Sei sulla pagina 1di 20

Introduzione

Con il Trattato di Roma del 1957, i sei paesi fondatori dell’Unione europea decisero
di avviare un processo che avrebbe portato i cittadini europei a condividere quella che
è identificata con il termine “casa comune”.
Il primo passo fu quello di riconoscere la diversità culturale e linguistica dell’intero
continente. Ed è proprio su questo argomento che si è discusso nel primo capitolo di
questo elaborato: multilinguismo e multiculturalismo, due colonne portanti
dell’integrazione europea. Con multilinguismo si intende l’esistenza di un repertorio
(personale o territoriale) che comprende lingue diverse; il multiculturalismo, invece,
riguarda i problemi sociali e politici prodotti dalla convivenza di identità culturali
differenti. Come spesso accade, però, la realtà è diversa da come si vorrebbe che
fosse: l’inglese ha acquisito, negli anni, una forte importanza, per ragioni storiche,
commerciali e scientifiche, in tutto il mondo.
In Europa, malgrado le numerose politiche varate per mantenere ogni lingua e
cultura sullo stesso piano, l’inglese ha assunto un ruolo decisamente importante,
quello di lingua franca, argomento di cui si è parlato nel secondo capitolo. La lingua
franca (English Lingua Franca) è un idioma utilizzato per la comunicazione tra
individui che non condividono la lingua madre. Molti studiosi si sono confrontati
sull’argomento, soprattutto per capire se l’inglese segnerà la fine delle altre lingue o
se solo continuerà a funzionare come mero veicolo comunicativo. L’Unione europea
non ha legittimato il ruolo che l’anglofonia ha assunto ma questo non ha impedito ai
cittadini europei di fare tesoro delle proprie conoscenze inglesi. Per meglio capire ciò
sono stati analizzati numerosi casi di Paesi europei che utilizzano l’inglese nella
quotidianità. Nel terzo capitolo, infatti, dopo aver analizzato la varietà “spanglish”
americana, nata dall’incontro tra spagnolo e inglese americano, sono stati esaminati
termini e strutture nate dalla vicinanza all’inglese. È emerso che i paesi europei
utilizzano la lingua inglese per esprimersi in ambiti scientifici, cinematografici,
tecnologici, musicali e “di moda”; adattano le proprie strutture a quelle inglesi,
cambiando completamente il senso della propria lingua e utilizzando mix che non
potrebbero mai essere compresi da un madrelingua anglofono. Spesso la sola cosa
che conta è che “suoni inglese”, da qui nascono i cosiddetti abusi alla lingua inglese:
sono utilizzati termini del vocabolario inglese ma il loro significato viene
completamente cambiato dando vita a discordanze enormi tra significante e
significato, in base alla lingua in cui essi vengono adoperati.
Questo elaborato è nato con l’obiettivo di capire se l’inglese potrà mai divenire la
lingua comune di tutti gli europei, riconosciuta e legittimata da ogni singola identità
nazionale europea.
1. Multilinguismo e multiculturalismo

1.1 Multilinguismo
Uno dei motti principali dell’Unione Europea è “essere uniti nella diversità”. Per
garantire ciò è stata varata una politica di multilinguismo. Tale principio fu introdotto
nella politica europea fin dall’inizio del processo d’integrazione. Dopo la “Carta delle
lingue della Comunità”, scritta nel 1952, il momento storico più importante per la
politica delle lingue è stato il Trattato di Maastricht del 1992.
Nel mondo globalizzato in cui viviamo la diversità linguistica non può che essere una
risorsa preziosa che aumenta le opportunità per i cittadini (incremento
dell’occupazione, facilitazione dell’accesso ai servizi e ai diritti, maggior dialogo
interculturale e migliore coesione sociale).
1.1.2 I due aspetti del multilinguismo
Il 15 febbraio 2008 a Bruxelles si è tenuta una conferenza ministeriale sul tema
“Promuovere il multilinguismo: un impegno condiviso”. Sotto la presidenza
congiunta del ministro sloveno, Milan Zyer, e del commissario al multiliguismo,
Leonard Orban, i rappresentanti dei 27 Paesi membri dell’UE si sono confrontati
sulla possibilità d’azione a livello nazionale e comunitario a sostegno del
multilinguismo.
Quando si parla di multilinguismo si può far riferimento a due aspetti della realtà
europea:
 Coesistenza nel nostro continente di una molteplicità di lingue diverse: il
rispetto delle diversità linguistiche è iscritto nella Carta dei diritti fondamentali
dell’UE.
Le lingue di lavoro della Commissione Europea sono il francese, il tedesco e
l’inglese, ma grazie alla politica sul multilinguismo ogni cittadino europeo può
avere accesso ai documenti dell’UE nella lingua ufficiale del proprio Stato. A
questo scopo, ventitre sono le lingue che hanno ricevuto lo status di “lingue
ufficiali”. Il multilinguismo territoriale europeo, inoltre, va al di là delle
“lingue ufficiali”: l’Unione Europea tutela, anche, attraverso politiche ed
attività di sostegno, le oltre sessanta lingue regionali e minoritarie parlate sul
proprio territorio. Proprio per garantire la conservazione delle lingue
minoritarie, alla fine degli anni ’80, su iniziativa della Commissione Europea,
fu costruita la “rete Mercator”. Essa è costituita da tre centri, specializzati in
settori di ricerca diversi:
1. Il Mercator-Legislation di Barcellona si occupa delle lingue minoritarie
in ambito amministrativo e giuridico;
2. Il Mercator-Media, con sede in Galles, si interessa delle lingue

minoritarie nei media, dalla carta stampata ai media digitali;


3. Il Mercator-Education di Leeuwarden ( Paesi Bassi) tratta le lingue

minoritarie nell’istruzione. Da questo centro sono stati redatti i cosiddetti


“Dossier Regionali”: sono dei testi concisi che forniscono informazioni
fondamentali relative alla collocazione dell’insegnamento della lingua
minoritaria nei programmi formativi del relativo Stato membro europeo.
I testi sono prodotti da autori locali che conoscono bene la situazione
linguistica della regione in cui vivono. La Rete consente alle scuole di
entrare in contatto con quelle estere attraverso progetti di scambio o
progetti ICT, che permettono agli studenti di comunicare via e-mail.
La responsabilità della prosecuzione della lingua è da attribuire ai parlanti della
lingua stessa: se essi non valorizzeranno il loro bilinguismo, tramandandolo
alle generazioni future, qualsiasi progetto della Commissione europea sarà
vano.
 Capacità di una persona di parlare varie lingue. Questo è un altro punto
di forza dell’Unione Europea: i cittadini europei che parlano più lingue
possono usufruire maggiormente delle opportunità lavorative, sociali e culturali
offerte dal mercato unico. Il multilinguismo, stimolando la mobilità, è un
fattore d’integrazione che facilita la creazione di una società europea e il
rafforzamento del mercato, sia interno che a livello globale.
Credendo nel valore aggiunto del multilinguismo, l’UE ha deciso di promuovere
l’apprendimento delle lingue europee: il Consiglio Europeo tenutosi a Barcellona
nel 2002 ha varato il progetto “lingua madre+2”. Si tratta di un progetto ambizioso
ma non impossibile: l’insegnamento di lingue non materne dovrebbe iniziare il
prima possibile, anche a livello prescolare, e proseguire per tutto il periodo scolare
e in età adulta. Secondo la ricerca di Eurobarometro pubblicata nel Febbraio
2006, “Europeans and their languages”, il 44% dei cittadini europei parla solo la
propria lingua, il 18% dichiara di aver studiato, nell’ultimo anno, per apprendere
una lingua straniera e l’83% riconosce l’importanza di conoscere una lingua
diversa dalla propria.
Nel 2008 la Commissione ha proposto di adottare un approccio a livello europeo,
partendo dalla convinzione che l’apprendimento delle lingue straniere è un
processo che dura tutta la vita e che non si esaurisce con la fine delle scuole.
L’obiettivo è quello di dare la possibilità di imparare le lingue più avanti nella
vita, con programmi di formazione professionale e permanente. Idealmente i
cittadini europei dovrebbero conoscere almeno due lingue straniere. Secondo uno
studio, commissionato dall’UE, molte piccole e medie imprese perdono occasioni
di fare affari a causa di problemi nella comunicazione. I responsabili delle risorse
umane, infatti, hanno non pochi problemi a trovare persone che conoscano più di
una lingua. Non si parla solo d’inglese. Con la presenza d’imprese europee in tutto
il mondo c’è sempre più richiesta di altre lingue: russo, tedesco, francese,
spagnolo. Per promuovere l’apprendimento delle lingue straniere e l’arte di
comunicare tra persone di lingua diversa, la Commissione ha anche indetto un
concorso di traduzione (in molte delle lingue ufficiali) per giovani studenti.
Questi progetti non sono molto costosi rispetto alle opportunità che sarebbero
perse se non venissero realizzati. E ancora una volta, la causa sarebbe la carenza
di conoscenze linguistiche con la conseguente ricaduta negativa sull’economia
europea in termini di perdita di mercati.
1.1.3 La Babele europea
In molti Paesi, stampa e pubblico iniziano a chiedersi se un regime linguistico
dotato di un meccanismo di inclusione automatica di ogni lingua nazionale potrà
fare la fortuna dell’Unione Europea e mantenersi su costi ragionevoli. Quando i
partner dell’Unione erano tutti paesi occidentali, il problema della combinazione
tra lingue diverse era limitato e si trovavano facilmente traduttori competenti nella
lingua di tutti i paesi. Con l’annessione dei paesi dell’Europa orientale, la
questione si complica sia per la scarsa diffusione internazionale di alcune lingue
importanti, per il numero di persone che le parlano, come il polacco, sia per la
scarsità di parlanti di altre lingue, come maltese, ceco, lituano, ecc. La stampa
sfrutta queste problematiche per descrivere la Babele del nuovo millennio, dando
voce a reazioni e commenti di grandi intellettuali. Andrea Camilleri non vedeva un
problema nel multilinguismo, al contrario del Premio Nobel tedesco Renhard
Selten, convinto che il multilinguismo fosse un ostacolo da rimuovere al più
presto per far posto all’esperanto (Vedi ‘Solo una lingua comune unirà le
popolazioni europee’, in “Corriere della Sera”, 17 Dicembre 2002).
Uno dei punti chiave su cui fanno leva giornali e programmi televisivi è il futuro
dell’inglese (‘Le mille e una lingua del Global English’, in “la Repubblica”, 13
aprile 2007). Per molti sarà una salvezza, una lingua che consentirà al mondo di
andare avanti senza lasciarsi indietro nessuno, per altri sarà come la peste, una
lingua che opprimerà le altre fino a farle morire sostituendole.
1.1.4 Disparità linguistiche incontrollabili
I linguisti non hanno tralasciato ciò che si trova scritto nella Carta delle Lingue,
dove avviene una sottile distinzione tra “lingue ufficiali” e “lingue di lavoro”. La
formulazione non intacca la parità garantita ad ogni lingua, ma ha gettato le basi
alla gerarchizzazione delle lingue europee. Per mettere tutte le lingue nella stessa
categoria sarebbe stato meglio parlare di “lingue ufficiali e di lavoro” (Ammon,
2006). Inizialmente soltanto il francese era elevato a “lingua di lavoro” della
Commissione; la sua supremazia era dovuta alla collocazione delle istituzioni e
degli uffici principali dell’Unione in paesi di lingua francese a Bruxelles,
Strasburgo e Lussemburgo. La vera disparità si ebbe quando, nell’ultimo quarto
del secolo, l’inglese iniziò la sua fase di espansione divenendo la più diffusa delle
lingue straniere in Europa (Hoffmann, 2000). È importante sottolineare come la
Francia si sia opposta all’annessione del Regno Unito nell’UE: oltre ai motivi
politici dichiarati sembra ce ne siano altri, uno di questi potrebbe essere la difesa
dell’egemonia linguistica. Sembra, infatti, che il Presidente della Francia, George
Pompidou, revocò il veto francese all’annessione della Gran Bretagna strappando
al primo ministro britannico Heath la promessa (mai mantenuta) che tutti i
funzionari britannici impiegati alla Comunità sarebbero stati in grado di lavorare
in francese. Con l’annessione del Regno Unito, le lingue di lavoro della
Commissione diventarono due: al francese fu, infatti, aggiunto l’inglese. Ciò,
però, comportò una scelta da parte dei funzionari degli organi europei, che
preferirono avvicinarsi all’inglese allontanando sempre più la lingua francese
(Goffin, 1987).

1.2 Multiculturalismo
Intorno al termine esiste gran confusione. Va precisato che multiculturalismo è
diverso da interculturalità. Entrambi i fenomeni hanno a che fare con la pluralità
culturale, tuttavia il primo riguarda i problemi sociali e politici prodotti dalla
convivenza di identità culturali differenti, come ad esempio i problemi di
“riconoscimento”, mentre il secondo consiste nei processi di mutamento culturale
prodotti dagli scambi tra culture diverse.
1.2.1 Accezioni del multiculturalismo
Esisto almeno tre accezioni differenti del termine:
1. La semplice constatazione di fatto dell’avvenuta diversificazione della
composizione socio-demografica delle società nazionali europee.
2. L’idea di un nuovo progetto politico in grado di mettere in sintonia le
società europee con la nuova struttura socio-demografica. In questa
accezione il multiculturalismo non è un fenomeno ma un progetto politico;
questa visione del concetto lo rende un tema controverso e conflittuale, ma
anche una fonte di rinnovamento e di rivitalizzazione delle istituzioni
politiche e sociali. Il multiculturalismo si pone come un’alternativa ai
problemi innescati dall’immigrazione, primo tra tutti quello
d’assimilazione. L’assimilazione è un processo di integrazione che prevede
omogeneità culturale o etnico-nazionale: l’immigrato deve acquisire la
lingua, i costumi, le abitudini, i valori della comunità ospitante e il senso di
appartenenza verso essa. I mezzi di comunicazione permettono, tuttavia,
agli immigrati di non tagliare i ponti con le proprie origini, non vogliono
tornare in patria ma non si lasciano assimilare vivendo con i loro usi e
costumi in un Paese diverso dal proprio. Il multiculturalismo pone le basi
per ridefinire il significato di appartenenza nazionale.
3. La sfida profonda lanciata dalla differenza culturale al modello liberal

democratico. Il multiculturalismo diventa sinonimo di critica radicale alla


tradizione liberale europea emersa a partire dall’Illuminismo. Pur
incarnando pienamente lo spirito postmoderno sarebbe sbagliato
considerare il multiculturalismo come una semplice antitesi dei principi
premoderni come la comunità, la religione, e la tradizione.
Multiculturalismo significa che i particolarismi quali ad esempio, quelli
religiosi, linguistici, etnici chiedono di essere considerati legittimi anche se
non conformi a ciò che è considerato nazionale, chiedono altresì di essere
rappresentati nello spazio pubblico e non relegati alla sfera privata. Il
multiculturalismo è destinato ad essere il modello più verosimile della
società europea del prossimo futuro, ma non si sa ancora di preciso come
realizzarlo (Soyal 1994).
1.2.2 Il nord America: un modello per l’Europa
Cercando di trovare un esempio di società multiculturale ci si imbatte in quelle
nordamericane (Stati Uniti e Canada). Tutte le novità vengono dagli Stati Uniti e tutto
ciò che prima si afferma negli Stati Uniti passa in Europa, neoconservatorismo,
bipartisco, le corporations economiche, la massmedializzazione, e così via, per questo
motivo la società americana è il posto ideale dove cercare qualche idea per il futuro
multiculturalismo europeo. Rispetto all’Europa, la forza del sistema statunitense è il
decentramento amministrativo perché rende possibile una maggiore recettività delle
necessità della società. L’identità etnica e religiosa è un concetto basilare della
politica americana. Il bipartismo americano consente un’articolazione complessiva
degli interessi sociali, anziché il loro comprimersi in due soli partiti escludendo, così,
tanti interessi e tante identità politicamente rilevanti. L’attuale fase storica
statunitense appare multiculturalista, caratterizzata non da una progressiva
compartimentazione identitaria della società, ma dalla compresenza di identità e
culture diverse nel medesimo spazio pubblico. Come tutti sanno gli Stati Uniti hanno
conosciuto momenti di forti conflitti razziali, ma proprio questo ha dimostrato come
l’eterogeneità non costituisca una minaccia seria per la democrazia, che è, invece,
considerata la chiave per gestire i conflitti. Il multiculturalismo è, quindi,
direttamente collegato alla democrazia.
L’esempio nordamericano può apparire fuorviante a causa di una storia così differente
rispetto a quella dei paesi europei e del fatto che molti dei progetti promuoventi il
multiculturalismo sono giustificati dalla volontà di compensare passate ingiustizie.
Tuttavia, il mosaico canadese costituisce un caso di assetto politico e societario assai
simile a quello europeo e ciò non ha impedito l’attuazione del modello
multiculturalista. Va poi ricordato che negli Stati Uniti non tutte le differenze culturali
sono geograficamente trasversali, si pensi agli ispanici in Florida i quali hanno
praticamente trasformato lo stato in un’area di lingua spagnola. Questo caso può
mettere gli Stati Uniti di fronte ad una nuova sfida, come riconosce Samuel
Huntington (Huntington, 2005), ma è anche vero che il caso sarà risolto all’interno
del repertorio di soluzioni contenute nel modello multiculturalista. Il Credo
americano continua ad essere la soluzione alla pluralità culturale che caratterizza gli
Stati Uniti e che ne fa un Paese-modello.
1.2.3 Programma Cultura
Con il fine di far crescere la cittadinanza europea promuovendo la cooperazione,
l’Unione Europea ha varato un programma culturale quinquennale (2007-2013).
Moltissimi sono gli artisti di talento che scrivono nelle lingue meno parlate in
Europa, come l’islandese, il catalano e l’estone. Per non impedire al pubblico europeo
di conoscere le loro opere è stato promosso il festival europeo della creazione
teatrale. Le opere sono state tradotte in francese e tedesco e rappresentate davanti ad
un pubblico nuovo ed entusiasta. Sono stati, anche, organizzati degli incontri tra gli
autori e gli studenti di teatro e conferenze per arricchire il dialogo interculturale.
Questo tipo d’iniziative promuove il mantenimento e il continuo studio delle lingue
minoritarie europee e delle diversità culturali.
Le migrazioni da un Paese all’altro hanno fatto sì che in Europa le diverse culture
s’incontrassero, gettando le basi per un dialogo interculturale. Il programma “Born in
Europe” nasce con l’obiettivo di far riflettere sul significato di sentirsi europei,
partendo proprio dal momento della “nascita”. Con tale scopo è stata allestita una
mostra fotografica che fa vedere alcuni nuclei familiari d’immigrati europei. Questa
mostra ha dato vita ad un vero e proprio scambio interculturale sulla complessità per
gli immigrati di seconda generazione di capire la propria identità personale. Il
progetto ha abbracciato il tema importantissimo della cittadinanza europea, ma anche
molti altri.
Tantissimi altri progetti sono stati finanziati dall’Unione Europea col fine di eliminare
le barriere culturali esistenti tra un Paese ed un altro dell’Europa, cancellare i
pregiudizi legati ai confini territoriali.
2. Inglese: Lingua Franca d’Europa

2.1 Storia della Lingua Franca


L’originale lingua franca era la lingua comune utilizzata soprattutto, ma non
esclusivamente, in ambienti commerciali del Mediterraneo orientale dal quindicesimo
al diciannovesimo secolo. Il termine deriva dall’italiano “Linguaggio dei Franchi” ma
è stato, anche, rintracciato nel lessico arabo “lisan-al-farang”. Era parlato anche in
Algeria ma scomparve in seguito alla conquista francese. Strutturalmente si
presentava con un lessico preso in prestito dalle lingue romanze, l’ordine delle parole
era fortemente impostato ma non esistevano né marcatori di persona e numero né
copule o articoli, era utilizzato il tempo infinito dei verbi e la pronuncia delle parole
era relativamente semplice. Funzionalmente, la lingua franca era utilizzata in
situazioni che richiedevano una lingua comune diversa da quella madre. Era una
lingua priva di un’identificazione socioculturale, per questo non vi era una cultura
franca di riferimento. Un esempio di lingua franca può essere trovato nell’opera
teatrale di Molière Le Bourgeois Gentilhomme del 1670.
Oggi la lingua “franca” internazionalmente riconosciuta è l’inglese. Una differenza
fondamentale è che l’odierna è una lingua che pre-esiste al suo utilizzo in ambiti
internazionali, mentre quella del quindicesimo secolo era stata creata appositamente
per rivestire il ruolo di lingua comune. Per quanto riguarda la cultura franca, non c’è
differenza tra la lingua franca attuale e quella di sei secoli fa: non esiste una cultura
comune perché solo gli inglesi nativi la posseggono, l’utilizzare la lingua come
mezzo di comunicazione tra persone di lingua madre diverse non significa essere
possessori della cultura che sottostà alla lingua (James, 2008). Ed è proprio qui che
troviamo i problemi comunicativi che nascono dall’utilizzo dell’inglese come lingua
franca: la competenza pragmatica è fondamentale nella comunicazione in contesti
culturali di madrelingua. Su questo punto si è sviluppata una ricca letteratura di
ricerca che ha portato alcune conclusioni interessanti: se in ogni conversazione i
parlanti dovessero seguire il comportamento degli anglofoni di madrelingua ci si
troverebbe continuamente in situazioni di fraintendimento; i tratti extrasegmentali (il
silenzio, le pause, gli sguardi, la gestualità, ecc.) sono molto standardizzati
nell’inglese britannico e americano. Questi ultimi aspetti sono molto importanti
nell’interazione, sia negli ambiti formali che in quelli informali, e non possono essere
dati per scontati.
In sintesi ELF (English Lingua Franca) appare come uno degli strumenti che un
individuo ha nel suo repertorio per comunicare.

2.2 Ruolo dell’inglese nella Babele europea


Non dimenticando il successo che ha avuto, e continua ad avere, la politica
multilinguista europea va detto che, come sostenne l’economista inglese John Stuart
Mill (1806-1873), in una comunità dove gli individui non condividono la stessa
lingua l’unità dell’opinione pubblica, necessaria per il lavoro in un vero Governo
Rappresentativo, è completamente inesistente. É importante avere una lingua di
riferimento comune per la gestione degli affari e del business; è proprio qui che entra
in gioco l’inglese. La riluttanza degli europei ad accettare l’inglese come lingua
comune sembra essere molto costosa all’Europa, basti pensare ai costi di traduzione
che l’UE si trova a sostenere (Ceramella, 2008).
La lingua acquisisce un forte valore coesivo, se si pensa alla necessità che l’Europa
ha di costruire un’identità sovranazionale; tuttavia, non si può dimenticare che le
singole identità nazionali hanno, da sempre, professato fede nell’identità linguistica.
Si può affermare, quindi, con facilità che l’integrazione linguistica non sarà semplice
come quella economica (De Swaan, 2001).
L’imponente crescita dell’utilizzo dell’inglese nelle istituzioni pubbliche e private dei
paesi membri dell’UE è la causa della conversione da un multilinguismo de iure ad
un regime che de facto utilizza una sola lingua. Il multilinguismo totale, infatti, è
garantito ai più alti livelli di dibattito e negoziazione politica, dove i servizi di
traduzione multilingue assicurano ai lavori la completa parità delle lingue. Sempre
più spesso, tuttavia, una volta accertato che la gran maggioranza dei politici e
funzionari ha in comune l’inglese ma non altre lingue, si preferisce lavorare solo con
la lingua franca. Questo però non basta per garantire una buona padronanza
dell’inglese a tutti gli europei: occorrerebbe la legittimazione dell’inglese come
lingua comune (Berns, 1995; Deneire, Goethals, 1997). La scarsa disponibilità a
ratificare la posizione dell’inglese come lingua franca è un atteggiamento sia
personale che istituzionale: l’invadenza della lingua inglese in Europa è vista come
un qualcosa da contenere per la tutela delle altre lingue. Gli argomenti usati contro
questa egemonia da Francia, Germania e Italia sono tre:
 Gli stati fondatori dell’UE meritano, più degli altri, il riconoscimento del
principio della sovranità nazionale;
 Le loro comunità nazionali contano la maggioranza della popolazione europea,
che non è anglofona;
 Il riconoscimento dell’inglese come lingua franca porterebbe ad un
significativo rafforzamento dello studio di questa lingua a discapito delle altre
lingue e culture.
La questione della lingua franca sta entrando a far parte dello scenario europeo in
modo piuttosto irrompente. Nessuno dei paesi membri si priverebbe mai
dell’insegnamento dell’inglese nelle scuole e nelle università o nella ricerca
scientifica. Spesso, proprio a sostegno della propria lingua nazionale, alcuni politici
fanno arenare progetti comunitari nel momento in cui si minaccia di escludere la
propria lingua da qualche comitato per ragioni economiche (Tosi, 2007, pag. 93).
Questa visione negativa che si ha nei confronti della lingua inglese, vista come un
killer, è stata a lungo analizzata dalla sociolinguista House (2003). Lei fa una
distinzione tra “languages for communication” e “languages for identification”. La
prima è l’inglese di oggi, utilizzato come un mero strumento comunicativo. Nel
secondo gruppo rientrano tutte le lingue madri, quelle regionali e locali e le varietà
intime (che intendi? Sii più esplicita)ad esse legate. Per House, una lingua con un
valore comunicativo tanto forte non può non acquisire uno status speciale nell’UE.
Nonostante le politiche multilinguiste, non è un segreto che nell’Unione europea sia
riconosciuta una sola lingua ufficiale per ogni stato membro (a sfavore delle lingue
minoritarie) e che alcune lingue (francese ed inglese) godano di maggiore importanza
rispetto alle altre. A tale proposito è proprio di questi ultimi giorni la disputa che vede
schierata l’Italia in prima fila sulla questione dei brevetti comunitari che la
Commissione Europea, appoggiata dalla maggioranza degli Stati membri dell’UE,
vorrebbe fossero tradotti solo in inglese, tedesco e francese. Al massimo, spiegano
fonti comunitarie, si può prevedere l’uso del solo inglese, ma per un periodo
transitorio. Roma però non ci sta, e li ministro per le Politiche Comunitarie, Andrea
Ronchi, ha ribadito di essere pronto a porre il veto. “A costo di essere soli – ha
affermato Ronchi – diremo no ad un’Europa che discrimina l’impresa italiana
recludendo l’italiano dalle lingue ufficiali”. In effetti, prevedere l’uso del solo inglese
per l’Italia sarebbe una soluzione ‘accettabile’, anche per ridurre i costi per le imprese
che depositano i brevetti. Costi che raggiungono cifre folli: in media ventimila euro,
di cui 1quattordicimila per spese di traduzione. Dieci volte in più che negli Stati
Uniti. Con il trilinguismo, stima la Commissione, si abbasserebbero a poco più di
seimila euro. Ma l’inglese come lingua unica è una proposta che difficilmente potrà
passare. E l’ipotesi dell’inglese per un periodo transitorio pare che riceverà il no
italiano. Sembra che una soluzione potrebbe essere la ‘inglese più’, cioè una lingua
per tutti più quella nazionale. Ma qui scatterebbe il veto di Francia e Germania.
Staremo a vedere come andrà a finire!
Secondo il filosofo tedesco Jürgen Habermas (1998) la formalizzazione dell’inglese
come lingua comune di tutti gli europei sarà un passo inevitabile nella fase
postnazionale inaugurata dall’integrazione europea. Questo nuovo ruolo porterebbe la
deanglicizzazione dell’inglese. Questo passo andrebbe compiuto senza indugio per il
linguista olandese van Els (2005), il quale è cosciente del fatto che la
denazionalizzazione dell’inglese richiederebbe, oltre ad una ratifica formale, il
coinvolgimento di gran parte della popolazione non anglofona. Questo, tuttavia,
risulterebbe non realizzabile poiché le politiche europee spingono la popolazione ad
impiegare le proprie energie nello studio delle altre lingue. Il fronte che si oppone a
tutto questo non crede né alla aculturalità dell’inglese né all’adozione indolore di una
lingua comune in Europa, rifiuta l’idea che si possano distinguere le lingue per la loro
funzionalità (autoidentificazione nazionale e veicolo comunicativo) e teme che la
deanglicizzazione della lingua inglese finirebbe per basarsi sull’unico modello che, in
Europa come ormai nel resto del mondo, non è più britannico ma americano (Tosi,
2007, pag. 95).
L’attrazione che tutti hanno per l’inglese è dovuta a vari aspetti: da una parte va
ricordato l’alto numero di parlanti di questa lingua nel mondo. Pur essendo il cinese
mandarino il più parlato in assoluto, l’inglese detiene il primato in quanto
maggiormente diffuso a livello mondiale (Australia, Regno Unito, Stati Uniti
d’America, Canada, Nuova Zelanda, oltre a tutte le ex colonie britanniche, come
l’India, dove è usato correntemente). D‘altra parte un aspetto intrinseco dell’inglese
lo rende tanto interessante: è una lingua relativamente facile dal punto di vista
grammaticale, specialmente se paragonato a lingue quali l’italiano, il francese, il
tedesco. Da una ricerca, svolta da C. K. Ogden e I. A. Richards, sulle caratteristiche
dell’inglese è emerso che sono ottocento le parole necessarie per definire i termini di
un intero dizionario ( Ceramella, prossima uscita).
Da una ricerca Eurobarometro del 2002 è emerso che il 92% degli studenti dei paesi
membri dell’UE non inglesi studiano l’inglese, il 33% francese e solo il 13% il
tedesco. In Europa più del 50% della popolazione è in grado di esprimersi in inglese.
L’inglese, inoltre, è la sola lingua che può contare su un diffuso consenso politico e
storico. L’espansione dell’anglofonia nei paesi in via di sviluppo e nelle relazioni
internazionali non sarebbe stata sufficiente ad attribuire all’inglese il ruolo di lingua
per la comunicazione globale, se non fosse stato anche per il suo impatto sulla vita
quotidiana: stampa, mass media, radio, pubblicità e televisione (Crystal, 1997).
L’inglese penetra nella vita di tutti gli europei, la gente guarda la CNN, la BBC,
l’MTV, frequenta lezioni di inglese a scuola, si imbatte in slogan commerciali come
“The real thing” o “I’m lovin’ it”, riferiti alla Coca Cola e a McDonald’s; le aziende
scelgono l’inglese come lingua per la comunicazione interna ed esterna, i turisti, a
prescindere dalla propria lingua, chiedono indicazioni in inglese, e così via. Il
dominio dell’inglese in Europa sta crescendo sempre più, questa tendenza può essere
facilmente spiegata attraverso il termine, coniato da Myers. Scotton, “snow-ball
effect”: “The more people learn a language, the more useful it becomes, and the more
useful it is, the more people want to learn it”. L’inglese, quindi, si fa strada nel
territorio europeo attraverso un doppio processo: “top-down process” (istituzioni ed
educazione) e “bottom-up process” (musica, danza, sport, computer,ecc.).
Ovviamente la lingua inglese occupa un ruolo molto importante nell’istruzione
europea, dominio ad essa legato è quello della ricerca scientifica dove l’inglese è
considerato una conditio sine qua non per accedere alle informazioni.
In Europa vige il multilinguismo, tuttavia nella comunicazione interna si cerca
sempre di facilitare il lavoro, portiamo un esempio a chiarire il punto: van Els (2005)
ha notato come all’interno della Banca Centrale europea, situata a Francoforte, tutta
la comunicazione, interna ed esterna, sia condotta in lingua inglese. A causa
dell’internazionalizzazione dell’economia europea l’inglese è parte integrale della
vita professionale di un sempre maggior numero di europei. Il maggior impatto
dell’inglese in Europa può essere osservato nella vita pubblica: media, internet,
pubblicità, cultura giovanile e intrattenimento.
L’attuale ruolo dell’inglese in Europa è caratterizzato dal fatto che la lingua è
divenuta lingua franca, una lingua per la comunicazione. ELF è una realtà diversa e
indipendente dalle norme della lingua nativa inglese (ENL) e coloro che la utilizzano
sono convinti che questa diversa varietà meglio esprima la loro identità (Seidlhofer,
2006).
Parte dell’interesse, e delle problematiche, legate all’ELF risiedono nel fatto che
durante una conversazione spontanea esiste sempre un elemento di negoziazione
delle norme rilevanti, questo accade perché il background culturale e linguistico
cambia da caso a caso. Questo punto di vista è particolarmente importante per capire
ed apprezzare la natura dell’interazione e per scoprire in che modo si costruisca un
mezzo di comunicazione adatto alle necessità di chi usa la lingua inglese. A questo
scopo si propongono due casi studio. Entrambi si riferiscono ad interazioni tra fruitori
regolari di ELF in contesti professionali in Europa. Il primo caso riguarda la
Danimarca e l’Austria e coinvolge persone di ventuno diversi linguacultural
background. Questo caso studio si focalizza sull’aspetto lessico-grammaticale legato
alla mutazione morfologica che subiscono i verbi, nella lingua inglese, alla terza
persona singolare nel tempo presente. Il caso, analizzato da Breiteneder (2005),
mostra la presenza di centoquarantuno casi di indicativo presente, coniugati alla terza
persona singolare, il 20,57% dei quali risulta non avere la [s]. Nessuna delle persone
dimentica completamente la [s], alcuni la pongono anche dove non ha ragione di
essere. Tutti conoscono la regola della “terza persona singolare –s” perché, appunto,
nessuno dimentica di marcarla in ogni circostanza. Da un punto di vista fonologico il
non porre la [s] o il porla dove non occorre può rispondere a difficoltà di pronuncia. A
livello sintattico e lessicale, invece, il caso si ripropone in tre circostanze:
1. Collective head noun: “but University make suggestions (.) ministry decide?

2. Alla presenza di una coordinazione: “because the institutions and the network

thinks that it’s important.”


3. Con un’espressione indefinita: “okay, everybody initially talk about it.”

Coloro che parlano l’ ELF pongono la propria attenzione sul contenuto del loro
discorso e non sulla correttezza linguistica.
Il secondo caso studio si basa sull’analisi della “miscommunication” (fallimento
dell’atto comunicativo): il differente background linguistico di chi parla l’ ELF non
diminuisce le loro potenzialità di comunicare o “miscomunicare” strategicamente. I
dati raccolti provengono da un meeting d’affari avvenuto in un’agenzia internazionale
del Lussemburgo. L’incontro è stato audio-registrato e quindi può essere considerato
un discorso naturale in ELF. Coinvolge parlanti nativi tedeschi, che sono impiegati
dell’agenzia, e un parlante nativo olandese, rappresentante delle vendite di una
compagnia aerea. Dall’ascolto emerge che entrambe le parti utilizzano la lingua con il
fine di convincere l’interlocutore delle proprie idee. Il parlante olandese si trova a
questo meeting con un incarico molto impegnativo: vendere il proprio prodotto. Per
raggiungere lo scopo egli presta grande attenzione alle parole dei suoi interlocutori e
si dimostra attivo e coinvolto. Le due parti cercano di sfavorire chi hanno di fronte,
ciò è permesso dall’utilizzo di domande strategiche o superflue.
Il seguente estratto è necessario per capire di cosa si sta parlando. Il dialogo
coinvolge tre parlanti (S1 e S3 sono tedeschi, S2 è olandese):
S2: okay.(.) I give you ALL the details [S3] it’s a well i got a total list. From from dubai
and we just (.) reNEWED the whole list. (.) because we CHANGED ou:r (.) truching
(.) PARTNER actually in dubai to a new one. and this one is very good
S3: you working with?
S2: oh i don’t know i forgot the name (.)
S3: [company 13]?
S2: but before n-no.
S3: no?
S2: i don’t believe so. No. Because WHY we changed it we had some some problema (.)
e:r something like (.) i don’t know a YEAR ago. And this trucking company (.) when
we BOOKED something (.) okay we ORDERED (.) i don’t know (.) six seven eight
trucks (.) and then they show up with only FOUR and the next day ANOTHER four
that er well this this is not working properly of corse (.)
S3: but this is pretty normal in dubai
S2: ye:s but (.) you know especially NOW because (.) we a:re (.) NOW with this new
trucking company (.) they want to perFORM them-(.)-SELF very good because they
want to say HEY we are better than this (.) OTHER company.
S1: whit whom are you working now?
S2: again e:r?
S1: with WHOM? (.) which trucking company you’re working?
S2: i don’t i don’t know. but i’ll let you know the name of it.
S2 ripropone la stessa domanda per due volte a S2 in quanto non ha ricevuto una
risposta la prima volta. Questo è un esempio di “miscomunicazione”. In questo caso
S2 delibearatamente crea questo errore di comunicazione per avere dei vantaggi
strategici sul suo interlocutore (S2). Dal momento che entrambe le parti conoscono
le regole del gioco, le regole di un meeting, è necessario considerare anche come S2
risponde alle domande strategiche di S1: “again e:r?”. Questa risposta può essere
interpretata come un tentativo di mitigazione dell’effetto della manovra strategica di
S1.
Ovviamente non è semplice sostenere con certezza cosa un individuo intenda dire con
le proprie parole ma l’intenzionalità di “miscomunicazione” è più facile da
individuare, in particolar modo in situazioni come quelle analizzate (incontri di
lavoro).
Il fatto che i cosiddetti parlanti “non nativi” di inglese non condividano lo stesso
background linguistico e culturale non significa che non siano in grado di utilizzare la
lingua in modo strategico.
L’Europa è un mosaico di paesi relativamente piccoli, eterogenei in termini di gruppi
etnici e linguistici. L’ inglese, candidato ad essere lingua franca d’Europa, è
“proprietà” di due dei Paesi membri dell’UE, Repubblica d’Irlanda e Regno Unito.
L’unica soluzione per impedire che la lingua di questi due paesi acquisti un ruolo di
superiorità rispetto alle altre lingue ufficiali europee, è quella di instaurare un nuovo
inglese, inteso come un concetto indipendente dalle regole che gestiscono la
comunicazione tra parlanti nativi.
Conclusione

La ricerca sull’inglese internazionale è giunta a due conclusioni.


La prima è che oltre alla categoria dello standard English, nelle sue varietà degli Stati
Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda e Sud Africa, e a quella dei
cosiddetti new Englishes (dell’India, delle Filippine, della Nigeria e di Singapore),
non esiste una varietà europea (Cenoz, Jessner, 2000; Hoffmann, 2000). Le ragioni
sono molteplici:
 Le variazioni non sono ancora molto ampie in quanto dipendono dalle
situazioni d’uso;
 L’impatto delle lingue e culture di partenza degli interlocutori è molto
eterogeneo;
 I due modelli di riferimento del British English e American English sono
troppo influenti, soprattutto ai livelli più alti di apprendimento e d’uso.
Se la ricerca sociolinguistica non è ancora giunta a delineare le caratteristiche tipiche
di una nuova varietà, l’Euro-English, è perché non si sono ancora sviluppate.
La seconda conclusione è che la semplificazione dell’inglese che sta avvenendo in
Europa appartiene solo alla lingua parlata. Widdowson (1997) ha spiegato che se il
parlato concede agli interlocutori ampi margini di trasgressione, lo scritto ha bisogno
di rifarsi ad una letteratura più precisa e puntuale.
Fino a che le singole realtà nazionali temeranno di perdere la propria identità a favore
dei parlanti nativi inglesi non sarà possibile per l’Europa trovare una lingua che
accomuni tutta la Comunità.

Potrebbero piacerti anche