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18 Feb2014
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provocò il tumultuoso, traumatico divorzio tra i due, cioè Il sipario strappato (The Torn Curtain,
1966). Siamo ben lontani, per durata e prolificità, da altri celebri e solidissimi legami tra
compositore e regista: basti pensare, per limitarci a due esempi conclamati, a quello tra John
Williams e Steven Spielberg, che ha toccato il quarantennale con ben ventisei titoli in comune, o a
quello tra Howard Shore e David Cronenberg, che ha fruttato quindici film in trentatrè anni.
Ma i numeri, di per sè, non dicono tutto. Come ha osservato Steve Vertlieb, in un suo saggio sulla
collaborazione tra Herrmann e Hitchcock, nel suo periodo americano il maestro inglese ha potuto
avvalersi di alcuni fra i maggiori compositori hollywoodiani, stabilendo con essi a volte una
collaborazione protrattasi per più di un titolo, e curiosamente tutti europei come lui, passeggeri di
quell’ideale piroscafo “Vienna-Hollywood” che negli anni Trenta vide emigrare dal Vecchio
Continente, violentato dal nazifascismo e dalla guerra, al Nuovo numerosi talenti cinematografici,
sia registici che tecnici che, ovviamente musicali. Era stato proprio il tedesco Franz Wachsmann,
divenuto Waxman, a tenere a battesimo nel 1940 l’esordio hollywoodiano di Hitchcock con la
fiammeggiante partitura per Rebecca, la prima moglie (Rebecca), cui seguiranno poi Il sospetto
(Suspicion, 1941), Il caso Paradine (The Paradine Case, 1947), La finestra sul cortile (Rear
Window, 1954). Anche con l’ucraino Dimitri Zinovievič Tiomkin Hitchcock ebbe una collaborazione
proficua, trovando in questo musicista spaventosamente eclettico e mai prevedibile, ma noto
specialmente per la sua vena western, un perfetto corrispettivo musicale all’instabilità psicologica
e ai dilemmi nevrotici che agitano film come L’ombra del dubbio (Shadow of a Doubt, 1943),
Delitto per delitto o L’altro uomo (Strangers on a Train, 1951), Io confesso (I Confess, 1953),
Delitto perfetto (Dial M for Murder, 1954). Unico, in ogni senso, il caso dell’ungherese Miklós
Rózsa la cui travolgente e inesauribile partitura per Io ti salverò (Spellbound, 1945) basterebbe da
sola a sancire la grandezza e l’incommensurabile ricchezza inventiva e drammaturgica di questo
compositore.
Il periodo a cavallo fra gli anni
’50 e gli anni ’60 coincide con la
fase di massimo
perfezionamento, di estrema
rifinitura dell’universo
hitchcockiano nella sua fase
hollywoodiana: sono i cosiddetti
“anni Paramount-Universal”, in
cui vedono la luce uno dopo
l’altro alcuni capolavori che
riassumono e sublimano le
ossessioni fondamentali
hitchcockiane (la riflessione
sulle tortuosità della psiche
legata alla sessualità, il terrore
per l’autorità costituita, l’ambiguità morale dinanzi alla logica del profitto, lo sguardo laico sulla
morte e naturalmente quella vera e propria oreficeria della suspense che contiene e motiva tutte
le componenti succitate). Sono film di vario registro stilistico e atmosfera: una commedia
macabra, un cupo dramma poliziesco-giudiziario, due brillanti spy-movies, un travolgente thriller-
melò, un horror-thriller, uno psycho-drama. Vi si rincorrono alcuni volti attoriali cari al maestro, da
James Stewart a Vera Miles, e il corpus di queste opere appare fortemente unitario, malgrado
alcune opzioni linguistiche fortemente diversificate (ad esempio il bianco e nero “spento” e
funereo di Il ladro, The wrong man, 1957, e Psyco, Psycho, 1960, contrapposto alla squillante
tavolozza cromatica di La congiura degli innocenti, The trouble with Harry, 1955, o Intrigo
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internazionale, North by Northwest, 1959). Scrive Vertlieb, nel suo già citato studio, che in questo
percorso, esteso sino al “rejected score” per Il sipario strappato, «Bernard Herrmann sembra la
perfetta espressione musicale della benigna malevolenza (il corsivo è nostro, ndr.) di Hitchcock».
Eppure questa intesa tra due personalità così diverse, due caratteri così distanti, due metodologie
di lavoro così orgogliosamente individualiste, non si è certo sviluppata a prima vista, e non ha mai
avuto vita facile nel corso di quei nove anni: si direbbe quasi che Herrmann e Hitchcock si siano
trovati così vicini, così in sintonia, confluendo con i rispettivi geniali talenti alla creazione di
“sovratesti” rimasti insuperati nella storia del cinema, quasi contro la propria volontà e comunque
in costante conflitto reciproco, più o meno aperto, oltre che rimettendosi continuamente in
discussione. Di qui, forse, quella continua tensione, quel proliferare ribollente e irrequieto di idee
visive e sonore, quell’inesauribile forziere di invenzioni musicali e cinematografiche (le une
connesse alle altre), che ha fatto di questi titoli i testi-base non solo del cinema hitchcockiano ma,
per chi si occupa di musica per film, anche di questa forma d’arte.
Sembra fosse il compositore inglese Lyn Murray (al secolo
Lionel Breeze), corretto e sobrio artigiano del settore, il primo
destinatario della partitura di La congiura degli innocenti,
offerta declinata in quanto il musicista era ancora alle prese con
le musiche di Caccia al ladro (To catch a thief, 1955), tanto da
suggerire egli stesso a Hitchcock di rivolgersi a Herrmann, con il
quale il regista si era già incontrato qualche anno prima ma
senza che fra i due scattasse un particolare feeling. Non
sembrava un esordio sotto i migliori auspici: Herrmann era già
un compositore leggendario, e temuto sia per il proprio
perfezionismo che per la propria pessima e collerica indole, ma
soprattutto aveva scarsissima – per non dire alcuna – dimestichezza con il genere brillante, sia
pure sotto forma di quella “danse macabre” che prometteva di essere il film di Hitchcock. Tuttavia
lo attirava l’idea di una nuova sfida, e per una nuova major: anche se la prima cosa che fece fu
litigare furiosamente e toscaninianamente con l’orchestra della Paramount, accusando
apertamente gli strumentisti di inefficienza e scarsa professionalità, peraltro venendone ricambiato
senza tante perifrasi con l’epiteto di «coglione».
Al netto dell’aneddotica, la partitura del film – di una mostruosa difficoltà esecutiva soprattutto per
le sezioni dei fiati – sembra invece esprimere alla perfezione la “benigna malevolenza” di cui parla
Vertlieb. Non per caso quando si trattò di raccoglierne alcuni elementi principali per la
registrazione discografica, la suite che ne sortì venne da Herrmann intitolata “A portrait of Hitch”:
vi compaiono elementi di orchestrazione affilata e scintillante, di ascendenza prokof’eviana e
stravinskyana, illividiti da un umorismo tanto più sinistro quanto più gioviale. Prevalgono ritmi
mossi, una dinamica accesa, una predisposizione quasi irrefrenabile a movenze coreografiche
(più volte per Hitchcock il musicista ricorrerà a forme di danza, in particolare latine e
mediterranee: la habanera di La donna che visse due volte, Vertigo, 1958, il fandango di Intrigo, la
tarantella di Marnie, id., 1964): parentesi di disarmante lirismo, soprattutto nel canto dei violini
primi, e di bucolica, idilliaca trasparenza si alternano a colori lividi, guizzi beffardi degli strumentini,
perorazioni grottescamente solenni dei corni, raffinatissimi effetti della percussione. Il tutto in
quella ferrea economica del leitmotiv tipicamente herrmanniana, dove il “tema” viene molto ma
molto dopo il “timbro”, e l’uno comunque non può mai prescindere da chi lo enuncia: si noti, solo
per fare un esempio, lo spensierato e orecchiabile motivetto dei violini in registro alto
inesorabilmente appiccicato al dottore miope e bibliofilo che inciampa, regolarmente senza
avvedersene, nel cadavere di Harry.
Dunque, al netto delle reciproche diffidenze iniziali e alla luce dei risultati, La congiura pareva
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inaugurare una felice relazione fra due personalità molto diverse ma con una serie di tratti in
comune: l’egocentrismo, il perfezionismo, l’irascibilità, le crisi depressive, la scarsa capacità di
autocontrollo in ogni campo. Una volta prese le misure l’uno all’altro, consapevoli – l’uno e l’altro –
di condividere molti dèmoni e molte ossessioni, e di poter trovare in questa simbiosi una forma
superlativa di sublimazione artistica, si stabilì fra H.&H. un’amicizia cameratesca e sincera, fatta
anche di grandi tavolate (il sopraffino cuoco e buongustaio Hitchcock non apriva facilmente le
porte della propria cucina) e di grandi bevute (il debole di Herrmann). Ma appariva chiaro che,
data la statura dei due protagonisti, ogni passo ulteriore nella loro collaborazione sarebbe stata
una sfida, un andar “oltre”, un cercare nella musica le origini e le ragioni stesse dell’immaginario
hitchcockiano, che di fatto da quella musica sarebbe dipeso in modo assoluto e ultimativo.
Non poteva esserci occasione
migliore di L’uomo che sapeva
troppo, (The man who knew
too much, 1956) per raccogliere
e ampliare questa sfida già dal
secondo capitolo del sodalizio,
e ciò grazie ad una serie di
convergenze e sinergie che ne
fa uno snodo semiologicamente
imprescindibile nel cinema
hitchcockiano e nella stessa
produzione herrmanniana. Il
primo di questi fattori è
rappresentato dal ruolo
centripeto, fondativo svolto
dalla musica: la celebre (forse troppo celebre…) sequenza dell’attentato alla Royal Albert Hall di
Londra durante l’esecuzione della cantata “Storm Clouds” di Arthur Benjamin, su testo dello
scrittore gallese Dominic Bevan Wyndham Percy Lewis (co-autore anche del soggetto del film
insieme a Charles Bennett), personalmente diretta da Herrmann alla sua prima e ultima
apparizione sul grande schermo sul podio della London Symphony Orchestra & Covent Garden
Chorus, rappresenta forse il più alto, perfetto e folgorante esempio di “livello interno” manipolato e
mediato, secondo un meccanismo di sincronismi, di montaggio analogico e psicologico tra tutte le
componenti visive (l’attentatore, il suo bersaglio, l’orchestra, Herrmann e la solista mezzosoprano
Barbara Howitt, il coro, i dettagli della partitura, l’irruzione di James Stewart, lo sconforto e l’urlo di
Doris Day), sino a trasformarsi quasi in un (inconsapevole?) “livello esterno”. Il secondo elemento
è rappresentato dal fatto che siamo dinanzi ad un autoremake per il quale, rispetto alla versione
inglese del ’34, Hitchcock palesò subito di voler ulteriormente porre l’accento sul momento
musicale, ed esecutivo, come fulcro della propria dimostrazione del teorema sulla suspense.
Tant’è vero che l’intenzione del regista era quella di commissionare a Herrmann, per il
corrispettivo di quella sequenza, una composizione ex-novo, così come aveva fatto ventidue anni
prima appunto con Benjamin. Inoltre, come riferisce il massimo esegeta del compositore, Steven
C. Smith, Hitchcock era fermamente intenzionato a far sì che l’orchestra e il direttore fossero
nettamente identificabili come “autentici”, e che la sequenza, di fatto, coincidesse con la ripresa di
un concerto vero e proprio. Tuttavia fu Herrmann, che di Benjamin era profondo ammiratore e che
del compositore australiano aveva diretto e registrato molti lavori, ad insistere perché venisse
mantenuta la cantata originale, intuendone la straordinaria potenza drammaturgica e diegetica:
enfatizzata, ovviamente, dal ruolo centrale che Hitchcock assegna, nella sequenza, ai componenti
dell’orchestra e allo stesso Herrmann (varrà appena la pena di ricordare quale grandissimo,
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implacabile e – ancora – “toscaniniano” direttore d’orchestra egli sia stato, sia di se stesso che di
musica non propria e non cinematografica, come documentano alcune preziosissime registrazioni
discografiche London-Decca di autori che vanno da Dukas a Holst a Šostakovič). Peraltro
Benjamin ritoccò la propria opera, per esigenze di montaggio, aggiungendovi più di un minuto di
musica, ed Herrmann la riorchestrò rispettandone i parametri essenziali, ispirati ad un fluviale e
infiammato tardo romanticismo naturalistico in linea con molta musica inglese della prima metà
del Novecento, ma adattandoli in qualche modo all’ampio e sontuoso organico a propria
disposizione. Infine c’è, come si diceva, l’elemento catturante della presenza stessa di Herrmann.
Benjamin, che per la prima versione si era egualmente avvalso della London Symphony (allora a
ranghi assai più ridotti, e diretta da H. Wynn Reeves, ma la direzione musicale del film è firmata
da Louis Levy) aveva inizialmente suggerito di ricorrere a Muir Mathieson, acclamata bacchetta
britannica nonché prezioso esecutore herrmanniano (sarà sua la direzione di La donna che visse
due volte), ma Hitchcock optò per Herrmann, non tanto per un suo particolare carisma fisico (il
maestro, allora 45enne, vi appare composto e concentrato, l’espressione blandamente seria,
impugnando con gesto contenuto una bacchetta smisuratamente lunga) quanto per ottenere un
“unicum“ cinematografico-musicale e una perfetta tenuta dei tempi e degli stacchi che
nessun’altra opzione finzionale o di montaggio avrebbe ottenuto con altrettanta fluidità e
corrispondenza.
Ma a ciò si aggiunge un ulteriore fattore, forse il più interessante
dal punto di vista strettamente “cinemusicale”. Herrmann infatti
non si limita, nel film, a dirigere la pagina benjaminiana (che
ricordiamolo nella versione del ’34 occupa in un frammento i
titoli di testa, più brevemente la coda e naturalmente la
sequenza alla Albert Hall: per il resto il film è di fatto privo di
musica di commento) bensì compone una ricca, convulsa e
conflittuale partitura propria. Che si apre sin dai titoli di testa, e
non a caso, con un piano fisso sulla sezione (affollatissima) di
ottoni e percussioni della London Symphony, impegnate in un
pezzo d’apertura “chiuso”, che in qualche modo sembra
parafrasare la fase più solenne e scultorea della cantata benjaminiana, un violento e scandito
ritmo irregolare di marcia, con i timpani protagonisti assoluti, tube e corni impegnate in
progressioni cromatiche minacciose, sino a che la mdp stringe sullo strumentista incaricato del
“fatidico” colpo di piatti, assestato frontalmente e centralmente. Un modo per anticipare, certo, il
momento clou, ma anche uno stilema con il quale Herrmann contestualizza e incardina il proprio
“score”, sia timbricamente che visivamente, in quello che sarà il fulcro, musicale e drammaturgico,
del film. Nel quale però, varrà solo la pena di ricordarlo, ad un altro momento musicale – sia pur di
ben altro e più lieve spessore – sarà affidato un ruolo fondamentale di scioglimento e
“liberazione”, e cioè alla song “Que sera sera” di Ray Evans e Jay Livingston che, fischiettata dal
figlio di Doris Day tenuto in ostaggio mentre la madre lo sta cantando al piano inferiore, consentirà
al padre di individuarne la presenza, accorrere e liberarlo.
A tanta complessità e ricchezza, squisitamente filmica, musicale e metatestuale, non poteva
seguire effetto di contrasto maggiore che con Il ladro. Dal Technicolor brillante, da
un’ambientazione lussureggiante e da una partitura musicale sontuosa, si arretra ad un bianco e
nero depresso e deprimente, tendente al grigio nella prima parte e fortemente contrastato,
espressionisticamente stagliato nella seconda, per una storia dove dominano il Caso, lo scambio
di persona, l’errore (e il terrore hitchcockiano) delle autorità, la fragilità delle psicologie. Quasi un
documentario, un film “sociale” (secondo i parametri della Warner, cui Hitchcock passò in
quest’occasione), basato su una storia vera nella quale la tragedia, ancorchè esplodere
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musicali ancora oggi difficilmente superate. Di questa vicenda oscura e fatalistica, con al centro
un antieroe fragile, un poliziotto di fatto fallito che si innamora di una morta e cade in una trappola
micidiale, ed un’antieroina che cerca invano e troppo tardi una impossibile redenzione d’amore,
Herrmann coglie in modo folgorante e fluviale l’afflato tragico e nello stesso tempo la sottotraccia
perturbante, misteriosa e fondamentalmente macabra. Oltre a ciò la sua musica svolge una
funzione fondamentale di disvelamento, di agnizione e di allarme, sostituendosi al dialogo e
divenendo a tutti gli effetti un personaggio in più, esattamente come avverrà per Psyco, che
condivide con La donna, in molti momenti, le caratteristiche di un film muto. Il tutto ancora una
volta con mezzi apparentemente semplici, con soluzioni aggregate intorno a poche ma formidabili
idee, armoniche strumentali e ritmiche. Inoltre Herrmann mostra ancora una volta di prediligere i
pezzi chiusi, i “cues” autosufficienti, autonomamente conformati ed alternati a lunghe pause di
assenza di musica, in ciò collegandosi alla terza grande partitura di questi anni hitchcockiani,
Intrigo internazionale: sin dai titoli di testa, disegnati dal geniale e geometrico Saul Bass per
l’intero trittico, ma con un andamento di linee circolare per La donna, obliquo per Intrigo, e
rigorosamente, rabbiosamente ortogonale per il successivo Psyco, e con i quali Herrmann
dimostra una perfetta sintonia.
La donna si aggrega, come
dicevamo, intorno a non molti
ma essenziali elementi
costitutivi e tematici: si inizia
appunto sui Titoli, con
l’aggressione delle triadi
maggiori e minori a scendere e
a salire, strettamente intrecciate
a creare un movimento
spiraliforme ossessivo
all’interno di una audace scelta
politonale, che si conclude con
lo schiacciante intervento finale
del basso tuba sulla nota “re”,
nota e tonalità su cui si regge
l’intera partitura. Questa
figurazione triadica torna
immediatamente, accelerata in
un convulso moto perpetuo di
archi e clarinetti, nella
sequenza successiva
dell’inseguimento sui tetti e della morte del poliziotto, e ci introduce ad un secondo ingrediente: gli
accordi stridenti e dissonanti, riempiti da un furioso glissando delle arpe, che connoteranno qui e
oltre il terrore del protagonista per l’altitudine. Una soluzione quasi primordiale quanto efficace, in
proporzione all’”uovo di Colombo” con cui Hitchcock risolse visivamente il problema di rendere
partecipe il pubblico di questo disagio fisico, combinando uno zoom in avanti con uno zoom
indietro… Benché inglobate strutturalmente in tutta la partitura, queste ipnotizzanti terzine
torneranno in forma riconoscibile e veloce solo un’altra volta, appena accennate dall’arpa, durante
la sequenza del trucco con cui Judy viene ritrasformata in Madeleine, collegando dunque il primo
piano dei suoi occhi con gli occhi – scuri, freddi e impersonali – che avevano dominato i Titoli.
Terzo elemento il “Lento amoroso” che introduce il personaggio di Madeleine e si trasforma nel
love theme incantatorio e disarmante: affidato agli archi in un tempo di ¾, è un tema che – a
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passione compromessa dal destino. E vi sono a volte frammenti brevi, isolati ma penetranti come
la mesta frase discendente di celli e bassi che accompagna la sconsolata Midge dopo la sua visita
alla clinica dove Scottie giace in depressione: un forte contrasto con il secondo movimento
“Andante di molto piuttosto allegretto” dalla Sinfonia No. 34 in do maggiore K. 338 di Mozart,
illusoria psicoterapia musicale – come la stessa Midge dirà con amara ironia al medico - che poco
prima risuonava a livello interno, in un grammofono, nella stanza del paziente.
La partitura di La donna, che
ebbe una registrazione
piuttosto avventurosa a causa
di una serie di vicende sindacali
che causarono tra l’altro la
mancata direzione da parte
dello stesso Herrmann e la sua
sostituzione con Muir
Mathieson (cui il compositore
non mancò di far giungere la
propria ringhiosa
disapprovazione), consta di
soluzioni strumentali e tecniche
particolari che ne rendono
unico il “colore”. L’organico è
vastissimo ma utilizzato come
spesso in Herrmann per
sezioni, con il “tutti” confinato ai
momenti di maggiore
drammaticità. Il predominio
degli archi è enfatizzato
dall’utilizzo frequente e
palpitante della sordina, e da
numerosi passaggi “sul
ponticello” (l’irresistibile
progressione finale del love
theme nella sequenza d’amore
in albergo), ma anche da un
lirismo accorato (l’arpeggio e l’arcata dolente e poi l’ostinato disegno in minore che commentano il
tormento interiore di Judy dopo il primo incontro con Scottie) e da uno spiccato virtuosismo
soprattutto nelle due sequenze sulla torre: dove il contrappunto con le quartine dei clarinetti, gli
sforzandi degli ottoni, le note ribattute dei tromboni forma un magma musicale soffocante. Il tempo
dominante è un ¾ spesso molto rallentato e allargato, non certo valzeristico, e lo schema delle
figure, delle idee ripetute ad altezze variate e su registri diversificati, così come quello dei
sommessi ostinati di accompagnamento fatti di accordi brevi alternati a più lunghi, vi si inserisce
con un effetto psicologico potente. La donna è insomma la partitura in cui alcuni dei “tòpoi”
herrmanniani giungono ad un livello di fusione e decantazione massime, divenendo parte
costitutiva dell’”angoscia d’amore” trasmessa dal film e costruita consapevolmente, da Hitchcock
e da Herrmann, sulle stesse fondamenta estetiche e comunicative della sua musica.
Il contrasto tra il fatalismo tragico, il romanticismo cimiteriale ed esasperato, torturante di La
donna e la brillantezza livida, sfavillante e cinica di Intrigo internazionale, antesignano del
bondismo (non a caso Cary Grant era uno dei primi candidati al ruolo di 007), non potrebbe
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essere meglio espresso dalla nuova tavolozza herrmanniana. Che però in questo caso – a
dimostrazione dell’estrema libertà e della totale fiducia di cui ormai il compositore godeva nella
sua collaborazione con Hitchcock, al punto da dettargli spesso alcune scelte precise, come
vedremo per Psyco – sembra voler lavorare in aperto, provocatorio e beffardo contrasto con la
sostanza profonda del film. Intrigo è in sintesi una adrenalinica commedia d’azione a sfondo
spionistico, con un retroterra sentimental-sessuale fortissimo e fortissimamente alluso attraverso
un sottile ma ben tracciabile gioco di doppi sensi, ellissi e metafore (memorabile l’ultima, il treno
che penetra in galleria celebrando la “reunion” dell’eroe e dell’eroina…); la partitura di Herrmann,
che in quel ’59 aveva appena finito di comporre le musiche per l’episodio pilota della serie Ai
confini della realtà di Rod Serling, è una sorta di immenso
“scherzo“ (ma nel senso di certi “scherzi” mahleriani, che in
realtà sono sospesi sull’abisso) dalla strumentazione
funambolica e dalla ritmica convulsiva. Il furibondo, isterico
(«perverso ed esilarante» lo definisce felicemente Vertlieb)
fandango dei Titoli, scritto chiedendo soprattutto a percussione
e a legni (flauti e ottavini) ma anche ad ottoni evoluzioni
acrobatiche, ne è un efficace biglietto da visita, ed ancora una
volta prelude ad una mole di materiali che si raccolgono intorno
ad non più di due-tre idee portanti. In chiave brillante e quasi
caricaturale, il fandango, che è irto di dissonanze e di spigoli
armonici, ad esempio svolge qui un ruolo di “richiamo” analogo a quello della habanera in La
donna, ovviamente espropriato di qualunque valenza melodrammatica, mentre il tema cosiddetto
“di Kaplan” (cioè di un personaggio-fantasma, quindi un leitmotiv più che altro situazionistico,
ricavato tra l’altro da un’idea proveniente dallo score di Neve rossa, On dangerous ground, 1952,
Nicholas Ray), lugubre e strascicato soprattutto nel rimbalzo degli archi gravi, diviene un segnale
preciso di allarme diffuso. Ciò anche perché Herrmann lavora sull’ossatura principale dei brani
parallelamente allo svolgersi delle riprese, e si riserva la strumentazione definitiva solo a
montaggio ultimato, in modo da assegnare ad ogni situazione il proprio “colore” e andamento
ritmico, non senza scelte anche controcorrente, come ad esempio quella di lasciare senza musica
la sequenza dell’agguato dell’aereo a Roger, lasciando l’orchestra deflagrare, appunto, solo in
corrispondenza dello schianto finale del velivolo contro il camion.
E proprio il colore dell’orchestra di questa partitura non ha eguali nella collaborazione tra
Herrmann e Hitchcock (fatta salva l’opzione “radicale” e diametralmente opposta che vedremo in
Psyco): la procedura, tipica del compositore, di distribuire un’unica frase tra più sezioni di
strumenti qui giunge all’apoteosi (ad esempio proprio nel tema di Kaplan), spesso fondandosi su
elementi semicaricaturali, come il vertiginoso staccato in pianissimo fatto rimbalzare da corni e
ottoni a clarinetti ad archi, su una pulsazione fissa di pizzicati: una soluzione ricorrente e a
velocità variabili nella partitura, che trasmette un senso di motilità e di instabilità quasi fisiche,
soprattutto nel prefinale sulle sequenze di massima suspense nella villa di Vandamm e sui Monti
Rushmore. In realtà sarebbe eccessivo dire che Herrmann trasmette con la sua partitura un senso
di minaccia oppressiva e immanente forse assente nel tono smagato e “sophisticated” del film:
certo che ad esempio tutta la sequenza del rapimento di Roger Thornhill, dall’intervento livido del
clarinetto basso agli accordi sospesi e inquieti degli archi con sordina che vengono ripetuti,
pesantissimi e forzati, da celli e bassi quando il protagonista è costretto a ubriacarsi, è uno
scampolo esplicativo di come in questo lavoro Herrmann abbia beatamente trasceso e/o
moltiplicato il meccanismo brillante e perfettamente oliato di Hitchcock all’insegna di una luciferina
manipolazione dei materiali sonori verso una direzione molto più ambigua. Così ad esempio il
fandango dei titoli, rallentato e sommessamente staccato dai legni, può a buon diritto divenire
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pagina umoristica nelle sequenze che vedono in campo la pittoresca madre di Roger, ma tornare
ad accompagnare la fuga rocambolesca di quest’ultimo, fra colpi di piatti e accelerazioni
adrenaliniche, dopo l’uccisione del funzionario delle Nazioni Unite (sottolineata da una violenta
aggressione di accordi dissonanti degli ottoni), per proclamare alla fine trionfalmente l’happy end
sulla celeberrima metafora sessuale del treno che “penetra” la galleria dopo il salvataggio e la
sospirata ricongiunzione dei due amanti.
E a questo proposito ecco
l’altro inatteso protagonista
della partitura: il tema d’amore.
Inatteso per l’intensità, lo
struggimento, la semplicità del
decorso melodico, la profonda
malinconia che lo intride,
decisamente in contrasto con lo
spessore dei personaggi e la
spregiudicata allusività dei loro
approcci. Herrmann prescrive
un “Allegretto con molto
delicato” (sic), e sul
caratteristico ostinato mormorio in 2/4 degli archi in terzine appoggiate sull’ultimo accordo (re-fa
diesis-la) l’oboe alza un soave canto discendente (“rubato con molto amoroso”, sic),
accompagnato da violini eterei, poi seguito dal clarinetto, il tutto – dopo un gioco quasi femmineo
di richiami tra oboe e clarinetto - a introdurre il vibrato dei violini con sordina in una struggente
controfrase di risposta di viole e celli: questa pagina, che nella struttura armonica si rifà ad un’altra
partitura herrmanniana molto diversa, Tempeste sul Congo (White Witch Doctor, 1952, Henry
Hathaway; è Christopher Husted, nelle sue note di copertina al cd Rhino-Turner Music che nel
1995 pubblicò per la prima volta l’”original motion picture soundtrack” di Intrigo, a sottolineare
quanto ricorrente sia l’autocitazionismo in Herrmann), si stende blanda ad accompagnare le
effusioni di Roger e Eva in treno, enfatizzandone l’afflato romantico in aperto conflitto con il
dialogo, che è in bilico tra ironia ed esplicite allusioni sessuali, ma si chiude spezzando il lirismo in
un accordo inquieto e interrogativo proprio sullo sguardo, chiaramente angosciato, della ragazza.
Il parallelismo col tema d’amore di La donna è sicuramente fuorviante sul piano dei contenuti (lì
una tragedia, qui una commedia) ma sovraccarica il tema, comunemente noto come
“Conversation Piece”, di una valenza intimista e redentrice inoppugnabile.
Ancora una volta le tecniche strumentali di Herrmann appaiono sbalorditive nella loro eterogeneità
quanto semplici nella struttura: i sobbalzi freddi e tenui degli archetti alternati ai pizzicati e ai
tremoli sul ponticello negli archi, gli staccati dei legni, le frasi brevi, oblique e sinistre dei violini
mentre Roger tenta in ogni modo di avvisare Eva del pericolo che corre coniugano una tensione
estrema ad una sorta di pre-minimalismo (l’iterazione delle cellule ritmiche è essenziale in questo
lavoro), mentre la “visività” di altre soluzioni si rivela travolgente: si pensi agli accordi arcaici e
vagamente western che esplodono sui Monti Rushmore, o al perforante unisono per ottave di do
che, dopo dissonanze paurose e accordi davvero pesanti come macigni, sale dal basso tuba agli
ottavini nell’ultimo agguato ai due protagonisti da parte del killer di Vandamm. Un “colore” sonoro,
lo si accennava prima, rutilante e insieme livido, tagliente, abbagliante, che prelude al più funebre
e macabro dei “black & white”.
Al netto della leggenda e della letteratura che circondano la partitura di Psyco, sarà però il caso di
ricordare che l’opzione della scrittura per soli archi fu, da parte di Herrmann, un far di necessità
virtù dinanzi al budget ridotto del film, nato e concepito come una piccola produzione televisiva:
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verrà tra l’altro annotato come in questa pagina, trionfo di collisioni armoniche e di dissonanze
irose, sia contenuta probabilmente la sola, limpida e quasi implorante idea melodica in senso
stretto dell’intera partitura, quella frase a salire e scendere dei violini primi (poi ripetuta dai celli)
che sta tra battuta 37 e 46. Seguita subito, sul lungo carrello su Phoenix che ci porta diritti nella
camera da letto di Sam e Marion, dal “Lento (molto sostenuto)” costituito da vibranti e accorati
accordi sempre costruiti con moto altalenante. In Psycho, si sa, spazio per “temi” o idee
leitmotiviche tradizionali ce n’è poco.
Salvo si voglia considerare tale, naturalmente, quella “Murder Music” sulla quale sono affluiti fiumi
d’inchiostro interpretativo e analitico: e che è di fatto divenuta, proprio malgrado, leit-motiv non
solo e non tanto del film ma di un intero genere cinematografico:
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Questa sequenza aprì, all’epoca, una divergenza di opinioni tra regista e compositore destinata
ad avere ripercussioni ben più gravi nel futuro ma che – per il momento – si risolse a tutto
vantaggio del film e dell’esito finale. Hitchcock infatti ordinò a Herrmann di astenersi da qualsiasi
commento musicale per la scena, desiderando improntarla ad un maggiore “realismo”. Herrmann
fece come spesso gli accadeva, cioè acconsentì poi fece di testa propria e presentò al regista la
scena con la musica montata, ottenendo – rara e ultima volta – il consenso entusiasta e
l’autocritica di Hitchcock. Le edizioni in dvd di Psyco consentono oggi, come in molti altri casi, di
poter vedere la scena con e senza musica, ed è palese che l’assenza dell’apporto herrmanniano
avrebbe conferito a questo momento una scabrosità aggressiva, “sporca”, molto postmoderna e
violentemente “slasher”. L’idea di Herrmann, semplicissima, non si pone come un’enfatizzazione
ma come un elemento quasi scenografico od onomatopeico. Nel “Molto forzando e feroce” con
cui, dai violini primi ai bassi, piombano sull’ascoltatore una serie di ottave diminuite e settime
maggiori, rinforzate da un effetto-riverbero e da un formidabile glissando al secondo passaggio,
c’è chi ha voluto sentire il sibilo del coltello, chi un raddoppio delle grida di Marion, e soprattutto
chi un richiamo al verso folle e agghiacciante di quegli uccelli impagliati che avevamo visto
popolare il salotto dell’albergo Bates (quasi un anticipo degli “effetti” di cui Herrmann sarà
chiamato a curare la consulenza per il seguente Gli uccelli).
Esegesi interessanti anche se non esaustive. In realtà la pagina si configura come un’ulteriore
“musica della psiche”, una distorsione semantica ottenuta con una scrittura audacissima,
avveniristica, che gioca ancora una volta le proprie carte sull’estensione dei registri e degli
intervalli armonici: la chiave di volta, si potrebbe dire, di tutta l’architettura compositiva
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herrmanniana.
Grazie al contributo del compositore, Psyco
diviene l’epitome della svolta hitchcockiana, il
suo maggior successo commerciale ma anche
– come si diceva – il punto di non ritorno.
Fatalmente, in questo inizio degli anni ’60,
mentre Herrmann prosegue infaticabile la
propria ricerca sulle suggestioni e le potenzialità
di una specializzazione (il comporre per il
cinema) tutt’altro che ghettizzante, che gli
consente anzi sperimentazioni, invenzioni,
innovazioni strumentali senza precedenti (si
pensi alla lunga collaborazione “fantasy” con
Ray Harryhausen), la filmografia hitchcockiana entra in una fase di stallo. Cambiano le politiche
degli studios, i gusti e le mode, i target di fruizione, e cambiano anche le esigenze delle major in
materia musicale. Non è ancora vicina, o meglio sta faticosamente iniziando la stagione di un
rinascimento della musica per film hollywoodiana intesa come “soundtrack” sinfonico tradizionale,
che porterà a brillare più tardi le stelle di Jerry Goldsmith o John Williams o più avanti Alan
Silvestri e James Horner, Elliot Goldenthal e Michael Giacchino. In questa fase si chiede ai
compositori di farsi carico della cultura “pop” di quegli anni, quindi – più che di sovraccaricare i film
di sinfonismi tardo-ottocenteschi e complicati – di escogitare canzoni, hit, motivi facilmente
assimilabili e riconoscibili.
Se per Hitchcock questo è un mondo estraneo, per Herrmann è addirittura un mondo alieno. I tre
anni di inattività non passano invano, anche sul piano delle relazioni personali tra i due, che
vedono inasprire i rispettivi e peggiori lati di entrambi i caratteri. Hitchcock sente che il clima sta
cambiando ma non sa come adeguarvisi, Herrmann nel suo orgoglio solipsistico e consapevole
delle vette toccate in questi anni lo vorrebbe invece indeflettibile e incorruttibile, un Orson Welles
della suspense, disposto a rinunciare ai propri progetti piuttosto che vederseli distorcere e
manipolare da produttori-affaristi incompetenti e ignoranti.
Non contribuisce a migliorare la situazione il flop di Gli uccelli, l’improbabile fiaba nero-horror-
ecologica desunta liberamente da un racconto di Daphne Du Maurier, che limita la musica ad
alcuni interventi elettronici e puramente “rumoristici” di Remi Gassmann e del fisico e compositore
tedesco Oskar Sala, lasciando ad Herrmann un generico e svogliato ruolo di “sound consultant”.
Col senno di poi, era forse meglio se la collaborazione si fosse chiusa qui, senza gli ulteriori e
penosi strascichi. Ma il sipario ha appena iniziato a strapparsi.
La lacerazione accelera e prosegue, anzi è sancita, da Marnie (ciò che avviene dopo ne è solo la
logica conseguenza). Film che nasce zoppo in partenza: vuoi per l’ennesima scelta di un
sottofondo psicopatologico che, dopo Io ti salverò e Psyco sembra di difficile sostenibilità, vuoi per
l’evidente “miscasting” che affianca all’inetta Tippi Hedren, di cui Hitchcock si era ostinatamente
invaghito sin dal film precedente, un Sean Connery pericolosamente ambiguo e mascalzone
proprio negli anni del suo maggiore fulgore bondiano. La Universal presagisce evidentemente
l’ulteriore fiasco e fa pressioni su Hitchcock perché il film sia veicolato da una “title song” salvifica
che gli faccia da traino; il regista, il cui ego non riesce nemmeno a concepire l’idea di un ulteriore
insuccesso, non fa che trasmettere pedissequamente la richiesta a Herrmann, ottenendone un
diniego sprezzante. Non è certo una sciocca questione “di principio” ma di sostanza. Ancora una
volta, il compositore vede più lungo del regista, ma è l’ultima volta in cui riesce ad imporgli la
propria prospettiva, la propria “Weltanschauung”. Alla richiesta di semplificazione, di leggerezza e
di modernità, Herrmann risponde con una partitura di incredibile complessità sinfonica, di rovente
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strumentali ora oscuri ora luminosi, di idee rapidissime strumentate (soprattutto negli scambi fra i
vari settori dei legni e degli ottoni) con tutta la sapienza che Herrmann aveva raggiunto in quegli
anni. Ben lontano dalla fiducia cieca che un tempo riponeva nel suo musicista, Hitchcock non si
rende conto che il divario qualitativo fra una partitura di intossicante, arroventato romanticismo e
dai colori foscamente accesi, ed una storia scritta male recitata peggio e girata
convenzionalmente, lungi dal colpevolizzare Herrmann dovrebbe invece indurre se stesso a
riflettere sul suo ruolo nella metamorfosi in atto all’interno degli studios hollywoodiani.
Così non è, ed a fronte del fiasco commerciale clamoroso del film Hitchcock non si risparmia certo
nel far sapere a tutti che ritiene proprio la musica di Herrmann, ed in particolare la sua irriducibilità
“old fashioned”, il suo non aver voluto cedere alle richieste di comporre una title song orecchiabile
e di traino, uno degli elementi responsabili di tale fiasco.
Per il carattere dei due personaggi, la rottura è già ampiamente consumata anche sul piano
personale: tra l’altro, se Hitchcock soffre di crescenti insicurezze e crisi depressive, Herrmann,
che ha appena divorziato dalla moglie Lucy e si è stabilito in Gran Bretagna, non è da meno, in
più aggiungendovi la componente caratteriale egocentrica e irascibile che lo ha sempre
accompagnato.
Ma serve un ultimo, clamoroso atto per sancire sino in fondo la lacerazione. Se possibile, Il
sipario strappato nasce sotto auspici ancora peggiori di Marnie: vuoi per la scarsa intesa con un
cast spaiato (il metodo Actor’s Studio di Paul Newman provocò solo continue discussioni con il
regista, e Julie Andrews, che aveva pochissimo tempo per girare, è totalmente fuori ruolo), vuoi
per la tematica da Guerra Fredda che Hitchcock non riesce più a trasformare nell’intenso
sentimentalismo “noir” di Notorious l’amante perduta (Notorious, 1946) o nella livida, rutilante
giocosità di Intrigo. Delegando alla sua assistente Peggy Robertson e ad altri intermediari il
compito di tenere i contatti con Herrmann, il regista gli fa sapere che stavolta esige davvero una
“hit” popolare e giovanilistica, che attragga verso il film il pubblico delle ultime generazioni, come
da imposizioni precise dei boss della Universal. Herrmann sa – e tenta di spiegare ad Hitchcock –
che nessuno dei due appartiene a “quel” tipo di cinema, e che per entrambi sarebbe uno scacco e
un tradimento piegarsi a diktat contrari alla propria indole creativa. E, secondo, il proprio stile (che
ai tempi di Psyco aveva funzionato), fa orgogliosamente di testa propria, forse conscio di andare
così incontro ad una resa dei conti definitiva, per quanto dolorosa. Alla richiesta di una partitura
“orecchiabile” il compositore risponde con una partitura che prevede un organico inaudito: 12
flauti, 16 corni, 9 tromboni, 2 tube, 2 set di timpani, 8 violoncelli e 8 contrabbassi. Del tutto banditi
gli strumenti dal registro più alto
e “cantabile”, come trombe e
violini. Ne esce un magma
incandescente e furibondo, che
simboleggia bene probabilmente
anche lo stato d’animo del
compositore. Il solo Preludio,
che avrebbe dovuto
accompagnare i bizzarri titoli di
testa in cui lo schermo è diviso
tra le fiamme emesse da un
missile e alcuni primi piani dei
personaggi che scorreranno nel
film, è un tuffo nell’inferno: un
“Allegro pesante” in cui terzine
di accordi discendenti dei
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tromboni innescano una danza maligna su cui si alza un ululato dei corni non dissimile dal tema di
Donner nel “Rheingold” wagneriano. Ma è solo l’inizio. D’altronde, anche qui Herrmann è
persuaso che solo agendo sulla drammatizzazione, sull’incupimento delle atmosfere musicali, sul
radicalismo di una scelta timbrica (che pure, con altre motivazioni, aveva funzionato eccome in
Psyco) si possa iniettare nel film un briciolo di interesse e di conflittualità drammatica. Per questo
quando gli viene trasmessa la richiesta di lasciare completamente priva di musica la terrificante,
celeberrima (e censurata) scena di dieci minuti in cui viene assassinato, con brutale prolungato e
difficoltoso sadismo, l’agente della Germania Orientale Gromek, Herrmann pensa di poter fare
come per la scena della doccia di Psyco: trasgredire per ottenere alla fine il consenso del regista.
Ne sortisce un “Allegro feroce” letteralmente spaventoso, corni e tromboni che ribattono in
fortissimo un disegno di terza minore, con progressioni cromatiche in schiacciante crescendo che
accompagnano e suggellano la faticosa e laboriosa morte di Gromek con violentissimi rulli di
timpani e trilli demenziali dei flauti. Ancora una volta è l’avvento del dvd a consentirci, oggi, di
poter vedere questa ed altre scene del film montate con la partitura herrmanniana e di renderci
conto di quale tagliente, maligna e tellurica forza propulsiva essa avrebbe impresso ad un film di
per sé interiormente spento e fuori tempo.
In ogni caso queste, ed altre idee di estremismo timbrico e di suprema padronanza della materia
sonora, vengono a suo tempo registrate da Herrmann e sottoposte al regista durante una sua
visita “a sorpresa” nello studio di registrazione.
Ciò che segue è aneddotica nota, che varia di poco a seconda dei narratori. Al primo ascolto
Hitchcock, livido, si alza e licenzia in tronco orchestra e compositore, pagando di tasca propria la
penale: poi si rinchiude nel proprio ufficio da cui parte una telefonata di fuoco, l’ultima, con
Herrmann, che accusa il regista senza mezzi termini di aver svenduto la propria integrità e i propri
principii per quattro soldi. Non vi furono, da lì in avanti, ulteriori contatti fra i due e non risulta un
commento di Hitchcock alla morte di Herrmann, avvenuta la vigilia di Natale del 1975.
La partitura di Il sipario strappato finì così nel non ristrettissimo parco dei cosiddetti “rejected
scores”, cioè delle partiture composte, registrate e poi rifiutate da produttori o registi (una sorte
toccata anche a John Barry, Howard Shore, Jerry Goldsmith ed Alex North tanto per citare i più
noti). Nel 1977 Elmer Bernstein, che oltre ad essere stato un grande compositore per il cinema è
stato anche un fine esegeta e un restauratore e recuperatore di grandi partiture del passato,
ripristinò e registrò per la Warner Records, sul podio della Royal Philharmonic Orchestra, la
partitura herrmanniana; e lo stesso Bernstein nel 1991, chiamato da Martin Scorsese per il suo
Cape Fear-Il promontorio della paura (Cape Fear) remake di Il promontorio della paura (Cape
Fear, 1962, Jack Lee Thompson), vi recuperò, riorchestrò e inserì – oltre che ovviamente la
partitura originaria di Herrmann per quel film – anche alcuni frammenti dal “rejected score” di Il
sipario strappato.
A sostituire Herrmann venne chiamato l’inglese John Addison, fresco di Oscar per Tom Jones (id.,
1963, Tony Richardson), compositore di vaglia ma di altra formazione, il quale curiosamente (o
forse non troppo) cercò di conciliare le esigenze di appetibilità orecchiabile con una certa
complessità e modernità di suono tutt’altro che estranea al dettato herrmanniano (si veda proprio
il tema dei titoli): tra l’altro anch’egli componendo una pagina per l’assassinio di Gromek, molto
corrusca e timbricamente sbalzata (ridiciamolo: herrmanniana)… forse proprio perciò anch’essa
espunta da Hitchcock nella versione finale della sequenza, che rimane – va detto, molto
efficacemente – priva di commento musicale. A margine delle scelte piuttosto balzane, a volte,
che Hitchcock compiva su questo fronte può essere curioso ricordare anche che nella sequenza
del balletto classico in cui il protagonista viene riconosciuto dall’étoile impersonata da Tamara
Tumanova, si ricorre abbastanza prevedibilmente a Čajkovskij ma, del tutto inaspettatamente, non
ad una delle sue tante e celebri composizioni ballettistiche bensì ad una ipotetica versione
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