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Rendere omaggio alla figura e al pensiero di Theodor W.

Adorno, nel cinquantennale dalla morte


mettendo in luce ciò che è vivo e ciò che è morto nella sua filosofia, non renderebbe giustizia al
lavoro del teorico critico francofortese e probabilmente, ricadrebbe in quell’accademismo vuoto che
egli ha combattuto nel suo lavoro teorico.

Possiamo considerare il pensiero di Adorno come un pensiero della sconfitta. Questa sconfitta non
è solo una sconfitta politica - almeno non nel senso più proprio - ma è la sconfitta della filosofia, la
quale non è riuscita a realizzare sé stessa. Certamente quello della crisi del pensiero è un topos della
filosofia della prima metà del Novecento: la Prima guerra mondiale, l’avvento del nazi-fascismo e
la Seconda guerra mondiale hanno creato in numerose scuole e in numerosi pensatori da una parte
la sfiducia nei confronti della tecnica, dall’altra l’esigenza radicale di trasformazione della realtà.
Basti pensare alla riflessione dell’Husserl della Krisis, a tutto il pensiero di Heidegger o alla
riflessione sul linguaggio di stampo analitico (in particolare nel Tractatus di Wittgenstein).

L’itinerario filosofico adorniano, però, a differenza di tutti gli esempi citati, è peculiare per la sua
radicalità. La critica alla tecnica – al capitalismo della società industriale avanzata, usando le parole
del nostro filosofo – si estende non solo ai meccanismi diretti di dominio e ai dispositivi che ne
permettono il predominio, ma si rivolge alla forma di dominio su cui si costituisce l’intera
razionalità occidentale: il dominio del concetto. Per questo la filosofia ha fallito, nascondendo in sé,
anche quando apparentemente critica, le categorie concettuali, la necessità di sistema e di
conciliazione, e quindi lo stesso pensiero che combatteva.

Quindi, una volta mostrata la sua inadeguatezza, la filosofia, deve negare l’illusorietà su cui si è
costruita attraverso l’autoriflessione sul suo metodo, sul suo linguaggio e sui suoi concetti.

Questo è il nucleo del pensiero di Adorno, ciò che rimane: una Logik des Zerfalls, una logica della
disgregazione, in grado di andare oltre la trappola ideologica della totalità. La dialettica, non deve
puntare alla conciliazione come nella formulazione hegeliana, ma dare spazio a quegli aspetti
residuali, Adorno direbbe micrologici, a dare lo sgambetto alle sane opinioni circa
l'immodificabilità del mondo.

Tutta l’opera Adorniana è costruita su questa premessa: come scrive nell’avvertenza a Dialettica
negativa, quella di una logica della disgregazione è la più vecchia delle sue concezioni filosofiche,
risalente a quando era ancora uno studente. Anche le opere meno “filosofiche”, come gli Scritti
sociologici o gli studi Sulla personalità autoritaria, nascondono dietro il motivo dialettico di fondo:
mostrare come la società e la soggettività siano costituite sul primato dell’intero, del sistema, del
capitalismo.
Anche la principale opera adorniana di filosofia della storia, Dialettica dell’illuminismo (1947) -
scritta a quattro mani con Max Horkheimer – si costituisce su questo fil rouge. Si tratta di una
genealogia del primato della ragione illuminista, intesa come la tendenza alla manipolazione, prima
della natura, poi dell’uomo e dei dispositivi attraverso i quali la ragione, che si salda al dominio, si
autoconserva (ad esempio nella cultura simbolica attraverso l’epos o attraverso l’industria
culturale).

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