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CERVELLO E FERRAGOSTO

Ad agosto Il caldo impazza. E le persone anche.


È ormai assodato che durante il picco estivo aumentino gli episodi depressivi, le litigate tra coniugi,
le separazioni, fino ai casi più gravi di suicidi e aggressioni.
Perché accade questo?
Ci sono varie risposte possibili, tra le quali una particolarmente interessante.
Il mese di agosto è per antonomasia il mese delle vacanze: le città si svuotano, le attività si
chiudono, i negozi si dimezzano.
In una parola: gli equilibri si rompono.
È ampiamente dimostrato che esista una correlazione tra la percezione di benessere e alcuni
parametri che il cervello riconosce come “abituali”.
È il motivo per il quale i cambiamenti, di qualsiasi genere, vengono riconosciuti come fonte di
stress. Il nostro cervello riconosce le variazioni come “pericolose”.
In prima istanza perché per gestire una variazione ha bisogno di impiegare più risorse, più energie,
più lavoro; in secondo luogo perché il senso di sicurezza si costruisce – a livello neurale – su una
base di ripetitività.
Più siamo abituati a vedere qualcosa in un dato modo – positivo o negativo che sia – più tendiamo
a conservarla in quel modo.
Questo funzionamento “a risparmio energetico” delle risorse cerebrali ha degli evidenti vantaggi,
perché ci permette di non dover reimparare ogni giorno ciò che abbiamo già appreso, ma
comporta degli svantaggi e dei rischi purtroppo non altrettanto chiari e ancora decisamente
sottovalutati: è lo stesso meccanismo per il quale, normalmente, gli individui che vivono in
condizioni degradate o sotto il proprio livello di potenziale tendono ad abituarsi a quella
condizione e a non percepire realmente le altre possibilità: per il cervello ha più forza ciò a cui è
più abituato, non ciò che ha una maggiore evidenza. Così accade che chi non è stato compreso e
potenziato da bambino tende a non riconoscere le proprie capacità, chi è stato abusato tende a
continuare a farsi abusare, chi è stato maltrattato tende a farsi maltrattare per tutta la vita.
Cosa potrebbe modificare questo meccanismo?
La risposta – come spesso accade – è nell’educazione.
Come sarebbe il cervello delle prossime generazioni se anziché educarle a cercare il posto fisso, la
donna o l’uomo della vita, anziché insegnare loro come costruire una vita “sicura” e come
“sistemarsi” iniziassimo ad educarli a potenziare le proprie risorse, saper surfare sull’onda dei
cambiamenti e accogliere con entusiasmo le novità sviluppando il potenziale inespresso che
offrono?
Non può in questi casi non tornare alla mente la lezione degli antichi maestri, che forse ne
sapevano ben più di noi che amiamo fare i tuttologhi quando insegnavano che “panta rei”, tutto
scorre, e che è un’illusione frustrante e irreale cercare di controllare il flusso della vita quando si
può invece imparare a gestire il flusso dei pensieri, delle emozioni, per far sì che il nostro cervello
ritorni ad essere quel portentoso strumento di evoluzione che veramente è, anziché essere
costretto a mantenersi al minimo del funzionamento come la cultura moderna ci sta insegnando a
fare con le emoticon, gli influencer e le assicurazioni sulla vita.
Mi piacerebbe sbirciare nei ferragosti dell’umanità per poter osservare dove, esattamente,
abbiamo iniziato a creare i ritmi alienati della routine e abbiamo associato la loro rottura a
qualcosa che produce malessere anziché vivere la nostra vita, come davvero si potrebbe,
nell’entusiasmante processo dionisiaco della creazione.

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