima
analisi, vanno fatti risalire tutti gli schemi moderni. Il passing game, come si è visto, aveva
introdotto il concetto della collaborazione fra i compagni di squadra, anche di reparti diversi. Per
ottenere una più razionale occupazione del terreno di gioco, Cambridge adottò e diffuse uno schema
a piramide: davanti al portiere si collocavano due difensori (backs); poco più avanti si posiziona
un'altra linea, formata da tre giocatori (definiti half-backs, e poi semplicemente halfs), che
dovevano raccogliere le respinte dei difensori e tramutarle in suggerimento per la linea degli
attaccanti (forwards), composta da cinque uomini che occupavano l'intera larghezza del campo.
Quando fu introdotta in Italia, questa impostazione a 2-3-5, portò a definizioni ancora in uso: 'prima
linea' (a partire dall'alto) per gli attaccanti, 'linea mediana' per quella intermedia (e mediani furono
definiti i suoi interpreti), 'terza linea' per gli ultimi difensori, chiamati quindi terzini. La
rappresentazione grafica di questo schieramento, comprendente un portiere, due terzini, tre mediani,
cinque attaccanti, assume la forma di una piramide rovesciata, e col nome di 'piramide' questo
schema si diffuse in tutta Europa. Si tratta di un sistema di gioco già completo, cui manca però un
elemento: la marcatura, cioè l'abbinamento di un proprio difensore a uno specifico attaccante
avversario, e proprio per questa caratteristica, in un certo senso, la piramide di Cambridge può
essere considerata un antecedente della 'zona'. È comunque da questa formula che partono i due
schemi gioco destinati alla massima diffusione nel periodo fra le due guerre: il 'metodo' e il
'sistema'.
Il 'metodo' e il centromediano
Chiaramente ispirato alla piramide, il metodo venne anche chiamato 'modulo a W', perché la
disposizione dei giocatori in campo disegnava due W poste l'una sull'altra. Come nella piramide,
davanti al portiere prendevano posizione i due terzini, chiamati a presidiare la propria area di rigore
senza specifiche funzioni di controllo nei confronti degli avversari. La linea mediana veniva però
diversamente articolata: i due mediani laterali si allargavano sulle due opposte fasce di campo e
finivano per controllare direttamente gli attaccanti esterni avversari, cioè le 'ali', mentre il mediano
centrale, detto 'centromediano', diventava la figura dominante della squadra. Lievemente arretrato
rispetto ai due laterali, aveva il doppio compito di opporsi al centravanti avversario e di capovolgere
il fronte del gioco con precisi e potenti rilanci che mettevano in moto la controffensiva. In genere, il
suo rinvio veniva raccolto dalle mezzali, che impostavano la manovra sulle ali, i cui cross
chiamavano in causa, per la conclusione a rete, il centravanti. Perno del metodo, il mediano centrale
venne indicato anche come 'centromediano metodista', ruolo che assommava le funzioni svolte
attualmente dal 'libero' difensivo e dal regista di centrocampo. In sintesi, il mediano centrale era
l''uomo-squadra'.
Rispetto alla piramide, inoltre, gli attaccanti non erano più disposti tutti e cinque su una medesima
linea: i due interni, o mezzeali, erano più arretrati rispetto alle ali e al centravanti. In tal modo,
passando dal 2-3-5 della piramide a un più articolato 2-3-2-3, il metodo raggiunse il perfetto
equilibrio numerico fra giocatori di difesa e di attacco.
Questo schema tattico venne esaltato dalla scuola danubiana, la cui squadra più rappresentativa fu il
Wunderteam austriaco, e raggiunse i risultati migliori con l'Italia di Vittorio Pozzo, che proprio
grazie al metodo vinse due titoli mondiali consecutivi, nel 1934 e nel 1938, inframmezzati dalla
medaglia d'oro ai Giochi Olimpici del 1936. Deve essere però precisato che l'Italia diede del metodo
classico un'interpretazione particolare, potenziando la fase difensiva e adottando l'efficacissima
arma offensiva del contropiede, cioè invogliando la squadra avversaria all'attacco in massa, al fine
di coglierla sguarnita mediante improvvisi contrattacchi.
Le tecniche di allenamento
di Gianni Leali
Le regole
di Mario Valitutti
Le origini
Le regole del calcio sono state codificate gradualmente nel corso degli anni, in un percorso non
sempre univoco. Per il periodo delle origini accade, quindi, che siano pervenute a noi versioni
contrastanti sia per quanto concerne le date della loro adozione sia per ciò che attiene ai loro
contenuti.
Le prime regole risalgono al 1848 quando un gruppo di studenti si riunì a Cambridge per tracciare
un codice di comportamento, nel tentativo di introdurre nella pratica del gioco un minimo di
uniformità. Secondo tale codice: "una rete è valida quando la palla viene calciata attraverso i pali
della porta e sotto il nastro che unisce i pali"; "quando un giocatore riceve la palla deve calciarla
senza correre con essa, trattenendola. In ogni caso la palla non può mai essere toccata con le mani
se non per fermarla"; "in nessun caso è consentito abbracciare un avversario, colpirlo con le mani
oppure ostacolarlo. Nessun giocatore deve impedire agli altri di catturare il pallone in una di queste
maniere".
Seguono nel 1857 le 'regole di Sheffield' emanate dal primo club di calcio non universitario, lo
Sheffield Club: "ogni giocatore deve essere dotato di un cappellino di flanella di colore rosso
oppure blu scuro e indossare il cappellino a seconda della squadra di appartenenza"; "la palla può
essere colpita con la mano ma è vietato portarla sotto braccio"; "un gol non può essere segnato con
la mano e neppure con un calcio libero dopo una presa".
Pochi anni dopo, nel 1862 le regole redatte da J.C. Thring della Uppingham School sanciscono che:
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"un gol è valido quando la palla attraversa la porta sotto la sbarra eccetto quando viene portata con
la mano"; "la palla non può essere calciata se è in aria"; "un giocatore è considerato fuorigioco
quando si trova davanti alla linea del pallone".
Infine, il 26 ottobre 1863 i rappresentanti di 11 club e associazioni sportive londinesi si riunirono
presso la Free Mason's Tavern di Londra per dare vita a una struttura unitaria, la Football
Association. Il loro scopo primario era quello di codificare in maniera organica e omogenea il gioco
del calcio, concordando modalità comuni di azione e procedendo alla stesura di un regolamento
ufficiale cui avrebbero dovuto attenersi tutte le società aderenti. Le prime riunioni della Football
Association furono caratterizzate da un'accesa dialettica. Si fronteggiavano due opposte tendenze,
rappresentate da un lato dal segretario dell'Associazione, E.C. Morley, deciso a eliminare la matrice
rugbystica del nuovo gioco (lo hacking, lo scalciare gli stinchi dell'avversario, l'aggredirlo con
durezza), e dall'altro dal tesoriere dell'Associazione nonché presidente del Football Club
Blackheath, F.M. Campbell, rigido difensore di quella impostazione. Prevalsero le ragioni di
Morley e l'8 dicembre fu varato il regolamento, secondo il quale nessun giocatore avrebbe potuto
correre con la palla tra le mani o caricare l'avversario. Il calcio, come oggi lo intendiamo, aveva
finalmente intrapreso la sua strada.
Le regole del 1863, pur avendo il pregio di portare a unità le norme in precedenza emanate da più
parti e di imporle a tutti gli associati alla Federazione, non erano ancora sufficienti a gestire e
regolare un gioco che era venuto assumendo importanza e dimensioni non trascurabili nella società
e nel costume dell'epoca. Basti pensare che non si faceva cenno alla durata dell'incontro, al numero
dei giocatori da schierare in campo, ai giudici di gara, al punteggio da assegnare per la vittoria e il
pareggio, all'altezza delle porte e così via.
Nel regolamento figuravano, invece, le dimensioni massime del campo di gioco (200 yard, pari a
182 m, di lunghezza; 100 yard, pari a 91 m, di larghezza), l'ampiezza delle porte, la validità del gol
("un gol viene segnato quando la palla passa attraverso i pali o sopra lo spazio tra i pali a qualsiasi
altezza, a meno che essa non vi sia stata fatta passare con le mani"), la disciplina del fuorigioco
("quando un calciatore ha calciato la palla, qualsiasi appartenente alla stessa squadra è considerato
in fuorigioco se si trova più vicino della palla stessa alla linea della porta avversaria"), le distanze su
calcio d'inizio o su calci piazzati (10 yard pari a 9,15 m), i comportamenti in campo ("nessun
giocatore potrà correre tenendo bloccata la palla o passare la palla a un compagno con le mani o
prendere la palla con le mani mentre essa è in gioco"; "non è consentito ostacolare, abbracciare,
spingere o colpire un avversario; portare protezioni in ferro o legacci di cuoio sulla superficie delle
scarpe").
Negli anni seguenti l'applicazione delle regole non fu univoca, in quanto inizialmente aderirono alla
Football Association soprattutto le squadre studentesche e una parte dei 'club calcistici' che erano
considerati dei circoli al pari di quelli culturali o del bridge. Un momento decisivo fu rappresentato
nel 1886 dalla creazione dell'IFAB (International football association board), costituito da due
membri per ciascuna delle quattro Federazioni britanniche (Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda) e
finalizzato all'armonizzazione e all'univoca interpretazione delle regole del gioco. Le tappe
principali dell'evoluzione subi-ta negli anni da tali regole sono riportate in tab. 1.
Tabella 1
Le regole principali
Terreno di gioco. Nel 1897 vennero precisate le dimensioni del campo: lunghezza da 90 a 120 m,
larghezza da 45 a 90 m; per gli incontri internazionali lunghezza da 100 a 110 m, larghezza da 64 a
75 m. Nel 1875 sui pali comparve la traversa e le misure delle porte vennero fissate in 7,32×2,44 m.
Nel 1891 furono installate le reti e fu abolito il giudice di porta.
Durata dell'incontro
Anche da questo punto di vista, inizialmente ci si rimetteva alle intese raggiunte sul campo. Per lo
più si dava luogo a sfide interminabili la cui conclusione dipendeva dalla segnatura di un certo
numero di gol. La durata dell'incontro venne fissata in 90 minuti, secondo alcune fonti, nel 1877,
secondo altre nel 1896. Dal 1995, in Italia, è prevista, allo scadere dei due tempi di gara, la
segnalazione da parte del 'quarto uomo' dei tempi di recupero. L'innovazione è stata adottata dalla
FIFA in occasione del Mondiale del 1998.
Punteggio
Nel 1881 si decise di assegnare due punti per la vittoria e un punto per il pareggio. Nel 1994,
seguendo l'esempio dell'Inghilterra e di numerosi altri paesi, anche in Italia la vittoria viene
premiata con tre punti (rimane un punto per il pareggio).
Fuorigioco
Il regolamento del 1863 prevedeva il fuorigioco totale: si trovava in tale posizione il giocatore che,
in qualsiasi zona del campo, fosse più vicino al limite di fondo campo avversario rispetto alla palla
nel momento in cui questa veniva calciata in avanti da un compagno. Successivamente la regola ha
subito tre variazioni: nel 1866 era ritenuto in fuorigioco, in qualunque zona del campo, chi non
avesse davanti a sé almeno tre giocatori avversari; nel 1907 si considerava in fuorigioco chi, nella
sola metà campo avversa, non avesse davanti a sé almeno tre giocatori avversari; nel 1925 era in
posizione di fuorigioco chi, sempre nella sola metà campo avversa, non avesse davanti a sé almeno
due giocatori avversari. Questa ultima regola è tuttora in vigore con una sola variante introdotta nel
1990: non è considerato in fuorigioco il calciatore in linea con il penultimo avversario (in genere
l'ultimo è il portiere). Le decisioni del 1925 comportarono rilevanti conseguenze tattiche che,
inizialmente, furono avvertite solo in Inghilterra dove l'allenatore Herbert Chapman rivoluzionò lo
schema di gioco con l'adozione del cosiddetto 'sistema'. Nel continente si dette importanza alla
nuova regola molti anni più tardi.
Giudici di gara
Ai primordi del calcio anglosassone l'etica del fair play riteneva superflua la figura dell'arbitro e per
dirimere le situazioni di gioco controverse intervenivano i capitani delle due squadre. Tuttavia, il
gentlemen's agreement, non fu più in grado di governare l'andamento degli incontri quando essi si
fecero altamente competitivi e il pubblico divenne più numeroso e sovente tumultuoso. Emerse
quindi l'esigenza di affidare la conduzione della gara a soggetti terzi. Dagli atti risulta che nel 1871
il controllo della gara venne affidato a due giudici di campo (umpires) scelti dalle parti e a un terzo
giudice (referee) seduto fuori campo con compiti di appello. Il fischietto non esisteva ancora e
pertanto i giudici di campo erano muniti di bandierina per sospendere il gioco. Nel 1891 il referee
ebbe in dotazione fischietto e taccuino e fece il suo ingresso in campo; gli umpires furono dislocati
lungo le linee laterali con il solo compito di segnalare il punto in cui il pallone usciva dal campo.
Nel 1894 le decisioni dell'arbitro sono diventate inappellabili. Nel 1989 in Italia, limitatamente alle
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serie A e B e alla Coppa Italia, viene ammesso un quarto ufficiale di gara che si colloca all'altezza
della linea mediana del campo. Nel 1996 i guardalinee diventano assistenti dell'arbitro.
Sanzioni
Le sanzioni, integrazioni e modifiche alle regole del gioco furono introdotte a partire dagli ultimi
decenni dell'Ottocento. Si fa risalire agli anni 1872-73 l'istituzione dei calci liberi o di punizione,
mentre nel 1903 compare il calcio di punizione diretto. Nel 1951 viene punito il fallo di ostruzione
intenzionale. Nel 1992 viene sanzionato con un calcio di punizione indiretto il retropassaggio di
piede al portiere che tocchi la palla con le mani.
Il calcio di rigore compare nel 1891 (v. tab. 2). Inizialmente si poteva calciare da qualsiasi punto
del terreno di gioco purché a distanza di 11 m dalla porta (si tracciava un semicerchio dal centro
della porta con un raggio di 12 yard e il pallone poteva essere posto su un punto qualsiasi del
semicerchio). La porta era difesa solo dal guardiano (così veniva chiamato a quei tempi il portiere).
Successivamente (1902) vennero delimitate con le attuali misure le aree di porta e di rigore e si
stabilì che il calcio di rigore dovesse essere battuto sempre dallo stesso punto, a 11 m dalla porta
sulla linea perpendicolare di questa (la cosiddetta 'lunetta'). Nel 1931 si decretò che il portiere non
potesse muoversi prima che la palla fosse calciata dal dischetto. Una disposizione del 1997 consente
al portiere di muoversi solo lungo la linea di porta.
Il calcio d'angolo fu introdotto nel 1873. Nel 1913 fu deciso che il calciatore che batteva il corner
non potesse toccare il pallone una seconda volta prima che esso fosse stato giocato da un compagno
o da un avversario. Nel 1924 (secondo alcune fonti nel 1927) divenne regolare il gol realizzato
direttamente dal calcio d'angolo.
La rimessa laterale con entrambe le mani è una regola risalente al 1882.
Le espulsioni vennero regolamentate per la prima volta nel 1874, concedendo ai giudici di gara di
espellere un giocatore recidivo nell'inosservanza delle regole di gioco. Nel 1927 è riconosciuta
all'arbitro la facoltà di espellere un giocatore che usi nei suoi confronti un linguaggio grossolano o
ingiurioso. Nel 1990 viene sancita l'espulsione del difensore che commette fallo sull'attaccante che
si trovi in una chiara azione da rete; nel 1991 l'espulsione del giocatore che interrompe con la mano
un'azione da gol e del portiere che interviene con le mani fuori dell'area di rigore; in occasione del
Mondiale 1994, la FIFA raccomanda di sanzionare con l'espulsione il fallo commesso da tergo (la
decisione viene codificata nel 1998).
Tabella 2
Le regole attuali
Attualmente assicurano solide fondamenta e assoluta precisione al gioco del calcio 17 Regole,
promulgate per la prima volta nel 1939. I loro contenuti essenziali possono essere così sintetizzati:
1. Terreno di gioco
Deve essere rettangolare, lungo almeno 90 m (100 m per le gare internazionali) e largo almeno 45
m (64 m per le gare internazionali), e delimitato da linee. Ciascun lato del campo comprende
un'area di rigore all'interno della quale è segnato il punto, posto a 11 m dalla linea di porta ed
equidistante dai pali, da cui tirare il calcio di rigore. A ciascun angolo del terreno deve essere infissa
un'asta con bandierina. Le porte consistono di due pali verticali infissi a uguale distanza dalle
bandierine d'angolo e congiunti alla sommità da una sbarra trasversale. La distanza che separa i due
pali è di 7,32 m e il bordo inferiore della sbarra trasversale è situato a 2,44 m dal suolo.
2. Pallone
Deve essere di forma sferica, di cuoio o altro materiale approvato, con una circonferenza minima di
68 cm e massima di 70 cm. Il suo peso all'inizio della gara deve essere compreso fra i 410 e i 450 g.
3. Numero dei calciatori
Ogni gara è disputata da due squadre composte ciascuna da 11 calciatori al massimo, uno dei quali
giocherà da portiere. Nessuna gara potrà aver luogo se l'una o l'altra squadra dispone di meno di
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sette calciatori. In panchina potranno sedere altri calciatori: secondo il tipo di competizione, da un
minimo di tre a un massimo di sette. Nelle gare ufficiali è consentita la sostituzione di non più di tre
calciatori. Nelle altre gare si può superare questo limite, se c'è accordo fra le parti.
4. Equipaggiamento dei calciatori
L'equipaggiamento e l'abbigliamento dei calciatori non devono in alcun caso risultare pericolosi.
Ciò vale anche per i monili di qualsiasi genere. L'equipaggiamento completo di un calciatore
comprende: maglia, calzoncini (gli eventuali scaldamuscoli devono essere dello stesso colore di
quello dominante dei calzoncini), calzettoni, parastinchi, scarpe. Il portiere deve indossare una
maglia di colore diverso da quello di tutti gli altri calciatori, dell'arbitro e degli assistenti
dell'arbitro.
5. Arbitro
Ogni gara si disputa sotto il controllo di un arbitro, le cui decisioni sui fatti relativi al gioco sono
inappellabili. L'arbitro può ritornare su una sua decisione soltanto se ritiene che essa sia errata o, a
sua discrezione, su segnalazione di un assistente, sempre che nel frattempo il gioco non sia stato
ripreso.
6. Assistenti dell'arbitro
È prevista la designazione di due assistenti dell'arbitro, che avranno il compito di coadiuvarlo nel
vigilare sul rispetto delle regole del gioco durante la gara. Il regolamento attuale prevede anche la
figura del 'quarto ufficiale' (o 'quarto uomo'), che può sostituire uno dei tre ufficiali di gara (arbitro e
suoi assistenti) che fosse impossibilitato a svolgere le sue funzioni. Inoltre il 'quarto ufficiale'
coadiuva l'arbitro, su richiesta dello stesso, in tutte le funzioni burocratiche prima, durante e dopo la
gara, e infine lo assiste nella procedura delle sostituzioni dei calciatori durante la partita.
7. Durata della gara
Salvo diversi accordi, la gara si compone di due periodi di gioco di 45 minuti ciascuno, intervallati
da una sosta che non deve superare i 15 minuti. Ciascun periodo deve essere prolungato per
recuperare tutto il tempo perduto per le sostituzioni, l'accertamento degli infortuni dei calciatori e il
loro trasporto al di fuori dal terreno di gioco, le manovre tendenti a perdere deliberatamente tempo,
ecc. La durata del recupero per interruzioni è a discrezione dell'arbitro. Per le gare che terminano
con il risultato di parità, i regolamenti delle competizioni possono prevedere disposizioni relative ai
tempi supplementari o ad altre procedure accettate dall'IFAB, che consentono di determinare la
squadra vincitrice della gara. Una gara sospesa definitivamente prima del suo termine deve essere
rigiocata, salvo disposizioni contrarie previste nel regolamento della competizione.
8. Calcio d'inizio e ripresa del gioco
La scelta della parte del campo viene stabilita con sorteggio per mezzo di una moneta. La squadra
che vince il sorteggio sceglie la porta contro cui attaccherà nel primo perio--do di gioco. All'altra
squadra verrà assegnato il calcio d'inizio della gara. Nel secondo tempo le squadre invertono le
rispettive metà del campo.
9. Pallone in gioco e non in gioco
Il pallone non è in gioco quando ha interamente superato la linea di porta o la linea laterale, sia a
terra sia in aria, o quando il gioco è stato interrotto dall'arbitro.
10. Segnatura di una rete
Una rete è considerata valida quando il pallone ha interamente superato la linea di porta tra i pali e
sotto la sbarra trasversale, sempre che nessuna infrazione alle regole sia stata precedentemente
commessa dalla squadra in favore della quale la rete è concessa.
11. Fuorigioco
Un calciatore si trova in posizione di fuorigioco quando è più vicino alla linea di porta avversaria
sia rispetto al pallone sia al penultimo avversario. La posizione di fuorigioco di un calciatore deve
essere punita solo se, nel momento in cui il pallone è toccato o giocato da uno dei suoi compagni, il
calciatore, a giudizio dell'arbitro, prende parte attiva al gioco, intervenendo nel gioco stesso, oppure
influenzando un avversario, oppure traendo vantaggio da tale posizione. Non vi è infrazione di
fuorigioco quando un calciatore si trova nella propria metà del terreno di gioco; si trova in linea con
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il penultimo avversario; riceve direttamente il pallone su calcio di rinvio oppure su rimessa dalla
linea laterale, oppure su calcio d'angolo. Per tutte le infrazioni alla regola del fuorigioco, l'arbitro
accorda alla squadra avversaria un calcio di punizione indiretto, che deve essere eseguito nel punto
in cui l'infrazione è stata commessa.
12. Falli e comportamenti antisportivi
I falli e i comportamenti antisportivi devono essere sanzionati con: a) calcio di punizione diretto,
accordato alla squadra avversaria del calciatore che, a giudizio dell'arbitro, commetta per
negligenza, imprudenza o vigoria sproporzionata uno dei falli seguenti: dare o tentare di dare un
calcio a un avversario, fare o tentare di fare uno sgambetto a un avversario, saltare su un avversario,
caricare un avversario, colpire o tentare di colpire un avversario, spingere un avversario. Viene
accordato calcio di punizione diretto anche per le seguenti altre azioni fallose: contrastare un
avversario per il possesso del pallone, venendo in contatto con lui prima di raggiungere il pallone,
trattenere un avversario, sputare contro un avversario, giocare volontariamente il pallone con le
mani (a eccezione del portiere quando si trova nella propria area di rigore); b) calcio di rigore,
accordato quando uno dei suddetti falli sia commesso da un calciatore entro la propria area di
rigore, indipendentemente dalla posizione del pallone, purché lo stesso sia in gioco; c) calcio di
punizione indiretto, accordato alla squadra avversaria quando il portiere, trovandosi nella propria
area di rigore, trattenga per più di sei secondi il pallone con le mani, o tocchi nuovamente il pallone
con le mani, dopo esserne entrato in possesso, prima che lo stesso sia stato toccato da un altro
calciatore, o tocchi con le mani il pallone passatogli deliberatamente con il piede da un calciatore
della propria squadra, o tocchi con le mani il pallone passatogli direttamente da un compagno su
rimessa dalla linea laterale, o compia manovre che, a giudizio dell'arbitro, siano dettate unicamente
dal proposito di perdere tempo. Un calcio di punizione indiretto è parimenti accordato quando un
calciatore giochi in modo pericoloso, o impedisca la progressione a un avversario (senza contatto
fisico), od ostacoli il portiere nell'atto di liberarsi del pallone che ha tra le mani, o commetta altri
falli, per i quali la gara è stata interrotta per ammonire o espellere un calciatore.
Per quanto riguarda le sanzioni disciplinari, un calciatore deve essere ammonito (cartellino giallo)
quando si renda colpevole di uno dei falli seguenti: comportamento antisportivo, esplicita
disapprovazione con parole o gesti, trasgressione ripetuta delle regole del gioco, ritardo nella ripresa
del gioco, disattesa della distanza prescritta nei calci d'angolo e nei calci di punizione, entrata o
rientro nel terreno di gioco senza il preventivo assenso dell'arbitro, abbandono deliberato del terreno
di gioco senza il preventivo assenso dell'arbitro. Un calciatore deve essere espulso (cartellino rosso)
dal terreno di gioco nel caso in cui si renda colpevole di un fallo violento di gioco o di condotta
violenta (l'IFAB ha assimilato al fallo violento il tackle da dietro che metta in pericolo l'integrità
fisica di un avversario), nel caso in cui sputi contro un avversario o qualsiasi altra persona, quando
impedisca alla squadra avversaria di segnare una rete o la privi di una chiara occasione da rete
toccando volontariamente il pallone con le mani, quando annulli una chiara occasione da rete a un
calciatore diretto verso la porta avversaria commettendo su di lui un fallo punibile con un calcio di
punizione o di rigore, nel caso in cui usi un linguaggio offensivo, ingiurioso o minaccioso, nel caso
in cui riceva una seconda ammonizione nel corso della stessa gara. Gli Organi di giustizia sportiva
possono utilizzare quale mezzo di prova, al solo fine dell'irrogazione di sanzioni disciplinari, riprese
televisive o filmati sia per correggere errori di persona sia per punire episodi di condotta violenta
avvenuti a gioco fermo o estranei all'azione di gioco, sfuggiti al controllo degli ufficiali di gara.
Contro le sanzioni irrogate le parti possono produrre immagini televisive che dimostrino che il
tesserato non ha commesso l'infrazione.
13. Calci di punizione
Nel calcio di punizione indiretto la rete viene convalidata soltanto se il pallone entra in porta dopo
aver toccato un altro calciatore; nel calcio di punizione diretto il calciatore può tirare direttamente
nella porta avversaria.
14. Calcio di rigore
Un calcio di rigore è assegnato contro la squadra che commette, nella propria area di rigore e con il
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pallone in gioco, uno dei falli punibili con un calcio di punizione diretto. Il pallone deve essere
posizionato sul punto contrassegnato all'interno dell'area di rigore. Il portiere deve restare sulla
propria linea di porta fino a quando il pallone è stato calciato. Il calciatore incaricato di battere il
calcio di rigore non può giocare o toccare una seconda volta il pallone prima che lo stesso sia stato
giocato o toccato da un altro calciatore
15. Rimessa dalla linea laterale
È accordata quando il pallone ha interamente superato la linea laterale sia a terra sia in aria. Il
calciatore incaricato di eseguirla deve fare fronte al terreno di gioco, avere, almeno parzialmente, i
due piedi sulla linea laterale, tenere il pallone con le mani e lanciarlo da dietro la nuca e al di sopra
della testa. Una rete non può essere segnata direttamente su rimessa dalla linea laterale.
16. Calcio di rinvio
È accordato quando il pallone, giocato per ultimo da un calciatore della squadra attaccante, ha
interamente superato la linea di porta, sia a terra sia in aria, senza peraltro entrare in porta.
17. Calcio d'angolo
È accordato quando il pallone, giocato per ultimo da un calciatore della squadra difendente, ha
interamente superato la linea di porta, sia a terra sia in aria, senza peraltro entrare in porta.
Oltre a queste norme fondamentali, fanno altresì parte integrante del regolamento altre istruzioni
supplementari dell'IFAB che si riferiscono alle modalità di esecuzione dei tiri di rigore per la
determinazione della squadra vincente; alla definizione dell'area tecnica (che si estende lateralmente
1 m per parte oltre le panchine e in avanti fino a 1 m dalla linea di fondo) e al 'quarto ufficiale' di
gara. Un'altra norma introdotta nelle competizioni ufficiali organizzate dalla FIFA (Campionati
Mondiali) e dalla UEFA (Campionati Europei) è quella del 'golden gol', in base alla quale la
squadra che segna per prima una rete nei tempi supplementari vince la partita. Tale regola ha
trovato applicazione anche nei Mondiali del 2002, ma se ne studiano modifiche.
L'arbitraggio
di Angelo Pesciaroli
La figura dell'arbitro è nata insieme al gioco del calcio del quale garantisce il regolare svolgimento
in tutti i paesi e a tutti i livelli, dai settori giovanili sino ai campionati di vertice nazionali e
mondiali. In Italia, gli arbitri in attività per i campionati delle varie serie sono circa 24.000 (oltre
10.000 gli anziani tesserati in altri ruoli), nel mondo sono oltre due milioni.
L'AIA (Associazione italiana arbitri) ha un'organizzazione piramidale: le strutture di base sono
costituite dalle sezioni, circa 200, che ogni anno organizzano corsi di formazione e curano
l'aggiornamento tecnico. Al di sopra delle sezioni vi sono i comitati regionali che ne controllano e
coordinano l'attività. La CAN (Commissione arbitri nazionale) D organizza e designa gli arbitri per
i campionati nazionali di dilettanti, maschile e femminile, e del calcio a cinque; la CAN C per le
serie C1 e C2; la CAN per le serie A e B.
Ogni federazione nazionale, in proporzione alla propria popolazione calcistica, ha il diritto di
scegliere ogni anno un gruppo di arbitri che assumono la qualifica di 'internazionali'. Per l'Italia gli
arbitri internazionali sono attualmente dieci, il numero massimo consentito dal regolamento. Esiste
anche un ruolo internazionale di assistenti internazionali (i guardalinee), di arbitri del calcio a
cinque e del calcio femminile. I nomi sono segnalati all'inizio di ogni anno solare alla FIFA che
designa questi arbitri per le manifestazioni da essa organizzate, ovvero i Campionati Mondiali di
tutti i livelli. Lo stesso gruppo di arbitri internazionali è utilizzato anche dalle confederazioni
continentali, nelle quali si articola la FIFA, per le proprie manifestazioni (di nazionale e di club,
come i Campionati Europei e la Champions League).
La FIFA è la depositaria del regolamento del gioco che aggiorna ogni anno attraverso un proprio
organo tecnico, l'IFAB (International football association board). Esso è composto da otto membri
che si riuniscono ogni anno in una località britannica, in omaggio al paese dove furono gettate le
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basi del calcio moderno. Storicamente, infatti, l'IFAB è nato prima della FIFA: fu costituito nel
1886 quando le quattro Federazioni britanniche (di Inghilterra, Galles, Scozia e Repubblica
d'Irlanda), si associarono per dar vita a un organo incaricato dell'emanazione e dell'armonizzazione
dei regolamenti. La FIFA entrò a far parte dell'IFAB solo nel 1913. La composizione dell'organo
rispecchia ancora questa tradizione: degli otto componenti, quattro (tra cui il presidente e il
segretario generale) sono rappresentanti della FIFA; gli altri quattro sono i segretari delle
Federazioni britanniche.
Mentre in Inghilterra gli arbitri, che cominciarono a essere utilizzati con una certa regolarità a
partire dal 1880, sono restati dilettanti per quasi un secolo, in Italia la loro origine è stata
professionistica. Nei primi anni di attività calcistica regolare (la Federazione calcistica italiana
venne fondata nel 1898), chi era stato capitano di una squadra diventava automaticamente arbitro.
Per le partite del Campionato italiano, appena istituito, i direttori di gara non dipendevano dalla
Federazione, ma erano forniti direttamente dalle società che se li scambiavano fra loro.
Le cronache narrano che la prima partita internazionale dell'Italia, vinta per 6-2 contro i francesi
all'Arena di Milano, il 15 maggio 1910, fu diretta da un inglese da tempo trasferitosi in Italia,
Goodley, che era stipendiato come arbitro dalla Juventus. Insieme a Goodley, gli arbitri più
frequentemente impiegati in quell'epoca pionieristica furono Weber e Nasi, soci e giocatori dell'FC
Torinese, Allison, socio e giocatore del Milan, e altri tesserati di società. L'AIA si sarebbe costituita
solo nel 1911 (il primo presidente fu Umberto Meazza) e da allora in poi avrebbe provveduto alle
designazioni.
All'inizio del 20° secolo, dunque, in Italia i giocatori erano dilettanti e gli arbitri stipendiati. In
seguito però il dilettantismo è stato alla base del grande sviluppo dell'organizzazione arbitrale per
oltre cinquant'anni. Il primo a lanciare l'idea di fare dell'attività di arbitro una vera e propria
professione fu, nel 1958, Diego De Leo, un arbitro vicentino che si dedicò poi alla carriera da
professionista in Sud America. Ancora per molti anni, in Italia, si andò avanti con i rimborsi spese e
con modesti, anche se sempre crescenti, gettoni di presenza.
Di professionismo arbitrale, anche se non ancora istituzionalizzato, si può parlare solo nell'ultimo
decennio del 20° secolo, quando FIFA e UEFA cominciano ad attribuire ai direttori di gara
sostanziosi premi di presenza ai Mondiali, agli Europei e alle partite delle Coppe. Alla vigilia dei
Campionati di Giappone-Corea del 2002, la convocazione a un Mondiale (un mese tra ritiro
preventivo e competizione) viene ricompensata con un appannaggio di circa 20.000 euro. Per le
Coppe europee, il gettone di presenza è sui 2500 euro a partita, con aumento progressivo per le
ultime partite della Champions League.
In Italia, la necessità di prevedere per gli arbitri allenamenti quasi quotidiani, con congrui rimborsi
spese per mancato guadagno, è stata riconosciuta nel 1990, quando il presidente della Federcalcio
Antonio Matarrese mise alla guida degli arbitri di serie A l'ex internazionale Paolo Casarin. Si deve
però arrivare al 1999 per veder assegnato agli arbitri di vertice (i 35 che dirigono le partite di serie
A e B), oltre alle diarie di presenza-gara, un congruo rimborso mensile. Attualmente gli arbitri
internazionali più bravi guadagnano all'incirca 100.000 euro netti all'anno, i più giovani, appena
entrati nella CAN, superano i 50.000 euro.
Il professionismo di fatto è ormai una realtà anche in altri paesi: gli arbitri spagnoli, per esempio,
guadagnano più di quelli italiani e possono anche avere uno sponsor, i cui proventi vengono però in
massima parte destinati alla scuola nazionale di formazione. Anche i guadagni degli arbitri tedeschi
sono più elevati di quelli dei loro colleghi italiani.
Le prime norme sulle attrezzature e sugli impianti utilizzati per il gioco del calcio risalgono al 1863,
quando in Inghilterra, per salvaguardare l'incolumità dei giocatori, la Football Association ‒ all'atto
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della sua costituzione ‒ vietò l'uso di calzature che avessero suole con chiodi sporgenti, piastre
metalliche o materiali di guttaperca indurita. D'altra parte, al fine di garantire una maggiore stabilità
ai giocatori, sia nei movimenti sia nel controllo della palla, sugli sdrucciolevoli terreni erbosi
inglesi, resi ancora più infidi dalle frequenti piogge, nel 1891 fu autorizzato l'uso di scarpe fornite di
tacchetti (o bulloni) e di strisce da applicare alle suole, purché tali supporti fossero di cuoio.
L'altezza dei tacchetti e delle strisce non doveva essere superiore a 12,7 mm. La stessa misura
costituiva il diametro minimo consentito per i tacchetti. Nel 1951, l'altezza massima delle strisce e
dei tacchetti venne portata a 19 mm. All'inizio, la tomaia era interamente di cuoio, molto rigida, con
un rinforzo anteriore (spuntergo) a protezione delle dita. Nel tempo, l'utilizzo di materiali più duttili
e meno pesanti ha modificato notevolmente le caratteristiche delle scarpe da calcio, che sono
divenute sempre più leggere e pratiche; i tacchetti, di cuoio o di gomma, consentono una presa
sempre migliore sul terreno di gioco e una più efficace torsione della calzatura. Le scarpe che si
producono attualmente assicurano il massimo comfort e la migliore protezione del piede su
qualsiasi tipo di campo. Dotate di ammortizzatori capaci di esaltare la reattività e la potenza degli
atleti, hanno tomaie di pelle sintetica, più leggera ed elastica rispetto al cuoio naturale. Le stringhe
sono studiate per consentire insieme la massima aderenza al terreno e la flessibilità del collo del
piede, essenziale per un buon controllo del pallone.
Nelle prime regole dettate dalla Football Association non vi era alcuna indicazione né sul peso né
sulla circonferenza del pallone. Soltanto nel 1872 vennero stabiliti i valori minimi e massimi
(rispettivamente 68 e 71 cm) consentiti per la misura della circonferenza dell'attrezzo, valori rimasti
tuttora pressoché immutati (68-70 cm). Quanto al peso, all'inizio di ogni partita esso non doveva
essere inferiore a 340 g e superiore a 425; nel 1900, per gli incontri internazionali, il peso minimo
fu portato a 368 g. Con il tempo, ci si rese però conto dell'eccessiva leggerezza del pallone, il cui
peso venne quindi fissato, nel 1937, a un minimo di 396 g e un massimo di 453, poi arrotondati a
410 e 450. Per la confezione dello strato esterno del pallone furono utilizzate a lungo pezze
rettangolari di cuoio grezzo, cucite all'interno l'una con l'altra. Dentro questo involucro era inserita
una sfera di gomma, la camera d'aria, gonfiabile per mezzo di un piccolo budello di gomma telata,
poi ripiegato e coperto con una stringa che fungeva da chiusura dell'involucro esterno. La ruvidezza
del materiale utilizzato e la non perfetta sfericità del pallone, che inoltre, in caso di pioggia,
assorbiva una grande quantità di acqua e quindi aumentava notevolmente di peso, costringeva i
giocatori, per attutire la violenza dell'impatto con l'attrezzo, ad annodarsi un fazzoletto attorno alla
fronte o a utilizzare delle bende. In Inghilterra, era frequente l'uso di un cap a protezione della testa.
Il miglioramento delle tecnologie e dei materiali e l'eliminazione della camera d'aria interna hanno
reso possibili non solo la perfetta sfericità, ma anche una fattura molto più funzionale e sofisticata
del pallone, grazie all'uso di cuoi sempre meno ruvidi e di materiali sintetici uniti a pelli
leggerissime; inoltre l'applicazione di apposite vernici sulla superficie esterna consente ormai la
completa impermeabilizzazione del pallone. Questo inizialmente era di colore marrone, tipico del
cuoio; poi, anche per esigenze di riprese televisive, ha subito alcune varianti: è diventato a spicchi
bianchi e neri nel 1970, tricolore in occasione dei Mondiali di Francia 1998. Per il Mondiale 2002 è
stato presentato un pallone dorato, con l'inserimento di disegni e di colori legati alla tradizione dei
due paesi ospitanti, la Corea e il Giappone.
Quanto al terreno di gioco, secondo le prime regole del 1863 esso era costituito da uno spazio
delimitato soltanto da bandierine. La lunghezza massima del campo era fissata in 200 yard (182 m),
la larghezza massima in 100 yard (91 m). Da quando, nel 1897, furono sostituite da linee sia laterali
sia di fondo campo, le bandierine si utilizzarono solo per indicare i quattro angoli del terreno di
gioco. La porta era inizialmente costituita da due pali posti a una distanza (misurata dal loro
interno) di 7,32 m, senza nessuna delimitazione in altezza; in seguito, venne aggiunta una fettuccia
posta in orizzontale fra i due pali, a 2,44 m di altezza, misura rimasta tuttora immutata. Nel 1875 era
stato introdotto l'uso, all'inizio facoltativo, di una traversa fissa, che fu resa obbligatoria nel 1882;
nel 1891 venne ufficialmente disposto l'uso di reti a chiusura posteriore delle porte. Nel 1897,
l'IFAB stabilì le nuove dimensioni del terreno di gioco: lunghezza massima 120 m, minima 90 m,
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larghezza massima 90 m, minima 45 m. Per quanto riguarda gli incontri internazionali la lunghezza
massima venne fissata a 110 m, la minima a 100 m, la larghezza -massima a 75 m, la minima a 64
m. Il perimetro del terreno di gioco deve essere perfettamente rettangolare e tracciato con una linea
continua. L'altezza delle bandierine nei quattro angoli non deve essere superiore a 150 cm; la
larghezza massima delle linee di delimitazione del campo è fissata a 12 cm.
Nel mondo vi sono 11 impianti in grado di ospitare incontri di calcio con una cornice di pubblico di
almeno 100.000 spettatori (capienza ufficialmente riconosciuta dalle istituzioni calcistiche
internazionali). È singolare, però, che solo due di questi impianti appartengano a un paese che
occupa uno dei primi dieci posti della classifica FIFA per nazioni: si tratta dei brasiliani Maracaná e
Mineirão. Tra i 32 stadi con più di 80.000 posti, solo dieci si trovano in paesi calcisticamente
all'avanguardia.
Lo stadio più grande del mondo è il May Day Stadium di Pyongyang (Corea del Nord), inaugurato
nel 1989, con una capienza di 150.000 spettatori; l'impianto, che era stato inizialmente progettato
per ospitare i Giochi Olimpici, speranza poi risultata vana, viene utilizzato per le partite della
nazionale, ma anche per numerose manifestazioni e raduni extrasportivi. Seguono, in questa
classifica, dopo il Salt Lake Stadium di Calcutta (120.000), due stadi di grandissime tradizioni
calcistiche, come il Maracaná di Rio de Janeiro (ufficialmente in grado di ospitare 122.000
spettatori, ma che in alcuni casi è arrivato a contenerne oltre 200.000) e lo stadio Azteca di Città del
Messico (106.000).
I paesi nei quali vi è almeno uno stadio da 70.000 posti sono: Algeria, Arabia Saudita, Argentina,
Armenia, Australia, Brasile, Cile, Cina, Colombia, Congo, Corea del Nord, Corea del Sud, Ecuador,
Egitto, Francia, Galles, Georgia, Germania, Giappone, Grecia, India, Indonesia, Inghilterra, Iran,
Italia, Libia, Malaysia, Marocco, Messico, Pakistan, Portogallo, Russia, Spagna, Stati Uniti,
Sudafrica, Turchia, Ucraina e Uruguay. Una simile graduatoria, tuttavia, non coincide se non in
minima parte con quella degli impianti che hanno lasciato una traccia significativa nella storia del
calcio. In molti casi, infatti, si tratta solo di monumenti che rispondono più alla volontà
autocelebrativa o propagandistica di un regime politico che non alle tradizioni calcistiche e ai
risultati sportivi delle squadre nazionali. In altre circostanze l'imponenza degli stadi è direttamente
proporzionale al numero di abitanti della città o della regione nella quale sono ubicati,
indipendentemente dalla storia calcistica locale. È significativo notare come quasi nessuno degli
stadi più grandi sia stato costruito negli ultimi dieci anni. Anzi, per lo più gli impianti progettati e
realizzati di recente hanno una capienza inferiore ai 70.000 posti e spesso non raggiungono i
60.000. La capienza media degli impianti costruiti o rinnovati per i Campionati del Mondo di Giap-
pone e Corea 2002 è di 49.700 spettatori (il più grande ne ha 70.500, il più piccolo 41.800); quella
degli stadi degli Europei 2004 è di 41.300 spettatori (75.000 il più grande, 31.500 il più piccolo).
Infine, la capienza media degli impianti che saranno realizzati per i Mondiali di Germania 2006 è di
50.000 spettatori (76.000 il più grande, 22.500 il più piccolo).
In generale, i lavori di adeguamento degli stadi alle nuove norme di sicurezza o ai criteri di
maggiore comfort che si sono affermati in tutto il mondo a partire dagli anni Ottanta, parallelamente
alla definitiva affermazione del calcio televisivo, hanno comportato significative riduzioni delle
capienze massime degli impianti che avevano ospitato i più importanti incontri di calcio negli anni
Cinquanta e Sessanta. Nell'anno della sua inaugurazione, oltre 200.000 spettatori assistettero dalle
gradinate del Maracaná alla finalissima dei Mondiali del 1950 tra Brasile e Uruguay. Le cronache
riferiscono di 130.000 persone stipate nello stadio Azadi di Teheran, o dell'Estádio da Luz di
Lisbona stracolmo di 120.000 appassionati. Oltre 124.000 spettatori celebrarono la vittoria del Real
Madrid nella finale di Coppa dei Campioni del 1957 disputatasi al Chamartín/Santiago Bernabéu. I
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successivi trionfi della squadra di Di Stefano, Puskas e Gento allo stadio Heysel di Bruxelles (1958)
e all'Hampden Park di Glasgow (1960) furono salutati rispettivamente da 67.000 e 128.000
spettatori. All'epoca della finale di Coppa dei Campioni vinta dall'Inter sul Real Madrid (1964), il
Prater di Vienna poteva contenere 71.000 persone. In occasione delle Olimpiadi del 1936,
l'Olympiastadion di Berlino arrivò a ospitare 120.000 spettatori.
Nella stagione 1999-2000 la capienza media degli stadi di prima divisione in Europa è stata di
49.900 spettatori in Italia, 33.700 in Inghilterra, 39.800 in Spagna, 29.800 in Francia e 42.400 in
Germania. Negli Stati Uniti, la Lega professionistica (Major league soccer) richiede stadi con un
minimo di 25.000 e un massimo di 40.000 posti a sedere.
Molto più suggestivo è classificare gli stadi in base al significato da essi assunto per avere ospitato
partite memorabili della storia del calcio. In qualche caso, lo stadio viene ricordato proprio per la
partita che vi si è giocata: lo Stadio Azteca di Città del Messico sarà sempre, non solo per gli
italiani, lo stadio di Italia-Germania Ovest 4-3. Così il Maracaná di Rio de Janeiro non si separerà
mai dal ricordo della finale dei Mondiali del 1950, persa dal Brasile contro l'Uruguay, e il
Centenario di Montevideo vivrà della memoria del trionfo della nazionale di casa contro l'Argentina
nella prima Coppa del Mondo del 1930.
Tabella 1
In molti altri casi, l'intensità del ricordo è direttamente proporzionale al grado di coinvolgimento
emotivo di un paese (o di una tifoseria) in un successo sportivo: Wembley rappresenta per gli
inglesi lo stadio della vittoria mondiale del 1966 sui tedeschi. Al Santiago Bernabéu tutti gli italiani
hanno idealmente alzato con gli azzurri la terza Coppa del Mondo della loro storia, ma lo stadio
spagnolo entrato nella leggenda è il Sarriá di Barcellona, teatro della sensazionale vittoria dell'Italia
sul Brasile. Il Camp Nou di Barcellona è, per i tifosi del Manchester United, il luogo dove i Red
Devils hanno vinto la loro seconda Coppa dei Campioni dopo trent'anni di astinenza, sconfiggendo
il Bayern Monaco nella più rocambolesca finale che si ricordi. Allo Stadio Wankdorf di Berna e al
Monumental di Buenos Aires sono legate le prime Coppe del Mondo di Germania e Argentina. Il
punto più alto della storia calcistica della Danimarca coincide con l'inaspettata conquista del
Campionato d'Europa del 1992, celebratasi allo Stadio Nye Ullevi di Göteborg a spese della
favoritissima Germania. Uno stadio privo di qualsiasi tradizione calcistica come il Sanford di
Athens, nello Stato americano della Georgia, è diventato un punto di riferimento per l'intero
continente africano, dopo che la nazionale nigeriana vi ha conquistato il titolo olimpico nel 1996,
superando il Brasile e l'Argentina in due emozionantissime partite.
La fama di alcuni stadi deriva dal significato simbolico che essi hanno storicamente assunto nel loro
paese, generalmente per essere la sede degli incontri ufficiali della rappresentativa nazionale:
Wembley per gli inglesi, lo stadio FNB di Johannesburg per i sudafricani, El Monumental per gli
argentini, El Centenario per gli uruguayani, lo stadio Azadi per gli iraniani, lo Stadio Olimpico di
Atene per i greci, il Népstadion per gli ungheresi, lo stadio Lia Manoilu per i rumeni, lo stadio Re
Baldovino per i belgi, l'Hampden Park per gli scozzesi, il Lansdowne Road per gli irlandesi, lo
Stadio Olimpico per i finlandesi, lo Stadium Australia per gli australiani; in prospettiva, lo Stade de
France per i francesi e il Millennium Stadium per i gallesi.
Fino al 2001, anno in cui gli è succeduto il Millennium Stadium di Cardiff, Wembley ha anche
rappresentato la sede naturale di quella che gli inglesi definiscono da sempre "la partita più
importante del mondo", ovvero la finale della Coppa d'Inghilterra. Nell'elenco delle partite
indimenticabili della storia del calcio non possono mancare alcune finali di questo torneo: il 4-3 con
il quale il Blackpool, trascinato da Stanley Matthews, sconfisse il Bolton nel 1953 ribaltando negli
ultimi tre minuti un risultato che aveva visto il Bolton in vantaggio per 3-1 sino a 20 minuti dal
termine; la prima vittoria di un club di seconda divisione (il Sunderland nel 1973); il trionfo del
Tottenham nel 1981, propiziato dall'argentino Ricardo Villa con una doppietta; il successo ai
supplementari del Coventry City nella finale del 1987, dopo la rimonta di un doppio svantaggio.
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In altri casi, l'importanza di uno stadio deriva dall'identificazione che se ne fa con la squadra che vi
disputa le partite casalinghe. Ciò accade tipicamente in Inghilterra, dove il legame tra il club e lo
stadio, proprio perché esclusivo, è molto più stretto di quanto non sia, per esempio, in Italia: così
l'Old Trafford è, inequivocabilmente, lo stadio del Manchester United, Anfield Road quello del
Liverpool e Highbury la casa dell'Arsenal.
Per molti innamorati del calcio, l'unica classifica che renda giustizia al valore reale degli stadi è
quella basata sulla 'atmosfera' che vi si respira: Estádio da Luz (teatro delle imprese del Benfica),
San Siro (Milan e Inter), La Bombonera (Boca Juniors), Camp Nou (Barcellona), Old Trafford
(Manchester United), Anfield Road (Liverpool), Maracaná (Botafogo, Flamengo, Fluminense e
Vasco da Gama), Monumental (River Plate), Centenario (Peñarol), Ibrox Park (Rangers), Celtic
Park (Celtic), San Mamés (Athletic Bilbao) rientrano, di diritto, in questa categoria.
In almeno una decina di casi, poi, gli stadi devono la loro fama al verificarsi di un evento tragico in
occasione di una partita di calcio: Ibrox Park di Glasgow (94 morti e 700 feriti in tre distinti
incidenti nel 1902, 1961 e 1971); Hillsborough di Sheffield (96 morti e 500 feriti nel 1989,
provocati dalla calca dei tifosi senza biglietto: da questa sciagura ha preso il via il processo di
ammodernamento degli stadi inglesi); Estádio Nacional di Lima (318 morti e 1000 feriti nel 1964);
Stadio Lenin di Mosca (340 morti e 1000 feriti nel 1982); Bradford (56 morti nell'incendio del
1985); Heysel (39 morti e oltre 240 feriti in occasione della finale di Coppa dei Campioni del
1985); Furiani di Bastia (15 morti e più di 2000 feriti per il crollo di una tribuna nel 1992); Mateo
Flores di Città del Guatemala (84 morti nel 1996); Ellis Park di Johannesburg (47 morti nel 2001);
stadio di Accra (126 morti nel 2001).
La lista degli stadi da ricordare non può chiudersi senza menzionare quelli che hanno lasciato o
promettono di lasciare una traccia sul piano architettonico o delle soluzioni tecnologiche innovative
introdotte: Stadio Olimpico di Monaco, Amsterdam ArenA, Gelredome di Arnheim, Philips Stadion
di Eindhoven, Millennium Stadium di Cardiff, Stadium Australia di Sydney, Ashburton Grove di
Londra (nuovo stadio dell'Arsenal), May Day Stadium di Pyongyang, Stade de France di Saint-
Denis, Sapporo Dome, nuovo Wembley, Atatürk Olympic Stadium di Istanbul, Arena auf Shalke di
Gelsenkirchen, Stadium of Light di Sunderland, Parken di Copenaghen, nuovo stadio di Seul,
Invesco Field at Mile High di Denver (ma l'elenco è certamente soggettivo e non esaurisce gli
esempi possibili).
Le organizzazioni internazionali
di Salvatore Lo Presti
L'idea di costituire un'Associazione che riunisse le Federazioni calcistiche europee fu avanzata fin
dall'inizio degli anni Cinquanta ‒ parallelamente all'intento di creare, anche in Europa, una
competizione fra squadre nazionali come quella che, col nome di Coppa America, veniva
organizzata dal 1916 in Sud America ‒ da alcuni dirigenti d'avanguardia, come il presidente della
Federazione italiana Ottorino Barassi, il segretario generale della Federazione francese Henry
Delaunay, il suo collega belga José Crahay. L'idea fu accolta con favore e sostenuta dallo svizzero
Ernst Stommen e da Stanley Rous, all'epoca segretario della Federazione inglese. Dopo che nel
1953 la FIFA aveva provveduto alle necessarie modifiche al proprio statuto, il 15 giugno 1954, a
Basilea, durante i Mondiali, fu deciso di costituire una Confederazione europea, con un comitato
esecutivo provvisorio formato, oltre che da Crahay e da Delaunay, dall'austriaco Josef Gero, dallo
scozzese George Graham, dal danese Ebbe Schwarz e dall'ungherese Gustav Sebes. La settimana
successiva, a Berna, il comitato elesse presidente Schwarz. Il 2 marzo 1955 ‒ data di nascita
ufficiale ‒ le 29 Federazioni europee aderenti all'UEFA ne approvarono lo statuto, confermarono il
danese Schwarz alla presidenza e completarono l'esecutivo con l'ingresso del tedesco Peco
Bauwens, del greco Constantin Constantaras e dell'austriaco Alfred Frey (che sostituì il compatriota
Gero, nel frattempo scomparso). La prima sede dell'UEFA fu in rue de Londres, a Parigi, ma già nel
1959 venne trasferita a Berna, dapprima in un ufficio in affitto, successivamente alla Maison des
Sport, infine, nel 1974, nel periodo di presidenza di Artemio Franchi, in un edificio acquistato al 33
di Jupiterstrasse. Ultimo trasferimento (nel 1999), a Nyon, presso Ginevra, in una modernissima
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sede sul lago.
La CONCACAF nacque nel 1961 dalla fusione della CCCF (Confederación centroamericana y del
Caribe de fútbol) e della NAFC (North American football confederation). Soci fondatori erano il
Messico, la sola nazione calcisticamente importante dell'area, insieme con Cuba, Guatemala,
Honduras e Antille Olandesi. Attualmente alla CONCACAF risultano affiliate 40 Federazioni, dal
Canada al Suriname.
La CAF fu fondata l'8 febbraio 1957 in un salone del Grand Hotel di Karthoum, in Sudan, dai
delegati di Egitto, Etiopia, Sudan e Repubblica Sudafricana, dopo che l'esigenza, ormai
indifferibile, di un organismo che disciplinasse l'attività calcistica africana e ne portasse avanti le
istanze era stata evidenziata nel corso del 30° Congresso della FIFA, svoltosi nel giugno del 1956 a
Lisbona. Primo presidente fu l'ingegnere egiziano Abdelaziz Abdallah Salem e, secondo lo statuto,
la prima sede fu fissata al Cairo, al 3 della via El Hadiqa, nel quartiere di Città Giardino. Dopo aver
cambiato sede in base alla nazionalità dei suoi presidenti, la CAF ha poi fissato definitivamente il
proprio quartier generale nella capitale egiziana.
Aspetti legislativi
di Marco Brunelli
Tutti i passaggi fondamentali in oltre cento anni di storia del calcio mondiale sono stati
accompagnati da importanti innovazioni regolamentari introdotte dalle istituzioni sportive. È questo
il caso, per limitarsi al calcio italiano del secondo dopoguerra, delle decisioni riguardanti: la
struttura dei Campionati (che hanno assunto la forma attuale nel 1988); la creazione delle diverse
Leghe (la Lega di serie A e B nel 1946, quella di serie C e la Lega dilettanti nel 1959); la possibilità
di tesserare calciatori stranieri (introdotta con varie limitazioni dal 1946 al 1966 e reintrodotta a
partire dal 1980); l'adozione di misure volte a risanare i conti dei club (tetto massimo per la rosa
calciatori; blocco degli ingaggi e obbligo di regolare la campagna trasferimenti attraverso la FIGC
nel 1953; norme di controllo dei costi e dell'indebitamento nel 1967; limitazione degli acquisti dei
calciatori secondo le reali possibilità economiche dei club nel 1976; istituzione, all'interno della
FIGC, della CoViSoC ‒ Commissione di vigilanza sulle società di calcio professionistiche ‒ nel
1987; obbligo di certificazione dei bilanci nel 1988); l'istituzione dello status ufficiale di calciatore
professionista nel 1957; la trasformazione delle associazioni calcistiche di serie A e B in società per
azioni nel 1967; l'introduzione dell'obbligo della 'firma contestuale' del calciatore in caso di
trasferimento nel 1978.
In Inghilterra, la Federazione impose il primo tetto salariale (salary cap) nel 1900 (mantenuto con
aggiustamenti fino al 1961) e il primo limite agli importi dei trasferimenti nel 1908. L'introduzione
del professionismo risale al 1885. La regola che fissava un limite massimo al pagamento di
dividendi è stata imposta nel 1896 e successivamente, nel 1920, 1974 e 1983, il limite è stato alzato.
L'abolizione del vincolo, anticipata da una decisione dell'Alta Corte di Giustizia, è del 1978.
Solo in epoca più recente, tuttavia, a riprova della crescente complessità dei problemi e della
rilevanza degli interessi in gioco, il funzionamento dei mercati calcistici è divenuto oggetto
sistematico di attenzione da parte del legislatore e ha ispirato innovative sentenze giurisprudenziali.
Nessuna legge nazionale ha avuto sull'organizzazione calcistica, il mercato del lavoro sportivo e i
bilanci dei club l'impatto della 'sentenza Bosman' (sentenza della Corte di Giustizia europea del 15
dicembre 1995, caso C-415/93), preceduta da una sentenza della Corte di giustizia europea del 1976
(sentenza della Corte di Giustizia europea del 14 luglio 1976, caso 13/76), che ha, di fatto, avviato il
processo di liberalizzazione del mercato dei calciatori. Nella stessa direzione è indirizzato il nuovo
Regolamen-to dei trasferimenti, imposto nel 2001 dalla Commissione Europea alla FIFA.
Con la 'sentenza Bosman' è comparso sulla scena dello sport un nuovo regolatore sopranazionale,
l'Unione Europea, che è ripetutamente intervenuto a dettare le regole di funzionamento dei mercati
calcistici o a verificare quelle che i suoi membri si erano dati autonomamente. La Direzione
Generale responsabile per la concorrenza si è occupata di oltre 60 casi che interessano lo sport,
dalla libertà di circolazione dei calciatori sotto contratto, alla titolarità dei diritti televisivi, alla
durata dei contratti di esclusiva, all'acquisto di club sportivi da parte di gruppi dell'entertainment,
alla natura monopolistica delle Federazioni, alla negoziazione centralizzata dei contratti di
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sponsorizzazione, alla libertà di movimento delle società sportive nello spazio europeo,
all'ammissibilità degli aiuti di Stato allo sport, alla multiproprietà dei club, alla vendita dei biglietti
degli eventi, ai criteri di selezione degli atleti per le squadre nazionali.
A livello nazionale, nel 1984 in Francia (l. 16 luglio 1984, nr. 610, e successive modifiche), nel
1990 in Spagna (l. 15 ottobre 1990, nr. 10) e nel 1998 in Brasile (l. 24 marzo 1998, nr. 9615) sono
state approvate importanti leggi-quadro sullo sport che hanno disciplinato i ruoli e le funzioni delle
Federazioni e delle Leghe professionistiche.
I rapporti tra società sportive e atleti professionisti (diritti e doveri di entrambe le parti; abolizione
del vincolo) sono stati regolati nel 1981 in Italia (l. 23 marzo 1981, nr. 91), nel 1978 in Belgio (l. 24
febbraio 1978), nel 1985 in Spagna (r.d. 26 giugno 1985, nr. 1006), nel 1991 in Grecia (l. 5 agosto
1991, nr. 1958) e nel 1998 in Brasile (l. 24 marzo 1998, nr. 9615). Nell'estate del 1963 una
decisione dell'Alta Corte britannica aveva già dichiarato illegittimo il vincolo, presente nel
regolamento della Football League sin dal 1888, stabilendo che un calciatore è libero a scadenza di
contratto se il club non esercita l'opzione di rinnovo. Un documento di emanazione governativa, il
'rapporto Taylor' del 1990, ha cambiato la storia del calcio inglese. Le misure suggerite dal giudice
Taylor per garantire la sicurezza negli stadi dopo la tragedia di Hillsborough, infatti, hanno portato
alla trasformazione degli stadi inglesi in moderne strutture polifunzionali, alla nascita della Premier
League e all'impennata dei fatturati dei club inglesi.
Oltre che in Inghilterra (Public order act 1986, Football spectators act 1989, Football offences and
disorder act 1999, Football disorder act 2000), anche in Francia (l. 16 luglio 1984, nr. 610, e
successive modifiche) e in Spagna (l. 15 ottobre 1990, nr. 10, e R.D. 21 maggio 1993, nr. 769) lo
sviluppo recente del calcio sarebbe stato impensabile senza precise leggi a tutela dell'incolumità
degli spettatori e del miglioramento delle condizioni degli stadi. La stessa logica ha ispirato, in
Italia, la recente approvazione di nuove misure anti-violenza (l. 19 ottobre 2001, nr. 377).
Dal 1996 in Italia (l. 18 novembre 1996, nr. 586) e dal 1998 in Spagna (l. 30 dicembre 1998, nr.
50), le società di calcio possono quotarsi in Borsa, così come avveniva già da tempo in Inghilterra.
In Francia, il legi-slatore ha ugualmente inteso aprire il capitale delle società professionistiche agli
investitori esterni, ma ha ritenuto la specificità dell'attività sportiva incompatibile con l'ammissione
dei club al listino (l. 28 dicembre 1999, nr. 1124).
L'intensificarsi dei rapporti tra sport e televisione ha prodotto leggi e sentenze che hanno fortemente
inciso sull'operato delle organizzazioni calcistiche. In Francia (l. 16 luglio 1984, nr. 610, e
successive modifiche), Inghilterra (sentenza della Restrictive practice court del 28 luglio 1999),
Germania (art. 31 della legge antitrust nr. 1081 del 1957, così come emendato nel maggio 1998),
Danimarca (sentenza antitrust del novembre 1997) e Spagna (disposizione transitoria della l. 15
ottobre 1990, nr. 10, contestata e disattesa dai club a partire dal 1996) è stata autorizzata la vendita
collettiva dei diritti da parte delle Leghe o delle Federazioni. La stessa prerogativa è stata
riconosciuta alle Leghe professionistiche americane sin dal 1961 (Sports broadcasting act 1961).
Viceversa, in Italia (l. 29 marzo 1999, nr. 78, e provvedimento dell'Autorità garante della
concorrenza e del mercato del 1° luglio 1999, nr. 7340), Grecia (l. 17 giugno 1999, nr. 2527),
Olanda (sentenza del Tribunale di Rotterdam del 9 settembre 1999) e Germania (per le Coppe
europee: sentenza della Suprema Corte Federale dell'11 dicembre 1997) si è stabilito che i diritti
appartengono ai club. Altri casi sono tuttora pendenti: i più importanti riguardano la vendita
collettiva dei diritti televisivi della Champions League e del Campionato tedesco e i diritti per la
telefonia mobile del Campionato francese.
Molti paesi, come Francia (l. 16 luglio 1984, nr. 610, e successive modifiche), Belgio (Decreto
Ministeriale della Comunità fiamminga 17 marzo 1998), Spagna (l. 3 luglio 1997, nr. 21), Germania
(Rundfunkstaatsvertrag 31 agosto 1991, art. 5), Grecia (l. 5 agosto 1991, nr. 1958), Portogallo (l. 14
luglio 1998, nr. 31/A) hanno regolamentato per legge il cosiddetto 'diritto di cronaca', definendo con
precisione le condizioni alle quali è consentito l'accesso agli stadi delle emittenti che non hanno
acquistato i diritti, ma svolgono ugualmente una funzione informativa.
Un'innovativa direttiva dell'Unione Europea (direttiva 552/89, Televisione senza frontiere) ha
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imposto ai paesi membri di predisporre l'elenco dei programmi che, per il loro rilevante interesse
sociale, non possono essere trasmessi a pagamento. In Italia (decisione dell'Autorità per le
comunicazioni del 28 luglio 1999, nr. 172) gli eventi sportivi da diffondere in chiaro sono, oltre al
Giro d'Italia di ciclismo, al Gran Premio d'Italia di Formula 1 e alle Olimpiadi, le partite ufficiali
della nazionale, le finali dei Mondiali e degli Europei, la finale e le semifinali della Champions
League e della Coppa UEFA se coinvolgono una squadra italiana.
Caso pressoché unico al mondo, il governo francese ha fatto inserire nella legge finanziaria del
1999 una tassa del 5% sui ricavi televisivi di tutte le organizzazioni sportive, da destinare alla
promozione dello sport di base. Più spesso, però, la valenza sociale del calcio ha giustificato
interventi di sostegno da parte del legislatore, come nel caso delle risorse destinate al piano di
risanamento economico dei club dalla 'legge dello sport' spagnola del 1990, o le agevolazioni fiscali
concesse alle società di calcio in molti paesi.
Doping
di Leonardo Vecchiet, Luca Gatteschi, Maria Grazia Rubenni
L'atleta ha spesso cercato di aumentare le proprie prestazioni in maniera artificiale. Nei tempi
antichi, secondo le notizie che abbiamo a disposizione, in Cina si utilizzavano estratti di efedra,
pianta che contiene l'alcaloide efedrina. In Europa i racconti della mitologia nordica narrano che i
guerrieri -accrescevano le loro forze bevendo pozioni di amanita muscaria, che contiene l'alcaloide
bufoteina. In Grecia venivano somministrate miscele di piante e di funghi per aumentare la capacità
nelle corse di fondo. In America del Sud si utilizzavano foglie di coca per sostenere delle corse che
potevano durare tre giorni e tre notti con scarsissimi periodi di riposo. Allo stesso modo in America
del Nord veniva assunto il peyotl, contenente l'alcaloide mescalina, che permetteva di correre fino a
72 ore consecutive.
Negli ultimi decenni si è progressivamente ricorso a mezzi proposti dalla moderna farmacologia.
Questa ha messo a punto sostanze che sono estremamente attive per curare malattie importanti, ma
che, per quanto riguarda alcuni composti, hanno anche un effetto positivo sulle prestazioni fisiche
dei soggetti sani. L'elevato grado di specializzazione e di allenamento richiesto oggi in tutte le
attività sportive ha portato molti a credere che l'uso di sostanze farmacologiche o di altre procedure
dopanti sia indispensabile per potere avere successo nelle competizioni. Tuttavia, l'assunzione di
farmaci per aumentare la prestazione è un atto grave contro la morale sportiva, in quanto
contravviene al principio che ciascuno deve gareggiare secondo le proprie capacità, acquisite
attraverso i sacrifici imposti da un corretto allenamento e da un adatto stile di vita. L'inosservanza di
tali norme è punita con sanzioni molto severe ma, soprattutto, l'uso indiscriminato di farmaci può
determinare un grave danno alla salute in tempi più o meno brevi.
Il primo caso mortale legato a uso di sostanze dopanti risale al 1886 in Francia, durante una
competizione di ciclismo. In quei tempi si utilizzavano nitroglicerina, cocaina, eroina, trimetilene,
ossigeno, stricnina, come pure zollette di zucchero imbevute di etere o di bevande alcoliche.
Intorno al 1950, la diffusione e la popolarità raggiunte dallo sport agonistico, in particolare calcio e
ciclismo, spingono la medicina dello sport a occuparsi con sempre maggiore interesse dei principali
aspetti di tipo fisiologico e fisiopatologico legati a tali attività, e dell'uso e abuso di farmaci in
generale e di sostanze ad azione ergogenica in particolare.
Nel 1954, in occasione dei Campionati del Mondo disputati in Svizzera, si registra il primo caso di
sospetto intervento farmacologico nel calcio: nei giorni successivi alla finale vinta contro
l'Ungheria, infatti, i giocatori della Germania Occidentale vengono colpiti da un ittero attribuito a
un'intossicazione di natura non determinata. L'ipotesi di doping rimane tuttavia a livello di semplice
congettura.
Nel 1955 la Federazione medico sportiva italiana (FMSI), di fronte al dilagare dell'uso di farmaci ad
attività ergogenica, cerca di intervenire con informative alle varie Federazioni e istituisce specifici
58
accordi con l'Unione velocipedistica italiana per indagini ed eventuali esami clinici e di laboratorio
sui corridori. Sempre nel 1955 iniziano in Francia i primi controlli antidoping nel ciclismo, che
portano al riscontro di circa il 20% di casi di positività. Nello stesso periodo anche la Federazione
internazionale di atletica leggera manifesta analoghe preoccupazioni e la medesima volontà di
opporsi al doping emanando un regolamento che "condanna il drogaggio quando venga attuato con
sostanze che non sono di uso comune e che hanno il potere di aumentare il rendimento fisiologico
dell'atleta".
La Federazione italiana giuoco calcio (FIGC), pur non apparendo il calcio in Italia particolarmente
colpito dal problema doping, mostra un costante interessamento e inizia a operare in merito fin dal
1960. Inizialmente viene svolta un'indagine conoscitiva tesa a raccogliere informazioni sui prodotti
farmaceutici usati dagli atleti al fine di accelerare il recupero della fatica o di potenziare la
prestazione e sull'eventuale somministrazione di farmaci nei periodi antecedenti la partita o durante
l'intervallo della stessa. Tali rilievi vengono eseguiti inviando due medici sui campi di gioco della
serie A e della serie B. Nella stagione 1960-61 vengono eseguite 102 ispezioni all'interno delle
squadre di serie A (con un minimo di tre e un massimo di otto per squadra), mentre 88 riguardano
quelle di serie B (con un minimo di due e un massimo di sette per squadra). L'indagine rileva che i
medicamenti che ricorrono con maggior frequenza possono essere riuniti nei seguenti gruppi: amine
psicotoniche, glucosio e simili (per via orale o endovena), analettici, ormoni ed estratti d'organo,
farmaci cosiddetti dinamogeni, sedativi-tranquillanti, vitaminici e, episodicamente, a seconda delle
necessità, anche antireumatici, antipiretici, miorilassanti, antibiotici e chemioterapici. Nella stessa
stagione, a scopo sperimentale, vengono effettuati 36 esami delle urine su giocatori della serie A e
20 su giocatori della serie B. Gli esami condotti evidenziano una percentuale di circa il 20% di
positività alle amfetamine e lo stesso per quanto riguarda gli alcaloidi. Tra coloro trovati positivi vi
sono giocatori delle più importanti società del Campionato di serie A.
Nelle stagioni successive i controlli diventano progressivamente più approfonditi. Alcuni atleti di
ogni squadra, estratti a sorte, vengono sottoposti a prelievo delle urine nelle quali è ricercata una
serie di sostanze che comprendono in particolare gli stimolanti psicomotori e altri farmaci agenti sul
sistema nervoso centrale. Nella stagione 1962-63 vengono controllati 875 giocatori, con una
positività pari all'1,14%; nella stagione successiva sono effettuati 964 controlli, con nessuna
positività. Il crollo delle positività nei riguardi degli stimolanti psicomotori (prevalentemente
amfetamine) viene giudicato come un successo della campagna intrapresa. Va precisato però che,
all'epoca, l'elenco delle sostanze proibite dalla normativa antidoping della FIGC non risultava
adeguato all'enorme sviluppo della farmacopea, che aveva messo a disposizione successivamente
numerosi composti in grado di incrementare la prestazione.
In Italia il primo caso di sanzioni conseguenti a doping riguarda il Napoli, con quattro giocatori
squalificati per un mese in seguito ai risultati dei prelievi effettuati dopo la partita Napoli-Milan del
27 gennaio 1963. L'episodio più clamoroso avviene però nella stagione 1963-64, quando cinque
calciatori del Bologna vengono accusati di avere fatto uso di amfetamine nella partita Bologna-
Torino. I giocatori vengono inizialmente sospesi, ma la Commissione giudicante con la sentenza del
20 marzo decreta la loro assoluzione, in quanto li ritiene implicati a loro insaputa; viene invece
sanzionata la società, con perdita della partita e penalizzazione di un punto, e sono squalificati per
diciotto mesi l'allenatore e il medico sociale. In seguito a un'iniziativa personale di tre avvocati
bolognesi viene però interessata la magistratura ordinaria, che con un'operazione a sorpresa procede
al sequestro delle provette per le controanalisi. In tali provette non viene trovata traccia di
amfetamine, e ulteriori accertamenti effettuati sui campioni di liquido organico precedentemente
analizzati mostrano che le amfetamine riscontrate non risultano metabolizzate, quindi mai passate
per l'organismo umano. In conseguenza di tali riscontri, nel maggio, la Commissione di appello
federale assolve società, allenatore e medico sociale ritenendo i campioni esaminati manomessi da
personaggi esterni, non identificati.
Nel 1964 il Consiglio federale della FIGC decide una serie di innovazioni, tra cui il sorteggio al
termine della gara, in presenza dell'arbitro, per stabilire l'effettuazione o meno del controllo
59
antidoping, e il deferimento alle Commissioni disciplinari solo dopo il risultato delle seconde
analisi.
Nel 1966 vengono effettuati i primi controlli antidoping in occasione dei Mondiali di calcio. Nel
1967 il Comitato olimpico internazionale (CIO) pubblica la prima lista di sostanze vietate.
Nel 1971 viene promulgata in Italia la legge nr. 1099 sulla 'Tutela sanitaria delle attività sportive',
comprensiva anche di interventi diretti alla repressione del doping. In realtà il disegno di legge
inizialmente presentato dal governo appariva finalizzato esclusivamente alla repressione del doping,
ma alla Camera viene approvato con emendamenti che lo modificano profondamente, facendolo
divenire una legge organica riguardante l'intero settore della tutela sanitaria delle attività sportive.
Nel 1975 viene promulgata una Carta europea dello sport per tutti nella quale si prende in
considerazione e si condanna l'abuso di farmaci. Nel 1978, durante la Seconda conferenza europea,
il Consiglio dei ministri adotta una risoluzione su 'Doping e salute' che enfatizza sia i danni impliciti
nell'uso di farmaci sia l'importanza di trovare efficienti strade per evidenziare l'uso illegale delle
sostanze dopanti. Nel 1981, in Italia viene fondata la Libera associazione dei medici italiani del
calcio (LAMICA) tra i cui compiti rientra anche quello della lotta al doping.
Nel 1984 il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa redige una Carta europea contro il doping
nello sport che invia come raccomandazione a tutti i governi degli Stati membri. Nel luglio 1988 il
Consiglio nazionale del Comitato olimpico nazionale italiano (CONI) emana la direttiva alle
Federazioni sportive nazionali di adottare lo stesso elenco di sostanze e metodi doping previsto dal
CIO, e le stesse sanzioni stabilite dalla Commissione medica del CIO per i casi di positività. Da
allora tale elenco viene annualmente aggiornato dal CIO e conseguentemente recepito dal CONI e
dalla FIGC. Nel 1989 lo Stato italiano emana la legge nr. 401 sulla frode sportiva, legge che
riguarda solo marginalmente il doping intendendolo come mezzo che altera il risultato.
Negli anni successivi il dibattito sul doping prosegue, senza provvedimenti significativi, se non il
progressivo ampliamento, da parte del CIO, della lista di sostanze vietate, alla luce dei sempre
nuovi composti messi a disposizione dalla farmacopea. In tutto questo periodo, malgrado i numerosi
controlli effettuati, i casi di positività nel calcio sono del tutto sporadici; gli eventi più eclatanti
riguardano l'uso di sostanze amfetaminiche oppure, più che veri casi di doping sportivo, l'uso di
sostanze voluttuarie quali i cannabinoidi e la cocaina.
Nel novembre 1997, nel continuo sforzo di adottare misure tese alla protezione della salute
dell'atleta e alla luce del diffondersi dell'uso di eritropoietina, non riscontrabile agli esami
antidoping, il CONI attiva la campagna 'Io non rischio la salute'. Tale progetto prevede di sottoporre
a controlli ematici e urinari atleti praticanti specialità sportive a rischio di assunzione di
eritropoietina e sostanze simili. Il riscontro di valori di ematocrito superiori a 50, nell'uomo, e 48,
nella donna, comporta la sospensione dall'attività per un periodo di quindici giorni, al termine dei
quali viene effettuata una nuova valutazione ai fini della riammissione alle gare. A tale progetto
aderisce anche la FIGC, a partire dalla stagione 1998-99.
Nel luglio del 1998, l'allenatore della Roma, che allora era Zdenek Zeman, rilascia un'intervista in
cui dichiara che nell'ambiente del calcio circolano troppi farmaci. La dichiarazione suscita grande
scalpore e determina l'apertura sia di una inchiesta conoscitiva da parte del CONI sia di vari
procedimenti giudiziari. Un'indagine in relazione a presunte irregolarità nei test antidoping condotti
nel calcio porta fra l'altro alle dimissioni del presidente del CONI, al commissariamento della FMSI
e alla sospensione per tre mesi dell'attività del laboratorio antidoping dell'Acqua Acetosa a Roma.
Le inchieste svolte dalla magistratura successivamente scagionano da ogni accusa i responsabili
della FMSI al riguardo di irregolarità nel laboratorio antidoping, che viene riaccreditato dal CIO e
riprende la sua attività a pieno ritmo. Parallelamente al procedere delle inchieste della magistratura,
le istituzioni sportive mettono in atto iniziative tese a divulgare la conoscenza del pericolo doping e
a combatterne la diffusione. Tra quelle promosse dalla FIGC figurano l'istituzione di apposite
commissioni e inoltre, a opera della Sezione medica del Settore tecnico di Coverciano,
l'organizzazione di convegni e seminari e la pubblicazione di materiale scientifico e divulgativo in
merito ai pericoli del doping.
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In ambito internazionale, in occasione della Conferenza mondiale sul doping nello sport, tenuta a
Losanna nel febbraio 1999, si definisce l'istituzione di un'Agenzia internazionale antidoping
(WADA, World anti-doping agency), con lo scopo di promuovere e coordinare la lotta contro il
doping nello sport internazionale. Istituita nel novembre dello stesso anno e costituita da
rappresentanti del Movimento olimpico e dell'Autorità pubblica in parti uguali, l'Agenzia diviene
pienamente operativa in occasione delle Olimpiadi di Sydney del 2000. La WADA, cui spetta il
compito di emanare e aggiornare l'elenco delle sostanze vietate, rilascia la prima lista, in
collaborazione con il CIO, il 1° giugno 2001, con validità dal 1° settembre 2001 al 31 dicembre
2002 (v. tab.).
Lo Stato italiano, oltre alle già citate leggi nr. 1099 del 1971 e nr. 401 del 1989, nel dicembre 2000
promulga la legge nr. 376 in merito alla 'Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e
della lotta contro il doping', che stabilisce principi innovativi nel settore, infatti con questa legge "la
somministrazione o l'assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente
attive e l'adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche
ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell'organismo al fine di alterare le
prestazioni agonistiche degli atleti" diventa reato penale. Le sanzioni prevedono multe fino a 100
milioni di lire e reclusione da tre mesi a tre anni per chi fornisca sostanze dopanti ad atleti sia
professionisti sia dilettanti; le pene aumentano se il reato è compiuto da un medico, un farmacista o
un dipendente di società sportive e se la somministrazione riguarda atleti minorenni. Altro punto
cardine della riforma è la decisione di sottrarre i controlli antidoping al CONI e affidarli a
un'apposita commissione di vigilanza istituita presso il Ministero della Salute, commissione a cui
viene affidato anche il compito di stilare l'elenco dei farmaci dopanti e determinare i criteri per i
controlli. Il doping diventa così reato punibile anche penalmente come chiesto da numerose
componenti dello sport e della società civile, considerata l'importanza sociale del problema.
Nella stagione 2000-01 il calcio viene interessato da un nuovo caso: l'improvviso aumento delle
positività a un agente anabolizzante, il nandrolone. Risultano coinvolti nove giocatori di serie A e B
che sono prima sospesi e successivamente squalificati. Sul fenomeno vengono aperte numerose
indagini, a opera della Commissione antidoping del CONI, per valutare la possibilità di
un'eventuale contaminazione di integratori assunti dagli atleti.
Alla luce degli ultimi eventi e allo scopo di indicare le linee di comportamento e controllare
l'assunzione di ogni sostanza, integratori compresi, agli inizi della stagione sportiva 2001-02 viene
redatto un 'Codice di comportamento in materia di lotta al doping', sottoscritto da tutte le
componenti del mondo del calcio rappresentate dalla Federazione italiana giuoco calcio, dalla Lega
nazionale professionisti, dalla Lega professionisti di serie C, dalla Lega nazionale dilettanti, dalla
Associazione italiana calciatori, dalla Associazione italiana allenatori di calcio, dalla Libera
associazione medici del calcio e dalla Associazione preparatori atletici del calcio. Tale codice
individua nel medico sociale il soggetto responsabile dei trattamenti prescritti ai calciatori,
trattamenti che devono essere documentati utilizzando uno specifico diario clinico ed effettuati solo
con il consenso informato esplicito da parte del giocatore; il medico è tenuto inoltre a indicare tutti
gli integratori che intende utilizzare nell'arco della stagione. Le società appaiono responsabili delle
eventuali violazioni delle norme di tale codice imputabili ai medici sociali. Allo stesso tempo il
calciatore è tenuto a comunicare al medico sociale ogni prescrizione avvenuta da parte di altro
medico, producendo un'idonea liberatoria. Infine, il calciatore è tenuto a sottoporsi a qualsiasi
analisi che il medico sociale ritenga utile ai fini preventivi nella lotta al doping.
Tabella 1
Aspetti economici
di Marco Brunelli
61
Il calcio, oltre a rappresentare senza dubbio uno straordinario fenomeno sociale, culturale e di
costume nella maggior parte dei paesi del mondo, si è affermato anche come una realtà economica
di enormi proporzioni in almeno tre continenti (Europa, Sud America e Asia), al punto che
attualmente costituisce senza dubbio una delle poche 'industrie globali' del pianeta. All'inizio del 3°
millennio, è giocato da 240 milioni di persone in 204 paesi. Non è certamente un caso che proprio
una partita di calcio sia stato il programma televisivo più visto nel 2000 in 19 paesi europei su 23,
oltre che in Argentina, Brasile, Cile e Perù.
Il Campionato del Mondo giocato in Francia nel 1998 è stato trasmesso in 196 paesi del mondo (per
29.700 ore), totalizzando nel complesso 33,4 miliardi di spettatori. La sola finale tra Francia e
Brasile è stata vista da 1 miliardo di persone. In 153 nazioni si seguono in TV gli incontri del
Campionato inglese. D'altra parte, nei principali 20 Campionati europei giocano calciatori di 102
paesi diversi.
Dei quasi 16 miliardi di dollari che sono stati spesi nel 2000 per sponsorizzare lo sport nel mondo,
più della metà sono andati al calcio, ai suoi club, eventi e campioni. Il diritto di trasmettere il
Campionato nazionale costa ogni anno 2830 milioni di euro alle televisioni di Inghilterra, Italia,
Spagna, Francia, Germania, Brasile, Grecia, Giappone, Olanda, Scozia, Portogallo, Belgio,
Danimarca, Austria, Svizzera e Svezia. Questo dato è evidente prova del fatto che l'attuale
dimensione economica del calcio è strettamente legata alla scoperta del suo valore mediatico e
promozionale, scoperta di fatto piuttosto recente.
In realtà, il calcio si è caratterizzato come un fenomeno economico sin dalle sue primissime origini,
se è vero che già nel 1876, nove anni prima che la Football Association riconoscesse ufficialmente
il professionismo, i club inglesi e scozzesi recintavano il terreno di gioco per far pagare un biglietto
agli spettatori e corrispondevano salari, sotto forma di rimborsi, ai propri giocatori. Quasi altrettanto
antica è l'abitudine di scambiarsi calciatori a cifre elevatissime: 30.000 lire per Renzo De Vecchi
nel 1913; 45.000 per Virginio Rosetta nel 1925; 100.000 lire più una FIAT 509 per Mumo Orsi nel
1929; 625.000 per Valentino Mazzola nel 1942; 2 milioni per Silvio Piola nel 1945. Tuttavia, fino
ai primi anni Ottanta, il giro d'affari del calcio mondiale è stato alimentato soprattutto dai consumi
diretti dei suoi numerosissimi appassionati (biglietti e, in minor misura, scommesse) e dall'apporto
diretto dei soci finanziatori, chiamati spesso a ripianare con mezzi propri bilanci in perdita. In ogni
caso, niente a che vedere con le dimensioni attuali del business.
Il gradimento del pubblico è stato evidente sin dall'inizio: tra il 1905 e il 1914 la finale di Coppa
d'Inghilterra ebbe una media di 79.300 spettatori paganti (con la cifra record di 120.000 nel 1913).
Centomila persone assistettero sia alla finale della prima Coppa Rimet a Montevideo sia a quella
delle Olimpiadi di Berlino nel 1936. In Inghilterra, nella stagione 1948-49, le quattro divisioni
professionistiche totalizzarono 41,3 milioni di presenze negli stadi.
In paesi come l'Inghilterra, l'Italia e la Spagna il calcio ha storicamente alimentato la crescita
dell'industria delle scommesse e dei concorsi pronostici. In Svezia i concorsi pronostici sul calcio
esistono dal 1926, in Inghilterra le scommesse dal 1927, il Totocalcio svizzero nasce nel 1938,
quelli spagnolo e italiano nel 1946. Vi sono concorsi pronostici sul calcio in una trentina di paesi
del mondo, quasi tutti in Europa e Sud America. In Italia, la crescita dei giochi è stata pressoché
ininterrotta tra il 1970 e il 1997, quando le giocate lorde hanno raggiunto i 3831 miliardi di lire, per
poi precipitare in una crisi che prosegue tuttora (1550 miliardi di lire raccolti complessivamente da
Totocalcio, Totogol e Totosei nel 2000, oltre a circa 1200 miliardi di scommesse sportive). In oltre
cinquant'anni di vita, i concorsi pronostici hanno assicurato al calcio italiano quasi 2500 miliardi di
lire di entrate.
Ciononostante, l'assenza di legami significativi tra lo sviluppo del calcio e quello di un settore
produttivo specifico spiega perché, fino agli anni Sessanta, l'impatto di questo gioco sull'economia
non sia stato neanche lontanamente paragonabile a quello di sport come il ciclismo o
l'automobilismo, le cui grandi manifestazioni svolgevano una precisa funzione promozionale per le
rispettive industrie. Anche le sponsorizzazioni sono arrivate, nel calcio, molto più tardi rispetto ad
altri sport come il ciclismo, l'automobilismo, il basket o il tennis. La consacrazione moderna del
62
calcio in quanto industria è, quindi, strettamente legata alla sua affermazione come straordinario
veicolo di comunicazione per le aziende e come contenuto insostituibile per i media di concezione
vecchia (radio, televisione) e nuova (Internet, UMTS). In entrambi i casi, decisivi sono stati gli
eccezionali livelli di ascolto raggiunti. Non solo: nel calcio, tale audience è trasversale e fedele
come in nessun'altra forma di spettacolo, cosa che costituisce un'opportunità irrinunciabile per
inserzionisti pubblicitari e acquirenti di diritti televisivi. In Italia, nella stagione 1996-97 le entrate
da diritti televisivi hanno superato per la prima volta quelle da vendita di biglietti, che attualmente
rappresentano meno del 20% del totale.
Tabella 1
Nella stagione 2000-01, emittenti e sponsor hanno garantito il 66% delle entrate complessive dei
club inglesi di Premier League, e tale percentuale è aumentata ulteriormente, in maniera
significativa, con l'entrata in vigore del nuovo contratto televisivo a partire dal Campionato 2001-
02. In Francia, l'84% del fatturato delle società di prima divisione proviene da televisioni e partner
commerciali, che rappresentano l'83% dei ricavi in Germania, l'81% in Giappone, il 69% in
Portogallo, il 68% in Spagna e il 63% in Olanda.
Tabella 2
I soli diritti televisivi generano oltre il 60% del giro d'affari del Campionato nazionale brasiliano.
Per un club come l'Arsenal, il peso del botteghino è passato dal 93% del fatturato nel 1974 al 42%
nel 1994. Nel caso della Roma, l'incidenza dei ricavi da gare è scesa dal 63% del valore della
produzione nel 1988 al 21% nel 2001.
Tabella 3
In meno di vent'anni, il calcio è risultato decisivo per l'affermazione di alcune delle industrie più
dinamiche della comunicazione e del tempo libero: sponsorizzazioni, pubblicità, merchandising,
televisione commerciale e a pagamento, Internet. Questo, come è ovvio, si è tradotto in un notevole
ritorno economico: se tra il 1946 e il 1988 il fatturato dei club inglesi era cresciuto del 3% all'anno,
nel decennio successivo l'incremento medio è stato del 18%. Negli ultimi cinque anni del decennio
scorso, il giro d'affari dei club è aumentato del 22% a stagione in Inghilterra, del 24% in Italia, del
28% in Spagna, del 15% in Germania e del 22% in Francia. Attualmente nei paesi dell'Unione
Europea, in Brasile e in Giappone il calcio di prima divisione fattura oltre 6400 milioni di euro,
provenienti per il 40% dalla televisione, per il 24% dalla biglietteria e per il 36% da
sponsorizzazioni e altre attività commerciali. Considerando anche l'indotto, il giro d'affari totale del
calcio è di 5200 milioni di euro in Italia e di 3200 in Spagna.
L'aumento delle entrate si è accompagnato, com'era inevitabile, a quello della remunerazione del
principale fattore produttivo: i calciatori. Già nel 1913 un calciatore inglese (i professionisti erano
7000) guadagnava più del doppio di un impiegato. Nel 1929, tre anni dopo che la Carta di
Viareggio, lo statuto emanato dal CONI contenente i punti fondamentali dell'Ente calcio, aveva
sancito la distinzione tra dilettanti e non, Orsi guadagnava 8000 lire al mese (8 volte di più rispetto
a un magistrato). Ma anche in questo caso, è solo dopo il 1960 che il fenomeno si espande e diventa
generalizzato. Gli ingaggi dei calciatori inglesi di prima divisione sono aumentati del 61% tra il
1960 e il 1964 e triplicati tra il 1977 e il 1983, in coincidenza con l'abolizione del tetto salariale e
del vincolo. Tra il 1992 e il 2000, gli anni del boom televisivo, la crescita è stata di oltre sei volte.
Nel 1998 il calciatore medio della Premier League aveva uno stipendio superiore a quello del
Governatore della Banca di Inghilterra e del Primo Ministro. In Italia, nel 1983, lo stipendio medio
lordo annuo di un calciatore di serie A era di 130 milioni di lire, di 782 nel 1994 e di 2150 nel 2001.
Le entrate dei club sono sempre più inadeguate a pagare gli ingaggi dei calciatori: nel 1984, in
63
Italia, gli stipendi assorbivano il 34% dei ricavi, oggi, il 75%. In Inghilterra il 60% (il 38% negli
anni Sessanta), in Scozia il 72%, in Germania il 46%, in Spagna il 55%, in Francia il 64%. Anche la
campagna trasferimenti dei giocatori è andata crescendo di importanza con l'avvento dell'era
televisiva. Da un lato, perché le maggiori risorse a disposizione dei club sono state investite
nell'acquisto di nuovi calciatori: 105 milioni di lire per Jeppson nel 1950; più di un miliardo per
Savoldi nel 1975; 13 miliardi nel 1984 per Maradona; 51 miliardi per Ronaldo nel 1997; 90 miliardi
per Vieri nel 1999; 110 miliardi per Crespo nel 2000; 150 miliardi per Zidane nel 2001. Dall'altro,
perché le società hanno fatto sempre più ricorso alle plusvalenze del calcio-mercato per attenuare i
pesanti deficit operativi causati dall'aumento degli ingaggi dei calciatori e dei procuratori. Nella
sola Europa, i trasferimenti alimentano un mercato da 6700 milioni di euro l'anno.
Questo vorticoso giro di passaggi di calciatori da una società all'altra produce, come inevitabile
conseguenza, l'aumento degli ammortamenti dei diritti pluriennali alle prestazioni dei calciatori
iscritti all'attivo del bilancio dei club, che gravano in maniera sempre più pesante sui conti degli
stessi. Addirittura, nel caso della serie A italiana, il costo totale dei giocatori, determinato dalla
somma degli stipendi e delle quote di ammortamento, ha toccato nella stagione 2000-01 il 124% del
valore della produzione, generando una perdita operativa totale (ovvero prima delle plusvalenze) di
oltre 740 milioni di euro. Altrove, la difficoltà di produrre bilanci in utile si è tradotta nella crescita
esponenziale dell'indebitamento delle società di calcio professionistiche: 931 milioni di euro per i
20 club della Liga spagnola al termine della stagione 1999-2000; 290 milioni per le società di prima
divisione francese nel 2000-01; 230 milioni per quelle del Campionato argentino. Attualmente, nei
paesi dell'Unione Europea, oltre un club su due registra una perdita prima dei trasferimenti dei
giocatori: l'83% delle società in Scozia, il 77% in Portogallo, il 72% in Italia, il 71% in Svezia, il
61% in Francia. Per far fronte a una situazione tanto preoccupante, quasi tutte le Federazioni e le
Leghe europee hanno varato negli ultimi anni, o si apprestano a farlo nel prossimo futuro, rigorose
misure di controllo dei costi dei club: fissazione del numero massimo di giocatori che possono
essere utilizzati da parte di una società; ammissione al Campionato condizionata al rispetto di
determinati parametri di liquidità o solvibilità economico-finanziaria; imposizione di un salary cap
("tetto salariale"). In alternativa, i club stanno cercando di aumentare le proprie entrate, specie
attraverso lo sviluppo in chiave 'globale' di alcuni aspetti del business calcistico che appaiono
ancora marginali, o quantomeno riservati a un numero esiguo di club: lo sfruttamento commerciale
degli stadi, la valorizzazione dei marchi dei club, la quotazione in Borsa, l'integrazione con aziende
dell'entertainment. Tra il 1990 e il 2000 i club inglesi hanno investito 1070 milioni di sterline nel
miglioramento degli stadi, che sono diventati per molte società fonti di reddito assai importanti. Il
Manchester United, per esempio, ricava 30 milioni di euro dall'affitto alle aziende di palchi e altri
posti di rappresentanza all'interno dell'Old Trafford, oltre a 13 milioni di euro dalle attività di
ristorazione e dall'affitto delle sale convegni presenti nello stadio, su un fatturato complessivo di
210 milioni (2000-01). Ancora più ampia è la diversificazione delle entrate del Chelsea, che si
estende ben al di là della sola gestione polifunzionale dello stadio: la squadra di calcio produce 81
dei quasi 151 milioni di euro che costituiscono il giro d'affari complessivo del club; il resto
proviene dall'attività di un'agenzia viaggi (42 milioni di euro), da servizi alberghieri e di
ristorazione (19), dalla vendita di prodotti col marchio della società (7,6), dalla gestione di
parcheggi e attività editoriali (0,6), dall'amministrazione di proprietà immobiliari (0,2).
Secondo una recente indagine della società FutureBrand, 15 club calcistici (4 inglesi, 3 italiani e
brasiliani, 2 spagnoli, uno tedesco, scozzese e olandese) figurano tra i 40 marchi sportivi più
importanti del mondo, in termini di notorietà, palmarès, seguito internazionale di tifosi e
sfruttamento commerciale del proprio nome. Solo tre di questi, tuttavia, Manchester United, Real
Madrid e Bayern Monaco, occupano uno dei primi 15 posti, a riprova di come, soprattutto per i club
italiani, le potenzialità di valorizzazione del marchio a livello mondiale siano ancora largamente
inesplorate, specie se paragonate a quelle di molti team professionistici americani.
Per 23 club inglesi (il primo è stato il Tottenham nel 1983, seguito dal Manchester United nel
1992), 6 danesi, 4 scozzesi, 3 italiani, 2 portoghesi, uno olandese e uno tedesco la quotazione in
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Borsa ha rappresentato negli ultimi anni una valida alternativa all'autofinanziamento o
all'indebitamento bancario, tradizionali fonti di approvvigionamento finanziario delle società di
calcio. Nel 2001, la capitalizzazione complessiva dei club europei in Borsa è di 4360 miliardi di
lire. Nel 2001, importanti aziende della comunicazione e dell'entertainment figuravano tra gli
azionisti di club calcistici di Inghilterra, Italia, Francia, Germania, Grecia, Svizzera, Scozia, Brasile,
Austria, Svezia e Repubblica Ceca. In qualche caso, tali imprese hanno visto nel calcio il veicolo
decisivo per incrementare le proprie entrate tradizionali (abbonamenti televisivi e pubblicità), come
BSkyB in Inghilterra, o per sviluppare congiuntamente con i club nuovi prodotti e servizi (canali
tematici, portali Internet, servizi new media), come Granada e NTL sempre in Inghilterra. Altre
aziende hanno puntato su squadre minori nella speranza di ottenere un ritorno futuro in caso di
promozione nelle serie superiori, come Kinowelt in Germania. Altre ancora sono state spinte dal
desiderio di diversificare le proprie attività, originariamente confinate nell'ambito dello sport
marketing, come IMG e Octagon. In tutti i casi, le società calcistiche ne hanno tratto significativi
vantaggi, in termini di apporto di capitali, competenze e possibili sinergie operative. La quotazione
in Borsa, insieme all'integrazione dei club con aziende televisive o dell'entertainment, costituisce
secondo molti osservatori una prova evidente del processo di trasformazione in atto delle società
calcistiche in vere e proprie imprese.
Il calcio-mercato
di Franco Ordine
"Il passaggio di un calciatore da una società all'altra è consentito per imprescindibili motivi di
famiglia o di lavoro": datata 1911 e redatta in un italiano asciutto che non indulge a doppiezze né a
equivoci, questa è la prima norma che introduce negli scarni regolamenti dell'epoca il complesso e
spettacolare fenomeno poi passato sotto la definizione di calcio-mercato. È quindi possibile
affermare che il mercato esiste sin dalle origini del calcio italiano. Le trattative, su cui si è sempre
appuntato l'interesse delle cronache, un tempo si svolgevano in pochi giorni o settimane,
avvenivano in un albergo e più avanti in complessi residenziali, mentre adesso risultano estese
all'intero anno e si moltiplicano attraverso circuiti di moderna comunicazione, come Internet e
telefoni cellulari.
Varata la norma, fu subito trovato il modo di aggirarla, con opportune variazioni dei posti di lavoro.
Tra i primi a far ricorso a simili escamotage, vi fu un esperto dirigente del Genoa, deciso a reclutare
rinforzi per la propria squadra in modo di metterla al passo della Pro Vercelli, a quel tempo al
vertice delle classifiche. Aristodemo Santamaria e Renzo De Vecchi erano i due calciatori oggetto
delle mire genoane. Per il primo, mezzala dell'Andrea Doria, bisognò sfidare l'ira dei tifosi doriani e
i veleni di un'inchiesta nata dal sospetto di un compenso (300 lire) illecito; per il secondo, terzino
del Milan ed esponente della nazionale, chiamato 'figlio di Dio' per la sua classe, si trovò
un'occupazione a Genova quale fattorino presso un istituto bancario. Il risultato premiò gli sforzi
dell'anonimo dirigente ligure: il Genoa vinse lo scudetto, De Vecchi incassò una promozione a
fattorino di direzione dal suo datore di lavoro e, quel che più conta, un premio speciale, 3 marenghi
d'oro del valore di 100 lire ciascuno, dal club. Nel 1925 ad aggirare la norma fu la Juventus, decisa
ad arruolare Virginio Rosetta, terzino anche della nazionale, impiegato a Vercelli come contabile
presso le manifatture Lane, con uno stipendio di 1050 lire al mese. Il passaggio di Rosetta fu
effettuato seguendo un percorso analogo a quello di De Vecchi: un trasferimento alla conceria
Aimone-Marsan di Torino con l'identico stipendio e la promessa di un sostanzioso contributo spese,
integrato da ricchi premi. L'affare si trasformò in un caso e finì con l'occupare le scarne cronache
dei giornali, quando il reclamo di una squadra concorrente, il Genoa stavolta, segnalò il passaggio
durante lo svolgimento della stagione in cui Rosetta stesso risultava tesserato della Pro Vercelli.
Appena fu possibile ‒ con lo scudetto al Genoa e la Juventus penalizzata ‒ ristabilire l'ordine nel
Campionato, Rosetta raggiunse Torino senza più proteste: in cambio la Pro Vercelli incassò
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ufficialmente il pagamento, tutt'altro che modesto, di 45.000 lire. La cifra fu superata, sul finire
degli anni Venti, dalle 200.000 lire pretese dalla Lazio per cedere all'Inter il suo centromediano
Fulvio Bernardini, già ragioniere presso la Banca nazionale di Credito.
Dopo l'istituzione del girone unico di serie A (1929), grazie alla quale il calcio, divenuto oggetto
dell'interesse propagandistico del regime fascista, varcò i confini regionali, furono prese due
decisioni di segno opposto, ambedue a opera del presidente della Federazione Leandro Arpinati. Da
un lato si procedette alla chiusura delle frontiere, dall'altro si decise d'incrementare l'arrivo degli
oriundi, giocatori provenienti da altre nazioni ma dalle scontate origini italiane. I controlli furono
severi: Orsi, destinato alla Juventus, restò fermo per un anno, nonostante la spesa sopportata
(100.000 lire il contratto, 5000 lire mensili lo stipendio a lui riconosciuto). A inaugurare la serie
degli oriundi fu l'argentino Julio Libonatti, idolo dei tifosi del Rosario, che fu scelto dal presidente
del Torino, il conte Marone Cinzano, nel corso di uno dei suoi viaggi d'affari in Sud America. Nella
sua scia giunsero successivamente Monti, Orsi e Guaita, che fecero addirittura parte della nazionale
azzurra campione del Mondo nel 1934.
Fu a quei tempi che cominciò ad affacciarsi alla ribalta internazionale una figura tipica del calcio-
mercato: il faccendiere, chiamato a seconda dei periodi e delle occasioni sensale o mediatore, e poi
consulente e infine procuratore, ma comunque caratterizzato dal fatto di riscuotere ricche
percentuali sugli affari conclusi. I primi esponenti della categoria furono attivi lungo le rotte
calcistiche che collegavano l'Europa al Sud America, in particolare all'Argentina e al Brasile: si
trattava di avventurieri capaci di ricorrere a qualsiasi trucco, pur di dirottare un calciatore da una
società all'altra. Avvenne, per esempio, che un argentino acquistato dalla Juventus, Sernagiotto,
sbarcasse a Genova con in tasca il contratto per il Napoli, propostogli durante il viaggio da tale
Schettini, in seguito smascherato. Una beffa ancora peggiore fu operata dall'Ambrosiana ai danni
della Juventus nel marzo del 1940, alla vigilia della Seconda guerra mondiale: il presidente
dell'Ambrosiana, Pozzani, dopo aver ricevuto da Roma una 'soffiata' sull'imminente entrata in
guerra dell'Italia, offrì al collega bianconero De Divonne tre forti giocatori, Locatelli, Olmi e
Perucchetti, in cambio della considerevole cifra di 600.000 lire; l'affare fu concluso rapidamente,
ma fu reso inefficace dalla successiva sospensione del Campionato.
Anche la politica ha esercitato la sua influenza sul calcio-mercato. Un caso tipico fu il colpo di
mano che riguardò Silvio Piola: centravanti della Pro Vercelli, 51 gol in quattro Campionati, venne
d'ufficio convocato in una caserma romana, sicché il suo trasferimento alla Lazio, preparato da un
presidente in ottime relazioni con Mussolini, poté avvenire "per obblighi militari". A guerra finita,
un episodio analogo accadde in Spagna, quando due società storicamente rivali, il Real Madrid e il
Barcellona, si ritrovarono a disputarsi i servigi del fuoriclasse argentino Alfredo Di Stefano, allora
venticinquenne, che era stato appena ceduto da un club considerato fuori legge dalla FIFA, i
Millonarios di Bogotá al River Plate di Buenos Aires. I dirigenti di Madrid trattarono con i
colombiani, i rappresentanti di Barcellona con gli argentini. Il braccio di ferro si risolse con una
proposta ambigua della Federazione spagnola: Di Stefano avrebbe potuto giocare un anno a Madrid
e uno a Barcellona. I catalani respinsero la mediazione e fu la fortuna del Real.
Tabella 1
Due episodi ancora più clamorosi nella storia del calcio-mercato risalgono a tempi più recenti. Nel
1981, un attaccante slavo di discreta fama, Safet Susic, riuscì a firmare, nella stessa sezione di
calcio-mercato, ben tre contratti: uno con l'Inter di Fraizzoli, uno con il Torino di Sergio Rossi, uno
con la Roma di Viola. Il presidente della Lega professionisti dell'epoca, Antonio Matarrese, ne
decretò immediatamente l'espulsione. Nel 1995 Luis Figo, 23 anni, promettente portoghese dello
Sporting di Lisbona, finì nelle mani di un procuratore senza scrupoli e vide svanire le intese
sottoscritte prima con la Juventus e poi con il Parma. Non poté venire in Italia e si fermò a
Barcellona, il che peraltro non gli ha danneggiato la carriera.
Quando il calcio-mercato, da affare episodico riservato a pochi addetti, si trasformò in un fenomeno
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di costume, in un appuntamento atteso e seguito da giornali e tifosi, la rassegna ebbe la necessità di
eleggere una città a sua sede stabile e di modificare abitudini e regolamenti per adeguarli alla statura
dei personaggi nel frattempo saliti alla presidenza di molte società di calcio. Fra i nomi più illustri,
oltre agli Agnelli, la cui supremazia nella Torino bianconera rimaneva indiscussa, basti ricordare i
Rizzoli per il Milan, il petroliere Angelo Moratti per l'Inter, il comandante Achille Lauro, sindaco di
Napoli e patron della squadra, il conte Marini Dettina, presidente della Roma, Renato Dall'Ara,
padrone del Bologna, Paolo Mazza, presidente della Spal salita in serie A. Nella loro scia, lungo i
saloni dell'albergo Gallia, nei pressi della stazione Centrale di Milano (il calcio-mercato avrà qui la
sua sede fino al 1976, quando sarà trasferito all'hotel Hilton, a 50 metri di distanza), nel mese di
giugno una folla di curiosi poteva seguire da vicino le schermaglie e le trattative imbastite da
dirigenti competenti, come Gipo Viani e Bruno Passalacqua del Milan, Italo Allodi dell'Inter, e
Andrea Arrica del Cagliari, oltre che da personaggi minori. Nasceva così la leggenda del calcio-
mercato. Su invito di uno stravagante principe siciliano, Raimondo Lanza di Trabìa, i presidenti si
incontravano per cena in un paio di ristoranti milanesi dalle parti di piazza Missori, e passavano poi
la notte in albergo a discutere di gol e di rigori parati, di terzini e mediani da distribuire nelle varie
squadre d'Italia. Accanto ai resoconti veritieri, fiorivano gli aneddoti, i pettegolezzi e le cronache
fantasiose, incentrate soprattutto sulle imprese di Lanza di Trabìa, proprietario terriero in Sicilia,
presidente del Palermo ma residente a Roma, sposato con l'attrice Olga Villi. Quando morì suicida,
a soli 39 anni, il principe lasciò in eredità alla moglie la proprietà del cartellino di Enrique
Martegani, giocatore argentino passato dal Padova al Palermo e poi alla Lazio, abile nel palleggiare
ma di scarso valore. L'episodio diede a Garinei e Giovannini lo spunto per un musical dal titolo La
padrona di Raggio di luna.
L'Italia intanto si avviava alla completa ricostruzione e sembrava anzi galvanizzata dal boom
economico: mentre venivano riaperte le frontiere per i giocatori stranieri e i club si andavano
trasformando in società per azioni senza scopo di lucro (riforma del presidente della Federazione,
Giuseppe Pasquale), gli ingaggi diventarono milionari. A sfatare il tabù del milione, aveva
provveduto, già nel 1942, Ferruccio Novo, presidente del Grande Torino, grazie all'assegno versato
al Venezia per ottenere Loik e Valentino Mazzola, decisivi per completare la fortissima formazione
granata. Nel 1950, nell'intento di strappare alla concorrenza della Roma lo svedese Hasse Jeppson,
centravanti messosi in luce nell'Atalanta, Lauro arrivò a versare la cifra record di 105 milioni. La
firma dell'accordo tra l'armatore napoletano e il senatore Turani, presidente dell'Atalanta, avvenne
al termine di una cena in un ristorante napoletano.
Il vincolo, cioè l'obbligo di rispettare la volontà della società, e spesso qualche suo capriccio,
rendeva vulnerabile la figura del calciatore, mentre risultava decisivo il ruolo del dirigente. Agli
inizi degli anni Cinquanta vennero introdotte, a questo proposito, due importanti innovazioni
regolamentari: l'opzione, cioè la possibilità di prenotare in anticipo l'acquisto di un calciatore, e la
comproprietà, cioè l'acquisto del 50% del cartellino, per la quale il tesserato veniva a trovarsi al
servizio di due padroni.
Negli anni Settanta i debiti delle società e le cifre spese per gli ingaggi crebbero a dismisura. Dopo
la sconfitta della nazionale di Fabbri ai Mondiali inglesi del 1966, le frontiere erano state
nuovamente chiuse e tali sarebbero rimaste fino al 1980: restavano tesserabili solo gli oriundi,
mentre le valutazioni dei pochi campioni italiani salivano alle stelle. A rendere meno complicate le
trattative, ma più oneroso il loro costo, provvedevano i mediatori, chiamati 'mister 5%' per indicare
l'ammontare richiesto per ciascun affare concluso. Tra i più famosi furono Walter Crociani e Romeo
Anconetani, poi diventato presidente del Pisa.
Il muro del miliardo fu sfiorato per la prima volta dalla Juventus, passata sotto la guida di
Giampiero Boniperti, che nel 1974 acquistò dal Como per 950 milioni il terzino Marco Tardelli, per
altro già promesso all'Inter di Fraizzoli. Presto anche gli altri presidenti si adeguarono. Nel 1975 il
costruttore napoletano Corrado Ferlaino, erede di Lauro, annunciò l'acquisto dal Bologna del
centravanti Savoldi, per una cifra superiore al miliardo, che fece gridare allo scandalo. Nel 1984,
riaperte le frontiere, lo stesso Ferlaino, grazie a un prestito del Banco di Napoli, avrebbe versato 13
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miliardi al Barcellona per assicurarsi Maradona.
Il calcio era ormai diventato una vera industria dello spettacolo, alla quale una serie di nuovi
regolamenti tentava di dare una disciplina. Al vincolo fu sostituita la firma contestuale, voluta
dall'avvocato Sergio Campana, battagliero presidente dell'Associazione italiana calciatori (il
sindacato di categoria fondato nel 1968), in virtù della quale senza il consenso del tesserato non si
poteva procedere al suo trasferimento. Il primo a imporre la propria volontà fu Gigi Riva, mai uscito
dalla Sardegna, nonostante gli affari conclusi una volta con la Juventus e un'altra con il Milan. In
seguito, però, i giocatori si mostreranno meno determinati nei loro rifiuti, e pronti a cambiare idea e
destinazione di fronte a offerte più remunerative. Per combattere in modo efficace la figura del
mediatore, Campana nell'estate del 1978 presentò un esposto al pretore di Milano Costagliola, il
quale dispose la perquisizione della sede del calcio-mercato. Negli stessi giorni Juventus e Vicenza
si contendevano un promettente centravanti, Paolo Rossi. L'ebbe vinta il presidente del Vicenza,
Giuseppe Farina, che pagò 2,6 miliardi per la comproprietà. Franco Carraro, allora presidente della
Lega professionisti, si dimise per protesta.
La possibilità di ingaggiare prima uno, poi due, quindi tre stranieri per squadra ha interamente
modificato il calcio-mercato, dando vita a una sua nuova formulazione sulla quale hanno poi
influito altri importanti fattori, primi fra tutti la quotazione in Borsa delle società (inaugurata dalla
Lazio, seguita dalla Roma e dalla Juventus) e la cosiddetta 'sentenza Bosman'. Quest'ultima è stata
emessa nel dicembre 1995 dall'Alta Corte di Giustizia europea, dopo il ricorso di Jean-Marc
Bosman, calciatore belga di modesta fama, e ha decretato la libertà di circolazione dei calciatori
nell'ambito dell'Unione Europea. Nel frattempo le società sono andate riconoscendo ai loro tesserati
stipendi sempre più alti e contratti di durata sempre più lunga, e per gli ingaggi si sono susseguite
sempre più vertiginose cifre-record: Zidane pagato 150 miliardi, Figo valutato 143 miliardi, Crespo
acquistato per 110 miliardi.
Infine, nel settembre 2001, l'ultima riforma, ottenuta dopo una mediazione tra Unione Europea e
Federazione mondiale. Si tratta di una svolta epocale, in quanto consente al calciatore di rescindere
un contratto in atto. Il giocatore è quindi libero di guadagnare sempre più, insieme con i suoi
procuratori, diventati a tutti gli effetti i nuovi padroni del mercato. In Italia spiccano i nomi di figli
d'arte, come Alessandro Moggi, figlio di Luciano, il potente direttore generale della Juventus, di
qualche calciatore dal passato importante, come Oscar Damiani, o di manager di solida fama, come
Giovanni Branchini, proveniente dalla boxe. Del Gallia non c'è più traccia nelle cronache, ma il
calcio-mercato continua a occupare i titoli dei giornali e dei telegiornali.
Il calcio e la televisione
di Marco Brunelli
L'affermazione della televisione ha avuto sullo sviluppo del calcio moderno un impatto
stupefacente, arrivando a rivoluzionare le basi economiche dell'attività dei club. Fino ai ricchissimi
contratti televisivi degli anni Novanta, infatti, l'industria del calcio era ben diversa da oggi, tanto in
Italia quanto all'estero. Addirittura, in alcuni periodi, è sembrato che il calcio non fosse in grado di
reggere la sfida competitiva con altre attività del tempo libero, che attiravano pubblico e consumi in
misura maggiore. Negli anni 1993-2002, i ricavi dalla cessione dei diritti televisivi del Campionato,
nel frattempo estesisi anche ai diritti Internet, UMTS e altri nuovi media, sono passati da 190
miliardi di lire a 1880 in Inghilterra, da 108 a 995 in Italia, da 75 a 460 in Spagna, da 180 a 750 in
Germania e da 63 a 770 in Francia, e sono diventati di gran lunga la prima voce di entrata dei club.
In complesso, nel periodo 1991-2001, le cinque principali Leghe calcistiche europee hanno visto
aumentare il valore dei loro diritti televisivi, Internet e UMTS in media del 993%. Il 'valore'
televisivo della UEFA Champions League è aumentato in misura enorme, facendo passare le entrate
complessive dei club partecipanti da 38 milioni di franchi svizzeri (1993) a 730 (2001). Ancora più
impressionante è l'impennata dei diritti televisivi della Coppa del Mondo: la FIFA ha ceduto quelli
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relativi alle edizioni 2002 e 2006 per 2,8 miliardi di franchi svizzeri, contro i 95 milioni del 1990, i
110 del 1994 e i 135 del 1998.
Tabella 1
Alla base di questi aumenti vi sono la crescita della concorrenza tra emittenti televisive, la comparsa
di nuovi mercati e di nuove tecnologie (televisione a pagamento, televisione digitale, banda larga,
integrazione tra televisione, Internet e telefoni cellulari), ma soprattutto l'affermazione dello sport, e
del calcio in particolare, come un contenuto irrinunciabile per qualsiasi programmazione televisiva.
Tutti i dati confermano la natura di killer content del calcio: 28 dei 30 programmi più seguiti di tutti
i tempi della TV italiana sono state partite della nazionale o finali di Champions League con
squadre italiane; 19 delle 20 trasmissioni sportive complessivamente più viste in Europa nel 2000
sono stati incontri di calcio.
La convergenza fra TV, Internet e nuovi media intensificherà ulteriormente il fenomeno: l'UEFA ha
recentemente stimato in un miliardo di franchi svizzeri le entrate aggiuntive che i club europei
potrebbero ricavare nei prossimi dieci anni dalla vendita dei diritti Internet. La disponibilità delle
immagini delle partite di calcio viene ritenuta un elemento decisivo per il decollo dei servizi UMTS,
come dimostrano i ricchi contratti sottoscritti da Hutchison 3G con una decina di società italiane e
con la Premier League inglese, e da Orange con i club francesi. Lo stesso contratto di
sponsorizzazione siglato dal Manchester United con Vodafone, il più caro della storia, risponde a
questa logica.
Paradossalmente, però, l'aumento delle entrate TV, avendo portato con sé quello degli stipendi dei
calciatori, ha finito per penalizzare la redditività dei club. I calciatori inglesi sono addirittura arrivati
a codificare questo principio, minacciando di non giocare se i loro guadagni non fossero stati legati
ai nuovi contratti televisivi della Lega. La TV ha comunque mutato le prospettive delle grandi
organizzazioni calcistiche mondiali. Da quando è lievitato il valore dei diritti televisivi, FIFA e
UEFA hanno smesso di essere semplici istituzioni che amministrano le competizioni internazionali,
per trasformarsi in agenzie di commercializzazione delle stesse, sul modello delle Leghe
professionistiche americane o della Premier League inglese. Inoltre, è stato proprio il mezzo
televisivo a ideare nuove manifestazioni. È infatti naturale, dal momento che il calcio costituisce un
fenomeno così importante per le emittenti, che queste pensino a costruirsi avvenimenti su misura:
dal Mundialito clubs proposto dalle reti Fininvest nel 1981 alla Superlega Europea progettata da
altri grandi gruppi televisivi e agenzie mediatiche.
La TV ha poi ridefinito le gerarchie e, in qualche misura, la geografia del calcio: il bacino di utenza
televisivo è diventato la vera misura del valore di mercato di un club, persino al di là dei suoi
risultati sportivi. Inevitabilmente, la ripartizione sempre più squilibrata delle maggiori risorse
televisive ha accresciuto il divario tra grandi e piccole società.
Sul modo stesso di giocare a calcio il mezzo televisivo ha esercitato una notevole influenza: per
sfruttare o accontentare la TV si sono cambiati i formati (la Champions League), i calendari (gli
anticipi e i posticipi), gli orari (le partite giocate a mezzogiorno durante il Mondiale americano), le
regole delle competizioni (i tre punti a vittoria, il golden gol). D'altra parte, la presenza di tante
telecamere ha certamente assicurato incontri più regolari e in alcuni paesi, come la Germania e
l'Inghilterra, la prova televisiva ha addirittura consentito, in alcuni casi, di ripetere gare viziate da
errori tecnici.
La TV ha modificato anche le abitudini degli spettatori. Le partite trasmesse in televisione sono
ormai in maggioranza a pagamento: nella stagione 2000-01 il Campionato è stato trasmesso in
chiaro solo in Spagna, Portogallo, Austria e Svizzera, e anche gli incontri della Champions League
sono per la maggior parte criptati. Lo spettatore si è abituato, dunque, a tecnologie di ripresa
sofisticate, pluralità di punti di osservazione, grafica virtuale, statistiche, replay, moviola, interviste
pre- e post-partita, regia personalizzata (TV interattiva), e non è più disposto a rinunciarvi. Il calcio
televisivo è diventato un succedaneo di quello allo stadio, al punto che è prevedibile che non sono
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pochi i tifosi che hanno smesso di seguire le loro squadre in trasferta, come accadeva
frequentemente un tempo, potendo vedere meglio la partita in televisione. Secondo alcuni, anzi, il
calcio diventerà quasi gratuito allo stadio perché lo si farà pagare soprattutto in televisione.
La dimensione del fenomeno è tale che per regolamentare il rapporto fra calcio e televisione sono
state necessarie nuove leggi. In molti paesi, è stato tutelato il diritto del pubblico a vedere in TV
brevi estratti degli incontri indipendentemente da chi ha acquistato in esclusiva i diritti (diritto di
cronaca). Per contrastare la formazione di posizioni anticompetitive sul mercato, sono state
disciplinate sia la titolarità dei diritti sia le modalità di negoziazione degli stessi (collettiva o
individuale). Una direttiva dell'Unione Europea ha imposto ai paesi membri di definire gli eventi di
rilevanza generale, la cui visione deve essere accessibile a tutti: partite della nazionale; fasi finali
delle maggiori competizioni mondiali; eventi simbolo a livello nazionale come, per es., la finale
della Coppa di Inghilterra.
Infine, la TV ha cambiato l'organizzazione e la struttura dei club: la figura dell'addetto stampa ha
lasciato il posto a quella del responsabile dell'area comunicazione. Nuove figure professionali,
specializzate nella vendita dei diritti, sono entrate negli organigrammi. Grandi gruppi televisivi o
agenzie specializzate nella commercializzazione dei diritti sono diventati azionisti di riferimento di
club in Italia, Inghilterra, Scozia, Francia, Germania, Svezia, Grecia, Svizzera, Brasile.
Inevitabilmente, però, anche il calcio ha trasformato la televisione. Dal primo incontro trasmesso in
TV (Everton-Arsenal dalla BBC), nel 1936, vi sono stati molti cambiamenti. In particolare in Italia
sono legate al calcio alcune tappe fondamentali della storia della televisione: il palinsesto del primo
giorno di trasmissioni (3 gennaio 1954), che aveva il suo pezzo forte nella Domenica Sportiva; la
diffusione al Sud (30.000 apparecchi venduti in pochi giorni prima di un Napoli-Fiorentina del
1955); l'avvento del colore (in occasione dei Mondiali del 1978); il boom delle emittenti locali; la
rottura del monopolio RAI all'inizio degli anni Ottanta; la comparsa della pay-tv e della pay-per-
view; la sperimentazione di nuovi linguaggi, tecnologie e modalità di ripresa.
Il futuro del calcio in televisione è legato alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie e, in
particolare, al grado di complementarità, piuttosto che di sostituibilità, che queste presenteranno
rispetto al mezzo televisivo tradizionale. Non c'è alcun dubbio che il calcio continuerà a
rappresentare, per tutti gli operatori della comunicazione, un contenuto insostituibile, e dunque
preziosissimo, per l'affermazione di qualsiasi nuovo media. L'acquisto, nel giugno 2001, da parte di
Hutchison 3G UK dei diritti per la telefonia mobile di terza generazione del Campionato inglese di
Premier League, valutati circa 60 milioni di euro per tre stagioni (l'accordo più caro negoziato fino a
oggi in Europa), è stato motivato dall'azienda con la possibilità di differenziare nettamente i
contenuti del proprio servizio di telefonia cellulare da quelli dei principali concorrenti, offrendo in
esclusiva risultati, notizie, resoconti di partite, immagini statiche e in movimento e materiale di
archivio di uno dei tornei più importanti del mondo, praticamente in tempo reale.
La novità più rilevante, rispetto alla televisione attuale, consisterà nella personalizzazione sempre
più marcata dei contenuti, per rispondere alle esigenze di un'audience molto più frammentata di un
tempo, e nella ricerca continua dell'interazione con il pubblico. Forme di comunicazione che oggi
appaiono residuali o di nicchia acquisteranno una rilevanza precisa, anche in termini di redditività,
proprio perché consentiranno di raggiungere gruppi di utenti che, per quanto poco numerosi, si
caratterizzano tuttavia per un'omogeneità di gusti, una fedeltà di ascolto e una predisposizione
all'interazione del tutto sconosciute al pubblico televisivo attuale. Molti nuovi media consentono,
inoltre, una gestione diretta della comunicazione, a costi moderati e con ritorni potenzialmente
molto interessanti dal punto di vista sia economico sia della possibilità di interagire senza
intermediari con la propria base di utenti/tifosi. Si spiega così, per esempio, il moltiplicarsi dei
canali televisivi tematici offerti direttamente dai club calcistici in partnership con primari gruppi
media, su piattaforme digitali (Olympique Marsiglia, Lione, Roma, Milan, Inter, Barcellona, Real
Madrid, Chelsea, Manchester United), via cavo (Middlesbrough, partito per primo nel febbraio
1998) o attraverso Internet (Arsenal, Chelsea, Liverpool, Leeds United). Alle prospettive
dell'autoproduzione televisiva guardano con interesse anche alcune Leghe professionistiche
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europee: Inghilterra, Germania, Scozia, Belgio, Danimarca. Il palinsesto standard dei canali
autoprodotti è costituito dalle telecronache integrali delle partite (attualmente in differita per tutelare
l'esclusiva delle emittenti che hanno acquistato i primi diritti del Campionato), da brevi estratti
riassuntivi (highlights), notiziari, interviste, immagini di archivio, cronache degli allenamenti,
partite delle squadre giovanili, che consentono agevolmente di coprire 6-12 ore di programmazione
giornaliera. In prospettiva, con la definitiva affermazione delle modalità di trasmissione a banda
larga, l'utilizzo di Internet da parte di Leghe e club calcistici come canale di diffusione delle
immagini diventerà preponderante. Secondo un'inchiesta realizzata nel 1999 da GlobeCast, il 68%
degli operatori della televisione e dei dirigenti delle grandi organizzazioni sportive ritiene che, entro
il 2009, Internet diventerà la principale piattaforma di distribuzione dei contenuti sportivi,
prendendo progressivamente il posto della televisione a pagamento. I grandi vantaggi di Internet
sono rappresentati dalla sua utenza mondiale, dal carattere non mediato e fortemente interattivo
della comunicazione e dai costi di avviamento, sviluppo e gestione notevolmente inferiori a quelli
di una piattaforma televisiva, che lo rendono un canale di comunicazione facilmente accessibile a
club, Federazioni e Leghe sportive.
Calcio e Sponsor
di Marco Brunelli
Se il calcio è, in Europa e nel mondo, lo sport più diffuso, più praticato, più seguito in televisione e
più letto sui giornali, appare naturale che a esso si rivolgano con sempre maggiore insistenza le
aziende che hanno bisogno di promuovere la propria immagine o i propri prodotti. Tutte le ricerche
di mercato più recenti sono, tuttavia, d'accordo nell'affermare che la straordinaria forza del calcio
come veicolo di comunicazione non dipende solo dall'ampiezza della sua audience, ma soprattutto
dalla qualità del pubblico che esso riesce ad attirare. Gli appassionati di calcio sono fedeli come
nessun altro consumatore, assidui, attenti, partecipi fino in fondo di ciò che vedono e sentono,
passionali, inclini a lasciarsi coinvolgere emotivamente.
Il pubblico del calcio è, per definizione, il più trasversale che esista: ne fanno parte uomini e donne,
giovani e anziani, persone di tutte le professioni, fasce di reddito e categorie sociali, abitanti di ogni
regione del paese. Tuttavia, come sanno da sempre gli appassionati, i tifosi non sono tutti uguali. Il
supporter del Manchester United è quanto mai diverso da quello del Manchester City. La torcida
del Palmeiras non ha nulla a che vedere con quelle delle altre squadre di San Paolo: Corinthians,
San Paolo, Portuguesa. I fans dell'Arsenal non possono che essere originari di quel quartiere a nord
di Londra. I tifosi dell'Athletic di Bilbao non possono essere confusi con quelli di nessuna altra
squadra spagnola. Il calcio è, per questo, uno dei canali di collegamento con il territorio più efficaci
che le aziende hanno a loro disposizione.
Negli ultimi anni le tecniche di segmentazione del mercato applicate al calcio hanno fatto passi da
gigante, consentendo alle aziende di differenziare enormemente il loro approccio a questo canale di
marketing, utilizzandolo in maniera personalizzata, flessibile e mirata. Non solo: gli sponsor si sono
resi conto che, pur nella trasversalità di fondo che caratterizza la loro composizione, gli appassionati
di calcio si concentrano nelle categorie sociodemografiche più ricercate dalle aziende, a cominciare
da quelle a più elevato potere di acquisto. Ciò ha indubbiamente accresciuto l'efficacia del calcio
come strumento di comunicazione commerciale. Secondo uno studio condotto nel 2001 da Oliver &
Ohlbaum Associates, il 43% del mercato europeo delle sponsorizzazioni sportive, pari a 5,5 miliardi
di euro nel 2000, è stato destinato al calcio. Tale dato è confermato da una ricerca realizzata in Italia
nel 1999 da Forces, secondo la quale il 53% delle aziende che scelgono di utilizzare lo sport come
veicolo promozionale optano per il calcio.
Il termine 'sponsorizzazione' viene comunemente usato in senso assai ampio. In realtà, la
partnership tra una o più aziende e un club, un'organizzazione calcistica, un testimonial o un evento
può assumere forme molto diverse tra loro. Una prima distinzione fondamentale riguarda
71
sponsorizzazione e pubblicità. Secondo la definizione contenuta nel Codice delle sponsorizzazioni
della Camera di commercio internazionale (1992) la sponsorizzazione è "ogni forma di
comunicazione per mezzo della quale uno sponsor fornisce contrattualmente un finanziamento o un
supporto di altro genere, al fine di associare positivamente la sua immagine, la sua identità, i suoi
marchi, i suoi prodotti o servizi a un evento, un'attività, un'organizzazione o una persona da lui
sponsorizzata". Se si considera una definizione piuttosto comune di pubblicità ("la promozione
diretta di un'azienda attraverso l'acquisto di spazio su un mezzo di stampa o di tempo televisivo o
radiofonico, avente quello specifico scopo"), non è difficile notare le differenze. La pubblicità
consiste nel veicolare un messaggio costruito ad hoc, con una collocazione molto precisa in termini
di tempo e di spazio di esposizione (quell'orario televisivo, quella pagina di giornale); inoltre, la
natura del messaggio pubblicitario permette di soffermarsi sulle qualità intrinseche del prodotto o
servizio reclamizzato, arricchendo la comunicazione di contenuti informativi specifici, ma il
messaggio resta chiaramente distinto dal contenitore che lo ospita, al punto che si può leggere il
giornale o guardare la trasmissione televisiva ignorando la pubblicità. Al contrario, la
sponsorizzazione crea un'associazione molto forte tra azienda e sponsorizzato, che finiscono per
identificarsi nella mente dell'appassionato/consumatore.
L'atteggiamento favorevole del tifoso si confonde così con la predisposizione all'acquisto del
cliente. Perché ciò accada, l'abbinamento deve essere credibile, ovvero sponsor e sponsorizzato
devono esprimere gli stessi valori. L'entrata massiccia della Opel nel calcio europeo a metà degli
anni 1980 traeva origine, per esempio, dalla decisione della casa tedesca di lanciare una gamma di
auto più moderne e giovanili di quelle prodotte sino a quel momento, puntando sul calcio e sulla sua
immagine giovane, dinamica, moderna, eccitante per rinnovare la propria identità, mentre i
principali concorrenti di gamma alta sceglievano il golf, la vela o il tennis.
Con la sponsorizzazione, inoltre, le aziende parlano simultaneamente a tutte le categorie di
interlocutori istituzionali, mentre la pubblicità si rivolge a un target definito (gli spettatori televisivi,
i lettori del giornale). Attraverso un mix molto ampio di soluzioni (esposizione del marchio, utilizzo
degli atleti per iniziative sul territorio, uso a fini commerciali o di relazioni pubbliche del sito
Internet dello sponsorizzato, aree riservate allo stadio per i propri ospiti o dipendenti), una
sponsorizzazione può essere di grande aiuto per migliorare le relazioni dell'azienda con i clienti, i
dipendenti, la forza vendita, i media.
Perché dieci grandi aziende accettano di pagare 65 milioni di dollari a testa per diventare per quattro
anni Top Partner del Comitato olimpico internazionale, sapendo che il loro nome e il loro logo non
verranno visti a bordo campo in nessuna delle gare delle Olimpiadi? La risposta sta nella possibilità
di stampare i cinque cerchi olimpici su ogni prodotto e comunicazione dell'azienda, usufruire di
spazi pubblicitari dedicati sulla stampa e la televisione olimpica, partecipare con un ruolo di rilievo
a promozioni ed eventi speciali, invitare ospiti di riguardo alle gare olimpiche, ma anche utilizzare
la partecipazione agli eventi olimpici per motivare e incentivare il personale dell'azienda: in altre
parole, associare in esclusiva il proprio nome al simbolo più prestigioso e famoso che ci sia, tutte le
volte che un cliente, in qualsiasi parte del mondo, entra in contatto con l'azienda.
Tutto ciò non significa che la pubblicità applicata al calcio sia una forma meno diffusa ed efficace
di comunicazione: il costo di uno spot televisivo durante un grande evento calcistico o di una pagina
di pubblicità su un quotidiano sportivo del lunedì sono tra i più elevati delle rispettive categorie.
Forme di pubblicità tradizionali come quella sui biglietti di ingresso agli stadi, i cartelloni a bordo
campo o i programmi e le riviste ufficiali dei club fanno ormai parte di qualsiasi pacchetto di
comunicazione proposto agli sponsor. Infine, l'industria specializzata guarda con grande interesse
alle nuove opportunità offerte dalla pubblicità su Internet oppure da quella cosiddetta 'virtuale' in
televisione.
Una classificazione standard delle sponsorizzazioni, sulla quale sono modellati gran parte dei
pacchetti offerti dalle organizzazioni sportive alle aziende, distingue tra sponsor principale, sponsor
tecnico (nel caso delle squadre e degli atleti), altre categorie di sponsor di livello inferiore (sponsor
istituzionali, partner ufficiali ecc.), fornitori ufficiali e licenziatari.
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Per sponsor principale si intende lo sponsor che, in cambio del corrispettivo più elevato, ottiene, in
via esclusiva, i maggiori benefici in termini di visibilità, riconoscibilità, sviluppo di iniziative di
comunicazione in partnership con il soggetto sponsorizzato: per esempio, il diritto di apporre il
proprio nome sulle divise da gioco.
In Europa, la prima Federazione ad autorizzare la comparsa dei marchi pubblicitari sulle maglie da
calcio fu quella francese, nel 1968. Di lì a poco seguirono il Belgio e la Germania, mentre
l'Inghilterra, l'Italia, la Spagna e l'Olanda si uniformarono solo all'inizio del decennio successivo. In
Italia la decisione fu presa nel 1981, sotto la presidenza della Lega nazionale professionisti di Renzo
Righetti, in un momento di particolari difficoltà finanziarie per i club. Da allora, in venti stagioni
sportive, 313 diversi marchi si sono alternati sulle divise dei club di serie A e B.
L'introduzione ufficiale degli sponsor sulle maglie era stata preceduta dalla comparsa delle
inserzioni sui programmi delle partite (segnalata in Inghilterra già nel 1890), dalla sponsorizzazione
dei nuovi stadi (White Hart Lane, stadio del Tottenham, nel 1914), dalla pubblicità sui biglietti e sui
cartelloni dentro e fuori lo stadio (presenti in Francia nel primo dopoguerra) e dall'utilizzo dei
calciatori come testimonial pubblicitari (Meazza e Monzeglio negli anni Trenta in Italia; Compton,
Finney e Wright alla fine degli anni Quaranta in Inghilterra). A dire il vero, nel calcio italiano, gli
sponsor sulle maglie erano già arrivati nel 1953, con l'abbinamento tra il Vicenza e la ditta
Lanerossi. Ma si trattò di una parentesi breve, frutto del vuoto normativo dell'epoca, mentre già da
tempo le sponsorizzazioni erano presenti in altre discipline sportive (Reyer Società Scherma e
Ginnastica Venezia, dal 1914; Olimpia Borletti Milano, dal 1936) e proprio in quegli anni si
affacciavano nel ciclismo.
Negli sport di squadra diversi dal calcio allo sponsor principale viene spesso concesso anche il
diritto di abbinare il proprio nome a quello del club, che assume così la denominazione (e sovente
anche i colori) dell'azienda. Il fenomeno è molto meno frequente nel calcio, anche se non mancano
esempi storici in tal senso: oltre al già citato Lanerossi Vicenza, il Simmenthal Monza, l'Ozo Petroli
Mantova, lo Zenith Modena, la Sarom Ravenna, il Talmone Torino tra la seconda metà degli anni
Cinquanta e i primi anni Sessanta in Italia; l'Inter Cable Tel di Cardiff, in Galles, qualificatasi per la
Coppa UEFA nel 1997-98.
Negli ultimi anni, diversi club calcistici europei hanno invece ceduto agli sponsor la titolazione dei
loro stadi, secondo una prassi invalsa da quarant'anni nello sport professionistico statunitense ‒
dove il mercato dei naming rights vale ormai 3 miliardi di dollari, con oltre 200 esempi ‒ e che si è
affermata anche in Australia (Victoria, Sydney), Nuova Zelanda (Auckland) e Sudafrica
(Johannesburg). Attualmente, vi sono impianti che portano il nome di aziende in Inghilterra
(Bolton, Middlesbrough, Stoke City, Southampton), Germania (Amburgo, Leverkusen), Olanda
(Eindhoven, Breda, Rotterdam), Austria (Salisburgo) e Finlandia (Helsinki).
Analogamente, molte Leghe e Federazioni hanno tratto significative entrate dalla sponsorizzazione
della principale manifestazione calcistica organizzata. Il Campionato assume il nome dello sponsor
in Austria, Belgio, Bulgaria, Finlandia, Inghilterra (dal 1983), Irlanda, Islanda, Italia, Norvegia,
Olanda, Repubblica Ceca, Scozia, Slovacchia e Slovenia. L'investimento più oneroso è certamente
quello sostenuto dal 2001-02 da BarclayCard per dare il proprio nome alla Premier League inglese:
48 milioni di sterline per tre anni.
Lo sponsor tecnico è chi, in cambio di riconoscibilità e visibilità, fornisce a un club, atleta o
organizzazione sportiva i materiali strettamente necessari per lo svolgimento della propria attività:
nel caso del calcio, abbigliamento da gioco e da allenamento, scarpe, palloni. Naturalmente, tra i
privilegi garantiti allo sponsor c'è quello dell'esclusiva merceologica. Da alcuni anni, i contratti di
sponsorizzazione tecnica per i top teams europei hanno superato in durata e importo quelli con gli
sponsor ufficiali: pochi mesi dopo avere concluso il contratto di sponsorizzazione più ricco della
storia del calcio con Vodafone (30 milioni di sterline per quattro anni), il Manchester United ha
stretto con Nike un accordo per 13 stagioni, del valore complessivo di 303 milioni di sterline. Nella
stagione 1999-2000 le sponsorizzazioni tecniche e gli accordi di licenza e fornitura hanno per la
prima volta superato il 50% del totale delle entrate da sponsorizzazioni delle società di serie A (solo
73
due anni prima erano meno del 40%). Alla base di tale sviluppo c'è il ricco giro d'affari del
merchandising delle divise ufficiali: nel caso del Manchester United, la Nike potrà ora gestire
direttamente un mercato che, nel 2001, ha assicurato al club oltre 35 milioni di euro all'anno, grazie
a 50 milioni di tifosi sparsi in tutto il mondo, una presenza commerciale radicata in Asia, un
accordo di partnership con i New York Yankees e clienti in oltre 40 paesi.
Gli sponsor istituzionali e i partner ufficiali, a differenza dello sponsor principale, non hanno
un'esclusiva assoluta ma solo per settore merceologico e dispongono di una gamma più ristretta di
opportunità associate al club o all'evento sponsorizzato.
I fornitori ufficiali sono coloro che forniscono all'organizzazione sportiva determinati beni o servizi,
in cambio del riconoscimento ufficiale di tale ruolo, che esercitano in maniera esclusiva all'interno
del proprio settore merceologico, e di una gamma di opportunità di comunicazione più limitata
rispetto a quelle delle categorie precedenti di sponsor. I licenziatari sono aziende che hanno
acquisito il diritto di realizzare e commercializzare prodotti, generalmente di largo consumo,
utilizzando il marchio, i colori e il nome del club, dell'evento o dell'organizzazione sportiva, in
cambio del pagamento di una royalty.
Da alcuni anni, a quelle appena elencate si è aggiunta la categoria dei media sponsors. Si tratta di
emittenti radio e televisive, giornali e aziende Internet che, in cambio di investimenti in denaro o,
più spesso, della messa a disposizione di tempo e spazio pubblicitario, ottengono gli stessi
riconoscimenti di una delle categorie di sponsor secondari.
Secondo la Lega nazionale professionisti, nel 2000 le società di serie A e B hanno concluso 759
accordi di partnership non classificabili come sponsorizzazioni principali o tecniche, denominandoli
in 26 maniere diverse, da 'Gold Partner' a 'Sponsor Sala Vip', per un valore complessivo di 89
miliardi di lire.
Tra le forme più innovative di collaborazione tra aziende e organizzazioni sportive rientrano le
attività di hospitality. La possibilità di invitare e intrattenere clienti importanti, ospiti di riguardo,
agenti di vendita o personale dell'azienda in occasione di eventi sportivi di richiamo, avendo a
disposizione aree riservate allo stadio, servizi di parcheggio, ristorazione e altre attività pre-partita
dedicate, viene sempre più spesso utilizzata dalle aziende a fini di pubbliche relazioni. Questa
opportunità, che è da molto tempo fonte di ingenti risorse finanziarie per i club professionistici
americani, è ampiamente diffusa tra i club inglesi e olandesi, mentre stenta ancora a decollare
altrove, soprattutto per le carenze infrastrutturali degli stadi. Nel 2000 in Inghilterra il giro d'affari
dell'ospitalità aziendale (non solo legata allo sport) è stato di 1,2 miliardi di euro, quasi sette volte il
valore di due anni prima. Il Manchester United ricava il 40% delle sue entrate da stadio dall'affitto
alle aziende dell'11% dei 67.000 posti dell'Old Trafford.
Secondo stime effettuate da SRI (Sponsorship research international), nel 1999 in Europa il 59%
delle sponsorizzazioni calcistiche ha avuto per destinatari dei club, il 32% eventi, il 7% accordi di
partnership o fornitura ufficiale e il 2% singoli atleti. Nel 1999-2000, secondo le stime della Lega
nazionale professionisti, le entrate da sponsorizzazioni, pubblicità e altre attività commerciali (pari a
1350 milioni di euro) hanno rappresentato in Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Olanda e Spagna
il 32% del fatturato dei club calcistici di prima divisione, dietro i diritti televisivi (42%), ma prima
dei biglietti (26%). Il dato aggregato nasconde situazioni molto diverse da paese a paese. La
Germania è la nazione nella quale i contratti di sponsorizzazione raggiungono i valori più elevati:
complessivamente, le partnership commerciali rappresentano il 44% delle entrate dei club. In
Inghilterra questo dato non supera il 35%, ma la diversificazione delle entrate commerciali non ha
uguali in Europa, grazie allo sviluppo del merchandising e all'utilizzo polifunzionale degli stadi. Un
club non di primissimo piano come l'Aston Villa ha ricavato, nel 2000, 9,2 milioni di euro da
sponsorizzazioni e ospitalità, 8,1 milioni da merchandising e 5 da attività di ristorazione e
conferenze, contro i 16,6 da diritti televisivi, su un fatturato totale di 57,8. Al contrario la Spagna
(anche per la tradizione di alcuni club importanti, come Barcellona e Athletic Bilbao, di non
ospitare alcun marchio commerciale sulla divisa da gioco), l'Italia e la Francia sono i paesi dove lo
sviluppo delle entrate commerciali è stato, fino a oggi, sopravanzato da quello dei diritti televisivi.
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Tanti segnali indicano che questa tendenza potrebbe invertirsi nel prossimo futuro: molti mercati
televisivi appaiono ormai saturi, mentre le ultime stagioni sono state caratterizzate da una sensibile
crescita del valore complessivo dei contratti pubblicitari, che sicuramente riequilibrerà il peso
attualmente detenuto dai diritti televisivi nei bilanci di molte società. Secondo un rapporto
dell'istituto tedesco Sport+Markt AG, nella stagione 2001-02 le sole entrate da sponsor ufficiali
delle 112 società partecipanti ai Campionati di prima divisione di Francia, Germania, Inghilterra,
Italia, Olanda e Spagna hanno superato i 301 milioni di euro, con un incremento del 22% rispetto al
2000-01. A trascinare il mercato sono stati soprattutto i club francesi e inglesi, le cui entrate da
sponsor principali sono cresciute rispettivamente del 98% (grazie al boom della
multisponsorizzazione) e del 67%, mentre la Germania si conferma il mercato più ricco con 4,4
milioni di euro spesi in media per ogni contratto. In Premier League vi sono oggi tre dei cinque
contratti di sponsorizzazione più ricchi d'Europa (Manchester United-Vodafone, primo in assoluto;
Chelsea-Emirates Airline; Liverpool-Carlsberg).
Alcuni dei recenti rinnovi contrattuali riflettono chiaramente l'accentuazione della natura 'globale'
degli investimenti nel calcio: Nike al posto di Umbro (Manchester United); Emirates Airline di
Autoglass (Chelsea); Siemens di Cirio (Lazio). Tuttavia, la strategia di penetrazione su più mercati
attraverso l'abbinamento del proprio nome con club calcistici di diversi paesi sembra ancora limitata
a un numero ristretto di casi: nel 2001, gli unici marchi che comparivano sulle maglie di club di
almeno due dei cinque Campionati più importanti d'Europa erano Opel (3 club), Sega/Dreamcast
(3) e Siemens (2). Più spesso le sponsorizzazioni rispondono a una logica prettamente nazionale. In
qualche caso, addirittura, lo sponsor principale del Campionato è diverso da quello delle Coppe
Europee. Molti marchi 'globali' preferiscono non legare il proprio nome a una sola società per paese,
ma decidono di sponsorizzare eventi di risonanza nazionale o internazionale o, al limite, diventare
partner ufficiali di raggruppamenti molto ampi di club. Aziende come Coca Cola o McDonald's, per
esempio, tendono da sempre ad apparire come la bevanda o il ristorante 'del calcio', nell'accezione
più ampia del termine, piuttosto che lo sponsor di una singola squadra. Sempre di più queste
aziende utilizzano anche grandi campioni, scelti per la loro immagine positiva e la popolarità che si
estende oltre il naturale bacino di tifosi della squadra di appartenenza, come propri testimonial. Se il
trend di questi ultimi anni verrà confermato (secondo un autorevole quotidiano inglese, i diritti di
immagine delle quattro stelle della Premier League, Owen, Beckham, Keane e Giggs, valgono
attualmente quasi 40 milioni di euro totali), anche il calcio potrà rapidamente raggiungere le vette
già toccate dal mercato dell'endorsement in sport come il tennis, il golf, l'automobilismo o il basket
NBA.
Tabella 1
L'approccio multinazionale è più evidente tra gli sponsor tecnici di squadre o atleti: nel 2001,
Adidas, Nike e Puma hanno firmato l'abbigliamento di 36 club di prima divisione in Francia,
Germania, Inghilterra, Italia e Spagna. Ma si tratta di una scelta quasi obbligata in presenza di un
ristretto numero di grandi aziende produttrici che si contendono quote di mercato su scala mondiale.
Anche in questo campo, tuttavia, sono numerosi gli esempi di strategie autarchiche, soprattutto in
Spagna, Germania e Inghilterra, dove tre società (Coventry, Ipswich e Southampton) producono, e
vendono, addirittura in proprio le maglie da gioco.
Allo stesso modo, sembrano connotarsi in maniera 'nazionale' anche i settori di attività economica
che si legano più facilmente al calcio: l'industria alimentare in Italia, le banche locali in Spagna, i
fabbricanti di birra e le aziende di telecomunicazioni in Inghilterra, le aziende di telefonia e giochi
elettronici in Francia.
Giova notare, in conclusione, come la crescita del mercato delle sponsorizzazioni calcistiche non sia
stata accompagnata, se non in casi sporadici, da due fenomeni piuttosto frequenti nelle altre
discipline di squadra: da un lato, l'identificazione dei club con i nomi e i colori delle aziende che li
sostengono; dall'altro, l''effetto marmellata' dato dalla presenza, spesso indistinguibile, di una
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molteplicità di marchi sulle maglie dei ciclisti o le tute dei piloti di Formula 1.
Pur senza arrivare alla regola degli sport professionistici americani, dove gli sponsor non hanno a
disposizione le divise da gioco, le principali Leghe e Federazioni calcistiche europee regolamentano
in maniera molto severa gli spazi a disposizione delle aziende. Fanno eccezione le maglie dei club
francesi e di alcuni altri paesi, come Austria e Norvegia, dove si è cercato di sopperire alla povertà
dei diritti televisivi moltiplicando le opportunità offerte agli sponsor.
Il Tifo
di Ruggiero Palombo
L'antropologo Desmond Morris nel volume La tribù del calcio (1981) sostiene che per i tifosi la
partita rappresenta un rito antichissimo, il ricordo delle sfide nella piazza del villaggio preistorico, e
per questo coinvolge e affascina in modo così profondo. Si può essere o no d'accordo con questa
tesi, ma è difficile non riconoscere al calcio la capacità di stabilire un rapporto emotivo
particolarissimo con larga parte della popolazione in tutti i paesi del mondo: una febbre così alta ed
epidemica da venire paragonata al 'tifo'. Nel legame straordinario fra i fan e la squadra sono
implicate motivazioni di ogni tipo: nazionalismo (specie quando è coinvolta la rappresentativa del
paese), rapporto con il territorio, orgoglio cittadino, tradizione familiare, stato sociale,
identificazione con un modello o un giocatore, amicizia ecc. Nelle città in cui esiste una sola
squadra il tifo è quasi monoculturale; dove ce ne sono due di solito la spaccatura vede da una parte
il popolo, dall'altra borghesia e immigrati. Nelle metropoli con molte squadre (Londra, Vienna,
Buenos Aires, Rio de Janeiro ecc.) in genere la divisione è per quartieri.
Chi vive in città dove il club locale gioca in campionati secondari o addirittura non esiste, tifa per
squadre di altre regioni o addirittura di altre nazioni. In questo caso assumono molta importanza
l'immagine del club, la sua storia, i campioni che possono accendere la fantasia dei giovani in cerca
di un ideale sportivo in cui riconoscersi. In Italia, per esempio, la Juventus ha molti più tifosi fuori
del Piemonte che a Torino e lo stesso accade per Milan e Inter. Il seguito delle altre squadre è più
strettamente legato al territorio o alle origini (per es. i tifosi di Napoli, Palermo, Cagliari sono sparsi
in buona parte dell'Italia e del mondo).
Il tifo è assolutamente trasversale. Capi di Stato, leader politici, artisti, scienziati, intellettuali,
imprenditori, professionisti ne soffrono con la stessa intensità della gente comune e dei ragazzi.
Tutti indistintamente fanno riferimento allo stesso linguaggio tecnico e quindi a un codice in base al
quale anche persone di cultura enormemente diversa possono fraternizzare e intendersi. Non solo
convivono allo stadio in piena sintonia, ma traggono la massima gratificazione dal senso di
appartenenza alla stessa fede. Cantano, applaudono, fischiano, gioiscono, si infuriano insieme, lieti
di annullarsi nel gruppo. Per ribadire questa fratellanza portano come segno di riconoscimento i
colori del club: bandiere, sciarpe, cappelli, maglie e gadget di ogni genere su cui prospera un
fiorente merchandising. È interessante notare come il calcio, dopo essere stato visto a lungo con
disprezzo dagli intellettuali, sia diventato tema di grande interesse: libri, film, saggi e soprattutto
una partecipazione sin troppo esibita ai suoi riti testimoniano un vigoroso cambio di tendenza.
Il tifo organizzato lavora durante la settimana per allestire coreografie da stadio talvolta di grande
creatività e bellezza: una sorta di murales umani. L'altra faccia della medaglia è costituita dalle
caratteristiche sempre più aggressive e violente che la partecipazione dei tifosi è andata assumendo
soprattutto a partire dagli anni Settanta, specialmente a livello di giovani, di gruppi in cerca di
visibilità, organizzati come bande pronte a usare le mani o manipoli paramilitari, spesso
politicamente ideologizzati. Questi ultras hanno come luogo eletto la curva, di cui sono i padroni.
Il fenomeno tifo è mondiale. Basti pensare ai festeggiamenti che in Cina hanno accolto la
qualificazione ai Mondiali del 2002, con piazza Tienanmen invasa per ore e centinaia di milioni di
persone davanti alla televisione. Naturalmente, però, il tifo cambia da paese a paese. Quello
sicuramente più festoso e colorato si trova in Brasile, dove il calcio è abitualmente vissuto con
76
gioia, alla stessa stregua della musica e del carnevale. La torcida (parola che si connette al
significato di 'contorcersi') brasiliana è traboccante di colori, balli, canzoni, sostenuta dall'incessante
suono di tamburi, trombe e percussioni. Il calcio in Brasile ha un'importanza così abnorme da
trasformare una sconfitta in un lutto nazionale, come accadde quando la vittoria dell'Uruguay sul
Brasile a Rio de Janeiro nel Mondiale del 1950 spinse diverse persone al suicidio.
Assai più violento il tifo argentino, dove il folclore è coloratissimo e chiassoso ma le rivalità fra
club sono esasperate e talvolta sfociano in fatti di sangue. Nel febbraio 2002, per esempio, gli
scontri da guerriglia urbana fra gli ultras del Racing e quelli dell'Independiente, i due storici club di
Avellaneda, hanno provocato un morto e molti feriti. L'acme dello spettacolo e del tifo spetta alla
sfida fra Boca Juniors e River Plate, le due squadre argentine più amate. In tutto il Sudamerica, ogni
tanto, la morte sottolinea gli eccessi del calcio. Ci sono state vittime alla fine del 2001 in Ecuador
nel corso dei festeggiamenti per la qualificazione al Mondiale. In Colombia è a rischio talvolta
anche la vita di calciatori e arbitri.
Il tifo assume connotazioni assai pittoresche anche in Africa. In Europa il comportamento più
acceso è registrato fra italiani, turchi, greci, iberici. In Spagna e in Portogallo il calcio viene vissuto
con passione ma al tempo stesso con molta civiltà. Lo stesso vale per la Francia dove esistono però
alcune situazioni spinose (specie a Parigi e Marsiglia). Più tranquilli i tedeschi, se si escludono gli
eccessi legati al consumo di birra. Il tempio del tifo è senza dubbio l'Inghilterra. Uscita dal tunnel
della violenza, messi a freno gli hooligans grazie alle leggi del governo Thatcher, frenato
l'alcolismo, la cultura sportiva inglese rende la partita uno spettacolo indimenticabile: cori maestosi,
un sostegno strenuo alla propria squadra, nessun insulto agli avversari, grande fair-play, la capacità
di applaudire i propri campioni anche se sconfitti. Lo stadio, per i fan inglesi, è un luogo dell'anima,
in cui far spargere, addirittura, le proprie ceneri. Il romanzo di Nick Hornby Febbre a 90° (1992) e
il film che ne è stato tratto offrono un'immagine eloquente di questo rapporto.
Dovunque, sia in Sudamerica sia in Europa cresce il numero delle tifose donne. Nella Premier
League in glese rappresentano il 33% dei nuovi spettatori.
Anche in Italia il calcio ha una valenza particolare. Ci sono coppie che in viaggio di nozze vanno a
visitare la sede e lo stadio della squadra per cui tifano; migliaia di persone si sottopongono a
spostamenti faticosissimi e costosi per seguire la squadra in trasferta, incuranti anche del rischio di
essere picchiati. Il calcio provoca infatti enormi fenomeni migratori: quando, nel 1989, il Milan
vinse la Coppa dei Campioni, 80.000 tifosi lo seguirono a Barcellona. Inglesi, tedeschi, olandesi
sono fra i più fedeli nel seguire i propri club, insieme a italiani e spagnoli. Forte anche il
coinvolgimento degli immigrati, quando arriva una squadra del loro paese: in Germania, durante le
partite in cui giocano la Turchia o il Galatasaray, lo stadio è diviso a metà.
Non è un caso che una vittoria internazionale nel calcio mobiliti i capi di Stato (sulla falsariga di
quanto fece il presidente Pertini nel 1982 in Spagna) e rappresenti per un popolo un eccezionale
motivo d'orgoglio. Nel 1998, quando la Francia ha vinto i Mondiali, la festa a Place de la Concorde
a Parigi è stata colossale. Studi condotti in merito rivelano che queste vittorie hanno benefici effetti
sul commercio e sullo sviluppo economico, perché determinano un aumento del coraggio
imprenditoriale. Nessun altro avvenimento influisce come i Mondiali di calcio sull'attività
lavorativa planetaria: orari cambiati, assenteismo, ferie, televisioni sui luoghi di lavoro per
consentire alle maestranze di seguire le gare della nazionale.
Non esistono studi approfonditi sulla popolazione dei tifosi, ma vale la pena riportare i dati raccolti
da UFA nel giugno 2000 sul numero degli appassionati nei cinque principali paesi europei (tab. 1) e
sulla loro distribuzione percentuale per club (tab. 2). Sempre secondo questo studio nei cinque paesi
vi sarebbe un numero rilevante di tifosi (dai 4,7 milioni della Spagna ai 5,5 della Germania) che
simpatizzerebbero anche per una squadra straniera: Juventus, Manchester United, Barcellona,
Milan, Real Madrid.
Tabella 1
77
Tabella 2
Tabella 3
Tabella 4
Il tifo organizzato prende forma tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta. Il gruppo ultrà più
antico è la Fossa dei Leoni del Milan, fondato nel 1968, che adotta il nome del vecchio campo
d'allenamento dei rossoneri. Nel 1969 nascono anche gli Ultras Tito Cucchiaroni della Sampdoria
(primi a usare la denominazione 'Ultras') e, subito dopo, gli storici Moschettieri che tifavano per
l'Inter di Helenio Herrera, i Boys dell'Inter, seguiti qualche anno dopo dagli Ultras neroazzurri.
Nascono poi la Fossa Ultrà Cagliari (1970), le Brigate Gialloblu del Verona e, dal nome della
piazza in cui si raduna, il Viola Club Vieusseux della Fiorentina (1971); e ancora gli Ultras del
Napoli (1972), le Brigate Rossonere del Milan, la Fossa dei Grifoni del Genoa e gli Ultras Granata
del Torino (1973), i Forever Ultras del Bologna (1974). Nel 1976 compaiono i duri delle Brigate
neroazzurre dell'Atalanta, che avranno sempre rapporti conflittuali con le forze dell'ordine, e gli
Ultras del Bari, il cui emblema è un teschio alato in campo biancorosso. I tifosi della Roma
occupano la Curva Sud, quelli del Brescia prendono il nome di Commando Ultrà Curva Nord. La
Juventus ha due sigle di tradizione anglofona: i Drughi (dal film Arancia Meccanica di Stanley
Kubrick) e i Viking, che daranno poi vita ai Fighters. Diversi altri gruppi, hanno una forte
colorazione politica: di destra quella degli Irriducibili della Lazio, mentre altri hanno matrice
comunista e anarchica.
La storia del calcio è costellata da numerose tragedie, alcune dovute alla violenza dei tifosi, altre al
cedimento di stadi fatiscenti o sovraccarichi rispetto alle capacità strutturali. La serie si apre
all'inizio del 20° secolo con due incidenti di quest'ultimo tipo. All'Ibrox Park di Glasgow il 5 aprile
1902, durante la partita Scozia-Inghilterra, il crollo di una tribuna causa 25 morti e ben 517 feriti.
Non ci sono, invece, vittime nel 1914 nello stadio di Sheffield, quando la caduta di un muro
travolge 75 persone. In molti casi all'origine di tragedie di questo genere sono la vendita di un
numero di biglietti eccessivo rispetto alla capienza dell'impianto, oppure gli scontri fra polizia e
tifosi, o ancora il tentativo della folla di forzare gli ingressi.
In assoluto il maggior numero di vittime si registra il 20 ottobre 1982 allo Stadio Lenin di Mosca, in
occasione della partita di coppa UEFA fra lo Spartak e gli olandesi dello Haarlem: alla fine
dell'incontro una parte degli spettatori, già uscita, cerca di rientrare nello stadio, dopo un gol in
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extremis, e nella situazione di caos e di panico che viene a crearsi muoiono schiacciate o soffocate
340 persone, i feriti sono più di un migliaio. Di poco inferiore il tragico bilancio di Perù-Argentina
a Lima, il 25 maggio 1964: l'arbitro annulla un gol al Perù, mentre la partita si avvia alla fine;
scoppiano tumulti fra i tifosi; molti cercano di entrare in campo, contrastati da polizia ed esercito; i
morti sono 318, oltre mille i feriti. Nel 1971 luogo della disgrazia è nuovamente l'Ibrox Park di
Glasgow, dove migliaia di tifosi premono sui cancelli d'ingresso e 66 vengono calpestati a morte.
Nel 1985 a Bradford l'incendio di una tribuna in legno provoca 56 vittime. Nel 1988 a Katmandu
nel corso della partita Nepal-Bangla Desh muoiono 93 persone. Nel 1989 a Sheffield, durante
Liverpool-Nottingham, una fiumana di tifosi senza biglietto tenta di forzare gli ingressi e nella calca
96 persone restano schiacciate contro le recinzioni. La tragedia di Guatemala City nel 1996 (84
morti) è causata dal panico. Due gravi episodi si verificano nel 2001 in Africa: in aprile, tifosi senza
biglietto trasformano in una bolgia l'Ellis Park di Johannesburg, causando 47 vittime; ancora più
grave è quanto accade nel maggio ad Accra, la capitale del Ghana, dove i lacrimogeni sparati dalla
polizia per sedare tafferugli nati sugli spalti portano gli spettatori a fuggire in massa (126 i morti,
calpestati dalla folla). In alcune occasioni la colpa degli incidenti è di chi dovrebbe mantenere
l'ordine. Così per esempio nel 1990 a Mogadiscio le guardie del presidente Siad Barre reagiscono in
modo spropositato alle intemperanze del pubblico e negli scontri muoiono 62 persone.
Una delle tragedie più agghiaccianti, emblematica delle terribili conseguenze a cui può portare il
tifo quando degenera in violenza, è la morte per schiacciamento di 39 tifosi, in gran parte italiani,
all'Heysel di Bruxelles prima di Juventus-Liverpool, finale della Coppa dei Campioni del 1985. Una
massa di hooligans (il termine proviene dal nome di una famiglia irlandese dell'Ottocento, che
aveva fama di attaccabrighe) ubriachi invade la tribuna dove siedono gli italiani e provoca il crollo
di una transenna. Si gioca lo stesso per evitare ulteriori scontri. I club inglesi vengono per alcuni
anni estromessi dalle competizioni internazionali, fino a quando non avranno messo a freno i loro
tifosi. Il governo Thatcher affronta il problema con estrema serietà, promulgando leggi molto severe
e promuovendo un attento lavoro d'intelligence di Scotland Yard per infiltrare agenti nelle bande di
teppisti e identificarne i capi. Con questi provvedimenti l'Inghilterra arriva a ripulire i suoi stadi,
anche se quando vanno in trasferta fuori dal paese gli hooligans continuano a creare guai, come
accade in Francia nel 1998, in occasione dei Mondiali, o in Turchia nel 2000, quando in una
gigantesca rissa muoiono accoltellati due ragazzi inglesi. Dopo gli inglesi i tifosi più violenti,
quando superano i confini, sono gli olandesi e i tedeschi.
In Italia la violenza del tifo calcistico ha causato alcune tragedie che fanno testo. La prima si
verifica il 28 ottobre 1979 all'Olimpico di Roma: un'ora prima dell'inizio del derby il tifoso laziale
Vincenzo Paparelli viene colpito da un razzo nautico lanciato ad altezza d'uomo dalla curva
romanista verso quella laziale. Per l'uccisione di Paparelli viene condannato, per omicidio
'preterintenzionale', un gruppetto di teppisti. Durante il processo emergono particolari inquietanti:
l'imputato Giovanni Fiorillo, ultrà romanista, autore del tragico lancio, rivela di aver comprato il
razzo da segnalazione nautica senza che gli venisse chiesto alcun documento di riconoscimento e di
aver introdotto all'Olimpico il tubo di lancio dell'ordigno, lungo più di un metro, e la carica del
razzo, smontati, senza aver avuto problemi con la Polizia. Questa infatti non perquisiva gli ultras e
permetteva loro, con la scusa degli striscioni da fissare e della coreografia da allestire, di entrare
nello stadio molto prima dell'inizio della partita e di gestire depositi all'interno dell'impianto. Il caso
Paparelli desta grande scalpore ma, passato lo sdegno del primo momento, non vi è un seguito
istituzionalmente adeguato. Eppure, all'epoca, quando le frange eversive non si erano ancora
impadronite delle curve degli stadi e non era ancora nato il razzismo calcistico, per sradicare la
malapianta sarebbe bastato molto meno di oggi.
Altri episodi mortali si verificarono nel 1984, nel 1988 e nel 1989. Particolare scalpore suscitò la
tragedia avvenuta a Genova il 29 gennaio 1995: vicino allo stadio di Marassi un giovane tifoso
genoano, Vincenzo Claudio Spagnolo, viene ucciso a coltellate da un ultrà del Milan, Simone
Barbaglia, fiancheggiato da un gruppo di suoi compagni altrettanto violenti. La domenica
successiva, il 5 febbraio, il mondo del pallone decreta una giornata di sciopero contro la violenza.
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Sarebbe l'occasione perfetta per emanare una normativa contro il teppismo ma al Parlamento i
capigruppo dei partiti non si accordano su un disegno di legge unitario da approvare con procedura
di urgenza. Il 24 gennaio 1996 Barbaglia è condannato a 11 anni e 4 mesi, ma poi la Corte
d'Appello annulla la sentenza perché era stata dimenticata l'aggravante dei futili motivi (una partita
di calcio) alla base dell'omicidio e l'ultrà milanista esce dal carcere per decorrenza dei termini della
carcerazione preventiva. La sentenza definitiva, convalidata dalla prima sezione penale della
Cassazione il 26 ottobre 2001, condanna Barbaglia a 16 anni e sei mesi; secondo il verdetto
Barbaglia ha agito "per estrema sudditanza verso il suo gruppo di ultras".
Sull'onda dello sdegno suscitato dagli incidenti di Genova il governo Prodi si fa promotore di
diverse iniziative antiviolenza. Nel 1998 viene presentato il disegno di legge Veltroni-Napolitano-
Flick ‒ a firma del vicepresidente del Consiglio, del ministro dell'Interno e del guardasigilli
dell'epoca ‒ che prevede l'arresto in flagranza di reato, lo specifico reato di lancio di oggetti in
campo e una serie di aggravanti per chi crei tensione e violenza allo stadio. Il disegno non viene
convertito in legge ma confluisce in un "Testo unificato recante norme in materia di fenomeni di
violenza in occasione di manifestazioni sportive", passato all'esame della Commissione Giustizia
della Camera dei Deputati nel 1999. Ancora una volta a riproporre al Parlamento l'urgenza di
specifiche misure è un incidente mortale: il 24 maggio, presso la stazione di Nocera Inferiore, lo
scoppio di un fumogeno fa divampare un incendio sul treno speciale che riconduce a casa i tifosi
della Salernitana, dopo una partita con il Piacenza, e quattro giovani muoiono carbonizzati. Tuttavia
anche questo disegno non viene convertito in legge e decade con la fine della legislatura nella
primavera del 2001.
Il 2 luglio 2001 muore, dopo un'agonia di 15 giorni, il giovane Antonino Currò di 24 anni, colpito al
volto da un razzo lanciato dal settore dei tifosi avversari del Catania durante la partita di ritorno dei
playoff di serie C1 fra Messina e Catania. Viene arrestato un ultrà diciassettenne del Messina, poi
rilasciato per mancanza di prove. La tragedia convince il governo Berlusconi e il Parlamento della
necessità di varare una legge specifica contro la violenza nel calcio prima della ripresa del
Campionato. Un decreto legge contro il teppismo negli stadi viene emanato il 20 agosto e rimane in
vigore, dando buoni frutti, fino alla metà di ottobre. Il 17 ottobre viene convertito in legge, ma
durante il dibattito in Parlamento una serie di emendamenti ne hanno attenuato la severità. In
particolare è prevista la possibilità di commutare in sanzioni pecuniarie le pene detentive ed è
sostituita con il "fermo nelle 48 ore, previa autorizzazione del magistrato", la "flagranza di reato
allargata", che consentiva di procedere all'arresto nei due giorni successivi gli episodi di violenza,
sulla base di prove televisive.
Tabella 1
Tabella 1
Oltre alle tragedie legate alla degenerazione in violenza della tifoseria o al cedimento delle strutture
degli stadi, la storia del calcio ha conosciuto altri drammatici episodi che hanno comportato la
perdita simultanea di numerosi suoi esponenti. Alle 26 persone, tra tecnici e giocatori della squadra
sudanese dell'Al Nasr, scomparse in un naufragio sul Nilo Azzurro nel giugno del 1995, si
aggiungono le vittime di diverse sciagure aeree. Da ricordare, in particolare, quella del 27 aprile
1993, avvenuta in Gabon, nella quale insieme ad altre nove persone vennero a mancare 17 giocatori
della nazionale dello Zambia, e l'incidente all'aeroporto di Monaco di Baviera del 6 febbraio 1958,
nel quale morirono otto giocatori del Manchester United, reduci da una partita di Coppa dei
Campioni a Belgrado. Ma certamente la tragedia che rimane più viva nel ricordo degli italiani è
quella avvenuta la sera del 4 maggio 1949 presso la basilica di Superga, nella quale fu annientato il
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Grande Torino.
La sera precedente i granata avevano giocato sul campo del Benfica, per onorare l'addio al calcio di
Ferreira, amico di Valentino Mazzola. Il presidente Novo era contrario a quella trasferta e non vi
aveva preso parte: mancavano quattro giornate alla fine del Campionato e i cinque punti di margine
sull'Inter erano rassicuranti ma non davano la certezza matematica della vittoria. Il piano di volo
prevedeva l'arrivo alla Malpensa, ma all'improvviso, per ragioni mai chiarite, il trimotore I Elce, un
G-212, fece rotta direttamente su Torino, nonostante sulla città le condizioni meteorologiche fossero
pessime, con nuvolosità intensa, raffiche di pioggia e visibilità scarsa. Lo schianto contro il
basamento della basilica avvenne alle 17.05, quasi certamente dovuto a un guasto all'altimetro.
Morirono 31 persone: i giocatori Valerio Bacigalupo, Aldo Ballarin, Dino Ballarin, Emile
Bongiorni, Eusebio Castigliano, Rubens Fadini, Guglielmo Gabetto, Roger Grava, Giuseppe
Grezar, Ezio Loik, Virgilio Maroso, Danilo Martelli, Valentino Mazzola, Romeo Menti, Pierino
Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti, Julius Schubert; i tecnici Egri Erbstein e Leslie Lievesley;
il massaggiatore Ottavio Cortina; i dirigenti Rinaldo Agnisetta, Andrea Bonaiuti e Ippolito
Civalleri; i giornalisti Renato Casalbore, Luigi Cavallero, Renato Tosatti; e i quattro membri
dell'equipaggio.
Anche se l'eco della notizia si diffuse rapidamente in Italia e nel mondo, non tutti in città ne furono
subito al corrente. Sauro Tomà, l'unico giocatore granata rimasto a Torino per infortunio, seppe
della tragedia dal lattaio sotto casa, mentre rientrava da una seduta di fisioterapia. A Giorgio
Tosatti, figlio undicenne di Renato, la notizia fu brutalmente comunicata da un usciere della sede
della Gazzetta del Popolo dove si era recato ad aspettare il padre.
Dopo il riconoscimento, del quale furono incaricati il segretario granata Igino Giusti e il
commissario tecnico della nazionale Vittorio Pozzo, e la pietosa ricomposizione, le salme furono
portate a Palazzo Madama. Due giorni più tardi una folla immensa, probabilmente superiore al
mezzo milione di persone, prese parte al funerale. Tutta Torino era schierata al passaggio del corteo,
le case erano deserte, in città dalla sera prima non si trovava più un fiore. La radiocronaca della
cerimonia fu trasmessa in diretta, con il commento fra gli altri di Nicolò Carosio e di Sergio Zavoli.
I giovani del Filadelfia, che per due giorni e due notti avevano vegliato i campioni scomparsi, nove
giorni più tardi andarono in campo al loro posto contro il Genoa, che schierò la sua formazione
giovanile, imitato poi dalle rimanenti avversarie. Vinsero, in uno stadio gremito di folla commossa,
e la domenica successiva divennero, a loro volta, campioni d'Italia, in nome e per conto della grande
squadra che non c'era più.
"Il Direttorio federale conferma le precedenti decisioni e squalifica a vita Luigi Allemandi, della cui
colpevolezza è stata pienamente raggiunta la prova; richiama il giocatore Munerati a una più esatta
comprensione dei suoi doveri in quanto un calciatore tesserato non può accettare doni di qualsiasi
entità o natura da iscritti ad altre società; deplora e proibisce il malcostume delle scommesse anche
di lieve cifra, specie quelle tenute contro le sorti dei propri colori e ammonisce il calciatore Pastore,
lieto di constatare come l'episodio che ha dato luogo alle accennate sanzioni sia circoscritto a un
solo giocatore e non possa quindi gettare ombra né onta sulla grande massa dei calciatori italiani".
Conservato da un solerte funzionario dell'epoca, questo documento, datato 21 novembre 1927 e
pubblicato a Bologna, sede della rudimentale organizzazione allora al governo del Campionato,
rappresenta in Italia la prima sentenza disciplinare di qualche rilievo riguardante il calcio. La
vicenda dello scudetto del 1927, revocato al Torino e non assegnato, costituisce il primo della lunga
serie degli scandali legati al mondo del pallone: un dirigente granata, Nani, per il tramite di uno
studente d'ingegneria, Giovanni Gaudioso, promise allo juventino Allemandi un premio di 50.000
lire in cambio di un comportamento che favorisse il successo del Torino. A sconfitta juventina
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avvenuta, il difensore bianconero reclamò il pagamento della seconda rata nel corso di un concitato
colloquio in una pensione torinese di piazza Madonna degli Angeli. Tra i clienti dell'albergo c'era
un giornalista romano, Ferminelli, che ascoltò la conversazione e denunciò il fatto su un paio di
quotidiani. La conseguenza fu inevitabile: indagine della Federcalcio affidata al segretario
dell'epoca, Giuseppe Zanetti, piena confessione degli interessati, Nani e Gaudioso, e condanna. Dei
clamorosi provvedimenti previsti, però, restò in vigore solo la revoca al Torino del titolo di
campione d'Italia (nonostante i successivi tentativi di ottenerne l'assegnazione 'postuma'), mentre
Allemandi venne 'graziato' dopo meno di un anno e nel 1934 vinse addirittura i Mondiali.
Gli scandali, nel mondo del calcio, sono spesso legati all'intervento di 'faccendieri' particolarmente
accorti nell'individuare giocatori o dirigenti cui proporre eventuali accordi per 'aggiustare' l'una o
l'altra partita. Nel dopoguerra, divenne famoso uno di questi personaggi, Eugenio Gaggiotti, detto
'Gegio', che, intervistato da Indro Montanelli, raccontò i propri commerci in modo del tutto
generico, fornendo un unico dato concreto: il numero presunto delle partite da lui 'truccate', ben 64.
Nel corso del Campionato 1947-48, suscitò scalpore un episodio scoperto grazie a una lettera
anonima, che parlava di un incontro fra Luigi Ganelli, mezzala del Napoli, e Bruno Arcari, interno
del Bologna, prossimi a imparentarsi (il secondo stava per sposare la sorella della moglie del
primo), incontro avvenuto ai primi di giugno del 1948, nell'imminenza della partita Bologna-
Napoli. La sfida era decisiva per la squadra campana, che rischiava la retrocessione, e il fatto che al
tavolo dei due giocatori sedessero anche il presidente del Napoli Muscariello, l'ex calciatore Paolo
Innocenti e il direttore tecnico del Bologna Hermann Felsner, convinse gli inquirenti che non si
trattava di un 'convegno familiare': il Napoli fu retrocesso all'ultimo posto della serie A, Ganelli,
Muscariello e Innocenti vennero squalificati a vita, Arcari per tre mesi, Sauro Taiti per due e Gino
Cappello per uno.
Proprio per far fronte al fenomeno della corruzione, negli anni Cinquanta la FIGC affidò il compito
di allestire una Commissione di controllo, poi ribattezzata Ufficio inchieste, ad Alberto Rognoni, un
conte di Cesena. Fondatore della locale società di calcio, grande appassionato e profondo
conoscitore del mondo del pallone, Rognoni assolse al suo impegno nell'Ufficio inchieste con
determinazione leggendaria, ricorrendo perfino a travestimenti (da frate o da carabiniere, per
esempio) per farsi rilasciare confessioni o per pedinare qualche tesserato senza essere riconosciuto.
Basterà qui ricordare solo alcuni episodi della sua carriera di inquisitore. Nel 1955 l'Udinese,
protagonista del suo miglior Campionato in serie A (era al secondo posto dietro al Milan), scontò
duramente un illecito commesso due anni prima: il 31 maggio 1953, a Busto Arsizio, durante
l'intervallo della partita Pro Patria-Udinese, sul risultato di 2-0, un emissario dei friulani convinse la
squadra di casa a non infierire sugli ospiti in cambio di una somma di circa due milioni. Procuratesi
le prove dell'accordo, Rognoni punì l'Udinese con la retrocessione in serie B, mentre Guernieri,
Mannucci, Uboldi, Fossati e Martini, calciatori della Pro Patria, conclusero la loro carriera. Sempre
nel 1955, un altro scandalo venne portato alla luce e sanzionato dall'Ufficio diretto da Rognoni: un
assegno di 200.000 lire firmato da Giulio Sterlini, segretario del Catania, e intestato a Salvatore
Berardelli, cognato di Ugo Scaramella, arbitro della sezione romana, fece scattare le meticolose
indagini di Rognoni. Fu accertato il pagamento a Scaramella di altre somme, tre assegni da 500.000
lire ciascuno, prima di due partite nelle quali era in gioco la salvezza del Catania. L'arbitro romano
fu radiato, il club siciliano venne retrocesso in serie B.
Nonostante la frenetica attività di Rognoni, gli episodi di corruzione divennero sempre più
frequenti. Nel 1958, l'indagine su una presunta combine in occasione della partita Padova-Atalanta,
pur concludendosi con l'assoluzione da parte della CAF, ebbe vasta eco in quanto coinvolgeva un
personaggio noto alle cronache, Eugenio Gaggiotti, e Silveira Marchesini, fidanzata del calciatore
del Padova Giovanni Azzin. Nel 1960 il centravanti Gino Cappello, già punito con due mesi di
squalifica 12 anni prima, venne radiato. L'Ufficio inchieste dimostrò infatti che, prima della partita
Genoa-Atalanta del 17 aprile, finita 2-1 per i bergamaschi, Cappello si era recato a Bergamo per
incontrare Cattozzo, suo ex compagno nel Bologna, e offrirgli un milione di lire in cambio del
successo sicuro. Il Genoa, retrocesso per responsabilità oggettiva, dovette scontare la punizione
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anche l'anno successivo, con 10 punti di penalizzazione in serie B. Nel 1961, furono intercettati
alcuni colloqui telefonici fra Tagnin, mediano del Bari, e Prini, ala della Lazio. Prini in un primo
momento accettò di favorire, in cambio di due milioni, il successo all'Olimpico della squadra
pugliese, che in questo modo avrebbe evitato la retrocessione, ma poi disdisse l'impegno. Secondo
gli inquirenti, la partita fu regolare, ma il comportamento dei tesserati era censurabile. Tagnin fu
squalificato per un anno. La sua carriera peraltro non ne risulterà danneggiata: al termine della
squalifica sarà reclutato dall'Inter di Moratti e Allodi e parteciperà alla finale di Coppa dei
Campioni a Vienna contro il Real Madrid.
Quando Rognoni lasciò l'Ufficio inchieste per diventare opinionista del Guerin Sportivo, l'incarico
di sorvegliare sul regolare svolgimento dei campionati fu affidato a un magistrato fiorentino,
Corrado De Biase, amico personale di Artemio Franchi, grande dirigente del calcio italiano. Tra le
vicende di corruzione di quel periodo si possono ricordare quella legata alla partita Atalanta-
Sampdoria, durante la stagione 1972-73, che vide protagonisti l'ex allenatore bergamasco Paolo
Tabanelli e il dirigente Franco Previtali e quella, nella fase finale del torneo di serie A del 1973-74,
in cui furono coinvolti Foggia e Verona. I pugliesi scontarono con la retrocessione la leggerezza di
un funzionario, che aveva consegnato all'arbitro fiorentino Menicucci un orologio d'oro prima
dell'incontro Foggia-Milan (finito 0-0). La squadra veneta fu punita nello stesso modo dopo che
Romolo Acampora, inviato de Il Mattino, fornì agli inquirenti la prova di un colloquio telefonico
intercorso, subito prima della partita Verona-Napoli, tra il presidente del Verona Garonzi e il suo ex
centravanti Clerici, passato al Napoli. Ne trasse vantaggio la Sampdoria che, retrocessa sul campo,
fu riqualificata dalla CAF.
Nel marzo 1980 scoppiò lo scandalo del calcio-scommesse, legato all'organizzazione di un giro di
scommesse clandestine da parte di un commerciante di frutta romano, Massimo Cruciani, e di
Alvaro Trinca, proprietario di un ristorante della capitale, 'La Lampara', frequentato da alcuni
calciatori laziali. Cruciani e Trinca offrivano compensi a tesserati in cambio di notizie su risultati
sicuri su cui scommettere cifre ragguardevoli, ma l'inganno non sempre riusciva e i due finirono per
accumulare debiti per quasi 200 milioni. La pubblicazione in esclusiva sul Corriere dello Sport di
un memoriale firmato da Cruciani e Trinca sollevò il velo sull'organizzazione. Le accuse sarebbero
poi state confermate dal centrocampista della Lazio Montesi, in un'intervista a la Repubblica. Seguì
l'intervento delle forze dell'ordine: il 23 marzo a Pescara, all'Olimpico, a San Siro e in altri stadi di
serie B, le forze dell'ordine fecero irruzione negli spogliatoi, arrestarono e accompagnarono nel
carcere romano di Regina Coeli i calciatori Giordano, Wilson, Manfredonia e Cacciatori della
Lazio, Albertosi e Giorgio Morini del Milan, Della Martira, Zecchini e Casarsa del Perugia, Stefano
Pellegrini dell'Avellino, Magherini del Palermo, Merlo del Lecce e Girardi del Genoa. Altri
giocatori molto noti furono convocati dagli inquirenti per accertamenti: tra loro Paolo Rossi,
Giuseppe Dossena, Giuseppe Savoldi e Oscar Damiani. Anche un dirigente, Felice Colombo,
presidente del Milan, risultò coinvolto, mentre Trinca, dopo un'ennesima ritrattazione, fu arrestato
con l'accusa di truffa. L'inchiesta della magistratura ordinaria si concluse nel dicembre 1980 con un
verdetto di proscioglimento: tutti i giocatori furono assolti per non sussistenza del fatto (per
trasformare la scommessa clandestina in reato occorreva una legge apposita) e il solo Cruciani fu
condannato a una pena pecuniaria. In parallelo a quella giudiziaria fu condotta l'inchiesta delle
autorità sportive, che alla fine sanzionarono la retrocessione in serie B del Milan per responsabilità
diretta e della Lazio per responsabilità oggettiva, la radiazione per Felice Colombo, la squalifica per
un anno del presidente del Bologna, Tommaso Fabbretti, e diversi periodi di squalifica per 21
calciatori (6 anni per Pellegrini; 5 anni per Cacciatori e Della Martira; 4 anni per Albertosi; 3 anni e
mezzo per Petrini, Savoldi, Giordano, Manfredonia e Magherini; 3 anni per Wilson, Zecchini e
Massimelli; 2 anni per Rossi; 1 anno e 2 mesi per Cordova; 1 anno per Morini e Merlo; 6 mesi per
Chiodi; 5 mesi per Negrisolo; 4 mesi per Montesi; 3 mesi per Colomba e Damiani). La vicenda,
comunque, provocò un grande sconvolgimento nel mondo del calcio italiano. Gli stadi si
svuotarono, i particolari raccontati da giornali e televisione tolsero credibilità a risultati e vicende
agonistiche, una grande società come il Milan subì una profonda crisi di immagine. Sembrava
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l'inizio di un inevitabile declino dello sport più popolare in Italia, che invece vivrà di lì a poco una
memorabile stagione con la conquista del titolo mondiale in Spagna, nel 1982, da parte della
nazionale guidata da Enzo Bearzot.
Un nuovo caso di scommesse clandestine su partite di calcio venne scoperto nel 1986 da un
magistrato torinese, Marabotto, che avviò le sue indagini in seguito a un'intercettazione telefonica.
L'inchiesta coinvolse un faccendiere napoletano, Armando Carbone, e un gruppetto di calciatori dai
modesti guadagni e di manager privi di scrupoli. Il Perugia, già retrocesso in C1 per i risultati
conseguiti in campo, fu mandato in serie C2. Subirono sanzioni anche Lazio, Udinese, Lanerossi
Vicenza, Cagliari, Palermo, Triestina, Foggia e Cavese. Ulivieri, Agroppi, Rozzi, Vinazzani, Cerilli,
Vavassori, Chinellato, Cagni e Claudio Pellegrini furono squalificati.
Gli illeciti non sono però esclusivi del calcio italiano. In Francia, suscitò enorme scalpore,
nell'autunno del 1990, la scoperta di un traffico che aveva per protagonista Jean-Claude Darmon,
accusato di finanziare in nero alcuni club francesi attraverso una serie di società-schermo.
Nell'inchiesta, condotta da un magistrato appassionato di calcio, Jean-Pierre Zanoto, risultarono
coinvolti Bordeaux, Nantes, Nizza, Paris St.-Germain e, marginalmente, anche l'Olympique
Marsiglia di Bernard Tapie. Nel 1993 lo stesso Tapie fu riconosciuto responsabile di un caso di
corruzione relativo alla partita Valenciennes-Marsiglia: il calciatore sotto accusa, Robert, dopo
l'arresto, confessò e il Marsiglia, vincitore della Coppa dei Campioni sul Milan a Monaco di
Baviera, fu punito anche dall'UEFA e non potè disputare Supercoppa Europea e Coppa
Intercontinentale.
Un giro di scommesse clandestine emerse anche in Inghilterra, nel 1995: la centrale era a Bangkok
e Singapore, ma furono dimostrati legami con i risultati di partite disputate da Manchester United e
Liverpool. Il portiere del Liverpool vincitore della Coppa dei Campioni contro la Roma nel 1984,
Bruce Grobbelaar, originario dello Zimbabwe, fu arrestato. In precedenza, altri esponenti del mondo
del calcio inglese avevano avuto problemi con la giustizia: George Graham nel 1992 per aver
intascato una tangente di un miliardo per l'acquisto di due giocatori, Mickey Thomas per spaccio di
banconote false, Peter Storey dell'Arsenal per importazione di pornovideo.
L'ultimo scandalo che ha coinvolto il calcio italiano riguarda i passaporti dei giocatori stranieri.
Nell'aprile 2000, i quotidiani italiani pubblicano, con molto rilievo, la notizia di un'inchiesta,
avviata dalla Procura della Repubblica di Roma, sulla documentazione in base alla quale il
calciatore argentino Juan Sebastian Verón ha ottenuto nel settembre 1999 la cittadinanza italiana.
La magistratura mette in dubbio che il certificato di nascita di un antenato di Verón (Giuseppe
Antonio Porcella, nato nel 1870 nel comune di Fagnano Castello, in provincia di Cosenza, e poi
emigrato in Argentina) sia autentico. Dal punto di vista dei regolamenti la notizia ha importanza in
quanto la cittadinanza è presupposto indispensabile per poter considerare il centrocampista nel
gruppo degli stranieri comunitari, poiché, per gli extracomunitari, è previsto un tetto massimo di
cinque in rosa e tre in campo.
Il caso 'passaporti puliti' esplode però in occasione di una trasferta dell'Udinese in Polonia per un
incontro di Coppa UEFA: alla frontiera un doganiere solerte scopre che i passaporti di due brasiliani
del club friulano, Silva dos Santos Warley e Alberto Do Carmo, sono falsi. Interviene anche la
magistratura di Udine e lo scandalo si allarga a macchia d'olio. Il vice-presidente vicario del Milan,
Adriano Galliani, allarmato dalla pubblicazione sulla Gazzetta dello Sport della notizia relativa alla
firma falsa sui passaporti portoghesi dei due brasiliani dell'Udinese, consegna il documento del
portiere Dida al Questore di Milano, dubitando della sua validità. Alvaro Recoba, uruguayano
dell'Inter, viene convocato a Udine in Procura e si presenta con un documento dal quale risulta
residente a Roma ma che si rivela falso, come la patente: il calciatore è costretto a tornare in patria
per munirsi di regolare passaporto. Tra il settembre 2000 e il gennaio 2001 sono resi noti altri
episodi, più o meno sconcertanti e pittoreschi. La giustizia sportiva, assediata da ricorsi alla Corte
federale e minacce di chiamare in causa la giustizia ordinaria, procede faticosamente ai due gradi di
giudizio e, nel luglio, giunge a una soluzione di compromesso: un periodo di squalifica per i
calciatori scoperti in flagranza, ammende alle società.
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