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Per una didattica della storia degli insegnanti italiani fra Otto e

Novecento
Docenti Carmela Covato, Francesca Borruso

(1 credito)
FORMAT PER LA COSTRUZIONE DELLE UNITA’ DI STUDIO

NUMERO DI CFU PER L’UNITA’:

1 CFU

Obiettivi formativi:

1. Analizzare lo sviluppo storico del ruolo dell’insegnante in Italia fra Otto e Novecento.

2. Stabilire i nessi fra la realtà attuale e le caratteristiche del corpo docente nella storia

della scuola italiana

Indice dei contenuti dell’unità.

Paragrafi:

Introduzione

a)La nascita del corpo docente

b)Le lotte degli insegnanti

c)Scuola e fascismo

d)Donne insegnanti

e)Nel secondo dopoguerra


Introduzione

Nell’ambito degli studi storiografici che hanno affrontato l’evolversi della scuola nella storia

del nostro paese a partire dall’unificazione, la questione del ruolo degli insegnanti, del loro

status e della loro formazione non è mai stata sufficientemente approfondita, se si esclude il

tema dei maestri e delle maestre, ai quali è spettato il compito della prima alfabetizzazione

del popolo e della formazione di una identità linguistica e nazionale.

La centralità culturale e formativa degli insegnanti della scuola secondaria, non è dunque,

divenuta oggetto di una riflessione storica adeguata.

Per affrontare questo problema non è irrilevante tentare di capire qual è stato il percorso

storico e sociale di formazione del corpo docente.

Una delle indagini più significative svolte in questa direzione è quella condotta da Ester De

Fort che ci guiderà nell’approfondimento del tema1.

1
E. De Fort, Gli insegnanti, in G. Cives (a cura di), La scuola italiana dall’Unità ai nostri giorni, La
Nuova Italia, Firenze 1989, pp. 199-262.
a) La nascita del corpo docente

Al momento della sua unificazione, per il nuovo Sato nazionale, la formazione di un corpo

insegnante si rivelò quanto mai complessa e, allo stesso tempo, strategica.

Si trattava infatti di reclutare insegnanti capaci di trasmettere le finalità formative e ideali

della scuola del nuovo Regno, che ereditava al contrario realtà, quelle presenti negli stati

preunitari- estremamente inadeguate e diversificate.

Basti pensare, a questo proposito al conflitto fra Stato e Chiesa e alle tensioni da esso

provocate in merito ai valori e alle ideologie da veicolare.

Da questo punto di vista, si può parlare di una fase di emergenza, nella quale il reclutamento

avvenne guardando più alle garanzie patriottiche che ai requisiti professionali effettivamente

posseduti dai singoli.

«L’imposizione della laurea e della patente per esercitare non può certo valere in una fase di

emergenza, nelle quali le istituzioni preposte alla formazione degli insegnanti sono ancora da

organizzare (come le scuole normali per i maestri), o insufficientemente frequentate (nel 1866

sono iscritti alla facoltà di lettere 166 studenti)»2.

Rispetto alla posizione dei maestri, per i quali era sufficiente ottenere una patente dopo aver

frequentato la scuola normale dalla durata triennale, che non consentiva l’accesso

all’università, la condizione degli insegnanti secondari presentava aspetti di maggiore

qualificazione e considerazione sociale.

«I professori costituiscono un corpo di funzionari pubblici (obiettivo che sarà a lungo,

vanamente, perseguito dai maestri): hanno quindi maggiore stabilità d'impiego e godono di

una pensione meno aleatoria ed esigua di quella offerta dal Monte Pensioni dei maestri. In

realtà anche questa professione non offre molte attrattive, a cominciare dallo stipendio, che,
2
Ivi,p. 199.
secondo Correnti, è «uno stipendio di portiere per punto di partenza e uno stipendio di

sottosegretario per apogeo» (cit. in Santoni Rugiu, 1981, p. 130). Il confronto con gli stipendi

degli impiegati statali, anche inferiori per titolo di studio, è largamente svantaggioso per i

professori. Si tratta comunque di un confronto difficile, per il ginepraio delle carriere e degli

stipendi (i professori sono infatti divisi in 10 gradi e 29 classi).

Accanto ai professori titolari, soli a godere di piena stabilità, la legge Casati istituisce i

reggenti, nominati per un tempo determinato non superiore ai tre anni (ma riconfermabili:

artt. 213 e 290). Si prevede, inoltre, che gli insegnamenti di aritmetica, storia, geografia nei

ginnasi e licei e quelli delle materie non principali nelle scuole e istituti tecnici possano

essere affidati a istitutori o incaricati particolari, con nomina annuale riconfermabile (artt. 204

e 289). Viene così introdotta, quasi di straforo, una figura professionale — l'incaricato — che

sarà largamente utilizzata non solo per far fronte alla carenza d'insegnanti ma anche per

ottenere significativi risparmi sul bilancio. L'endemico problema della mancanza d'insegnanti

assume, infatti, nuove caratteristiche nel corso del secolo: le Università, in progressiva

espansione, producono un numero crescente di laureati, disponibili all'insegnamento anche

per mancanza di sbocchi alternativi . Contemporaneamente, però, l'aumento costante della

popolazione scolastica secondaria, che rende necessario lo sdoppiamento e il triplicamento di

molte classi ordinarie, si scontra con l'immutabilità dei ruoli organici. Non potendo

provvedere ai bisogni crescenti col personale di ruolo, il ministero deve così procedere

all'assunzione di incaricati3. Inoltre, come osserva Salvemini in un discorso nel 1902, «i

ministri non di rado, premuti dai troppi aspiranti e sospinti dai troppo potenti protettori, non

osando introdurre nei ruoli persone senza concorso e magari senza alcun titolo accademico e

didattico, le relegano per favorirle in qualche modo nel limbo dell'incarico» (ora in

3
L'aumento dell'offerta di insegnanti è comunque da porre in collegamento con l'arretratezza del
tessuto economico del Paese, che non è in grado di assorbire in impieghi produttivi la quota crescente
di forza lavoro intellettuale, spinta così verso il pubblico impiego (cfr. Barbagli, 1974).
Salvemini, 1966, p. 9). Di fronte alla crescente disoccupazione intellettuale, si moltiplicano

gli arbitrii dell'esecutivo, non più motivati dall'esigenza impellente di trovare insegnanti per

la scuola, bensì da quella di trovare una classe per un giovane raccomandato. Oltre a prestarsi

a clientelismi che favoriscono la dequalificazione dell'insegnamento, questa pratica consente

al ministero sensibili economie ai danni di molti insegnanti «messi in una umiliante e

dolorosa condizione di fronte ai loro colleghi di ruolo, e condannati a vivere una triste vita di

ansie ad ogni fine d'anno», nell'attesa della riconferma (ora in Salvemini, 1966, p. 10) .

Mentre la condizione dell'incaricato (senza diritto ad aumenti né a pensione) costituisce una

tappa non indispensabile, anche se sempre più frequente della «via crucis» dell'insegnante, la

maggior parte dei professori comincia la sua carriera col grado di reggente. La reggenza,

giustificata con la considerazione della necessità di un periodo di prova, attraverso cui lo

Stato possa verificare l'attitudine didattica dell'insegnante, è destinata a protrarsi per alcuni

anni, non di rado sino a dieci. E quindi solo dopo un lungo e faticoso iter che il professore

giunge al culmine della carriera, diventando titolare. Tale iter prevede anche numerosi

spostamenti di sede: spesso gli insegnanti vengono inviati in sperdute cittadine di provincia,

ove l'attività culturale è pressoché inesistente, manca la possibilità di uno scambio e di un

aggiornamento.

Sono numerose le testimonianze sullo choc provocato dallo scontro con la realtà locale da

parte di insegnanti giunti con un bagaglio culturale anche ricco, ma assolutamente

inutilizzabile: da Cerri approdato a Bivona da Lipsia, ove ha compiuto seri studi filologici

(cfr. Raicich, 1982, p. 62 ss.), a Monti, allievo di Stampini, Valmaggi e Pezzi, mandato a

Bosa, «il rifiuto dei rifiuti in fatto di prime sedi» che ben presto si rende conto della necessità

di abbandonare «glottologiche prodezze» e lezioni da Università (Monti, 1965, pp. 33 e 39).

Protagonisti del “giro d’Italia dei professori” , sono soprattutto gli insegnanti settentrionali.

Se il Sud costituisce la “sala di prova delle meschine sartorie scolastico-intellettuali della


nuova Italia”, il professore settentrionale appare in compenso il «più trasferito e più

sbalestrato», costretto spesso a «consumarvi di malavoglia gli anni migliori della labile

giovinezza» . Alcuni di essi però vedono in questo esilio una fonte di preziose esperienze,

grazie al «contatto con genti e terre diverse», e scoprono una vocazione sociale, come Isnardi,

che deciderà di impegnarsi nell'Associazione Nazionale degli interessi del Mezzogiorno, o

avviano studi sulla storia del paese in cui sono capitati a insegnare (cfr. Raicich, 1982, p. 64).

Si tratta indubbiamente di personalità eccezionali, anche dal punto di vista culturale. Ciò non

toglie però che essi offrano esempi di una scelta professionale non meramente di ripiego.

L'insegnamento secondario costituisce infatti un nuovo tipo di professione intellettuale, più

indipendente e dignitosa dell'antico precettorato al quale si rivolgevano nel passato i giovani

con una vocazione letteraria. Pur se mal pagato, esso offre sufficiente tempo libero per

continuare gli studi, ed è in qualche caso un gradino per la docenza universitaria (cfr. Raicich,

1982, p. 60).

Certo la maggioranza dei professori è ben lungi dall'aspirare alla dignità accademica; tuttavia

il miglioramento del loro livello qualitativo, nel corso del secolo, è indubbio. L'aumento

dell'offerta di laureati consente infatti una maggiore selezione e riduce i margini per

l'assunzione di candidati privi dei requisiti richiesti dalla legge. Ciò non comporta ancora

quel radicale rinnovamento della formazione, che comincia a essere da più parti auspicato,

con la progressiva entrata in crisi del concetto tradizionale — già superato nell'insegnamento

elementare — che per insegnare è sufficiente sapere. Dopo il fallimento della Scuola

superiore di pedagogia, istituita nel Piemonte preunitario, a causa della diffidenza dei

professori, convinti che i «marchingegni pedagogici» fossero buoni solo per i maestri

(Santoni Rugiu, 1981, p. 27), anche l'istituzione, da parte dello Stato nazionale, di scuole

universitarie di Magistero, tenendo presente l'esperienza dei Seminari pedagogici tedeschi e

dell'École Normale di Parigi, non ottiene grandi risultati (cfr. Santoni Rugiu, 1981, pp. 133
ss.). I corsi di Magistero, attraverso i quali il futuro insegnante dovrebbe «rendersi esperto

nell'arte di insegnare», non sono presi sul serio né dagli studenti (non essendo obbligatori), né

dai professori. Questi ultimi infatti, «in quanto sono professori universitari, cioè dedicati alla

pura ricerca scientifica disinteressata, non hanno in generale nessuna preparazione per fare i

corsi di magistero; [...] e riducono in generale il loro insegnamento a far fare agli alunni

qualche lezione davanti a classi che [... ]non esistono, dando qualche precetto empirico e

qualche consiglio più o meno ragionevole» (Salvemini-Galletti, 1908, ora in Salvemini, 1966,

p. 565). La formazione degli insegnanti si limita così alle cattedratiche lezioni impartite dalle

Facoltà: non c'è quindi da stupirsi se il rapporto con gli alunni si plasma sulla lezione

accademica, o addirittura sulla loro lontana esperienza di alunni, riprendendo

meccanicamente le abitudini dei loro vecchi professori (cfr. Galletti-Salvemini, 1908, ora in

Salvemini, 1966, p. 588)4.

4
Ivi,pp. 207-210
B) LE LOTTE DEGLI INSEGNANTI

A partire dal primo Novecento, gli insegnanti della scuola italiana sperimentano

organizzazioni sindacali e di categoria che avranno una certa influenza nella politica

scolastica dei ceti dirigenti.

Mentre nel secondo Ottocento, l’associazionismo era caratterizzato da esperienze di mutuo

soccorso e di reciproca assistenza, a partire dai primi anni del Novecento assumo finalità

nuove e strategicamente più complesse.

Vanno segnalate soprattutto le iniziative dell’Unione Magistrale Italiana (U.M.N.) e della

Federazione Nazionale Insegnanti Scuola Media (F.N.I.S.M.).

Permangono, tuttavia, anche in queste nuove esperienze forti resistenze nei confronti di forme

di organizzazione troppo rigide, del ricorso allo sciopero considerato improprio all’alta

missione che si intende svolgere e di iniziative che potrebbero provocare molto temute

rappresagli da parte delle autorità scolastiche.

«Tra i professori è profondamente radicata l'ideologia del funzionariato, che induce a non

porre in discussione la propria devozione al governo; anche tra i maestri, l'orientamento

moderato è prevalente, non foss'altro che per la numerosa presenza delle donne, che il

fondatore dell'U.M.N., il radicale Credaro, considera poco disponibili alle lotte della vita

pubblica «per eredità atavica, per tradizione storica, per abitudine sociale, per forma di

pensiero e sentimento» (cfr. De Fort, 1981, p. 378).

Esistono quindi profonde remore e condizionamenti all'organizzazione degli insegnanti, che

vengono per il momento posti in secondo piano grazie al nuovo clima politico e all'azione di

una decisa minoranza di orientamento democratico e socialista, che dà voce all'insofferenza

della categoria, e soprattutto grazie ai successi iniziali del movimento, ma che riappariranno

nei momenti difficili. Gli insegnanti democratici e socialisti, che han fatto talvolta il proprio
tirocinio politico nelle associazioni dei partiti, costituiscono l'elemento trainante

dell'organizzazione. Mentre nella F.N.I.S.M. la presenza di personalità di grande spicco,

come Salvemini e Kirner, rende superfluo il ricorso al patrocinio di un deputato, la nomina a

presidente dell'U.M.N. di Credaro, deputato radicale e pedagogista, è d'altra parte qualcosa di

più che un atto meramente formale. Essa conferma la crescente capacità d'attrazione nei

confronti del «proletariato intellettuale» da parte delle forze d'estrema sinistra, rafforzate

dagli esiti della battaglia politica di fine secolo, e l'incontro tra il loro obiettivo di porsi come

stimolo e guida dell'associazionismo di ceti medi, con spinte autonome maturate all'interno

degli stessi. Non è un caso quindi che l'iniziativa di una lega nazionale di maestri, lanciata

contemporaneamente da alcune riviste magistrali, si concreti attraverso l'azione coordinatrice

di Credaro, raggiungendo subito i trentamila soci (il 53% degli insegnanti pubblici). La

stampa scolastica, espressione degli insegnanti più intraprendenti, vede così confermato il suo

ruolo unificatore di una categoria dispersa e disomogenea, che scopre attraverso di essa

l'esistenza di problemi comuni. Scopo di Credaro è quello di convogliare l'azione

rivendicativa degli insegnanti in una prospettiva di collaborazione coi pubblici poteri, pur

rifiutando i tradizionali, umilianti metodi delle petizioni. L'affermazione della neutralità

politica dell'U.M.N. non mira solo a non alienare all'organizzazione la base moderata, ma

esprime la riconciliazione del partito radicale con le istituzioni (cfr. De Fort, 1981, pp. 376-

377).

A differenza dell'U.M.N., la F.N.I.S.M. assume fin dall'inizio un'impronta di opposizione al

governo, di resistenza e di protesta (cfr. Ambrosoli, 1982, p. 4). Entrambe le organizzazioni

non vogliono configurarsi come esclusivo sindacato di categoria, ma ambiscono a esercitare

un'influenza profonda sulla vita del paese. Esse quindi considerano la tutela degli interessi

degli insegnanti nell'ambito dei più generali interessi della scuola, proponendo a questo fine,
sia pure con sfumature diverse, la costituzione di un «partito della scuola» che raccolga forze

politiche anche diverse verso un obiettivo che è considerato di vitale importanza per il paese.

La tattica prudente e collaborativa adottata dall'U.M.N. durante la gestione Credaro pare

ottenere ben presto frutti cospicui. Con l'approvazione della legge sullo stato giuridico, del 19

febbraio 1903, n. 43, i maestri ottengono efficaci garanzie sulle nomine, sottratte all'arbitrio

delle amministrazioni, e sulla stabilità dell'impiego. È vero che si tratta di concessioni che

vengono fatte soprattutto a spese dei Comuni, ma non si può comunque sottovalutare la

portata innovativa di questa legge, che riconosce tra l'altro agli insegnanti una certa libertà di

espressione, significativa soprattutto in confronto con le ben più restrittive disposizioni in

proposito che saranno di qui a poco approvate col testo unico degli impiegati pubblici (cfr. De

Fort, 1984, p. 535). Ben più difficile è la lotta che i professori devono combattere per lo stato

giuridico, e per una maggiore indipendenza dell'amministrazione scolastica dalle ingerenze

politiche. L'accesa battaglia condotta dalla F.N.I.S.M., con campagne di stampa e denunce

all'opinione pubblica, attira la deplorazione del ministro Bianchi, per il quale è inconcepibile

che i professori siano arrivati «al punto di discutere — qualche volta poco serenamente —

l'opera dei loro superiori» (cit. in Santoni Rugiu, 1981, p. 189).

La legge dell'8 aprile 1906 stabilisce finalmente il principio dell'obbligo inderogabile del

concorso per l'ammissione all'insegnamento, e introduce garanzie in materia di trasferimenti.5

La stessa legge inoltre istituisce una Giunta superiore della P.I. competente per l'istruzione

media. La giunta è composta, accanto a 4 consiglieri di nomina regia, da due membri eletti

dagli insegnanti. Un'altra legge dello stesso giorno, n. 42, semplifica i ruoli e stabilisce nuove

tabelle di stipendio.

5
Ivi, pp. 214-215.
C) Gli insegnanti e il fascismo

«Secondo gli idealisti, la rigenerazione morale degli italiani, più che mai urgente dopo una

guerra nella quale sono affiorati egoismi particolaristici e tendenze dissolvitrici della

compagine statale, deve partire dalla scuola, strumento indispensabile nell'ambito di un

progetto che si pone come obiettivo la duratura trasformazione del quadro politico.

Per questo, gli insegnanti per primi devono rinnovarsi profondamente, aprendosi a una

cultura che superi il nozionismo e l'enciclopedismo della scuola tradizionale. La riforma della

scuola magistrale è uno dei più rilevanti problemi politici, poiché è nella scuola elementare

che «si gettano le basi della granitica unità nazionale e della grandezza della patria, o i germi

della discordia, del settarismo, della dissoluzione sociale» (Appello per un «Fascio di

Educazione Nazionale», 1920). Il rinnovamento del curriculum magistrale deve inserirsi

nell'ambito di una riforma globale della scuola secondaria che ripristini la serietà e la severità

degli studi, allontanandone gli incapaci, e valorizzi gli insegnamenti letterari e filosofici, che

più degli altri ne garantiscono il carattere formativo e disinteressato. Vera cultura, secondo

Gentile, in quanto educazione dello spirito, non può essere quella dello «scientismo

dommatico» della vecchia scuola normale né può avere finalità professionali.

Si critica così in modo radicale l'impostazione che gli studi magistrali sono venuti assumendo

nel corso dell'Ottocento, in seguito all'affermarsi del positivismo in seno alla cultura italiana

(cfr. De Fort, 1986, pp. 222 ss.). Si ispirano a tale orientamento la riforma della scuola

normale compiuta da De Sanctis nel 1880 e quella del 1896, che sottolineano l'importanza

delle «conoscenze del reale», date dalle discipline scientifiche, per superare il verbalismo e

l'astrattezza dominanti nella scuola, e mirano a fondare l'insegnamento sul metodo intuitivo-

sperimentale. L'attenzione alla metodologia didattica caratterizza anche la dottrina


herbartiana, penetrata in Italia alla fine del secolo, attraverso Fornelli e Credaro, che va

esercitando una notevole influenza sulle esperienze di formazione degli insegnanti in atto nel

mondo occidentale.

La concezione della pedagogia quale scienza autonoma e normativa, fondata sulla psicologia,

propria dell'herbartismo, e la visione positivista dell'educando come entità biologica soggetta

a leggi naturali verificabili, da studiare con metodi d'analisi oggettivi, sono duramente

contestate da Gentile. L'educando non è oggetto ma spirito, e la pedagogia non è «scienza del

meccanismo psico-fisico», bensì scienza della formazione dello spirito e quindi coincide con

la filosofia. Un atto educativo è tale solo se attraverso di esso si realizza l'unità degli spiriti

che vi concorrono: non esiste quindi un problema di «metodo» concepito come qualcosa di

separato dal sapere stesso (cfr. Bellucci, Ciliberto, 1978, pp. 55 e 113-115)”6.

Le riflessioni pedagogiche maturate in un clima culturale sempre più ostile al positivismo non

si fermeranno alla discussione teorica ma approderanno presto a precise scelte di politica

scolastica.

«L'indubbio prestigio del gruppo idealista, i crescenti consensi politici che la sua proposta di

riforma va incontrando, l'alleanza con i cattolici sui temi della difesa della libertà

d'insegnamento (cioè della scuola privata) e dell'insegnamento religioso (che Gentile vuole

ripristinare nella scuola elementare), non sarebbero sufficienti a vincere le numerose

opposizioni, sia in seno alla classe politica che tra gli stessi insegnanti, senza l'avvento del

fascismo e la concessione dei pieni poteri a Gentile. L'intensa attività svolta dagli idealisti

all'interno della F.N.I.S.M. non era riuscita, come si è visto, ad attirare sulle proprie posizioni

la maggioranza della federazione. La costituzione del Gruppo d'azione per la scuola nazionale

e quindi del Fascio di educazione nazionale, nel tentativo di creare un gruppo di pressione sui

pubblici poteri (cfr. Ambrosoli, 1980, pp. 27 ss.), pur avendo mobilitato intellettuali

prestigiosi anche di diverso orientamento, ha trovato molto minor consenso tra gli insegnanti
6
Ivi, pp.220-221
(cfr. III,3). Il misticismo idealista, l'appello al sacrificio e allo studio, il rifiuto del

rivendicazionismo, l'invito a una drastica epurazione degli incapaci sono condivisi da ristrette

élites. Ciò significa che la riforma deve essere imposta agli insegnanti, anche se alcuni suoi

aspetti sono considerati con favore. Il tentativo di rialzare il livello degli studi, il ripristino del

carattere selettivo ed elitario della scuola secondaria sono misure apprezzate da un'ampia

cerchia di professori (e più volte affiorate nel dibattito del primo Novecento, anche nei

congressi della F.N.I.S.M.). Questo rivela anche una diffusa incapacità ad affrontare

altrimenti che con la selezione il problema della «zavorra», cioè di quegli allievi che

affluiscono alla scuola nel tentativo di conseguire, attraverso il titolo di studio, una certa

ascesa sociale, ma sono privi, in quanto non sono nati agli studi, bensì fruges consumere,

delle «condizioni d'animo e di mente indispensabili agli studi liberali di queste scuole»

(Gentile, 1925, pp. 103 ss.).

Suscitano consensi anche il posto privilegiato concesso alle discipline umanistiche, che

divengono l'asse centrale della rinnovata scuola secondaria, con una marcia indietro rispetto

ai precedenti tentativi di un ammodernamento del curriculum (ovviamente i professori delle

materie scientifiche non sono d'accordo: cfr. Santoni Rugiu, 1981, p. 217), come pure la

negazione dell'esigenza di una formazione professionalizzante. Molti sono lusingati dalla

valorizzazione di un mestiere che si configura come elevato esercizio di attività spirituali (cfr.

Santoni Rugiu, 1981, p. 215). I programmi della scuola secondaria, programmi per esame e

non burocraticamente dettagliati, lasciano un certo spazio di libertà didattica e invitano a

superare il nozionismo attraverso un confronto critico con le fonti. Maggiori riserve

incontrano gli abbinamenti di materie introdotti dalla riforma (storia e filosofia e matematica

e fisica), per l'esigenza di diminuire il numero degli insegnanti per classe ed eliminare il

pericolo «del dissidio, della frammentarietà e dello sparpagliamento incomposto ed

inorganico della cultura», secondo la dichiarazione di Gentile al Consiglio superiore. In realtà


questi abbinamenti, che non persuadono dal punto di vista scientifico, appaiono un pesante

aggravio agli insegnanti in servizio, di solito preparati in una sola delle due discipline (cfr.

Ministero dell'Educazione Nazionale, 1941, p. 274). Lo svolgimento di due programmi

impegnativi, a cui si aggiunge, per i professori di matematica e fisica, la gestione di sette-otto

classi e la cura del gabinetto di fisica, rischiano di favorire un insegnamento squilibrato,

culturalmente impoverito, privo di quel valore formativo richiesto dalla riforma (cfr.

Ministero dell'Educazione Nazionale, 1941, p. 294).

Soprattutto i maestri sono impreparati a recepire le innovazioni della riforma, che opera un

totale sconvolgimento dei concetti pedagogici e della prassi didattica tradizionali. La loro

formazione, pur se pecca per un eccessivo enciclopedismo, mira a far fronte a reali esigenze

della vita scolastica: a questo scopo è finalizzato anche il discorso sul metodo. Rinunciare al

metodo, per avviarsi sulla difficile strada di un rapporto basato sull'«intuito» e sull'«estro»

dell'insegnante, significa privarsi di un sussidio prezioso nell'insegnamento. Certo troppo

spesso il metodo è stato ridotto, anche per l'incomprensione e le carenze culturali dei maestri,

a formule stereotipate e dogmatiche prive di efficacia pratica. D'altra parte è presente, nei

maestri migliori, una cultura professionale solida e consapevole, sulla scia dei suggerimenti

della pedagogia positivista, della complessità fisiopsichica degli allievi e dei condizionamenti

ambientali della loro formazione (cfr. Vertecchi, 1985). I rinnovati obiettivi

dell'insegnamento, che mira a valorizzare la spontaneità e le capacità espressive dei ragazzi

(attraverso il risalto acquisito, nei programmi di Lombardo Radice, dalle attività artistiche e

ricreative), si scontrano con un'impostazione che tende a privilegiare l'acquisizione delle

abilità fondamentali: leggere, scrivere e far di conto (cfr. Ostenc, 1981, pp. 75-89).

L'introduzione dell'insegnamento religioso a fondamento e coronamento dell'istruzione

elementare suscita forti perplessità tra i maestri, di formazione laica per lo più, e gravi casi di

coscienza, che non preoccupano il filosofo dal momento che, come afferma, «se uno non si
sente di fare il maestro di scuola potrà fare un'altra cosa e, soprattutto, pensare come crede» .

Si entra così nel vivo della sostanza autoritaria della riforma, pur velata dall'asserita

rivalutazione della libertà didattica (ma la contraddizione è solo apparente, perché per Gentile

la libertà non è individuale ma vive solo nello Stato inteso come sostanza etica). Con una

rispondenza non casuale al quadro politico entro cui si colloca, la riforma sancisce la

subordinazione gerarchica degli insegnanti, sopprimendo tutti gli elementi di democrazia

introdotti nella scuola dalla legislazione precedente. Vengono così eliminate le rappresentanze

di categoria negli organi dell'amministrazione scolastica — dai Consigli provinciali alla

Commissione dei ricorsi al Consiglio superiore — considerati strumento di indebite pressioni

corporative (contemporaneamente, Gentile si rifiuta di ricevere i rappresentanti delle

organizzazioni sindacali); lo stato giuridico, le cui disposizioni appaiono «eccessivamente

corrive», è smantellato, gli insegnanti sono sottoposti a un accentuato controllo, attraverso le

note informative e la qualifica, dispensate da un preside che diviene il rappresentante nella

scuola dell'assoluta autorità del ministro, dotato della facoltà di comminare punizioni

disciplinari (sul «preside-duce», cfr. Santoni Rugiu, 1981, pp. 283-287). La riforma viene

applicata inoltre in un clima intimidatorio, nel quale qualsiasi critica viene duramente

attaccata e le opposizioni sono minacciate di severe sanzioni. La dispensa dal servizio è

inoltre prevista per quanti si rivelino inadeguati ai nuovi orientamenti. Al bastone si

accompagna però la carota degli aumenti di stipendio, concessi, si fa notare, senza obbedire

ad alcuna pressione dal basso, ma solo alla considerazione dell'alta funzione sociale degli

insegnanti»7 .

Secondo alcuni studiosi, l’organizzazione scolastica derivante dalla Riforma Gentile fu più

subita che accolta dagli insegnanti, i quali dovettero tuttavia contribuire, nolenti o volenti, a

realizzarne i principi di fondo.

7
Ivi, pp. 221-223.
«La restaurazione della disciplina, avviata dalla riforma Gentile, è indubbiamente funzionale

al fascismo. Lo sono meno i provvedimenti attraverso i quali il filosofo ha tentato di

riqualificare gli studi, di sfoltire drasticamente la popolazione scolastica e di introdurre

concorsi più rigorosi per gli insegnanti: il regime, autoritario ma demagogico, è fragile di

fronte alle proteste contro la selezione che salgono dai ceti piccolo-medio borghesi, principali

fruitori delle secondarie. Vengono così ben presto abbattuti molti dei limiti posti dalla riforma

all'aumento del numero delle scuole e dei loro studenti, mentre si ridimensiona l'originaria

selettività dei concorsi. Tuttavia il fascismo non è mosso solo da considerazioni di tipo

clientelare, bensì anche dalla consapevolezza dell'oggettiva impossibilità di rispondere a un

fenomeno presente in tutto il mondo occidentale — la spinta di massa all'istruzione —

unicamente con provvedimenti repressivi. Tale fenomeno sarà accentuato dalla depressione:

negli anni Trenta i livelli della scolarità secondaria salgono bruscamente. Della corsa verso

l'impiego pubblico è vittima soprattutto l'istituto magistrale, e con esso la riforma, che

inutilmente ha tentato di rialzarne il livello, aumentandone di un anno la durata e

introducendovi il latino e la pedagogia in chiave filosofica. Da più parti si denunciano

l'affollamento delle classi, l'inadeguatezza dei professori, spesso supplenti e incaricati:

riappaiono, macroscopici, i problemi a cui Gentile ha inteso porre rimedio (De Fort, 1986,

pp. 230 e ss.)»8.

Da un punto di vista salariale si può osservare quanto segue:

“Gli aumenti più significativi vengono concessi alla categoria più duramente messa alla prova

dalla riforma, i maestri; vengono inoltre rivalutati gli stipendi iniziali dei professori secondari

(anche se c'è un certo appiattimento retributivo nel corso della carriera, e gli aumenti nel loro

complesso non compensano quello del costo della vita: cfr. Ostenc, 1981, p. 25).problemi a

cui Gentile ha inteso porre rimedio (cfr. De Fort, 1986, pp. 230 ss.). Per il suo modesto

8
Ivi, p. 224
sbocco professionale, l'istituto si pone inevitabilmente come una copia deprezzata della

scuola classica, attirando studenti di seconda categoria.

Sin dai primi risultati di esami e concorsi, vengono sottolineate le carenze culturali degli

aspiranti maestri, la loro impreparazione proprio nelle materie chiave, cioè latino e filosofia.

Quest'ultima, in particolare, si presta facilmente a fraintendimenti e a meccaniche

memorizzazioni, oltre a non fornire alcuna risposta ai concreti problemi dell'insegnamento.

Di fronte al fallimento di quest'aspetto della riforma, si riaffaccia l'esigenza di una

formazione professionale, fatta propria dalla Carta della scuola di Bottai, che reintrodurrà

l'aborrito tirocinio e istituirà i Centri didattici, col compito di organizzare l'aggiornamento.

Il progetto di Bottai, che peraltro ha limitate possibilità di applicazione, anche per lo scoppio

della guerra, ed è gravato da pesanti ipoteche politiche, è particolarmente interessante in

quanto pone esplicitamente il problema della formazione metodologica e professionale di

tutti gli insegnanti, anche quelli secondari (cfr. De Fort, 1986, pp. 248-249). Ma il fallimento

dell'iniziativa, che si configura fin dalle sue prime battute come un'operazione dall'alto, che

favorisce coreografiche parate di insegnanti accorsi ad ascoltare la voce dei capi, si deve

anche alla resistenza passiva che gli insegnanti oppongono a qualsiasi progetto di

rinnovamento della propria cultura professionale. Se i professori in questo non fanno che

seguire la tradizione, per i maestri il discorso è diverso. La riforma Gentile infatti, imponendo

loro una radicale riconversione, ne ha sollecitato la partecipazione a corsi di aggiornamento e

ha stimolato un pullulare di «sperimentazioni», molte delle quali improvvisate e caotiche. Si

è trattato però di una fase effimera, spentasi anche col tacito consenso dei superiori, che

tendono a burocratizzare le disposizioni della riforma o a travisarle, preoccupati, più che del

perfezionamento culturale e spirituale degli insegnanti, della loro «fede» nei confronti del

regime e della loro capacità di comunicarla agli allievi (cfr. De Fort, 1986, pp. 242 ss.)”9.

9
Ivi, pp.223-224.
D) Donne insegnanti

Dalle pagine della letteratura specialistica del settore, il problema è oramai approdato sulle

pagine dei quotidiani.

Su “La Repubblica” del 4 settembre del 2012 vengono pubblicati alcuni articoli centrati su

un dato che viene presentato come allarmante: la presenza femminile nel mondo degli

insegnanti della scuola italiana ha raggiunto l’88 %10.

Ripercorrere storicamente i percorsi che hanno favorito nella scuola italiana un progressivo

incremento della presenza femminile è indispensabile per cercare di comprendere le ragioni e

le cause di questo processo.

Nell’Italia post-unitaria, come in altre realtà del mondo occidentale, si afferma, a partire dal

secondo Ottocento, una sorta di ineluttabile destino educativo per quelle ragazze, per altro

ancora una minoranza, che desideravano proseguire gli studi dopo la scuola elementare spinte

sia dalla volontà di conquistare una inedita emancipazione culturale e sociale sia perché

costrette a dotarsi di un’autonomia economica resa necessaria, dopo il declino della famiglia

patriarcale, dalla condizione di vedovanza o di nubilato11.

«Tra gli insegnanti soprattutto le donne, generalmente di origine più elevata dei loro colleghi

maschi (provenendo prevalentemente da famiglie di ceto medio-superiore, o medio-inferiore

nel caso delle maestre), appaiono disponibili a trasfondere nell'insegnamento valori e modelli

della propria classe sociale. In realtà, più che a una precisa collocazione di classe,

atteggiamenti come la riluttanza alla sindacalizzazione e il disprezzo della «politica» che le

10
Gli articoli sono di M. Veladiano Le donne in cattedra, C. Pasolini, Sono allenatore, confidente,
guida, di S. Intravaia, Record alle elementari solo un uomo su venti (pp. 27,28,29). Su questo tema
vedi A. Giallongo, La difficile vita delle insegnanti, in A. Cagnolati (a cura di), Biografia e
formazione. Il vissuto delle donne, Simplicissimum book farm Srl, 2012, pp.97-108 e S. Ulivieri,
Educare al femminile, ETS, Pisa 1995;C. Ghizzoni, S. Polenghi ( a cura di), L’altra metà della
scuola. Educazione e lavoro delle donne fra otto e Novecento, SEI, Torino 2008.
11
A. Santoni Rugiu, Maestre e maestri. La difficile storia degli insegnanti elementari, Carocci, Roma
2006. Cfr. anche J. Bowen, Storia dell’educazione occidentale, tr. it. Mondadori, Milano 1983.
insegnanti manifestano in misura più spiccata rispetto agli uomini, sono da legarsi al

disimpegno e all'emarginazione che tradizionalmente caratterizzano la condizione femminile.

L'afflusso delle donne all'insegnamento è fenomeno di radici lontane: più precoce per le

maestre, che come si è visto già alla fine dell'Ottocento giungono a sopravanzare nettamente i

loro colleghi, più tardo per le professoresse. L'accesso all'insegnamento secondario è infatti in

un primo momento limitato al canale costituito dall'Istituto Superiore di Magistero

femminile, fondato nel 1882 per formare insegnanti per le scuole femminili normali, superiori

e professionali (cfr. Di Bello, 1980). Solo a partire dai primi anni del nuovo secolo le donne

cominciano a frequentare le Università in misura consistente, riversandosi sulle uniche

facoltà che consentano loro uno sbocco professionale concreto (dal momento che appare

estremamente difficile ottenere l'iscrizione negli albi professionali), conciliabile con gli

impegni familiari e nel quale la concorrenza maschile non è eccessiva. Per i molteplici

vantaggi della professione, oltretutto considerata dignitosa per una donna, anche di ceto

sociale medio-alto, il numero delle professoresse che nel 1913 (primo anno in cui vi sono

rilevazioni distinte per sesso) costituiscono circa il 24% della categoria, cresce costantemente

(quanto alle maestre, nel 1907-08 costituiscono circa il 70% dei sessantamila insegnanti

elementari); esse però continuano a collocarsi in una posizione subalterna nell'ambito della

gerarchia insegnante, mentre si riservano di fatto ai maschi i più ambiti posti nei licei e nella

dirigenza scolastica (cfr. Dolza, 1987, p. 111)12. Inutilmente il fascismo cerca di frenare

questo fenomeno, considerato estremamente pericoloso non solo per motivi ideologici (le

donne non appaiono in grado di fornire quell'educazione virile e guerresca che è ritenuta

indispensabile per i giovani), ma anche per motivi di ordine sociale. L'aumento della

disoccupazione intellettuale che colpisce anche la scuola, induce a considerare il lavoro

12
Tra il 1877 e il 1900 le laureate sono solo 224 (di cui 219 laureatesi negli ultimi sette anni del secolo).
Di esse la maggior parte proviene dalle facoltà di lettere e filosofia (147), matematica e storia naturale ( Nel
1901-1910 il numero di laureate sale a 2110, mentre le diplomate all'l.S.M.F. nel 1899-1910 sono 370).
femminile un pericolo per la stabilità sociale e a ostacolarlo a ogni mezzo. Le donne vengono

così escluse dai livelli superiori dell'insegnamento secondario, mentre con provvedimenti di

vario genere si favorisce l'afflusso maschile all'insegnamento elementare (cfr. Dolza, 1987,

pp. 86-87 e De Fort, 1984, p. 573).

Nel dopoguerra, eliminata ogni restrizione, riprende inarrestabile l'avanzata delle donne

nell'insegnamento, con motivazioni peraltro non totalmente identificabili con quelle del

passato.

Incrinatosi fortemente lo stereotipo dell'insegnamento «maternità estesa» (anche se le

maestre appaiono ancora legate concetto della «vocazione» e a una visione «perbenistico-

intimista» della professione) (Livolsi et al., 1974, p. 102), le donne sono indotte alla

professione soprattutto dalla possibilità di lavoro part-time che essa offre. Tale scelta,

attenuatisi quegli aspetti sfida e quella carica emancipatrice che essa ha avuto per molte

passato, appare ormai facile e frutto di conformismo. Questo elemento è individuato da

Pasquali, certo non senza una buona dose di misoginia e d'incomprensione per le minori

opportunità di occupazione femminile, che così spiega l'invasione delle facoltà di Lettere da

parte delle donne che vi accedono perché «l'insegnamento sembra ancora alle famiglie

l'occupazione più dignitosa e insieme l'impiego più accessibile alle fanciulle di condizione,

anche solo per inerzia, perché le Lettere sembrano continuare direttamente il liceo, perché le

compagne più anziane hanno fatto quasi tutte così.., insomma per risparmiarsi lo sforzo e

responsabilità di una scelta, per vigliaccheria» (Pasquali, 1950, 36). Diversamente graduata a

seconda del prestigio dei vari gradi dell'insegnamento (massima nella scuola elementare è

minima - 21 % circa nel '71 - nell'Università ( cfr. Dei, Rossi, 1978, p. IX), la massiccia

presenza femminile nella scuola finisce per condizionare le caratteristiche della professione,

qualificandola espressamente come professione di ripiego e di scarsa considerazione

sociale”13.
13
DE Fort E., Gli insegnanti, cit. pp.237-238.
Il problema dell'accesso delle donne all'insegnamento secondario, in questo difficile contesto,

decolla solo nei primi anni del secolo.

Ne è un esempio Elvira Mancuso, l'autrice qui già citata di Vecchia storia... inverosimile14, che

diviene, in quegli anni, professoressa negli istituti tecnici. La sua storia è emblematica del

cammino percorso da un ristretto gruppo di donne approdate all'aspirazione di coniugare

l'impegno intellettuale all'esercizio di una professione. Nubile, decisa ed emancipata aveva

cominciato a scrivere, nei primi anni del secolo, ricorrendo a vari pseudonimi, su alcune riviste

femminili. Pur avendo dovuto affrontare molti ostacoli nell'affermarsi come scrittrice, la sua

opera narrativa rappresenta una testimonianza significativa del tentativo di alcune donne

scrittrici di allora di auto-rappresentare se stesse, ridefinendo una nuova identità femminile. La

scrittrice incontrò molte difficoltà nello stabilire un rapporto diretto con Capuana, che disattese

in varie occasioni il desiderio di lei di conoscere il critico "tremendo" e "unico" per la sua

particolare sensibilità nei confronti della produzione letteraria femminile. Tuttavia nel 1907,

Capuana recensì il romanzo della Mancuso sulla «Nuova Antologia», nell'ambito di una

rassegna dedicata alle donne scrittrici, come Matilde Serao o Grazia Deledda.

Durante gli anni del fascismo, la Mancuso si chiuse in un totale silenzio, dedicandosi

esclusivamente all'insegnamento e rinunciando alle sue attività letterarie

L'accesso delle donne laureate all'insegnamento secondario è stato particolarmente accidentato.

La legge Sonnino-Boselli del 1906, che aveva istituito il nuovo stato giuridico

dell'insegnamento secondario, con il regolamento per il pubblico concorso e la laurea come

requisito preferenziale, faceva, infatti, riferimento a un soggetto di genere "maschile". Ne derivò

una ambiguità, oggetto di accese discussioni, sulla possibilità delle donne di accedere

all'insegnamento nelle classi maschili.

Con i regolamenti del 1908 e del 1910, di fatto, le possibilità di insegnamento delle

"professoresse" vengono ristrette perché ad esse si vieta di insegnare nelle scuole miste.
14
E. Mancuso, Vecchia storia ….inverosimile, Sellerio, Palermo, 1990.
Come ha osservato Marino Raicich, «la situazione era particolarmente ingiusta perché anche

se le laureate ottenevano ottimi risultati potevano però essere assunte solo in classi femminili,

le quali in quegli anni tendevano a diminuire, nonostante la crescente scolarizzazione delle

ragazze, a causa della nuova tendenza da parte delle autorità scolastiche periferiche e centrali,

di privilegiare, sia nei ginnasi sia nelle scuole tecniche, le classi miste».

Ma in seguito, durante la guerra 1915-18, eventi più grandi di queste polemiche posero fine alla

ghettizzazione delle professoresse nelle scuole femminili. La grande guerra strappò alle

cattedre e gettò «nelle trincee molti professori e parecchi di loro non tornarono più. Furono

chiamate a sostituirli, nel clima di mobilitazione generale, e non più per brevi supplenze, donne

laureate. L'analisi del variare della situazione del corpo docente in vari istituti nel corso di

quegli anni conferma l'ampiezza del fenomeno» 15.

Le prime professoresse della scuola italiana sono accomunate da una analoga condizione

sociale: appartengono, cioè, a famiglie di ceto medio o alto-borghese, in generale molto colte,

animate dunque da forti interessi intellettuali, ma ora anche da preoccupazioni economiche, prima

sconosciute.

Le ragazze accedevano all'insegnamento secondario dopo aver conseguito la laurea ottenuta

nell'ambito di studi di tipo umanistico, per loro quasi un destino naturale, sebbene si trattasse

«di un destino assai privilegiato se lo paragoniamo a quello di altre donne a loro contemporanee.

Questa scelta era per lo più influenzata, come abbiamo visto, dalle condizioni finanziarie della

famiglia ed anche, in misura minore dalla volontà e dalla capacità della ragazza in questione

di assumersi le responsabilità inerenti ad un ruolo pubblico» 52. La prima donna a insegnare in un

liceo ad Asti a partire dal 1910, come "straordinaria" di letteratura italiana è Sara Treves, prima

vincitrice di concorso nei licei. A Torino, nel 1912, si registra il livello probabilmente più alto di

15
Ibidem
professionalità femminile: 40 professoresse, 9 donne medico, 3 donne ingegnere, 2 donne

avvocato 16.

È indubbio che una distanza di classe separa le figlie dei ceti medi professionali dalla folta

schiera delle normaliste. Solo alle prime è consentito l'accesso all'università; spesso sono

animate da una ferma determinazione individuale e, nel caso delle figlie di famiglia piccolo-

borghese, da un lucido desiderio di ascesa sociale. Rispetto alle maestre, le professoresse

percepiscono stipendi più elevati, non sono costrette a trasferirsi in località disagiate e sono

in contatto con una realtà sociale più elevata.

Tuttavia, anche le professoresse sono costrette ad affrontare una condizione difficile, in

quegli anni, per una donna. Poco più che ventenni, per le esigenze della carriera devono

viaggiare, allontanarsi da casa, vivere da sole.

Alcune sono accompagnate dalla madre, altre viaggiano da sole, emule di Paolina Tacchi,

una delle prime professoresse italiane: prima laureata (nel 1895) alla Normale Superiore di

Pisa, promossa ordinaria agli inizi del secolo, trasferita a Petralia Sottana un paese delle

Madonie, poi a Lecce, infine a Livorno». Nell'anno scolastico 1920-21, su un totale di 20.742

professori di scuola media superiore, le donne sono 7.133. «Al vertice della camera - nei licei -

l'avanzata è lentissima: su 136 professoresse di liceo (i maschi sono 1.076) soltanto nove sono

ordinarie (le altre hanno la qualifica di "straordinario" o "incaricato", ma soprattutto sono

insediate nelle cattedre come supplenti dei richiamati). Sessantadue insegnano nei ginnasi (rispetto

ai 1.948 insegnanti di sesso maschile); le donne hanno invece l'assoluta supremazia nelle scuole

femminili normali (829 contro 426), come nelle complementari altrettanto femminilizzate

(754 contro 230).

Da un punto di vista sociale e legislativo, l'avvento del fascismo rappresenta un forte ritorno

indietro rispetto al difficile cammino compiuto, in questo campo, nel primo ventennio del secolo.

16
Ivi, p.172.
A partire dalla Riforma Gentile del 1923 fino alla Carta della scuola di Bottai del 1939, si

assiste ad un continuo e sistematico tentativo di ridimensionare la presenza delle donne nella

scuola sia come allieve sia come insegnanti, e di riportarle nuovamente nel chiuso di una

anacronistica cultura "femminile", ritenuta, per altro, qualitativamente inferiore a quella riservata

ai maschi.

Con la Riforma Gentile del 1923, nasce l'istituto magistrale, destinato a prendere

definitivamente il posto della scuola normale, nella formazione dei maestri. La sua fisionomia

istituzionale prevede una accentuazione in senso umanistico degli studi e una attenuazione

dei contenuti scientifici e metodologici.

Ormai tramontate le richieste di una maggiore professionalità, espresse dai maestri nei

primi anni del secolo, grazie soprattutto allo sviluppo dell'associazionismo magistrale e

sindacale, è necessario fare i conti con una ideologia, quella del regime, che vuole trasformare

il ruolo dei maestri in una sorta di apostolato laico finalizzato a formare le nuove generazioni

allo spirito fascista.

In questo contesto, si cerca in tutti i modi di favorire' i maestri maschi, al fine, come si

diceva allora, di "virilizzare" l'insegnamento. Per invogliare gli uomini alla carriera magistrale

vengono addirittura individuati particolari incentivi, come l'esonero dalle tasse scolastiche, le

borse di studio, i sussidi e le graduatorie concorsuali distinte per sesso, che favorivano quelle

maschili.

Nonostante questo tentativo, il numero delle maestre, probabilmente a causa del permanere

della precarietà salariale e sociale della professione, resta sensibilmente più alto. Infatti,

«nonostante la propaganda fascista che tendeva a scoraggiare le donne e a incoraggiare invece gli

uomini nei confronti dell'insegnamento elementare, questa era la proporzione dei sessi nel

1936-'37: maestre 88.111, maestri 22.435».


Un regio decreto del 1926 aveva stabilito l'esclusione delle donne dai concorsi a cattedra di

lettere, latino e greco, storia, filosofia, economia politica nei Licei e dai concorsi a cattedra di

italiano e storia negli Istituti tecnici, col pretesto che la donna non era in grado di «infondere

negli allievi lo spirito della romanità». Inoltre, accanto ad una capillare propaganda che cercava

in tutti i modi di scoraggiare le donne dall'intraprendere studi superiori, nel 1928 viene

stabilito per legge che le studentesse iscritte alla scuola secondaria e all'Università debbano

pagare il doppio delle tasse pagate dagli studenti.

Con il Regio decreto del 28 settembre 1934, n. 1680, le donne vengono escluse dalla

nomina a Preside e Direttore dei Regi istituti e delle Regie scuole d'istruzione media e

tecnica.

L'articolo 6 prevede, infatti, che «I presidi e i direttori delle Regie scuole e dei Regi istituti

d'istruzione tecnica sono nominati dal ministro per l'educazione nazionale fra i professori

ordinari delle Regie scuole e dei Regi istituti di istruzione media tecnica appartenenti al Partito

Nazionale Fascista[…]”.

Dalla scelta sono escluse le donne, tranne che per le scuole professionali femminili e le

scuole di magistero professionale per la donna [...]».

Inoltre, con la legge 1 luglio 1940, n. 899 sull'istituzione della scuola media si delibera,

nell'art. 9, che:

«A capo di ogni Scuola media è un preside che osserva e fa osservare le leggi e gli ordini delle

superiori autorità [...].Dall'ufficio di preside della Scuola media sono escluse le donne».

L'ostruzionismo nei confronti dell'impegno intellettuale e professionale delle donne si fa sempre

più aspro. Non a caso, proprio nel 1935, si assiste all'autoscioglimento della Federazione

Italiana Laureate degli Istituti Superiori (FILDIS), che, sulla scia dell'associazionismo

femminile nato fra '800 e '900, aveva svolto un ruolo significativo nella rivendicazione, da
parte delle donne laureate, dell'importanza sociale di un lavoro femminile extra-domestico di

carattere elevato .

Gli anni in cui si registrano le più rilevanti restrizioni all'autonomia professionale delle

donne sono gli stessi in cui Mussolini esalta la funzione educatrice, materna e oblativa della

missione femminile, come valore portante del regime e tutela della salute morale e fisica delle

nuove generazioni.
e) Nel secondo dopoguerra

“Consapevoli della necessità della ricostruzione morale di una categoria profondamente

segnata dall'esperienza fascista, gli insegnanti riuniti nel C.L.N. elaborarono un programma

per il futuro, in vista di una scuola autonoma dal centralismo burocratico, democratica

nell'organizzazione, nei contenuti culturali, nei metodi pedagogici, che devono superare il

dogmatismo e l'autoritarismo dell'insegnamento tradizionale. Affiora inoltre la proposta di

un'associazione della scuola che collabori con le forze «sane» del lavoro e che affronti i

problemi economici e di categoria nel quadro di una più generale prospettiva riformatrice.

Tuttavia nel dopoguerra, con la sconfitta del «vento del nord» e il graduale sopravvento delle

forze moderate, si costituisce un quadro politico sfavorevole a qualsiasi istanza di rinnova-

mento, e da parte della stessa sinistra il problema della riforma della scuola è messo in

secondo piano o viene prospettato in termini non troppo distanti dalle posizioni gentiliane. La

defascistizzazione procede a rilento e con cautela, per il timore degli alleati di favorire le

forze democratiche e di ostacolare la normalizzazione del paese in senso moderato,

alimentando il formarsi di atteggiamenti neofascisti (cfr. Ambrosoli, 1982, p. 14, e Broccoli,

1978, p. 105).

Di fatto sfugge all'epurazione la quasi totalità dei dirigenti scolastici fascisti, che mantengono

intatte le proprie posizioni di potere e soprattutto la natura autoritaria dei loro rapporti con gli

insegnanti. Questi ultimi sono oggetto di un soffocante controllo, mentre si esercitano pesanti

intimidazioni nei confronti di quanti non siano ideologicamente in linea, in un clima da

«caccia alle streghe» . La politica della D.C. (nelle cui mani, sin dal luglio '46, è passata la

pubblica istruzione) mostra di non voler troppo innovare rispetto al recente passato. Questo si

vede anche nel modo in cui essa affronta alcuni gravi problemi aperti, come quelli del

reclutamento e della formazione degli insegnanti.


Pur se affiora l'inconsistenza della preparazione assicurata dallo screditato istituto magistrale

e comincia a imporsi la necessità di una formazione a livello universitario, anche sull'esempio

dell'esperienza estera, la D.C. rifiuta ostinatamente tale prospettiva, che comprometterebbe la

radicata presenza confessionale in questo campo. La scelta precoce e la minore durata degli

studi vengono giustificati col richiamo alla «vocazione», che per i cattolici costituisce la sola

e autentica spinta da valutare e incoraggiare. Ciò non significa che non venga riconosciuta

l'importanza di una formazione professionale (ma solo per i maestri), affidata al ripristinato

tirocinio.
29

II problema dell'aggiornamento, ormai improcrastinabile dato l'isolamento «autarchico» in cui sono

stati sinora tenuti gli insegnanti rispetto agli sviluppi delle scienze dell'educazione avvenuti in

campo mondiale, viene risolto riproponendo i Centri didattici di bottaiana memoria, gestiti da

docenti per lo più di stretta osservanza governativa (cfr. Ambrosoli, 1982, p. 49). L'apertura alle

esperienze innovatrici da parte di quella che è stata definita «la scienza pedagogica centrista»

appare limitata al recepimento di alcune formule e tecniche che non ne scalfiscono l'impostazione

fideistica (Bertoni Jovine, 1967, p. 321).

Il quadro di pesante continuità, nei quadri dirigenti e negli ordinamenti, offerto dalla scuola

postfascista nei primi anni di regime democristiano, non è certo il più propizio per il superamento,

da parte degli insegnanti, di mentalità e atteggiamenti che il fascismo ha introdotto o rafforzato. Il

disimpegno e il disinteresse nei confronti del rinnovamento culturale e professionale e della

sperimentazione [….], il rifugio in una prassi tradizionale e routinière, si accompagnano a una

esteriore fedeltà ai più biechi stereotipi sul maestro «artista» o sull'altezza della funzione educativa,

il controllo ottuso dei superiori e l'accentramento burocratico della vita scolastica trovano riscontro

in un insegnamento che non potrebbe essere più «decentrato, privato e individuale». «L'accentra-

mento esteriore e il disgregamento interiore» sono, secondo De Bartolomeis, i due caratteri

dominanti della scuola italiana di questi anni: ma non si tratta di «un disgregamento crìtico,

preludente a qualche moto di rivolta e di rinnovamento; no, è pigrizia, anemia, assenza di problemi»

(De Bartolomeis, 1950).

Il conformismo sul piano didattico e della concezione dei mestiere si riflette anche sul piano

politico, con uno spontaneo allineamento degli insegnanti sulle posizioni moderate. Di questo

fenomeno già si tentano spiegazioni sociologiche; come osserva la Bertoni Jovine a proposito del

maestro, «gravi problemi economici e familiari contribuiscono a impigrirlo, a mantenerlo fermo

nell'alveo di idee sorpassate. Ogni novità lo spaventa; se è spinto verso le manifestazioni della
30

politica preferisce quelle che san conciliare la sostanza vecchia con l'apparenza nuova» (Bertoni

Jovine, 1947)”17.

17
De Fort E., Gli insegnanti, cit., pp., 228-230.
31

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Riforma Gentile. Mostra Bibliografica e documentaria, Roma 18 marzo-13 luglio 1985, Roma,

Biblioteca Nazionale centrale, 1985, pp.80.87.


33

PROVE OGGETTIVE DI AUTOVALUTAZIONE

1) Al momento dell’unificazione la questione del reclutamento degli insegnanti:


a) È un problema inesistente
b) è un problema complesso perché si tratta di reclutare insegnanti capaci di
trasmettere le finalità formative e ideali della scuola del nuovo Regno*
c) fa emergere la conflittualità fra poteri locali e potere centrale
d) è un problema dello Stato pontificio

2) Dopo l’unità, la scuola deputata alla formazione dei maestri è:


a) La scuola magistrale, di durata quadriennale
b) Il liceo classico
c) Il liceo femminile
d) La scuola normale, post elementare e di durata triennale *

3) I corsi di Magistero istituiti già all’inizio del ‘900 con l’obiettivo di preparare il
futuro insegnante a “rendersi esperto nell’arte di insegnare” :
a) si limitano alla lezione cattedratica svolta dal docente universitario*
b) prevedono lo svolgimento di 400 ore di tirocinio obbligatorio presso le scuole
c) prevedono lo studio di nuove metodologie didattiche
d) sono istituiti solo per l’insegnamento nella scuola primaria

4) La legge dell'8 aprile 1906 stabilisce il principio:


a) Dell’aumento di stipendio nella misura di 1/3
b) Che le donne non possono accedere all’insegnamento delle materie letterarie nelle
scuole secondarie
c) dell'obbligo inderogabile del concorso per l'ammissione all'insegnamento*
d) Che le donne non possono essere presidi nei licei classici

5) Le riforme della scuola normale realizzate fra il 1880 e il 1896:


a) rinnovano i programmi fondando l’insegnamento sul metodo intuitivo-sperimentale*
b) rinnovano i programmi alla luce della filosofia idealista
c) introducono i lavori donneschi nei programmi
d) aboliscono l’insegnamento della matematica
34

6) Nel corso della prima metà del ‘900 si registra un aumento costante del numero
delle professoresse, le quali:
a) occupano ben presto i più ambiti posti nei licei e nella dirigenza scolastica.
b) continuano a collocarsi in una posizione subalterna nell'ambito della gerarchia
insegnante*
c) non insegnano le materie scientifiche
d) insegnano solo materie letterarie

7) Rispetto all’aumento del numero delle professoresse, il fascismo:


a) cerca di frenare questo fenomeno, per motivi di ordine ideologico e sociale,
escludendo le donne dai livelli superiori dell’insegnamento secondario*
b) stabilisce un numero di posti riservati alle donne nei licei classici
c) cerca di sostenere questo fenomeno con leggi che tutelano la maternità
d) assegna per legge dei posti riservati alle donne nei licei scientifici

8) Nel 1926 un decreto del 1926, con la motivazione che la donna «non era in grado di

infondere negli allievi lo spirito della romanità», aveva disposto:

a) l'esclusione delle donne dai concorsi a cattedra di lettere, latino e greco, storia,

filosofia, economia politica nei Licei e negli Istituti tecnici.*

b) L’esclusione della donne dalle scuole elementari maschili

c) L’esclusione delle donne dalle Facoltà scientifiche

d) L’esclusione delle donne dall’insegnamento universitario

9) La formazione degli insegnanti della scuola secondaria nell’Italia del secondo dopoguerra:

a) È stata oggetto di numerose iniziative


b) Viene istituzionalizzata sul piano legislativo
c) Sarà, a lungo, del tutto disattesa sul piano istituzionale*
c) E’ un’esigenza poco sentita dagli insegnanti

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