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A mio nonno Arduino, il partigiano ‘Miracolo’
Indice
Ringraziamenti xi
Introduzione xiii
Capitolo I
La critica liberale della democrazia 1
1.1 Constant e la democrazia dei moderni 1
1.1.1 La libertà degli antichi e dei moderni 2
1.1.2 Necessità e rischi della democrazia rappresentativa 4
1.1.3 Democrazia ed esclusione 6
1.2 Tocqueville e gli ‘istinti selvaggi’ della democrazia 8
1.2.1 La democrazia come destino 8
1.2.2 Onnipotenza e volgarità della democrazia 11
1.2.3 Un rimedio alla volgarità: l’elezione a doppio grado 13
1.2.4 La tirannia della maggioranza 15
1.2.5 Apatia e dispotismo 18
Capitolo II
La critica marxiana della democrazia 23
2.1 Il metodo materialistico 24
2.2 L’affermazione della società borghese 26
2.3 La democrazia borghese e l’emancipazione politica 29
2.4 Il formalismo della democrazia borghese 30
2.5 Verso l’emancipazione umana 32
viii La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
Capitolo III
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 37
3.1 Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte 37
3.1.1 Le libertà borghesi e i pericoli dell’autogoverno 38
3.1.2 Le basi sociali del bonapartismo 41
3.1.3 Caratteri generali del bonapartismo 44
3.2 Max Weber e la democrazia cesaristico-plebiscitaria 46
3.2.1 Democratizzazione e burocratizzazione 47
3.2.2 La «parità di destini» del cittadino moderno 49
3.2.3 La democrazia di massa 51
3.2.4 Il potere carismatico 54
3.2.5 Il diritto al suicidio della democrazia 57
Capitolo IV
La critica elitista della democrazia 59
4.1 Gaetano Mosca e la superstizione democratica 59
4.1.1 La teoria della classe politica 60
4.1.2 La formula politica 62
4.1.3 La difesa giuridica 63
4.1.4 Il rifiuto della democrazia 65
4.2 Pareto e l’ideologia democratica 67
4.2.1 L’irrazionalità dell’agire umano 67
4.2.2 La derivazione democratica 68
4.2.3 La circolazione delle élite 70
4.2.4 Le trasformazioni della democrazia 72
4.3 Roberto Michels e la sociologia del partito politico 74
4.3.1 Le tendenze aristocratiche dell’organizzazione 74
4.3.2 La leadership professionale 75
Capitolo V
Apogeo e critica della socialdemocrazia 79
5.1 La nuova era della democrazia postbellica 79
5.2 L’ipotesi riduzionista di Schumpeter 81
5.2.1 Aporie del popolo democratico 83
5.2.2 Democratici per definizione 85
5.2.3 Critica della volontà popolare e del bene comune 86
5.2.4 La democrazia reale 88
5.2.5 Una democrazia maggioritaria e competitiva 89
Sommario ix
Capitolo VI
Verso la postdemocrazia? 109
6.1 La democrazia dei partiti e la sua crisi 110
6.1.1 L’avvento della democrazia dei partiti 110
6.1.2 La crisi dei partiti democratici 113
6.1.3 Il ritorno del cesarismo 116
6.1.4 L’apatia e la tentazione antipolitica 118
6.2 Globalizzazione e crisi delle democrazie nazionali 119
6.2.1 La pressione delle aziende globali 120
6.2.2 La dismissione del welfare 122
6.2.3 La commercializzazione della cittadinanza 123
6.3 Democrazia ed esclusione nell’era globale 125
6.3.1 Lo status di cittadino 125
6.3.2 Dialettica della cittadinanza 127
6.3.3 Esclusione, sfruttamento, razzismo. 129
6.3.4 I confini della democrazia 132
Conclusione 135
Bibliografia 147
Ringraziamenti
1
Cfr. S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 1997.
2
Pubblicato per la prima volta nel 2003 sulla rivista «The New Republic», la traduzione
italiana è contenuta in A. Sen, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione
dell’Occidente, Mondadori, Milano 2004.
3
Sono le parole dello stesso S.P. Huntington, La terza ondata. I processi di democratizzazione alla
fine del XX secolo, Il Mulino, Bologna 1995, p. 32.
xiv La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
4
Ivi, p. 29.
5
Questa cinica conclusione non stupisce se si pensa che la tardiva scelta di campo di Hun-
tington a favore della democrazia è tutta costruita intorno al riconoscimento del maggiore
potenziale di controllo sociale che essa possiede rispetto ad altri sistemi politici (cfr. S. P. Hun-
tington, La terza ondata, cit., pp. 50-51). Con ciò egli rimane fedele agli ideali proclamati in gio-
ventù, quando – plaudendo alle dittature che fiorivano nel mondo liberato dal giogo coloniale
occidentale – aveva chiarito di considerare di gran lunga più importante la capacità di un
governo di garantire un adeguato «livello di governabilità» e di «ordine» rispetto alla questio-
ne del tutto formale della sua legittimità democratica (cfr. S.P. Huntington, Political Order in
Changing Societies, Yale University Press, New Haven 1968).
6
L. Canfora, Critica della retorica democratica, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 17. La critica del
principio maggioritario, volta a mostrare come l’essere in molti non comporti, di per sé, che
si abbia la buona ragione dalla propria parte non sembra sfiorare Huntington. Essa è stata un
luogo comune della trattatistica politica nelle epoche dei fascismi. Per rimanere in Italia, si
pensi a Edoardo Ruffini e al suo Principio maggioritario, pubblicato per la prima volta nel 1927.
Per Ruffini, che quando scrive ha davanti agli occhi il plebiscitarismo fascista, il principio arit-
metico della maggioranza non può essere assunto come valore assoluto e tale da recare in se
stesso le ragioni della propria legittimazione. La sua genesi poi, è tutt’altro che legata all’am-
bito culturale democratico, affondando le sue radici piuttosto negli ordinamenti ecclesiastici e
imperiali medioevali. E. Ruffini, Il principio maggioritario. Profilo storico, Adelphi, Milano 1987.
Introduzione xv
7
A. Sen, La democrazia degli altri, cit., p. 8.
8
È in perfetto accordo con queste conclusioni che Fareed Zakarias, all’epoca direttore di Fo-
reign Affairs ed editorialista di Newsweek, spaventato dal pericolo del diffondersi nei paesi
non occidentali di forme di governo ‘ragionevolmente’ democratiche dal punto di vista del-
le istituzioni elettorali, ha ritenuto di poter aggiornare il cinismo di Huntington sostenendo
che «Democracy without constitutional liberalism is not simply inadequate, but dangerous,
bringing with it the erosion of liberty, the abuse of power, ethnic divisions, and even war». In
realtà, ricongiungendosi con la più antica lezione hungtintoniana ciò gli serve a dimostrare
in primo luogo che non ogni governo ‘democraticamente’ eletto debba essere rispettato, e in
secondo luogo che il governo migliore per i paesi non occidentali non è necessariamente la de-
mocrazia: «Despite the limited political choice they offer, countries like Singapore, Malaysia,
and Thailand provide a better environment for the life, liberty, and happiness of their citizens
than do either dictatorships like Iraq and Libya or illiberal democracies like Slovakia or Gha-
na» (F. Zakarias, The rise of illiberal democracies, «Foreign Affairs», LXXVI, 6, 1997, pp. 22-43.).
Sul modello antipolitico di Singapore si veda l’articolo di Danilo Zolo, The «Singapore Model»:
Democracy, Communication, and Globalization, in K. Nash, A. Scott, The Blackwell Companion to
Political Sociology, Blackwell Publishing, Oxford 2004.
9
A. Sen, La democrazia degli altri, cit., p. 40. Al di là dei proclami culturalisti, è lo stesso Hun-
tington a spiegare la ragione per la quale egli preferirebbe che i confini della democrazia non
venissero estesi oltre i confini dell’Occidente: «libere elezioni produrrebbero quasi certamente
governi molto meno rispondenti agli interessi occidentali rispetto ai loro predecessori non
democratici» (S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà, cit. p. 289).
xvi La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
10
D. Graeber, Critica della democrazia occidentale. Nuovi movimenti, crisi dello Stato, democrazia
diretta, Elèuthera, Milano 2012, p. 35.
11
Ivi, p. 55.
12
Ivi, p. 57.
13
Cfr. D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma 2004.
14
Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Rusconi, Milano 1996.
15
È ciò a cui alludeva Luigi Ferrajoli parlando di democrazia integralistica e/o integrazio-
nistica: L. Ferrajoli, Esiste una democrazia rappresentativa? In L. Ferrajoli, D. Zolo, Democrazia
autoritaria e capitalismo maturo, Feltrinelli, Milano 1978, p. 36.
Introduzione xvii
16
J. Rancière, L’odio per la democrazia, Cronopio, Napoli 2007, p. 8.
17
Cfr. L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari 2004; R.A. Dahl, La
democrazia e i suoi critici, Editori Riuniti, Roma 1990.
18
«Un parlamento composto da deputati indipendenti deve essere formato, secondo l’idea
su cui il parlamentarismo rappresentativo riposa, dai migliori, dall’ “élite”, dall’aristocrazia
di spirito del popolo. Nell’ambito del parlamentarismo, le elezioni hanno proprio la funzio-
ne di far emergere le personalità che si distinguono per “spirito, intelligenza e cultura”» (G.
Leibholz, Stato dei partiti e democrazia rappresentativa. Considerazioni intorno all’articolo 21 e all’ar-
ticolo 38 della Legge Fondamentale di Bonn, in Id., La rappresentazione nella democrazia, a cura di
Simona Forti, introduzione di Pietro Rescigno, Giuffré, Milano 1989, p. 384).
xviii La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
19
Cfr. Platone, Protagora, 319 C-322 D.
20
J. Rancière, L’odio per la democrazia, cit., p. 51.
21
Ivi, pp. 57-58.
22
Yves Sintomer parla qui di un vero e proprio ‘enigma storico’, un enigma complicato dal
Introduzione xix
fatto che le esperienze delle giurie popolari fornivano l’evidenza dell’applicabilità del mecca-
nismo della sorte a questioni di immediata rilevanza politica in società di grandi dimensioni.
Per Sintomer, tra gli altri motivi pesò anche l’assenza di strumenti statistici adeguati a giunge-
re all’elaborazione del concetto di campione rappresentativo. Cfr. Y. Sintomer, Il potere al popolo,
Dedalo, Bari 2009.
23
A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, Il federalista Raccolta di saggi scritti in difesa della Costituzione
degli Stati Uniti d’America approvata il 17 settembre 1787 dalla Convenzione federale, Introduzione
di Gaspare Ambrosini; con appendici di Guglielmo Negri, Mario D’Addio, Nistri Lischi, Pisa
1955, pp. 61-62.
24
«D’altronde la differenza di qualità intrinseche di ciascun uomo, che rappresenta la fonte
dei diritti di proprietà, configura un ostacolo parimenti insuperabile ad una eventuale unifor-
mità di interessi. Prima cura di ogni governo dovrà, infatti, essere la salvaguardia di queste
qualità individuali» (ivi, p. 58) e dei possessi diseguali che ne scaturiscono. La diseguaglianza
nel possesso costituisce a sua volta la causa necessaria della faziosità umana. Nell’interpreta-
zione di Madison, la faziosità è «intessuta nella natura stessa dell’uomo», una natura acquisi-
tiva e competitiva, che il sistema ha il compito, complessivamente, di difendere.
xx La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
Sarà assai più difficile che una follia volta a ottenere che venga emessa
carta moneta, o aboliti i debiti o divisa pariteticamente la proprietà, o infine
che si metta in atto qualsiasi altro progetto insensato ed impossibile, si dif-
fonda in tutta l’Unione piuttosto che in una parte di essa; così come è assai
più facile che tale malanno pervada una zona o un distretto particolare, piut-
tosto che un intero stato26.
25
Ivi, p. 62. Cfr. anche il saggio n.° 14: «in democrazia il popolo si raduna e governa diretta-
mente, mentre in un regime repubblicano esso si riunisce ed amministra il potere attraverso i
propri rappresentanti e delegati» (ivi, p. 84).
26
Ivi, p. 65.
27
E.-J. Sieyès, Dire de l’abbé Sieyès sur la question du Veto royal, à la séance du 7 septembre 1789,
Paris 1789, p. 14.
28
Ivi, p. 15.
Introduzione xxi
29
Ivi, p. 14.
30
G. Zagrebelsky, Imparare democrazia, Einaudi, Torino 2007, p. 3.
31
E. Hobsbawn, Il secolo breve 1914-1991, Rizzoli, Milano 2006.
32
M. Salvadori, Democrazie senza democrazia, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 4.
33
F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2003.
xxii La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
34
Ciò risulta graficamente evidente dalla mappa reperibile all’indirizzo: <http://upload.wiki-
media.org/wikipedia/commons/c/c4/Democracy_claims.svg> (08/12).
35
«The survey, which includes both analytical reports and numerical ratings, measures
freedom according to two broad categories: political rights and civil liberties. Political rights
ratings are based on an evaluation of three subcategories: electoral process, political plurali-
sm and participation, and functioning of government. Civil liberties ratings are based on an
evaluation of four subcategories: freedom of expression and belief, associational and organi-
zational rights, rule of law, and personal autonomy and individual rights». Nel 1989 i paesi
presi in considerazione erano 167, nel 2011 195. Cfr. Freedom House’s Annual Survey of Political
Rights and Civil Liberties, <http://www.freedomhouse.org/report/freedom-world/freedom-
world-2012> (08/12).
36
Trentasette paesi avrebbero un regime ibrido, cinquantadue un governo autoritario. Dall’a-
nalisi sono esclusi programmaticamente i micro-stati. «The Economist Intelligence Unit’s in-
dex of democracy, on a 0 to 10 scale, is based on the ratings for 60 indicators grouped in five
categories: electoral process and pluralism; civil liberties; the functioning of government; po-
litical participation; and political culture. Each category has a rating on a 0 to 10 scale, and the
overall index of democracy is the simple average of the five category indexes». Cfr. Democracy
Index 2011. Democracy under stress, The Economist Intelligence Unit Limited 2011. Il report è
scaricabile a partire dall’indirizzo: <https://www.eiu.com/public/topical_report.aspx?campai
gnid=DemocracyIndex2011> (08/12).
Introduzione xxiii
37
Cfr. L. Diamond, The Democratic Rollback. The Resurgence of the Predatory State, «Foreign Af-
fairs», LXXXVII, 2, 2008, pp. 36-48.
38
Secondo un sondaggio realizzato nell’ottobre 2011 da Demos per il quotidiano La Repubbli-
ca (Demos & Pi, Gli italiani e lo Stato. Rapporto 2011) solamente l’8,9% (in calo dal 13,4% della
rilevazione risalente al 2010) degli italiani dichiara di avere fiducia nel Parlamento. Ancora
minore è il numero degli italiani che hanno fiducia nei partiti: il 3,9% (contro il 7,7% del 2010).
La sfiducia nelle istituzioni democratiche trova però forse la sua più palese evidenza nel giu-
dizio di quel 27,2% degli italiani che ritengono che non vi siano sostanziali differenze tra un
sistema democratico ed uno autoritario (Demos & Pi, Focus su Gli italiani e la democrazia, 7 no-
vembre 2011). Le due inchieste qui citate sono disponibili all’interno del sito di Demos: <http://
www.demos.it> (08/12).
39
Cfr. L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2011; L. Gal-
lino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma Bari 2000; G. Arrighi, Capitalismo e (dis)
ordine mondiale, Manifestolibri, Roma 2010; D. Zolo, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, La-
terza, Roma-Bari 2004; U. Beck, Che cos’è la globalizzazione: rischi e pericoli nella società planetaria,
Carocci, Roma 1999; I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, III vol., il Mulino,
Bologna 1978-1982-1995.
xxiv La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
l’epoca del trionfo della democrazia o quella della sua più profonda crisi? E
quale futuro possiamo immaginare per le nostre istituzioni democratiche?
Sono all’altezza delle sfide dei tempi in cui viviamo o si impone la necessità
di una loro riforma?
***
40
A riguardo rimando al lavoro di Lorenzo Cini, Società civile e democrazia radicale, di prossima
pubblicazione per Firenze University Press.
Introduzione xxv
41
C. Galli, Il disagio della democrazia, Einaudi, Torino 2011, p. 80.
42
Cfr. la Prefazione a H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, in Id., La democrazia, Il Mulino,
Bologna 1995.
43
M. Salvadori, Democrazie senza democrazia, cit.
44
Cfr. U. Allegretti, Democrazia partecipativa. Esperienze e prospettive in Italia e in Europa, FUP,
xxvi La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
Firenze 2010; Y. Sintomer, G. Allegretti, I bilanci partecipativi in Europa. Nuove esperienze demo-
cratiche nel vecchio continente, Ediesse, Roma 2009; G. Allegretti, L’insegnamento di Porto Alegre.
Autoprogettualità come paradigma urbano, Alinea editrice, Firenze 2003; M.-H. Bacqué, H Rey,
Y. Sintomer, Gestion de proximité et démocratie participative, La Découverte, Paris 2005; M. Gret,
Y. Sintomer, Porto Alegre: l’espoir d’une autre democratie, La Decouverte, Paris 2002; B. de Sousa
Santos, Democratizzare la democrazia. I percorsi della democrazia partecipativa, Città Aperta, Troina
2003.
45
Secondo Francis Dupuis-Déri l’essere riusciti a piegare la parola democrazia a strumento
di legittimazione di un sistema politico essenzialmente antidemocratico è stato il risultato di
una operazione di cosciente marketing politico condotta nei primi decenni dell’Ottocento da
un’élite agorafobica, un’operazione che può essere considerata come il capolavoro della pro-
paganda politica moderna. Cfr. F. Dupuis-Déri, L’esprit antidémocratique des fondateurs de la
démocratie moderne, «AGONE», 22, 1999, pp. 95-114.
Capitolo I
1
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, Einaudi, Torino 1994, p. 92.
2
«[…] quante cose difficili a riunire non presuppone un tale governo! Innanzi tutto uno Stato
molto piccolo, in cui sia facile per il popolo radunarsi, e in cui ogni cittadino possa facilmente
conoscere tutti gli altri; in secondo luogo una grande semplicità di costumi che prevenga
il moltiplicarsi dei problemi e le discussioni spinose; inoltre, una grande uguaglianza nei
gradi e nelle fortune, senza di che l’uguaglianza non potrebbe sussistere a lungo nei diritti e
nell’autorità; infine niente, o quasi niente, lusso; perché o il lusso è l’effetto delle ricchezze, o
le rende necessarie; esso corrompe nello stesso tempo il ricco e il povero, l’uno con il possesso,
l’altro con la cupidigia; vende la patria alla mollezza, alla vanità; toglie allo Stato tutti i
cittadini per asservirli gli uni agli altri, e tutti all’opinione» (ivi, p. 93).
3
Ivi, p. 92.
2 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
Presso i Greci, tutto quello che il popolo doveva fare lo faceva da sé; esso
era continuamente adunato nella piazza. Abitava in un clima dolce; non era
avido; gli schiavi facevano i suoi lavori; il suo grande problema era la liber-
tà4.
Quel risarcimento per noi oggi non esiste più. Perso nella moltitudine,
l’individuo non avverte quasi mai l’influenza che esercita. Mai la sua volon-
tà s’imprime sull’insieme; niente prova ai suoi propri occhi la sua coopera-
zione6.
4
Ivi, p. 128.
5
B. Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, Einaudi, Torino 2005, p. 15.
6
Ivi, p. 16.
La critica liberale della democrazia 3
Il fine degli antichi era la suddivisione del potere sociale fra tutti i cittadi-
ni di una stessa patria: era questo che chiamavano libertà. Il fine dei moderni
è la sicurezza nei godimenti privati; e chiamano libertà le garanzie accordate
dalle istituzioni a questi godimenti9.
7
Anche in questo caso Constant riprende sviluppandola un’intuizione di Rousseau.
8
Cfr. H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 1994.
9
B. Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, cit., p. 16.
10
J. Locke, Due Trattati sul governo, a cura di B. Casalini, PLUS, Pisa 2007. Anche Pietro
Costa riconosce in Locke una pietra miliare della teoria politica moderna, suggerendo però
4 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
come esso si fondi su di una terza figura della libertà, ulteriore a quelle dell’immunità e
della partecipazione opposte dal discorso di Constant. Questa terza figura sarebbe la libertà-
proprietà, ossia la libertà intesa come poter fare o meglio ancora come poter accumulare: cfr.
P. Costa, Libertà e ordine nell’età moderna, in C. Altini (a cura di), Democrazia. Storia e teoria di
un’esperienza filosofica, Il Mulino, Bologna 2011; C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini
del pensiero borghese, ISEDI, Milano 1973; D. Costantini, La passione per la solitudine. Una lettura
del Secondo trattato sul governo di John Locke, Il Poligrafo, Padova 2003.
11
B. Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, cit., p. 6.
12
Ivi, p. 32.
13
Dalla sterminata letteratura sull’argomento rimando qui solo a uno studio classico e un’agile
sintesi: M. Pohlenz, La libertà greca, Paideia, Brescia 1963; Ch. Meier, P. Veyne, L’identità del
La critica liberale della democrazia 5
vata, ma vivrebbe le richieste di prender parte alla gestione della cosa pub-
blica come un disturbo o un fastidio, un’inopportuna intromissione nella
sfera della sua indipendenza individuale, nella quale l’individuo persegue
la propria autentica libertà e felicità. Se dunque un antico si poteva credere
tanto più libero quanto più prendeva parte alla vita pubblica, per un mo-
derno una società politica sarà tanto migliore quanto più tempo lascerà
all’individuo per coltivare i propri interessi privati, nei quali soltanto egli
realizza se stesso.
Constant individua qui precocemente la radice di quel rischio tipi-
co delle democrazie rappresentative moderne che è l’apatia politica. Che
il fenomeno dell’apatia sia intimamente connaturato alle istituzioni rap-
presentative appare chiaramente se si considera che è esattamente dalla
considerazione del carattere oneroso e disturbante della partecipazione diret-
ta alla politica per un individuo teso alla ricerca di una felicità di carattere
essenzialmente privato, che Constant ricava la necessità di un governo di
tipo rappresentativo. Di un governo rappresentativo, ossia di «un’organiz-
zazione mediante la quale una nazione si affida ad alcuni individui per
ciò che non può o non vuole fare essa stessa»14, hanno bisogno infatti tutte le
nazioni moderne, e questo, come abbiamo visto per un doppio ordine di
motivi: da un lato esse non possono essere governate direttamente, perché
troppo vaste per poter prevedere una partecipazione diretta di tutti gli in-
dividui che le compongono alla vita pubblica; dall’altro esse devono esse-
re governate rappresentativamente, poiché i cittadini moderni non vogliono
essere distratti dall’onerosa attività della politica dal perseguimento delle
proprie individuali felicità. È così che instaurare un sistema rappresenta-
tivo, in cui il popolo dà mandato ai propri rappresentanti di fare i propri
interessi è per Constant il solo «al cui riparo ci sia oggi possibile trovare
un po’ di libertà e di quiete»15. Per questo, per quanto esso contenga in sé
il rischio dell’apatia, il governo rappresentativo è per Constant il risultato
davvero benefico della Rivoluzione francese.
Il carattere specificamente privato della libertà che i moderni vogliono
sopra ogni altra cosa tutelare rende necessaria l’invenzione della demo-
crazia rappresentativa, una forma di governo ignota agli antichi. In una
democrazia rappresentativa i soli ma decisivi poteri politici che i cittadini
conservino sono da un lato quello di eleggere, e dall’altro quello di control-
lare l’operato dei propri rappresentanti, che possono essere allontanati nel
caso abbiano disatteso le aspettative attraverso apposite procedure giudi-
ziarie o alla prima scadenza elettorale. La concezione minima di democra-
zia fatta propria da Popper ne La società aperta e i suoi nemici, che ne fa un
sistema che permette non già un utopistico esercizio diretto della volontà
Nessun popolo ha considerato come membri dello Stato tutti gli indi-
vidui che risiedano come che sia sul suo territorio. Non si tratta qui delle
distinzioni che, presso gli antichi separavano gli schiavi dagli uomini liberi
e che, presso i moderni, separano i nobili dai plebei. La democrazia più as-
soluta stabilisce due classi. Nell’una sono relegati gli stranieri e coloro che
non hanno raggiunto l’età prescritta dalla legge per esercitare i diritti politici;
l’altra è composta degli uomini nati nel paese che hanno raggiunto tale età.
L’esclusione dalla piena titolarità dei diritti politici di parti della popo-
lazione è a suo avviso una costante di tutti i regimi politici, compresa la
democrazia. L’esclusione dei minori e degli stranieri residenti ne è la prova
più evidente. Questa doppia esclusione viene giustificata a partire dal fatto
che «per essere membro di un’associazione bisogna avere un certo grado di
lumi e un interesse comune con gli altri membri»18: la mancanza dei primi
giustifica l’esclusione dei minori, quella del secondo dà ragione dell’esclu-
sione degli stranieri. Lo stesso fatto che il suffragio universale potesse legit-
16
Cfr. K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Armando Editore, Roma 1974.
17
B. Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, cit., pp. 34-35.
18
B. Constant, Principi di politica, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 99.
La critica liberale della democrazia 7
timamente – per quella che era, salvo rarissime eccezioni19, l’aria dei tempi
– escludere la popolazione femminile era letto da Constant come la prova
del fatto che esso non rappresentava in alcun modo la soddisfazione di un
diritto naturale, ma ricopriva una «funzione politica»20 che per poter essere
adeguatamente esercitata implicava un necessario atto di discriminazione
attraverso il quale separare i cittadini pleno jure dalla massa complessiva
della popolazione.
In questo contesto per Constant era particolarmente importante che le
classi popolari fossero tenute al di fuori dei meccanismi della rappresen-
tanza politica, imponendo delle restrizioni di tipo censitario alla concessione
dei diritti politici:
19
Tra le più notevoli c’è la figura di Olympe de Gouges, autrice nel 1791 di una Déclaration
des droits de la femme et de la citoyenne. Cfr. R. Cavicchioli, I percorsi dell’emancipazionismo: la
costruzione della cittadina nell’opera di Mary Wollstonecraft e Olympe De Gouges, «Bollettino
telematico di Filosofia Politica», <http://purl.org/hj/bfp/218> (04/11).
20
B. Constant, Principi di politica, cit., p. 99.
21
Ivi, p. 100.
22
Cfr. il primo capitolo di D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del
suffragio universale, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
8 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
23
Per Constant la sola proprietà che dà titolo al godimento dei diritti politici deve essere
quella fondiaria, la sola a suo avviso ad avere la stabilità necessaria a legare il suo possessore
all’interesse comune, creando «il patriottismo mediante l’interesse» (B. Constant, Principi
di politica, cit., p. 104). Rifacendosi a Germain Garnier, traduttore e commentatore di Adam
Smith, Constant individua la soglia dell’ammissibilità alla piena cittadinanza politica nel
possesso di redditi terrieri sufficienti a vivere senza dover lavorare. Cfr. ivi, pp. 102-107.
24
Ivi, p. 100.
La critica liberale della democrazia 9
25
A. de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione, in Id., Scritti politici, Vol. I, UTET, Torino
1968.
26
Si veda ad esempio l’Introduzione a La democrazia in America, nella quale Tocqueville ricorda
con accento quasi commosso i numerosi «vantaggi» che la società godeva in epoca pre-
democratica, un’epoca nella quale il potere dei nobili equilibrava quello dei re, concorrendo
ad evitare ogni deriva tirannica e garantendo «stabilità, potenza e, soprattutto, gloria» al
corpo sociale. Nella lettura che Tocqueville dà della società di ancien régime sono le stesse
differenze di statuto che separano il popolo dalla classe dirigente a garantirne il maggior
benessere, e ciò in virtù di quel «particolare interesse benevolo e tranquillo, che il pastore ha
per il suo gregge»: cfr. A. de Tocqueville, La democrazia in America, in Id., Scritti politici, Vol. II,
cit., p. 21.
27
Ivi, p. 17.
10 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
28
Ivi, p. 16.
29
Ivi, p. 19.
30
Ivi, p. 20.
31
Ibidem.
La critica liberale della democrazia 11
Si veda tra tutti E.-J. Sieyès, Che cos’è il terzo Stato?, Editori Riuniti, Roma 1989.
33
34
«Le assemblee legislative inghiottono ogni giorno qualche residuo dei poteri di governo e
tendono a riunirli tutti in sé stesse, come aveva fatto la Convenzione. […] Spesso gli accade
di mancare di saggezza e di previdenza perché troppo potente. In questo consiste il vero
pericolo. È dunque a causa della sua stessa forza, e non già della sua debolezza, che esso
rischierà un giorno di perire» (A. de Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 112).
35
Ivi, p. 789.
La critica liberale della democrazia 13
36
Ivi, pp. 236-237.
37
«Non bisogna nascondersi che le istituzioni democratiche sviluppano a un altissimo grado
il sentimento dell’invidia nel cuore umano. […] Le istituzioni democratiche risvegliano e
lusingano il desiderio dell’eguaglianza, senza poterlo mai soddisfare interamente. Questa
eguaglianza completa sfugge ogni giorno dalle mani del popolo nel momento in cui esso
crede di afferrarla, e fugge, come dice Pascal, in una fuga eterna: il popolo si accalora nella
ricerca di questo bene tanto più prezioso, in quanto è abbastanza vicino per essere conosciuto
e abbastanza lontano per non farsi essere affatto assaporato. La probabilità di riuscire lo
emoziona, l’incertezza del successo lo irrita: esso si agita, si stanca, si inasprisce. Tutto ciò che
in qualche modo lo supera, gli pare allora un ostacolo ai suoi desideri, e non c’è superiorità,
anche legittima, la cui vista non affatichi i suoi occhi» (ivi, p. 237).
38
Ivi, p. 240.
14 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
È qui che Tocqueville affronta più direttamente uno dei più pericolosi
‘istinti selvaggi’ della democrazia: il rischio che essa, non prevedendo al-
cun adeguato dispositivo di mediazione della volontà popolare, si configu-
ri come un’autentica tirannia della maggioranza.
39
Penso qui ad esempio alla marmorea fiducia nelle istituzioni rappresentative che ne ricava
Nadia Urbinati, Democrazia rappresentativa, Donzelli, Roma 2010. Oppure alla sottolineatura
del potere di resistenza della società democratica extra-istituzionale fatta da P. Rosanvallon, La
contre-démocratie, la politique à l’age de la défiance, Seuil, Paris 2006. Sulla questione dell’opinione
pubblica rimando al classico J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza,
Roma-Bari 2005. Per una lettura critica del concetto di rappresentazione si vedano invece G.
Duso (a cura di), Oltre la democrazia: un’itinerario attraverso i classici, Carocci, Roma 2004; B.
Manin, Principi del governo rappresentativo, Il Mulino, Bologna 2010; H. Pitkin, The Concept of
Representation, University of California Press, Berkeley 1967; G. Leibholz, La rappresentazione
nella democrazia, cit.
40
A. de Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 293.
41
Ivi, p. 299.
42
Ivi, p. 292.
La critica liberale della democrazia 15
A due passi di là si apre l’aula del senato, il cui stretto recinto racchiude
una gran parte delle celebrità dell’America. Difficilmente vi si scorge un solo
uomo che non richiami l’idea di una persona illustre. Sono eloquenti avvo-
cati, generali eminenti, abili magistrati o uomini di stato assai noti. Ogni
parola che esce da questa assemblea farebbe onore ai più grandi dibattiti
parlamentari di Europa43.
Abbiamo visto come il nucleo della logica politica democratica stia per
Tocqueville nella costruzione di un potere unico e centralizzato che emana
direttamente dagli individui e li governa attraverso una legislazione unifor-
Ivi, p. 240.
43
Ivi, p. 241.
44
16 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
me. Una volta costituito il potere statale tende ad aumentare le sue prero-
gative, occupando gli spazi di potere lasciati vuoti dalla soppressione dei
poteri secondari, e andando a colonizzare spazi sempre più ampi della vita
sociale. La tirannia della maggioranza non si esplica infatti solo sul piano
delle istituzioni politiche, ma anche e ben più in profondità sul piano dei
costumi, producendo effetti di inusitato conformismo sociale. L’uniformità
della legislazione, in questo senso, funziona come un potentissimo stru-
mento di omogeneizzazione dei costumi. Attraverso di essa
[…] si abituano gli uomini a far una completa e continua astrazione dalla
loro volontà, ad obbedire, non una volta sola e su un sol punto, ma sempre e
in tutto. Non solo essa doma gli individui con la forza ma li tiene anche con
le loro abitudini; li isola e quindi li afferra uno per uno dalla massa comune45.
Ivi, p. 109.
45
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Introduzione di Alberto Martinelli, con un saggio di
47
48
A. de Tocqueville, La democrazia in America, cit., pp. 800-801.
49
Cfr. M. Foucault, Biopolitica e liberalismo, Medusa, Milano 2001.
50
A. de Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 788.
51
Ivi, p. 789.
18 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
52
Ivi, p. 809.
53
Ibidem.
54
Ivi, p. 788.
55
Ivi, p. 802.
56
Ivi, p. 867.
La critica liberale della democrazia 19
degli individui, ma per farlo distrugge i legami che univano gli uomini
tra di loro; gli individui, isolati nelle rispettive solitudini, si scoprono più
deboli ed è proprio questa loro nuova la debolezza che rende sempre più
necessaria la presenza tutelare dello stato. Essi che «sopportano così con
tanta difficoltà un superiore» si dispongono a «tollerare pazientemente un
padrone e mostrarsi al contempo fieri e servili»57. Per liberarsi da quei lega-
mi di dipendenza dai loro simili che ne impedivano la libertà, gli individui
si dispongono ad accettare una nuova forma di servitù, amministrata dallo
stato che rimane l’unico e necessario sostegno della debolezza e della soli-
tudine di ciascuno. Tocqueville descrive così la forma di questa peculiare
servitù dei moderni:
57
Ivi, p. 790.
58
Ivi, p. 812.
59
Ivi, p. 813.
60
Ivi, p. 814.
20 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
Invano incaricherete questi medesimi cittadini, che avete resi così dipen-
denti dal potere centrale, di scegliere di quando in quando i rappresentanti
di tale potere; quest’uso così importante, ma così breve e così raro, del loro
libero arbitrio, non impedirà che essi perdano poco alla volta la facoltà di
pensare, di sentire e d’agire da soli e li lascerà, e che cadano così gradual-
mente al di sotto del livello umano61.
61
Ibidem.
62
Ivi, p. 813.
63
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., p. 129. «Il popolo inglese crede bensì di essere libero,
ma si sbaglia di grosso; non è tale che durante l’elezione dei membri del Parlamento: appena
questi siano eletti, esso è schiavo, non è più niente. Nei brevi momenti della sua libertà, l’uso
che ne fa gli merita bene che la perda» (ivi, p. 127).
64
In altro senso, le contromisure proposte da Tocqueville non differiscono molto da quelle
che già abbiamo incontrato con Constant. In buona sostanza anche Tocqueville pensa che
l’educazione e la partecipazione, oltre che la libertà della stampa, siano potenti antidoti al
dispotismo. Attraverso di esse si tratta di porre freno all’apatia, ricostruendo quei «legami»
che la modernizzazione egualitaria ha spazzato via. Si tratta di tessere rapporti di associazione
capaci di contrastare l’onnipotenza del potere governativo democratico. Si tratta di favorire
La critica liberale della democrazia 21
Per governare la democrazia impedendo che essa cada vittima dei pro-
pri istinti più selvaggi – è questa in definitiva la lezione di Tocqueville –
è necessario sottomettere rigidamente il principio democratico a quello
rappresentativo.
l’associazionismo sociale e politico, oltre che la responsabilità dei singoli: di ricostruire almeno
parzialmente ciò che l’inarrestabile incedere dell’egualitarismo ha distrutto, resistendo in
questo modo al tirannico conformismo della maggioranza. Su questi temi alcune pagine molto
interessanti sono quelle che Tocqueville dedica a descrivere il decentramento amministrativo
tipico della democrazia americana, e in particolar modo il funzionamento dei Comuni, nei
quali si scorge il profilo di una democrazia più diretta e partecipata di quella che prende
forma nelle istituzioni federali.
Capitolo II
La critica marxiana della democrazia
Per venire a capo degli istinti selvaggi della democrazia Tocqueville, co-
me abbiamo visto, consigliava di rinforzare il carattere «rappresentativo»
delle istituzioni democratiche. Di tutt’altro avviso è Karl Marx, che anzi
incentra l’essenziale della propria critica alla democrazia proprio sul ca-
rattere distorcente delle istituzioni rappresentative della democrazia libe-
rale1. Il rischio insito nelle istituzioni democratiche non è per Marx quello
di dipendere troppo direttamente dalla volontà popolare ma, esattamente
all’inverso, quello di essere incapaci di esprimerla in maniera autentica. Il
meccanismo della rappresentanza, che per Tocqueville era l’antidoto al ri-
schio di una democrazia dispotica, viene esposto da Marx ad una critica fe-
roce secondo la quale la rappresentanza, lungi dal mettere la democrazia al
riparo dalle proprie tendenze patologiche, costituisce il cuore della sua più
diffusa patologia. Nell’idea marxiana le istituzioni della democrazia rap-
presentativa funzionano come uno schermo deformante, capace di piegare
l’appello alla volontà del popolo a strumento di legittimazione dell’ordine
sociale esistente e dei suoi privilegi.
Tenterò qui di seguito di seguire il filo della critica filosofica di Marx al
formalismo della democrazia borghese facendo riferimento in modo parti-
colare alle posizioni espresse in Sulla questione ebraica. Nel prossimo capi-
tolo ripartiremo ancora da Marx, seguendo però un altro approccio, che ci
porterà a considerarne la critica delle istituzioni democratiche da un punto
di vista ulteriore, un punto di vista di tipo non teorico ma storico.
Marx, Laterza, Roma-Bari 2002; N. Merker, Karl Marx. Vita e opere, Laterza, Roma-Bari 2011; D.
McLellan, Marx, Il Mulino, Bologna 1998.
24 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
La critica della religione finisce con la dottrina per cui l’uomo è per l’uomo
l’essere supremo, dunque con l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti
nei quali l’uomo è un essere degradato, abbandonato, spregevole, rapporti
che non si possono meglio raffigurare che con l’esclamazione di un francese
di fronte a una progettata tassa sui cani: poveri cani! Vi si vuole trattare come
uomini!
La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quan-
to le forme dello Stato non possono essere compresi né per sé stessi, né per la
cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici,
piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza il cui complesso viene abbrac-
ciato da Hegel, seguendo l’esempio degli inglesi e dei francesi del secolo
XVIII, sotto il termine di «società civile»; e che l’anatomia della società civile
è da cercare nell’economia politica3.
2
K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in Id. La questione ebraica e
altri scritti giovanili, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 101.
3
K. Marx, Introduzione a Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1971 (III ed.),
p. 4.
La critica marxiana della democrazia 25
struttura economica della società stessa, ossia i rapporti materiali che inter-
corrono tra gli individui che la costituiscono, rapporti attraverso i quali la
società stessa si garantisce la propria produzione e riproduzione. Rispetto
a questi rapporti materiali, che in ultima istanza4 sono quelli determinanti,
la dimensione politica appare come una dimensione secondaria e derivata,
una dimensione che Marx definisce sovrastrutturale:
Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rap-
porti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di
produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle
loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione
costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale
si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono
forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita
materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale
della vita5.
4
L’espressione ricorre in una lettera di Engels a J. Bloch del 21 settembre 1890 che così pro-
segue: «Se ora uno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l’unico fattore
determinante, egli trasforma questa proposizione in una frase vuota, astratta, assurda. La si-
tuazione economica è la base, ma i diversi momenti della sovrastruttura […] esercitano pure
la loro influenza sul corso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano la forma in modo
preponderante. […] Il fatto che i giovani talora annettono al lato economico un’importanza
maggiore di quello che gli spetta, è in parte colpa di Marx e mia. Di fronte agli avversari noi
dovevamo sottolineare il principio essenziale da loro negato, e allora non trovavamo sempre
il tempo, il luogo e l’occasione di rendere giustizia agli altri fattori che partecipano all’azione
reciproca», (K. Marx-F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 1242-1244).
5
K. Marx, Introduzione a Per la critica dell’economia politica, cit., p. 5
26 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
fino alle loro formazioni più estese. La coscienza non può mai essere qual-
che cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo
reale della loro vita6.
6
K. Marx, Ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1967 (II ed.), p. 13.
7
K. Marx, Manifesto del partito comunista, BUR, Milano 1998, p. 57.
8
«Nei cento anni o poco meno del suo dominio di classe, la borghesia ha creato forze pro-
duttive più ingenti e colossali di quanto abbiano fatto, insieme, tutte le generazioni passate.
Soggiogamento delle forze naturali, macchine, applicazione della chimica all’industria e all’a-
gricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafo elettrico, dissodamento di interi continen-
ti, fiumi resi navigabili, intere popolazioni sorte dal suolo come per incanto – quale dei secoli
passati avrebbe mai previsto che tali forze produttive fossero latenti nel grembo del lavoro
sociale» (ivi, p. 63).
La critica marxiana della democrazia 27
9
Ivi, p. 63.
10
Ivi, p. 53.
28 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
proletariato, che non possiede altro che la propria forza lavoro, che dovrà
vendere in cambio di un salario per garantirsi la propria sopravvivenza11.
Ora, quello che qui più conta per noi è che questo movimento strut-
turale di progressiva semplificazione e unificazione del panorama socio-
economico mette in moto a livello sovrastrutturale un parallelo processo di
centralizzazione politica, che coincide con l’affermarsi e il diffondersi del
moderno stato democratico rappresentativo. E’ a questo fine che
11
Cfr. ivi, p. 71.
12
Ivi, p. 61.
13
K. Marx, La guerra civile in Francia, Edizioni Lotta Comunista, Milano 2007, p. 68.
14
Ibidem.
La critica marxiana della democrazia 29
K. Marx, Sulla questione ebraica, in Id., La questione ebraica e altri scritti giovanili, cit., p. 57.
15
Ibidem.
16
30 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
17
Ivi, p. 60.
18
Ivi, p. 57.
19
K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in Id., La questione ebraica e
altri scritti giovanili, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 105.
La critica marxiana della democrazia 31
Ora, il limite delle rivoluzioni borghesi sta secondo Marx proprio nel
fatto che la borghesia non è una classe universale: la borghesia è solo una
parte della società, e precisamente quella parte che possiede e controlla i
mezzi di produzione. Gli interessi della borghesia non si confondono con
quelli di quella grande parte della popolazione – la cui esistenza è indi-
spensabile presupposto dell’esistenza della stessa classe borghese – che
non posseggono altro che la propria forza lavoro.
Ma c’è di più. Lo Stato democratico borghese non si limita a presuppor-
re e, per così dire, tollerare l’esistenza di tutte quelle differenze sociali cui
non riconosce formalmente alcun valore politico. Esso si propone esplicita-
mente come garante della loro conservazione. È questo per Marx il signifi-
cato dell›assioma lockeiano per il quale il fine dell›istituzione della politica
moderna è la tutela della proprietà20, ed è questo il significato sociale della
difesa della libertà che Constant, Tocqueville ed in generale il liberalismo
avevano immaginato come il compito principale dello Stato. Difendendo la
(libertà di) proprietà come fondamentale diritto umano, lo stato pone come
fine primario della propria azione la difesa del diritto all’egoismo: si spiega
così come l’azione di polizia attraverso la quale lo stato assicura la sicurezza
degli egoismi individuali possa divenire «il più alto concetto sociale della
società civile»21.
Ciò che Marx critica, criticando il formalismo della democrazia bor-
ghese, non è solo il fatto di non aver pienamente realizzato l’uguaglian-
za umana attraverso la sua formale assunzione all’interno dell’ordinamento
politico. Ciò che è peggio, ai suoi occhi, è che questa assunzione rischia
di funzionare come un grazioso paravento dietro al quale nascondere, de-
corandolo con i caratteri dell’egualitarismo, l’eternarsi nella vita sociale
dell’ineguaglianza e della gerarchia. Le gerarchie sociali esistenti vengono
pensate in questo contesto come la base naturale dell’esistenza umana, una
base che non solo non viene sostanzialmente intaccata dalla rivoluzione
politica, ma che può essere presentata come il luogo dell’espressione della
vera natura dell’uomo:
La rivoluzione politica dissolve la vita civile nelle sue parti costitutive, sen-
za rivoluzionare queste parti stesse né sottoporle a critica. Essa si comporta
verso la società civile, verso il mondo dei bisogni, del lavoro, degli interessi
privati, del diritto privato, come verso il fondamento della propria esistenza,
come verso un presupposto non altrimenti fondato, perciò, come verso la sua
base naturale. Infine l’uomo, in quanto è membro della società civile, vale
20
Cfr. le argomentazioni del Secondo Trattato sul governo che si apre con questa perentoria
affermazione: «Intendo, dunque, per potere politico un diritto di fare leggi che contemplano
la pena di morte, e di conseguenza tutte le pene minori per la regolazione e la preservazione
della proprietà, di impiegare la forza della comunità nell’esecuzione di tali leggi, e nella difesa
dello stato dagli attacchi di altri stati» (J. Locke, Due Trattati sul governo, cit., p. 189).
21
K. Marx, Sulla questione ebraica, cit., p. 72.
32 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
come uomo vero e proprio, come l’homme distinto dal citoyen, poiché egli è
l’uomo nella sua immediata esistenza sensibile individuale, mentre l’uomo
politico è soltanto l’uomo astratto, artificiale, l’uomo come persona allego-
rica, morale22.
Nella distinzione che Marx qui propone tra uomo e cittadino risuona in
modo evidente il titolo di quello che a buon diritto si può ritenere il testo
fondatore della democrazia europea, quella Déclaration des droits de l’homme
et du citoyen che aveva elevato la tutela dei diritti umani a fine principale di
ogni comunità politica che aspiri alla legittimità. Ora, per Marx difendere i
diritti dell’uomo senza sottoporne a critica i contenuti sociali, significa preci-
samente difendere i diritti di quel bourgeois che, sotto le spoglie dell’homme,
si nasconde e che da ogni acritica difesa dei diritti umani ottiene lo stra-
ordinario vantaggio di vedere naturalizzata ed eternata la propria logica
proprietaria e gerarchica. Difendere i diritti dell’uomo senza sottoporre a
critica il processo della loro trasposizione dal piano dell’astrazione politica
a quello della vita sociale significa non comprendere che questi diritti, nelle
condizioni di una società borghese, «non sono altro che i diritti del membro
della società civile, cioè dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e
dalla comunità»23:
Agli occhi di Marx, insomma, i diritti umani non sono altro che un sino-
nimo di ciò che Constant aveva chiamato le libertà dei moderni. L’emergere
di questi diritti fa tutt’uno nella comprensione marxiana con l’istituzione
dello Stato moderno, che in un solo movimento separa Stato e società, rele-
gando l’eguaglianza nello spazio astratto (e tendenzialmente individuale)
della politica e naturalizzando i rapporti gerarchici esistenti all’interno della
società civile:
22
Ivi, p. 77-78.
23
Ivi, p. 70.
24
Ivi, p. 73.
La critica marxiana della democrazia 33
25
Ivi, p. 77.
26
Ivi, p. 66.
27
Ivi, pp. 61-62.
34 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
28
Ivi, p. 66.
29
Ivi, p. 78.
La critica marxiana della democrazia 35
propriamente umana risiede per Marx proprio in coloro che non hanno al-
cun interesse proprio da difendere:
30
K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, cit., p. 108.
31 L’esperienza della Comune è talmente decisiva che Marx ed Engels ne fanno derivare l’u-
nica correzione teorica che a loro parere è necessario apportare all’impianto del Manifesto. La
Comune ha provato infatti in maniera definitiva che “la classe operaia non può impossessarsi
puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi
propri fini”. Proprio su questo passaggio si appoggerà Lenin per sviluppare in Stato e rivolu-
zione la propria teoria della dittatura del proletariato. Cfr. E. Balibar, Cinque studi di materiali-
smo storico, De Donato, Bari 1976.
32
K. Marx, La guerra civile in Francia, cit., p. 68.
33
Ivi, p. 74.
dal popolo in armi - Marx vede il modello di una forma politica nuova,
alternativa alla democrazia rappresentativa e borghese, una forma politica
“nella quale, per la prima volta, il proletariato tenne per due mesi il pote-
re politico”34. Nella democrazia proletaria della Comune Marx scorge l’em-
brione di una nuova forma istituzionale nella quale il suffragio universale,
invece di servire a “decidere una volta ogni tre o sei anni quale membro
della classe dominante dovesse mal rappresentare e opprimere il popolo
nel parlamento”35 era posto al servizio del popolo stesso per aiutarlo a in-
dividuare i propri migliori servitori. Semplificando una questione in realtà
molto complessa, si può dire che la principale innovazione istituzionale in-
trodotta dalla Comune fu il fatto che, in totale antitesi a quanto consigliato
da Constant e Tocqueville, questi rappresentanti del popolo ricevevano un
mandato imperativo: erano cioè obbligati ad attenersi alle istruzioni formali
ricevute dai propri elettori, dai quali erano costantemente revocabili nel
caso lo avessero tradito.
34 Cfr. K. Marx, F. Engels, Prefazione del 1872 al Manifesto del Partito Comunista.
35 K. Marx, La guerra civile in Francia, cit., p. 72.
Capitolo III
Oltre alla critica filosofica che abbiamo tentato di avvicinare nel pre-
cedente capitolo, esiste un’ulteriore dimensione della riflessione di Marx
sulla democrazia, che potremmo definire di critica storica. Il testo chiave
è in questo caso Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, nel quale Marx considera
la democrazia non come categoria politica ma come istituzione concreta.
L’analisi critica non si costruisce qui attaccando le contraddizioni concet-
tuali della democrazia borghese, ma indagando da vicino le trasformazioni
storiche che le sue istituzioni subiscono. Il principale esito di quest’analisi è
la scoperta di una forma politica nuova e particolarmente carica di destino:
il bonapartismo1. Proviamo ad analizzarla partendo dalla comprensione di
Marx, per poi seguire con Weber alcune sue metamorfosi novecentesche.
1
Per un’introduzione alla storia del concetto, cfr. D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo, cit.
38 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
2
K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 36.
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 39
3
Ivi, pp. 36-37.
4
Ivi, p. 77.
40 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
borsa essa deve perdere la propria corona, e la spada che la deve proteggere
deve in pari tempi pendere come una spada di Damocle sulla propria testa5.
5
Ivi, pp. 77-78.
6
Ivi, p. 39.
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 41
Mi sono chiesto se, in presenza del delirio delle passioni, della confusio-
ne delle dottrine, della divisione dei partiti, mentre tutto sembra allearsi per
sottrarre ogni prestigio alla morale, alla giustizia, all’autorità, era proprio
necessario sconvolgere o intaccare il solo principio che la Provvidenza abbia
mantenuto in piedi per tenerci uniti. Una volta che il suffragio universale
ha ricostruito l’edificio sociale per il fatto stesso di aver sostituito un dirit-
to ad un fatto rivoluzionario, è forse saggio volerne restringere ancora la
base? Infine, mi sono chiesto se ciò non avrebbe significato compromettere
in anticipo i nuovi poteri chiamati a presiedere i destini del paese, fornendo
il pretesto di mettere in discussione la loro origine e disconoscere la loro
legittimità7.
7
Napoléon III, Oeuvres, Plon-Amyot, Paris 1861, citato in D. Losurdo, Democrazia o bonaparti-
smo, cit., p. 55.
8
Per la revisione premevano soprattutto i bonapartisti, i quali volevano eliminare l’articolo 45
che impediva la rielezione del Presidente e si mostravano pronti a barattarla con una parziale
restaurazione monarchica. L’opposizione intransigente dei repubblicani puri e della monta-
gna, e il conflitto tra le varie anime del partito dell’ordine, portarono alla sconfitta dell’ipotesi
di revisione, una sconfitta che lasciava dietro di sé un Parlamento sempre più frammentato,
rissoso e impotente.
9
K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, cit., p. 121.
42 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
pretava la crisi commerciale10 della Francia in una chiave tutta politica, co-
me la conseguenza dell’instabilità e dell’incertezza causate dal conflitto tra
partito dell’ordine e bonapartisti – seguì a ruota arrivando ad augurarsi:
«Meglio una fine con spavento, che uno spavento senza fine!»11.
Bonaparte avrebbe dimostrato di lì a poco di comprendere quel grido
meglio di chiunque altro. Di comprendere come la borghesia era disposta
anche consegnare tutto il potere a Bonaparte, pur che venisse ripristinata la
tranquillità necessaria all’esercizio di quegli interessi privati che, come già
Constant aveva intuito, sono la chiave della felicità dei moderni. Motore di
questa rinuncia della borghesia al proprio dominio politico non è tanto la
rappresentanza parlamentare borghese, ma la «massa extraparlamentare
della borghesia», il suo ventre molle e disarticolato che
[…] con le sue servilità verso il presidente, coi suoi oltraggi al Parlamento,
col modo brutale nel quale trattava la sua stessa stampa, provocava Bona-
parte a reprimere e a sterminare i suoi oratori e i suoi scrittori, i suoi uomini
politici e i suoi letterati, la sua tribuna parlamentare e la sua stampa, al fine
di poter attendere ai propri affari privati sotto la protezione di un governo
forte e dotato di poteri illimitati. Essa dichiarava nettamente che non vedeva
l’ora di sbarazzarsi del proprio dominio politico per sbarazzarsi delle fatiche
e dei pericoli del potere12.
10
Cfr. anche K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Edizioni Lotta Comunista,
Milano 2010.
11
K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, cit., pp. 128-129.
12
Ivi, p. 124.
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 43
loro interessi nel loro proprio nome, sia attraverso un Parlamento, sia attra-
verso una Convenzione. Non possono rappresentare se stessi; debbono farsi
rappresentare. Il loro rappresentante deve in pari tempo apparire loro come
il loro padrone, come un’autorità che si impone loro, come un potere gover-
nativo illimitato, che li difende dalle altre classi e distribuisce loro dall’alto
il sole e la pioggia. L’influenza politica del contadino piccolo proprietario
trova quindi la sua ultima espressione nel fatto che il potere esecutivo subor-
dina la società a se stesso13.
Per Bonaparte la Società del 10 dicembre fu quel che erano stati per gli
operai socialisti i laboratori nazionali, per i repubblicani borghesi le Gardes
mobiles: la sua personale milizia di partito. Durante i suoi viaggi le sezioni
della società, spedite a destinazione per ferrovia, avevano il compito di im-
provvisargli un pubblico, di simulare l’entusiasmo pubblico, di urlare Vive
l’Empereur!, di insultare e di picchiare i repubblicani, naturalmente sotto la
protezione della polizia. Al suo ritorno a Parigi esse avevano il compito di
formare l’avanguardia, di prevenire o di disperdere le contromanifestazioni.
La Società del 10 dicembre gli apparteneva, era opera sua, era il suo più
genuino pensiero14.
Ivi, p. 89.
14
44 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
15
In questa proposta, secondo Luciano Canfora, è il vero capolavoro di Bonaparte, capace di
portare a compimento il proprio colpo di stato proprio «in nome del suffragio universale» (L.
Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, cit., p. 128).
16
«In presenza di successi così insperati, io sono in diritto di dichiarare ancora una volta
quanto la repubblica francese sarebbe grande se le fosse permesso di occuparsi dei suoi inte-
ressi reali e di riformare le sue istituzioni, invece di essere continuamente turbata, da un lato
dai demagoghi, dall’altro lato da allucinazioni monarchiche (applausi rumorosi, entusiastici e
prolungati in tutte le parti dell’anfiteatro). Le allucinazioni monarchiche impediscono ogni pro-
gresso e ogni sviluppo industriale serio. Invece del progresso non si ha che la lotta. Si vedono
degli uomini, che un tempo erano i sostenitori più zelanti dell’autorità e delle prerogative
monarchiche, diventare partigiani di una Convenzione unicamente allo scopo di indeboli-
re l’autorità uscita dal suffragio universale (applausi entusiastici e prolungati). Vediamo alcuni
uomini che più hanno sofferto della rivoluzione e più se ne sono lamentati, provocarne una
nuova unicamente per incatenare la volontà della nazione […] Io vi prometto la tranquillità
per l’avvenire ecc. (Bravo! Bravo! Applausi fragorosi)» (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte,
cit., pp. 133-134).
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 45
17
Ivi, p. 142.
18
La preponderanza dell’esercito è anzi secondo Marx il vero «punto culminante delle “idées
napoléoniennes”» (cfr. Ivi, p. 152).
19
Ivi, p. 156.
20
L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, cit., p. 120.
46 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
21
K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, cit., p. 156.
22
Ivi, p. 142.
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 47
Ivi, p. 17.
23
Cfr. ad es. il secondo capitolo di M. Weber, Parlamento e governo, Laterza, Roma-Bari 1982.
24
48 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
25 M. Weber, Il socialismo, in M. Weber, Scritti politici, Donzelli, Roma 1998, p. 106.
26 Cfr. M. Weber, La politica come professione, in Id. Scritti politici, cit., p. 182.
27 Cfr. G. Hübinger, «Democratizzazione» nello stato, nella società e nella cultura: Max Weber tra
politica e scienza politica, in M. Losito e P. Schiera, Max Weber e le scienze sociali del suo tempo, Il
Mulino, Bologna 1988.
28 M. Weber, Parlamento e governo, cit, p. 36.
29 M. Weber, Sulla burocrazia, in Id., Scritti politici, cit., p. 33.
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 49
30 M. Weber, Sistema elettorale e democrazia, in Id. Scritti politici, cit., p. 66.
31 Ivi, p. 64.
32 Ibidem.
50 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
Tutti quei borghesi che per «viltà nei confronti della democrazia»37 predica-
no la necessità di qualche forma di limitazione del suffragio nel timore che
il suo allargamento possa mettere in discussione i loro privilegi economici
e sociali, non sono altro che «miopi filistei dell’ordine stabilito»38 che in re-
altà preparano inconsapevolmente il terreno alla sedizione. Lungi dal co-
stituire un cedimento ai confusi istinti della massa, il suffragio universale
appare invece a Weber come il più efficace strumento per tenerli a freno e
indirizzarli verso l’interesse della nazione, guadagnando l’interiore dispo-
nibilità delle masse a identificarsi con il suo destino di potenza (e con le sue
necessità funzionali)39.
33
Ivi, p. 47.
34
Ivi, p. 66.
35
Ivi, p. 47.
36
Ivi, p. 84.
37
Ivi, p. 52.
38
Ivi, p. 48.
39
«Gli interessi e i compiti della nazione sono per noi di gran lunga più importanti di qualsi-
asi sentimento, come d’altronde sono superiori a tutte le questioni relative alla forma politica
in generale. Anche la loro realizzazione è per noi prima di tutto un sobrio problema di tecnica
istituzionale e non una questione di sentimenti» (M. Weber, La futura forma statale della Ger-
mania, in Id., Scritti politici, cit., p. 134; nello stesso volume si veda anche Lo Stato nazionale e la
politica economica tedesca).
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 51
40
Parlamentarismo e democrazia, ricorda Weber in Parlamento e governo, non vanno neces-
sariamente assieme. Se come modello del parlamentarismo infatti si intende un bipartitismo
fondato sull’alternanza tra due partiti di notabili, come era stato il caso dell’Inghilterra nell’età
del liberalismo più classico, parlamentarismo e democrazia possono addirittura apparire an-
titetici. Cfr. M. Weber, Parlamento e governo, cit., pp. 95 e ss.
41
Cfr. D. Beetham, La teoria politica di Max Weber, Il Mulino, Bologna 1989; W.J. Mommsen,
Max Weber e la politica tedesca, Il Mulino, Bologna 1993; F. Ferrarotti, L’orfano di Bismarck. Max
Weber e il suo tempo, Editori Riuniti, Roma 1982; F. Ferrarotti, Max Weber. Fra nazionalismo e
democrazia, Liguori, Napoli 1998.
42
M. Weber, Sistema elettorale e democrazia, cit., p. 83.
52 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
43
Giocando attorno al doppio significato della parola Berüf – che come è noto significa tanto
professione che vocazione –, Weber distingue due significati di questa espressione. Da un lato
vi è il politico per vocazione, colui che vive per la politica, dedicando ad essa le migliori ener-
gie della propria esistenza. Dall’altro il mestierante politico, colui che vive di politica, colui
che della politica ha fatto una professione, il grigio funzionario di partito. È a questa seconda
accezione che si fa qui riferimento. Cfr. M. Weber, La politica come professione, cit.
44
Cfr. M. Weber, Parlamento e governo, cit., p. 72.
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 53
45
M. Weber, Il presidente del Reich, in Id., Scritti politici, cit., p. 236.
46
«[…] essa presuppone le forme più moderne dell’organizzazione di partito […] figlie della
democrazia, del diritto elettorale di massa, della necessità della propaganda e dell’organizza-
zione di massa, dello sviluppo della più alta unità della direzione e della più rigida discipli-
na» (M. Weber, La politica come professione, cit., p. 203).
47
M. Weber, Economia e società, Comunità, Torino 1999, Vol. IV, p. 544.
48
M. Ostrogorski, Democrazia e partiti politici, Rusconi, Milano 1991.
49
M. Weber, La politica come professione, cit., p. 214.
54 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
I Parlamenti non sono resi del tutto inutili da questo processo. Così co-
me il leader funziona come antidoto rispetto alle debolezze dell’organizza-
zione burocratica di partito, riaprendo la possibilità della grande politica
pur nelle condizioni di una democrazia di massa, così il parlamentarismo
funziona come strumento di controllo dell’operato del leader, e come via
pacifica alla sua destituzione quando questi perde il supporto popolare o
mette a rischio la stabilità dell’ordine politico51. Opposto e speculare al pe-
ricolo della sterilizzazione della politica vi è infatti quello della «preponde-
ranza di elementi emotivi» e irrazionali, che la demagogia del leader può
scatenare sporgendosi così sull’abisso della «democrazia della strada»52.
50
M. Weber, Parlamento e governo, cit., p. 105.
51
M. Weber, Economia e società, Vol. IV, cit., p. 546.
52
Ivi, p. 554.
53
L’azione del leader carismatico assomiglia per Weber a quella di quei profeti che al potere
dello «sta scritto che» contrappongono il loro «ma io vi dico» (cfr. L. Cavalli, Il carisma come
potenza rivoluzionaria, in P. Rossi (a cura di), Max Weber e l’analisi del mondo moderno, Einaudi,
Torino 1981; sulla tipologia della legittimazione si può vedere nello stesso volume l’ottimo
contributo di Norberto Bobbio intitolato La teoria dello stato e del potere).
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 55
54
M. Weber, La politica come professione, cit., p. 179.
55
M. Weber, Economia e società, Vol. II, cit., p. 210.
56
Ivi, p. 52.
57
«Il duce (il demagogo) domina di fatto in virtù della fiducia e dell’attaccamento del seguito
politico alla sua persona in quanto tale» (M. Weber, Economia e società, Vol. I, cit., p. 265).
58
Ibidem.
56 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
59
Nulla di strano in questo, se si tenga presente il significato metodologico della tipizzazione
ideale. Cfr. M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1997.
60
M. Weber, Economia e società, Vol. II, cit., p. 209.
61
Ivi, p. 52.
62
Secondo Duso «tutto il problema della legittimazione» in Weber «può essere inteso come
problema dell’agire rappresentativo» (G. Duso, Tipi del potere e forma politica moderna in Max
Weber, in M. Losito e P. Schiera, Max Weber e le scienze sociali del suo tempo, cit., p. 505).
63
Il contrasto esistente tra rappresentanza democratico-parlamentare e rappresentanza ce-
saristico-plebiscitaria era già stato evidenziato da Engels, quando nel 1895, scrivendo una in-
troduzione al testo marxiano sulle Lotte di classe in Francia tra 1848 e 1850, aveva sottolineato
come l’esperienza bonapartista avesse prodotto un pericoloso scetticismo nei confronti del
suffragio universale. Engels chiedeva di superare questo scetticismo, fornendo a riprova della
sua tesi l’evidenza dei successi che il movimento socialista stava ottenendo tramite la lotta
parlamentare in Germania. Cfr. F. Engels, Introduzione del 1895, in K. Marx, Le lotte di classe in
Francia dal 1848 al 1850, cit.
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 57
64
R. Michels, La sociologia del partito politico, Il Mulino, Bologna 1966, p. 298.
65
Ivi, p. 296.
66
Su questa stessa linea si muove anche l’analisi di James Burnham che ritiene il bonaparti-
smo «l’inclinazione politica più incontestabile della nostra generazione». Il segreto del succes-
so internazionale del bonapartismo sta nel fatto che «esso non viola la forma democratica né
il posto assegnato al suffragio. La teoria bonapartista può piuttosto plausibilmente pretendere
di essere il culmine storico e anche logico della formula democratica, proprio come il plebisci-
to può pretendere di essere la forma più perfetta di suffragio democratico. Il capo bonaparti-
sta può considerarsi ed essere considerato la quintessenza del democratico; il suo dispotismo
altro non è se non l’onnipotente popolo che si guida e si disciplina da sé» (J. Burnham, I difen-
sori della libertà, Arnoldo Mondadori, Milano 1947, p. 244)
67
R. Michels, La sociologia del partito politico, cit., p. 294.
58 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
68
F. Ferrarotti, Max Weber. Fra nazionalismo e democrazia, cit., p. 73. Cfr. anche G. Agamben,
Stato d’eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
Capitolo IV
Noi non possiamo concepire una società per quanto democratica, nella
quale il governo sia esercitato da tutti. Anche in questo caso è necessaria una
macchina organizzativa, un’organizzazione composta naturalmente da una
minoranza numerica, per la quale tutta l’azione governativa si esplichi. Sic-
60 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
ché anche in questo caso, tutte le pubbliche funzioni sono nel fatto esercitate
né da uno solo né da tutti, sebbene da una classe speciale di persone1.
Nella sua opera di maggior respiro, gli Elementi di scienza politica, Mosca
spiega così la funzione esercitata dalla classe politica in ogni società storica:
Fra le tendenze e i fatti costanti, che si trovano in tutti gli organismi po-
litici, uno ve n’è la cui evidenza può essere facilmente a tutti manifesta: in
tutte le società, a cominciare da quelle più mediocremente sviluppate e che
sono appena arrivate ai primordi della civiltà, fino alle più colte e più forti,
esistono due classi di persone: quella dei governanti e l’altra dei governati.
La prima, che è sempre la meno numerosa, adempie a tutte le funzioni poli-
tiche, monopolizza il potere e gode i vantaggi che ad esso sono uniti; mentre
la seconda, più numerosa, è diretta e regolata dalla prima in modo più o
meno legale, ovvero più o meno arbitrario e violento, e ad esse fornisce,
almeno apparentemente, i mezzi materiali di sussistenza e quelli che alla
vitalità dell’organismo politico sono necessari3.
1
G. Mosca, Teoria dei governi e governo parlamentale, Giuffré, Milano 1968, p. 10.
2
N. Bobbio, Teoria delle élites, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica,
UTET, Torino 1983, p. 373.
3
G. Mosca, La classe politica, Laterza, Bari 1966, p. 61. Si tratta di una riduzione della terza
edizione degli Elementi di scienza politica a cura di Norberto Bobbio.
La critica elitista della democrazia 61
mando i parametri di accesso alla classe politica: si passa così dal dominio
dei forti al dominio dei ricchi. Per Mosca, che qui si sposta dalla descrizio-
ne alla previsione, anche il dominio dei ricchi dovrà essere trasceso, una
volta che la crescita economica abbia reso possibile anche la crescita cultu-
rale della società. È così che, a suo avviso, le società più avanzate si avviano
verso una nuova forma di dominio, il dominio dei più intellettualmente
meritevoli.
Il quadro qui disegnato sembrerebbe costruire una filosofia della storia
ottimistica e progressiva, simile per molti versi alla teoria dei tre stadi di
Auguste Comte o in senso più lato, all’evoluzionismo di Herbert Spencer.
Mosca fu però sempre molto diffidente rispetto ad ogni ricostruzione fi-
losofica della storia umana4. Egli era consapevole che le forme dell’orga-
nizzazione sociale e i corrispondenti valori che simili teorie ritenevano
appartenere a stadi evolutivi diversi e distinti, non solo potevano essere
cronologicamente contemporanee5, ma potevano anche sovrapporsi spa-
zialmente nella stessa civiltà o addirittura nello stesso individuo. Così, no-
nostante i progressi della tecnica e della scienza, anche nelle nazioni più
avanzate non deve stupirci il fatto che
4
Uno dei capitoli più interessanti degli Elementi, escluso dalla sintesi di Bobbio, si intitola
Polemiche ed è contenuto nel primo libro. Esso è dedicato per metà a prendere le distanze dalle
teorie di Comte e Spencer.
5
Sul modo in cui le filosofie della storia possono essere adoperate come strumenti di do-
minio, con particolare riferimento alla questione coloniale, cfr. J. Fabian, Il tempo e gli altri,
L’Ancora, Napoli 2000.
6
G. Mosca, Elementi di scienza politica, Laterza, Bari 1939, Vol. I, p. 219.
62 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
[…] ci è d’uopo confessare che, se nessuno ha mai visto l’atto autentico con il
quale il Signore ha dato facoltà a certe persone o famiglie private di reggere
per conto suo i popoli, un osservatore coscienzioso può anche facilmente
constatare che un’elezione popolare, per quanto il suffragio sia largo, non è
ordinariamente l’espressione della volontà delle maggioranze9.
Per Mosca se «il diritto divino dei re fu la grande superstizione dei seco-
li passati», il «diritto divino delle assemblee elette a suffragio popolare» che
sta alla base della formula politica democratica è «la grande superstizione
del secolo presente»10. Il fatto che le formule politiche siano delle supersti-
zioni non toglie che il bisogno sul quale si fondano queste superstizioni,
tuttavia, sia ben reale. Le formule politiche non sono dunque solo «volga-
7
Ivi, p. 230.
8
Il testo prosegue: «Così, ad es., in una società fortemente imbevuta di spirito cristiano, la
classe politica governa per volontà del sovrano, il quale alla sua volta, regna perché è l’unto
del Signore. […] I poteri di tutti i legislatori, magistrati ed impiegati negli Stati Uniti d’Ame-
rica emanano direttamente o indirettamente dal suffragio degli elettori, ritenuto espressione
della volontà popolare» (G. Mosca, La classe politica, cit., p. 85).
9
Ivi, p. 86.
10
Ivi, p. 87.
La critica elitista della democrazia 63
Una parte della teoria selezionista possiamo ammettere come vera; cre-
diamo infatti che nella lotta tra due società (caeteris paribus), debba trionfare
quella i cui individui sono in media più provvisti di senso morale, e che
quindi saranno più uniti, più fiduciosi gli uni negli altri, più capaci di ab-
negazione12.
11
Ivi, pp. 86-87.
12
Ivi, p. 127.
13
Ivi, p. 129.
14
«Invero, se un paragone è possibile fra la morale di una tribù primitiva e quella di un po-
polo relativamente civile e che per lunghi secoli ha vissuto organizzato in grandi e numerosi
organismi politici, è quello stesso che si può fare fra la morale di un bambino e quella di un
adulto. La prima rappresenta l’incoscienza, la seconda la coscienza» (ivi, p. 128).
64 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
Quanto più la macchina dello stato è potente, tanto più il rischio di una
sua gestione dispotica è grave e rende necessaria una netta separazione
dei poteri. Nelle condizioni di una società complessa e modernizzata, il
miglior governo è così quello che permette la partecipazione alla vita pub-
blica al maggior numero di forze sociali. Mosca riprende qui criticamente
la teoria della divisione dei poteri di Montesquieu, cui rimprovera un eccesso
di formalismo. Non basta che il potere venga diviso tra istituzioni formal-
mente distinte e deputate ad accoglierne le diverse componenti: si tratta
di dare voce alle diverse componenti della società civile, accogliendo l’ap-
porto di ciascuna di esse17. Colto dal punto di vista politico, d’altronde, lo
15
A partire da De la division du travail social (1893) passando per i classici Le suicide (1897) e
Les formes élémentaires de la vie religieuse (1912), per arrivare sino agli studi della maturità sulle
istituzioni educative francesi, l’insieme della produzione teorica di Durkheim è dominata dal
problema dell’integrazione. Cfr. D. Schnapper, Qu’est-ce que l’intégration?, Gallimard, Paris
2007.
16
G. Mosca, La classe politica, cit., p. 139.
17
«La semplice struttura formale delle leggi e delle costituzioni non può garantire la difesa
giuridica. […] Nella effettiva vita sociale, solo il potere può controllare il potere. La difesa
giuridica può essere assicurata solo quando sono funzionanti varie ed opposte tendenze e for-
La critica elitista della democrazia 65
Quando si dice che gli elettori scelgono il loro deputato, si usa una locu-
zione molto impropria; la verità è che il deputato si fa scegliere dagli elettori,
e, se questa frase sembrasse in qualche caso troppo rigida e severa, potrem-
mo temperarla dicendo che i suoi amici lo fanno scegliere25.
ze, e dove queste si controllano e si reprimono a vicenda» (J. Burnham, I difensori della libertà,
Arnoldo Mondadori, Milano 1947, p. 117).
18
G. Mosca, Elementi di scienza politica, cit., Vol. I, p. 212.
19
G. Mosca, Teorica dei governi e Governo parlamentare, Loescher, Torino 1884.
20
Cfr. N. Bobbio, Introduzione a G. Mosca, La classe politica, cit.
21
Cfr. le Conclusioni del primo libro di G. Mosca, Elementi di scienza politica, cit.
22
G. Mosca, Le costituzioni moderne, Andrea Amenta Editore, Palermo 1887.
23
G. Mosca, Elementi di scienza politica, cit. Vol. I, p. 204.
24
Ivi, p. 205.
25
Ivi, p. 206.
66 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
[…] mi sembra evidente che la capacità media degli elettori non potrebbe es-
sere dal suffragio universale migliorata. Infatti il difetto più comune a tutto
l’elettorato politico italiano è la imperfettissima visione e lo scarso sentimen-
to degli interessi generali del paese, troppo spesso sostituito dal culto degli
interessi locali, di classe, di mestiere o da quelli puramente individuali od
anche da una vaga simpatia per la persona anziché le idee del candidato.
Ora io non vedo come e perché questo difetto sarebbe attenuato colla iscri-
zione nelle liste politiche di un numero più o meno grande di analfabeti; e
non vedo neppure come e perché questa iscrizione dovrebbe diminuire i casi
di corruzione elettorale propriamente detta, di voti comprati con la distribu-
zione di vino e cibarie od anche a denari contanti28.
Mosca non avversò solo la riforma elettorale italiana del 1912 che avreb-
be esteso il diritto di voto agli analfabeti di almeno trenta anni, ma combat-
té ogni ipotesi di riforma proporzionale e di estensione del suffragio alle
donne. In un discorso di opposizione al governo Mussolini pronunciato
il 19 dicembre 1925 al Senato egli attribuirà proprio alla riforma propor-
zionale del 1919 – che pure nelle confuse contingenze del dopoguerra egli
aveva al opportunisticamente accettato – gran parte della colpa di quella
degenerazione del sistema parlamentare che aveva condotto sino all’in-
staurazione del regime29.
26
Ivi, p. 205.
27
Ivi, p. 210.
28
G. Mosca, Effetti pratici del suffragio universale in Italia, in Id., Il tramonto dello stato liberale, a
cura di A. Lombardo, Prefazione di G. Spadolini, Bonanno Editore, Catania 1971, p. 135.
29
Cfr. G. Mosca, Il suffragio proporzionale, in Id., Il tramonto dello stato liberale, cit.
La critica elitista della democrazia 67
[…] il principio della mia sociologia sta appunto nel separare le azioni logi-
che dalle non-logiche e nel fare vedere che per il più degli uomini la seconda
categoria è di gran lunga maggiore della prima30.
Azioni logiche per Pareto sono solo quelle che a)stabiliscono un mezzo
oggettivamente adeguato al fine che si propongono di raggiungere e b) so-
no compiute con la consapevolezza di questa adeguatezza. Tutte le azioni
che risultano adeguate ai fini solo da un punto di vista soggettivo – os-
sia tutte quelle azioni che ripongono la propria validità non tanto nell’ade-
guatezza dei mezzi scelti e nella scienza di questa adeguatezza, ma nella
semplice credenza nella loro giustizia o efficacia da parte di coloro che agi-
scono – sono azioni illogiche.
Per Pareto sono dunque illogiche la maggior parte delle azioni umane.
Ciò non significa che esse non siano reali o prive di conseguenze. Come
abbiamo già avuto modo di apprezzare nel pensiero di Weber, le credenze
V. Pareto, Lettere a Maffeo Pantaleoni, Banca Nazionale del Lavoro, Roma 1960, Vol. II, p. 73.
30
68 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
svolgono un ruolo pratico di prim’ordine essendo alla base, tra le altre co-
se, del meccanismo dell’obbedienza e del potere31. Denunciare l’illogicità
delle azioni umani non esime dunque il sociologo dell’indagarle: egli però
non deve cadere nell’errore di scambiare le intenzioni soggettive per i fe-
nomeni oggettivi. Per usare la terminologia che Pareto impiegherà nella
sua opera principale – il Trattato di sociologia generale, la cui prima edizione
apparve nel 1916 – si tratta di distinguere le derivazioni – ovvero i ragiona-
menti più o meno sofistici con i quali le azioni sociali vengono giustificate
– dai residui – ovvero gli elementi di carattere irrazionale che dietro a questi
ragionamenti si nascondono e che possono essere conosciuti una volta che
le azioni sociali vengano scrostate dalla loro «vernice logica»32. Solo ope-
rando una simile distinzione si accede secondo Pareto ad uno sguardo dav-
vero scientifico della realtà. Pareto è qui vicino alla denuncia marxiana del
carattere sovrastrutturale dei fatti religiosi, culturali e politici. D’altronde
come lui stesso chiarì la sua distanza da Marx non riguardava il metodo
materialista, che anzi Pareto sente affine al proprio desiderio di costruire
una sociologia basata su un metodo logico-sperimentale, ma il fatto che es-
so fosse inserito da Marx nella dialettica storica della lotta di classe.
31
«Guardare in tal modo gli eventi, ponendosi deliberatamente fuori dalla fede, è utile, indi-
spensabile per la scienza sperimentale, e può essere, è spessissimo di danno per le opere. Lo
scetticismo dà la teoria, la fede spinge all’operare, e di opere è costituita la vita pratica. I fini
ideali possono essere ad un tempo assurdi ed utilissimi per la società» (V. Pareto, Trasformazio-
ne della democrazia, a cura di D. Losurdo, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 43).
32
«Quale che sia la validità di questa classificazione (su cui nessun critico è riuscito sinora a
dire una parola chiara), il punto centrale da ritenere è che per Pareto la forma di una società,
cioè un sistema sociale, è caratterizzato dagli istinti o sentimenti primordiali rivelati dai resi-
dui, non dalle derivazioni. I residui manifestano gli elementi semplici che costituiscono ogni
società, il dato naturale, non ulteriormente scomponibile e condizionabile. Chi voglia com-
prendere il meccanismo e quindi il funzionamento di un dato sistema sociale dovrà cercare di
individuare questi elementi semplici attraverso il vario modo con cui gli uomini si esprimono,
badando a distinguere le razionalizzazioni, che sono la parte più variabile e meno importante,
dalle manifestazioni degli istinti o dei sentimenti da cui appunto emerge, deve emergere, a
partire da quello che gli uomini dicono, quello che gli uomini sono in realtà, e come si com-
portano nelle loro relazioni reciproche» (N. Bobbio, Pareto e il sistema sociale, Sansoni, Firenze
1973, p. 21).
La critica elitista della democrazia 69
Piaccia, o non piaccia a certi teorici, sta di fatto che la società umana non
è omogenea, che gli uomini sono diversi fisicamente, moralmente, intellet-
tualmente33.
La stabilità sociale è tanto utile che, per mantenerla, mette conto ricorrere
al sussidio di fini immaginari, di teologie varie, tra le quali può avere anche
sede quella del suffragio universale, e rassegnarsi a patire certi danni reali.
Perché sia utile turbarla, occorre che tali danni siano molto gravi; e poiché gli
uomini, non dallo scettico ragionamento scientifico, ma da vivi sentimenti
esprimentesi con ideali sono efficacemente guidati, possono giovare entro
certi limiti, ed hanno effettivamente giovato, per quanto scientificamente
assurde, le teorie del «diritto divino» dei re, delle oligarchie, del «popolo»,
delle «maggioranze», di assemblee politiche, ed altre simili34.
Ivi, §2184.
34
70 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
Ogni società storica è, è stata e sarà guidata da un’élite che usa, ha usato
e userà la forza per governare. Ciò che distingue le diverse società sono le
diverse derivazioni attraverso le quali le élite dei governanti giustificano
il proprio potere, e il diverso modo in cui la classe dei governanti trova
periodicamente ricambio nella classe dei governati, assorbendo al proprio
interno gli elementi migliori di questa. Quando ciò non accade, infatti, «la
parte governante si avvia verso la rovina, che spesso trae seco anche quella
dell’intera nazione»36. La necessità di questo ricambio è la maggiore ag-
giunta che Pareto fa alla teoria di Mosca. Per Pareto infatti,
35
Ivi, §2183.
36
Ivi, §2055. «Non è solo pel numero che certe aristocrazie decadono ma anche per la qualità,
nel senso che in esse scema l’energia e si modificano le proporzioni dei residui che loro gio-
varono per impadronirsi del potere e per conservarlo; ma di ciò diremo più lungi. La classe
governante viene restaurata non solo nel numero, ma, ed è ciò che più preme, in qualità dalle
famiglie che vengono dalle classi inferiori, che recano in essa l’energia e le proporzioni di resi-
dui necessari per mantenersi al potere» (ivi, §2054).
37
Ivi, §2053.
La critica elitista della democrazia 71
[…] se gli avvenimenti si studiano solo come fatti, lasciando da parte la fede,
si conosce tosto che le ere sono nuove solo di forma, mentre, nella sostanza,
sono punti corrispondenti a cime della curva continua del moto40.
38
Ivi, §2057.
39
Alla prevalenza relativa dell’uno o dell’altro di questi residui Pareto collega anche il pre-
dominio di due diversi tipi di élite, che a livello politico distingue – prendendo a prestito le
categorie di Machiavelli (cfr. il celebre cap. XVIII di N. Machiavelli, Il principe, a cura di G. In-
glese, Einaudi, Torino 2005.) – come i leoni e le volpi. Nei leoni che dominano prevalentemente
con la forza prevale un istinto aggregatorio; essi danno origine a società economicamente poco
dinamiche, spesso impregnate di forti credenze religiose. Se a dominare sono le volpi, nelle
quali predomina un istinto combinatorio e che dominano principalmente con le risorse dell’a-
stuzia, le società che ne derivano saranno economicamente più dinamiche e culturalmente
scetticheggianti. La differenza tra governo dei leoni e delle volpi dipende per Pareto dalla dif-
ferente alchimia nell’uso di quelli che sono, da che mondo è mondo, gli invariabili strumenti
di ogni governo: la forza e il consenso.
40
V. Pareto, Trasformazione della democrazia, cit., p. 43.
72 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
Sin dall’epoca del Trattato Pareto aveva rilevato che le democrazie libe-
rali «inclinano ognor più verso un reggimento di plutocrati demagogici, e
forse per tal modo si avviano a qualche trasformazione radicale, simile ad
una di quelle che già si osservarono pel passato»41. In una serie di articoli
pubblicati nel 1920 sulla «Rivista di Milano» – poi raccolti nel 1921 in un
volume dal titolo Trasformazione della democrazia –, Pareto torna ad interro-
garsi sulla questione, domandandosi se i tempi non siano maturi per una
simile radicale oscillazione. Nel contesto di questa interrogazione Pareto fa
propria una definizione «volgare» di plutocrazia e di democrazia, per cui
intende rispettivamente «l’importanza ognora crescente di due classi so-
ciali, cioè dei ricchi speculatori, e di quella degli operai»42. Secondo Pareto
i parlamenti moderni sono stati a lungo il più efficace strumento del pote-
re plutocratico, ossia del potere dell’élite capitalista dominante: servendosi
di essi i plutocrati hanno dominato il volgo «valendosi dei sentimenti – in
particolare di quelli nazionalistici – che ci sono nella plebe e traendola in
inganno»43.
L’esempio più eclatante dell’efficacia illusionistica della plutocrazia de-
magogica l’ha dato lo straordinario sostegno popolare alla guerra mondiale
scatenata dagli appetiti dei contrapposti imperialismi, un’ubriacatura na-
zionalista alla quale finirono per aderire anche i maggiori partiti socialisti
europei. E tuttavia, giocando con il fuoco dei sentimenti nazionali delle
plebi europee sino a trascinarle entusiaste lungo la china della reciproca
distruzione, la plutocrazia demagogica ha forse compiuto un passo troppo
azzardato, come dimostra in modo esemplare la vicenda della Rivoluzione
sovietica e il diffondersi di crescenti tensioni e rivendicazioni sociali
nell’Europa postbellica.
La crescente estensione del suffragio – che pure è una condizione ne-
cessaria della plutocrazia demagogica – ha progressivamente accresciuto
il peso politico delle classi popolari, favorendo il proliferare di tendenze
democratiche – nel senso ‘volgare’ qui sopra ricordato – incompatibili con i
principi della tradizione liberale, di cui l’esempio più lampante è il diffon-
41
V. Pareto, Trattato di sociologia generale, cit., §2257.
42
V. Pareto, Trasformazione della democrazia, cit., p. 83.
43
Ivi, p. 84.
La critica elitista della democrazia 73
Non sono trascorsi neppure cento anni che si reputava «ingiusto» il fare
approvare l’imposta da coloro che non la pagano; anzi era assiomatico e
creduto da secoli che, per un «giusto» tributo, ci voleva il consenso dei con-
tribuenti, e fu questo il fondamento del potere della Camera dei Comuni in
Inghilterra e di altre assemblee analoghe. […] La massima d’altri tempi che
sta all’origine dei nostri reggimenti parlamentari, secondo la quale spettava
a coloro che dovevano pagare i tributi lo approvarli, è ora, implicitamente
o esplicitamente, sostituita dall’altra che spetta a coloro che non pagano i
tributi lo approvarli e lo imporli altrui. Un tempo erano i servi «tagliabili a
pietà e misericordia», oggi sono tali gli agiati45.
44
Questo classico tema liberale, che come abbiamo visto era già stato tematizzato da Con-
stant, non è affatto una reliquia ottocentesca. Esso è ripreso e sviluppato negli stessi anni da
una padre nobile del liberalismo novecentesco come Ludwig von Mises. Cfr. ad es. L. von
Mises, Liberalismo, Rubbettino, Saveria Mannelli 1997.
45
V. Pareto, Trasformazione della democrazia, cit., p. 51 e 76.
46
D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo, cit., p. 183.
74 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
47
R. Michels, La sociologia del partito politico, cit., p. 505.
48
Ivi, p. 39.
49
Ivi, p. 189.
50
Ivi, p. 33.
La critica elitista della democrazia 75
51
Ivi, p. 40.
52
Ivi, p. 84.
53
Ivi, p. 523.
54
Ivi, p. 110.
55
«In un popolo dotato di un forte senso della bellezza, l’uomo bello possiede, ceteris paribus,
nei confronti dei suoi rivali meno belli un vantaggio nel favore popolare. Si è così potuto
76 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
no le virtù che li caratterizzano, per quei leader che si sono proposti come
loro interpreti e difensori le masse provano sentimenti di profonda gratitu-
dine che possono sfociare in vere e proprie forme di culto:
rilevare in Italia che il tipo apollineo, nella vita di partito, è assai frequente fra i dirigenti
del popolo. Su trentatré deputati, quanti ne inviò al Parlamento nel 1901 il Partito Socialista,
almeno sedici erano più belli della media: prestanti, con magnifici occhi, nasi, denti e mezzi
vocali» (ivi, p. 114).
56
Ivi, p. 101.
57
Ivi, p. 189.
58
Ivi, p. 191-192.
La critica elitista della democrazia 77
[…] compito del singolo dovrà essere dunque simile a quello di colui che
ricevette dal padre morente l’indicazione di un tesoro sepolto; non il tesoro,
che non si trova, ma il lavoro dedicato alla sua ricerca renderà fertile il cam-
po. La ricerca della democrazia non produrrà frutti di altra natura59
Ivi, p. 531.
59
Capitolo V
La profonda crisi vissuta tra gli anni ‘30 e ‘40 del Novecento costrin-
ge l’Europa, a conclusione della tragica avventura della guerra, a ripensa-
re in profondità alla forma della propria convivenza politica e sociale. La
bruciante esperienza della crisi economica scatenatasi a seguito del crollo
di Wall Street nel 1929 da un lato e quella delle soluzioni autoritarie in-
traprese per venirne a capo dall’altro, stimolano un processo di profon-
da rivisitazione delle forme, dei contenuti e delle finalità delle istituzioni
democratiche. La concorrenza dei sistemi socialisti rende questo processo
improcrastinabile, mettendo in moto una trasformazione accelerata delle
forme della politica che permette di sorpassare di un balzo le principali
perplessità che il liberalismo classico aveva sino ad allora conservato nei
confronti della democrazia1. Le perduranti resistenze all’estensione uni-
versale del suffragio, e in particolare quelle relative alla popolazione fem-
minile, sono superate nella maggior parte dei paesi europei, mentre, in
contrasto diretto con le politiche praticate dai regimi fascisti, viene conces-
so un ampio riconoscimento della libertà di iniziativa politica e sindacale
e viene perseguito un riassorbimento delle pulsioni plebiscitarie da questi
cavalcate, riassorbimento che prende la forma di un’estensione dei poteri
dei parlamenti a scapito di quelli dei governi2. L’idea che presiede a que-
1
Per un ampio catalogo di queste resistenze si veda D. Losurdo, Controstoria del liberalismo,
Laterza, Roma-Bari 2005. L’opposizione di principio tra liberalismo e democrazia è al cen-
tro dell’interessante lavoro di Chantal Mouffe. Cfr. Ch. Mouffe, The democratic paradox, Verso,
London-New York 2005.
2
La più celebre sintesi di questa nuova attitudine la si può trovare nelle opere di Hans Kel-
sen. Si veda ad es. H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, in Id., La democrazia, cit.
80 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
3
C. Offe, Legittimazione politica mediante decisione a maggioranza?, in N. Bobbio, C. Offe, S.
Lombardini, Democrazia, maggioranza e minoranze, Il Mulino, Bologna 1981, p. 77.
4
Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
5
T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, a cura di S. Mezzadra, Laterza, Roma-Bari 2002.
Cfr. R. D’Alessandro, Breve storia della cittadinanza, Manifestolibri, Roma 2006; D. Zolo (a cura
di), La cittadinanza: appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 81
6
Per restare al nostro paese, l’introduzione del ciclo unico delle scuole medie risale al 1962
(precedentemente esistevano due canali formativi, uno dei quali non permetteva di accedere
che alla formazione di tipo tecnico), la scuola materna statale è istituita nel 1968, la libera-
lizzazione degli accessi all’università è del 1969 (sino ad allora l’accesso a molte facoltà era
riservato agli studenti usciti dal classico), al 1971 risale l’istituzione del tempo pieno, al 1974 i
cosiddetti ‘decreti delegati’ che riformano il governo delle istituzioni scolastiche introducen-
dovi importanti elementi di democrazia.
7
Sono ad esempio gli anni nei quali vengono predisposte le prime forme di affirmative action
volte a fornire canali di accesso privilegiati alle minoranze nere, a parziale compensazione
delle discriminazioni subite. Simili misure vengono introdotte all’inizio degli anni ‘70 dalle
principali università americane, a coronamento delle lotte per i diritti civili degli anni ‘60.
Sul significato di questi strumenti all’interno del più ampio panorama delle politiche della
differenza, cfr. I. M. Young, Le politiche della differenza, Presentazione di L. Ferrajoli, Feltrinelli,
Milano 1996.
82 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
8
A. Mastropaolo, La democrazia è una causa persa?, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 125. Cfr.
anche A. Mastropaolo, Democrazia e postdemocrazia, «Ragion pratica», IV, 7, 1996, pp. 39-58; A.
Mastropaolo, Democrazia, postdemocrazia, neodemocrazia, «Rivista di diritto pubblico comparato
europeo», II, 4, 2001, pp. 1612-35.
9
J. Burnham, I difensori della libertà, Arnoldo Mondadori, Milano 1947, p. 242. Il testo di Bur-
nham, il cui titolo originale inglese è The machiavellians, è una delle tappe fondamentali della
diffusione americana dei risultati della riflessione elitista. Il distacco di Burnham dal giova-
nile trockismo era già stato compiuto con The managerial Revolution nel 1941. Cfr. anche J.H.
Meisel, The Myth of the Ruling Class. Gaetano Mosca and the «Elite», The University of Michigan
Press, Ann Arbor 1958.
10
Cfr. H. D. Lasswell, A. Kaplan, Potere e società: uno schema concettuale per la ricerca politica, Il
Mulino, Bologna 1997.
11
Secondo Mills il «sistema americano del potere è tale per cui il vertice è molto più unificato
e molto più potente e la base molto più disunita e pertanto impotente, di quanto suppongano
generalmente coloro che si lasciano fuorviare osservando gli strati medi del potere stesso: i
quali né esprimono la volontà della base, né determinano le decisioni del vertice» (Ch. Wright
Mills, L’élite del potere, Feltrinelli, Milano 1970 (1956), p. 34).
12
Cfr. N. Bobbio, Teoria delle élites, cit.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 83
13
J. Burnham, I difensori della libertà, cit. p. 243.
14
Cfr. J. Schumpeter, L’essenza e i principi dell’economia teorica, a cura di G. Calzoni, Laterza,
Roma-Bari 1982; J. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, a cura di P. Sylos Labini, Firen-
ze 1977; J. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, a cura di P. Sylos Labini e L. Occhionero,
Torino 1990.
15
L’edizione attuale è postuma, essendo stata pubblicata nel 1954 integrando anche il testo di
una conferenza tenuta da Schumpeter all’American Economic Association di New York pochi
giorni prima della morte.
16
J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, ETAS, Milano 2001, p. 231.
84 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
degli ebrei». Una simile prassi non verrebbe resa legittima dal semplice ri-
spetto delle procedure. Ciò dimostra, a parere di Schumpeter, che
[…] ci sono ideali ed interessi ultimi che anche il più fervente democratico
metterà al di sopra della stessa democrazia, e, se si dichiara partigiano infles-
sibile del credo democratico, ciò significa che è convinto di trovare nella de-
mocrazia una garanzia di difesa di quegli ideali ed interessi, come la libertà
di coscienza e di parola, un governo civile ecc.17.
17
Ibidem.
18
È curioso notare come Schumpeter anticipi qui quasi letteralmente la metodologia impiega-
ta da Bobbio nella costruzione della sua definizione minima. Per un commento si può vedere
M. Bovero, Contro il governo dei peggiori. Una grammatica della democrazia, Laterza, Roma-Bari
2000.
19
È la stessa conclusione cui giunge, a partire da tutt’altre premesse e preoccupazioni, Micha-
el Walzer in Sfere di giustizia, Feltrinelli, Milano 1983.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 85
20
J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, cit., p. 235.
21
Ibidem. Questa formulazione, tuttavia, è a sua volta imprecisa, poiché non permette di
distinguere la specificità dei governi cosiddetti democratici rispetto a tutte quelle forme di
governo autocratiche, dittatoriali, oligarchiche o plutocratiche che «ottennero normalmente
l’appoggio totale e spesso entusiastico di una maggioranza schiacciante del popolo».
22
Ivi, p. 236.
23
Ivi, p. 271.
24
Sul tema si possono vedere le Introduzioni alle due sole edizioni italiane che contengano
il testo di entrami i Trattati: J. Locke, Due trattati sul governo e altri scritti politici, a cura di L.
Pareyson, UTET, Torino 1982; J. Locke, Due Trattati sul governo, a cura di B. Casalini, cit..
86 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
Per quanto Schumpeter sappia bene che la fede democratica – così come
quella religiosa – non può essere eliminata mostrandone la distanza dai
fatti, egli si adopera in una sistematica distruzione delle premesse teoriche
della democrazia: il concetto di bene comune e la libertà e razionalità della
volontà popolare.
Anzitutto si tratta di capire che il bene comune non è univocamente de-
finibile, poiché gli uomini non sono affatto degli atomi intercambiabili ed
omogenei. L’eguaglianza, per Schumpeter come già per Pareto, «come af-
fermazione di fatto sulla natura umana, non è vera in nessun senso imma-
ginabile». Anzi, quando la «fraseologia democratica» tenta di identificare
ogni forma di ineguaglianza con l’ingiustizia essa non fa altro che ripren-
dere i temi tipici della «psicologia dei falliti e dell’arsenale del politicante
che la sfrutta»26.
Ma se anche si potesse definire univocamente un bene comune, esso
implicherebbe una convergenza sui mezzi e sui tempi atti a realizzarlo con-
cretamente che è impossibile stante la tendenziale irrazionalità dell’agire
umano e, particolare non certo secondario, la sua esposizione all’azione di
persuasori interessati:
25
J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, cit., p. 253-254.
26
Ivi, p. 242.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 87
Ciò che qui Schumpeter descrive con riferimento alla vita economica
vale a maggior ragione rispetto a quella politica. Il marketing politico ha in-
fatti per Schumpeter un margine di persuasività superiore alla tecnica pub-
blicitaria :
La fotografia della più graziosa fanciulla che mai sia nata su questa terra
si dimostrerà, alla lunga, impotente a sostenere la vendita di una sigaretta
cattiva; non esiste salvaguardia altrettanto efficace nel caso delle decisioni
politiche. Molte decisioni d’importanza cruciale sono di tal natura da rende-
re impossibile al pubblico un controllo sperimentale28.
27
Ivi, p. 245-246.
28
Ivi, p. 251.
29
Ivi, p. 250-251.
88 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
30
Ivi, p. 252.
31
Ivi, p. 257.
32
Ivi, p. 258.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 89
33
Ivi, p. 260.
34
Cfr. ivi, p. 280.
35
Ivi, p. 281.
36
Ivi, p. 260.
90 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
La politica nelle condizioni democratiche del suo esercizio viene così ri-
dotta dalla teoria di Schumpeter a semplice funzione incidentale della ben
più decisiva lotta per il potere. Da questa concezione residuale del politico
ripartirà pochi anni dopo l’ancor più cinica riflessione di Anthony Downs.
Per Downs lo scopo di ogni partito che partecipi al gioco elettorale demo-
cratico è solo apparentemente la realizzazione di questo o quel programma
politico-sociale. In verità «l’obiettivo primario degli appartenenti ai partiti
è» – invariabilmente – «quello di essere eletti»38. Nella prospettiva del radi-
cale egoismo metodologico fatta propria da Downs i politici
[…] agiscono solo per ottenere il reddito, il prestigio e il potere che derivano
dall’essere in carica. Di conseguenza non si verificherà mai nel nostro model-
lo che i politici cerchino una carica come mezzo per realizzare determinate
politiche; il loro unico obiettivo è di ottenere vantaggi connessi alla carica in
quanto tali: le proposte politiche sono semplicemente un mezzo per quegli
obiettivi personali che possono raggiungere solo se eletti. Su questo ragiona-
mento si basa l’ipotesi fondamentale del nostro modello: i partiti formulano
proposte politiche per vincere le elezioni; non cercano di vincere le elezioni
per realizzare proposte politiche39.
37
Ivi, p. 269.
38
A. Downs, Teoria economica della democrazia, Il Mulino, Bologna 1988, p. 63.
39
Ivi, p. 60.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 91
fosse, non potrebbe avvenire il fatto di esperienza comune che partiti diversi
adottino esattamente o quasi lo stesso programma»40.
40
J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, cit., p. 270. L’ipotesi è ripresa e svilup-
pata da Downs nei capitoli quarto e ottavo del suo Teoria economica della democrazia, cit.
41
Il modello consensuale di democrazia si sviluppa in netto contrasto con il modello mag-
gioritario. Esso si fonda sul meccanismo elettorale proporzionale e ha come proprio obiettivo
fondamentale quello di rispondere «agli interessi del maggior numero possibile di persone»,
stimolando «un’ampia partecipazione al governo e […] un ampio accordo sulle politiche che
questo deve perseguire»(A. Lijphart, Le democrazie contemporanee, Il Mulino, Bologna 1988, p.
14). Le democrazie consensuali si caratterizzano per una offerta politica più ampia, non solo
nel numero ma anche nella qualità, un’offerta che per trovare espressione politica deve pro-
durre governi di coalizione. La necessità della mediazione tra i diversi gruppi fa sì inoltre che
il potere politico sia meno rigidamente accentrato nell’esecutivo.
42
A. Lijphart, Le democrazie contemporanee, cit., p. 31.
43
W.A. Lewis, Politics in West Africa, George Allen and Unwin, London 1965; citato in A.
Lijphart, Le democrazie contemporanee, cit., p. 31.
92 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
44
Per una critica del modello maggioritario si veda M. Bovero, Contro il governo dei peggiori,
cit.
45
La dichiarazione è consultabile all’indirizzo: <http://coursesa.matrix.msu.edu/~hst306/do-
cuments/huron.html> (08/12).
46
Cfr. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967; Id., Critica della tolleranza,
Mimesis, Milano-Udine 2011.
47
L’abbandono della prospettiva analitica centrata sulla sovranità fatta propria dalla micro-
fisica del potere foucaultiana è anche una denuncia del carattere nominalistico dell’insieme
del vocabolario politico democratico. Stimolato dal 68, il pensiero di Foucault proseguirà e
Apogeo e critica della socialdemocrazia 93
approfondirà questo indirizzo di analisi nel corso degli anni ‘70, portando a compimento la
definizione del paradigma biopolitico. Cfr. da primo M. Foucault, Microfisica del potere. Inter-
venti politici, Einaudi , Torino 1977. Il quadro analitico sviluppato negli anni da Foucault è
particolarmente complesso, anche perché la sua analisi si sovrappone al superamento storico
della biopolitica welfarista – e all’affermarsi della nuova governamentalità neoliberale – che
stava avvenendo proprio in quegli anni. A proposito si vedano i corsi tenuti al Collège de
France, in particolare i decisivi Bisogna difendere la società (1975-1976), Sicurezza, territorio e po-
polazione(!977-1978), Nascita della biopolitica (1978-1979) tutti editi in Italia da Feltrinelli.
48
Cfr. J.-W. Müller, L’enigma democrazia. Le idee politiche nell’europa del Novecento, Einaudi, To-
rino 2012.
49
J. Agnoli, La trasformazione della democrazia, Feltrinelli, Milano 1969.
94 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
50
«il soddisfacimento ottimale [della classe operaia] si adatta a meraviglia a rendere invulne-
rabile la posizione della classe dominante e a creare il consenso verso il sistema politico» che
la difende (ivi p. 27).
51
Ivi p. 28.
52
L’espressione più aperta di questa tendenza è nelle ipotesi di governo tecnico, ipotesi che ri-
flettono la logica del nuovo partito quasi-istituzionale che «agisce come organo di classe della
conservazione perché pretende di non conoscere più classi ma soltanto ‘persone’, non idee in
rapporto con la società, ma soltanto ‘cose’. Al momento della decisione non prevalgono più i
bisogni e la pressione dei gruppi sociali esistenti, bensì ‘la forza delle cose’» (ivi p. 42).
Apogeo e critica della socialdemocrazia 95
53
Cfr. H. Laski, Reflections on the Revolution of our Time, Viking Press 1943.
54
Cfr. J.-W. Müller, L’enigma democrazia. Le idee politiche nell’europa del Novecento, Einaudi, To-
rino 2012.
96 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
Dall’altro lato del Reno, pubblicando nel 1967 La società dello spettaco-
lo55, Guy Debord aveva dato forma ad una critica altrettanto spietata della
democrazia postbellica, una critica che converge con quella di Agnoli nella
denuncia della riduzione spettacolare subita dalle istituzioni democratiche
nel corso delle loro trasformazioni.
Per comprenderne gli argomenti sarà qui necessario anzitutto soffer-
marsi sul concetto di spettacolo. Come già la merce in Marx, così anche lo
spettacolo sembra a prima vista una cosa triviale e ovvia, ma se viene ana-
lizzato nei suoi dettagli si scopre «che è una cosa imbrogliatissima, piena
di sottigliezza metafisica e di capricci teologici»56. Per Debord lo spettacolo
è, in un senso più ristretto, «il discorso ininterrotto che l’ordine presente
tiene su se stesso» per tramite dei mezzi di comunicazione di massa, un
discorso che rappresenta «l’autoritratto del potere all’epoca della gestione
totalitaria delle condizioni di esistenza»57. Il «monologo elogiativo» in cui
tale discorso spettacolare consiste, si configura come un regime di comunica-
zione rigidamente unilaterale cui spetta un sostanziale monopolio dell’appa-
renza di fronte al quale l’unico atteggiamento possibile rimane quello della
«accettazione passiva». Funzione dello spettacolo è la produzione comple-
mentare della passività dello spettatore-consumatore da un lato, e di un’
immagine della realtà volta a rappresentarla come «un’enorme positività
indiscutibile e inaccessibile» dall’altro58. Questa immagine unificata e in-
contestabile è per Debord «la principale produzione della società attuale»,
una produzione che contiene dentro di sé tanto una «esposizione generale
della razionalità del sistema»59 che la rende possibile, che una complessiva
giustificazione dello stesso.
Ridurre lo spettacolo alla narrazione massmediatica e alle sue insidie,
tuttavia, significherebbe per Debord cadere vittime dell’inganno in cui lo
spettacolo consiste. Oltre ad essere quella parte della società sulla quale
la società «concentra ogni sguardo e ogni coscienza» come su un settore
separato nel quale si trova «il centro della falsa coscienza»60 della società
contemporanea, lo spettacolo, inteso in un senso più ampio, coincide in-
fatti con la forma stessa della società. In questo senso, la società non è ‘spet-
tacolare’ in ragione dello sviluppo del sistema massmediatico, ma perché
55
G. Debord, La società dello spettacolo, Introduzione di C. Freccero e D. Strumia,
Baldini&Castoldi, Milano 2001-2002.
56
K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Libro I, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 103.
57
G. Debord, La società dello spettacolo, cit., §24. È in questo senso che Debord riconosce, alla
base del regime spettacolare contemporaneo, «la più vecchia specializzazione sociale», quella
del potere: con ciò «il più moderno» finisce per coincidere con «il più arcaico» (ivi, §23).
58
Ivi, §12.
59
Ivi, §14.
60
Ivi, §3.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 97
61
Ivi, §6.
62
K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Libro I, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 103.
63
G. Debord, La società dello spettacolo, cit., §4.
64
G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973.
65
G. Debord, La società dello spettacolo, cit., §37.
98 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
sia quantomai distanziati non solo dal prodotto del lavoro sociale ma anche
dalla coscienza di esserne gli artefici – sotto la forma di immagine. Come
per Agnoli lo scambio di opulenza e obbedienza tipico delle democrazie
del benessere permette di raggiungere la pace sociale senza intaccare real-
mente le strutture del dominio, così per Debord l’economia dell’abbondan-
za resa possibile dal welfare state non ha alleviato l’alienazione umana, ma
se possibile ha contribuito ad approfondirla:
66
Ivi, §43.
67
Cfr. il I capitolo del primo libro del Capitale.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 99
68
K. Marx, La questione ebraica, cit., p. 66.
69
G. Debord, La società dello spettacolo, cit., §20.
70
Ivi, §24.
71
M. Pezzella, Società autoritaria e democrazia insorgente, in G. Borrelli et al., La democrazia in
Italia, Cronopio, Napoli 2011, p. 182.
72
Cfr. l’introduzione all’edizione della Société du spectacle pubblicata da Gallimard nel 1992.
100 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
73
Nella prima edizione del testo – ripubblicata immutata una prima volta nel 1971 da Champ
Libre, e in seguito in una nuova versione da Gallimard nel 1992 – Debord distingue due forme
di spettacolo che nel loro insieme rendono conto della divisione mondiale dei compiti spet-
tacolari: lo ‘spettacolo concentrato’, tipico delle società del socialismo reale, e lo ‘spettacolo
diffuso’, tipico delle democrazie occidentali. Le due figure vengono sottoposte nel 1988 a una
revisione, per essere riunite nel contesto della stesura dei Commentari sulla società dello spetta-
colo nel concetto di ‘spettacolo integrato’.
74
Debord e i situazionisti si ritrovano qui – per lo meno in una prima fase vicini alle posizioni
‘eretiche’ del gruppo di Socialisme ou barbarie, fondato a Parigi nel 1949 da Cornelius Casto-
riadis e Claude Lefort. Socialisme ou barbarie aveva chiaro sin da allora che la società sovietica
rimaneva una società di classe basata sullo sfruttamento brutale della forza lavoro nonostante
la proprietà fosse stata trasferita allo stato. Secondo gli autori, l’opposizione di classe in URSS
non era in effetti costruita intorno alla proprietà giuridica, ma piuttosto, poggiando sulla se-
parazione delle funzioni di direzione ed esecuzione del lavoro, sulla distinzione tra classe
dei burocrati-organizzatori e popolo oggetto dell’organizzazione. A partire da questa analisi
viene rifiutato il concetto stesso di partito di avanguardia, che si ritiene perpetui la medesima
scissione. Per i rapporti tra Debord e il gruppo di Socialisme ou barbarie cfr. A. Jappe, Guy De-
bord, Manifestolibri, Roma 1999.
75
C. Offe, Lo stato nel capitalismo maturo, tr. it.parziale a cura di R. Schmidt e D. Zolo, Etas
Libri, Milano 1977, p. 20.
76
Cfr. C. Offe, «Ingovernabilità»: lineamenti di una teoria conservatrice della crisi, in Id. Ingoverna-
bilità e mutamento delle democrazie, Il Mulino, Bologna 1982.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 101
77
C. Offe, Stato, ingovernabilità e ricerca del «non politico», in Id., Ingovernabilità e mutamento delle
democrazie, cit., p. 48.
78
Cfr. C. Offe, Legittimazione politica mediante decisione a maggioranza?, in N. Bobbio, C. Offe, S.
Lombardini, Democrazia, maggioranza e minoranze, Il Mulino, Bologna 1981, p. 78.
102 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
79
C. Offe, Alcune contraddizioni del moderno stato assistenziale, in Id., Ingovernabilità e mutamento
delle democrazie, cit., p. 78.
80
Ivi, p. 65.
81
Ivi, p. 76.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 103
per ciò che riguarda i propri obiettivi politici82. Questi ultimi tendono anzi
sempre più a ridursi al raggiungimento del predominio nelle competizioni
elettorali:
Sembrerebbe così realizzarsi – per lo meno dal lato dell’input del pro-
cesso politico – una sempre più compiuta scissione tra un ambito della po-
litica, reso sempre più astratto, e quello della vita della società. Ciò non
significa che Offe non riconosca come i gruppi di interesse rappresentativi
delle diverse parti sociali non abbiano ruolo nella vita politica dei paesi de-
mocratici. Questo ruolo è anzi divenuto nel contesto dello stato assistenzia-
le maturo così rilevante che per influire sulle scelte politico-amministrative
questi gruppi non hanno più bisogno di passare attraverso la mediazione
della politica, ma intervengono direttamente e attivamente nel processo
decisionale usando i propri rispettivi «poteri di ostruzione» per produrre
attraverso «contrattazioni informali e altamente segrete» un consenso tanto
efficace quanto privo di formale legittimità democratica84.
Mentre i processi decisionali si spostano verso arene non politiche, l’a-
rena della politica democratica ufficiale vive un processo di rarefazione
progressiva dei propri contenuti. La trasformazione della forma e degli
obiettivi dei partiti fa sì che gli imperativi sistemici della crescita e della sicu-
rezza (declinata nel triplice senso della sicurezza sociale, della difesa dai
nemici esterni e del controllo interno della devianza) assurgano a principi
unanimemente condivisi dalla totalità dei partiti che si scontrano nel gioco
elettorale, contribuendo alla marginalizzazione politica di ogni espressione
di bisogni sociali eterogenei. La riconfigurazione politica avvenuta assieme
al sorgere dello stato assistenziale appare così come un raffinato sistema di
prevenzione di ogni messa in discussione radicale dell’ordine esistente. Il
sistema di protezioni sociali che alleviano le sofferenze dei reietti del mer-
82
Cfr. C. Offe, Il cambiamento dei confini del politico, in Id., Ingovernabilità e mutamento delle de-
mocrazie, cit.
83
Ivi, p. 90. Un’ulteriore implicazione della questione è che laddove si affermano i partiti
piglia-tutto, ovvero laddove «non esiste un sistema di partiti di classe,» o ancora «dove pre-
vale una situazione osannata verso il sessanta come la fine dell’ideologia, è verosimile che gli
interessi di classe», ossia le domande politiche delle diverse parti di cui si compone la società,
«siano espressi tramite canali altri dal sistema dei partiti» (C. Offe, Stato, ingovernabilità e ricer-
ca del «non politico», cit., p. 56).
84
Ivi, p. 51.
104 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
85
Cfr. C. Offe, Legittimazione politica mediante decisione a maggioranza?, cit.
86
Cfr. J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Roma-Bari 1975.
87
C. Offe, Stato, ingovernabilità e ricerca del «non politico», cit., p. 52. Offe è qui vicino alle analisi
di O’ Connor per il quale lo stato tardo-capitalista è intimamente e contraddittoriamente divi-
so tra i bisogni dell’accumulazione e della legittimazione. Ciò spiega la necessità della sua cri-
si che O’Connor descrive come la logica risultante di un circolo vizioso: la ricerca di consenso
spiega la tendenza delle spese governative ad aumentare più delle entrate; in virtù del tam-
pone dello stato sociale l’accumulazione privata cresce a ritmi accelerati; ma l’accumulazione
a sua volta produce su scala sempre più grande le costose conseguenze sociali che i sistemi di
welfare si occupano di mitigare, richiedendo un sempre più massiccio intervento dello stato
in economia: cfr. J. O’ Connor, La crisi fiscale dello Stato, Einaudi, Torino 1977.
88
C. Offe, Alcune contraddizioni del moderno stato assistenziale, cit., pp. 74-75.
89
Ivi, p. 73.
90
Ivi, p. 74.
91
Per Offe il compromesso welfarista è già sostanzialmente superato quando, a metà degli
anni ‘80 scrive Disorganised capitalism: contemporary transformations of work and politics, MIT
Press, Cambridge (Mass.) 1985.
92
L’espressione è di Samuel P. Huntington, in M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, La
crisi della democrazia. Rapporto alla Commissione trilaterale, Prefazione di Giovanni Agnelli, In-
Apogeo e critica della socialdemocrazia 105
Per gli autori del Rapporto, la crisi di governabilità della democrazia di-
pende dal successo stesso di quella democrazia progressiva di cui abbiamo
tracciato più sopra un sommario ritratto. I successi della democrazia post-
bellica hanno ampliato lo spettro dei partecipanti al gioco politico. Le fila
del ceto medio si sono ingrossate, innalzando il livello complessivo delle
aspettative e delle aspirazioni. Questo processo, nel contesto di un’ampia
ed attiva partecipazione politica, si è tradotto in una crescita delle richieste
avanzate nei confronti dei governi. L’eccesso di democrazia ha dunque so-
vraccaricato i governi, causando un indebito ampliamento della sfera del
loro intervento nell’economia e nella società ed esasperando così le ten-
denze inflazionistiche dell’economia. L’inflazione, a parere degli autori del
Rapporto, è «il male economico delle democrazie»95, incapaci di fronte alle
pressioni di una popolazione sempre più «esigente» e rivendicativa di limi-
tare le elargizioni statali, tagliando la spesa, aumentando le tasse o control-
lando prezzi e salari.
Il benessere ha poi reso possibile la diffusione, specie tra i giovani e le
categorie professionali «intellettuali», di nuovi valori politico-sociali post-
troduzione di Zbigniew Brzezinski, Franco Angeli, Milano 1973, p. 108. Espressioni coeve di
una medesima temperie culturale – che con Claus Offe si può definire «teoria conservatrice
della crisi» – sono anche: D. Bell, The cultural contradicitons of capitalism, Basic Books, New
York 1976; R . Moss, The collapse of democracy, Maurice Temple Smith, London 1975; J. Cornford
(ed.), The Failure of the State, Croom Helm, London 1975. Secondo Offe la caratteristica essen-
ziale di questa letteratura è quella di stornare le cause dell’ingovernabilità dal conto delle con-
traddizioni delle relazioni sociali capitaliste, per imputarle, appunto, all’eccesso di democrazia.
93 Per una presentazione contestualizzata del Rapporto, si veda A. Mastropaolo, La democrazia
è una causa persa, cit., in particolare le pp. 132-143. Cfr. anche J.-W. Müller, L’enigma democrazia,
cit.; D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2007.
94
M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia, cit., p. 157.
95
Ivi, p. 151.
106 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
borghesi. Questi valori sono stati fatti propri da una stampa sempre più
libera dalla deferenza nei confronti dell’autorità, e che ha «assunto un ruo-
lo sempre più critico verso il governo e i funzionari pubblici»96 abdicando
nel contempo alle proprie responsabilità nella conservazione degli assetti
sociali esistenti. L’espansione dell’istruzione superiore sulla base del prin-
cipio democratico dell’esistenza di un universale diritto allo studio ha peg-
giorato ulteriormente le cose. I sistemi di istruzione – spesso orientati alla
produzione di valori «contrastanti con quelli della società»97 – hanno infatti
sfornato «un numero di persone fornite di istruzione universitaria spro-
porzionato rispetto alle occupazioni per esse disponibili», con il corollario
di spreco di risorse e di produzione di frustrazioni psicologiche per i lau-
reati sotto o mal impiegati. La diffusione di questi valori ha prodotto un
diffuso indebolimento del principio di autorità in ogni ambito della vita socia-
le. Quelle che erano state le più importanti agenzie di socializzazione della
modernità – la famiglia, la chiesa, la scuola, l’esercito – sono state investite
da una critica che ne ha minato la legittimità e l’efficacia. Questa crisi del
principio di autorità aggrava la crisi della democrazia: è infatti nei con-
fronti di queste stesse leadership depotenziate che il pubblico dei cittadini
avanza le sue crescenti richieste di assistenza.
Secondo gli autori del rapporto:
[…] uno spirito di democrazia, troppo diffuso, invadente, può costituire una
minaccia intrinseca e insidiare ogni forma di associazione, allentando i vin-
coli sociali che reggono la famiglia, l’azienda e la comunità. Ogni organizza-
zione sociale richiede, in una certa misura, disparità di potere e differenze
di funzione. Nella misura in cui l’indole democratica intacca, nel suo diffon-
dersi, tutte queste componenti, esercitando in influsso livellatore e omoge-
neizzatore, distrugge le basi della fiducia e della cooperazione tra i cittadini
e intralcia la possibilità di collaborazione per un fine comune98.
96
Ivi, p. 164.
97
Ivi, p. 167.
98
Ivi, p. 149.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 107
Verso la postdemocrazia?
1
C. Crouch, Postdemocrazia, cit., p. 9.
110 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
Dal punto di vista delle unità politiche nazionali, l’età neoliberale è se-
gnata dall’apparire di una nuova forma istituzionale, diversa tanto dal par-
lamentarismo liberale a suffragio ristretto fondato sui partiti di notabili,
quanto dalle liberal-democrazie fondate sui partiti di massa e sul suffragio
universale. Questo sistema liberaldemocratico di ultima evoluzione, che al-
cuni chiamano appunto postdemocratico, si fonda su una nuova concezio-
ne del partito politico che, in linea con il riduzionismo schumpeteriano, lo
intende come una macchina elettorale sempre meno fondata sulla parteci-
pazione e sempre più condizionata, quando non direttamente controllata,
dalle lobbies affaristiche. In questo processo i partiti hanno trasformato le
proprie strutture, piegandole ad una deriva sempre più accentuatamente
plebiscitaria, attraverso la quale il cittadino-elettore è stato trasformato in
consumatore passivo di politica, che al momento del voto «acquista» l’of-
ferta migliore o meglio confezionata o meglio videopromossa2. Il potere
dell’oligarchia economica globale è divenuto tanto più forte quanto più i
partiti di massa tradizionali sono stati sostituiti da questi nuovi partiti ‘leg-
geri’, che non si fondano più sulle antitesi di classe e sulla militanza terri-
toriale ma che funzionano come macchine elettorali che sfruttano anzitutto
il potere di marketing politico conferito loro dal controllo dei mezzi di co-
municazione di massa.
2
Luigi Ferrajoli descriveva già questa deriva alla fine degli anni ‘70, parlando dell’emergere
di una forma di democrazia consensuale – che ha le sue radici nel fascismo «primo regime con-
sensuale di massa», e che non differisce differisce dai sistemi politici di stampo sovietico che
nei «mezzi di attivazione» del consenso stesso – non più fondata sulla rappresentanza degli
interessi, ma sulla rappresentazione del consenso. Cfr. L. Ferrajoli, Esiste una democrazia rappre-
sentativa?, cit., p. 35.
3
A questo modo di concepire la rappresentanza parlamentare allude ancora l’articolo 67 della
nostra Costituzione: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue
funzioni senza vincolo di mandato».
Verso la postdemocrazia? 111
Oggi, nei grandi Stati territoriali, sono i partiti i soli soggetti che han-
no la possibilità di riunire milioni di elettori in gruppi politicamente attivi.
Essi sono i portavoce di cui si serve il popolo, ormai emancipatosi, per poter
prendere le decisioni politiche e per potersi esprimere in modo articolato.
Oggi, senza il tramite di queste organizzazioni, il popolo vagherebbe qua
e là impotente e politicamente disordinato, come una massa amorfa, e non
sarebbe più in grado di esercitare un influsso sulle vicende statali, e di realiz-
zare se stesso, dunque, come unità che agisce nella sfera politica7.
4
G. Leibholz, Stato dei partiti e democrazia rappresentativa, in Id., La rappresentazione nella demo-
crazia, cit., p. 384.
5
Nel suo classico studio Teoria generale dello Stato (Allgemeine Staatslehre), Georg Jellinek può
sostenere ad esempio ancora nel 1900 che «nell’ordinamento statale il concetto di partito in
quanto tale non riveste alcun ruolo» (citato in G. Leibholz, Stato dei partiti e democrazia rappre-
sentativa, cit., p. 385).
6
G. Leibholz, Il mutamento strutturale della democrazia nel XX secolo, in Id., La rappresentazione
nella democrazia, cit., p. 333. Il mutamento strutturale cui accenna il titolo riguarda proprio
la transizione dalla democrazia liberale ottocentesca fondata sulla libertà da ogni forma di
mandato dei rappresentanti politici, ad una nuova forma di democrazia di ispirazione plebi-
scitaria, lo «Stato democratico dei partiti», nella quale i partiti fungono da organi di raccolta e
trasmissione della volontà popolare.
7
G. Leibholz, Stato dei partiti e democrazia rappresentativa, cit., p. 387.
112 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
volontà dello Stato»8. Kelsen ne concludeva per la necessità dei partiti politi-
ci, che dovevano sorgere naturalmente dall’»evoluzione irresistibile»9 delle
istituzioni democratiche come quegli indispensabili strumenti attraverso i
quali raggruppare e rendere così politicamente efficaci le affinità politiche
dei cittadini. A suo avviso l’attacco ai partiti nell’era del liberalismo classico
(che Kelsen preferisce descrivere come l’era delle monarchie costituziona-
li) nascondeva un attacco «ideologicamente mascherato contro l’attuazio-
ne della democrazia»10. Poiché l’idea di un «interesse generale superiore e
trascendente gli interessi dei gruppi»11 va catalogata tra le illusioni metafi-
siche, se una volontà generale può esistere essa deve emergere dal compro-
messo tra gli interessi, e di questi interessi i rappresentanti naturali sono
per Kelsen i partiti. Chi ne critichi la funzione è dunque qualcuno che mira
al dominio assoluto degli interessi di un gruppo e a mascherare questo
dominio qualificandolo come realizzazione di una volontà ‘organica’ supe-
riore a quella delle singole parti. Così, pur se l’affermazione dei partiti non
comporta una reintroduzione del mandato imperativo «nella sua antica
forma», essa comporta nondimeno «un controllo permanente dei deputati
da parte dei gruppi di elettori costituiti in partiti politici» che rappresenta
una innegabile novità rispetto al parlamentarismo liberale classico, una no-
vità capace di minimizzare il classico problema della «irresponsabilità del
deputato di fronte ai suoi elettori»12.
Per Leibholz, diversamente che per Kelsen, l’affermazione dei partiti
non è nulla di connaturato alla democrazia moderna in quanto tale. Essa
segna piuttosto una decisiva cesura nell’evoluzione delle istituzioni de-
mocratiche, una cesura capace di inaugurare una nuova forma politica, lo
«Stato dei partiti» appunto. Secondo Leibholz lo Stato dei partiti – diversa-
mente dalla democrazia liberale che Kelsen stesso riconosceva fondarsi sul-
la «finzione della rappresentanza»13 – è «una manifestazione razionalizzata
della democrazia plebiscitaria o, se si vuole, un surrogato della democrazia
diretta»14 fondato sull’identificazione della volontà della maggioranza in
carica con la volontà generale. Questa nuova configurazione del gioco de-
mocratico è essenzialmente diversa dalla configurazione precedente, quel-
la della democrazia liberale classica. La differenza principale tra queste
due forme politiche sta nel fatto che, nella nuova configurazione tipica del-
le società di massa, i partiti ricevono in realtà dai propri elettori una sorta
di mandato plebiscitario che costituisce una radicale innovazione rispetto alle
8
H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, cit., p. 63.
9
Ivi, p. 70.
10
Ivi, p. 64.
11
Ivi, p. 68.
12
Ivi, p. 89.
13
Ivi, p. 76 e ss..
14
G. Leibholz, Stato dei partiti e democrazia rappresentativa, cit., p. 390.
Verso la postdemocrazia? 113
Verso la fine del XIX secolo gruppi di operai, molti di quelli specializza-
ti e anche alcuni di quelli non specializzati, si organizzarono con successo
creando i sindacati e aspirando alla piena partecipazione politica nella gran
parte del mondo industrializzato, ma con esperienze molto diverse nei vari
paesi. […] Nonostante questa estrema diversità sulla strada della democra-
zia, quasi sempre la classe operaia ha sperimentato qualche forma di esclu-
sione politica. Vi era anche un forte senso di esclusione sociale, poiché la
maggior parte dei gruppi di lavoratori non manuali del periodo ritenevano
persino gli operai specializzati socialmente inadeguati. Questi fattori erano
rafforzati da modelli di segregazione abitativa che producevano comunità
di una sola classe nelle periferie di molte città industriali. […] La relativa
esclusione sociale dei lavoratori portava a temere il loro malcontento e la
15
Il concetto è sviluppato per la prima volta da R.A. Dahl nel 1961 in Who Governs?: Demo-
cracy and Power in an American City. Dahl lo usava per sostenere, contro alla teoria delle élite
di Wright-Mills, che seppure quella americana non fosse descrivibile come una democrazia
‘popolare’, essa era comunque almeno una società politica pluralista, percorsa da poteri e
contropoteri in grado di controbilanciarsi l’uno con l’altro.
16
Cfr. N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1995, p. 11.
114 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
miseria di una parte di essi era un preoccupante problema sociale – noto nel
dibattito politico in ambiente cattolico come la questione sociale. Dalla fine
del XIX secolo al terzo venticinquennio del XX, la principale preoccupazione
in politica interna fu la gestione dell’esistenza di questa classe. […] In que-
sto periodo la classe si accresceva numericamente, e probabilmente anche
nel reddito, tanto che cominciò a incidere sui consumi, nella politica delle
relazioni industriali e del benessere sociale. Poteva ragionevolmente essere
presentata come la classe del futuro, e i politici di quasi tutti i partiti sape-
vano che il loro futuro dipendeva dalla loro capacità di rispondere alle sue
richieste. Inoltre, fu solo quando l’economia venne ristrutturata per rendere
possibili condizioni di vita favorevoli alla classe lavoratrice, a metà del XX
secolo, che decollò il capitalismo della produzione di massa17.
Ora, verso la metà degli anni 70 – la svolta simbolica può essere posta
nella crisi petrolifera – il ruolo politico centrale della classe operaia iniziò
a declinare. La smisurata crescita della produttività resa possibile dall’au-
tomazione ridusse il numero di lavoratori necessari a svolgere un deter-
minato compito, comportando una riduzione secca della dimensione della
classe operaia. Contemporaneamente, la crescita dell’economia immateria-
le e dei servizi attirò un crescente numero di lavoratori fuori dal lavoro di
tipo manuale, moltiplicando l’eterogeneità sociale della popolazione:
17
C. Crouch, Postdemocrazia, cit., pp. 61-63.
18
Ivi, pp. 65-66.
19
Cfr. I.M. Young, La politica della differenza, cit.
Verso la postdemocrazia? 115
«Se ci basiamo sulle tendenze recenti, il classico partito del XXI secolo sarà formato da una
21
élite interna che si auto-riproduce, lontana dalla sua base del movimento di massa, ma ben
inserita in mezzo a un certo numero di grande aziende, che in cambio finanzieranno l’appalto
di sondaggi d’opinione, consulenze esterne e raccolta di voti, a patto di essere ben viste dal
partito quando questo sarà al governo» (Ivi, pp. 83-84).
116 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
Gli odierni partiti post-democratici non sono più come all’origine della
parabola storica della democrazia partitica un’emanazione degli interessi
concorrenti delle diverse classi sociali, ma funzionano piuttosto come un
meccanismo autolegittimante che, pur continuando a fondarsi sulla finzione
istituzionale della rappresentanza, compone un insieme ormai simile a una
burocrazia di stato, una burocrazia impegnata a reinvestire il proprio po-
tere nella ricostruzione delle basi del potere stesso, in un corto circuito che
distribuendo risorse, vantaggi e privilegi costruisce stabilità e immunizza
dal rischio del mutamento sociale. Come afferma Danilo Zolo, le direzio-
ni dei partiti si ritrovano ad essere ormai titolari esclusive del potere che
Schumpeter affidava agli elettori: «sono esse che ‘producono’ i governi e
sono esse che i governi ‘rappresentano’»22. Così, non solo nelle condizio-
ni politiche della postdemocrazia, «l’elettore, anziché scegliere, sarà stato
scelto, creato, plasmato dall’eligendo» trasformando l’elezione in «un mero
rito di legittimazione esteriore»23 che assume connotati autocratici, ma, co-
me avevano intuito Agnoli e Debord, allo stesso tempo la competizione tra
partiti tende a minimizzarsi.
L’offerta politica, sempre più sensibile alle ‘richieste della gente’ che i
sondaggi permettono di auscultare, tende infatti ad omogeneizzarsi per
raggiungere il condiviso obiettivo della customer satisfaction. Le differen-
ze tra le proposte politiche vengono così sostituite dalla competizione
mediatica tra le ‘immagini’ dei differenti partiti. I nuovi partiti post-demo-
cratici dedicano infatti «alla confezione retorica e telegenica dei loro mes-
saggi» tanta più cura quanto meno «la sostanza del prodotto è realmente
differenziata»24. Per caratterizzare l’offerta di questi prodotti politici sem-
pre più sostanzialmente indistinguibili, indispensabile diviene la figura del
leader che – come vuole la logica del marketing impadronitasi della politi-
ca – è scelto in virtù della capacità carismatica di imporre al proprio brand
politico un sapore distinto e riconoscibile, permettendo al partito-macchina
di riferimento di trionfare nelle campagne elettorali.
22
D. Zolo, Il principato democratico, Feltrinelli, Milano 1996, p. 148.
23
M. Bovero, Contro il governo dei peggiori, cit., p. 149.
24
D. Zolo, Il principato democratico, cit., p. 152.
Verso la postdemocrazia? 117
25
«I moderni capi non sono in rotta con la democrazia, anzi, per molti versi, ne incarnano
l’estremo sviluppo. Godono di un ampio consenso popolare, in forme sempre più plebisci-
tarie e sondocratiche che non possono, tuttavia, essere tacciate di violare il principio base
della democrazia: l’investitura da parte di una maggioranza di elettori. La loro forza consiste
proprio nel potersi vantare di aver ripristinato – spesso attraverso lo strumento dell’elezione
diretta – il rapporto tra leader e popolo che i vecchi partiti avevano logorato» (M. Calise, Il par-
tito personale. I due corpi del leader, nuova edizione ampliata, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 114).
118 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
lontà dei rappresentanti e del loro capo con la volontà popolare»26. I partiti
post-democratici sembrano dunque essere regrediti verso una concezione
della rappresentanza simile a quella del più classico liberalismo ottocen-
tesco27, una concezione metodologicamente individualistica e tendenzial-
mente plebiscitaria, che ha come proprio fine l’identificazione diretta del
singolo elettore con la maggioranza di governo e in particolare con il suo
capo, immaginati come «l’espressione diretta ed organica della volontà e
della sovranità popolare sulle quali soltanto si fonderebbe la legittimità dei
pubblici poteri»28.
La crisi della democrazia dei partiti, innescatasi come abbiamo visto nel
corso degli anni ‘70, ha avuto un decorso particolarmente rapido. Le tra-
sformazioni sopra descritte sono state accompagnate da una crescita della
sfiducia nelle istituzioni democratiche sulle cui ragioni torneremo anche
nel corso del prossimo paragrafo, descrivendo il processo di commercia-
lizzazione della cittadinanza sociale. Un’ultima considerazione che qui si
impone riguarda quelle risposte che, di fronte all’evidente malessere in cui
versano le istituzioni democratiche, tendono a rifiutare in maniera radicale
l’insieme dei dispositivi della politica ufficiale, considerandoli espressione
di un mondo intimamente corrotto e autoreferenziale. È il fenomeno co-
nosciuto giornalisticamente sotto l’etichetta di antipolitica, termine parti-
colarmente ambiguo all’interno del quale convergono fenomeni di natura
assai diversa.
Vi è anzitutto un’antipolitica dal basso, fatta di rancore nei confronti di
quella che è percepita come una ‘casta’ chiusa ed autoreferenziale, di sem-
pre più alti tassi di astensionismo elettorale, di calo dei militanti e degli
iscritti ai partiti, di disinteresse e di sfiducia nei confronti di tutto ciò che
con la politica ufficiale ha a che fare, di tentazioni giustizialiste di far ‘piaz-
za pulita’ di ogni cosa. Un’apatia rancorosa e per nulla rassicurante che non
26
L. Ferrajoli, Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 22.
Facendo riferimento al nostro paese, Ferrajoli indica l’espressione più evidente di questa ten-
denza nella Legge 270 del 2005 – nota anche come legge Calderoli o Porcellum – che ha tra-
sformato le elezioni in nomine dei rappresentanti da parte dei vertici dei partiti, privando nel
contempo della rappresentanza consistenti minoranze, deformando così in senso plebiscitario
la nostra democrazia.
27
Secondo Danilo Zolo sarebbe questo invece il segno del carattere post-rappresentativo de-
gli attuali partiti, che non sarebbero altro che «una oligarchia di imprenditori elettorali». Ma
è appunto questa, mi pare, la continuità degli attuali meccanismi della rappresentanza con
la tradizione del notabilato liberale. Cfr. D. Zolo, Da cittadini a sudditi, Edizioni Punto Rosso,
Roma 2007, p. 76.
28
L. Ferrajoli, Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana, cit., p. 22.
Verso la postdemocrazia? 119
appare più come era potuto pure accadere nel passato come sinonimo del
buon funzionamento delle istituzioni democratico-liberali29.
Quello che più conta però, è che questo genere di antipolitica ‘dal bas-
so’ è stata intercettata dai meccanismi del marketing elettorale, facendo la
fortuna di partiti e movimenti ‘di protesta’ che ad essa si sono ispirati per
ottenere importanti consensi elettorali, riprendendo a proprio vantaggio il
discorso sul malessere democratico30. Questo fenomeno può essere descrit-
to come una forma di antipolitica ‘dall’alto’: alla sua base vi è il fatto che gli
esperti di marketing politico hanno compreso che, in un’epoca postpolitica
nella quale il meccanismo della rappresentanza partitica si è come abbiamo
visto inceppato, anche ‘l’odio per i partiti politici’ può divenire un interes-
sante prodotto elettorale. Il consenso elettorale può infatti essere raccolto in-
torno a qualunque tema susciti le paure, l’indignazione, la curiosità anche
morbosa della pubblica opinione. Ogni tema oggetto di pubblica discussio-
ne, anche quelli le cui rilevanze pubbliche sono più discutibili, può assur-
gere, nella logica della competizione elettorale spettacolare, a strumento di
costruzione di cleavages politici, e dunque a strumento di distinzione del
proprio brand. In questo senso l’antipolitica non deve essere considerata
come un fenomeno esterno alla politica stessa, ma come una delle tante di-
rezioni prese dalla politica in un’epoca postdemocratica.
29
Cfr. W.H. Morris Jones, In Defense of Apathy. Some Doubts on the Duty to Vote, «Political Stu-
dies», II, 1, 1954, pp. 25-37. Ma si veda anche, per un diverso argomento, A. Muxel, L’absten-
sion. Déficit démocratique ou vitalité politique?, «Pouvoirs», 120, 1, 2007, pp. 43-55. Non sempre
poi la partecipazione elettorale è sinonimo di affezione al gioco democratico: cfr. A. Mastropa-
olo, Nuove destre, populismo, antipolitica, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
30
Cfr. A. Mastropaolo, La democrazia è una causa persa, cit., pp. 252-279.
31
U. Beck, Che cos’è la globalizzazione: rischi e pericoli nella società planetaria, cit.; D. Zolo, Glo-
balizzazione. Una mappa dei problemi, cit.; Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze
per le persone, Laterza, Roma-Bari 2001; D. Held, A.G. McGrew, Globalismo e antiglobalismo, Il
Mulino, Bologna 2001; S. Sassen, Una sociologia della globalizzazione, Einaudi, Torino 2008; Z.
Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2007; C. Galli, Spazi globali. L’età moderna e l’età
globale, Il Mulino, Bologna 2001.
120 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
mali, la cui influenza non ha smesso di crescere anche a fronte del loro
palese deficit democratico32. La pressione di queste istituzioni, e più in ge-
nerale quella dell’economia e della finanza globalizzati, hanno contribuito
ad innescare, all’interno degli stati nazionali, una lunga stagione di libe-
ralizzazioni che hanno svuotato dall’interno la sostanza di cui si era rive-
stita la democrazia postbellica, sottomettendo i servizi pubblici a logiche
privatistiche, spogliandoli di competenze, inquinandone le ragioni di esi-
stenza. Questa nuova temperie culturale ha prodotto una sempre maggiore
disaffezione degli utenti, che ha confermato circolarmente la necessità di
procedere a ulteriori trasferimenti di competenze dal pubblico al privato.
La nuova egemonia neoliberale si è concretizzata così in una sistematica
opera di disinvestimento dall’intervento pubblico da parte degli stati e di
progressiva demolizione delle istituzioni del welfare state.
32
S. Strange, Chi governa l’economia mondiale? Crisi dello stato e dispersione del potere, Il Mulino,
Bologna 1998; S. Sassen, Fuori controllo, Il Saggiatore, Milano 1998; J. Habermas, La costellazione
postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, Feltrinelli, Milano 1999.
33
G. Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, cit.; F. Chesnais, La mondialisation du capital,
Syros, Paris 1997; L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, cit.; L. Gallino, Glo-
balizzazione e disuguaglianze, cit.; S. Sassen, Globalizzati e scontenti. Il destino delle minoranze nel
nuovo ordine mondiale, Il Saggiatore, Milano 2002.
Verso la postdemocrazia? 121
tanto negli standard di tutela del lavoro, quanto nel sistema fiscale e dunque,
più o meno indirettamente, nella qualità dei servizi pubblici. Il meccanismo
è tanto semplice quanto noto. Se un’impresa globale trova il regime fiscale
o l’organizzazione del lavoro di un determinato luogo poco favorevoli, può
minacciare di trasferirsi altrove. Una simile minaccia funziona nei confron-
ti dei governi locali come una pressione assai più efficace di quella che può
essere esercitata dai cittadini di quel dato paese. Le aziende globali diven-
gono dunque capaci di condizionare in profondità le politiche delle diverse
nazioni, in particolare le politiche del lavoro e quelle fiscali, e questo «an-
che se non risiedono nel Paese in questione, non godono dei diritti formali
di cittadinanza e non pagano le tasse»34.
La difficoltà di resistere a simili pressioni si aggrava se si tiene in con-
siderazione la forma inafferrabile assunta dalle multinazionali globali, la
cui proprietà si nasconde dietro una mutevole costellazione di azionisti, i
cui investimenti si spostano in continuazione. Queste aziende inafferrabili
– specie riguardo alle proprie responsabilità fiscali, sociali e ambientali –
esercitano dunque sui governi una pressione pressoché irresistibile perché
questi realizzino condizioni più favorevoli all’investimento, deregolamen-
tando le condizioni del lavoro, abbassando i regimi di imposizione fiscale,
tagliando le spese statali inutili dal punto di vista delle aziende. Abbassare
il costo della macchina statale – anche a costo di mettere a rischio i servizi
essenziali per la cittadinanza (la sanità, l’istruzione, la previdenza sociale
ecc.) – significa infatti, dal punto di vista delle multinazionali, ottimizzare il
regime fiscale di riferimento.
Il mercato del lavoro deve essere reso flessibile, al doppio scopo di com-
primerne nel breve termine il costo e, a lungo termine, di atomizzarne le
componenti, riducendone le capacità rivendicative. Come ha messo in luce
Luciano Gallino, una flessibilità pienamente realizzata tende a sostituire
(sino al limite della tendenziale estinzione) la contrattazione collettiva con
una contrattazione puramente individuale35. La logica sociale neoliberista
tende asintoticamente a spazzare via ogni solidarietà sociale, per ridurre
la società ad una somma inorganica di individui solitari e conflittualmente
competitivi36. La funzione di pacificazione sociale che, secondo Agnoli ed
Offe, veniva garantita dallo stato sociale viene rilevata dallo stato penale37.
34
C. Crouch, Postdemocrazia, cit., pp. 42-43.
35
Cfr. L. Gallino, Il costo umano della flessibilità, Laterza, Roma-Bari 2001.
36
Nella medesima direzione spinge la logica del debito analizzata da Maurizio Lazzarato, La
fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, DeriveApprodi, Verona 2012.
37
S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli, Milano 2000;
L. Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neo-
liberale, Feltrinelli, Milano 2000; L. Wacquant, Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale,
Ombre corte, Verona 2002; D. Garland, The Culture of Control: Crime and Social Order in Con-
temporary Society, Oxford University Press, Oxford 2001; L. Re, Carcere e globalizzazione. Il boom
penitenziario negli Stati Uniti e in Europa, Laterza, Roma-Bari 2006. Cfr. anche il Poscritto sulle
società di controllo, in G. Deleuze, Pourparlers, Quodlibet, Macerata 2000.
122 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
Diventa così vero per l’intera società ciò che nell’analisi marxiana era tipi-
co della piccola proprietà contadina, che come abbiamo visto era stata la
base sociale fondamentale del bonapartismo: oggettivamente accomunati
da condizioni di vita sempre più simili nella loro sempre più spinta pre-
carietà, gli abitanti delle società postdemocratiche non riescono a costruire
rapporti reciproci tali da permettere loro di trasformarsi in una classe au-
tocosciente e politicamente attiva. Ridotti dalla solitudine del proprio isola-
mento a curarsi solo del proprio individualissimo ‘pezzo di terra’, «incapaci
di far valere i loro interessi nel loro proprio nome» gli individui postdemo-
cratici divengono così l›ideale terreno di coltura delle nuove forme di cesa-
rismo mediatico che abbiamo analizzato nel precedente paragrafo, forme
che legittimano plebiscitariamente il controllo sociale sempre più capillare
ed invasivo che viene esercitato su di loro. Come i piccoli proprietari di cui
parlava Marx essi
Dalla metà del XX secolo una serie di servizi di base sono stati almeno
parzialmente sottratti alla sfera d’azione del capitalismo e alle logiche del
mercato, perché considerati troppo importanti e universali. Come ha soste-
nuto T.H. Marshall in una formulazione memorabile, la gente ha acquisito il
diritto a questi beni e servizi, specie questi ultimi, in virtù del proprio status
di cittadini e non perché potessero comprarli sul mercato. Così come è dive-
nuto un tratto distintivo della democrazia che il diritto di voto o il diritto al
giusto processo non fossero in vendita, altrettanto è stato per il diritto a certi
servizi: se essi fossero messi sul mercato, questo rappresenterebbe una sorta
di diminuzione del valore della cittadinanza. […] La lista dei servizi varia
da una società all’altra e secondo le epoche, ma di solito include il diritto a
certi livelli di istruzione, sanità, varie forme di assistenza (compresi diversi
38
K. Marx, Il 18 brumaio, cit., p. 146.
Verso la postdemocrazia? 123
Ivi, p. 53.
40
124 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
41
È ciò a cui allude, come è noto, l’articolo 3 della nostra Costituzione, che dopo aver ricorda-
to il principio di eguaglianza ci tiene a precisare che questo principio non deve essere inteso in
senso soltanto formale: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economi-
co e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazio-
ne politica, economica e sociale del Paese».
42
La migliore panoramica è quella di S. Castles, M.J. Miller, The Age of Migrations (4th ed.),
Palgrave MacMillan 2009.
43
Cfr. ad es. S. Sassen, Globalizzati e scontenti, cit.
44
C. Crouch, Postdemocrazia, cit., p. 43.
Verso la postdemocrazia? 125
[…] partendo da una condizione della società nella quale tutte le relazioni
tra Persone erano riassunte all’interno delle relazioni della Famiglia, sembra
ci siamo mossi verso verso una fase dell’ordine sociale nella quale tutte que-
ste relazioni nascono da liberi accordi tra Individui. In Europa Occidentale il
progresso realizzato in questa direzione è considerabile. Lo status di Schiavo
è scomparso – è stato sostituito dalla relazione contrattuale che lega servo e
padrone. Lo stato della Donna sotto Tutela, se la tutela viene concepita come
quella di persone diverse dal marito, ha anch’essa cessato di esistere; dal
momento della maggiore età sino al matrimonio tutte le relazioni nelle quali
la donna può entrare sono di tipo contrattuale. Così pure lo status del Figlio
sottomesso al Potere genitoriale non ha spazio nell’ordinamento legale delle
moderne società europee. Se una qualche obbligazione civile lega assieme il
Genitore e il figlio che abbia raggiunto l’età adulta, si tratterà di un’obbliga-
zione che trae la sua validità legale solamente dal contratto46.
[…] il contratto moderno è in sostanza un accordo tra uomini che sono liberi
e che posseggono uno status di uguaglianza. Lo status differenziato, legato
alla classe, alla funzione e alla famiglia, veniva sostituito da un unico status
uniforme della cittadinanza, che forniva le basi ugualitarie su cui si poteva
edificare la struttura della disuguaglianza47.
46
H.S. Maine, Ancient Law. Its Connection With the Early History of Society, and Its Relation to
Modern Ideas, 1861.
47
T. H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, cit., p. 37.
48
La cittadinanza, nella presentazione marshalliana, «è uno status che viene conferito a co-
loro che sono membri a pieno diritto di una comunità. Tutti coloro che posseggono questo
status sono uguali rispetto ai diritti ed ai doveri conferiti da tale status» (ivi, p. 31).
Verso la postdemocrazia? 127
dei diritti ad essa connessi, secondo la ben nota successione di diritti civili,
politici e sociali. La storia della cittadinanza moderna appare così come la
storia di un movimento irresistibilmente tendente all’inclusione e all’ugua-
glianza, un movimento che coincide in buona misura con la storia del pro-
gressivo affermarsi delle moderne democrazie.
49
E. Balibar, Nous citoyens d’Europe. Les frontières, l’Etat, le peuple, La Découverte, Paris 2001; E.
Balibar, Droit de cité. Culture et politique en démocratie, Editions de l’Aube, Paris 1998.
50
E. Balibar. Nous citoyens d’Europe, cit., p. 246.
51
E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino 1976, vol. I, p. 258.
52
Cfr. M. Détienne, Comment être autochtone. Du pur Athénien au Français raciné, Seuil, Paris
2003.
128 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
53
C. Joppke, Citizenship and Migration, Polity, Cambridge 2010, p. 149. Joppke ne deduce che
non ci sia alcuna possibile way back verso questo mondo definitivamente passato. In verità,
la rivoluzione epistemologica cui Joppke si riferisce ha contribuito a diffondere l’illusione
che la battaglia contro il razzismo fosse vinta già negli anni ‘50 del Novecento, quasi che le
pretese scientifiche del razzismo teorico fossero state in ultima istanza la causa determinante
del razzismo europeo e che la tragica sconfitta storica della metafisica razziale nazista, unita
ad un’adeguata opera di educazione antirazzista, avesse potuto scongiurare il rischio del suo
ripresentarsi. L’esperienza successiva ci ha mostrato una diversa evidenza: le razze, la cui
stessa esistenza era pur stata screditata dalla scienza biologica, hanno continuato ad esistere
e a riprodursi nelle pratiche sociali, tanto come risultati dei processi di gerarchizzazione e di
sfruttamento, quanto come punti di convergenza identitari attorno ai quali organizzare stra-
tegie di resistenza a questi stessi processi. Cfr. E. Balibar, La construction du racisme, «Actuel
Marx», 38, 2, 2005, pp. 11-28; Th. Casadei, L. Re (a cura di), Differenza razziale, discriminazione e
razzismo nelle società multiculturali, Voll. 1 e 2, Diabasis, Reggio Emilia 2007; Th. Casadei (a cura
di), Razza, discriminazioni, istituzioni, numero monografico della «Rivista trimestrale di scienza
dell’amministrazione», LII, 4, 2007.
54
Cfr. N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990.
55
Cfr. I. Kant, Per la pace perpetua, in particolare il Terzo articolo definitivo, in Id., Sette scritti
politici liberi, a cura di Maria Chiara Pievatolo, Firenze University Press, Firenze 2011. Per una
analisi delle implicazioni si veda G. Marini, La filosofia cosmopolitica di Kant, Laterza, Roma-
Bari 2007.
56
M. Walzer, Sfere di giustizia, cit., p. 61.
Verso la postdemocrazia? 129
57
Ivi, p. 70.
58
In realtà questa necessità dipende dal carattere «binario» (dentro-fuori) della cittadinanza
che, diversamente dall’appartenenza (belonging) o dai legami socio-economici (ties o stakes),
non conosce quel genere di sfumate gradazioni che contraddistinguono l’esperienza concreta
di chi vive sui – o tra i – confini. Cfr. R. Bauböck (ed.), Blurred boundaries. Migration, Ethnicity,
Citizenship, Ashgate, Aldershot 1997.
59
E. Balibar. Nous citoyens d’Europe, cit., p. 246.
60
Cfr. E. Balibar, Lo schema genealogico: razza o cultura?, «La società degli individui», 41, 2,
2011, pp. 11-21.
61
P. Basso (a cura di), Razzismo di stato. Stati Uniti, Europa, Italia, Franco Angeli, Milano 2010;
P. Basso, F. Perocco (a cura di), Gli immigrati in Europa. Diseguaglianze, razzismo, lotte, Franco
Angeli, Milano 2003.
130 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
Il controllo dei confini nazionali non si limita allo specifico dominio dei
confini fisici e territoriali dello stato nazione ma si estende anche al territorio
interno, e dà forma alla messa in atto della cittadinanza democratico-eguali-
taria all’interno della società nazionale 62.
Letta nella prospettiva del confinamento e del controllo della forza la-
voro mondiale, la cittadinanza nazionale, lungi dal funzionare come un
principio di inclusione, produce dunque gerarchia e inferiorità, contri-
buendo a perpetuare sino al nostro presente dispositivi di origine colo-
niale65. Secondo Stephen Castles è proprio a tali dispositivi che dobbiamo
62
L.S. Bosniak, The Citizen and the Alien: Dilemmas of Contemporary Membership, Princeton Uni-
versity Press, Princeton 2006, p. 9.
63
L. Ferrajoli, Democrazia e paura, in M. Bovero, V. Pazé, La democrazia in nove lezioni, Laterza,
Roma-Bari 2010; D. Bigo, Sicurezza e immigrazione. Il governo della paura, in S. Mezzadra, A.
Petrillo, (a cura di), I confini della globalizzazione. Lavoro, culture, cittadinanza, Manifestolibri,
Roma 2000; A. Geddes, Immigration and European Integration. Towards Fortress Europe?, Man-
chester University Press, Manchester and New York 2000; A. Dal Lago, Non persone. L’esclusio-
ne dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 1999.
64
E. Balibar, Nous citoyens d’Europe, cit. p. 309.
65
Cfr. S. Mezzadra, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Ombre corte, Vero-
na 2006 (nuova ed.); S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale,
Ombre Corte, Verona 2008; D. Costantini (a cura di), Multiculturalismo alla francese? Dalla colo-
nizzazione all’immigrazione, FUP, Firenze 2009.
Verso la postdemocrazia? 131
66
Questa trasformazione delle strategie del razzismo erano già state colte da Frantz Fanon
che in una conferenza pronunciata nel 1956 a Parigi, in occasione del ‘Primo congresso degli
scrittori e degli artisti neri’, descriveva il riconfigurarsi del razzismo su basi ‘culturali’ e met-
teva in guardia contro le aporie dell’educazione antirazzista. Cfr. F. Fanon, Razzismo e cultura,
in F. Fanon, Scritti politici. Per la rivoluzione africana. Vol. I, DeriveApprodi, Verona 2006. Cfr.
anche P.A. Taguieff, La force du préjugé. Essai sur le racisme et ses doubles, Editions La Découver-
te, Paris 1988; G.M. Fredrickson, Breve storia del razzismo, Donzelli, Milano 2005; M. Wieviorka,
Il razzismo, Laterza, Roma-Bari 2000.
67
E. Balibar, Il ritorno al futuro della razza: tra società e istituzioni, intervista a cura di Th. Casa-
dei, «Rivista trimestrale di scienza dell’amministrazione», LII, 4, 2007, pp. 13-38, p. 15.
68
A. Shachar, The Birthright Lottery: Citizenship and Global Inequality, Harvard Univeristy Press,
Cambridge (MA) 2009, p. 9.
69
S. Castles, Nation and Empire: Hierarchies of Citizenship in the New Global Order, «International
Politics», XLII, 2, 2005, pp. 203-224. Cfr. anche le tesi di I. Wallerstein, in E. Balibar, I. Waller-
stein, Razza, nazione, classe. Le identità ambigue, Edizioni associate, Roma 1991.
132 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
70
Il problema dell’integrazione della differenza è stato affrontato negli ultimi decenni da una
pluralità di prospettive diverse. Tra le tante, si vedano almeno, M.I. Young, La politica della
differenza, cit.; W. Kimlicka, La cittadinanza multiculturale, Il Mulino, Bologna 1999; A. Honneth,
La lotta per il riconoscimento, Il Saggiatore, Milano 2002. Per una sintetica introduzione alle que-
stioni in gioco: M.L. Lanzillo, Il multiculturalismo, Laterza, Roma-Bari 2005; C. Galli (a cura di),
Multiculturalismo, ideologia e sfide, Il Mulino, Bologna 2006; F. Fistetti, Multiculturalismo. Una
mappa tra filosofia e scienze sociali, UTET, Torino 2008.
71
Cfr. D. Costantini, Metamorfosi dell’integrazione. Dalla non discriminazione al razzismo, «La so-
cietà degli individui», 41, 2, 2011, pp. 39-56.
72
M. Walzer, Sfere di giustizia, cit., p. 67.
Verso la postdemocrazia? 133
È assegnata al momento della nascita; non può nella maggior parte dei
casi essere cambiata dalla volontà o dagli sforzi dell›individuo; ed ha conse-
guenze decisive sulle sue chances di vita74.
73
Ivi, p. 69.
74
J.H. Carens, Migration and Morality: A Liberal Egalitarian Perspective, in B. Barry and R. Goo-
din (eds.) Free Movement. Ethical Issues in the Transnational Migration of People and of Money, The
Pennsylvania University Press, Pennsylvania 1992, p. 26.
75
A. Shachar, The Birthright Lottery: Citizenship and Global Inequality, cit., p. 2. Si veda anche
A. Shachar, R. Hirschl, Citizenship as Inherited Property, «Political Theory», XXXV, 3, 2007, pp.
253-287.
76
A. Shachar, The Birthright Lottery, cit., p. 5.
134 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
77
Cfr. R. Bauböck, Migration and Citizenship. Legal Status, Rights and Political Participation, Am-
sterdam University Press, Amsterdam 2006.
78
J. Rawls, Political Liberalism, Columbia University Press, New York 1993, citato in L.S. Bos-
niak, The Citizen and the Alien, cit., p. 6. «Analysts maintain a presumption of national priority
without the need for either its acknowledgement or its defense. Their moral nationalism ap-
pears not to be a normative choice but a metaphysical given» (ivi, p. 7).
79
Sono quelli che Balibar chiama il polo statutario e il polo egualitario della cittadinanza. Cfr. E.
Balibar. Nous citoyens d’Europe, cit., p. 252.
80
L. Ferrajoli, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, in D. Zolo (a cura di), La cittadinanza.
Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994, pag. 288. Per un approccio critico alla
questione dell’esclusione democratica si vedano anche L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo mod-
erno, Laterza, Roma-Bari 2004; J.H. Carens, Immigrants and the Right to Stay, MIT Press, Boston
2010; B. Honig, Democracy and the Foreigner, Princeton University Press, Princeton 2001; S.
Castles, A. Davidson, Citizenship and Migration. Globalization and the politics of belonging, Mac-
millan, London 2000; J.H. Carens, Membership and morality: admission to citizenship in liberal
democratic states, in W.R. Brubaker (ed.), Immigration and the Politics of Citizenship in Europe and
North America, University Press of America, Washington D.C. 1989.
Conclusione
Nonostante la crisi delle sue istituzioni ‘reali’ sia sempre più manife-
sta, l’idea democratica continua ad essere considerata come la sola garan-
zia possibile della legittimità degli ordinamenti politici. L’automatismo di
questo richiamo – specie quando viene operato da quegli stessi governi
post-democratici che si adoperano con tanta alacrità alla distruzione dei
contenuti che le istituzioni democratiche avevano faticosamente guadagna-
to nel corso della loro storia – rischia di sfociare in una pietrificante rei-
ficazione. Accettando la riduzione della democrazia alle istituzioni delle
democrazie d’elezione realmente esistenti, il concetto di democrazia viene
privato di ogni profondità storica e di ogni urgenza politica. Nell’epoca
della democrazia trionfante e inquestionabile, la forma – particolare e con-
tingente – assunta dalle istituzioni democratiche al termine di quel lungo e
accidentato cammino storico il cui profilo si è scorto sullo sfondo della no-
stra indagine, viene pensata come una forma naturale e definitiva. Sottratta
alla critica teorica e alla lotta politica, la democrazia si ipostatizza, santifi-
cando le proprie istituzioni trionfanti cui fornisce una legittimazione sem-
pre più formalistica.
L’irriflessa e diffusa disponibilità ad accettare una tale riduzione rap-
presenta uno dei più gravi problemi del nostro presente politico. Il trionfo
ideologico sopprime infatti quello che era stato un motore fondamentale
della dinamica storica della democrazia, ovvero il confronto critico sul si-
gnificato e sul funzionamento delle sue istituzioni. Come il percorso che
abbiamo svolto dovrebbe aver permesso di apprezzare, l’evoluzione stori-
ca delle istituzioni democratiche aveva sempre trovato nelle critiche teori-
che (e nelle lotte politiche e sociali da queste ispirate) un prezioso stimolo:
la critica liberale aveva permesso il costituirsi e il perfezionarsi del mecca-
nismo della rappresentazione parlamentare; la critica socialista ne aveva
criticato i limiti formali e sostanziali, spingendo prima per l’allargamento
136 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
del suffragio e poi per quello dei contenuti della cittadinanza democratica;
la critica elitista aveva fornito gli elementi utili a una critica delle ‘demo-
crazie reali’ e, più in generale, delle derive autoreferenziali delle organiz-
zazioni politiche.
Nel loro complesso queste critiche hanno accompagnato la parabola
storica compiuta dalle istituzioni democratiche, fornendo un costante sti-
molo alla loro evoluzione. Il trionfo ideologico della democrazia seguito
al collasso dell’esperimento sovietico sembra aver messo fine a questa di-
namica. Ridotta al guscio vuoto ed immobile della sua presente ipostasi
neoliberale, la democrazia si è progressivamente svuotata di contenuto,
pur continuando a trarre l’essenziale della propria legittimità dal fatto di
autoproclamarsi perfettamente realizzata. Smettendo di essere l’oggetto
di quell’aspro confronto ideologico e di quella dura battaglia politica che
aveva come posta in gioco l’evoluzione delle sue istituzioni, la democra-
zia si è progressivamente de-politicizzata1. Esorcizzando ogni disaccordo2
profondo intorno alle proprie istituzioni e finalità, essa si è ridotta a quel
meccanismo di legittimazione cinico e formalistico che abbiamo chiamato
postdemocrazia.
Se questo è vero, allora ciò che si richiede per tentare di uscire dall’im-
passe nella quale le nostre democrazie sembrano sprofondate è anzitutto
che non ci si accontenti della riduzione normativa della democrazia alle boc-
cheggianti forme della competizione elettorale cui il pensiero schumpete-
riano e neoliberale l’hanno ridotta. Ciò che si richiede è che si riapra una
stagione di interrogazione critica rispetto alle sue istituzioni, che riattivi la
perduta capacità di pensarne la storicità e la politicità.
Come antidoto al riduzionismo imperante sembra utile proporre un’in-
tuizione del giovane Marx. Nel nostro percorso abbiamo avuto modo di
soffermarci sulla critica marxiana del formalismo della democrazia bor-
ghese, una critica che ha inaugurato un intero filone interpretativo il quale
ha avuto un ruolo decisivo nella successiva evoluzione storica delle istitu-
zioni democratiche.
1
Secondo Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, le principali patologie che affliggono le moderne
democrazie liberali derivano proprio dalla progressiva neutralizzazione del conflitto propria-
mente politico intorno ai valori fondanti del discorso e delle istituzioni democratiche. Per
Laclau e Mouffe, pensare una democrazia perfettamente consensuale – una democrazia che
non ha più bisogno di quell’agonico disaccordo sui fondamenti di cui la politica si nutre – è
dunque pensare una democrazia impolitica. Cfr. E. Laclau, Ch. Mouffe, Hegemony and socialist
strategy. Towards a radical democratic politics, Verso, New York 2001 (2nd ed.). Sul tema si ve-
dano anche Ch. Mouffe, On the political, Routledge, London 2005; Ch. Mouffe, The democratic
paradox, cit.
2
Cfr. J. Rancière, Il disaccordo, Meltemi, Roma 2007. Per una lettura sociologica che valorizza
il conflitto come «vero pilastro della società democratica» cfr. A. Hirschman, Social conflicts as
pillars of democratic market society, «Political Theory», 22, 1994, pp. 203-218, p. 206. In una dire-
zione simile si muove anche E. Balibar, Cittadinanza, Bollati Boringhieri, Torino 2012.
Conclusione 137
3
Si confronti ad esempio il Manifesto del partito comunista, ed in particolare le conclusioni
del secondo capitolo (Proletari e comunisti) dove la «conquista della democrazia» è identifica-
ta come il primo degli obiettivi del partito comunista.
4
Penso ad esempio a M. Abensour, La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavel-
liano, Cronopio, Napoli 2008 e M. Ciliberto, La democrazia dispotica, Laterza, Roma-Bari 2011.
Lo stesso Giovanni Sartori, da posizioni del tutto differenti, ritiene che la considerazione mar-
xiana della democrazia rimanga ampiamente ‘positiva’ sino al 1845, anno della sua «conver-
sione» (sic) al comunismo (cfr. il capitolo 13.1 di G. Sartori, Democrazia: cosa é?, Rizzoli, Milano
2000). In verità la considerazione ‘positiva’ della democrazia risuona ben oltre, ad esempio
nel Manifesto del partito comunista del 1848 o in La guerra civile in Francia del 1871. La ricerca
di una ‘vera democrazia’ non si può limitare tuttavia alle celebri pagine sulla Comune, nelle
quali viene impostata la canonica contrapposizione di una democrazia liberal-rappresentativa
ad una popolare e diretta, ma sembra rimandare ad una sua ancor più costitutiva ambiguità.
Tale ambiguità è particolarmente difficile da sciogliere anche perché il filosofo tedesco non
riuscì mai a compiere lo studio sistematico dello Stato politico che pure aveva pensato di rea-
lizzare. L’essenziale deve così essere ricavato incrociando la lettura da un lato dei suoi scritti
giovanili (in particolare la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico e La questione ebraica)
e dall’altra degli scritti storici (Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Il 18 brumaio di Luigi
Bonaparte, La guerra civile in Francia).
5
K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, Quodlibet, Macerata 2008, p. 69.
138 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
6
Ibidem.
7
Ivi, p. 70.
8
Ibidem.
9
N. Bobbio, Premessa all’edizione del 1984, in Id., Il futuro della democrazia, cit. L’approccio di
Bobbio, peraltro, non è del tutto esente da riduzionismi, come mostra l’evidente somiglianza
della definizione minima di democrazia da lui proposta con quella schumpeteriana.
Conclusione 139
ve, per quanto funzioni come un argine rispetto alle derive più smacca-
tamente autoritarie, rappresenta anche un ostacolo alla riattivazione della
possibilità di una loro evoluzione che sia capace di riportare la politica de-
mocratica all’altezza delle sfide dei nostri tempi globali, riattivandone le
capacità inclusive e perequative10.
Se vogliamo conservare un futuro per l’agire democratico, dobbiamo
dunque pensare alla democrazia come ad un processo inesausto ed inesau-
ribile, fondato sul potere eternamente costituente11 dei popoli e sul bisogno
inestinguibile della socializzazione delle loro azioni. Intesa in questo modo
– come quello spazio vuoto di determinazioni ‘naturali’ che secondo Claude
Lefort si tratta in ogni ambito della vita sociale di occupare e determinare12
–, la democrazia non può né potrà mai coincidere con alcuna antica tra-
dizione da difendere e conservare, né con alcun meccanismo istituzionale
consolidato cui venga conferito significato sacrale, ma rimarrà sempre co-
me un compito, come una responsabilità rinnovantesi, di generazione in
generazione13.
La breve ed incompleta storia della critica delle istituzioni della demo-
crazia che si è qui voluto scrivere, vorrebbe costituire un piccolo contributo
in questa direzione. Le tre linee di crisi delle istituzioni democratiche de-
scritte nell’ultimo capitolo – e più in generale, le critiche dei meccanismi
della rappresentanza politica che gli autori che abbiamo incontrato nel no-
stro percorso hanno, dai più diversi punti di vista, proposto – vorrebbero
cioè funzionare come altrettante tracce a partire dalle quali analizzare l’in-
sufficienza delle attuali istituzioni politiche a veicolare il diffuso bisogno di
partecipazione che, a dispetto di ogni formalistico riduzionismo, continua
a percorrere le nostre società in quanto materia prima democratica di cui
sono costituite. Solo comprendendo a fondo le patologie che affliggono le
istituzioni oggi esistenti si potranno infatti immaginare istituzioni di nuo-
va natura, capaci di veicolare in modo meno contraddittorio il desiderio di
democrazia che non può fare a meno di pervadere il corpo sociale.
Quest’obiettivo non può essere realizzato in questa sede e non solo per
esigenze di spazio. Si tratta di un compito per affrontare il quale la teoria
politica farà bene, infatti, a mettersi anzitutto all’ascolto della realtà, ovvero
10
Anche Zolo del resto sosteneva che una delle circostanze che mostravano con la maggiore
evidenza lo stato di crisi della democrazia era proprio «la perdita di capacità espansiva ed
evolutiva» delle sue istituzioni. Il secolare cammino progressivo delle istituzioni democrati-
che sarebbe anzi a suo parere giunto ad un «vero e proprio collo di bottiglia evolutivo» (D.
Zolo, Il principato democratico, cit., p. 132).
11
Cfr. A. Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, Manifestolibri, Roma
2002.
12
Cfr. C. Lefort, Saggi sul politico. XIX e XX secolo, Il Ponte, Bologna 2007.
13
Secondo Jean-Luc Nancy questo compito corrisponde a quell’ingiunzione, a quella pro-
messa e a quel rischio che sono contenuti nella formula di Pascal secondo la quale l’uomo è
destinato a superare infinitamente l’uomo. Cfr. J.L. Nancy, Verità della democrazia, Cronopio,
Napoli 2009, p. 23.
140 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi
Cavicchioli, R. 7 Egitto 48
Cesarismo 37, 46-47, 56, 59, 116, 122 Elitismo/élite xvii, xxvi, 60-65, 68-72,
Chakrabarty, D. xvi 76, 82, 94, 95, 109, 113, 115, 124
Chesnais, F. 120 Engels, F. 25, 26, 28, 35, 36, 56
Chiapas xvi Europa xvi, xxv-xxvi, 11, 15, 38, 46,
Ciliberto, M. 137 72, 79, 95, 120-121, 125, 129
Cina xv, xxii Fabian, J. 61
Cini, L. xxiv Fanon, F. 131
Cittadinanza 8, 11, 33, 50, 80-81, 102, Fascismo 73, 93, 95, 110
106, 110, 118, 121-134, 136 Ferrajoli, L. xvi, 81, 110, 117-118, 130,
Colonia 74 134
Commissione Trilaterale 109 Ferrarotti, F. 51, 58
Comte, A. 61 Feuerbach, L. 24, 98
Comune di Parigi 35-36, 137 Filmer, J. 85
Constant, B. xxiv, xxvi, 1-9, 14, 17, 20, Fistetti, F. 132
31-32, 34, 36, 42, 73, 80, 125 Foucault, M. 17, 92-93
Cornford, J. 105 Francia 28, 35-37, 40-42, 44, 56, 80,
Corriere della Sera, giornale 66 124, 137
Costantini, D. 4, 130, 132 Fredrickson, G.M. 131
Costa, P. 3-4 Freedom House xxii
Croce, B. 65 Friedman, M. 92
Crouch, C. 109, 113-115, 121-125 Fukuyama, F. xiii, xxi
Crozier, M. 104-105 Gaber, G. 59
Dahl, R.A. xvii, 113 Galli, C. xxv, 119, 132
D’Alessandro, R. 80 Gallino, L. xxiii, 120-121
Dal Lago, A. 130 Garland, D. 121
Davidson, A. 134 Garnier, G. 8
Debord, G. xxiv, 93, 96-100, 102, 116 Geddes, A. 130
Deleuze, G. 121 Gekko, G. 109
Democrazia cesaristico-plebiscitaria Germani xvi
46, 53, 56-57, 117 Ghana xv
Democrazia elettorale xxi, xxiv, 138 Giappone xv
Democrazia plebiscitaria 37, 53, 55, Giulio Cesare 46
57, 112 Globalizzazione xxiii, 119-120
Détienne, M. 127 Goodin, R. 133
Diamond, L. xxiii Gouges, O. de 7
Dichiarazione di Port Huron 92 Graeber, D. xv-xvi, xviii
Diritti umani/diritti dell’uomo 30, 32, Greci 2
34, 67, 99, 128 Grecia xxiii, 5, 84
Downs, A. 90-91, 102 Gret, M. xxvi
Dupuis-Déri, F. xxvi Habermas, J. xxiv, 14, 104, 120
Durkheim, E. 64 Hamilton, A. xix, 29
Duso, G. 14, 56 Harvey, D. 105
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