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18 Feb2014

H/H: Herrmann & Hitchcock


Scritto da Roberto Pugliese . Pubblicato in Monografici (/contenuti-speciali/monografici.html)

H/H: Herrmann & Hitchcock

Nel tentare anche solo empiricamente di tracciare una


storia della musica per film, si è propensi ad enfatizzare
molto i rapporti “privilegiati” (con ciò intendendosi quelli
prolungati nel tempo, forieri di parecchi titoli, oppure
anche quantitativamente ridotti ma fortemente carichi di
significato e di produzione artistica: faremo solo
l’esempio Morricone-Leone) tra un compositore e un
regista. La fidelizzazione reciproca tra queste due figure
è interpretata – spesso tutt’altro che a torto – come una
sorta di raddoppio autoriale, di garanzia, a tutela di una
riconoscibilità e uno stile che si motivano
vicendevolmente, dando in qualche caso luogo anche
ad apparati teorici e metodologie talora appropriate,
talaltra fuorvianti. I fiumi d’inchiostro spesi sul sodalizio
Prokof’ev- Ėjzenštejn o su quello Rota-Fellini, spesso indicati come epitomi del rapporto ideale
compositore-regista, raramente spiegano perché, nel primo caso e al netto degli spericolati
parallelismi ėjzenštejniani tra morfologia dell’inquadratura e struttura della battuta musicale, la
forbice qualitativa fra esiti musicali ed esiti cinematografici (le partiture per Aleksandr Nevskij, id.,
1938, e per i due capitoli Ivan il Terribile/La congiura dei Boiardi, Ivan Grozny 1-ja serija i 2-ja
serija, 1944-’46, non vengono certo annoverate tra i vertici della creatività prokof’eviana) non
abbia impedito a questi film di configurarsi come veri e proprio “manifesti” sperimentali nell’arte
della composizione cinematografica; o, nel secondo, le ragioni profonde per le quali il
protominimalismo di Rota, la sua apparente naïveté, il suo conclamato “candore” (dietro i quali si
celava una diabolica mente compositiva, associativa e rielaborativa), pur lavorando in direzione
stilisticamente opposta all’onirismo strutturato e insieme anarchico, al substrato grottesco e
surreale del cinema felliniano, abbiano finito per costituirne parte integrante e indissolubile.
Si potrebbe dirimere semplicisticamente la questione osservando, a rischio di banalizzare, che
ovviamente il linguaggio musicale ha le sue ragioni che quello cinematografico utilizza ma non
conosce: e che l’interazione fra i due non è detto debba procedere sempre nella medesima
direzione o all’insegna dell’omogeneità (o di un pensiero unico) per ottenere quel particolare
risultato che confluisce poi nel “film + la sua musica”: a ciò si potrebbe aggiungere che esiste, non
sottovalutabile, una componente umana e personale non sempre o non necessariamente allineata
con la sintonia artistica fra le due figure. Di più: a volte proprio la diversità di vedute, spinta sino al
conflitto, ha fornito fertilissime occasioni e risultati eccellenti, anche se alla fine si è inevitabilmente
risolta in una rottura.
Il caso, o meglio, il sodalizio fra Bernard Herrmann e Alfred Hitchcock appartiene, va ricordato, a
quest’ultima – non frequentissima – categoria. E nelle sue caratteristiche, oltre che nelle sue
contraddizioni, risiedono la sua unicità e la sua grandezza artistica.
Non è stato un “matrimonio” lunghissimo: appena nove anni, dal 1955 al 1964. E non ha prodotto
un numero poi così vasto di “figli”: appena sette partiture per altrettanti film, senza contare il ruolo
di mera consulenza tecnica per il suono di Gli uccelli (The Birds, 1963) né, ovviamente, il film che

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provocò il tumultuoso, traumatico divorzio tra i due, cioè Il sipario strappato (The Torn Curtain,
1966). Siamo ben lontani, per durata e prolificità, da altri celebri e solidissimi legami tra
compositore e regista: basti pensare, per limitarci a due esempi conclamati, a quello tra John
Williams e Steven Spielberg, che ha toccato il quarantennale con ben ventisei titoli in comune, o a
quello tra Howard Shore e David Cronenberg, che ha fruttato quindici film in trentatrè anni.
Ma i numeri, di per sè, non dicono tutto. Come ha osservato Steve Vertlieb, in un suo saggio sulla
collaborazione tra Herrmann e Hitchcock, nel suo periodo americano il maestro inglese ha potuto
avvalersi di alcuni fra i maggiori compositori hollywoodiani, stabilendo con essi a volte una
collaborazione protrattasi per più di un titolo, e curiosamente tutti europei come lui, passeggeri di
quell’ideale piroscafo “Vienna-Hollywood” che negli anni Trenta vide emigrare dal Vecchio
Continente, violentato dal nazifascismo e dalla guerra, al Nuovo numerosi talenti cinematografici,
sia registici che tecnici che, ovviamente musicali. Era stato proprio il tedesco Franz Wachsmann,
divenuto Waxman, a tenere a battesimo nel 1940 l’esordio hollywoodiano di Hitchcock con la
fiammeggiante partitura per Rebecca, la prima moglie (Rebecca), cui seguiranno poi Il sospetto
(Suspicion, 1941), Il caso Paradine (The Paradine Case, 1947), La finestra sul cortile (Rear
Window, 1954). Anche con l’ucraino Dimitri Zinovievič Tiomkin Hitchcock ebbe una collaborazione
proficua, trovando in questo musicista spaventosamente eclettico e mai prevedibile, ma noto
specialmente per la sua vena western, un perfetto corrispettivo musicale all’instabilità psicologica
e ai dilemmi nevrotici che agitano film come L’ombra del dubbio (Shadow of a Doubt, 1943),
Delitto per delitto o L’altro uomo (Strangers on a Train, 1951), Io confesso (I Confess, 1953),
Delitto perfetto (Dial M for Murder, 1954). Unico, in ogni senso, il caso dell’ungherese Miklós
Rózsa la cui travolgente e inesauribile partitura per Io ti salverò (Spellbound, 1945) basterebbe da
sola a sancire la grandezza e l’incommensurabile ricchezza inventiva e drammaturgica di questo
compositore.
Il periodo a cavallo fra gli anni
’50 e gli anni ’60 coincide con la
fase di massimo
perfezionamento, di estrema
rifinitura dell’universo
hitchcockiano nella sua fase
hollywoodiana: sono i cosiddetti
“anni Paramount-Universal”, in
cui vedono la luce uno dopo
l’altro alcuni capolavori che
riassumono e sublimano le
ossessioni fondamentali
hitchcockiane (la riflessione
sulle tortuosità della psiche
legata alla sessualità, il terrore
per l’autorità costituita, l’ambiguità morale dinanzi alla logica del profitto, lo sguardo laico sulla
morte e naturalmente quella vera e propria oreficeria della suspense che contiene e motiva tutte
le componenti succitate). Sono film di vario registro stilistico e atmosfera: una commedia
macabra, un cupo dramma poliziesco-giudiziario, due brillanti spy-movies, un travolgente thriller-
melò, un horror-thriller, uno psycho-drama. Vi si rincorrono alcuni volti attoriali cari al maestro, da
James Stewart a Vera Miles, e il corpus di queste opere appare fortemente unitario, malgrado
alcune opzioni linguistiche fortemente diversificate (ad esempio il bianco e nero “spento” e
funereo di Il ladro, The wrong man, 1957, e Psyco, Psycho, 1960, contrapposto alla squillante
tavolozza cromatica di La congiura degli innocenti, The trouble with Harry, 1955, o Intrigo

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internazionale, North by Northwest, 1959). Scrive Vertlieb, nel suo già citato studio, che in questo
percorso, esteso sino al “rejected score” per Il sipario strappato, «Bernard Herrmann sembra la
perfetta espressione musicale della benigna malevolenza (il corsivo è nostro, ndr.) di Hitchcock».
Eppure questa intesa tra due personalità così diverse, due caratteri così distanti, due metodologie
di lavoro così orgogliosamente individualiste, non si è certo sviluppata a prima vista, e non ha mai
avuto vita facile nel corso di quei nove anni: si direbbe quasi che Herrmann e Hitchcock si siano
trovati così vicini, così in sintonia, confluendo con i rispettivi geniali talenti alla creazione di
“sovratesti” rimasti insuperati nella storia del cinema, quasi contro la propria volontà e comunque
in costante conflitto reciproco, più o meno aperto, oltre che rimettendosi continuamente in
discussione. Di qui, forse, quella continua tensione, quel proliferare ribollente e irrequieto di idee
visive e sonore, quell’inesauribile forziere di invenzioni musicali e cinematografiche (le une
connesse alle altre), che ha fatto di questi titoli i testi-base non solo del cinema hitchcockiano ma,
per chi si occupa di musica per film, anche di questa forma d’arte.
Sembra fosse il compositore inglese Lyn Murray (al secolo
Lionel Breeze), corretto e sobrio artigiano del settore, il primo
destinatario della partitura di La congiura degli innocenti,
offerta declinata in quanto il musicista era ancora alle prese con
le musiche di Caccia al ladro (To catch a thief, 1955), tanto da
suggerire egli stesso a Hitchcock di rivolgersi a Herrmann, con il
quale il regista si era già incontrato qualche anno prima ma
senza che fra i due scattasse un particolare feeling. Non
sembrava un esordio sotto i migliori auspici: Herrmann era già
un compositore leggendario, e temuto sia per il proprio
perfezionismo che per la propria pessima e collerica indole, ma
soprattutto aveva scarsissima – per non dire alcuna – dimestichezza con il genere brillante, sia
pure sotto forma di quella “danse macabre” che prometteva di essere il film di Hitchcock. Tuttavia
lo attirava l’idea di una nuova sfida, e per una nuova major: anche se la prima cosa che fece fu
litigare furiosamente e toscaninianamente con l’orchestra della Paramount, accusando
apertamente gli strumentisti di inefficienza e scarsa professionalità, peraltro venendone ricambiato
senza tante perifrasi con l’epiteto di «coglione».
Al netto dell’aneddotica, la partitura del film – di una mostruosa difficoltà esecutiva soprattutto per
le sezioni dei fiati – sembra invece esprimere alla perfezione la “benigna malevolenza” di cui parla
Vertlieb. Non per caso quando si trattò di raccoglierne alcuni elementi principali per la
registrazione discografica, la suite che ne sortì venne da Herrmann intitolata “A portrait of Hitch”:
vi compaiono elementi di orchestrazione affilata e scintillante, di ascendenza prokof’eviana e
stravinskyana, illividiti da un umorismo tanto più sinistro quanto più gioviale. Prevalgono ritmi
mossi, una dinamica accesa, una predisposizione quasi irrefrenabile a movenze coreografiche
(più volte per Hitchcock il musicista ricorrerà a forme di danza, in particolare latine e
mediterranee: la habanera di La donna che visse due volte, Vertigo, 1958, il fandango di Intrigo, la
tarantella di Marnie, id., 1964): parentesi di disarmante lirismo, soprattutto nel canto dei violini
primi, e di bucolica, idilliaca trasparenza si alternano a colori lividi, guizzi beffardi degli strumentini,
perorazioni grottescamente solenni dei corni, raffinatissimi effetti della percussione. Il tutto in
quella ferrea economica del leitmotiv tipicamente herrmanniana, dove il “tema” viene molto ma
molto dopo il “timbro”, e l’uno comunque non può mai prescindere da chi lo enuncia: si noti, solo
per fare un esempio, lo spensierato e orecchiabile motivetto dei violini in registro alto
inesorabilmente appiccicato al dottore miope e bibliofilo che inciampa, regolarmente senza
avvedersene, nel cadavere di Harry.
Dunque, al netto delle reciproche diffidenze iniziali e alla luce dei risultati, La congiura pareva

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inaugurare una felice relazione fra due personalità molto diverse ma con una serie di tratti in
comune: l’egocentrismo, il perfezionismo, l’irascibilità, le crisi depressive, la scarsa capacità di
autocontrollo in ogni campo. Una volta prese le misure l’uno all’altro, consapevoli – l’uno e l’altro –
di condividere molti dèmoni e molte ossessioni, e di poter trovare in questa simbiosi una forma
superlativa di sublimazione artistica, si stabilì fra H.&H. un’amicizia cameratesca e sincera, fatta
anche di grandi tavolate (il sopraffino cuoco e buongustaio Hitchcock non apriva facilmente le
porte della propria cucina) e di grandi bevute (il debole di Herrmann). Ma appariva chiaro che,
data la statura dei due protagonisti, ogni passo ulteriore nella loro collaborazione sarebbe stata
una sfida, un andar “oltre”, un cercare nella musica le origini e le ragioni stesse dell’immaginario
hitchcockiano, che di fatto da quella musica sarebbe dipeso in modo assoluto e ultimativo.
Non poteva esserci occasione
migliore di L’uomo che sapeva
troppo, (The man who knew
too much, 1956) per raccogliere
e ampliare questa sfida già dal
secondo capitolo del sodalizio,
e ciò grazie ad una serie di
convergenze e sinergie che ne
fa uno snodo semiologicamente
imprescindibile nel cinema
hitchcockiano e nella stessa
produzione herrmanniana. Il
primo di questi fattori è
rappresentato dal ruolo
centripeto, fondativo svolto
dalla musica: la celebre (forse troppo celebre…) sequenza dell’attentato alla Royal Albert Hall di
Londra durante l’esecuzione della cantata “Storm Clouds” di Arthur Benjamin, su testo dello
scrittore gallese Dominic Bevan Wyndham Percy Lewis (co-autore anche del soggetto del film
insieme a Charles Bennett), personalmente diretta da Herrmann alla sua prima e ultima
apparizione sul grande schermo sul podio della London Symphony Orchestra & Covent Garden
Chorus, rappresenta forse il più alto, perfetto e folgorante esempio di “livello interno” manipolato e
mediato, secondo un meccanismo di sincronismi, di montaggio analogico e psicologico tra tutte le
componenti visive (l’attentatore, il suo bersaglio, l’orchestra, Herrmann e la solista mezzosoprano
Barbara Howitt, il coro, i dettagli della partitura, l’irruzione di James Stewart, lo sconforto e l’urlo di
Doris Day), sino a trasformarsi quasi in un (inconsapevole?) “livello esterno”. Il secondo elemento
è rappresentato dal fatto che siamo dinanzi ad un autoremake per il quale, rispetto alla versione
inglese del ’34, Hitchcock palesò subito di voler ulteriormente porre l’accento sul momento
musicale, ed esecutivo, come fulcro della propria dimostrazione del teorema sulla suspense.
Tant’è vero che l’intenzione del regista era quella di commissionare a Herrmann, per il
corrispettivo di quella sequenza, una composizione ex-novo, così come aveva fatto ventidue anni
prima appunto con Benjamin. Inoltre, come riferisce il massimo esegeta del compositore, Steven
C. Smith, Hitchcock era fermamente intenzionato a far sì che l’orchestra e il direttore fossero
nettamente identificabili come “autentici”, e che la sequenza, di fatto, coincidesse con la ripresa di
un concerto vero e proprio. Tuttavia fu Herrmann, che di Benjamin era profondo ammiratore e che
del compositore australiano aveva diretto e registrato molti lavori, ad insistere perché venisse
mantenuta la cantata originale, intuendone la straordinaria potenza drammaturgica e diegetica:
enfatizzata, ovviamente, dal ruolo centrale che Hitchcock assegna, nella sequenza, ai componenti
dell’orchestra e allo stesso Herrmann (varrà appena la pena di ricordare quale grandissimo,

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implacabile e – ancora – “toscaniniano” direttore d’orchestra egli sia stato, sia di se stesso che di
musica non propria e non cinematografica, come documentano alcune preziosissime registrazioni
discografiche London-Decca di autori che vanno da Dukas a Holst a Šostakovič). Peraltro
Benjamin ritoccò la propria opera, per esigenze di montaggio, aggiungendovi più di un minuto di
musica, ed Herrmann la riorchestrò rispettandone i parametri essenziali, ispirati ad un fluviale e
infiammato tardo romanticismo naturalistico in linea con molta musica inglese della prima metà
del Novecento, ma adattandoli in qualche modo all’ampio e sontuoso organico a propria
disposizione. Infine c’è, come si diceva, l’elemento catturante della presenza stessa di Herrmann.
Benjamin, che per la prima versione si era egualmente avvalso della London Symphony (allora a
ranghi assai più ridotti, e diretta da H. Wynn Reeves, ma la direzione musicale del film è firmata
da Louis Levy) aveva inizialmente suggerito di ricorrere a Muir Mathieson, acclamata bacchetta
britannica nonché prezioso esecutore herrmanniano (sarà sua la direzione di La donna che visse
due volte), ma Hitchcock optò per Herrmann, non tanto per un suo particolare carisma fisico (il
maestro, allora 45enne, vi appare composto e concentrato, l’espressione blandamente seria,
impugnando con gesto contenuto una bacchetta smisuratamente lunga) quanto per ottenere un
“unicum“ cinematografico-musicale e una perfetta tenuta dei tempi e degli stacchi che
nessun’altra opzione finzionale o di montaggio avrebbe ottenuto con altrettanta fluidità e
corrispondenza.
Ma a ciò si aggiunge un ulteriore fattore, forse il più interessante
dal punto di vista strettamente “cinemusicale”. Herrmann infatti
non si limita, nel film, a dirigere la pagina benjaminiana (che
ricordiamolo nella versione del ’34 occupa in un frammento i
titoli di testa, più brevemente la coda e naturalmente la
sequenza alla Albert Hall: per il resto il film è di fatto privo di
musica di commento) bensì compone una ricca, convulsa e
conflittuale partitura propria. Che si apre sin dai titoli di testa, e
non a caso, con un piano fisso sulla sezione (affollatissima) di
ottoni e percussioni della London Symphony, impegnate in un
pezzo d’apertura “chiuso”, che in qualche modo sembra
parafrasare la fase più solenne e scultorea della cantata benjaminiana, un violento e scandito
ritmo irregolare di marcia, con i timpani protagonisti assoluti, tube e corni impegnate in
progressioni cromatiche minacciose, sino a che la mdp stringe sullo strumentista incaricato del
“fatidico” colpo di piatti, assestato frontalmente e centralmente. Un modo per anticipare, certo, il
momento clou, ma anche uno stilema con il quale Herrmann contestualizza e incardina il proprio
“score”, sia timbricamente che visivamente, in quello che sarà il fulcro, musicale e drammaturgico,
del film. Nel quale però, varrà solo la pena di ricordarlo, ad un altro momento musicale – sia pur di
ben altro e più lieve spessore – sarà affidato un ruolo fondamentale di scioglimento e
“liberazione”, e cioè alla song “Que sera sera” di Ray Evans e Jay Livingston che, fischiettata dal
figlio di Doris Day tenuto in ostaggio mentre la madre lo sta cantando al piano inferiore, consentirà
al padre di individuarne la presenza, accorrere e liberarlo.
A tanta complessità e ricchezza, squisitamente filmica, musicale e metatestuale, non poteva
seguire effetto di contrasto maggiore che con Il ladro. Dal Technicolor brillante, da
un’ambientazione lussureggiante e da una partitura musicale sontuosa, si arretra ad un bianco e
nero depresso e deprimente, tendente al grigio nella prima parte e fortemente contrastato,
espressionisticamente stagliato nella seconda, per una storia dove dominano il Caso, lo scambio
di persona, l’errore (e il terrore hitchcockiano) delle autorità, la fragilità delle psicologie. Quasi un
documentario, un film “sociale” (secondo i parametri della Warner, cui Hitchcock passò in
quest’occasione), basato su una storia vera nella quale la tragedia, ancorchè esplodere

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violentemente, attraversa subdola e sotterranea l’intera vicenda


come un virus a rilascio lento ma inesorabile. La partitura di
Herrmann è la più scarna, quasi scheletrica, rarefatta, di tutte
quelle scritte per il regista: ed inizia ancora con un esempio di
“livello interno”, giustificato dalla professione del protagonista
(un contrabbassista di night-club) ma nel quale s’insinua un
elemento, un corpo estraneo e significante. Il ballabile jazzato,
orecchiabile e vagamente latino (nell’orchestrina si intravede un
percussionista con delle maracas, ma dicevamo della
predilezione di Herrmann per queste latitudini musicali) con cui
si apre la prima sequenza, nel locale dove appunto lavora
Manny Ballister, è per più volte attraversato, si direbbe avvelenato, da una mestissima figurazione
discendente in minore dei legni, autentico per quanto minimalista “Todesverkündigung”, un
annuncio di morte che serpeggia come predestinazione malinconica ma sommessa: e proprio
partendo dai pizzicati del basso, lo strumento di Manny, si alza in seguito una serie di continue,
inesorabili pulsazioni ritmiche su cui si levano figure melodiche spettrali, affidate a disegni di non
più di due, tre note ripetute, sussurrate da flauto o clarinetto, intrecciate con lugubri e distanti
accordi di ottoni con sordina. Gli interventi sono selezionati con cura e si spingono raramente oltre
il “piano”, a volte (l’entrata della moglie di Ballister nella clinica psichiatrica) indugiando in
dissonanze vitree, aliene e immobili. Fanno eccezione due momenti non casualmente
rappresentativi di una perdita del controllo: quello in cui Manny viene rinchiuso in cella la prima
volta e, mentre appoggia le spalle al muro, la mdp comincia a roteargli sempre più
forsennatamente, vertiginosamente intorno, insieme alla musica di Herrmann che accelera in uno
stringendo soffocante il disegno pulsante centrale che lo ha sin lì accompagnato; e quello in cui la
moglie di Manny, Rose, in stato di terribile alterazione e depressione psichica, colpisce il marito
con una spazzola e rompe lo specchio, sull’esplosione acutissima di accordi di ottoni con sordina
fuori da ogni baricentro tonale e poco a poco declinanti nei legni in una serie di figurazioni a
scendere, sigillate surrealmente da alcuni tocchi di triangolo. Un tipico esempio di quelle
procedure herrmanniane che affidano a organici ristrettissimi, cameristici, e ad architetture
contrappuntistiche di quasi pauperistica semplicità il massimo del risultato emotivo e
drammaturgico.
Forse in questa partitura prende forma davvero compiutamente, per quanto poco
appariscentemente, il profondo “comune sentire” fra i due artisti, la capacità herrmanniana di
divenire come annota Vertlieb «l’estensione invisibile dell’anima hitchcockiana», l’uomo di cui
Hitchcock comincia a fidarsi di più fra i suoi collaboratori (lui, così autoritario e diffidente verso
chiunque), e del quale comincia a sospettare un intuito forse persino maggiore del proprio nel
cogliere al nucleo l’essenza di alcune situazioni, di alcuni meccanismi del suo cinema e nel
restituirlo in una forma musicale subliminale e di inquietante, perturbante perfezione.
La donna che visse due volte è il conseguente, e non
superabile, prodotto di questo processo di simbiosi creativa. Un
esito artistico, musicologico e filmico, sul quale esistono ormai –
caso abbastanza unico nella storia critica alquanto diseguale e
travagliata della musica per film – una letteratura vastissima ed
un numero altrettanto ampio di analisi, esegesi, apologie o pure
e semplici, a volte intellettualmente più oneste, dichiarazioni di
resa emozionale di fronte ad una partitura che di fatto “diventa”
il film, ma che compie questa metamorfosi attraverso
un’intensità comunicativa e una profondità di soluzioni tecnico-

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musicali ancora oggi difficilmente superate. Di questa vicenda oscura e fatalistica, con al centro
un antieroe fragile, un poliziotto di fatto fallito che si innamora di una morta e cade in una trappola
micidiale, ed un’antieroina che cerca invano e troppo tardi una impossibile redenzione d’amore,
Herrmann coglie in modo folgorante e fluviale l’afflato tragico e nello stesso tempo la sottotraccia
perturbante, misteriosa e fondamentalmente macabra. Oltre a ciò la sua musica svolge una
funzione fondamentale di disvelamento, di agnizione e di allarme, sostituendosi al dialogo e
divenendo a tutti gli effetti un personaggio in più, esattamente come avverrà per Psyco, che
condivide con La donna, in molti momenti, le caratteristiche di un film muto. Il tutto ancora una
volta con mezzi apparentemente semplici, con soluzioni aggregate intorno a poche ma formidabili
idee, armoniche strumentali e ritmiche. Inoltre Herrmann mostra ancora una volta di prediligere i
pezzi chiusi, i “cues” autosufficienti, autonomamente conformati ed alternati a lunghe pause di
assenza di musica, in ciò collegandosi alla terza grande partitura di questi anni hitchcockiani,
Intrigo internazionale: sin dai titoli di testa, disegnati dal geniale e geometrico Saul Bass per
l’intero trittico, ma con un andamento di linee circolare per La donna, obliquo per Intrigo, e
rigorosamente, rabbiosamente ortogonale per il successivo Psyco, e con i quali Herrmann
dimostra una perfetta sintonia.
La donna si aggrega, come
dicevamo, intorno a non molti
ma essenziali elementi
costitutivi e tematici: si inizia
appunto sui Titoli, con
l’aggressione delle triadi
maggiori e minori a scendere e
a salire, strettamente intrecciate
a creare un movimento
spiraliforme ossessivo
all’interno di una audace scelta
politonale, che si conclude con
lo schiacciante intervento finale
del basso tuba sulla nota “re”,
nota e tonalità su cui si regge
l’intera partitura. Questa
figurazione triadica torna
immediatamente, accelerata in
un convulso moto perpetuo di
archi e clarinetti, nella
sequenza successiva
dell’inseguimento sui tetti e della morte del poliziotto, e ci introduce ad un secondo ingrediente: gli
accordi stridenti e dissonanti, riempiti da un furioso glissando delle arpe, che connoteranno qui e
oltre il terrore del protagonista per l’altitudine. Una soluzione quasi primordiale quanto efficace, in
proporzione all’”uovo di Colombo” con cui Hitchcock risolse visivamente il problema di rendere
partecipe il pubblico di questo disagio fisico, combinando uno zoom in avanti con uno zoom
indietro… Benché inglobate strutturalmente in tutta la partitura, queste ipnotizzanti terzine
torneranno in forma riconoscibile e veloce solo un’altra volta, appena accennate dall’arpa, durante
la sequenza del trucco con cui Judy viene ritrasformata in Madeleine, collegando dunque il primo
piano dei suoi occhi con gli occhi – scuri, freddi e impersonali – che avevano dominato i Titoli.
Terzo elemento il “Lento amoroso” che introduce il personaggio di Madeleine e si trasforma nel
love theme incantatorio e disarmante: affidato agli archi in un tempo di ¾, è un tema che – a

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differenza di un altro meraviglioso tema d’amore, quello di Intrigo – coniuga l’esasperato


romanticismo, la travolgente passionalità, il bruciante cromatismo (che nella scena dell’hotel in cui
Scottie può finalmente riabbracciare quella che crede di aver ricreato come la “sua” Madeleine,
esplode nella più aperta citazione tristaniana di una partitura che pure gronda di debiti riconosciuti
verso Wagner, compreso il “Lohengrin”, ad esempio nella scena in cui Judy-Madeleine scrive la
lettera a Scottie che poi strapperà), con un senso di mistero oscuro e di predestinazione luttuosa.
Herrmann avrà modo di dimostrarlo lungo lo svolgimento dell’azione con una rara sagacia
diegetica: ad esempio declinando il tema per intero, la prima volta e rapidissimamente, dopo
averne accennato frammenti in varie circostanze (nel ristorante Ernie’s, dal fiorista…), esposto da
archi e legni quando la coppia è inquadrata frontalmente in macchina. Oppure facendolo
echeggiare disperatamente un’ultima volta in “fortissimo” nel finale, quando tutto è ormai
compiuto.
L’ultimo e forse più importante pilastro della partitura anche per la sua onnipresenza e la quantità
di variazioni cui è sottoposto, è costituito dal Tempo di habanera che connette il personaggio di
Madeleine all’ossessione per il ritratto di Carlotta Valdes e che diventerà per traslato il marchio
anche dell’ossessione di Scottie per Madeleine. Il pretesto narrativo spagnoleggiante verrà
archiviato, come accennavamo, in alcune successive scelte herrmanniane verso movimenti di
danza mediterranea non contestuali, ma qui il suo andamento fisso, ancorato alla nota “re” sul
quale di volta in volta archi e legni levano mormoranti figure di terza, ha una valenza psicologica
formidabile. Sarà questa idea, violentemente asserita dai corni sugli accordi discendenti dei
clarini, a dirci in modo quasi delatorio che Scottie ha riconosciuto l’inganno che gli è stato
perpetrato, quando la mdp stringe sul dettaglio della collana di Madeleine allo specchio. Ed è
ancora questa habanera a martellare, come una marcia funebre in cui risuonano persino – a
sottolinearne la radice storica e geografica – le nacchere, nella sequenza dell’incubo di Scottie
dove, si noti, si riassumono tutti gli elementi fondativi della partitura ad eccezione del tema
d’amore.
Intorno a questa architettura fioriscono innumerevoli, stupefacenti episodi dell’ispirazione
herrmanniana sia sul piano strutturale che strumentale: ad esempio le pagine che accompagnano
la prima visita alla missione di Juan Batista, un tema piangente di gruppi di due note a scendere
dall’acuto al grave, prima sui clarinetti (sezione presentissima in ogni suo registro, soprattutto i
bassi) poi sull’organo. Oppure la presenza appunto dell’organo, sia tradizionale (con una
figurazione canonica che sembra profetizzare la sequenza di Complesso di colpa, Obsession,
1976, Brian De Palma, in cui a San Miniato Cliff Robertson riconosce in Geneviève Bujold la
donna che amò: film non a caso considerato una derivazione palese di La donna), sia elettronico,
dal suono inquietante e alieno, di un gelo spettrale, nella scena della foresta di sequoie. O ancora
gli arpeggi e il fraseggio ampio, quasi bucolico delle sequenze all’aperto, con soluzioni di radioso
impressionismo (il tema della passeggiata al parco sul lago e tutti i frammenti musicali connessi
alla presenza dell’acqua sembrano provenire da Il fantasma e la signora Muir, The Ghost and
Mrs. Muir, 1943, Joseph L. Mankiewicz). Lo stesso tema d’amore, prima e dopo essere
compiutamente enunciato e “goduto” nella sequenza dell’hotel, è cellula motrice di infiniti episodi
intermedi, psicologicamente instabili o di struggente appello mnemonistico, soprattutto nel suo
continuo, incessante intrecciarsi con la habanera.
La segmentazione del love theme, specialmente come disperato tentativo di Scottie di ritrovare da
qualche parte la donna che ha amato, s’intreccia anche con autocitazioni consapevoli (il “Memory
Waltz” da Le nevi del Kilimangiaro, The snows of Kilimanjaro, 1952, Henry King, quando Scottie
torna nel museo dove contemplava Madeleine a sua volta in contemplazione del ritratto di
Carlotta) e tocca apici infinitamente dolenti nel sottofinale, quando il suo echeggiare durante la
confessione di Madeleine non può che suonare, ormai, come tardivo protendersi verso una

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passione compromessa dal destino. E vi sono a volte frammenti brevi, isolati ma penetranti come
la mesta frase discendente di celli e bassi che accompagna la sconsolata Midge dopo la sua visita
alla clinica dove Scottie giace in depressione: un forte contrasto con il secondo movimento
“Andante di molto piuttosto allegretto” dalla Sinfonia No. 34 in do maggiore K. 338 di Mozart,
illusoria psicoterapia musicale – come la stessa Midge dirà con amara ironia al medico - che poco
prima risuonava a livello interno, in un grammofono, nella stanza del paziente.
La partitura di La donna, che
ebbe una registrazione
piuttosto avventurosa a causa
di una serie di vicende sindacali
che causarono tra l’altro la
mancata direzione da parte
dello stesso Herrmann e la sua
sostituzione con Muir
Mathieson (cui il compositore
non mancò di far giungere la
propria ringhiosa
disapprovazione), consta di
soluzioni strumentali e tecniche
particolari che ne rendono
unico il “colore”. L’organico è
vastissimo ma utilizzato come
spesso in Herrmann per
sezioni, con il “tutti” confinato ai
momenti di maggiore
drammaticità. Il predominio
degli archi è enfatizzato
dall’utilizzo frequente e
palpitante della sordina, e da
numerosi passaggi “sul
ponticello” (l’irresistibile
progressione finale del love
theme nella sequenza d’amore
in albergo), ma anche da un
lirismo accorato (l’arpeggio e l’arcata dolente e poi l’ostinato disegno in minore che commentano il
tormento interiore di Judy dopo il primo incontro con Scottie) e da uno spiccato virtuosismo
soprattutto nelle due sequenze sulla torre: dove il contrappunto con le quartine dei clarinetti, gli
sforzandi degli ottoni, le note ribattute dei tromboni forma un magma musicale soffocante. Il tempo
dominante è un ¾ spesso molto rallentato e allargato, non certo valzeristico, e lo schema delle
figure, delle idee ripetute ad altezze variate e su registri diversificati, così come quello dei
sommessi ostinati di accompagnamento fatti di accordi brevi alternati a più lunghi, vi si inserisce
con un effetto psicologico potente. La donna è insomma la partitura in cui alcuni dei “tòpoi”
herrmanniani giungono ad un livello di fusione e decantazione massime, divenendo parte
costitutiva dell’”angoscia d’amore” trasmessa dal film e costruita consapevolmente, da Hitchcock
e da Herrmann, sulle stesse fondamenta estetiche e comunicative della sua musica.
Il contrasto tra il fatalismo tragico, il romanticismo cimiteriale ed esasperato, torturante di La
donna e la brillantezza livida, sfavillante e cinica di Intrigo internazionale, antesignano del
bondismo (non a caso Cary Grant era uno dei primi candidati al ruolo di 007), non potrebbe

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essere meglio espresso dalla nuova tavolozza herrmanniana. Che però in questo caso – a
dimostrazione dell’estrema libertà e della totale fiducia di cui ormai il compositore godeva nella
sua collaborazione con Hitchcock, al punto da dettargli spesso alcune scelte precise, come
vedremo per Psyco – sembra voler lavorare in aperto, provocatorio e beffardo contrasto con la
sostanza profonda del film. Intrigo è in sintesi una adrenalinica commedia d’azione a sfondo
spionistico, con un retroterra sentimental-sessuale fortissimo e fortissimamente alluso attraverso
un sottile ma ben tracciabile gioco di doppi sensi, ellissi e metafore (memorabile l’ultima, il treno
che penetra in galleria celebrando la “reunion” dell’eroe e dell’eroina…); la partitura di Herrmann,
che in quel ’59 aveva appena finito di comporre le musiche per l’episodio pilota della serie Ai
confini della realtà di Rod Serling, è una sorta di immenso
“scherzo“ (ma nel senso di certi “scherzi” mahleriani, che in
realtà sono sospesi sull’abisso) dalla strumentazione
funambolica e dalla ritmica convulsiva. Il furibondo, isterico
(«perverso ed esilarante» lo definisce felicemente Vertlieb)
fandango dei Titoli, scritto chiedendo soprattutto a percussione
e a legni (flauti e ottavini) ma anche ad ottoni evoluzioni
acrobatiche, ne è un efficace biglietto da visita, ed ancora una
volta prelude ad una mole di materiali che si raccolgono intorno
ad non più di due-tre idee portanti. In chiave brillante e quasi
caricaturale, il fandango, che è irto di dissonanze e di spigoli
armonici, ad esempio svolge qui un ruolo di “richiamo” analogo a quello della habanera in La
donna, ovviamente espropriato di qualunque valenza melodrammatica, mentre il tema cosiddetto
“di Kaplan” (cioè di un personaggio-fantasma, quindi un leitmotiv più che altro situazionistico,
ricavato tra l’altro da un’idea proveniente dallo score di Neve rossa, On dangerous ground, 1952,
Nicholas Ray), lugubre e strascicato soprattutto nel rimbalzo degli archi gravi, diviene un segnale
preciso di allarme diffuso. Ciò anche perché Herrmann lavora sull’ossatura principale dei brani
parallelamente allo svolgersi delle riprese, e si riserva la strumentazione definitiva solo a
montaggio ultimato, in modo da assegnare ad ogni situazione il proprio “colore” e andamento
ritmico, non senza scelte anche controcorrente, come ad esempio quella di lasciare senza musica
la sequenza dell’agguato dell’aereo a Roger, lasciando l’orchestra deflagrare, appunto, solo in
corrispondenza dello schianto finale del velivolo contro il camion.
E proprio il colore dell’orchestra di questa partitura non ha eguali nella collaborazione tra
Herrmann e Hitchcock (fatta salva l’opzione “radicale” e diametralmente opposta che vedremo in
Psyco): la procedura, tipica del compositore, di distribuire un’unica frase tra più sezioni di
strumenti qui giunge all’apoteosi (ad esempio proprio nel tema di Kaplan), spesso fondandosi su
elementi semicaricaturali, come il vertiginoso staccato in pianissimo fatto rimbalzare da corni e
ottoni a clarinetti ad archi, su una pulsazione fissa di pizzicati: una soluzione ricorrente e a
velocità variabili nella partitura, che trasmette un senso di motilità e di instabilità quasi fisiche,
soprattutto nel prefinale sulle sequenze di massima suspense nella villa di Vandamm e sui Monti
Rushmore. In realtà sarebbe eccessivo dire che Herrmann trasmette con la sua partitura un senso
di minaccia oppressiva e immanente forse assente nel tono smagato e “sophisticated” del film:
certo che ad esempio tutta la sequenza del rapimento di Roger Thornhill, dall’intervento livido del
clarinetto basso agli accordi sospesi e inquieti degli archi con sordina che vengono ripetuti,
pesantissimi e forzati, da celli e bassi quando il protagonista è costretto a ubriacarsi, è uno
scampolo esplicativo di come in questo lavoro Herrmann abbia beatamente trasceso e/o
moltiplicato il meccanismo brillante e perfettamente oliato di Hitchcock all’insegna di una luciferina
manipolazione dei materiali sonori verso una direzione molto più ambigua. Così ad esempio il
fandango dei titoli, rallentato e sommessamente staccato dai legni, può a buon diritto divenire

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pagina umoristica nelle sequenze che vedono in campo la pittoresca madre di Roger, ma tornare
ad accompagnare la fuga rocambolesca di quest’ultimo, fra colpi di piatti e accelerazioni
adrenaliniche, dopo l’uccisione del funzionario delle Nazioni Unite (sottolineata da una violenta
aggressione di accordi dissonanti degli ottoni), per proclamare alla fine trionfalmente l’happy end
sulla celeberrima metafora sessuale del treno che “penetra” la galleria dopo il salvataggio e la
sospirata ricongiunzione dei due amanti.
E a questo proposito ecco
l’altro inatteso protagonista
della partitura: il tema d’amore.
Inatteso per l’intensità, lo
struggimento, la semplicità del
decorso melodico, la profonda
malinconia che lo intride,
decisamente in contrasto con lo
spessore dei personaggi e la
spregiudicata allusività dei loro
approcci. Herrmann prescrive
un “Allegretto con molto
delicato” (sic), e sul
caratteristico ostinato mormorio in 2/4 degli archi in terzine appoggiate sull’ultimo accordo (re-fa
diesis-la) l’oboe alza un soave canto discendente (“rubato con molto amoroso”, sic),
accompagnato da violini eterei, poi seguito dal clarinetto, il tutto – dopo un gioco quasi femmineo
di richiami tra oboe e clarinetto - a introdurre il vibrato dei violini con sordina in una struggente
controfrase di risposta di viole e celli: questa pagina, che nella struttura armonica si rifà ad un’altra
partitura herrmanniana molto diversa, Tempeste sul Congo (White Witch Doctor, 1952, Henry
Hathaway; è Christopher Husted, nelle sue note di copertina al cd Rhino-Turner Music che nel
1995 pubblicò per la prima volta l’”original motion picture soundtrack” di Intrigo, a sottolineare
quanto ricorrente sia l’autocitazionismo in Herrmann), si stende blanda ad accompagnare le
effusioni di Roger e Eva in treno, enfatizzandone l’afflato romantico in aperto conflitto con il
dialogo, che è in bilico tra ironia ed esplicite allusioni sessuali, ma si chiude spezzando il lirismo in
un accordo inquieto e interrogativo proprio sullo sguardo, chiaramente angosciato, della ragazza.
Il parallelismo col tema d’amore di La donna è sicuramente fuorviante sul piano dei contenuti (lì
una tragedia, qui una commedia) ma sovraccarica il tema, comunemente noto come
“Conversation Piece”, di una valenza intimista e redentrice inoppugnabile.
Ancora una volta le tecniche strumentali di Herrmann appaiono sbalorditive nella loro eterogeneità
quanto semplici nella struttura: i sobbalzi freddi e tenui degli archetti alternati ai pizzicati e ai
tremoli sul ponticello negli archi, gli staccati dei legni, le frasi brevi, oblique e sinistre dei violini
mentre Roger tenta in ogni modo di avvisare Eva del pericolo che corre coniugano una tensione
estrema ad una sorta di pre-minimalismo (l’iterazione delle cellule ritmiche è essenziale in questo
lavoro), mentre la “visività” di altre soluzioni si rivela travolgente: si pensi agli accordi arcaici e
vagamente western che esplodono sui Monti Rushmore, o al perforante unisono per ottave di do
che, dopo dissonanze paurose e accordi davvero pesanti come macigni, sale dal basso tuba agli
ottavini nell’ultimo agguato ai due protagonisti da parte del killer di Vandamm. Un “colore” sonoro,
lo si accennava prima, rutilante e insieme livido, tagliente, abbagliante, che prelude al più funebre
e macabro dei “black & white”.
Al netto della leggenda e della letteratura che circondano la partitura di Psyco, sarà però il caso di
ricordare che l’opzione della scrittura per soli archi fu, da parte di Herrmann, un far di necessità
virtù dinanzi al budget ridotto del film, nato e concepito come una piccola produzione televisiva:

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anche se sarà lo stesso compositore, più tardi, a motivare


abilmente la scelta strumentale con l’esigenza di scrivere una
musica “in bianco e nero”… In realtà il film, considerato –
giustamente, nel bene e nel male – un punto di svolta e di non
ritorno nella filmografia hitchcockiana, non fu un esito facile da
raggiungere né un progetto in cui il regista riponesse grande
fiducia, quasi che egli presagisse già all’inizio degli anni ’60
quella crisi del cinema, dell’industria hollywoodiana e dei generi
che si ripercuoterà di lì in avanti pesantemente nella sua opera.
Fu Herrmann ad insistere, ad imporsi perché Hitchcock
dimostrasse maggiore fiducia in Psyco e nelle sue potenzialità di suggestione visiva ed
espressiva, appena prefigurate nel (brutto) romanzo di Robert Bloch ma moltiplicate e sviluppate
nella sceneggiatura tetra e inesorabile di Joseph Stefano.
La partitura di Psyco proviene da lontano, sia per il prelievo di alcuni materiali che per la
concezione, e precisamente dalla splendida, audacissima Sinfonietta per archi scritta da
Herrmann nel 1935, da cui proviene in particolare il “Molto adagio” totalmente atonale e
perturbante noto come “The Madhouse”, inesorabilmente associato alla follia di Norman, con la
brutale asserzione iniziale di celli e bassi in “ff” e la risposta, vagante e attonita, delle viole, tutti
con sordina, sino all’ingresso lentissimo e titubante dei violini. È una musica tormentata quanto
pacata, il mormorio sommesso e senza certezze di uno stato d’animo disturbato e profondamente
triste, l’espressione sonora di una solitudine e di un senso di abbandono sconfinati. Se una pietas
verso Norman Bates emerge nel film, si può tranquillamente asserire che essa è largamente
delegata alla musica di Herrmann.
Ma ognuno degli stati d’animo smossi dagli eventi del film, si tratti di pietà o di terrore, di tensione
o di concitazione, è in ogni caso ottenuto dal musicista attraverso una scrittura scarnificata (per
restare in una metafora pertinente…) sino all’osso, scheletrica, dove è il dialogo stretto tra le
quattro sezioni a rendersi comunicativamente decisivo, spesso esteso fino a mettere in relazione
dialettica violini primi e secondi; inoltre la tecnica esecutiva si rivela ancora una volta
fondamentale, e ben memore di tutta la letteratura per archi del primo Novecento, da Bartók al
primo Schönberg, da Webern a Berg a Šostakovič. In più d’un caso, questa tecnica, il modo
herrmanniano di concepire e trattare l’orchestra diviene estremamente, “visivamente” significante
ben oltre la sostanza o le caratteristiche intrinseche delle idee musicali: si pensi al rombante,
incombente tremolo in “strumming” con cui violini secondi, viole e celli divisi, bassi accompagnano
l’allucinato “Adagio” dei violini primi sugli armonici che seguono in un agghiacciante “flautando” la
fatale salita delle scale di Arbogast in casa Bates; o la viola sola, crepuscolare e desolata, che
pedina il voyeurismo di Norman dal buco nella parete attraverso il quale spia Marion spogliarsi.
Come già in La donna, anche in Psyco il peso specifico della musica tende a “silenziare” il film, ad
enfatizzarne le lunghe sequenze prive di dialogo (tutto il dopo-omicidio di Marion, commentato
con un inquieto labirintismo contrappuntistico), in altri termini a divenire il “personaggio in più”.
Con opzioni e scansioni narrative ben nette. L’idea motoria convulsiva, l’”Allegro (molto Agitato)”
con cui si aprono i titoli, e che diverrà l’elemento propulsivo di tutta la prima parte “on the road” del
film dedicata al tentativo di furto di Marion e alla sua fuga, viene ad esempio evidentemente
abbandonato con la sua morte, malgrado si tratti di un’idea potente basata su una scrittura furiosa
e una ripartizione timbrica fulminante:

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verrà tra l’altro annotato come in questa pagina, trionfo di collisioni armoniche e di dissonanze
irose, sia contenuta probabilmente la sola, limpida e quasi implorante idea melodica in senso
stretto dell’intera partitura, quella frase a salire e scendere dei violini primi (poi ripetuta dai celli)
che sta tra battuta 37 e 46. Seguita subito, sul lungo carrello su Phoenix che ci porta diritti nella
camera da letto di Sam e Marion, dal “Lento (molto sostenuto)” costituito da vibranti e accorati
accordi sempre costruiti con moto altalenante. In Psycho, si sa, spazio per “temi” o idee
leitmotiviche tradizionali ce n’è poco.
Salvo si voglia considerare tale, naturalmente, quella “Murder Music” sulla quale sono affluiti fiumi
d’inchiostro interpretativo e analitico: e che è di fatto divenuta, proprio malgrado, leit-motiv non
solo e non tanto del film ma di un intero genere cinematografico:

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Questa sequenza aprì, all’epoca, una divergenza di opinioni tra regista e compositore destinata
ad avere ripercussioni ben più gravi nel futuro ma che – per il momento – si risolse a tutto
vantaggio del film e dell’esito finale. Hitchcock infatti ordinò a Herrmann di astenersi da qualsiasi
commento musicale per la scena, desiderando improntarla ad un maggiore “realismo”. Herrmann
fece come spesso gli accadeva, cioè acconsentì poi fece di testa propria e presentò al regista la
scena con la musica montata, ottenendo – rara e ultima volta – il consenso entusiasta e
l’autocritica di Hitchcock. Le edizioni in dvd di Psyco consentono oggi, come in molti altri casi, di
poter vedere la scena con e senza musica, ed è palese che l’assenza dell’apporto herrmanniano
avrebbe conferito a questo momento una scabrosità aggressiva, “sporca”, molto postmoderna e
violentemente “slasher”. L’idea di Herrmann, semplicissima, non si pone come un’enfatizzazione
ma come un elemento quasi scenografico od onomatopeico. Nel “Molto forzando e feroce” con
cui, dai violini primi ai bassi, piombano sull’ascoltatore una serie di ottave diminuite e settime
maggiori, rinforzate da un effetto-riverbero e da un formidabile glissando al secondo passaggio,
c’è chi ha voluto sentire il sibilo del coltello, chi un raddoppio delle grida di Marion, e soprattutto
chi un richiamo al verso folle e agghiacciante di quegli uccelli impagliati che avevamo visto
popolare il salotto dell’albergo Bates (quasi un anticipo degli “effetti” di cui Herrmann sarà
chiamato a curare la consulenza per il seguente Gli uccelli).
Esegesi interessanti anche se non esaustive. In realtà la pagina si configura come un’ulteriore
“musica della psiche”, una distorsione semantica ottenuta con una scrittura audacissima,
avveniristica, che gioca ancora una volta le proprie carte sull’estensione dei registri e degli
intervalli armonici: la chiave di volta, si potrebbe dire, di tutta l’architettura compositiva

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herrmanniana.
Grazie al contributo del compositore, Psyco
diviene l’epitome della svolta hitchcockiana, il
suo maggior successo commerciale ma anche
– come si diceva – il punto di non ritorno.
Fatalmente, in questo inizio degli anni ’60,
mentre Herrmann prosegue infaticabile la
propria ricerca sulle suggestioni e le potenzialità
di una specializzazione (il comporre per il
cinema) tutt’altro che ghettizzante, che gli
consente anzi sperimentazioni, invenzioni,
innovazioni strumentali senza precedenti (si
pensi alla lunga collaborazione “fantasy” con
Ray Harryhausen), la filmografia hitchcockiana entra in una fase di stallo. Cambiano le politiche
degli studios, i gusti e le mode, i target di fruizione, e cambiano anche le esigenze delle major in
materia musicale. Non è ancora vicina, o meglio sta faticosamente iniziando la stagione di un
rinascimento della musica per film hollywoodiana intesa come “soundtrack” sinfonico tradizionale,
che porterà a brillare più tardi le stelle di Jerry Goldsmith o John Williams o più avanti Alan
Silvestri e James Horner, Elliot Goldenthal e Michael Giacchino. In questa fase si chiede ai
compositori di farsi carico della cultura “pop” di quegli anni, quindi – più che di sovraccaricare i film
di sinfonismi tardo-ottocenteschi e complicati – di escogitare canzoni, hit, motivi facilmente
assimilabili e riconoscibili.
Se per Hitchcock questo è un mondo estraneo, per Herrmann è addirittura un mondo alieno. I tre
anni di inattività non passano invano, anche sul piano delle relazioni personali tra i due, che
vedono inasprire i rispettivi e peggiori lati di entrambi i caratteri. Hitchcock sente che il clima sta
cambiando ma non sa come adeguarvisi, Herrmann nel suo orgoglio solipsistico e consapevole
delle vette toccate in questi anni lo vorrebbe invece indeflettibile e incorruttibile, un Orson Welles
della suspense, disposto a rinunciare ai propri progetti piuttosto che vederseli distorcere e
manipolare da produttori-affaristi incompetenti e ignoranti.
Non contribuisce a migliorare la situazione il flop di Gli uccelli, l’improbabile fiaba nero-horror-
ecologica desunta liberamente da un racconto di Daphne Du Maurier, che limita la musica ad
alcuni interventi elettronici e puramente “rumoristici” di Remi Gassmann e del fisico e compositore
tedesco Oskar Sala, lasciando ad Herrmann un generico e svogliato ruolo di “sound consultant”.
Col senno di poi, era forse meglio se la collaborazione si fosse chiusa qui, senza gli ulteriori e
penosi strascichi. Ma il sipario ha appena iniziato a strapparsi.
La lacerazione accelera e prosegue, anzi è sancita, da Marnie (ciò che avviene dopo ne è solo la
logica conseguenza). Film che nasce zoppo in partenza: vuoi per l’ennesima scelta di un
sottofondo psicopatologico che, dopo Io ti salverò e Psyco sembra di difficile sostenibilità, vuoi per
l’evidente “miscasting” che affianca all’inetta Tippi Hedren, di cui Hitchcock si era ostinatamente
invaghito sin dal film precedente, un Sean Connery pericolosamente ambiguo e mascalzone
proprio negli anni del suo maggiore fulgore bondiano. La Universal presagisce evidentemente
l’ulteriore fiasco e fa pressioni su Hitchcock perché il film sia veicolato da una “title song” salvifica
che gli faccia da traino; il regista, il cui ego non riesce nemmeno a concepire l’idea di un ulteriore
insuccesso, non fa che trasmettere pedissequamente la richiesta a Herrmann, ottenendone un
diniego sprezzante. Non è certo una sciocca questione “di principio” ma di sostanza. Ancora una
volta, il compositore vede più lungo del regista, ma è l’ultima volta in cui riesce ad imporgli la
propria prospettiva, la propria “Weltanschauung”. Alla richiesta di semplificazione, di leggerezza e
di modernità, Herrmann risponde con una partitura di incredibile complessità sinfonica, di rovente

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romanticismo, di inebriante forza leitmotivica, compiendo –


anche rispetto a Psyco e Intrigo – un passo indietro linguistico e
stilistico premeditato ed enorme.
La musica di Marnie è infatti in perfetto stile anni ’40, perché
secondo Herrmann l’unico modo di dare un significato ad una
sceneggiatura altrimenti traballante e a personaggi mal
disegnati è quello di incastonarli in una cornice sonora
nobilitante, drammatizzante, razionalmente sopra le righe. La
densità sonora di Marnie non è inferiore a quella di La donna,
con il valore aggiunto di una concitazione continua, di una
inquietudine armonica pulsante e cosparsa di accasciate pulsioni melodrammatiche. La scrittura è
incredibilmente densa, aggrovigliata, eppure solare, l’orchestrazione fastosa (archi, ottoni e arpe
giganteggiano), il panorama leitmotivico ancora una volta ristretto ma sfruttato intensivamente.
Due gli elementi portanti. Un tema rabbioso e schizzante, una scaletta folle dei corni che inizia su
un feroce trillo e poi s’impenna in una brusca frase tronca, ed è il tema, si direbbe il “motto” che
denota l’instabilità psichica e le fobie della protagonista: un motto che Herrmann ancora una volta
gioca sui timbri, passandolo da clarinetto basso a flauto, rallentandolo negli archi, trasformandolo
insomma in un motore drammaturgico ricorrente. Secondo elemento, il vero e proprio tema di
Marnie, che si espande radioso e così sapientemente “vintage” al primo suo apparire dopo essersi
sciacquata via dai capelli la tintura bruna: quasi un love theme autoreferenziale, solipsistico,
cantato a tutta forza dai violini sulla base di un possente arpeggio di celli e bassi. Un’idea
melodica molto vicina, per struggimento e cromatismo wagneriani, al love theme di La donna,
capace anche di venire modulata su toni minacciosissimi (come nella scena del temporale,
l’evento che insieme al colore rosso è l’altra grande fobia di Marnie) ma malauguratamente
insufficiente a riscattare i personaggi e le loro azioni dalla mediocrità della sceneggiatura che Jay
Preston Allen aveva ricavato dal romanzo di Winston Graham. Risulta ancora oggi incredibile lo
sforzo titanico che Herrmann compì per bypassare i limiti del film con una ricchezza ed una
fluvialità romantiche (lo sviluppo
della musica nella scena del
temporale, con il primo contatto
fisico tra Mark e Marnie, è
straordinariamente
coinvolgente), una limpidezza
emotiva di linguaggio e nello
stesso tempo una sbalorditiva
corposità e sontuosità del
suono sinfonico. E a tale scopo
il compositore non smise
nemmeno qui di “inventare”
luoghi e situazioni musicali apparentemente fuori contesto ma di fulminante efficacia
drammaturgica: si pensi all’incredibile tarantella che accompagna la partita di caccia alla volpe
che si concluderà con la caduta di Marnie e l’abbattimento del suo cavallo. Ancora un movimento
di danza caratteristicamente latino, dopo la habanera e il fandango, che Herrmann sviluppa
magistralmente su un ritmo convulso e sostenutissimo, giocando sui richiami dei corni, ma pronto
a farlo sprofondare negli abissi della tensione fra insorgenti dissonanze, pesanti interventi di celli e
bassi, e finendo col trasformarlo in un’autentica marcia funebre. L’aggressività sonora di
Herrmann sovraccarica Marnie di una valenza tragica che il film certamente non possiede: è una
partitura di voragini drammatiche improvvisamente spalancate sul tema d’amore, di intarsi

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strumentali ora oscuri ora luminosi, di idee rapidissime strumentate (soprattutto negli scambi fra i
vari settori dei legni e degli ottoni) con tutta la sapienza che Herrmann aveva raggiunto in quegli
anni. Ben lontano dalla fiducia cieca che un tempo riponeva nel suo musicista, Hitchcock non si
rende conto che il divario qualitativo fra una partitura di intossicante, arroventato romanticismo e
dai colori foscamente accesi, ed una storia scritta male recitata peggio e girata
convenzionalmente, lungi dal colpevolizzare Herrmann dovrebbe invece indurre se stesso a
riflettere sul suo ruolo nella metamorfosi in atto all’interno degli studios hollywoodiani.
Così non è, ed a fronte del fiasco commerciale clamoroso del film Hitchcock non si risparmia certo
nel far sapere a tutti che ritiene proprio la musica di Herrmann, ed in particolare la sua irriducibilità
“old fashioned”, il suo non aver voluto cedere alle richieste di comporre una title song orecchiabile
e di traino, uno degli elementi responsabili di tale fiasco.
Per il carattere dei due personaggi, la rottura è già ampiamente consumata anche sul piano
personale: tra l’altro, se Hitchcock soffre di crescenti insicurezze e crisi depressive, Herrmann,
che ha appena divorziato dalla moglie Lucy e si è stabilito in Gran Bretagna, non è da meno, in
più aggiungendovi la componente caratteriale egocentrica e irascibile che lo ha sempre
accompagnato.
Ma serve un ultimo, clamoroso atto per sancire sino in fondo la lacerazione. Se possibile, Il
sipario strappato nasce sotto auspici ancora peggiori di Marnie: vuoi per la scarsa intesa con un
cast spaiato (il metodo Actor’s Studio di Paul Newman provocò solo continue discussioni con il
regista, e Julie Andrews, che aveva pochissimo tempo per girare, è totalmente fuori ruolo), vuoi
per la tematica da Guerra Fredda che Hitchcock non riesce più a trasformare nell’intenso
sentimentalismo “noir” di Notorious l’amante perduta (Notorious, 1946) o nella livida, rutilante
giocosità di Intrigo. Delegando alla sua assistente Peggy Robertson e ad altri intermediari il
compito di tenere i contatti con Herrmann, il regista gli fa sapere che stavolta esige davvero una
“hit” popolare e giovanilistica, che attragga verso il film il pubblico delle ultime generazioni, come
da imposizioni precise dei boss della Universal. Herrmann sa – e tenta di spiegare ad Hitchcock –
che nessuno dei due appartiene a “quel” tipo di cinema, e che per entrambi sarebbe uno scacco e
un tradimento piegarsi a diktat contrari alla propria indole creativa. E, secondo, il proprio stile (che
ai tempi di Psyco aveva funzionato), fa orgogliosamente di testa propria, forse conscio di andare
così incontro ad una resa dei conti definitiva, per quanto dolorosa. Alla richiesta di una partitura
“orecchiabile” il compositore risponde con una partitura che prevede un organico inaudito: 12
flauti, 16 corni, 9 tromboni, 2 tube, 2 set di timpani, 8 violoncelli e 8 contrabbassi. Del tutto banditi
gli strumenti dal registro più alto
e “cantabile”, come trombe e
violini. Ne esce un magma
incandescente e furibondo, che
simboleggia bene probabilmente
anche lo stato d’animo del
compositore. Il solo Preludio,
che avrebbe dovuto
accompagnare i bizzarri titoli di
testa in cui lo schermo è diviso
tra le fiamme emesse da un
missile e alcuni primi piani dei
personaggi che scorreranno nel
film, è un tuffo nell’inferno: un
“Allegro pesante” in cui terzine
di accordi discendenti dei

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tromboni innescano una danza maligna su cui si alza un ululato dei corni non dissimile dal tema di
Donner nel “Rheingold” wagneriano. Ma è solo l’inizio. D’altronde, anche qui Herrmann è
persuaso che solo agendo sulla drammatizzazione, sull’incupimento delle atmosfere musicali, sul
radicalismo di una scelta timbrica (che pure, con altre motivazioni, aveva funzionato eccome in
Psyco) si possa iniettare nel film un briciolo di interesse e di conflittualità drammatica. Per questo
quando gli viene trasmessa la richiesta di lasciare completamente priva di musica la terrificante,
celeberrima (e censurata) scena di dieci minuti in cui viene assassinato, con brutale prolungato e
difficoltoso sadismo, l’agente della Germania Orientale Gromek, Herrmann pensa di poter fare
come per la scena della doccia di Psyco: trasgredire per ottenere alla fine il consenso del regista.
Ne sortisce un “Allegro feroce” letteralmente spaventoso, corni e tromboni che ribattono in
fortissimo un disegno di terza minore, con progressioni cromatiche in schiacciante crescendo che
accompagnano e suggellano la faticosa e laboriosa morte di Gromek con violentissimi rulli di
timpani e trilli demenziali dei flauti. Ancora una volta è l’avvento del dvd a consentirci, oggi, di
poter vedere questa ed altre scene del film montate con la partitura herrmanniana e di renderci
conto di quale tagliente, maligna e tellurica forza propulsiva essa avrebbe impresso ad un film di
per sé interiormente spento e fuori tempo.
In ogni caso queste, ed altre idee di estremismo timbrico e di suprema padronanza della materia
sonora, vengono a suo tempo registrate da Herrmann e sottoposte al regista durante una sua
visita “a sorpresa” nello studio di registrazione.
Ciò che segue è aneddotica nota, che varia di poco a seconda dei narratori. Al primo ascolto
Hitchcock, livido, si alza e licenzia in tronco orchestra e compositore, pagando di tasca propria la
penale: poi si rinchiude nel proprio ufficio da cui parte una telefonata di fuoco, l’ultima, con
Herrmann, che accusa il regista senza mezzi termini di aver svenduto la propria integrità e i propri
principii per quattro soldi. Non vi furono, da lì in avanti, ulteriori contatti fra i due e non risulta un
commento di Hitchcock alla morte di Herrmann, avvenuta la vigilia di Natale del 1975.
La partitura di Il sipario strappato finì così nel non ristrettissimo parco dei cosiddetti “rejected
scores”, cioè delle partiture composte, registrate e poi rifiutate da produttori o registi (una sorte
toccata anche a John Barry, Howard Shore, Jerry Goldsmith ed Alex North tanto per citare i più
noti). Nel 1977 Elmer Bernstein, che oltre ad essere stato un grande compositore per il cinema è
stato anche un fine esegeta e un restauratore e recuperatore di grandi partiture del passato,
ripristinò e registrò per la Warner Records, sul podio della Royal Philharmonic Orchestra, la
partitura herrmanniana; e lo stesso Bernstein nel 1991, chiamato da Martin Scorsese per il suo
Cape Fear-Il promontorio della paura (Cape Fear) remake di Il promontorio della paura (Cape
Fear, 1962, Jack Lee Thompson), vi recuperò, riorchestrò e inserì – oltre che ovviamente la
partitura originaria di Herrmann per quel film – anche alcuni frammenti dal “rejected score” di Il
sipario strappato.
A sostituire Herrmann venne chiamato l’inglese John Addison, fresco di Oscar per Tom Jones (id.,
1963, Tony Richardson), compositore di vaglia ma di altra formazione, il quale curiosamente (o
forse non troppo) cercò di conciliare le esigenze di appetibilità orecchiabile con una certa
complessità e modernità di suono tutt’altro che estranea al dettato herrmanniano (si veda proprio
il tema dei titoli): tra l’altro anch’egli componendo una pagina per l’assassinio di Gromek, molto
corrusca e timbricamente sbalzata (ridiciamolo: herrmanniana)… forse proprio perciò anch’essa
espunta da Hitchcock nella versione finale della sequenza, che rimane – va detto, molto
efficacemente – priva di commento musicale. A margine delle scelte piuttosto balzane, a volte,
che Hitchcock compiva su questo fronte può essere curioso ricordare anche che nella sequenza
del balletto classico in cui il protagonista viene riconosciuto dall’étoile impersonata da Tamara
Tumanova, si ricorre abbastanza prevedibilmente a Čajkovskij ma, del tutto inaspettatamente, non
ad una delle sue tante e celebri composizioni ballettistiche bensì ad una ipotetica versione

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coreografica della “Francesca da Rimini”, fantasia op.32


da Dante…
Non sarà forse inutile annotare, in conclusione di questo
viaggio in uno dei sodalizi più fulgidi e travagliati mai
creatisi tra un compositore e un regista, che dopo
questo epilogo la carriera di Hitchcock fu tutta in
declino, con una serie di film malriusciti e senili
accompagnati da un girovagare tra musicisti europei di
livello discontinuo, da Maurice Jarre (Topaz, id., 1969) a
Ron Goodwin (Frenzy, id., 1972), riscattato solo dal
brillante congedo di Complotto di famiglia (Family plot,
1976), che non a caso vide l’ultimo Hitchcock passare
una sorte di ideale testimone all’astro (allora già più che
nascente) della nuova musica per film hollywoodiana,
John Williams.
Per Herrmann invece, soprattutto in Europa, iniziò una
stagione meravigliosa ancorché troppo breve di fatiche eccezionali, che videro il compositore
quasi “precettato”, prevalentemente nel genere thriller-horror, da uno stuolo di registi giovani i
quali veneravano in lui non solo la “hitchcockianità” ma la disponibilità totale a porsi in gioco con
partiture sempre instancabilmente innovative, sperimentalmente aggressive, inquietamente
ricche. Non si trattò solo di autori palesemente devoti al “mago del brivido” come François Truffaut
(Fahrenheit 451, id., 1966 e La sposa in nero, La mariée était en noir, 1967) o Brian De Palma (Le
due sorelle, Sisters, 1973 e Complesso di colpa), ma spesso di registi di B-movies come Alastair
Reid (The Night Digger, 1971) e Roy Boulting (I nervi a pezzi, Twisted nerve, 1968), Larry Cohen
(Baby Killer, It’s alive, 1974), Pim De La Parra (Il buco nella parete, Obsessions, 1970), Sidney
Gilliat (Champagne per due dopo il funerale, Endless night, 1972); sino al congedo notturno,
morbosamente jazzistico di Taxi Driver (id., 1975, Martin Scorsese).
Un “rinascimento” quello dell’ultimo Herrmann che consegnò alla storia di questa particolarissima
arte un protagonista ancora completamente integro nelle metodologie e inesauribilmente inventivo
nelle idee: un “guerriero”, come fu definito dal collega David Raksin, la cui tempra non sarebbe
tuttavia divenuta così forte, sino a risultare a tratti urticante e respingente, se non fosse passata
attraverso quell’irripetibile e siderale connubio con Alfred Hitchcock. Un connubio cui dobbiamo
dunque essere doppiamente grati, che portò entrambi a dare il meglio della propria ispirazione in
una autentica reinvenzione audiovisiva delle formule della suspense, e la cui potenza evocativa e
rappresentativa, musicale e cinematografica, era evidentemente così forte e insostenibile da non
poter essere prolungata all’infinito e da doversi concludere, fatalmente, con un sipario strappato e
mai più rialzato.

A breve pubblicheremo la Discografia completa (/contenuti-speciali/interviste/2991--bernard-


herrmann-la-discografia-completa.html)del sodalizio Hermmann & Hitchcock e non solo!

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