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Sospensione del procedimento con messa alla prova

di Antonella Di Spena e Antonino Urso


Introduzione
L'uomo moderno è ormai intriso da una cultura i cui valori dominanti sembrano essere solo il potere e il successo; l'individuo
moderno è tenuto ad avere successo, non a essere persona: si è provato a sostituire i rapporti relazionali affettivi con le figure
significative (familiari, amici) con rapporti di tipo formale (professionali - strumentali), l’artigianato e l'amore per il proprio
lavoro con l'efficienza e l'efficacia di un lavoro sempre più veloce, sofisticato e cangiante, che stringe a tempi sempre più stretti.
Tutto ciò al fine di essere sempre più competitivi. L'espressione "la voce della coscienza" ci indica che, più che con il tirocinio, la
coscienza si forma con l'interiorizzazione della voce ascoltata che propone e impone le norme. Freud chiama "Super-lo" questa
voce, poiché essa è divenuta un'istanza interna dello stesso Io e poiché, all'interno dell'Io, esercita l'osservazione, l'autorità e il
giudizio di coloro che hanno presieduto alla sua formazione. Attualmente si attribuisce spesso un senso peggiorativo al termine
Super-Io, inteso come il persecutore che una società repressiva avrebbe instillato all'interno dell'uomo. Per Freud, viceversa, la
formazione del Super-lo è la condizione per l'istituzione di una coscienza morale che riconcili l'individuo, portatore di pulsioni
anarchiche, con la società civile. Nell'affrontare il tema della coscienza morale Erikson distingue le regole "morali" da quelle
"etiche"; le prime, basate sulla paura della punizione, sarebbero solo un punto di partenza; le regole etiche invece
rappresenterebbero un'evoluzione delle prime e sarebbero basate su ideali, confermati razionalmente, per cui lottare. Alla base di
questa evoluzione vi è l'antinomia tra il piacere e il dispiacere. Questa coppia regola la coscienza che la vita prende di se stessa
nell'affettività (Aristotele). Senza necessariamente formularlo con tutta chiarezza, colui che accetta un'etica risolve il conflitto tra
la tendenza naturale delle pulsioni da un lato e il dispiacere di dovervi rinunciare dall'altro.
Certo oggi sembra diffondersi un sentimento depressivo che si può definire come "paura di vivere". La paura di vivere è legata
all'autostima, alla fiducia di base. Oggi viviamo in una società che isola, certo non c'isoliamo se decidiamo di non farlo, ma per
poter scegliere è necessario avere una personalità matura. Non sempre, però, la vita riserva un terreno fertile per la formazione di
una personalità adulta. Spesso non esiste dialogo in famiglia o non esiste empatia fra i suoi membri. Molti genitori per ambire a un
miglioramento delle condizioni di vita per i loro figli propongono loro un mondo facile, scevro da difficoltà e problemi. Provano a
mascherare la realtà con i suoi innumerevoli problemi quotidiani con un mondo virtuale intriso di illusioni e false speranze. Il
pensare infantile si caratterizza per la sua irrazionalità; il bambino sembra ragionare secondo criteri assolutistici del tipo tutto o
niente: si può essere solo amabili o non-amabili, fortunati o sfortunati, felici o infelici, belli o brutti, simpatici o antipatici,
intelligenti o stupidi, forti o deboli, buoni o cattivi (così il bambino vede se stesso, gli altri e tutto il mondo che lo circonda). La
realtà è ovviamente molto diversa: non ci sarà nessuno sempre felice, sempre forte o sempre intelligente; è tutto più complicato:
un individuo sarà bello per alcuni e brutto per altri, amato da certuni e odiato da tal altri, a volte forte e a volte debole, bravo in
matematica e negato per le lingue, e così via. Ma tutto questo il bambino non lo comprende, perché ragiona con una logica non-
razionale: così se qualcuno lo rifiuta, nel suo codice ciò si traduce nel non essere amabile per nessuno; se i compagni non vogliono
giocare con lui significa che è antipatico; se non capisce subito tutto a scuola è segno che è stupido; se non riesce a trattenersi dal
dire una bugia, evidentemente è cattivo. Naturalmente spetta agli adulti spiegargli che a nessuno va sempre tutto bene e che
l'apprendimento tipico dell'uomo è sempre stato quello “per prova ed errore”; e, nel far questo, non saranno importanti tanto le
parole quanto, soprattutto, i modelli offerti. Come già sostenuto da molti, ad es. Nucci (2001), dall’educazione morale tradizionale
basata sull’idea che l’acquisizione della moralità implichi un’accettazione degli standard e delle norme sociali si è passati, via via,
ad un’idea che potremmo definire più aristotelica, dove l’uomo non è più considerato un automa governato dalle passioni o dalla
cieca adesione alle norme sociali, bensì una persona che può far guidare i propri comportamenti dalla ragione e, quindi, dalla
capacità di giudicare ciò che è bene e ciò che è male. L’importante del confronto con i pari era già emersa dagli studi della
psicologia dell’apprendimento che aveva scoperto che per spiegare la grande capacità di apprendere dei primati, ed in particolare
dell’uomo, non era sufficiente ricorrere alle teorie del condizionamento classico (Pavloviane) ed operante (Skinneriano), ma c’era
bisogno di studiare l’importanza del modello. La necessità di avere qualcuno su cui modellarsi sembra accompagnare l'uomo sin
dalla nascita, si tratta del bisogno di un modello su cui riconoscersi (specchiarsi) che sia quindi molto simile a noi (ad es. per età e
caratteristiche visibili).
La rapida tecnicizzazione ha cambiato profondamente la nostra vita e la nostra convivenza. Lo stesso sviluppo tecnologico
comporta che, in molti campi, non siano più i giovani ad imparare dagli anziani, ma viceversa. In tal modo cadono in discredito i
modelli di comportamento, anche morale, che questi ultimi vorrebbero trasmettere alle nuove generazioni. L'imponente sviluppo
della tecnica ha portato e far sì che, nella valutazione dei più, la ragione strumentale (il pensare secondo le categorie della
fattibilità) abbia preso il sopravvento sulla ragione pratica (il pensiero etico). Ulteriori motivi della decadenza dei valori
tradizionali sono lo spirito concorrenziale e la seduzione della mentalità consumistica. Nel primo caso ciò comporta una
diminuzione della capacità di immedesimarsi negli altri; nel secondo caso l'individuo si lascia guidare dall'esterno, abdicando
sempre più alla coscienza personale, per cui è insicuro circa l'atteggiamento da assumere e dipende dal riconoscimento degli altri.
La libertà edonistica che l'individuo "sceglie" dipenderebbe in effetti in larga misura dall'offerta del mercato, dai mass media e
dalla moda. L'edonismo viene descritto come: la volontà di viziarsi, di godere, di sperimentare beni sensibili e immediatamente
accessibili. La metamorfosi dei valori oggi in atto significherebbe che in primo piano non stanno più miglioramenti tecnici. Il
posto dei ruoli strumentali altamente apprezzati, quali la produttività, il rendimento, l'ordine, l'avanzamento, e i valori ad essi
connessi è occupato da modalità di comportamento produttivo, quali la creatività, la sperimentazione e la solidarietà. I valori post-
materiali non migliorerebbero le nostre condizioni materiali di vita, ma le nostre relazioni con il prossimo e la qualità soggettiva
della nostra vita.
Harlow studiò gli effetti della deprivazione di affetto (vedi Allegato): come crescerà un bebè che non ha visto soddisfatto il suo
bisogno di amore? Per rispondere a questa domanda i bebè scimmia vennero privati di qualsiasi contatto con altri simili durante i
primi mesi di vita. Le scimmie, private della possibilità di soddisfare il bisogno d'amore, ma non certo di cibo, ricevuto anzi in
abbondanza, dopo qualche mese si comportavano come i pazienti di un Ospedale Psichiatrico o come criminali aggressivi e
violenti; non furono successivamente in grado di comunicare affetto sotto nessuna forma: le femmine non erano in grado di avere
rapporti sessuali neanche se avvicinate da un maschio adulto particolarmente esperto e, se costrette alla procreazione, non
sviluppavano alcun istinto materno. Una di esse, ad es., portò alla bocca la testa del suo piccolo (appena nato) e la sgranocchiò
come fosse una patatina fritta; altre schiacciavano la faccia del bebè contro il pavimento; le uniche eccezioni si verificarono
quando qualche piccolo, particolarmente capace di insistere nel richiedere affetto, continuò a richiedere le loro cure anche dopo
ripetute frustrazioni: allora e solo in qualche caso la scimmia madre cominciò a rispondere all'affetto richiesto. La rieducazione di
queste scimmie si è rivelata estremamente lunga e complessa ed è riuscita solo molti anni dopo i primi esperimenti grazie al
tenace lavoro di Melinda Novak, una collaboratrice di Harlow: non è stato sufficiente infatti esporle a modelli adulti adeguati,
segno che il solo reinserimento nel gruppo di scimmie sane non riporta automaticamente queste scimmie alla normale
capacità di dare e ricevere affetto. Per recuperarle è occorso un lungo lavoro di psicoterapia, effettuato tramite il contatto
continuo, durato anni, con un terapeuta scimmia che rispondeva a particolari caratteristiche: permetteva la regressione
(doveva avere un terzo dell'età della scimmia - paziente) ed era particolarmente accettante, tanto da permettere il fenomeno
conosciuto come "transfert".
Per essere felici, quindi, non basta soddisfare i bisogni materiali, che costituiscono solo il prerequisito minimo per evitare la
sofferenza ed uscire dallo stato di deprivazione; l'uomo ha soprattutto bisogno di amare e di sentirsi amato, di socializzare e di
stimarsi, di giudicarsi cioè positivamente rispetto alle proprie aspettative. Ne consegue che non può bastare che la società si
preoccupi di soddisfare i bisogni materiali dei cittadini: dovrà provvedere anche a quelli psicologici. Viceversa ci troveremmo in
una società di infelici: tali sarebbero infatti quegli individui che, preoccupandosi solo dei bisogni materiali, dovessero occupare
per il loro soddisfacimento una tale quantità di tempo ed energie, da non avere possibilità di soddisfare le necessità psicologiche:
ad es. lavorare dall'alba al tramonto in un setting lavorativo che non favorisce le relazioni sociali, non soddisfa il bisogno di
autostima e non consente di aver tempo per le relazioni affettive, produce sì un individuo non deprivato materialmente, ma solo e
insoddisfatto di se stesso, quindi infelice.
Come sostenuto da A. Lowen nell'introduzione al suo testo "Paura di vivere" (1982):
"... il nevrotico ha paura di aprire il proprio cuore all'amore, paura di scoprirsi o di farsi valere, paura di essere pienamente se
stesso. Possiamo spiegare queste paure da un punto di vista psicologico: aprendo il proprio cuore all'amore, si diventa
vulnerabili alle ferite; scoprendosi, ci si espone al rifiuto; facendosi valere, si rischia di essere distrutti. … Essere più vivi e avere
più sentimenti fa paura. … Poiché abbiamo paura della vita, cerchiamo di controllarla o di dominarla. Crediamo che essere
trasportati dalle emozioni sia nocivo o pericoloso. ... Questo può farci sentire dolore, ma se abbiamo il coraggio di accettarlo,
proveremo anche piacere. Se sappiamo far fronte al nostro vuoto interiore, riusciremo a realizzarci. Se siamo in grado di andare
in fondo alla nostra disperazione, scopriremo la gioia. E in questa impresa terapeutica abbiamo bisogno di aiuto. L'individuo
nevrotico è in conflitto con se stesso. Una parte del suo essere cerca di dominarne un'altra. Il suo Io tenta di sottomettere il
corpo; il suo pensiero razionale, di controllare le emozioni; la sua volontà, di superare paure e angosce. Sebbene questo conflitto
sia per lo più inconscio, il suo effetto è di esaurire le energie di una persona e di distruggere la pace della mente. Il carattere
nevrotico assume forme diverse, ma tutte implicano una lotta all'interno dell'individuo tra quello che è e quello che crede di
essere. … I genitori, come rappresentanti della cultura, hanno la responsabilità di infondere i propri valori ai figli. Esigono da
loro atteggiamenti e comportamenti destinati a inserirli nel contesto sociale e culturale di appartenenza. Da una parte il bambino
oppone resistenza a queste richieste perché equivalgono a un addomesticamento della sua natura animale ma per diventare parte
del sistema, deve essere domato. D'altra parte il bambino desidera conformarsi a queste esigenze per ottenere l'amore e
l'approvazione dei genitori. Il risultato dipende dalla natura delle richieste e dal modo in cui sono imposte. Con l'amore e la
comprensione è possibile insegnare al bambino le abitudini e le regole di una cultura senza soggiogare il suo spirito. Ma,
purtroppo, nella maggior parte dei casi, il processo di adattamento del bambino alla cultura indebolisce la sua personalità, e ciò
lo rende nevrotico e timoroso della vita. Il processo culturale che ha dato origine alla società moderna e all'uomo moderno è
stato lo sviluppo dell'Io. Questo sviluppo è associato all'acquisizione della conoscenza e alla conquista del potere sulla natura.
L'uomo appartiene alla natura come qualsiasi altro animale ed è completamente soggetto alle sue leggi; ma egli è anche al di
sopra della natura, poiché agisce su di essa e la controlla. Si comporta nello stesso modo con la sua intima natura; una parte
della sua personalità, l'Io, si ribella alla parte animale, il corpo. L'antitesi tra Io e corpo produce una tensione dinamica che
favorisce il processo della cultura, ma contiene anche un potenziale di distruzione. Questo può capirsi meglio con l'analogia
dell'arco e della freccia. Più si tende l'arco, più la freccia volerà lontano. Ma se lo si tende troppo, si spezzerà. … Ciò che si fa
della propria vita non dipende dai genitori, dal capo o dal partner. Dipende da noi e da noi soltanto, è solamente nelle nostre
mani. Non bisogna lasciarsi sfuggire l’opportunità di abbracciare l’emozionante avventura della vita. Si sperimenteranno
fallimenti e delusioni, sarà inevitabile. Ma queste saranno le pietre miliari lungo il cammino di una vita vissuta con coraggio e
schiuderanno uno spazio infinito di gioia, pienezza e felicità."
A ciò si può aggiungere l'affermazione di Pavlov che: "... una persona è realmente sana se persegue uno o più obiettivi a lungo
termine" (in Cuny, 1964); infatti "Solo chi per tutta la vita persegue uno scopo accessibile... ha una vita bella e intensa. Ogni
progresso, ogni conquista, sono funzioni di questo riflesso di scopo. La vita cessa di essere attraente dal momento che manca di
scopo. I suicidi mettono fine ai loro giorni perché non trovano più alcun senso nella vita; la loro tragedia consiste nel non poter
superare una fase di momentanea inversione del riflesso di scopo".
Sostiene Adler (1975, pag. 4) che: "Il fatto fondamentale nello sviluppo umano è costituito dalla tendenza dinamica e finalistica
della psiche. Un fanciullo fin dalla sua prima infanzia è impegnato in una continua lotta per affermarsi e questa lotta tende a un
fine che è vissuto inconsciamente, ma che è sempre presente in lui e che corrisponde ad una visione di grandezza, perfezione e
superiorità. Questa lotta, questa attività formativa di mete, rispecchia naturalmente la particolare maniera di pensare e di
immaginare dell'uomo e domina tutte le nostre specifiche azioni nel corso della vita. Essa domina anche i nostri pensieri perché
noi non pensiamo obiettivamente, ma in funzione del fine e dello stile di vita che ci siamo costruiti".
Frankl parla invece di "significato della vita". Il nucleo concettuale della proposta di Frankl indubbiamente sta proprio nella
ripresa e nello sviluppo della "volontà di significato", poiché "il preoccuparsi del significato della propria esistenza caratterizza
l'uomo in quanto tale" (Frankl, 1974). Frankl propone di lavorare sul significato da dare alla propria vita, come momento
preminente durante una psicoterapia: "Ogni epoca ha la sua nevrosi ed ogni epoca necessita di una sua psicoterapia. … abbiamo
oggi a che fare ... con un nuovo tipo di nevrosi, che dal punto di vista sintomatologico lascia apparire in primo piano la carenza
di interessi ed una mancanza di iniziativa. Non si tratta perciò tanto di una sintomatologia espressamente clinica, quanto invece
di un disturbo della motivazione ... Alcune ricerche rilevano che alla base di una tale nevrosi è presente un radicale sentimento di
mancanza di significato. ... Un tale senso di assurdità è ora unito ad un senso di vacuità a quello che solitamente definisco "vuoto
esistenziale". E si moltiplicano le indicazioni che dimostrano una sempre più larga diffusione del vuoto esistenziale".
Ci ricorda Bauman che “… il nostro è un tipo di modernità individualizzato, privatizzato, in cui l’onere di tesserne l’ordito e la
responsabilità del fallimento ricadono principalmente sulle spalle dell’individuo” (2002, pag. 13), dove si vive l'assenza di
direttrici e criteri di individuazione della nostra posizione nel contesto sociale. Dinanzi alle sfide della globalizzazione, del
relativismo culturale, dell'individualismo, in un certo senso paradossalmente, aumenta l'interesse verso alcuni principi
fondamentali elaborati del pensiero sociale, specie quello di derivazione cattolica, come la destinazione universale dei beni, il
bene comune e la solidarietà. Negli anni ottanta, con la fine delle grandi ideologie e l'emergere della cosiddetta "network society,"
post-moderna e globalizzata, la società tradizionale ancorata a ben definiti valori si è trovata improvvisamente impreparata al
cambiamento globale caratterizzato da una sempre maggior interdipendenza tra i diversi piani della realtà socio-economico e
politica in differenti contesti del mondo. Ciò ha generato la "società liquida" (Bauman, 2002) dove le situazioni in cui gli uomini
agiscono, si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. Nel contesto odierno
globalizzato e post-moderno, la trasmissione dei contenuti risulta possibile in tanto quanto si pongano in essere idonei processi
comunicativi in una prospettiva interazionista, mediata a livello simbolico, che coglie come il giovane costruisce
intersoggettivamente la propria identità, ruolo sociale e analisi della realtà sociale sul palcoscenico della vita quotidiana (Archer,
1997). L'interazionismo simbolico poggia in sostanza su tre semplici premesse:
1) La prima è che gli esseri umani agiscono verso le cose sulla base del significato che queste hanno per loro. Tra esse si può
includere tutto quanto gli individui notano tra gli oggetti del loro mondo fisico.
2) La seconda è che il loro significato è derivato da, o sorge, dall'interazione sociale di ciascuno con i suoi simili.
3) La terza è che questi significati sono trattati e modificati lungo un processo interpretativo usato dalla persona nel rapporto con
le cose che incontra.
L'effetto del processo di individualizzazione che ne deriva si può anche descrivere come la crisi dell'idea di cittadino che ricerca il
proprio benessere, la propria realizzazione attraverso l'impegno nel conseguimento del benessere della città e della collettività.
Infatti, la tendenza odierna, porta l’individuo ad una certa indifferenza verso principi fondamentali quali il bene comune, la
solidarietà, la partecipazione e a massimizzare la propria libertà di agire, secondo i propri desideri o interessi, anche a scapito
dell'altrui dignità umana e dei diritti fondamentali. Sono quindi venuti a mancare i tradizionali modelli di dipendenza e
interazione, stabili riferimenti entro cui muoversi. Con il processo di secolarizzazione, si è infatti assistito alla caduta dei modelli
di riferimento tradizionali ed il conseguente imporsi di modalità di interfaccia con l’ambiente a seconda della circostanza. Con la
progressiva destrutturazione dei valori culturali condivisi e in un contesto caratterizzato dall’incertezza e dal rischio, si deve
rilevare altresì, l'inevitabile depotenziamento della metodologia educativa classica basata sul modello educativo integrazionista e
conflittualista, come ben descritto da Bauman: "Il coordinamento (forse persino l’armonia preordinata) tra lo sforzo di
“razionalizzare” il mondo e lo sforzo di educare esseri razionali adatti ad abitarvi, ossia l’assunto di fondo del progetto
educativo moderno, non pare più credibile" (2002, pagg. 175-176).
In questo contesto diviene centrale il dibattito sulle condizioni dell’educazione e della trasmissione valoriale alle giovani
generazioni in particolare in rapporto alle metodologie di comunicazione. Tale dibattito molto spesso appare contrassegnato da un
atteggiamento di ripiegamento rinunciatario dovuto, da un lato, dalla presa di coscienza del fallimento dell'azione educativa
tradizionalmente intesa e dall’altro dalla sfiducia nutrita verso il mondo giovanile percepito come inesorabilmente in declino
morale. Purtroppo molti genitori non sono in grado di proporre modelli realistici e non sempre trovano aiuto negli altri educatori
(gli insegnanti del resto non possono sostituirsi alla famiglia), nei consiglieri spirituali (sempre meno richiesti e spesso senza
alcuna preparazione psicopedagogica) e tanto meno nei mass media (che sembrano non far altro che proporre idoli, eroi falsi
costruiti su misura per attrarre: falsamente perfetti ed ancora più falsamente felici). Troppo spesso accade di incontrare adulti non
cresciuti che, non possedendo un modello reale (risultato di una corretta conoscenza di sé e della realtà circostante = scala valori
reale), persistono nel confrontare il proprio e 1'altrui comportamento con un'immagine ideale (proveniente non dalla conoscenza
dell'esistente, ma di ciò che "dovrebbe essere"), col risultato di vivere costantemente in uno stato di insoddisfazione e col rischio
di giungere al rifiuto di qualsiasi modello, nel vano tentativo di superare tale insoddisfazione. La diretta conseguenza che ne
scaturisce è vivere solo sulla spinta dei propri desideri, perdendo il senso della vita e dell'esistenza. Ne conseguiranno due forme
di patologia: quella di chi rifiuta di confrontare il proprio comportamento con un modello e vive schiavo degli avvenimenti, ed i
cui umori e percezioni seguiranno le alterne fortune della vita; chi invece continua testardamente a non voler crescere, a non
superare lo stato adolescenziale, e confronta il proprio e l'altrui comportamento con un modello ideale (irraggiungibile, in quanto
tale), col conseguente rifiuto di se stesso e dell'altro. La persona psichicamente sana non sarà quindi quella libera da modelli di
comportamento e che vive del soddisfacimento dei propri desideri, ne' quella che rifiuta continuamente se stessa o l'altro perché
inadeguati nei confronti del modello ideale; sarà invece quella che riconosce ed accetta la propria e l'altrui limitatezza e nello
stesso tempo continua ad amare se stessa e gli altri.
Quando ci si vuole impegnare nell'educazione non si può prescindere dal fatto che i valori, in modo più o meno conscio, orientano
le azioni e costituiscono gli elementi base per la costruzione dell’identità. Essi sono il mezzo con cui le persone giudicano sé
stesse, gli altri e il sistema dove sono inserite e quindi rappresentano un fattore essenziale per comprendere e leggere le
rappresentazioni, le percezioni che gli attori sociali costruiscono attorno al sistema sociale. A tal riguardo molte ricerche
sottolineano come i giovani aspirino a nuovi grandi obiettivi etici, ambientali, solidali, partecipati e disinteressati. Ciò rende
giustizia dello stereotipo che tende a liquidare i giovani d’oggi solo come una generazione indifferente e apatica. Così che proprio
nell’attuale momento storico risulta essenziale il poter disporre di un modello educativo che sia in grado di esprimere tutta la sua
ricchezza e le sue potenzialità finalizzate al perseguimento del bene comune e della salvezza della società attraverso la proposta di
un modello di azione caratterizzato dalla metodologia del vedere, giudicare e agire alla luce di principi di riflessione, criteri di
giudizio e direttive di azione derivanti da valori solidali condivisi. Un riferimento valido per i giovani che permetta di superare
l’esasperato individualismo, il disorientamento del "navigare a vista" attraverso la creazione di dinamiche partecipative e
intersoggettive. Il giovane, circondato da un eccesso di modelli spesso antitetici e senza reali poteri coercitivi, diviene
responsabile delle sue scelte e delle relative conseguenze, in un contesto caratterizzato dall'assenza o dall'indebolimento di stabili
gruppi di riferimento e di orientamento.
A fronte di un progresso talora indiscriminato e alla produzione su scala universale, da più parti si condivide la necessità di una
regolamentazione gerarchizzata dei valori in campo che parta dalla difesa della dignità umana e dei diritti umani. La nuova
attenzione alla vera natura umana, insieme alla necessità di una solidarietà universale tra tutti gli uomini, può divenire quel terreno
comune capace di guidare la globalizzazione. A questo punto diviene centrale il problema della trasmissione dei contenuti
valoriali attraverso l'attivazione di un processo partecipato e dinamico che parta da quello che possiamo scorgere nel mondo della
vita dei giovani e dalla necessità di trovare processi comunicativi adatti. Considerando infatti, il significato di comunicazione,
come abilità emotiva, che consiste nel creare negli altri un’esperienza tale da coinvolgerli fin nelle viscere, si deve rilevare
l'insufficienza del modello trasmissivo comunicativo tradizionale di tipo gerarchico-burocratico che si risolve in una mera
trasmissione di informazioni e nozioni, per quanto con modalità creative e coinvolgenti (Goleman, 1996). Possiamo parlare
quindi, di crisi del modello tradizionale di educazione-socializzazione, definito in generale come modello integrazionista di
stampo comportamentista. L’apprendimento cosiddetto scolastico-tradizionale, luogo di trasmissione di un patrimonio conoscitivo
consolidato alle nuove generazioni su mandato della società, è oggi soppiantato in larga parte da un approccio cognitivo di stampo
costruttivista dove il soggetto che apprende è il reale protagonista di un processo di costruzione della propria conoscenza
attraverso un'attività cognitiva, contestualizzata e integrata all’interno di attività che si svolgono nel mondo sociale. La corretta
impostazione parte dal presupposto che le radici comunicative dell'attività formativa devono essere rilette all'interno di un modello
interazionista comunicativo simbolico che si caratterizza per la creazione e l’interpretazione di significati rispetto alla realtà
attraverso il rapporto intersoggettivo e l'interazione reciproca degli attori sociali. Fondamentale appare la centralità del soggetto e
la sua capacità di comunicare; soggetto caratterizzato da un'identità narrativa in grado di reinterpretare e risignificare la realtà,
tradizionalmente data per scontata, cognitivamente, relazionalmente e riflessivamente. Il modello interazionista si focalizza infatti
sul “farsi della realtà sociale” (Blumer, 1969) dove i giovani, all'interno dello scenario della loro realtà sociale, punto di
riferimento imprescindibile, sono messi nelle condizioni di riaffermarlo e mutarlo continuamente attraverso le loro continue
azioni, interpretazioni e interazioni. In sintesi le problematiche sopra descritte richiedono che questo patrimonio culturale
consolidato venga condiviso con le nuove generazioni partendo dall'analisi dai loro significati e dalle loro concezioni, mediate
simbolicamente, sui problemi della società, prodotte nel corso dell’interazione sociale all'interno del “mondo della vita”. E' a
partire da questo che, nel nostro contesto sociale globalizzato e plurale, appare necessario fare un passo ulteriore nella direzione di
individuare nel confronto tra soggettività diverse, portatrici di valori e concezioni differenti, le condizioni attraverso cui risulti
possibile per i giovani, attivando processi argomentativi dialogici e razionali, arrivare a delle intese sui principi fondanti, partendo
dall'esame dei problemi e delle contraddizioni sociali da essi vissuti.
Per comunicare non è neppure sufficiente l'abilità tecnica degli strumenti mass-mediatici. S'impone la necessità di un profondo
cambiamento culturale e di prospettiva. Il panorama scientifico ha preso atto della rivoluzione avvenuta nel mondo giovanile con
l'avvento della globalizzazione e della società post-moderna, nel modo di concepire e costruire la propria vita che ha portato a
superare il modello tradizionale lineare a fasi consecutive (formazione, lavoro, pensionamento) con uno scenario caratterizzato
dalla discontinuità delle carriere di vita e con un intreccio di esperienze formative e lavorative. Il passaggio da una fase della vita
ad un'altra è diventato, per le generazioni giovani caratterizzate da un'identità fluida (Bauman, 2001, pag. 153), via via meno netto
e più sfumato. Si tratta di una fluidità esperienziale, data dalle continue transizioni tra diverse attività e ruoli sociali, nella ricerca
che ogni giovane compie per trovare il proprio posto nel mondo (Buzzi et al., 2007, pag. 12).
Per i giovani si è verificato un continuo differimento delle scelte di vita personali, in particolare di quelle che identificano la
transizione dalla giovinezza all’età adulta, dovuto anche al prolungamento del percorso scolastico medio, all'invecchiamento della
popolazione e alle difficoltà di entrata e stabilizzazione nel mercato del lavoro. Oggi l'universo giovanile è descritto generalmente
in una permanente crisi d'identità. Il fatto che i giovani siano i soggetti più coinvolti in questo repentino e radicale mutamento
sociale è oggi un dato di fatto; così che le giovani generazioni, complice anche la prolungata crisi economica e occupazionale
globale, risultano le più danneggiate dall'attuale negativa congiuntura economica. I dati statistici confermano che le giovani
generazioni, già detentrici di minor risorse e posizioni rispetto agli altri attori sociali, per la prima volta non riusciranno a
mantenere il tenore di vita raggiunto dai propri genitori.
Parlare di giovani oggi appare questione tutt'altro che semplice e scontata se si considera come nelle società preindustriali non vi
fosse un tempo per esserlo e il passaggio all'età adulta avvenisse con il raggiungimento di una determinata età biologica
convenzionale. Il concetto di stampo giuridico di "giovane adulto" (18-25 anni) risulta essere anch'esso difficile da definire.
Utilizzare una semplice definizione biologica del resto non risulterebbe corretto poiché il percorso di maturazione della sfera
psicologica e culturale della persona non è necessariamente direttamente connesso all’età anagrafica. La letteratura in materia è
concorde nel considerare la giovinezza come una rappresentazione sociale, dai confini e dai caratteri indefiniti, fluida, sempre
relativa e non estrapolabile dal contesto storico e sociale in cui viene essa stessa definita. Essa è ben descritta da Levi e Schmitt:
"Si colloca all’interno dei margini mobili tra la dipendenza infantile e l’autonomia dell’età adulta, in quel periodo di puro
cambiamento e di inquietudine in cui si realizzano le promesse dell’adolescenza, tra l’immaturità sessuale e la maturità, tra la
mancanza e l’acquisizione di autorità e di potere. In questo senso, nessun limite fisiologico è sufficiente a identificare
analiticamente una fase della vita riconducibile piuttosto alla determinazione culturale delle società umane, al modo in cui esse
cercano di identificare, di dare ordine e senso a qualcosa che appare tipicamente transitorio, vale a dire caotico e
disordinato" (1994, 6). L’età giovanile, del resto, è generalmente considerata una fase transitoria che segna progressivamente
l'addio dell’adolescenza e la contestuale assunzione delle funzioni e delle caratteristiche del mondo adulto. In Italia le prime
indagini facevano rientrare nella categoria dei giovani coloro che avevano un’età compresa tra i 15 e i 24 anni; delimitazione che è
andata successivamente e progressivamente ampliandosi fino ad arrivare ai nostri giorni addirittura sino ai 34 anni. Se nella prima
parte del Ventesimo secolo, la giovinezza individuava una breve fase della vita, nella seconda metà la situazione si modifica
sensibilmente fino a essere considerata come destinata ad un’infinita estensione. In sostanza, i passaggi più significativi, dopo la
comparsa della gioventù negli anni cinquanta, sono caratterizzati dalla caduta della continuità e conformità tipica di quegli anni e
dalla successiva ribellione, molte volte collettiva, e il conseguente scontro diretto fra generazioni. Tale contrapposizione è andata
via via scomparendo lasciando il campo a un crescente rapporto di empatia del mondo giovanile con la realtà adulta. Il cosiddetto
scarto generazionale, molto evidente negli anni sessanta-settanta, si stempera così a partire dagli anni ottanta, riavvicinando
progressivamente le generazioni sotto il profilo degli stili di vita e di consumo, in una sorta di colonizzazione reciproca, dove si
evidenzia la tendenza al giovanilismo (quando un adulto si maschera da giovane) negli adulti e per contro all'adultismo (quando
un giovane si maschera da adulto) nei giovani, soprattutto per quanto riguarda l’anticipazione di comportamenti adulti e la
richiesta di autonomia nelle scelte e nella libertà di movimento. Il ritardo e la reversibilità del superamento del passaggio tra la
giovane età e la vita adulta hanno influito fortemente nel rendere la linea di demarcazione sempre meno identificabile, con
l'insorgenza di un processo di confusione tra la condizione giovanile e la condizione adulta. Sino al punto che diventa sempre più
difficile distinguere la maschera (intesa come un mediatore tra l’Io e il mondo esterno) che l'individuo indossa dalla realtà che ad
essa sottende. Quindi maschera come necessità per adattarsi alla Società, per essere riconosciuto nel proprio ruolo ed essere
accettato come persona; siamo chiaramente in una logica pirandelliana. È soltanto con Parsons (1968) che la gioventù viene presa
in esame come materia oggetto di studio in rapporto alla società, egli lo fa con un approccio struttural-funzionalista, che analizza
il comportamento giovanile in funzione della stabilità e riproducibilità del sistema sociale utilizzando meccanismi di
socializzazione. Al filone strutturalista viene a contrapporsi dalla fine degli anni sessanta un filone di pensiero che parte dal
quadro teorico dell'individualismo, nega, cioè che il modo di pensare ed il comportamento del soggetto siano solo la risultanza
delle conseguenze dell'effetto predeterminato della struttura, ed individua, viceversa, nell'agire del soggetto stesso, l'elemento
portante di analisi e di interpretazione della realtà. Si sviluppa, infine, una terza tendenza, che cerca di superare la dicotomia
classica tra struttura e agire, chiarendo come la transizione alla vita adulta si realizza in un intreccio di agency del soggetto e
chances di vita, per cui la struttura diventa, allo stesso tempo, mezzo e risultato della riproduzione delle pratiche. Il panorama
scientifico ha preso atto della rivoluzione avvenuta nel mondo giovanile con l'avvento della globalizzazione e della società post-
moderna, che hanno portato un radicale cambiamento nel modo di concepire e costruire la propria vita, ciò ha portato al
superamento del modello tradizionale di tipo lineare a fasi consecutive (formazione, lavoro, pensionamento) con uno scenario
caratterizzato dalla discontinuità delle carriere di vita e con un intreccio variegato di esperienze formative e lavorative. I giovani
non desiderano essere ingabbiati dentro i binari di una transizione lineare secondo i confini della generazione precedente, in
quanto molte delle promesse che l’accompagnano si sono rivelate poco realizzabili e carenti di sicurezze. Il passaggio da una fase
della vita ad un'altra è diventato, per le generazioni giovani, caratterizzate da un'identità fluida (Bauman 2001), via via meno netto
e più sfumato. Si tratta di una fluidità esperienziale, data dalle continue transizioni tra diverse attività e ruoli sociali, nella ricerca
che ogni giovane compie per trovare il proprio posto nel mondo.
Vivere in una società post-tradizionale è qui ben descritto da Giddens:
"È una società dove i legami sociali devono essere effettivamente creati, piuttosto che ereditati dal passato: sia personalmente sia
collettivamente questa è un’impresa difficile, ma che allo stesso tempo offre possibilità di grandi soddisfazioni e guadagni. È
decentrata in termini di autorità, ma ri-centrata in termini di opportunità e dilemmi, perché focalizzata su nuove forme di
interdipendenza. Considerare il narcisismo, o persino l’individualismo come l’essenza di un ordine post-tradizionale è un errore
(…). Nella sfera della vita interpersonale, aprirsi all’altro è la condizione fondamentale della solidarietà sociale" (1999).
Il fatto che i giovani siano i soggetti più coinvolti in questo repentino e radicale mutamento sociale è oggi un dato di fatto,
confermato anche da autorevoli ricerche internazionali, dove le giovani generazioni, complice anche la prolungata crisi economica
e occupazionale globale, certamente risultano le più danneggiate dall'attuale negativa congiuntura economica. Dai dati statistici
emerge che quest'ultime, già detentrici di minor risorse e posizioni rispetto agli altri attori sociali, per la prima volta non
riusciranno a mantenere il tenore di vita raggiunto dai genitori. In generale, ciò che forse riguarda maggiormente i giovani e le
loro interazioni con le generazioni adulte, è il passaggio da un sistema sociale strutturato e prestabilito, caratterizzato da
determinate attese sociali e familiari, ad un sistema in cui nulla viene considerato scontato, con un conseguente aumento
esponenziale delle possibilità di scelta per l’individuo. Con il processo di secolarizzazione, si è infatti assistito alla caduta dei
modelli di riferimento tradizionali ed il conseguente imporsi di modalità di interfaccia con l’ambiente a seconda della circostanza.
Si è passati quindi da una struttura familiare verticale ad un modello orizzontale caratterizzato dalla trasformazione del ruolo della
donna, dal progressivo contenimento dei tassi di natalità, della compresenza di più generazioni e dall’irresistibile ascesa della
socialità ristretta (famiglia mononucleare). Per i giovani si è verificato un continuo differimento delle scelte di vita personali, in
particolare di quelle che identificano la transizione dalla giovinezza all'età adulta, dovuto anche al prolungamento del percorso
scolastico medio, all'invecchiamento della popolazione e alle difficoltà di entrata e stabilizzazione nel mercato del lavoro.
In questo contesto diviene centrale il dibattito sulle condizioni dell’educazione e della trasmissione valoriale alle giovani
generazioni in particolare in rapporto alle metodologie di comunicazione. Tale dibattito molto spesso appare contrassegnato da un
atteggiamento di ripiegamento rinunciatario dovuto, da un lato, dalla presa di coscienza del fallimento dell'azione educativa
tradizionalmente intesa e dall’altro dalla sfiducia nutrita verso il mondo giovanile percepito come inesorabilmente in declino
morale. Ciò da cui invece non si può prescindere è il fatto che i valori, in modo più o meno conscio, orientano le azioni e
costituiscono gli elementi base per la costruzione dell’identità. Essi sono il mezzo con cui le persone giudicano sé stesse, gli altri e
il sistema dove sono inserite e quindi rappresentano un fattore essenziale per comprendere e leggere le rappresentazioni, le
percezioni che gli attori sociali costruiscono attorno al sistema sociale.
A ciò bisogna integrare il fondamentale aspetto della “riconciliazione tra le generazioni” che emerge da indagini empiriche
attraverso le domande rivolte dai giovani ai loro adulti di riferimento a cui, anche se prendendo le distanze dalle modalità
educative tradizionali, chiedono l’instaurazione di un rapporto di dialogo finalizzato a:
• essere educati assumendosi rischi e responsabilità attraverso sfide reali con degli adulti di riferimento;
• essere accompagnati nelle scelte con pazienza e ascolto, senza giudizi di valore già prefabbricati;
• capire le regole e vederle rispettate nella pratica;
• essere affascinati da testimoni che attestino la possibilità di condurre vite autentiche.
Quattro punti che possono essere considerati quasi un codice di regole su come bisognerebbe comportarsi quando si vuole
diventare un valido formatore dei giovani. Specie laddove si ci vuole impegnare nella trasmissione di contenuti valoriali di stampo
opposto a quelli già presenti (criminali) nel gruppo di giovani con i quali si vuole lavorare; ciò risulta possibile in tanto quanto si
pongano in essere idonei processi comunicativi in una prospettiva interazionista, mediata a livello simbolico, che coglie come il
giovane costruisce intersoggettivamente la propria identità, ruolo sociale e analisi della realtà sociale sul palcoscenico della vita
quotidiana. Questo risulterà realizzabile nella misura del verificarsi di una nuova disponibilità all’ascolto, all'accompagnamento e
alla comunicazione da parte degli educatori (in particolare i conduttori dei gruppi) risultato di una ricerca di strategie comunicative
efficaci che dovranno tener conto che gli attori sociali interpretano il mondo come macro-sistema attraverso i riferimenti culturali e
linguistici del proprio micro-sistema (il proprio ambiente) esistendo uno stretto rapporto fra cultura di un determinato contesto e
percezione/capacità espressiva.

La Riforma del Sistema Giustizia


La legge n. 67 del 28 aprile 2014, costituisce il primo importante tassello di una riforma di tutto il sistema della giustizia, che
punta all’individuazione di una giusta proporzione della sanzione penale in relazione al bene violato, alla gravità del
comportamento e alla pericolosità sociale del soggetto. La prima parte della legge delega il Governo ad emanare uno o più decreti
legislativi per la riforma del sistema delle pene detentive non carcerarie attuando il principio secondo il quale: "la detenzione in
carcere deve essere considerata come una extrema ratio", limitata ai delitti gravi e alla quale ricorrere quando altre sanzioni
risultino inefficaci, garantendo, comunque le esigenze di sicurezza sociale. Ciò che è sotteso a questo principio è la sostanziale
fiducia (basata sulle ricerche della psicologia moderna, in particolare quella di orientamento cognitivo comportamentale (in
particolare Skinneriana) e gli studi (prima esaminati) di Harlow e Bowlby che: il comportamento dell'individuo è il risultato dei
condizionamenti sociali (le sue esperienze di vita) e non della sua natura criminale: il suo carattere innato (come sostenuto da
certa psichiatria di un non lontano passato). Ne consegue che l'individuo che ha commesso crimini non va rinchiuso o terminato
(giustiziato tramite ghigliottina o camera a gas) come fosse un'animale feroce e pericoloso per gli altri esseri umani. Ma, coscienti
che qualsiasi essere umano, se messo in determinate condizioni (vedi anche le ricerche allegate di psicologia sociale di Milgram e
Zimbardo), potrebbe comportarsi come un criminale incallito; va, viceversa: rieducato. Con la conseguenza, quindi, di
consolidarsi in una forma di intervento che tende ad avvicinarsi a quei sistemi penali, specialmente anglosassoni, nei quali la pena
si modula ogni volta: sulle reali e concrete esigenze rieducative del soggetto, senza mai perdere di vista le valenze retributive e
preventive che la pena deve sempre e comunque mantenere.
Accanto all’esigenza di trovare soluzioni deflattive per gli istituti penitenziari, vi è anche quella sollecitata dai documenti
provenienti dall’Unione europea di individuare istituti alternativi al processo penale, idonei a dare una diversa risposta a
determinate categorie di reati. A tale esigenza risponde la seconda parte della legge, che introduce nel nostro ordinamento la
sospensione del procedimento con messa alla prova, una forma di probation giudiziale che, lungi dall’essere un istituto
clemenziale, permette ai giudici di concentrarsi sui delitti che creano maggiore allarme sociale. Un’esigenza deflattiva per gli
uffici giudiziari, in questo caso. Esigenza molto sentita, visto l’elevato numero dei procedimenti penali (basti pensare che quelli
con autore noto, avviati in tribunale negli ultimi tempi, hanno superato il milione all’anno) e al senso di incertezza e sfiducia
collettiva che ne deriva.
L’istituto della messa alla prova nell’ambito del processo penale degli adulti, pur costituendo l’estensione di uno strumento già da
diversi anni sperimentato nel rito penale minorile, mira ad adeguarsi alle esigenze tipiche del processo penale, in modo da
coniugare le finalità risocializzanti con quelle preventive. Esso realizza una rinuncia alla potestà punitiva dello Stato, condizionata
al buon esito di un periodo di prova controllata ed assistita e trova applicazione per i reati punibili con la reclusione fino a 4 anni
(non si applica ai delinquenti e contravventori abituali, professionali o per tendenza). Inoltre, a differenza del probation minorile,
nel caso degli adulti l’istituto deve essere richiesto dall’interessato, il quale, personalmente o a mezzo di procuratore speciale,
entro i termini perentori espressamente indicati dalla norma, dovrà rivolgersi all'Ufficio di esecuzione penale esterna
territorialmente competente per la definizione di un programma di trattamento, da allegare all'istanza di sospensione del
procedimento con messa alla prova. L'Ufficio, quindi, trasmette il programma di trattamento che dovrà garantire l’organicità dei
contenuti, la chiarezza degli impegni e la congruità degli obiettivi, unitamente all'indagine socio-familiare con le considerazioni
che lo sostengono. Dalla formulazione e dai contenuti di detto programma, congiuntamente ad eventuali altre informazioni
(acquisibili attraverso gli organi di polizia o altri enti pubblici) il giudice trae gli elementi per valutare la personalità dell’imputato,
la sua estrazione sociale, il contesto familiare e la propensione a delinquere e può decidere se ammetterlo alla prova “sentite le
parti, nonché la persona offesa”. Considerata l’ampiezza dei benefici cui potrebbe aspirare il soggetto che ha richiesto la misura,
ogni atteggiamento lassista è da ritenere inaccettabile. Così come inaccettabile è la formulazione di un programma di trattamento
che non tenga in debito conto le negative ricadute sulla collettività che ciò comporterebbe, anche in termini di credibilità del
servizio medesimo e dell’intero sistema della giustizia.
Altra importante novità attiene alla disciplina dei contenuti dell’istituto che sono previsti dal legislatore ex ante e possono essere
suddivisi in quattro macro categorie:
• reinserimento sociale dell’imputato;
• prescrizioni riparatorie;
• affidamento al servizio sociale;
• condotte finalizzate alla promozione della mediazione con la persona offesa.
Con la sospensione del procedimento, l'imputato viene affidato, con ordinanza, all'Ufficio di esecuzione penale esterna per lo
svolgimento del programma di trattamento ritenuto idoneo dal giudice e, al fine di evitare che l’istituto si trasformi in una sorta di
gratuita impunità per l’imputato, durante il periodo di prova, è sospeso il corso della prescrizione.
Elemento imprescindibile del programma di trattamento e che costituisce il nocciolo sanzionatorio con componente afflittiva della
nuova misura è: lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. Si tratta di un tipo di attività lavorativa che presenta le seguenti
caratteristiche:
• deve essere una prestazione non retribuita;
• va determinata tenendo conto delle specifiche professionalità e attitudini lavorative dell’imputato;
• deve avere una durata minima di 10 giorni anche non continuativi;
• è una prestazione da svolgere in favore della collettività presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni, presso le
aziende sanitarie o le organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato, anche internazionali;
• la durata giornaliera non può superare le 8 ore;
• deve essere svolta con modalità tali da non pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute
dell’imputato.
L’efficacia dell’istituto è strettamente connessa al corretto e serio adempimento dei contenuti del programma di trattamento,
infatti, decorso il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova, il giudice, tenuto conto del comportamento
dell'imputato, qualora riterrà che la prova abbia avuto esito positivo, dichiarerà, con sentenza, estinto il reato. Invece, nel caso di
esito negativo della prova, per grave e reiterata trasgressione del programma di trattamento o delle prescrizioni, per il rifiuto
opposto alla prestazione del lavoro di pubblica utilità, per la commissione durante il periodo di prova di un nuovo delitto non
colposo o di un reato della stessa indole di quello per cui si procede, il giudice, con ordinanza, dispone la revoca della misura e la
ripresa del procedimento. In questo caso, dalla pena da eseguire in caso di condanna, si detrae un periodo corrispondente a quello
della prova eseguita, che va calcolato secondo precisi parametri.
Per la piena attuazione della riforma in atto si è cercato di implementare e consolidare le connessioni esistenti tra i servizi
territoriali di probation, la magistratura ordinaria e il complesso di agenzie pubbliche e private nonché del volontariato presenti
nelle comunità. Tali sinergie, sono volte al superamento di alcune criticità ancora purtroppo presenti e al miglioramento della
qualità degli interventi previsti per far fronte alle sempre più numerose richieste di messa alla prova, che hanno comportato
l’avvio di oltre 25.000 nuovi procedimenti per gli uffici territoriali, già da tempo in grave sofferenza e per i quali è indifferibile
che si provveda all’individuazione di soluzioni più strutturali e definitive.
Al fine di non compromettere ulteriormente la già precaria credibilità del sistema della giustizia penale italiana, occorre garantire
il miglior funzionamento possibile del nuovo istituto. Funzionamento che appare strettamente legato sia agli investimenti che il
nostro paese saprà realizzare nel sistema del probation, posto che, oltre all’evoluzione dell’attuale approccio metodologico,
organizzativo e procedurale, solo un adeguato numero di professionisti potrà realizzare la prospettiva di una più efficace
risocializzazione “sul campo” in grado di sostituire del tutto il processo e la sanzione per il reato commesso, sia all’evoluzione
culturale di cui saprà rendersi portatrice la stessa comunità laddove sarà in grado di costruire una rete integrata di servizi atta a
garantire serietà, affidabilità e consistenza delle attività che è chiamato a svolgere chi è ammesso alla prova (lavori di pubblica
utilità, attività di volontariato, di mediazione penale, risarcimento del danno), nonché a fornire una fattiva collaborazione ed un
supporto adeguato agli uffici di esecuzione penale esterna e, quindi, in questo modo, contribuire a favorire l’aumento della
percezione di sicurezza nella collettività. Se l’istituto non è ben costruito e se mancano le necessarie garanzie, rischia di essere
applicato in maniera arbitraria, creando nuove ed intollerabili disuguaglianze. Esso costituirebbe un ulteriore privilegio per
soggetti socialmente forti e che hanno la fortuna di vivere in zone più ricche e dotate di un miglior sistema di welfare, mentre ai
meno fortunati (emarginati o stranieri) continuerebbe ad applicarsi il “classico” sistema delle reazioni alla devianza, sovvertendo
completamente quelle che sono state le condizioni che hanno favorito, all’inizio del ‘900, la nascita del probation in Inghilterra,
scaturito proprio dalla “messa a sistema”, del servizio offerto dalle molte associazioni di volontariato di ispirazione cristiana che,
motivate dai valori della carità e della misericordia, si preoccupavano di controllare e di favorire il reinserimento sociale dei
soggetti devianti più difficili, più problematici e, frequentemente, appartenenti alle classi sociali più marginalizzate e povere,
ammessi a sanzioni diverse dalla detenzione e che solo successivamente, è stato progressivamente sostituito in tutta Europa da
professionisti ed organizzazioni statali.
In tale direzione si muove il progetto di servizio civile "INSIEME: per un nuovo modello di giustizia di comunità" sviluppato
e progettato dalla Direzione Generale dell'esecuzione penale esterna e di messa alla prova del Dipartimento della giustizia
minorile e di comunità del Ministero della Giustizia, cui partecipano, in partneriato, due Associazioni di Psicologi: l'Associazione
Italiana di Psicologia Giuridica e l'Associazione Italiana Psicoterapia Cognitivo Comportamentale di Gruppo (vedi allegato).

ALLEGATI

a) Progetto di servizio civile "INSIEME: per un nuovo modello di giustizia di comunità" della Direzione Generale
dell'esecuzione penale esterna e di messa alla prova del Dipartimento della giustizia minorile e di comunità del Ministero
della Giustizia (formulato al fine di rispondere al bando per progetti di servizio civile nazionale per l'anno 2017 del
Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri). Progetto che di
fatto costituirebbe la prima esperienza di impiego di volontari del servizio civile a livello nazionale nei servizi di probation. -
estratto della partecipazione in partneriarato dell'Ente "Associazione Italiana Psicoterapia Cognitivo Comportamentale di
Gruppo":
"… … ... L'ente "Associazione Italiana Psicoterapia Cognitivo Comportamentale di Gruppo" si impegna a fornire il seguente
apporto al progetto:
La motivazione a partecipare al progetto nasce dalla volontà di rispondere in particolare a tre esigenze ben conosciute da chi opera
in questo campo:
• Il bisogno di migliorare le attività connesse con l’indagine socio-familiare come prima conoscenza della persona che ha
problemi di giustizia in modo da avere tutti gli elementi per la definizione del programma di trattamento su cui si articolerà la
misura alternativa o il progetto di messa alla prova.
• Il bisogno di migliorare gli interventi di supporto per gli imputati in messa alla prova in modo da garantire il buon esito della
misura di Comunità e diminuire la recidiva.
• Il bisogno di sperimentare le occasioni di “rinnovamento” del servizio connesse con la nuova misura della messa alla prova che
consente l’estinzione del reato e la diminuzione delle persone detenute.
In Particolare, partendo dall’analisi dei bisogni rilevati e dalla capacità di risposta finora attivate, gli obiettivi generali del progetto
saranno quindi:
• Formare gli operatori del Servizio Civile che parteciperanno al progetto.
• Migliorare le attività connesse con le indagini socio-familiari per l’accesso alla messa alla prova.
• Migliorare gli interventi di supporto per l’esecuzione della messa alla prova.
• Sviluppo ed evoluzione delle misure di comunità.
• Intervento di counseling psicologico e di psicoterapia (individuale e/o di gruppo) sulle vittime.
Ne consegue che i Beneficiari (destinatari dell'intervento) saranno, in particolare:
• I condannati
• I familiari dei condannati
• I familiari degli imputati
• Le vittime per il risarcimento del danno previsto dalla Messa alla prova
Gli Strumenti utilizzati a tal fine (da concordare con l'Ente promotrice) potranno essere:
• Test, questionari, schede di osservazione e monitoraggi, e altri Strumenti studiati all'uopo per monitorare la personalità ed il
comportamento (specie emotivo e cognitivo) dei partecipanti alla "messa alla prova". Al fine di poter adeguatamente valutare
l'andamento della messa alla prova e poter relazionare ai Magistrati responsabili del procedimento.
• Gruppi psicoterapeutici su: Ansia, Depressione, Problem Solving motivazionale, Assertività e Prosocialità.
• Gruppi di Supervisione per gli operatori del Servizio Civile che parteciperanno al progetto.
I professionisti coinvolti saranno Soci dell'Associazione iscritti all'Elenco degli Psicoterapeuti di Gruppo Cognitivo
Comportamentale. Si tratta di psicoterapeuti con esperienza specifica di intervento sui Gruppi iscritti al rispettivo Ordine di
appartenenza (Ordine degli Psicologi o Ordine dei Medici Chirurghi) abilitati all'esercizio della psicoterapia.

b) Ricerche di Psicologia Sociale


Harlow e la ricerca d'amore
Harlow (1958) progettò una ricerca per verificare se l'attaccamento del neonato alla madre fosse realmente una semplice ricerca di
cibo piuttosto che ciò che sembrava: una ricerca di amore. La ricerca fu inizialmente condotta su alcune scimmie bebè: i piccoli
vennero separati dalla madre naturale e chiusi in una stanza con due fantocci sostitutivi - uno in fil di ferro, il cui seno erogava
sempre latte; l'altro in spugna morbida, non in grado di fornire latte. I piccoli di scimmia, contrariamente alle aspettative,
passavano quasi tutto il tempo stringendosi alla madre che non era in grado di fornire cibo, dimostrando chiaramente la loro
preferenza per una madre morbida, piuttosto che per il latte; le ricerche dimostrarono che la madre preferita, oltre ad essere
morbida, doveva anche essere calda e dondolarsi, cioè comunicare affetto ai piccoli (le scimmie usano preferibilmente il pelo per
comunicare gli stati emotivi); come sostenuto da Eysenck (1982) "...I bebè scimmia non amano per fame, ma hanno fame per
amore". Vennero sollevate numerose obiezioni al lavoro di Harlow, specialmente riguardo alla generalizzazione degli esperimenti
dalle scimmie all'uomo; in special modo il fatto che le madri naturali non sono sempre così disponibili come le madri artificiali
dei suoi esperimenti. Harlow rispose con indagini successive che confermarono i risultati precedenti: trasformò le madri affettuose
in madri mostro, che ogni tanto investivano i neonati con raffiche di aria compressa e li scagliavano lontano; oppure si rivelavano
delle "vergini di ferro", con punte metalliche che, spuntando dalla spugna, pungevano i bebè; ebbene questi, dopo un breve lasso
di tempo, si accostavano nuovamente anche a questo tipo di madre; dimostrando così di di riuscire a perdonare quasi tutto pur di
avere un pò di "affetto". Un'altra critica che fu sollevata ad Harlow e le sue ricerche fu che esse dimostravano solo l'importanza
del bisogno di accudimento oltre che del bisogno di cibo, infatti le scimmie dei suoi esperimenti in realtà ottenevano, con il loro
comportamento, sia il cibo che l'affetto: stavano sì quasi sempre abbracciate alla madre morbida ma dopo essersi rimpinzate di
latte dalla madre in film di ferro. Harlow rispose a queste ulteriori critiche con nuove ricerche nella quali alle scimmie veniva tolta
per qualche tempo la madre morbida ogni volta che se ne allontanavano per recarsi a bere il latte da quella in fil di ferro. L'unico
risultato che si ottenne fu che le scimmie smisero di allontanarsi dalla madre morbida per andare a bere il latte: la paura di
perderla, anche se per breve tempo, fu più forte della fame - i bebè di scimmia sembrarono dire ai ricercatori che preferivano
lasciarsi morire di fame piuttosto che soffrire per la mancanza di affetto. Le scimmie di Harlow dimostrarono inoltre di usare le
madri affettuose di spugna come "base sicura" per le personali esplorazioni ambientali, proprio come fanno i bambini con le loro
madri: i bebè scimmia erano in grado di esplorare nuovi oggetti o ambienti solo se era presente la madre di spugna; viceversa
diventavano tesi ed il comportamento esplorativo lentamente cessava.

Bowlby e il Sistema di attaccamento


Nel periodo degli anni ‘30 e ‘40 i clinici come Bender, Bowlby, Burlingham e Anna Freud, Goldfarb, Levy, Spitz facevano
ricerche sugli effetti patologici causati da una lunga istituzionalizzazione o/e freguenti cambiamenti della figura materna sullo
sviluppo della personalità durante i primi mesi di vita. Nel 1949 Bowlby tramite la World Health Organization (WHO) ha
contribuito a uno studio delle Nazioni Unite sui bisogni dei bambini senza famiglia. Nel 1951 è stato presentato il suo rapporto
pubblicato dalla WHO col titolo di Maternal Care and Mental Health in cui dava le prove che le cure materne insufficienti (ad es.
a causa di continue assenze della madre) nella prima infanzia portavano una forte sofferenza ai bambini e indicava cosa fare per
evitarne o almeno mitigarne gli effetti patologici sia a breve che a lungo termine. Negli anni ‘50 era molto condivisa l’opinione
che il bambino sviluppa uno stretto legame con la madre in quanto è lei che lo nutre. Si pensava che la fame fosse una pulsione
primaria e la relazione personale (del bambino con la madre) una pulsione secondaria e ciò significava che un bambino di uno o
due anni avrebbe potuto legarsi con chiunque lo nutrisse. Ma questa Teoria non solo non trovò conferma nell’esperienza con i
bambini fatte da Bowlby, né, tantomeno, da quanto emergeva dal lavoro di Lorenz sull’imprinting nei paperotti e negli anatroccoli
(che hanno dimostrato un forte legame tra i piccoli uccelli e le loro figure materne anche senza la mediazione del nutrimento) ma,
in particolare, era decisamente disconfermata dai risultati delle ricerche di Harlow sui macachi rhesus. Tutto ciò spinse Bowlby a
studiare il comportamento di attaccamento negli esseri umani ed ad elaborare il concetto di un comportamento d’attaccamento con
una propria dinamica, diversa da quelle che riguardano il cibo. In particolare egli subì l'influenza della pubblicazione degli studi di
Harlow sugli effetti della privazione di cure materne sulle scimmie rhesus che dimostrarono che i piccoli macachi preferivano
come madre un manichino soffice che non forniva il cibo invece di un altro che lo forniva ma era freddo (di fil di ferro). Nel
decennio successivo i risultati delle sue ricerche non hanno lasciato alcun dubbio sulla plausibilità delle ipotesi della teoria
dell’attaccamento anche se persistevano alcune incertezze, in particolare sulla persistenza degli effetti patologici), sul tempo che la
madre deve dedicare al bambino e sull’importanza che la figura materna sia quella biologica. La teoria dell’attaccamento con il
tempo si è costituita come una disciplina a parte con alcune influenze provenienti dalle teorie sistemiche ed, in particolare, dalla
psicologia cognitiva (Liotti). Essa gode oggi di grande notorietà e viene utilizzata da psicoterapeuti di diversi indirizzi, in
particolare di approccio psicoanalitico e cognitivo comportamentale. La teoria dell’attaccamento si basa sull’osservazione diretta
dell’interazione tra genitore e bambino piuttosto che su ricostruzioni retrospettive e utilizza l’osservazione dello sviluppo normale
come criterio per comprendere la patologia, piuttosto che costruire una teoria dello sviluppo normale basandosi su deduzioni fatte
nello studio dello psicoterapeuta, come era solito nei primi tempi della psicoanalisi. Il lavoro sul piano della ricerca empirica della
Ainsworth è stato importantissimo per la sistemazione teorica di Bowlby. Lei ha verificato alcune intuizioni di Bowlby traducendo
i principi di base della teoria in dati di ricerca ed ha ampliato la teoria proponendo l’idea della figura d’attaccamento come "base
sicura". Il contributo più significativo della Ainsworth alla teoria dell’attaccamento fu la scoperta delle differenze individuali per
quanto riguarda la qualità dell'attaccamento, cioè le aspettative che l'individuo ha circa la disponibilità e responsabilità delle figure
di attaccamento nel soddisfare i suo bisogni primari. Ci sono tre modelli di attaccamento che per la prima volta sono stati descritti
da Ainsworth e i suoi colleghi. Il primo schema è quello dell’attaccamento sicuro in cui l’individuo è certo che sarà aiutato e
compreso da parte della figura dell’attaccamento quando ne avrà bisogno. Il secondo è quello dell’attaccamento di resistenza
angosciosa in cui l’individuo non è sicuro dell’aiuto del genitore nel momento del bisogno. Il terzo schema di attaccamento è
quello dell’evitamento angoscioso in cui l’individuo non solo non crede di essere aiutato ma si aspetta di essere continuamente
rifiutato. Rispetto allìesperienza di una separazione dalla figura di attaccamento: i bambini con attaccamento insicuro-evitante (A)
dimostrano poco o nessun disagio; i bambini con attaccamento sicuro (B) si dimostrano poco turbati, non a lungo e comunque
solo in occasione della separazione; i bambini con attaccamento insicuro-ambivalente (C) dimostrano, viceversa, una forte
angoscia per la separazione manifestando anche comportamenti collerici e violenti (siamo cioè di fronte a quelli che,
successivamente possono manifestarsi come veri e propri comportamenti criminali). Questi schemi, una volta formati,
tendono a persistere, anche se non è sempre così. Secondo Bowlby, infatti, se si cambia il modo di trattare il bambino da parte dei
genitori, varierà anche lo schema di attaccamento di riferimento. Da qui l’importanza del porre attenzione alla comunicazione con
i bambini. Bowlby ha introdotto la nozione di percorsi evolutivi che rendono differente la teoria dell’attaccamento dalle teorie
psicoanalitiche tradizionali; secondo tali percorsi, un individuo deve passare attraverso una serie di stadi di sviluppo. Il modello
afferma che, alla nascita, il bambino ha una serie di percorsi possibili; su quale di essi procederà, sarà determinato dall’ambiente
che lo circonda, in particolare dal comportamento dei genitori con il bambino e dalla risposta del bambino. Ma la cosa più
importante è che questo non significa che il corso dello sviluppo sia prefissato; ma che cambierà col cambiamento del modo di
trattare il figlio da parte dei genitori (è questo il caso, ad es. dei bambini adottati), inoltre detti cambiamenti saranno sempre
possibili nel corso di tutta la vita. Sostiene Bowlby che solo l'assioma "sono amabile - sono amato" - gli assiomi sono costrutti
altamente ordinati nell'organizzazione cognitiva, per cui risultano difficilmente esposti ad invalidazione, molto protetti e stabili -
dà luogo ad un attaccamento di tipo "riuscito", che si fonda sulla sicurezza della disponibilità ed accessibilità della figura di
attaccamento e della propria capacità di suscitare reazioni positive. L'individuo che possiede questo assioma sopporta
agevolmente anche lunghe assenze dell'amato e si accontenta di gratificazioni anche solo simboliche (fotografie, telefonate,
lettere) e dilazionate. Egli, in funzione della sua sicurezza, ha la tendenza a considerare il mondo buono e ben disposto nei suoi
confronti, a meno che non venga dimostrato il contrario. Sono presenti ottimismo, autostima, fiducia delle proprie capacità; gli
altri sono considerati degni di fiducia, non minacciosi e il comportamento esplorativo è in genere ben sviluppato. L'assioma "non
sono amabile non sono amato" dà luogo, viceversa, ad un attaccamento "mancato", in cui troviamo l'incapacità ad amare; gli
altri sembrano perdere qualsiasi importanza, spesso è possibile solo una superficiale socievolezza che rifugge da qualsiasi
rapporto profondo. Gli individui nei quali si riconosce questo assioma sono emotivamente distaccati, incapaci di mantenere un
legame affettivo stabile; a volte mostrano una compulsiva fiducia in se stessi, diffidano delle relazioni strette e sono atterriti dalla
prospettiva di fidarsi di qualcun altro. Tale assioma in genere si stabilisce in soggetti che hanno sperimentato ripetute e prolungate
assenze della figura di attaccamento, registrate soprattutto tra i sei mesi ed i cinque anni di età; è facile infatti che un bambino che
sia stato staccato dai genitori sia più tardi incapace di legami affettivi. In un terzo gruppo, con assioma "sono amato - non sono
amabile", troviamo il pattern di attaccamento tipico del paziente agorafobico, detto "ansioso", caratterizzato da sentimenti di
inadeguatezza di fronte alle difficoltà, ricerca affannosa di rapporti affettivi, dipendenza dagli altri, sfiducia nelle proprie capacità
di suscitare reazioni positive nella figura di attaccamento, incapacità a sopportare i distacchi e ricerca di un contatto stretto: si
verifica spesso quando i genitori sono stati, contemporaneamente, iperprotettivi e frustranti nei confronti del comportamento
esplorativo esterno del bambino.
Qui è importante notare che i pattern di attaccamento non sono un riflesso del temperamento del bambino ma una caratteristica
della relazione del bambino con la figura d’attaccamento. Secondo i primi studi i bambini appartenenti al tipo B (attaccamento
sicuro) erano la maggioranza, ma con l’applicazione di questa classificazione ai bambini con delle grandi varietà dello status
socioeconomico (in particolare con gli appartenenti a classi sociali svantaggiate economicamente), il numero dei bambini con
attaccamento sicuro risultò percentualmente molto inferiore.

Milgram e l’Obbedienza all’Autorità


Nel 1961 Milgram, in occasione dell'inizio del processo contro il criminale di guerra nazista Eichmann a Gerusalemme, si chiese
se ciò che era avvenuto nella Germania nazista potesse essere spiegato come una pazzia di massa, se realmente la maggior parte
dei tedeschi credessero al complotto sionista o se ci fossero altri fattori per spiegare quanto avvenuto. Si pose quindi una
domanda: "È possibile che Eichmann e i suoi complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?". Per rispondervi sviluppò
quindi un esperimento, che lo rese famoso, dove controllò sia la variabile follia, furono ammessi a partecipare solo soggetti
selezionati in quanto sani di mente, che la motivazione auto-difensiva, il soggetto da martirizzare non presentava alcuna
pericolosità per la comunità. Lo scopo dell'esperimento era quello di studiare il comportamento di soggetti a cui un'autorità (nel
caso specifico uno scienziato) ordina di eseguire delle azioni che confliggono con i valori etici e morali dei soggetti stessi.
I partecipanti alla ricerca furono reclutati tramite un annuncio su un giornale locale o tramite inviti spediti per posta a indirizzi
ricavati dalla guida telefonica. Nella fase iniziale il campione fu composto da persone di sesso maschile, di età compresa fra i 20 e
i 50 anni, di diversa estrazione sociale. Fu loro comunicato che avrebbero partecipato, in cambio di una piccola ricompensa, a un a
ricerca sulla memoria e sugli effetti della punizione sull'apprendimento. All'inizio della prova, lo sperimentatore assegnava,
tramite un sorteggio truccato, i ruoli di "allievo" e di "insegnante": il soggetto ignaro era sempre sorteggiato come insegnante,
l'allievo era un attore. I due soggetti venivano poi condotti nelle stanze predisposte per l'esperimento. L'insegnante (soggetto
ignaro) era posto di fronte al quadro di controllo di un generatore di corrente elettrica composto da 30 interruttori a leva, sotto
ognuno dei quali era scritto il voltaggio, dai 15 V del primo ai 450 V dell'ultimo. All'insegnante era fatta percepire la scossa
relativa alla terza leva (45 V) in modo che avesse modo di verificare di persona il funzionamento dell'apparecchiatura e gli
venivano precisati i seguenti compiti:
• Leggere all'allievo coppie di parole, per esempio: "scatola azzurra", "giornata serena".
• Ripetere la seconda parola di ogni coppia accompagnata da quattro associazioni alternative, per esempio: "azzurra –
auto, acqua, scatola, lampada".
• Decidere se la risposta fornita dall'allievo era corretta.
• In caso di risposta errata, infliggere una punizione (la scossa elettrica), aumentandone proporzionalmente l'intensità ad
ogni errore dell'allievo.
Quest’ultimo veniva legato ad una specie di sedia elettrica e gli era applicato un elettrodo al polso, collegato al generatore di
corrente posto nella stanza accanto. Doveva rispondere in modo errato alle domande, e (da attore) fingere una reazione con
implorazioni e grida al progredire dell'intensità delle scosse (che naturalmente non percepiva), fino a che, raggiunti i 330 V, non
emetteva più alcun lamento. Erano previsti quattro livelli di distanza prossemica (fisica) tra insegnante e allievo: nel primo
l'insegnante non poteva osservare né ascoltare i lamenti dell'allievo; nel secondo poteva ascoltare ma non osservare l'allievo; nel
terzo poteva ascoltare e osservare l'allievo; nel quarto, per infliggere la punizione, doveva tenere il braccio dell'allievo su una
piastra. Lo sperimentatore aveva il compito, durante la prova, di esortare l'insegnante a proseguire nella prova: "la ricerca richiede
che lei continui", "è assolutamente indispensabile che lei continui", "non ha altra scelta, deve proseguire". Il grado di obbedienza
fu misurato in base al numero dell'ultimo interruttore premuto da ogni soggetto prima di interrompere la prova. Solo al termine
della ricerca i partecipanti furono informati che la vittima in realtà era un attore e che, conseguenzialmente, non aveva subito
alcuna scossa.
Contrariamente alle aspettative, nonostante i 40 soggetti che parteciparono alla ricerca mostrassero sintomi di tensione e
protestassero verbalmente, solo una minima percentuale si rifiutò di continuare a portare avanti la prova. Nel primo livello di
distanza, il 65% dei soggetti andò avanti sino alla scossa più forte; nel secondo livello il 62,5%; nel terzo livello il 40%; nel quarto
livello il 30%. Questo stupefacente grado di obbedienza, che ha indotto i partecipanti alla ricerca a violare i propri principi morali,
è stato spiegato in rapporto ad alcuni elementi, quali l'obbedienza indotta da una figura autoritaria considerata legittima, la cui
autorità induce uno stato eteronomico, caratterizzato dal fatto che il soggetto non si vive più come soggetto autonomo dotato di
libero arbitrio ma, viceversa, come mero strumento esecutore di ordini. Molti dei volontari che parteciperanno alla ricerca non si
sono sentiti moralmente responsabili delle loro azioni, ma dei semplici esecutori dei voleri di un potere esterno riconosciuto (si
tratta del tipo di difesa cui sono spesso ricorsi i militari accusati di crimini contro l'umanità). La cieca obbedienza dimostrata è
stata letta anche come condizionata dalla ridefinizione del significato della situazione. Ogni situazione è caratterizzata infatti da
una sua chiave di lettura cognitiva, una specie di mappa che definisce e spiega il significato degli eventi che vi accadono, e
fornisce la prospettiva grazie alla quale i singoli elementi acquistano coerenza. Dal momento che il soggetto accetta la definizione
della situazione proposta dall'autorità (riconosciuta pubblicamente come valida: in questo caso un famoso professore universitario
di una prestigiosa Università), finisce col ridefinire un'azione distruttiva, non solo come ragionevole, ma anche come
oggettivamente necessaria.
Le numerose ricerche che hanno successivamente utilizzato il paradigma di Milgram hanno pienamente confermato i risultati
ottenuti, risultati utilizzati nell'ambito del filone di studi interessati a ricostruire i fattori che hanno reso possibile nella storia
crimini contro l'umanità quali lo sterminio operato nella Germania nazista nel corso della seconda guerra mondiale. Il fatto che i
partecipanti all’esperimento di Milgram dimostrassero di possedere i giusti valori, risultassero mentalmente sani e non ci fossero
motivazioni razionali della pericolosità della vittima e, ciononostante, si comportarono in grande maggioranza con una crudeltà
degna degli affiliati alle cosche criminali (per essere accettati in alcuni gruppi criminali bisogna prima dimostrare di essere in
grado di uccidere a sangue freddo una vittima innocente e sconosciuta, in genere un ignaro passante, solo perché richiesto
dall’autorità del gruppo).

Zimbardo e l'Esperimento sul Carcere di Zimbardo


Fu Zimbardo a studiare più approfonditamente il modo in cui le condizioni ambientali possono condizionare il comportamento
umano. Zimbardo riprese alcune idee dello studioso del comportamento sociale Gustave Le Bon; in particolare la teoria della
deindividuazione, la quale sostiene che gli individui di un gruppo coeso costituente una folla, tendono a perdere non solo l'identità
personale, ma anche la consapevolezza morale delle proprie azioni e, quindi, il senso di responsabilità, con la conseguente
comparsa di comportamenti antisociali. Nel tentativo di mettere alla prova gli assunti di detta teoria egli ideo il suo famoso
esperimento, condotto nei seminterrati dell'Università di Stanford (1971), volto a indagare il comportamento umano in una setting
ambientale in cui gli individui sono definiti unicamente dal Gruppo sociale di appartenenza. L'esperimento prevedeva
l'assegnazione ai volontari dei ruoli di guardie e detenuti all'interno di un Carcere simulato. Fra i 75 studenti universitari che che si
offrirono come volontari per la ricerca, gli sperimentatori ne scelsero 24, maschi, di ceto medio, fra i più equilibrati, maturi, e
meno attratti da comportamenti devianti; furono poi assegnati casualmente al gruppo dei detenuti o a quello delle guardie. I
detenuti furono obbligati a indossare divise sulle quali era applicato un numero, sia davanti che dietro, un berretto di plastica, e fu
loro posta una catena a una caviglia; dovevano inoltre attenersi a una rigida serie di regole. Le guardie indossavano uniformi color
kaki, occhiali da sole a specchio che impedivano ai prigionieri di guardarle negli occhi, erano dotate di un manganello, fischietto e
manette, e fu concessa loro ampia discrezionalità circa i metodi da adottare per mantenere l'ordine. Tale abbigliamento poneva
entrambi i gruppi in una condizione di de-individuazione. I risultati della ricerca andarono molto al di là di quanto ipotizzato dagli
stessi ricercatori, dimostrandosi particolarmente drammatici; infatti, già dopo solo due giorni dall'inizio della ricerca si
verificarono i primi episodi di violenza: i detenuti si strapparono le divise di dosso e si barricarono all'interno delle celle inveendo
contro le guardie; queste iniziarono a intimidirli e umiliarli cercando in tutte le maniere di spezzare il legame di solidarietà che si
era sviluppato fra essi: costrinsero i detenuti a cantare canzoni oscene, a defecare in secchi che non avevano il permesso di
vuotare, a pulire le latrine a mani nude. Al quinto giorno i detenuti mostrarono i primi sintomi evidenti di disgregazione
individuale e collettiva: il loro comportamento diventò docile e sottomesso, il loro rapporto con la realtà appariva compromesso
da seri disturbi emotivi, mentre per contro le guardie continuavano a comportarsi in modo vessatorio e sadico. A questo punto i
ricercatori interruppero l'esperimento suscitando da un lato la soddisfazione dei detenuti, ma dall'altro, un certo disappunto da
parte delle guardie. Secondo Philip Zimbardo la prigione simulata nel vissuto psicologico dei volontari che parteciparono alla
ricerca era diventata una prigione vera.
Assumere una funzione di controllo sugli altri nell'ambito di una "Istituzione" come quella del carcere, assumere cioè un "Ruolo"
istituzionale, induce ad assumere le norme e le regole dell'istituzione come unico valore a cui adeguare il comportamento, induce
cioè quella ridefinizione della situazione già utilizzata anche da Stanley Milgram per spiegare le conseguenze dello stato
eteronomico (assenza di autonomia comportamentale) sul funzionamento psicologico delle persone. Il processo di de-
individuazione induce una perdita di responsabilità personale, ovvero la ridotta considerazione delle conseguenze delle proprie
azioni, indebolisce i controlli basati sul senso di colpa, la vergogna, la paura, così come quelli che inibiscono l'espressione di
comportamenti distruttivi. La de-individuazione implica perciò una diminuita consapevolezza di sé, e un'aumentata
identificazione e sensitività agli scopi e alle azioni intraprese dal gruppo: l'individuo pensa, in altri termini, che le proprie azioni
facciano parte di quelle compiute dal gruppo.
Le tesi alla base di questa ricerca vengono analizzate da Zimbardo in un suo saggio del 2007 (in Italia, pubblicato nel 2008)
intitolato "L'effetto Lucifero".

AUTORI
Antonella Di Spena: dirigente penitenziario responsabile dell'ufficio III della Direzione Generale dell'esecuzione penale esterna e
di messa alla prova del Dipartimento della giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia.
Antonino Urso: docente di Psicologia Sociale nel corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali della
Facoltà di Scienze Sociali - Pontificia Università San Tommaso; docente di Etica e Deontologia nel corso di Laurea Magistrale in
Psicologia dell'Università Unicusano; presidente dell'Associazione Italiana Psicoterapia Cognitivo Comportamentale di Gruppo.
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