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METHEXIS

Comitato Scientifico

Brunella Casalini (Direttore, Università di Firenze)


Maria Chiara Pievatolo (Direttore, Università di Pisa)
Nico De Federicis (Università di Pisa)
Roberto Gatti (Università di Perugia)
Roberto Giannetti (Università di Pisa)
Michele Nicoletti (Università di Trento)
Claudio Palazzolo (Università di Pisa)
Gianluigi Palombella (Università di Parma)
Salvatore Veca (Università di Pavia)
Danilo Zolo (Università di Firenze)
Dino Costantini

La democrazia dei moderni


Storia di una crisi

Firenze University Press


2012
La democrazia dei moderni. Storia di una crisi / Dino Costantini ; –
Firenze : Firenze University Press, 2012.
(Studi e saggi ; ??)

http://digital.casalini.it/978886453XXXX

ISBN 978-88-6453-XXX-X (print)


ISBN 978-88-6453-XXX-X (online PDF)
ISBN 978-88-6453-XXX-X (online HTML)

Questo volume è stato realizzato con il contributo del Dipartimento di Filosofia e


Beni Culturali dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.

© 2012 Firenze University Press

Università degli Studi di Firenze


Firenze University Press
Borgo Albizi, 28, 50122 Firenze, Italy
http://www.fupress.com/

Printed in Italy
A mio nonno Arduino, il partigiano ‘Miracolo’
Indice

Ringraziamenti xi

Introduzione xiii

Capitolo I
La critica liberale della democrazia 1
1.1 Constant e la democrazia dei moderni 1
1.1.1 La libertà degli antichi e dei moderni 2
1.1.2 Necessità e rischi della democrazia rappresentativa 4
1.1.3 Democrazia ed esclusione 6
1.2 Tocqueville e gli ‘istinti selvaggi’ della democrazia 8
1.2.1 La democrazia come destino 8
1.2.2 Onnipotenza e volgarità della democrazia 11
1.2.3 Un rimedio alla volgarità: l’elezione a doppio grado 13
1.2.4 La tirannia della maggioranza 15
1.2.5 Apatia e dispotismo 18

Capitolo II
La critica marxiana della democrazia 23
2.1 Il metodo materialistico 24
2.2 L’affermazione della società borghese 26
2.3 La democrazia borghese e l’emancipazione politica 29
2.4 Il formalismo della democrazia borghese 30
2.5 Verso l’emancipazione umana 32
viii La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

Capitolo III
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 37
3.1 Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte 37
3.1.1 Le libertà borghesi e i pericoli dell’autogoverno 38
3.1.2 Le basi sociali del bonapartismo 41
3.1.3 Caratteri generali del bonapartismo 44
3.2 Max Weber e la democrazia cesaristico-plebiscitaria 46
3.2.1 Democratizzazione e burocratizzazione 47
3.2.2 La «parità di destini» del cittadino moderno 49
3.2.3 La democrazia di massa 51
3.2.4 Il potere carismatico 54
3.2.5 Il diritto al suicidio della democrazia 57

Capitolo IV
La critica elitista della democrazia 59
4.1 Gaetano Mosca e la superstizione democratica 59
4.1.1 La teoria della classe politica 60
4.1.2 La formula politica 62
4.1.3 La difesa giuridica 63
4.1.4 Il rifiuto della democrazia 65
4.2 Pareto e l’ideologia democratica 67
4.2.1 L’irrazionalità dell’agire umano 67
4.2.2 La derivazione democratica 68
4.2.3 La circolazione delle élite 70
4.2.4 Le trasformazioni della democrazia 72
4.3 Roberto Michels e la sociologia del partito politico 74
4.3.1 Le tendenze aristocratiche dell’organizzazione 74
4.3.2 La leadership professionale 75

Capitolo V
Apogeo e critica della socialdemocrazia 79
5.1 La nuova era della democrazia postbellica 79
5.2 L’ipotesi riduzionista di Schumpeter 81
5.2.1 Aporie del popolo democratico 83
5.2.2 Democratici per definizione 85
5.2.3 Critica della volontà popolare e del bene comune 86
5.2.4 La democrazia reale 88
5.2.5 Una democrazia maggioritaria e competitiva 89
Sommario ix

5.3 La contestazione da sinistra della democrazia welfarista 92


5.3.1 Johannes Agnoli: democrazia e pace sociale 93
5.3.2 Guy Debord: lo spettacolo della democrazia 96
5.3.3 Claus Offe: la crisi di legittimazione delle democrazie 100
5.4 La ristrutturazione neo-liberale dello stato 104

Capitolo VI
Verso la postdemocrazia? 109
6.1 La democrazia dei partiti e la sua crisi 110
6.1.1 L’avvento della democrazia dei partiti 110
6.1.2 La crisi dei partiti democratici 113
6.1.3 Il ritorno del cesarismo 116
6.1.4 L’apatia e la tentazione antipolitica 118
6.2 Globalizzazione e crisi delle democrazie nazionali 119
6.2.1 La pressione delle aziende globali 120
6.2.2 La dismissione del welfare 122
6.2.3 La commercializzazione della cittadinanza 123
6.3 Democrazia ed esclusione nell’era globale 125
6.3.1 Lo status di cittadino 125
6.3.2 Dialettica della cittadinanza 127
6.3.3 Esclusione, sfruttamento, razzismo. 129
6.3.4 I confini della democrazia 132

Conclusione 135

Indice dei nomi 141

Bibliografia 147
Ringraziamenti

La pubblicazione di questo volume è stata resa possibile dal sostegno


del Dipartimento di Filosofia e Beni culturali dell’Università Ca’ Foscari
di Venezia che voglio qui sentitamente ringraziare nella persona del suo
Direttore, Luigi Perissinotto.
Indispensabile per il buon esito di questo progetto è stato il continuo
sostegno e l’intelligente stimolo che Giuseppe Goisis, con la generosità che
lo contraddistingue, non mi ha mai fatto mancare sin dal nostro primo for-
tunato incontro all’interno del seminario di ‘Razzismi e logiche del rico-
noscimento’. Un lungo debito di sincera riconoscenza è quello che mi lega
a Pietro Basso che per primo mi ha fatto riflettere, con esemplare lucidità
critica, su molti degli autori che in questo testo risultano centrali. Un calo-
roso ringrazamento va poi a Brunella Casalini e Maria Chiara Pievatolo che
con la consueta attenzione ed intelligenza, mi hanno fornito un inestima-
bile aiuto nella messa a punto e nella pubblicazione del testo. Per quanto
gli esiti – ed i limiti – di questo lavoro debbano essere imputati totalmente
al suo autore, nella definizione della sua linea interpretativa ha avuto una
particolare importanza la riflessione di Yves Sintomer, cui pure va un sen-
tito grazie.
Per le preziose indicazioni che mi hanno permesso di trovare la via d’u-
scita dal labirinto dell’editing, ringrazio Giusy Mauriello e Rachele Baldo;
per il provvidenziale supporto logistico fornito nella medesima circostan-
za, Virgilio Miatto e Lucia Baldassa.
Un ringraziamento del tutto speciale è quello che va a Marta Miatto,
non solo per l’aiuto paziente e competente fornito nella revisione del testo,
ma soprattutto per il dono della sua lieta presenza.
L’elenco di tutti coloro che hanno contribuito direttamente e indiretta-
mente a questo lavoro accompagnando, arricchendo e vivificando il mio
percorso intellettuale e personale sarebbe difficile da scrivere. Sicuro di
xii La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

non essere in grado di ricostruire un elenco esaustivo, e scusandomi delle


involontarie omissioni, voglio qui ricordare, oltre alla mia famiglia, alme-
no Giulia Beraldo, Bruna Bianchi, Sergio Bontempelli, Francesco Campana,
Michele Cangiani, Thomas Casadei, Giuliana Chiaretti, Giampiero Chivilò,
Guglielmo Cipriano, Francesca Coin, Sara De Carlo, Pietro Del Soldà,
Francesco Della Puppa, Francesca Di Donato, Gianfranco Ferraro, Iside
Gjergji, Luca Gori, Giuseppe Lo Castro, Adriana Lotto, Mario Marino,
Marco Menon, Marco Aurelio Moro, Marco Negri, Gianluigi Paltrinieri,
Sonia Paone, Serenella Pegna, Mariangela Pellegrini, Fabio Perocco, Lucia
Pradella, Salvatore Prinzi, Emilio Raimondi, Sasha Rubel, Luigi Ruggiu,
Franca Tamisari, Lauso Zagato e Francesca Zampagni.
Un affettuoso grazie va poi a tutti i miei studenti, universitari e non,
che quotidianamente mi hanno ricordato che il futuro dell’uomo è un libro
che deve essere sempre ancora scritto, dandomi quella speranza che è stata
l’indispensabile stimolo che mi ha permesso di condurre in porto questo
progetto.
Introduzione

Ciò a cui noi stiamo assistendo […]è la fine della


storia in quanto tale: ovverosia il momento finale
dell’evoluzione ideologica dell’umanità intera e
l’universalizzazione della democrazia liberale come
forma ultima di governo umano.
F. Fukuyama, La fine della storia

L’uomo non ha diritti di proprietà sull’uomo e


nessuna generazione ha diritti di proprietà sulle
generazioni a venire.
Th. Paine, I diritti dell’uomo

Secondo Samuel Huntington uno dei più infaticabili ed influenti co-


struttori di opinione degli ultimi 50 anni, la democrazia sarebbe una forma
politica essenzialmente ‘occidentale’ e per questo inadatta ai popoli che tali
non sono, e che con l’Occidente combattono il grande gioco globale del-
lo scontro di civiltà1. Data questa intima coincidenza, la spudorata difesa
dell’Occidente e dei suoi interessi geopolitici operata da Huntington può
essere presentata come la difesa di ‘valori’ moralmente superiori a quelli
– arbitrari e tendenzialmente dispotici, ossia incapaci di elevarsi ai princi-
pi dell’eguaglianza e della libertà – incarnati dalle civiltà ‘altre’. Difendere
l’Occidente e la sua civiltà, non significa proteggere l’interesse di una ci-
viltà particolare, ma difendere la sola civiltà capace di pensare e di agire al
livello dell’universale, e la sola capace di adeguare ad esso le proprie istitu-
zioni politiche: la sola civiltà democratica, appunto.
In un articolo intitolato Le radici globali della democrazia2, l’economista
indiano e premio Nobel Amartya Sen ha confutato l’argomentazione di
Huntington. Secondo Sen, che non dubita che quelli democratici siano va-
lori universali, l’appropriazione monopolistica della democrazia da parte
dell’Occidente può avvenire solo al prezzo di una riduzione forzosa e limi-
tante della sua essenza alla presenza di «elezioni libere, corrette e aperte a
tutti»3. Ed in effetti Huntington già in La terza ondata, aveva dichiarato di

1
 Cfr. S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 1997.
2
 Pubblicato per la prima volta nel 2003 sulla rivista «The New Republic», la traduzione
italiana è contenuta in A. Sen, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione
dell’Occidente, Mondadori, Milano 2004.
3
 Sono le parole dello stesso S.P. Huntington, La terza ondata. I processi di democratizzazione alla
fine del XX secolo, Il Mulino, Bologna 1995, p. 32.
xiv La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

considerare scientificamente accettabile solo una definizione strettamente


procedurale di democrazia, ovvero una definizione che, ponendosi espli-
citamente sulla scia della riflessione di Schumpeter (sulla quale avremo
modo di tornare lungamente), abbandonasse ogni fumoso riferimento a
concetti come la volontà popolare e il bene comune e facesse coincidere la
democrazia con una procedura di «selezione dei leader attraverso elezioni
competitive»4. Conformemente a questa definizione, precisa Huntington,
una volta che sia stata rispettata la forma della procedura elettiva, anche
il governo più odioso, inefficiente, corrotto e irresponsabile, anche quel
governo che dia prova di non avere alcun interesse a perseguire il bene
comune, deve continuare ad essere considerato un governo perfettamente
democratico5.
Per converso, inoltre, qualsiasi forma di governo non preveda elezioni
‘libere’ e ‘competitive’ attraverso le quali contare le fila della maggioranza
non potrà essere inteso come un governo democratico, né essere ritenuto
un governo legittimo. Ridotta all’affermazione del principio di maggioran-
za all’interno di ‘libere elezioni’, la concezione di democrazia fatta propria
da Huntington assomiglia a ciò che Luciano Canfora, riprendendo García
Márquez, definisce «fondamentalismo democratico»: «l’arrogante uso di
una parola (“democrazia”) che nel suo attuale esito racchiude e copre il
contrario di ciò che etimologicamente esprime; e, insieme, l’intolleranza
verso ogni altra forma di organizzazione politica che non sia il parlamenta-
rismo, la compravendita del voto, il “mercato” politico»6.
Appoggiandosi sull’autorità di John Rawls, Sen prende le distanze dalla
riduzione procedurale, competitiva e ‘fondamentalista’ di Huntington, per
tentare di riconnettersi all’etimologia dimenticata. Egli preferisce così rite-
nere che l’essenza della democrazia non risieda tanto nell’esistenza di un

4
 Ivi, p. 29.
5
 Questa cinica conclusione non stupisce se si pensa che la tardiva scelta di campo di Hun-
tington a favore della democrazia è tutta costruita intorno al riconoscimento del maggiore
potenziale di controllo sociale che essa possiede rispetto ad altri sistemi politici (cfr. S. P. Hun-
tington, La terza ondata, cit., pp. 50-51). Con ciò egli rimane fedele agli ideali proclamati in gio-
ventù, quando – plaudendo alle dittature che fiorivano nel mondo liberato dal giogo coloniale
occidentale – aveva chiarito di considerare di gran lunga più importante la capacità di un
governo di garantire un adeguato «livello di governabilità» e di «ordine» rispetto alla questio-
ne del tutto formale della sua legittimità democratica (cfr. S.P. Huntington, Political Order in
Changing Societies, Yale University Press, New Haven 1968).
6
 L. Canfora, Critica della retorica democratica, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 17. La critica del
principio maggioritario, volta a mostrare come l’essere in molti non comporti, di per sé, che
si abbia la buona ragione dalla propria parte non sembra sfiorare Huntington. Essa è stata un
luogo comune della trattatistica politica nelle epoche dei fascismi. Per rimanere in Italia, si
pensi a Edoardo Ruffini e al suo Principio maggioritario, pubblicato per la prima volta nel 1927.
Per Ruffini, che quando scrive ha davanti agli occhi il plebiscitarismo fascista, il principio arit-
metico della maggioranza non può essere assunto come valore assoluto e tale da recare in se
stesso le ragioni della propria legittimazione. La sua genesi poi, è tutt’altro che legata all’am-
bito culturale democratico, affondando le sue radici piuttosto negli ordinamenti ecclesiastici e
imperiali medioevali. E. Ruffini, Il principio maggioritario. Profilo storico, Adelphi, Milano 1987.
Introduzione xv

apparato elettorale-rappresentativo utile a distillare e reificare la volontà


della maggioranza, quanto nell’esistenza di una sfera pubblica ‘egualita-
ria’ all’interno della quale i cittadini possano esercitare la propria ragione,
partecipando alle scelte pubbliche e influenzando in questo modo le de-
cisioni propriamente politiche. Così «il significato e il valore» delle stesse
elezioni verrebbe a dipendere «in modo sostanziale dall’esistenza di una
discussione pubblica aperta»7. Operato questo allargamento della defini-
zione di democrazia – che viene qui dunque a coincidere con l’esistenza
di una sfera pubblica pluralista e ‘liberale’ – Sen ha poi gioco facile nel
dimostrare come, ben prima che l’Occidente consolidasse la propria ‘tradi-
zione’ democratica, esperienze di governo fondate sull’incoraggiamento e
sulla protezione della discussione pubblica avessero avuto luogo nelle più
lontane parti del globo, dall’India, alla Cina, al Giappone, all’Africa. Così,
l’apparente modestia delle tesi di Huntington quando questi ‘sconsiglia’ la
promozione dell’idea di democrazia verso paesi che non ne potrebbero pe-
raltro comprendere né condividere l’essenza perché culturalmente estranei
ad essa8, nasconde dietro di sé un’operazione di «imperiosa appropriazio-
ne di un’eredità globale»9 che è presentata come patrimonio strettamente
privato dell’Occidente.
Un’argomentazione critica delle tesi di Huntington ancora più radica-
le di quella di Sen è sviluppata dall’antropologo David Graeber. Anche
l’argomentazione di Graeber procede allargando le maglie della propria
definizione operativa di democrazia. Secondo Graeber la democrazia,
lungi dall’essere un patrimonio privato dell’Occidente, è l’esperienza po-
litica più diffusa che vi sia sul globo terrestre: coincidendo in buona so-

7
 A. Sen, La democrazia degli altri, cit., p. 8.
8
 È in perfetto accordo con queste conclusioni che Fareed Zakarias, all’epoca direttore di Fo-
reign Affairs ed editorialista di Newsweek, spaventato dal pericolo del diffondersi nei paesi
non occidentali di forme di governo ‘ragionevolmente’ democratiche dal punto di vista del-
le istituzioni elettorali, ha ritenuto di poter aggiornare il cinismo di Huntington sostenendo
che «Democracy without constitutional liberalism is not simply inadequate, but dangerous,
bringing with it the erosion of liberty, the abuse of power, ethnic divisions, and even war». In
realtà, ricongiungendosi con la più antica lezione hungtintoniana ciò gli serve a dimostrare
in primo luogo che non ogni governo ‘democraticamente’ eletto debba essere rispettato, e in
secondo luogo che il governo migliore per i paesi non occidentali non è necessariamente la de-
mocrazia: «Despite the limited political choice they offer, countries like Singapore, Malaysia,
and Thailand provide a better environment for the life, liberty, and happiness of their citizens
than do either dictatorships like Iraq and Libya or illiberal democracies like Slovakia or Gha-
na» (F. Zakarias, The rise of illiberal democracies, «Foreign Affairs», LXXVI, 6, 1997, pp. 22-43.).
Sul modello antipolitico di Singapore si veda l’articolo di Danilo Zolo, The «Singapore Model»:
Democracy, Communication, and Globalization, in K. Nash, A. Scott, The Blackwell Companion to
Political Sociology, Blackwell Publishing, Oxford 2004.
9
 A. Sen, La democrazia degli altri, cit., p. 40. Al di là dei proclami culturalisti, è lo stesso Hun-
tington a spiegare la ragione per la quale egli preferirebbe che i confini della democrazia non
venissero estesi oltre i confini dell’Occidente: «libere elezioni produrrebbero quasi certamente
governi molto meno rispondenti agli interessi occidentali rispetto ai loro predecessori non
democratici» (S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà, cit. p. 289).
xvi La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

stanza con ogni «processo di discussione pubblica relativamente aperto


ed egualitario»10. Intesa in questo modo essa non è esperienza specifi-
ca di alcuna civiltà o cultura. Comunità egualitarie, capaci di immagina-
re procedure adatte a prendere decisioni consensuali su materie rilevanti
per la vita collettiva sono esistite, secondo Graeber, «per tutto l’arco della
storia umana»11. Spaziando nel tempo e nello spazio dall’organizzazione
del potere all’interno delle tribù degli antichi Germani a quella in vigo-
re presso gli Irochesi, dalle città stato dell’India all’epoca dell’invasione di
Alessandro Magno, alla vita di bordo in un vascello pirata, per arrivare
sino al Chiapas zapatista, i confini dell’esperienza democratica sono assai
difficili da stabilire. La maggior parte di queste esperienze, particolarmen-
te frequenti in tutti quei contesti di frontiera dove «l’improvvisazione in-
terculturale» è una necessità ineludibile, non sono abitualmente catalogate
all’interno della genealogia delle nostre presenti democrazie. La ragione
principale di questa esclusione, secondo Graeber, è il fatto che raramente
queste esperienze facevano ricorso al voto per arrivare all’auspicata deci-
sione condivisa, preferendo all’imposizione della volontà della maggioran-
za «un processo di compromesso e sintesi», assai più complesso e paziente,
ma tale da «produrre decisioni che nessuno troverà così radicalmente inac-
cettabili da doverle rifiutare»12. Il rifiuto di catalogare come democratiche
simili esperienze di costruzione assembleare ed egualitaria di consenso,
non sarebbe dunque che l’altra faccia della medaglia di quella stessa ri-
duzione della democrazia a meccanismo elettorale e rappresentativo che
Huntington fa propria senza esitazione, considerandola la sola maniera
davvero scientifica di approcciare la questione democratica.
Al di là di ogni pretesa auto-evidenza, la riduzione della democrazia a
procedura elettorale non è solo il frutto del provincialismo13 ipocrita e pre-
varicatore di un autore che due secoli dopo Hegel continua a credere alla
favola filosofica dei «popoli cosmostorici»14. Una simile semplificazione –
la cui principale prestazione è quella di squalificare immediatamente come
antidemocratica ogni esperienza politica che fuoriesca dagli angusti limiti
delle istituzioni delle democrazie elettorali15 – implica anche un considere-
vole oblio della stessa tradizione occidentale di riflessione sulla democra-
zia. Huntington scorda infatti che proprio all’interno di quella sola cultura
che a suo avviso ne sa coltivare l’essenza, per lunghissimo tempo la demo-

10
 D. Graeber, Critica della democrazia occidentale. Nuovi movimenti, crisi dello Stato, democrazia
diretta, Elèuthera, Milano 2012, p. 35.
11
 Ivi, p. 55.
12
 Ivi, p. 57.
13
 Cfr. D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma 2004.
14
 Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Rusconi, Milano 1996.
15
 È ciò a cui alludeva Luigi Ferrajoli parlando di democrazia integralistica e/o integrazio-
nistica: L. Ferrajoli, Esiste una democrazia rappresentativa? In L. Ferrajoli, D. Zolo, Democrazia
autoritaria e capitalismo maturo, Feltrinelli, Milano 1978, p. 36.
Introduzione xvii

crazia è stata oggetto di un vero e proprio odio. Il termine stesso – come


ricorda Jacques Rancière – nasce come un insulto, che nominava quell’abo-
minio che è il governo della moltitudine, un abominio che era tale «per tutti
quelli che pensavano che il potere spettasse di diritto a coloro che vi erano
destinati per nascita o vi erano chiamati per le loro competenze»16. Nata
in contrapposizione tanto al potere dei ‘ben nati’ così come a quello dei
‘competenti’, la democrazia è stata concepita dalla maggior parte degli au-
tori classici come sinonimo di potere della canaglia e in quanto tale è stata
sin dalla sistematizzazione aristotelica delle forme di governo immaginata
come una patologia politica, sinonimo di disordine e di violenza faziosa17.
Quello del demos non è un governare ordinato (arché) ma kratos, un potere
violento fondato sulla forza degli uomini in armi più che sulla misura della
legge. Gli esempi della costanza di questo odio si potrebbero moltiplicare a
dismisura, spaziando dall’ottavo libro della Repubblica di Platone sino ai di-
battiti di Putney. Ciò che per noi qui più conta è che solo tra la fine del ‘700
e l’inizio dell’800 la fortuna del concetto di democrazia muta, per iniziare
a trasformarsi in quell’orizzonte obbligato del pensiero politico che è per
noi divenuta. Abbandonata la concezione degli ‘antichi’, costruita attorno
alla partecipazione diretta, la democrazia comincia a riscuotere i suoi più
importanti successi ‘ideologici’ proprio quando si incammina verso la sua
forma propriamente moderna, precisandosi come quel sistema di selezione
dei governanti fondato sul meccanismo dell’elezione a cui Huntington la
vorrebbe ridotta. È solo a partire da questo momento che la democrazia di-
viene trionfante: quando cioè si viene ad identificare con quel meccanismo
di rappresentazione – e non più di esercizio – della sovranità popolare che
agli occhi di un Montesquieu sarebbe stato compreso come una forma di
aristocrazia elettiva.
Si apre qui un decisivo paradosso. Sino alle soglie della modernità poli-
tica le procedure elettive erano infatti considerate, da quella stessa tradizio-
ne alla quale Huntington ama affermare di appartenere, come procedure
tipicamente aristocratiche18, laddove la metodologia più propriamente de-
mocratica di attribuzione delle cariche politiche era stata, dai tempi dell’A-
tene classica sino a quelli dei Comuni italiani, l’estrazione a sorte. Secondo
Jacques Rancière quello che ha ricoperto l’istituzione del sorteggio, è stato

16
 J. Rancière, L’odio per la democrazia, Cronopio, Napoli 2007, p. 8.
17
 Cfr. L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari 2004; R.A. Dahl, La
democrazia e i suoi critici, Editori Riuniti, Roma 1990.
18
 «Un parlamento composto da deputati indipendenti deve essere formato, secondo l’idea
su cui il parlamentarismo rappresentativo riposa, dai migliori, dall’ “élite”, dall’aristocrazia
di spirito del popolo. Nell’ambito del parlamentarismo, le elezioni hanno proprio la funzio-
ne di far emergere le personalità che si distinguono per “spirito, intelligenza e cultura”» (G.
Leibholz, Stato dei partiti e democrazia rappresentativa. Considerazioni intorno all’articolo 21 e all’ar-
ticolo 38 della Legge Fondamentale di Bonn, in Id., La rappresentazione nella democrazia, a cura di
Simona Forti, introduzione di Pietro Rescigno, Giuffré, Milano 1989, p. 384).
xviii La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

un «formidabile lavoro d’oblio» che, opponendo «la giustizia della rappre-


sentanza e la competenza di chi governa all’arbitrio della sorte e ai rischi
mortali dell’incompetenza», ha naturalizzato le procedure elettivo-rappre-
sentative, inducendoci a pensarle non solo come le più autenticamente de-
mocratiche ma come le sole possibili.
Eppure quando la democrazia ateniese individuava nel caso lo stru-
mento privilegiato per produrre distinzioni tra governanti e governa-
ti non si era certo ignari del problema della competenza politica, come è
testimoniato nel modo più esemplare dalla filosofia di Platone. Il rischio
dell’incompetenza era corso consapevolmente poiché esso era considerato
inferiore ai rischi legati alle procedure elettive, in particolare a quello del
costituirsi della politica come ambito separato dalla società e dominato da
una classe politica professionale ed autonoma. Così come esemplificato nel
modo più celebre dal mito democratico raccontato da Protagora nell’omo-
nimo dialogo platonico19, l’istituto del sorteggio testimonia invece di una
concezione politica (ed antropologica) consapevolmente alternativa a quel-
la che fa discendere dalla competenza il titolo al governo. Se la virtù politi-
ca è egualmente distribuita tra tutti, allora non esiste alcun titolo naturale al
dominio dell’uomo sull’uomo. L’aleatorietà del sorteggio indica qui allora
nel modo più plastico proprio questa radicale assenza di fondamento di ogni
potere politico. È questa l’originaria dismisura della politica democratica,
qui il suo scandalo, «lo scandalo di una superiorità che non è fondata su
nessun altro principio che non sia quello dell’assenza di superiorità»20, di
una distinzione fondata sull’assenza di qualsivoglia criterio naturale di di-
stinzione. La politica democratica è la scoperta di questa assenza di fon-
damento, di questa contingenza radicale del politico che non procede ne
può essere fatto procedere da alcun principio ‘naturale’, da alcun dato di
fatto pre-politico, sia esso l’appartenenza ad una stirpe o una razza, sia es-
so la forza, la ricchezza, l’istruzione o una qualsivoglia capacità o qualità di
tipo individuale o collettivo. Così per Rancière, che finisce qui per allar-
gare il concetto di democrazia in modo ancora più ampio di quanto fatto
da Graeber, la democrazia in quanto «potere di chiunque», «non è un tipo
di costituzione, né una forma di società» ma «semplicemente il potere di
coloro che non hanno più titolo per governare che per essere governati»21.
Se dunque la riduzione della democrazia a meccanismo elettorale apre
la strada alla sua moderna affermazione ciò accade solo a patto di una ra-
dicale riduzione del significato del termine, una riduzione che contiene
al proprio interno una profonda contraddizione della propria essenza. Di
questa contraddizione – al di là delle misteriose ragioni dell’oblio22 al quale

19
 Cfr. Platone, Protagora, 319 C-322 D.
20
 J. Rancière, L’odio per la democrazia, cit., p. 51.
21
 Ivi, pp. 57-58.
22
 Yves Sintomer parla qui di un vero e proprio ‘enigma storico’, un enigma complicato dal
Introduzione xix

il principio dell’estrazione a sorte è stato confinato con il trionfo della mo-


dernità – è espressione la diffidenza che ancora all’epoca delle rivoluzioni
americana e francese la più nobile tradizione politica occidentale riserva
alla democrazia. Gli autori di The Federalist – una raccolta di 85 articoli pub-
blicati a commento della Costituzione americana approvata il 17 settembre
1787 –, tengono a sottolineare tutta la distanza del progetto costituzionale
americano dagli ideali democratici, come si legge ad esempio nel cruciale
decimo saggio, attribuibile a Madison:

[…] le democrazie hanno sempre offerto spettacolo di turbolenza e di dissi-


di, si sono sempre dimostrate in contrasto con ogni forma di garanzia della
persona o delle cose; e hanno vissuto una vita che è stata tanto breve, quanto
violenta ne è stata la morte. I teorici della politica che hanno esaltato questo
tipo di convivenza politica, hanno ritenuto, a torto, che ponendo tutti gli
uomini in uno stato di perfetta eguaglianza per quanto riguarda i loro diritti
politici, essi ne avrebbero potuto automaticamente livellare perfettamente le
proprietà, le opinioni e le passioni23.

In realtà per Madison un simile obiettivo oltre a non essere realizzabile


non è nemmeno auspicabile. Esso coinciderebbe infatti con la soppressione
di quella libertà individuale e di quelle «qualità individuali» che lo stato
ha il compito di preservare24. Queste differenze sono le cause naturali della
faziosità, una qualità intimamente connessa alla stessa natura umana, e che
come tale non può essere eliminata. Scopo dei governi non deve dunque
essere quello di eliminare le differenze che naturalmente attraversano il
corpo sociale, imponendo ad esso l’astratta e monotona eguaglianza pre-
dicata dai fanatici della democrazia, ma piuttosto quello di armonizzarne
le pressioni più contrastanti, limitandone gli effetti dannosi. Lo strumento
politico più affidabile a questo scopo è, per Madison così come per gli altri
autori del testo, non già la democrazia ma la repubblica, ovvero «un regi-
me politico in cui operi il sistema di rappresentanza», delegando l’azione

fatto che le esperienze delle giurie popolari fornivano l’evidenza dell’applicabilità del mecca-
nismo della sorte a questioni di immediata rilevanza politica in società di grandi dimensioni.
Per Sintomer, tra gli altri motivi pesò anche l’assenza di strumenti statistici adeguati a giunge-
re all’elaborazione del concetto di campione rappresentativo. Cfr. Y. Sintomer, Il potere al popolo,
Dedalo, Bari 2009.
23
 A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, Il federalista Raccolta di saggi scritti in difesa della Costituzione
degli Stati Uniti d’America approvata il 17 settembre 1787 dalla Convenzione federale, Introduzione
di Gaspare Ambrosini; con appendici di Guglielmo Negri, Mario D’Addio, Nistri Lischi, Pisa
1955, pp. 61-62.
24
 «D’altronde la differenza di qualità intrinseche di ciascun uomo, che rappresenta la fonte
dei diritti di proprietà, configura un ostacolo parimenti insuperabile ad una eventuale unifor-
mità di interessi. Prima cura di ogni governo dovrà, infatti, essere la salvaguardia di queste
qualità individuali» (ivi, p. 58) e dei possessi diseguali che ne scaturiscono. La diseguaglianza
nel possesso costituisce a sua volta la causa necessaria della faziosità umana. Nell’interpreta-
zione di Madison, la faziosità è «intessuta nella natura stessa dell’uomo», una natura acquisi-
tiva e competitiva, che il sistema ha il compito, complessivamente, di difendere.
xx La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

di governo «ad un piccolo numero di cittadini eletti dagli altri»25. Questo


sistema, promette Madison, permette attraverso il filtro di sicurezza rap-
presentativo il costituirsi di società più vaste e plurali, e per ciò stesso me-
glio attrezzate a proteggere la società contro il vento della faziosità e della
sedizione:

Sarà assai più difficile che una follia volta a ottenere che venga emessa
carta moneta, o aboliti i debiti o divisa pariteticamente la proprietà, o infine
che si metta in atto qualsiasi altro progetto insensato ed impossibile, si dif-
fonda in tutta l’Unione piuttosto che in una parte di essa; così come è assai
più facile che tale malanno pervada una zona o un distretto particolare, piut-
tosto che un intero stato26.

Spostandosi dall’altro lato dell’Atlantico la diffidenza verso la forma


democratica non viene meno. Per l’abate Sieyès il progetto rivoluziona-
rio – cui pure con Qu’est-ce que le tièrs état? aveva fornito un fondamentale
contributo – non è quello di costruire un sistema democratico fondato sul
concours immédiat dei cittadini al governo. Per Sieyès una simile forma di
governo sarebbe prima di ogni altra considerazione impossibile, «poiché
è evidente che cinque o sei milioni di Cittadini attivi, ripartiti su più di
venticinque mila leghe quadrate, non possono mai riunirsi tutti assieme».
Non solo ma un governo veramente democratico sarebbe, per Sieyès come
per Madison, anche sconveniente, poiché rimetterebbe l’esercizio del pote-
re politico nelle mani di cittadini privi delle necessarie qualificazioni per go-
vernare. È dunque tanto per le dimensioni che per la particolare struttura
del corpo sociale – composto per la maggior parte da una «multitude priva
di istruzione, interamente assorbita dall’obbligo del lavoro»27 – che un go-
verno puramente democratico non conviene alle nazioni moderne: i popoli
moderni «non possono aspirare che ad una Legislatura rappresentativa»28,
ad un Gouvernement représentatif appunto, la cui distanza rispetto alla démo-
cratie véritable è – e deve rimanere – a suo avviso enorme. Tale distanza è
raddoppiata – tanto nel pensiero di Sieyès che nell’architettura della pri-
ma Costituzione – dalla distinzione di due classi di cittadini: quelli attivi e
quelli passivi. Questa doppia distanza si rende necessaria, per Sieyès come
per la grande maggioranza della riflessione dell’epoca, a partire dall’evi-
denza della inferiorità naturale delle classi popolari, prive dell’istruzio-
ne e del tempo libero necessari per formarsi opinioni politiche adeguate,

25
 Ivi, p. 62. Cfr. anche il saggio n.° 14: «in democrazia il popolo si raduna e governa diretta-
mente, mentre in un regime repubblicano esso si riunisce ed amministra il potere attraverso i
propri rappresentanti e delegati» (ivi, p. 84).
26
 Ivi, p. 65.
27
 E.-J. Sieyès, Dire de l’abbé Sieyès sur la question du Veto royal, à la séance du 7 septembre 1789,
Paris 1789, p. 14.
28
 Ivi, p. 15.
Introduzione xxi

e dunque inadatte all’esercizio diretto del governo. D’altra parte, Sieyès è


perfettamente consapevole del fatto che la ricchezza delle nazioni moder-
ne dipende direttamente dal lavoro di quelle preziose machines de travail29
che sono le masse. È dunque essenziale per la legittimità e la concordia
del sistema che esse concorrano se non all’esercizio del governo almeno
alla scelta dei suoi membri. Se da un lato l’impegno diretto in politica ri-
chiesto dagli ideali democratici è del tutto inopportuno per questi uomini-
macchina, il principio rappresentativo permette di offrire loro un’occasione
di partecipazione opportunamente limitata e indiretta, capace di costruire
legittimità diffusa senza rischiare di mettere la comunità stessa nelle mani
dei propri elementi più ‘volgari’.
È dunque solo a partire dalla svolta nel modo di concepirne le istituzio-
ni che si compie con le Rivoluzioni americana e francese che la democrazia,
dopo essere stata a lungo un idolo polemico, si è potuta progressivamente
trasformare in quel «concetto idolatrico onnicomprensivo (allumfassender
Idolbegriff), sintesi di tutte le cose buone e belle che riguardano la vita dello
stato, della società e perfino della famiglia e degli individui tra loro»30 che
è assai di recente divenuta. La definitiva vittoria ideologica della democratie
d’éléction non si è verificata infatti prima della caduta del muro di Berlino
nel 1989. Questo evento ha messo fine a quello che Eric Hobsbawn ha chia-
mato il secolo breve, un secolo la cui logica politica profonda era costru-
ita attorno alla concorrenza politica ed ideologica tra democrazie liberali
e socialismo31. La sconfitta storica dell’esperimento socialista ha spazzato
via la sola alternativa sistemica globale all’ordine politico democratico-li-
berale, annunciando quello che è stato percepito come il trionfo globale
della democrazia. È proprio allora che la «sacralizzazione della democrazia
trionfante»32 ha toccato il suo culmine, permettendo a Francis Fukuyama
di annunciare niente di meno che la «fine della Storia»: caduta l’alternativa
socialista le nostre società avevano raggiunto «il punto finale dell’evolu-
zione ideologica dell’umanità» che in definitiva coincideva con «l’univer-
salizzazione della democrazia liberale occidentale come forma ultima del
governo umano»33. L’idea sottesa a questa posizione, in larga misura ri-
conducibile ad un’interpretazione «ideologica» della filosofia della storia
di Hegel, è che la forma di stato ispirata al liberalismo democratico – che
dal punto di vista socio-economico fa il paio con l’organizzazione sociale
di tipo capitalistico, garantendo il massimo progresso tecnologico e indu-
striale – è la più perfetta possibile per l’uomo, ed anche quella definitiva:

29
 Ivi, p. 14.
30
 G. Zagrebelsky, Imparare democrazia, Einaudi, Torino 2007, p. 3.
31
 E. Hobsbawn, Il secolo breve 1914-1991, Rizzoli, Milano 2006.
32
 M. Salvadori, Democrazie senza democrazia, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 4.
33
 F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2003.
xxii La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

con la sua generalizzazione il movimento progressivo della Storia avrebbe


sostanzialmente raggiunto la propria meta.
L’esperienza storica recente – segnata dal prepotente risorgere dei fon-
damentalismi religiosi e dei nazionalismi etnici, con il loro corollario di
guerre e «involuzioni» democratiche, e più in generale da una dilagante
crisi economica, politica e sociale – ha smentito in molti modi questi trion-
falistici annunci. La vittoria della democrazia liberale sembra acquisita solo
sul piano della polemica ideologica: se si sta all’autodefinizione che i vari
paesi danno di se stessi, la democrazia avrebbe infatti ormai raggiunto la
quasi totalità del globo34. Secondo Freedom House, che dal 1972 pubbli-
ca un report annuale dedicato a ‘misurare’ la salute della democrazia nel
mondo, il numero delle ‘democrazie elettorali’ – definizione meno strin-
gente di quella di ‘democrazie liberali’ poiché costruita solo sull’esistenza
di elezioni libere e plurali, e non sulla valutazione dell’effettivo rispetto
delle libertà civili – sarebbe salito dal 1989 al 2011 da 69 a 117. Le democra-
zie pienamente liberali (Free countries) sarebbero passate nello stesso lasso
di tempo da 61 a 8735. Accettando una definizione più selettiva – costruita
non solo sull’analisi delle istituzioni politiche e delle libertà civili, ma anche
della partecipazione e della cultura politica – come quella del Democracy
Index prodotto dall’Economist, solo 25 paesi (corrispondenti all’11,3% del-
la popolazione dei 167 paesi indagati) meriterebbero di essere riconosciuti
come Full democracies. Anche sommando a questo numero quello delle 37
Flawed democracies del cui gruppo il nostro paese fa parte (corrispondenti
al 37,1% della popolazione del campione indagato), dovremmo ammettere
che la democrazia si sarebbe realizzata in meno della metà dei paesi del
mondo e che, escludendo la Cina, sarebbe effettiva per meno di metà della
popolazione mondiale36. Quali che siano i parametri adottati, infine, il più

34
 Ciò risulta graficamente evidente dalla mappa reperibile all’indirizzo: <http://upload.wiki-
media.org/wikipedia/commons/c/c4/Democracy_claims.svg> (08/12).
35
  «The survey, which includes both analytical reports and numerical ratings, measures
freedom according to two broad categories: political rights and civil liberties. Political rights
ratings are based on an evaluation of three subcategories: electoral process, political plurali-
sm and participation, and functioning of government. Civil liberties ratings are based on an
evaluation of four subcategories: freedom of expression and belief, associational and organi-
zational rights, rule of law, and personal autonomy and individual rights». Nel 1989 i paesi
presi in considerazione erano 167, nel 2011 195. Cfr. Freedom House’s Annual Survey of Political
Rights and Civil Liberties, <http://www.freedomhouse.org/report/freedom-world/freedom-
world-2012> (08/12).
36
 Trentasette paesi avrebbero un regime ibrido, cinquantadue un governo autoritario. Dall’a-
nalisi sono esclusi programmaticamente i micro-stati. «The Economist Intelligence Unit’s in-
dex of democracy, on a 0 to 10 scale, is based on the ratings for 60 indicators grouped in five
categories: electoral process and pluralism; civil liberties; the functioning of government; po-
litical participation; and political culture. Each category has a rating on a 0 to 10 scale, and the
overall index of democracy is the simple average of the five category indexes». Cfr. Democracy
Index 2011. Democracy under stress, The Economist Intelligence Unit Limited 2011. Il report è
scaricabile a partire dall’indirizzo: <https://www.eiu.com/public/topical_report.aspx?campai
gnid=DemocracyIndex2011> (08/12).
Introduzione xxiii

recente trend comunemente riconosciuto da queste inchieste è quello di


una lieve contrazione anche numerica delle democrazie pleno jure, circo-
stanza che ha permesso di parlare di una democratic recession37.
Tralasciando ora le argomentazioni quantitative e le polemiche intorno
alle patenti di democraticità e affrontando invece il tema della qualità della
vita democratica, non sembra che la democrazia goda di salute particolar-
mente buona neppure nel celebrato Occidente. Pare invece che proprio in
quei paesi che negli ultimi due o tre secoli sono stati gli alfieri mondiali
della riscossa democratica, i segni di una crisi delle sue istituzioni politi-
che siano sempre più evidenti. La già citata inchiesta dell’Economist, ad
esempio, che ha scelto come eloquente titolo dell’edizione 2011 quello di
Democracy under stress, ricorda come la fiducia nelle istituzioni politiche
continui ad essere in costante calo. La sempre più diffusa disaffezione nei
confronti delle istituzioni della democrazia prende la forma di percentuali
di votanti in diminuzione, di un collasso della fiducia nell’azione dei partiti
e nella credibilità dei politici38, insomma di una crescente apatia politica.
La crisi economica ha inoltre esacerbato la situazione sociale in molti pae-
si, creando movimenti di protesta che mettono a rischio la tenuta di molti
governi nazionali. La manifesta impotenza dei governi nazionali, progres-
sivamente esautorati in competenze sempre più ampie dalla logica trans-
nazionale dei movimenti di capitali, a reagire efficacemente alla crisi rende
il futuro delle istituzioni democratiche liberali particolarmente incerto, co-
me dimostrano anche gli esperimenti tecnocratici condotti in Grecia ed in
Italia39. Il quadro può essere completato ricordando la crescente diffusione
di movimenti politici populisti o razzisti, che sembrano ormai a un passo
dall’assumere forza sufficiente per poter contestare apertamente la demo-
crazia anche nei suoi fondamenti ideologico-formali.
Al di sotto del dominante conformismo ideologico democratico, la de-
mocrazia reale appare usurata e degradata. È dunque quella che viviamo

37
 Cfr. L. Diamond, The Democratic Rollback. The Resurgence of the Predatory State, «Foreign Af-
fairs», LXXXVII, 2, 2008, pp. 36-48.
38
 Secondo un sondaggio realizzato nell’ottobre 2011 da Demos per il quotidiano La Repubbli-
ca (Demos & Pi, Gli italiani e lo Stato. Rapporto 2011) solamente l’8,9% (in calo dal 13,4% della
rilevazione risalente al 2010) degli italiani dichiara di avere fiducia nel Parlamento. Ancora
minore è il numero degli italiani che hanno fiducia nei partiti: il 3,9% (contro il 7,7% del 2010).
La sfiducia nelle istituzioni democratiche trova però forse la sua più palese evidenza nel giu-
dizio di quel 27,2% degli italiani che ritengono che non vi siano sostanziali differenze tra un
sistema democratico ed uno autoritario (Demos & Pi, Focus su Gli italiani e la democrazia, 7 no-
vembre 2011). Le due inchieste qui citate sono disponibili all’interno del sito di Demos: <http://
www.demos.it> (08/12).
39
 Cfr. L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2011; L. Gal-
lino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma Bari 2000; G. Arrighi, Capitalismo e (dis)
ordine mondiale, Manifestolibri, Roma 2010; D. Zolo, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, La-
terza, Roma-Bari 2004; U. Beck, Che cos’è la globalizzazione: rischi e pericoli nella società planetaria,
Carocci, Roma 1999; I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, III vol., il Mulino,
Bologna 1978-1982-1995.
xxiv La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

l’epoca del trionfo della democrazia o quella della sua più profonda crisi? E
quale futuro possiamo immaginare per le nostre istituzioni democratiche?
Sono all’altezza delle sfide dei tempi in cui viviamo o si impone la necessità
di una loro riforma?

***

Il presente lavoro si snoda tutto all’interno della parabola moderna


della democrazia, una parabola che si apre a partire da presupposti tanto
contraddittori e complessi quanto lo sono i suoi esiti presenti. Ciò che si
vuole qui di seguito prendere in esame, partendo dalla lettura di alcuni
classici della riflessione filosofico politica, sono le critiche che hanno ac-
compagnato l’affermazione della moderna democrazia elettorale e rappre-
sentativa, attraverso un percorso che ci condurrà dalle prime formulazioni
liberali sino alle soglie della presente epoca postdemocratica. Il percorso
che seguiremo non ha la pretesa di realizzare alcuna completezza e dun-
que, pur accumulando materiali utili a questo scopo, rimane ben lungi dal
rappresentare un’esauriente storia critica del concetto di democrazia. Esso
prende le mosse da una lettura diretta della riflessione di alcuni classici ot-
tocenteschi e primo-novecenteschi (Constant, Tocqueville, Marx, gli elitisti,
Weber), lasciando anche al lettore non specialista il tempo di familiarizzare
con quei concetti che ricorrono poi in forma più libera nei capitoli finali,
nei quali l’analisi teorica si intreccia più strettamente con la critica istitu-
zionale. In ragione di un tale particolare taglio interpretativo, le evoluzioni
novecentesche della riflessione intorno alla democrazia sono state ogget-
to di un’attenzione selettiva che ha trascurato autori che avrebbero potu-
to con ogni diritto essere inclusi nella trattazione, come Schmitt o Hayek
o Luhmann. Le prospettive critiche prese in considerazione nel capitolo
dedicato alle trasformazioni postbelliche della democrazia, in particola-
re, piuttosto che puntare ad una completa ricostruzione della riflessione
dell’epoca sulla materia (che, tanto per citare i nomi più illustri, avrebbe
dovuto certamente contenere un confronto con Rawls e Habermas), testi-
moniano in maniera necessariamente sintetica delle più forti pulsioni cri-
tiche presenti all’intorno di quei movimenti sociali (cui in diverso modo
Agnoli, Debord, e Offe possono essere ricondotti) sui quali da molte parti
si stanno puntando gli occhi per venire a capo della presente consunzione
dei meccanismi della democrazia rappresentativa40.
Queste scelte non sono, come è ovvio, scevre da semplificazioni. E d’al-
tronde, avvicinandosi al presente, è inevitabile che la scelta dei ‘classici’
cui fare riferimento si faccia sempre più controvertibile. Si ritiene tuttavia
che, nonostante la sua estrema sintesi e la sua inevitabile parzialità, il per-

40
 A riguardo rimando al lavoro di Lorenzo Cini, Società civile e democrazia radicale, di prossima
pubblicazione per Firenze University Press.
Introduzione xxv

corso scelto consentirà il confronto con un ricco catalogo di figure teoriche,


mostrandoci come l’affermarsi della democrazia dei moderni non cancelli
l’odio per la democrazia, ma anzi lo moltiplichi e lo complichi, rendendone
equivoci i contenuti. Dal lato borghese e conservatore infatti, la democrazia
continuerà ad essere considerata – e per questo criticata – come lo strumen-
to dell’indebita intrusione della massa nella gestione degli affari politici.
Dal lato radicale e socialista, è proprio il carattere meramente rappresen-
tativo e formale della democrazia dei moderni che verrà più ferocemente
denunciato.
Di questo doppio filone critico sono testimonianza eloquente gli autori
che, nelle pagine che seguono, andremo ad interrogare, nella convinzione
che prendere sul serio le loro analisi costituisca un primo e necessario passo
per rispondere alla presente conclamata crisi delle istituzioni della demo-
crazia. Indagando le critiche che la particolare riconfigurazione degli ideali
democratici operata dai moderni ha attirato su di sé si vorrebbe contribuire
infatti a riattivare quel processo di invenzione in cui una democrazia non
ridotta a feticcio di sé stessa deve consistere. Perché questo cammino possa
essere consapevolmente ripreso si tratta anzitutto di decostruire l’effetto di
necessità del quale le democrazie reali oggi amano circondarsi, spezzando
le catene di quell’assuefazione democratica che ama presentare le istituzio-
ni storiche della democrazia reale «come qualcosa di ovvio e di naturale»41.
Come già riconosceva Kelsen negli anni ‘20 del ‘900, i rischi peggiori per
la democrazia provengono dai suoi successi, poiché è proprio l’affermar-
si della democrazia come una «parola d’ordine» universalmente condivisa
che rischia di trasformarla in un’etichetta priva di senso42. Si tratterà allo-
ra, per superare le illusioni naturalistiche tipiche dell’incanto dell’eterno
presente neoliberale, di abbandonare ogni idea di necessità nell’approccio
al problema democratico. Prima di mettersi all’ascolto di quel diffuso desi-
derio di democrazia che si nasconde dietro all’insofferenza nei confronti di
ogni sua riduzione ritualistica43, dovremo cioè storicizzare e politicizzare il
concetto di democrazia.
Il testo che segue muove dalla convinzione paradossale secondo la qua-
le non vi è luogo dove questo desiderio appaia oggi con più chiarezza che
in quelle che sono catalogate come le promesse mancate della democrazia.
È per questo motivo che esso si concentra su alcune critiche ritenute parti-
colarmente significative, lasciando volontariamente al di fuori del proprio
sguardo le pratiche innovatrici che pure si stanno moltiplicando sulla sce-
na internazionale44.

41
 C. Galli, Il disagio della democrazia, Einaudi, Torino 2011, p. 80.
42
 Cfr. la Prefazione a H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, in Id., La democrazia, Il Mulino,
Bologna 1995.
43
 M. Salvadori, Democrazie senza democrazia, cit.
44
 Cfr. U. Allegretti, Democrazia partecipativa. Esperienze e prospettive in Italia e in Europa, FUP,
xxvi La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

Cominceremo dunque il nostro percorso da Benjamin Constant, l’autore


che più classicamente ci introduce alla democrazia moderna, una democra-
zia finalmente pacificata con il principio, per Rousseau tipicamente feuda-
le, della rappresentazione45.

Firenze 2010; Y. Sintomer, G. Allegretti, I bilanci partecipativi in Europa. Nuove esperienze demo-
cratiche nel vecchio continente, Ediesse, Roma 2009; G. Allegretti, L’insegnamento di Porto Alegre.
Autoprogettualità come paradigma urbano, Alinea editrice, Firenze 2003; M.-H. Bacqué, H Rey,
Y. Sintomer, Gestion de proximité et démocratie participative, La Découverte, Paris 2005; M. Gret,
Y. Sintomer, Porto Alegre: l’espoir d’une autre democratie, La Decouverte, Paris 2002; B. de Sousa
Santos, Democratizzare la democrazia. I percorsi della democrazia partecipativa, Città Aperta, Troina
2003.
45
 Secondo Francis Dupuis-Déri l’essere riusciti a piegare la parola democrazia a strumento
di legittimazione di un sistema politico essenzialmente antidemocratico è stato il risultato di
una operazione di cosciente marketing politico condotta nei primi decenni dell’Ottocento da
un’élite agorafobica, un’operazione che può essere considerata come il capolavoro della pro-
paganda politica moderna. Cfr. F. Dupuis-Déri, L’esprit antidémocratique des fondateurs de la
démocratie moderne, «AGONE», 22, 1999, pp. 95-114.
Capitolo I

La critica liberale della democrazia

Se ci fosse un popolo di dei, si governerebbe demo-


craticamente. Ma un governo così perfetto non è
fatto per gli uomini.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

1.1 Constant e la democrazia dei moderni

Quando Jean Jacques Rousseau, ripercorrendo ne Il contratto sociale la


tripartizione delle forme di governo che era stata già di Aristotele, giunge a
parlare della forma di governo democratica, troviamo questa sorprendente
affermazione: «A prendere il termine nella sua rigorosa accezione, non è
mai esistita una vera democrazia, né esisterà mai»1. Rousseau può portare
diverse ragioni a sostegno della sua posizione2, ma la prima che richiama
è già decisiva:

Non si può immaginare che il popolo resti continuamente adunato per


attendere agli affari pubblici, e si vede facilmente che esso non potrebbe a
tale scopo stabilire delle commissioni, senza che cambi la forma dell’ammi-
nistrazione3.

1
 J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, Einaudi, Torino 1994, p. 92.
2
 «[…] quante cose difficili a riunire non presuppone un tale governo! Innanzi tutto uno Stato
molto piccolo, in cui sia facile per il popolo radunarsi, e in cui ogni cittadino possa facilmente
conoscere tutti gli altri; in secondo luogo una grande semplicità di costumi che prevenga
il moltiplicarsi dei problemi e le discussioni spinose; inoltre, una grande uguaglianza nei
gradi e nelle fortune, senza di che l’uguaglianza non potrebbe sussistere a lungo nei diritti e
nell’autorità; infine niente, o quasi niente, lusso; perché o il lusso è l’effetto delle ricchezze, o
le rende necessarie; esso corrompe nello stesso tempo il ricco e il povero, l’uno con il possesso,
l’altro con la cupidigia; vende la patria alla mollezza, alla vanità; toglie allo Stato tutti i
cittadini per asservirli gli uni agli altri, e tutti all’opinione» (ivi, p. 93).
3
 Ivi, p. 92.
2 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

Si comprende da queste parole che, per Rousseau, il solo tipo di demo-


crazia che rispetti l’accezione rigorosa del concetto è la democrazia diretta. Il
modello ideale di democrazia che il filosofo francese ha in mente è quello
della città stato antica, come risulta evidente dalla lettura di un altro capi-
tolo dello stesso Contratto sociale, intitolato Dei deputati e dei rappresentanti:

Presso i Greci, tutto quello che il popolo doveva fare lo faceva da sé; esso
era continuamente adunato nella piazza. Abitava in un clima dolce; non era
avido; gli schiavi facevano i suoi lavori; il suo grande problema era la liber-
tà4.

Ai popoli moderni, per ragioni complesse di ordine demografico, clima-


tico e sociale, questo genere di governo fondato sulla partecipazione diretta
dei cittadini non è più parso possibile. Le condizioni moderne dell’eserci-
zio del potere politico sembrano dunque rendere impossibile ogni forma
di governo autenticamente democratico. O, piuttosto, sembrano rendere
necessaria una profonda trasformazione della natura della democrazia, la
quale non potrà più avere la forma diretta che era stata tipica delle de-
mocrazie degli antichi. La necessità di una simile evoluzione è chiarita nel
modo più esemplare da Benjamin Constant, in un celeberrimo discorso
(La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni) pronunciato nel 1819
all’Athénée royal di Parigi, nel quale spiega perché è necessario che la de-
mocrazia dei moderni sia una democrazia rappresentativa.

1.1.1 La libertà degli antichi e dei moderni

Libertà degli antichi e dei moderni differiscono profondamente. La li-


bertà degli antichi «era fatta della partecipazione attiva e costante al potere
collettivo»5; era cioè anzitutto e primariamente una libertà politica, la li-
bertà di partecipare attivamente alla vita politica, prendendo parte diretta-
mente – e non attraverso la nomina di alcun funzionario o rappresentante
– alle pubbliche deliberazioni attraverso le quali le principali decisioni po-
litiche erano prese. La partecipazione alla vita politica era fonte di piacere e
di orgoglio per il cittadino antico:

Quel risarcimento per noi oggi non esiste più. Perso nella moltitudine,
l’individuo non avverte quasi mai l’influenza che esercita. Mai la sua volon-
tà s’imprime sull’insieme; niente prova ai suoi propri occhi la sua coopera-
zione6.

4
 Ivi, p. 128.
5
 B. Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, Einaudi, Torino 2005, p. 15.
6
 Ivi, p. 16.
La critica liberale della democrazia 3

Il tono di questa frase non ci deve ingannare. È una constatazione nel-


la quale non dobbiamo leggere alcun residuo nostalgico. Per Constant la
restaurazione di una democrazia diretta del tipo di quella degli antichi è
semplicemente impossibile, e questo per vari motivi.
Anzitutto per una questione di dimensione delle società politiche: la
democrazia diretta, come già aveva sostenuto Rousseau, è adatta a socie-
tà di piccole dimensioni ma assolutamente inservibile per uno stato delle
dimensioni di una moderna nazione. Quando le dimensioni di una società
superano una certa soglia, la concreta possibilità di influenza del singolo
cittadino nell’attività del governare diminuisce sino quasi a sparire.
In secondo luogo, per mostrare l’impossibilità di un ritorno ad una de-
mocrazia simile a quella degli antichi, Constant sviluppa una considera-
zione di tipo sociologico7: l’impossibilità di ripristinare una democrazia
fondata sulla partecipazione diretta dei cittadini alla vita politica dipende
dalla mutata struttura della società. Ai tempi della democrazia greca, la
possibilità di una simile partecipazione era resa possibile dall’esistenza di
una classe di schiavi che si occupavano di soddisfare quello che Hannah
Arendt chiama l’ambito della ‘necessità’8, fornendo ai cittadini l’agio di
poter partecipare direttamente alla vita pubblica. Nelle condizioni sociali
della modernità i cittadini, dovendo lavorare per ottenere il proprio sosten-
tamento, non avrebbero il tempo di occuparsi della cosa pubblica come
nell’antichità accadeva.
Ma vi è qualcosa di più. Se nella partecipazione politica la libertà del
cittadino antico era evidentemente maggiore di quella posseduta dal citta-
dino moderno, ben diversa era la sua situazione dal punto di vista di tut-
te quelle libertà che possono essere definite private. Tutte le azioni private
erano sottoposte nell’antichità ad uno stretto controllo sociale, facendo sì
che alla condizione di più estesa sovranità nella sfera degli affari pubblici
corrisponda una situazione di vera e propria schiavitù per tutto ciò che
concerne la sfera privata dell’esistenza.

Il fine degli antichi era la suddivisione del potere sociale fra tutti i cittadi-
ni di una stessa patria: era questo che chiamavano libertà. Il fine dei moderni
è la sicurezza nei godimenti privati; e chiamano libertà le garanzie accordate
dalle istituzioni a questi godimenti9.

Il carattere specifico della libertà moderna è quello di essere anzitutto


una libertà personale e privata. Sulla scia di quanto aveva già affermato oltre
un secolo prima John Locke10 – per il quale il diritto di ogni uomo alla liber-

7
 Anche in questo caso Constant riprende sviluppandola un’intuizione di Rousseau.
8
 Cfr. H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 1994.
9
 B. Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, cit., p. 16.
10
 J. Locke, Due Trattati sul governo, a cura di B. Casalini, PLUS, Pisa 2007. Anche Pietro
Costa riconosce in Locke una pietra miliare della teoria politica moderna, suggerendo però
4 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

tà è soddisfatto quando le leggi ci proteggono dalla Invasion of Others – per


Constant, che qui non fa altro che riassumere i risultati dell’evoluzione del
pensiero liberale, la libertà nelle condizioni della modernità consiste in un
lungo elenco di diritti strettamente individuali:

È per ognuno il diritto di essere sottoposto soltanto alle leggi, di non


poter essere arrestato, né detenuto, né messo a morte, né maltrattato in al-
cun modo, per effetto della volontà arbitraria di uno o più individui. È per
ognuno il diritto di dire la propria opinione, di scegliere la propria occupa-
zione ed esercitarla; di disporre della sua proprietà e persino di abusarne; di
andare di venire, senza averne ottenuto il permesso e senza rendere conto
d’intenzioni o di comportamenti. È, per ognuno, il diritto di riunirsi con altri
individui, sia per conferire sui propri interessi, si a per professare il culto
preferito da lui o dai suoi consociati, sia semplicemente per riempire i giorni
e le ore in modo più conforme alle sue inclinazioni, alle sue fantasie. Infine è
il diritto, per ognuno, d’influire sull’amministrazione del governo, sia con la
nomina dei funzionari, tutti o alcuni, sia a mezzo di rimostranze, petizioni,
richieste, che l’autorità è più o meno obbligata a prendere in considerazio-
ne11.

1.1.2 Necessità e rischi della democrazia rappresentativa

In questo amore sfrenato dell’individuo moderno per il proprio godi-


mento privato Constant vede assieme la caratteristica essenziale della li-
bertà dei moderni e la fonte del pericolo più grave che la minaccia:

Il pericolo della libertà antica era che, attenti esclusivamente ad assicu-


rarsi la suddivisione del potere sociale, gli uomini non tenessero nel debito
conto i diritti e i godimenti individuali. Il pericolo della libertà moderna è
che assorbiti nel godimento dell’indipendenza privata e nel perseguimento
dei nostri interessi particolari, rinunciamo con troppa facilità al nostro dirit-
to di partecipazione al potere politico12.

Stante l’indefettibile amore per la propria indipendenza che caratteriz-


za l’individuo moderno, egli non solo non anteporrebbe – come sarebbe
stato del tutto naturale fare per un antico13 – la libertà politica a quella pri-

come esso si fondi su di una terza figura della libertà, ulteriore a quelle dell’immunità e
della partecipazione opposte dal discorso di Constant. Questa terza figura sarebbe la libertà-
proprietà, ossia la libertà intesa come poter fare o meglio ancora come poter accumulare: cfr.
P. Costa, Libertà e ordine nell’età moderna, in C. Altini (a cura di), Democrazia. Storia e teoria di
un’esperienza filosofica, Il Mulino, Bologna 2011; C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini
del pensiero borghese, ISEDI, Milano 1973; D. Costantini, La passione per la solitudine. Una lettura
del Secondo trattato sul governo di John Locke, Il Poligrafo, Padova 2003.
11
 B. Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, cit., p. 6.
12
 Ivi, p. 32.
13
 Dalla sterminata letteratura sull’argomento rimando qui solo a uno studio classico e un’agile
sintesi: M. Pohlenz, La libertà greca, Paideia, Brescia 1963; Ch. Meier, P. Veyne, L’identità del
La critica liberale della democrazia 5

vata, ma vivrebbe le richieste di prender parte alla gestione della cosa pub-
blica come un disturbo o un fastidio, un’inopportuna intromissione nella
sfera della sua indipendenza individuale, nella quale l’individuo persegue
la propria autentica libertà e felicità. Se dunque un antico si poteva credere
tanto più libero quanto più prendeva parte alla vita pubblica, per un mo-
derno una società politica sarà tanto migliore quanto più tempo lascerà
all’individuo per coltivare i propri interessi privati, nei quali soltanto egli
realizza se stesso.
Constant individua qui precocemente la radice di quel rischio tipi-
co delle democrazie rappresentative moderne che è l’apatia politica. Che
il fenomeno dell’apatia sia intimamente connaturato alle istituzioni rap-
presentative appare chiaramente se si considera che è esattamente dalla
considerazione del carattere oneroso e disturbante della partecipazione diret-
ta alla politica per un individuo teso alla ricerca di una felicità di carattere
essenzialmente privato, che Constant ricava la necessità di un governo di
tipo rappresentativo. Di un governo rappresentativo, ossia di «un’organiz-
zazione mediante la quale una nazione si affida ad alcuni individui per
ciò che non può o non vuole fare essa stessa»14, hanno bisogno infatti tutte le
nazioni moderne, e questo, come abbiamo visto per un doppio ordine di
motivi: da un lato esse non possono essere governate direttamente, perché
troppo vaste per poter prevedere una partecipazione diretta di tutti gli in-
dividui che le compongono alla vita pubblica; dall’altro esse devono esse-
re governate rappresentativamente, poiché i cittadini moderni non vogliono
essere distratti dall’onerosa attività della politica dal perseguimento delle
proprie individuali felicità. È così che instaurare un sistema rappresenta-
tivo, in cui il popolo dà mandato ai propri rappresentanti di fare i propri
interessi è per Constant il solo «al cui riparo ci sia oggi possibile trovare
un po’ di libertà e di quiete»15. Per questo, per quanto esso contenga in sé
il rischio dell’apatia, il governo rappresentativo è per Constant il risultato
davvero benefico della Rivoluzione francese.
Il carattere specificamente privato della libertà che i moderni vogliono
sopra ogni altra cosa tutelare rende necessaria l’invenzione della demo-
crazia rappresentativa, una forma di governo ignota agli antichi. In una
democrazia rappresentativa i soli ma decisivi poteri politici che i cittadini
conservino sono da un lato quello di eleggere, e dall’altro quello di control-
lare l’operato dei propri rappresentanti, che possono essere allontanati nel
caso abbiano disatteso le aspettative attraverso apposite procedure giudi-
ziarie o alla prima scadenza elettorale. La concezione minima di democra-
zia fatta propria da Popper ne La società aperta e i suoi nemici, che ne fa un
sistema che permette non già un utopistico esercizio diretto della volontà

cittadino e la democrazia in Grecia, Il Mulino, Bologna 1989.


14
 B. Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, cit., p. 31; il corsivo è mio.
15
 Ivi, p. 3.
6 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

popolare ma il più modesto obiettivo di potersi liberare dei governanti in


carica senza spargimenti di sangue, trova qui la sua origine16. Una volta
ridotto in questo modo il terreno dell’agire politico, Constant si può risco-
prire – di contro al rischio dell’apatia connaturato alle istituzioni rappre-
sentative – paladino di una nuova forma di partecipazione alla vita politica,
una forma adatta alle esigenze delle nuove istituzioni rappresentative:

Bisogna che le istituzioni completino l’educazione morale dei cittadini.


Rispettandone i diritti individuali, evitando di disturbarne le occupazioni,
devono tuttavia consacrarne l’influenza sulla cosa pubblica, chiamarli a con-
correre con le loro risoluzioni e i loro suffragi all’esercizio del potere, garan-
tire loro un diritto di controllo e di sorveglianza tramite la manifestazione
delle loro opinioni e, formandoli in tal modo, attraverso la pratica, a queste
elevate funzioni, dare loro ad un tempo e il desiderio e la facoltà di adem-
piervi17.

1.1.3 Democrazia ed esclusione

La «partecipazione dei moderni», tuttavia, deve essere mantenuta all’in-


terno di limiti ben precisi. Tra gli eccessi della Rivoluzione per Constant
uno era stato particolarmente pernicioso: l’idea del suffragio universale,
concesso improvvidamente dalla Costituzione del 24 giugno del 1793. Che
tutti gli uomini debbano partecipare all’elezione dei rappresentanti politici
era per Constant una palese falsità, smentita dall’esperienza storica:

Nessun popolo ha considerato come membri dello Stato tutti gli indi-
vidui che risiedano come che sia sul suo territorio. Non si tratta qui delle
distinzioni che, presso gli antichi separavano gli schiavi dagli uomini liberi
e che, presso i moderni, separano i nobili dai plebei. La democrazia più as-
soluta stabilisce due classi. Nell’una sono relegati gli stranieri e coloro che
non hanno raggiunto l’età prescritta dalla legge per esercitare i diritti politici;
l’altra è composta degli uomini nati nel paese che hanno raggiunto tale età.

L’esclusione dalla piena titolarità dei diritti politici di parti della popo-
lazione è a suo avviso una costante di tutti i regimi politici, compresa la
democrazia. L’esclusione dei minori e degli stranieri residenti ne è la prova
più evidente. Questa doppia esclusione viene giustificata a partire dal fatto
che «per essere membro di un’associazione bisogna avere un certo grado di
lumi e un interesse comune con gli altri membri»18: la mancanza dei primi
giustifica l’esclusione dei minori, quella del secondo dà ragione dell’esclu-
sione degli stranieri. Lo stesso fatto che il suffragio universale potesse legit-

16
 Cfr. K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Armando Editore, Roma 1974.
17
 B. Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, cit., pp. 34-35.
18
 B. Constant, Principi di politica, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 99.
La critica liberale della democrazia 7

timamente – per quella che era, salvo rarissime eccezioni19, l’aria dei tempi
– escludere la popolazione femminile era letto da Constant come la prova
del fatto che esso non rappresentava in alcun modo la soddisfazione di un
diritto naturale, ma ricopriva una «funzione politica»20 che per poter essere
adeguatamente esercitata implicava un necessario atto di discriminazione
attraverso il quale separare i cittadini pleno jure dalla massa complessiva
della popolazione.
In questo contesto per Constant era particolarmente importante che le
classi popolari fossero tenute al di fuori dei meccanismi della rappresen-
tanza politica, imponendo delle restrizioni di tipo censitario alla concessione
dei diritti politici:

Coloro che l’indigenza mantiene in un’eterna dipendenza e condanna a


lavori giornalieri non sono né più illuminati dei fanciulli né più interessati
degli stranieri a una prosperità nazionale di cui non conoscono gli elementi
e di cui godono i vantaggi soltanto indirettamente21.

La partecipazione politica delle classi meno abbienti avrebbe infatti


avuto, a suo parere, delle conseguenze disastrose: concedere i diritti po-
litici ai poveri significava concedere loro il diritto di legiferare intorno
alla proprietà senza dover pagare alcun prezzo per le proprie decisioni.
Concedendo ai poveri la partecipazione alla politica si sarebbe così creata
una «casta privilegiata»22 che avrebbe potuto imporre ai ricchi tasse alle
quali non sarebbe stata a sua volta sottoposta, o che avrebbe potuto chie-
dere per sé esenzioni dalle imposte o trattamenti fiscali di favore. Limitare
la partecipazione politica alla sola classe abbiente significava dunque dare
vita a governi più responsabili nei confronti delle proprie azioni politiche,
in particolare quando queste azioni andavano a toccare quella che, come
abbiamo visto, è la base della moderna felicità borghese: la libertà indi-
viduale. Per questo Constant, come tutti gli autori chiave del liberalismo
ottocentesco, chiedeva che la democrazia rappresentativa fosse protetta

19
 Tra le più notevoli c’è la figura di Olympe de Gouges, autrice nel 1791 di una Déclaration
des droits de la femme et de la citoyenne. Cfr. R. Cavicchioli, I percorsi dell’emancipazionismo: la
costruzione della cittadina nell’opera di Mary Wollstonecraft e Olympe De Gouges, «Bollettino
telematico di Filosofia Politica», <http://purl.org/hj/bfp/218> (04/11).
20
 B. Constant, Principi di politica, cit., p. 99.
21
 Ivi, p. 100.
22
 Cfr. il primo capitolo di D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del
suffragio universale, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
8 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

dall’invasione delle classi popolari ponendo dei severi23 limiti censitari al


suffragio:

Occorre un’ulteriore condizione, oltre alla nascita sul territorio e all’età


prescritta dalla legge: questa condizione è il tempo indispensabile all’acqui-
sizione della cultura e di un retto giudizio. Solo la proprietà garantisce que-
sto tempo; solo la proprietà rende gli uomini capaci dell’esercizio dei diritti
politici; solo i proprietari possono essere cittadini24.

1.2 Tocqueville e gli ‘istinti selvaggi’ della democrazia

Le limitazioni censitarie al suffragio che un liberale come Constant


poteva rivendicare rispecchiano bene lo spirito dei tempi. L’età della
Restaurazione fu infatti dominata culturalmente dalla paura delle classi
dominanti di fronte all’eventualità di uno stabile ingresso nell’arena politi-
ca di quelle classi pericolose che per la prima volta si erano affacciate da pro-
tagoniste sul palcoscenico della storia europea all’epoca della Rivoluzione.
Gli esponenti più accorti della borghesia liberale francese ed europea non
tardarono tuttavia ad accorgersi delle potenzialità di controllo sociale insite
nel suffragio universale e nelle istituzioni democratiche rappresentative. Il
più acuto tra di essi fu senz’altro Alexis de Tocqueville.

1.2.1 La democrazia come destino

Alexis-Charles-Henri Clérel de Tocqueville nacque a Parigi nel 1805, da


una famiglia di antica nobiltà. Figlio del conte Hervé de Tocqueville, impri-
gionato durante il Terrore e scampato alla ghigliottina soltanto per la morte
di Robespierre, Alexis era per parte di madre pronipote di Malesherbes,
illustre rappresentante della nobiltà di toga che aveva difeso il re Luigi
XVI di fronte alla Convenzione, ghigliottinato nel 1794. Questi brevi cenni
biografici bastano a spiegare come Tocqueville potesse essere ossessiona-
to dall’esperienza del Terrore: egli era preoccupato più di ogni altra cosa
dalla possibilità che le condizioni moderne di esercizio del potere davano
alla nuova razza di rivoluzionari che aveva allora fatto la sua comparsa nel
panorama della storia:

23
 Per Constant la sola proprietà che dà titolo al godimento dei diritti politici deve essere
quella fondiaria, la sola a suo avviso ad avere la stabilità necessaria a legare il suo possessore
all’interesse comune, creando «il patriottismo mediante l’interesse» (B. Constant, Principi
di politica, cit., p. 104). Rifacendosi a Germain Garnier, traduttore e commentatore di Adam
Smith, Constant individua la soglia dell’ammissibilità alla piena cittadinanza politica nel
possesso di redditi terrieri sufficienti a vivere senza dover lavorare. Cfr. ivi, pp. 102-107.
24
 Ivi, p. 100.
La critica liberale della democrazia 9

Una razza turbolenta e devastatrice, sempre pronta ad abbattere e in-


capace di costruire; che non solo pratica la violenza, il disprezzo dei diritti
individuali e l’oppressione delle minoranze, ma – cosa nuova – professa che
deve essere così; che afferma, come dottrina, che non ci sono diritti indivi-
duali e, per così dire, non ci sono individui, ma solo una massa alla quale
tutto è permesso per ottenere i suoi fini25.

Nonostante Tocqueville non possa essere considerato come un partigia-


no della democrazia – per nascita e per indole egli continuò sempre a sen-
tirsi un aristocratico26 – egli sa bene, come già aveva saputo Constant, che le
trasformazioni sociali che hanno attraversato la società europea e che han-
no reso obsoleti gli ideali aristocratici sono profonde, definitive e irreversi-
bili. Tutt’altro che una novità accidentale, la rivoluzione democratica è per
Tocqueville un processo secolare che non coinvolge solamente l’ambito del
potere politico. Le trasformazioni che essa implica non si limitano a una
diversa distribuzione istituzionale del potere, ma riguardano ogni aspetto
della vita umana, dalla proprietà alla cultura, dalla scienza all’industria,
dall’arte alla guerra:

Da quando i cittadini cominciarono a possedere la terra in modo diverso


dalla «tenure» feudale e da quando la ricchezza mobiliare, ormai conosciu-
ta, poté a sua volta creare l’influenza politica e dare il potere, non ci furono
scoperte nelle arti, né vennero apportati perfezionamenti in campo commer-
ciale e industriale, che non divenissero altrettanti elementi di uguaglianza
tra gli uomini. A partire da questo momento tutti i metodi che si scoprono, i
bisogni che sorgono, i desideri che richiedono di essere soddisfatti, sono al-
trettanti progressi verso il livellamento universale. Il gusto del lusso, l’amore
per la guerra, l’impero della moda, tutte le passioni del cuore umano, dalle
più superficiali alle più profonde, sembrano lavorare di comune accordo per
impoverire i ricchi e arricchire i poveri27.

Solo l’insieme complesso di queste trasformazioni – assieme politiche,


sociali, psicologiche e culturali – compone adeguatamente il quadro della
rivoluzione democratica, «il fenomeno storico più continuo, più antico, più

25
 A. de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione, in Id., Scritti politici, Vol. I, UTET, Torino
1968.
26
 Si veda ad esempio l’Introduzione a La democrazia in America, nella quale Tocqueville ricorda
con accento quasi commosso i numerosi «vantaggi» che la società godeva in epoca pre-
democratica, un’epoca nella quale il potere dei nobili equilibrava quello dei re, concorrendo
ad evitare ogni deriva tirannica e garantendo «stabilità, potenza e, soprattutto, gloria» al
corpo sociale. Nella lettura che Tocqueville dà della società di ancien régime sono le stesse
differenze di statuto che separano il popolo dalla classe dirigente a garantirne il maggior
benessere, e ciò in virtù di quel «particolare interesse benevolo e tranquillo, che il pastore ha
per il suo gregge»: cfr. A. de Tocqueville, La democrazia in America, in Id., Scritti politici, Vol. II,
cit., p. 21.
27
 Ivi, p. 17.
10 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

duraturo che si conosca»28. Tratto comune di questo composito insieme è il


secolare progredire della società verso una sempre maggiore uguaglianza
di condizioni. Si tratta per Tocqueville di un fenomeno universale e duratu-
ro, cui sembrano provvidenzialmente concorrere fenomeni tanto disparati
quanto l’invenzione della stampa e quella delle armi da fuoco, la riforma
protestante e la rivoluzione geografica. Se le origini di questo secolare mo-
vimento si possono far rimontare sino all’epoca della crisi medioevale, è
con l’avvento della modernità che la rivoluzione democratica trova il pro-
prio compimento. Di fronte a questo fenomeno imponente ed inarrestabile
Tocqueville confessa di provare «una specie di terrore religioso»29. Le vi-
cende della Rivoluzione e la stagione napoleonica, che dalla Rivoluzione
ha preso origine, hanno mostrato come questa rivoluzione irresistibile e
provvidenziale possegga degli «istinti selvaggi» che impongono di control-
larne con grande attenzione gli sviluppi. È quanto, si lamenta Tocqueville,
le classi dominanti della modernità non hanno saputo fare:

Mai i capi di stato si sono preoccupati di prepararle anticipatamente il


terreno; essa si è compiuta loro malgrado o a loro insaputa. Le classi più
potenti, più intelligenti e più morali della nazione non hanno mai cercato
di impadronirsi della democrazia, onde poterla dirigere. Così essa è stata
abbandonata ai suoi istinti selvaggi; è cresciuta come quei bambini che, ri-
masti privi delle cure paterne, crescono da soli nelle strade delle nostre città,
e che della società non conoscono altro che i vizi e le miserie. Sembrava che
nessuno si fosse ancora accorto della sua esistenza, quando si è impadronita
improvvisamente del potere. Tutti allora si sono sottomessi servilmente ai
suoi più piccoli desideri, adorandola come la personificazione della forza;
ma quando, in seguito, i suoi stessi eccessi la indebolirono, i legislatori con-
cepirono l’imprudente progetto di distruggerla, invece di tentare di educarla
e di correggerla: non volendo insegnarle a governare, non pensarono che a
respingerla dal governo30.

Piuttosto che accettare l’ineluttabilità della rivoluzione democratica, le


classi dominanti hanno improvvidamente tentato di arrestarla, non com-
prendendone il carattere di «fatto provvidenziale», o per usare un termine
molto amato da Max Weber, di destino. Convinto che la modernizzazione
democratica sia un fenomeno irreversibile, Tocqueville si dispone invece a
studiarla. Il suo tentativo è quello di fornire alle «classi più potenti, più in-
telligenti e più morali» le basi per una «scienza politica nuova»31, strumen-
to necessario di questa difficile ma indispensabile opera di educazione degli
istinti selvaggi della democrazia.

28
 Ivi, p. 16.
29
 Ivi, p. 19.
30
 Ivi, p. 20.
31
 Ibidem.
La critica liberale della democrazia 11

Analizzando le istituzioni degli Stati Uniti Tocqueville mostrerà alle


classi dominanti della vecchia Europa la sorprendente possibilità che la re-
alizzazione del programma politico democratico-borghese, in particolare la
concessione del suffragio universale, lungi dal correre il rischio di condur-
re a una dissoluzione della società e a una messa in discussione dei privi-
legi economici che la attraversano, costituisca, in realtà, il miglior antidoto
contro il veleno della sedizione rivoluzionaria, della democrazia selvaggia.
Tocqueville scoprirà anzi come il dominio delle istituzioni democratiche
rappresentative, fatto in nome e per conto del popolo, può permettersi di
essere ancora più assoluto, di permeare le coscienze e le vite più profonda-
mente, di quanto non facesse il potere dispotico tradizionale.

1.2.2 Onnipotenza e volgarità della democrazia

Scrivendo La democrazia in America Tocqueville si pone un doppio obiet-


tivo, cui corrispondono i due libri di cui l’opera si compone: anzitutto in-
dagare la forma specifica delle istituzioni americane; in secondo luogo
comprendere le conseguenze che queste istituzioni hanno sui costumi del
popolo americano e, in questo modo, arrivare a formulare delle ipotesi ge-
nerali sullo «spirito» delle istituzioni democratiche.
Dal punto di vista delle istituzioni, i tratti caratteristici fondamentali
della democrazia vengono individuati da Tocqueville nell’unità del pote-
re democratico e nell’uniformità delle sue regole32. L’insistenza su questi
due elementi rinvia con evidenza alla riflessione rivoluzionaria intorno
al concetto di nazione. Opponendosi frontalmente alla struttura gerar-
chicamente plurale delle società d’ancién régime la Rivoluzione aveva
pensato alla nazione nei termini di una rigorosa unità. Il concetto rivolu-
zionario di nazione, sviluppato nella maniera più classica dalla riflessione
di Emmanuel-Joseph Sieyès, non prevede vi siano corpi intermedi che si
frappongano tra il governo – il solo potere legittimamente superiore a citta-
dini che si suppongano nati liberi ed eguali – e la cittadinanza. L’esistenza
di questi corpi avrebbe comportato l’esistenza di diritti speciali specifici
a ciascuno di essi, e dunque anche di distinzioni di statuto tra i cittadini.
Per dirla con il linguaggio pre-rivoluzionario, l’esistenza di corpi o poteri
intermedi avrebbe comportato l’esistenza di privilegi33. Ma è proprio dalla
lotta contro il privilegio che la Rivoluzione prende il suo avvio, ponendosi
come scopo quello di realizzare l’agognata eguaglianza di tutti i cittadini
di fronte alla legge. La realizzazione dell’eguaglianza comporta l’omoge-
neizzazione del tessuto sociale, dal quale dovranno sparire tutti quei corpi

 Cfr. ivi, p. 785.


32

 Si veda tra tutti E.-J. Sieyès, Che cos’è il terzo Stato?, Editori Riuniti, Roma 1989.
33

Opportunamente quest’edizione italiana, curata da Nicolao Merker, contiene anche il Saggio


sui privilegi dello stesso Sieyès.
12 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

intermedi che, trattenendo per sé poteri e privilegi, continuano a mantene-


re la nazione nella divisione e nell’illegittimità. La prima necessità delle co-
stituende democrazie è dunque quella di unificare il potere, accentrandolo
nelle mani dello stato, e di subordinare ad esso la totalità della popolazione
eliminando ogni potere sociale concorrente.
La rivoluzione democratica si innesta qui su quel processo di centra-
lizzazione del potere politico e amministrativo che era già stato messo in
moto dallo Stato assoluto e che riceve dalla democrazia una decisiva acce-
lerazione. Accentramento politico e amministrativo si rinforzano a vicenda
permettendo allo stato democratico di acquisire un potere molto più am-
pio e centralizzato di quanto non fosse qualunque potere lo abbia precedu-
to. Dunque non è quello di una dissoluzione anarchica del governo il vero
pericolo della democrazia, ma quello, semmai, di realizzare una inaudita
concentrazione del potere, un eccesso di forza disciplinante sconosciuto a
qualsiasi precedente società politica34.
Questo pericolo è tanto più grave in quanto nella natura del potere de-
mocratico vi è la capacità non solo di dare forma alle relazioni politiche, ma
anche di influenzare in profondità i costumi di ciascuno dei singoli indi-
vidui che compongono il popolo. Assieme ai corpi intermedi scompaiono
infatti anche le solidarietà umane che questi corpi implicavano, lasciando,
per così dire, gli individui nudi e soli di fronte allo strapotere della macchi-
na statale. Proscritte politicamente le solidarietà di gruppo si affievolisco-
no, lasciando ognuno insieme «indipendente e debole»35.
Secondo Tocqueville, il fatto che la costruzione di questo inaudito po-
tere attraverso l’accentramento del potere politico e amministrativo sia
sottoposto al controllo del popolo aggrava la diagnosi piuttosto che mi-
gliorarla. In una democrazia rappresentativa il controllo popolare avviene
anzitutto attraverso il periodico rituale delle elezioni, attraverso il quale
il popolo sceglie direttamente i propri rappresentanti presso il legislativo.
Conseguenza di questa procedura di elezione diretta è che i rappresentan-
ti risultano di fatto sottomessi al periodico giudizio dell’opinione pubblica,
un’opinione che per Tocqueville è tutt’altro che politicamente illuminata.
Per Tocqueville ciò non dipende dalle intenzioni delle masse popolari, ma
dalla loro connaturata incapacità di riflessione politica. Per quanti progres-
si possa fare la scienza, la cultura del popolo non può a suo parere essere
elevata «oltre un certo livello». Per «far sì che gli uomini si istruiscano e si
educhino» è necessario infatti che essi spendano del tempo per la propria
istruzione. Così,

34
 «Le assemblee legislative inghiottono ogni giorno qualche residuo dei poteri di governo e
tendono a riunirli tutti in sé stesse, come aveva fatto la Convenzione. […] Spesso gli accade
di mancare di saggezza e di previdenza perché troppo potente. In questo consiste il vero
pericolo. È dunque a causa della sua stessa forza, e non già della sua debolezza, che esso
rischierà un giorno di perire» (A. de Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 112).
35
 Ivi, p. 789.
La critica liberale della democrazia 13

La maggiore o minore facilità che il popolo incontra a vivere senza la-


vorare costituisce dunque il limite necessario al suo progresso intellettuale.
[…] È dunque altrettanto difficile concepire una società in cui tutti gli uomini
siano molto colti quanto immaginare uno stato in cui tutti i cittadini siano
ricchi: sono queste due difficoltà correlative. Ammetterò senza difficoltà che
la massa dei cittadini vuole molto sinceramente il bene del paese; vado an-
che più lontano e dirò che le classi inferiori della società mi sembrano mesco-
lare, in genere, a questo desiderio meno combinazioni di interesse personale
che le classi elevate; ma ciò che, più o meno manca sempre loro, è l’arte di
misurare i mezzi, pur volendo sinceramente un fine36.

1.2.3 Un rimedio alla volgarità: l’elezione a doppio grado

L’incapacità politica delle masse si mostra nella tendenza – fondata


sulla passione tipicamente democratica dell’invidia37 – ad allontanare dal
potere le classi elevate. Ciò appare con evidenza se si considera la compo-
sizione della Camera dei rappresentanti di Washington:

Quando entrate nell’aula dei rappresentanti a Washington, vi sentite col-


piti dall’aspetto volgare di questa grande assemblea. L’occhio cerca spesso
invano un uomo celebre. Quasi tutti i suoi membri sono personaggi oscuri,
il cui nome non fornisce alcuna immagine al pensiero. Sono per la maggior
parte, avvocati di provincia, commercianti o anche di uomini appartenenti
alle classi inferiori. In un paese in cui l’istruzione è quasi universalmente
diffusa, si dice che non sempre i rappresentanti del popolo sanno scrivere
correttamente38.

Secondo Tocqueville, la volgarità della Camera dei rappresentanti è una


espressione necessaria della sua procedura di elezione, fondata sul suffra-
gio popolare diretto. Questa particolare modalità di elezione – combinata
con la breve durata della carica – concede alla pubblica opinione un’in-
fluenza continuata e diffusa sulle decisioni dei rappresentanti. Per molti au-
tori contemporanei proprio la continuità e diffusione di questa influenza
rappresentano un valido motivo per continuare a credere nel futuro delle
istituzioni rappresentative, anche di contro all’evidenza della crisi di legit-

36
 Ivi, pp. 236-237.
37
 «Non bisogna nascondersi che le istituzioni democratiche sviluppano a un altissimo grado
il sentimento dell’invidia nel cuore umano. […] Le istituzioni democratiche risvegliano e
lusingano il desiderio dell’eguaglianza, senza poterlo mai soddisfare interamente. Questa
eguaglianza completa sfugge ogni giorno dalle mani del popolo nel momento in cui esso
crede di afferrarla, e fugge, come dice Pascal, in una fuga eterna: il popolo si accalora nella
ricerca di questo bene tanto più prezioso, in quanto è abbastanza vicino per essere conosciuto
e abbastanza lontano per non farsi essere affatto assaporato. La probabilità di riuscire lo
emoziona, l’incertezza del successo lo irrita: esso si agita, si stanca, si inasprisce. Tutto ciò che
in qualche modo lo supera, gli pare allora un ostacolo ai suoi desideri, e non c’è superiorità,
anche legittima, la cui vista non affatichi i suoi occhi» (ivi, p. 237).
38
 Ivi, p. 240.
14 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

timità che le sta attraversando39. Per Tocqueville essa fa sì che il mandato


rappresentativo (che prevede la libertà del rappresentante rispetto all’e-
lettore) tenda a trasformarsi in una sorta di delega fiduciaria (che invece
presuppone che l’eletto sia tenuto a realizzare la volontà dell’elettore stes-
so), circostanza che porta Tocqueville a porre in dubbio lo stesso carattere
rappresentativo del sistema politico americano. Letto in questo modo esso
tenderebbe ad assomigliare ad una sorta di democrazia diretta mascherata:

[…] capita molto frequentemente che gli elettori, nominando un deputato,


gli traccino una linea di condotta e gli impongano un certo numero di obbli-
ghi positivi da cui egli non può in nessun modo allontanarsi. Tolti i tumulti,
è come se la maggioranza stessa deliberasse sulla pubblica piazza40.

È qui che Tocqueville affronta più direttamente uno dei più pericolosi
‘istinti selvaggi’ della democrazia: il rischio che essa, non prevedendo al-
cun adeguato dispositivo di mediazione della volontà popolare, si configu-
ri come un’autentica tirannia della maggioranza.

Quando negli Stati Uniti un uomo o un partito subisce un’ingiustizia, a


chi volete che si rivolga? All’opinione pubblica? È essa che forma la maggio-
ranza; al corpo legislativo? Esso rappresenta la maggioranza e le obbedisce
ciecamente; al potere esecutivo? Ma è nominato dalla maggioranza e la serve
come uno strumento passivo; alla forza pubblica? La forza pubblica non è al-
tro che la maggioranza sotto le armi; alla giuria? La giuria è la maggioranza
investita del diritto di pronunciare sentenze41.

Se l’onnipotenza della maggioranza fa parte dell’ «essenza stessa dei go-


verni democratici»42, si tratterà di evitare che esso venga posto «diretta-
mente» nelle mani delle masse da improvvidi strumenti come il mandato
imperativo. Come abbiamo visto Constant, per esorcizzare i rischi conte-
nuti nelle pretese delle classi popolari di partecipare direttamente alla vi-
ta politica, si era fatto alfiere di una limitazione censitaria del suffragio.
Tocqueville, che considera la diffusione del suffragio universale una ten-
denza irresistibile, propone una diversa ricetta che per altre vie si propone

39
 Penso qui ad esempio alla marmorea fiducia nelle istituzioni rappresentative che ne ricava
Nadia Urbinati, Democrazia rappresentativa, Donzelli, Roma 2010. Oppure alla sottolineatura
del potere di resistenza della società democratica extra-istituzionale fatta da P. Rosanvallon, La
contre-démocratie, la politique à l’age de la défiance, Seuil, Paris 2006. Sulla questione dell’opinione
pubblica rimando al classico J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza,
Roma-Bari 2005. Per una lettura critica del concetto di rappresentazione si vedano invece G.
Duso (a cura di), Oltre la democrazia: un’itinerario attraverso i classici, Carocci, Roma 2004; B.
Manin, Principi del governo rappresentativo, Il Mulino, Bologna 2010; H. Pitkin, The Concept of
Representation, University of California Press, Berkeley 1967; G. Leibholz, La rappresentazione
nella democrazia, cit.
40
 A. de Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 293.
41
 Ivi, p. 299.
42
 Ivi, p. 292.
La critica liberale della democrazia 15

di raggiungere il medesimo scopo: per conservare le redini della società


saldamente nelle mani delle classi possidenti ciò che si deve rinsaldare è
il carattere rappresentativo delle istituzioni politiche. Anche se il suffragio
universale non può essere evitato, e le restrizioni censitarie sono destinate
progressivamente a cadere, il meccanismo elettorale può comunque esse-
re educato, emendandolo dai suoi aspetti più selvaggi. L’esempio di un
differente modo di intendere il rapporto politico di rappresentazione è
già, anch’esso, nelle istituzioni federali americane. Si tratta del Senato fe-
derale che Tocqueville così contrappone descrittivamente alla Camera dei
rappresentati:

A due passi di là si apre l’aula del senato, il cui stretto recinto racchiude
una gran parte delle celebrità dell’America. Difficilmente vi si scorge un solo
uomo che non richiami l’idea di una persona illustre. Sono eloquenti avvo-
cati, generali eminenti, abili magistrati o uomini di stato assai noti. Ogni
parola che esce da questa assemblea farebbe onore ai più grandi dibattiti
parlamentari di Europa43.

Una così marcata differenza di ‘ambiente’ proviene a parere di


Tocqueville dal meccanismo di elezione che, sebbene in entrambi i casi si
fondi sul suffragio universale, per la camera è di tipo diretto, mentre per
il senato è indiretto. Sono infatti le camere dei vari stati, elette a suffragio
universale, a scegliere al proprio interno i rappresentanti da inviare al se-
nato federale. Non si tratta quindi, per evitare l’involgarimento della po-
litica, di negare il principio del suffragio universale ma di trovare il modo
di governarlo, di frenarne gli istinti selvaggi liberandolo dalle incrostazio-
ni di democrazia diretta che impediscono di indirizzarlo verso il meglio.
L’elezione a doppio grado appare in questo senso un promettente strumen-
to: è per questo che Tocqueville immagina (ed auspica) che la sua logica
venga estesa ad altre istituzioni oltre al Senato. Ciò permetterà di limita-
re gli effetti negativi della politica democratica, pur mantenendo intatto
il principio della sovranità popolare. Si potrà così conservare l’essenziale
della formula politica democratica evitandone i rischi: si potrà «mettere
l’uso della libertà politica alla portata di tutte le classi del popolo»44 con-
trollandone i più pericolosi e volgari istinti.

1.2.4 La tirannia della maggioranza

Abbiamo visto come il nucleo della logica politica democratica stia per
Tocqueville nella costruzione di un potere unico e centralizzato che emana
direttamente dagli individui e li governa attraverso una legislazione unifor-

 Ivi, p. 240.
43

 Ivi, p. 241.
44
16 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

me. Una volta costituito il potere statale tende ad aumentare le sue prero-
gative, occupando gli spazi di potere lasciati vuoti dalla soppressione dei
poteri secondari, e andando a colonizzare spazi sempre più ampi della vita
sociale. La tirannia della maggioranza non si esplica infatti solo sul piano
delle istituzioni politiche, ma anche e ben più in profondità sul piano dei
costumi, producendo effetti di inusitato conformismo sociale. L’uniformità
della legislazione, in questo senso, funziona come un potentissimo stru-
mento di omogeneizzazione dei costumi. Attraverso di essa

[…] si abituano gli uomini a far una completa e continua astrazione dalla
loro volontà, ad obbedire, non una volta sola e su un sol punto, ma sempre e
in tutto. Non solo essa doma gli individui con la forza ma li tiene anche con
le loro abitudini; li isola e quindi li afferra uno per uno dalla massa comune45.

La ginnastica di obbedienza cui l’uniformità della legislazione demo-


cratica costringe gli individui, sommata alla distruzione delle solidarietà
tradizionali che li lascia soli davanti al potere, riesce in ciò che non era riu-
scito prima a nessuna forma storicamente conosciuta di tirannide, ovvero
ad impedire la stessa formulazione di pensieri ostili all’autorità:

[…] finché la maggioranza è incerta, si parla; ma dal momento in cui essa si è


irrevocabilmente pronunciata, ognuno tace e amici e nemici sembrano allora
attaccarsi concordemente al suo carro. La ragione di questo è semplice: non
c’è monarca così assoluto che possa riunire nelle sue mani tutte le forze della
società e vincere le resistenze, come può farlo una maggioranza rivestita del
diritto di fare le leggi e di eseguirle. Un re, d’altronde, non ha che un potere
materiale che agisce sulle azioni ma che non può raggiungere le volontà;
ma la maggioranza è rivestita di una forza insieme materiale e morale, che
agisce tanto sulla volontà quanto sulle azioni; e che impedisce nello stesso
tempo il fatto e il desiderio di fare46.

L’onnipotenza della maggioranza non deriva solo dalla straordinaria


forza raggiunta dalla macchina statale. Il suo potere vince ogni resistenza
poiché la sua autorità non è solo materiale ma anche morale: proponendosi
come volontà della società – la sola volontà legittima, l’unica avente il diritto
di rappresentarla – essa abbatte ogni resistenza sociale che potrebbe frena-
re la propria realizzazione. In questo modo essa allarga in maniera decisi-
va l’ambito di applicazione del potere politico, aprendo la strada ad una
sua deriva totalitaria. Se infatti, come insegna Hannah Arendt47, una delle
caratteristiche essenziali del potere totalitario è quella di abolire la distin-

 Ivi, p. 109.
45

 Ivi, pp. 301-302.


46

 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Introduzione di Alberto Martinelli, con un saggio di
47

Simona Forti, Einaudi, Torino 2004.


La critica liberale della democrazia 17

zione tra pubblico e privato, subordinando e risolvendo le libertà persona-


li nel più alto interesse dello stato, la forza morale di cui la volontà della
maggioranza è investita in un regime democratico ha già per Tocqueville
un carattere proto-totalitario. Spezzando la distinzione tra foro interno del-
la coscienza e foro esterno dell’azione sulla quale, per Tocqueville come per
l’insieme del pensiero liberale, si edificano le libertà individuali, la mag-
gioranza è in grado di intervenire con violenza smisurata nella vita e nelle
scelte individuali, non solo sanzionando le azioni, ma controllandone an-
che la genesi morale privata:

Nelle nazioni aristocratiche il potere sociale si limitava normalmente a


guidare e sorvegliare i cittadini in tutto ciò che aveva un rapporto diretto
e visibile con l’interesse nazionale; in tutto il resto li abbandonava di buon
grado al loro libero arbitrio. […] Le nazioni democratiche del nostro tempo
tendono verso l’eccesso opposto. È evidente che la maggior parte dei nostri
sovrani non vuole solamente guidare il popolo nel suo complesso; si direbbe
che si ritengono responsabili delle azioni e del destino individuale dei loro
sudditi, che si siano presi l’incarico di guidare e di illuminare ciascun citta-
dino nei diversi atti della sua vita e, se occorre, di farlo felice suo malgrado48.

Il passo sembra anticipare i toni della riflessione foucaultiana sul


passaggio dal ‘far morire e lasciar vivere’ del paradigma della sovranità
al ‘far vivere e lasciar morire’ del paradigma biopolitico49. Ed in effetti,
Tocqueville come Foucault si interessa al proliferare del potere, e al modo
in cui esso viene ad invadere un numero crescente di ambiti dell’esistenza
umana. Dalla carità all’educazione, dalla religione alla produzione indu-
striale, non v’è ambito che sembri poter sfuggire al controllo dello stato e
alla sua crescita indefinita.
Si tratta di un processo necessario che, paradossalmente, trova le pro-
prie ragioni più profonde proprio nello sfrenato individualismo delle so-
cietà democratiche. I cittadini democratici, per Tocqueville così come per
Constant, «non si strappano che con molto sforzo alle loro faccende indivi-
duali per occuparsi degli affari comuni»50. La passione politica dominante
al tempo dell’eguaglianza – e quella che in definitiva acconsente alla tirannia
della maggioranza e dunque anche alla compressione delle libertà indivi-
duali – è quella per l’indipendenza, per guadagnare la quale i cittadini sono
disposti a «dare continuamente, o a lasciar prendere, nuovi diritti al potere
centrale»51. Ed in effetti i cittadini delle moderne democrazie istituiscono
lo stato e lo dotano di un potere irresistibile proprio allo scopo di potersi
disinteressare degli affari comuni.

48
 A. de Tocqueville, La democrazia in America, cit., pp. 800-801.
49
 Cfr. M. Foucault, Biopolitica e liberalismo, Medusa, Milano 2001.
50
 A. de Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 788.
51
 Ivi, p. 789.
18 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

Il potere statale si accresce così con l’indebolirsi degli individui che lo


compongono e con la compressione delle loro libertà all’interno di una
dimensione strettamente privata nella quale ciascuno può occuparsi in-
disturbato dei propri affari, soddisfacendo così la propria passione per l’in-
dipendenza. Certo, nelle prime e traumatiche fasi della vita di una nazione
democratica – quando questa deve ancora generarsi dal superamento ri-
voluzionario di un ordine preesistente – il gusto dell’indipendenza può
prendere la forma di un «piacere selvaggio del disordine»52, dell’anarchia e
della licenza. L’affermarsi della democrazia politica raramente non è stato
accompagnato dal punto di vista storico da «cambiamenti violenti nello
stato della proprietà e delle persone»53. Superata questa fase iniziale però,
la vita politica dei popoli democratici appare dominata da tutt’altre pas-
sioni. Per Tocqueville il sentimento in assoluto dominante in una società
democratica è infatti l’ «amore della tranquillità pubblica»54, una tranquil-
lità che gli individui si garantiscono cedendo quote sempre più ampie di
libertà allo stato. Il processo si alimenta di se stesso, in un circolo nel quale
l’individuo si indebolisce sempre di più, pagando la propria indipendenza
al prezzo di una sottomissione sempre più assoluta al potere irresistibile
dello stato:

D’altra parte l’amore del benessere aumenta di continuo, e il governo si


impossessa sempre di più di tutte le fonti del benessere. Gli uomini vanno,
dunque, per due strade diverse [ma ampiamente convergenti, si potrebbe
aggiungere].verso la schiavitù. Il gusto del benessere li distoglie dall’ingerir-
si negli affari del governo e l’amore del benessere li mette in una dipendenza
sempre più stretta dai governanti55.

1.2.5 Apatia e dispotismo

L’egualitarismo democratico contiene dentro di sé tanto il rischio


dell’anarchia e del disordine paventati dai suoi avversari più conservato-
ri, quanto quello del dispotismo derivato dalla immane potenza fisica e
morale della macchina statale. Entrambi questi rischi si generano secon-
do Tocqueville da una sola causa, quella «apatia generale» che è «frutto
dell’individualismo»56 e culla delle degenerazioni del sistema democratico.
Proscrivendo e distruggendo i poteri secondari, imponendosi come ege-
monica dal punto di vista culturale, la democrazia rafforza tanto di più lo
stato quanto più indebolisce gli individui che lo compongono, secondo un
movimento che si alimenta di se stesso: lo stato garantisce l’indipendenza

52
 Ivi, p. 809.
53
 Ibidem.
54
 Ivi, p. 788.
55
 Ivi, p. 802.
56
 Ivi, p. 867.
La critica liberale della democrazia 19

degli individui, ma per farlo distrugge i legami che univano gli uomini
tra di loro; gli individui, isolati nelle rispettive solitudini, si scoprono più
deboli ed è proprio questa loro nuova la debolezza che rende sempre più
necessaria la presenza tutelare dello stato. Essi che «sopportano così con
tanta difficoltà un superiore» si dispongono a «tollerare pazientemente un
padrone e mostrarsi al contempo fieri e servili»57. Per liberarsi da quei lega-
mi di dipendenza dai loro simili che ne impedivano la libertà, gli individui
si dispongono ad accettare una nuova forma di servitù, amministrata dallo
stato che rimane l’unico e necessario sostegno della debolezza e della soli-
tudine di ciascuno. Tocqueville descrive così la forma di questa peculiare
servitù dei moderni:

Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere


nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a
procurarsi piacerei piccoli e volgari, con i quali soddisfare il loro desideri.
Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli
altri: i suoi figli e i suoi amici formano per lui tutta la specie umana; quanto
al rimanente dei suoi concittadini, egli è vicino ad essi, ma non li vede; li
tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso […] Al di sopra
di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicu-
rare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. Rassomiglierebbe all’autorità
paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità,
mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia; ama che i cit-
tadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Lavora volentieri al
loro benessere, ma vuole esserne l’unico agente e regolatore; provvede alla
loro sicurezza e ad assicurare i loro bisogni, facilita i loro piaceri, tratta i loro
principali affari, dirige le loro industrie, regola le loro successioni, divide le
loro eredità; non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare
e la pena di vivere?58.

Il dispotismo democratico non si manifesta nella forza e non si fonda


sulla paura. È un dispotismo assieme più esteso e più mite di quelli che lo
hanno preceduto, che si combina con alcune forme di libertà e, all’ombra
della sovranità popolare, dà luogo ad una «specie di servitù ben ordinata,
facile e tranquilla»59 che – anche senza violenza o coercizione diretta – è
capace di dare forma alle azioni quotidiane della totalità dei cittadini, por-
tandoli progressivamente «a rinunciare a far uso della loro volontà»60. Per
quanto mite e regolato, il dispotismo democratico ha effetti più ampi e pro-
fondi di qualsiasi forma dispotica precedente, effetti che possono giungere
sino alla distruzione dell’autonomia individuale, del libero arbitrio umano.

57
 Ivi, p. 790.
58
 Ivi, p. 812.
59
 Ivi, p. 813.
60
 Ivi, p. 814.
20 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

Ma come può accadere che uomini che pure rivendicano l’inalienabilità


della propria libertà e uguaglianza possano accettare una simile condizio-
ne di regolata schiavitù? Secondo Tocqueville, che anticipa qui un tema
che vedremo essere fondante per la riflessione elitista, ciò può accadere
esattamente perché i popoli democratici scelgono loro stessi i propri tutori
attraverso il suffragio. In verità, secondo Tocqueville,

Invano incaricherete questi medesimi cittadini, che avete resi così dipen-
denti dal potere centrale, di scegliere di quando in quando i rappresentanti
di tale potere; quest’uso così importante, ma così breve e così raro, del loro
libero arbitrio, non impedirà che essi perdano poco alla volta la facoltà di
pensare, di sentire e d’agire da soli e li lascerà, e che cadano così gradual-
mente al di sotto del livello umano61.

Riducendo la partecipazione politica al momento elettorale, i cittadini


democratici «escono per un momento dalla dipendenza, per designare il
loro padrone»62, per poi farvi subito ritorno.
Per quanto feroce questa critica possa apparire, Tocqueville rimane agli
antipodi di Rousseau e della sua critica della democrazia rappresentativa.
Come abbiamo accennato all’inizio di questo capitolo, Rousseau è convinto
che l’unica vera democrazia sia quella diretta. A suo avviso l’esempio degli
Inglesi mostra con evidenza che «nel momento in cui un popolo si dà dei
rappresentanti, non è più libero»63. Rousseau critica il meccanismo della
rappresentanza per difendere il principio della inalienabilità della sovrani-
tà popolare democratica. Per Tocqueville il rischio del dispotismo è invece
tanto più grave quanto più il potere democratico è espressione diretta della
volontà popolare. Per scongiurarlo, non si tratta come suggeriva Rousseau
di difendere la democrazia dalla rappresentanza, ma al contrario di difen-
dere la rappresentanza dalla democrazia. Poiché l’universalità del suffra-
gio, espressione della necessità storica della democrazia, non può essere
rimessa in questione, il rimedio alle pulsioni dispotiche della volontà po-
polare starà allora in un rafforzamento del carattere indiretto della dimen-
sione rappresentativa quale si raggiunge, come abbiamo visto, attraverso
riforme istituzionali come le elezioni a doppio grado64.

61
 Ibidem.
62
 Ivi, p. 813.
63
 J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., p. 129. «Il popolo inglese crede bensì di essere libero,
ma si sbaglia di grosso; non è tale che durante l’elezione dei membri del Parlamento: appena
questi siano eletti, esso è schiavo, non è più niente. Nei brevi momenti della sua libertà, l’uso
che ne fa gli merita bene che la perda» (ivi, p. 127).
64
 In altro senso, le contromisure proposte da Tocqueville non differiscono molto da quelle
che già abbiamo incontrato con Constant. In buona sostanza anche Tocqueville pensa che
l’educazione e la partecipazione, oltre che la libertà della stampa, siano potenti antidoti al
dispotismo. Attraverso di esse si tratta di porre freno all’apatia, ricostruendo quei «legami»
che la modernizzazione egualitaria ha spazzato via. Si tratta di tessere rapporti di associazione
capaci di contrastare l’onnipotenza del potere governativo democratico. Si tratta di favorire
La critica liberale della democrazia 21

Per governare la democrazia impedendo che essa cada vittima dei pro-
pri istinti più selvaggi – è questa in definitiva la lezione di Tocqueville –
è necessario sottomettere rigidamente il principio democratico a quello
rappresentativo.

l’associazionismo sociale e politico, oltre che la responsabilità dei singoli: di ricostruire almeno
parzialmente ciò che l’inarrestabile incedere dell’egualitarismo ha distrutto, resistendo in
questo modo al tirannico conformismo della maggioranza. Su questi temi alcune pagine molto
interessanti sono quelle che Tocqueville dedica a descrivere il decentramento amministrativo
tipico della democrazia americana, e in particolar modo il funzionamento dei Comuni, nei
quali si scorge il profilo di una democrazia più diretta e partecipata di quella che prende
forma nelle istituzioni federali.
Capitolo II
La critica marxiana della democrazia

Il potere statale moderno non è che un comitato


che amministra gli affari comuni di tutta la classe
borghese.
K. Marx, Manifesto del Partito Comunista

Per venire a capo degli istinti selvaggi della democrazia Tocqueville, co-
me abbiamo visto, consigliava di rinforzare il carattere «rappresentativo»
delle istituzioni democratiche. Di tutt’altro avviso è Karl Marx, che anzi
incentra l’essenziale della propria critica alla democrazia proprio sul ca-
rattere distorcente delle istituzioni rappresentative della democrazia libe-
rale1. Il rischio insito nelle istituzioni democratiche non è per Marx quello
di dipendere troppo direttamente dalla volontà popolare ma, esattamente
all’inverso, quello di essere incapaci di esprimerla in maniera autentica. Il
meccanismo della rappresentanza, che per Tocqueville era l’antidoto al ri-
schio di una democrazia dispotica, viene esposto da Marx ad una critica fe-
roce secondo la quale la rappresentanza, lungi dal mettere la democrazia al
riparo dalle proprie tendenze patologiche, costituisce il cuore della sua più
diffusa patologia. Nell’idea marxiana le istituzioni della democrazia rap-
presentativa funzionano come uno schermo deformante, capace di piegare
l’appello alla volontà del popolo a strumento di legittimazione dell’ordine
sociale esistente e dei suoi privilegi.
Tenterò qui di seguito di seguire il filo della critica filosofica di Marx al
formalismo della democrazia borghese facendo riferimento in modo parti-
colare alle posizioni espresse in Sulla questione ebraica. Nel prossimo capi-
tolo ripartiremo ancora da Marx, seguendo però un altro approccio, che ci
porterà a considerarne la critica delle istituzioni democratiche da un punto
di vista ulteriore, un punto di vista di tipo non teorico ma storico.

 Per un’introduzione al pensiero di Marx si può fare riferimento a G. Bedeschi, Introduzione a


1

Marx, Laterza, Roma-Bari 2002; N. Merker, Karl Marx. Vita e opere, Laterza, Roma-Bari 2011; D.
McLellan, Marx, Il Mulino, Bologna 1998.
24 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

2.1 Il metodo materialistico

L’essenziale della critica marxiana alla democrazia borghese è già com-


piuta nei suoi scritti giovanili, nei quali Marx si propone di oltrepassare la
critica alla religione di Bauer e Feuerbach, proponendo una critica del di-
ritto e della politica capace di smascherare l’alienazione umana, non più e
non solo nella sua figura sacra, ma anche nelle sue figure profane2:

La critica della religione finisce con la dottrina per cui l’uomo è per l’uomo
l’essere supremo, dunque con l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti
nei quali l’uomo è un essere degradato, abbandonato, spregevole, rapporti
che non si possono meglio raffigurare che con l’esclamazione di un francese
di fronte a una progettata tassa sui cani: poveri cani! Vi si vuole trattare come
uomini!

Non è a partire da questi scritti, tuttavia, che si è formata l’immagine


canonica di un Marx critico implacabile della democrazia. Una simile idea
affonda piuttosto le sue radici nel metodo di analisi che Marx perfeziona
nel corso della propria attività, e che trova le sue espressioni più importanti
nei capolavori della maturità: Per la critica dell’economia politica e Il Capitale.
Nell’Introduzione a Per la critica dell’economia politica, Marx fa risalire pro-
prio al 1843 – anno al quale risalgono anche i manoscritti della Critica alla
filosofia hegeliana del diritto pubblico, rimasti inediti sino al 1927 – la scoperta
decisiva per il suo metodo, una scoperta che sarebbe divenuta poi il filo
conduttore delle sue successive ricerche:

La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quan-
to le forme dello Stato non possono essere compresi né per sé stessi, né per la
cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici,
piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza il cui complesso viene abbrac-
ciato da Hegel, seguendo l’esempio degli inglesi e dei francesi del secolo
XVIII, sotto il termine di «società civile»; e che l’anatomia della società civile
è da cercare nell’economia politica3.

La dimensione politica, così come quella giuridica, non sono compren-


sibili di per se stesse, senza riferimento alla dimensione economica che per
il materialismo storico è il vero perno intorno al quale la realtà assume la
propria peculiare forma. Coerentemente a questa concezione, per criticare
– o anche solo per comprendere – adeguatamente la forma politica, giuri-
dica o culturale di una data società sarà necessario indagare anzitutto la

2
 K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in Id. La questione ebraica e
altri scritti giovanili, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 101.
3
 K. Marx, Introduzione a Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1971 (III ed.),
p. 4.
La critica marxiana della democrazia 25

struttura economica della società stessa, ossia i rapporti materiali che inter-
corrono tra gli individui che la costituiscono, rapporti attraverso i quali la
società stessa si garantisce la propria produzione e riproduzione. Rispetto
a questi rapporti materiali, che in ultima istanza4 sono quelli determinanti,
la dimensione politica appare come una dimensione secondaria e derivata,
una dimensione che Marx definisce sovrastrutturale:

Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rap-
porti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di
produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle
loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione
costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale
si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono
forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita
materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale
della vita5.

In questo senso, la critica marxiana del formalismo della democrazia


borghese fa parte della più ampia denuncia dell’illusione idealistica circa la
pretesa indipendenza della teoria filosofica e politica – e in generale di ogni
forma latamente culturale – dalla realtà dei rapporti economici e sociali. In
verità, per Marx e per il materialismo storico, nessun fenomeno culturale
può proclamarsi autonomo e indipendente dalla concretezza dei rapporti
economici e sociali all’interno dei quali esso trova origine. Per usare le cele-
bri parole dell’Ideologia tedesca:

La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in


primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni
materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i
pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono […] come emanazione
diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la
produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica,
delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc., di un popo-
lo. Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma
gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un determinato
sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono

4
 L’espressione ricorre in una lettera di Engels a J. Bloch del 21 settembre 1890 che così pro-
segue: «Se ora uno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l’unico fattore
determinante, egli trasforma questa proposizione in una frase vuota, astratta, assurda. La si-
tuazione economica è la base, ma i diversi momenti della sovrastruttura […] esercitano pure
la loro influenza sul corso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano la forma in modo
preponderante. […] Il fatto che i giovani talora annettono al lato economico un’importanza
maggiore di quello che gli spetta, è in parte colpa di Marx e mia. Di fronte agli avversari noi
dovevamo sottolineare il principio essenziale da loro negato, e allora non trovavamo sempre
il tempo, il luogo e l’occasione di rendere giustizia agli altri fattori che partecipano all’azione
reciproca», (K. Marx-F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 1242-1244).
5
 K. Marx, Introduzione a Per la critica dell’economia politica, cit., p. 5
26 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

fino alle loro formazioni più estese. La coscienza non può mai essere qual-
che cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo
reale della loro vita6.

2.2 L’affermazione della società borghese

Per rendere giustizia al metodo di analisi marxiano che abbiamo appe-


na richiamato, e prima di entrare nel vivo della critica, è necessaria un’ulte-
riore premessa che ci permetta di situare la critica delle istituzioni politiche
della democrazia rappresentativa nel contesto dell’evoluzione dei rapporti
materiali che accompagnano e permettono la loro affermazione. Una sin-
tesi particolarmente efficace di questo passaggio è quella che Marx forni-
sce nel 1848, redigendo insieme ad Engels il Manifesto del partito comunista.
Punto di partenza dell’analisi è il riconoscimento del ruolo rivoluzionario
incarnato dalla borghesia nel superamento della società feudale:

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare incessantemente gli


strumenti di produzione e quindi i rapporti di produzione, e quindi tutto
l’insieme dei rapporti sociali. L’immutata conservazione degli antichi modi
di produzione era invece la prima condizione di esistenza di tutte le pre-
cedenti classi industriali. L’incessante rivoluzionamento della produzione,
l’ininterrotto sovvertimento di tutte le condizioni sociali, l’insicurezza e il
movimento perpetui caratterizzano l’epoca della borghesia rispetto a tutte le
precedenti. Tutti gli antichi, arrugginiti rapporti sociali vengono dissolti as-
sieme al loro seguito di opinioni e credenze antiche e venerate, tutti i rappor-
ti che subentrano invecchiano prima di potersi consolidare. Tutto ciò che era
stabile e corrispondeva a gerarchia di ceto, evapora, ogni cosa sacra viene
sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare la loro posi-
zione nella vita e i loro rapporti reciproci con occhi liberi da ogni illusione7.

L’estendersi del modo di produzione capitalistico ha impresso alla sto-


ria dell’umanità un’accelerazione inusitata, che ha modificato in profondità
tutti gli aspetti della vita umana. La base di questo straordinario sconvol-
gimento, in accordo con l’impostazione materialistica della comprensione
della storia fatta propria dagli autori, è in quello straordinario sviluppo
delle forze della produzione sociale che è noto sotto il nome di Rivoluzione
industriale8.

6
 K. Marx, Ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1967 (II ed.), p. 13.
7
 K. Marx, Manifesto del partito comunista, BUR, Milano 1998, p. 57.
8
 «Nei cento anni o poco meno del suo dominio di classe, la borghesia ha creato forze pro-
duttive più ingenti e colossali di quanto abbiano fatto, insieme, tutte le generazioni passate.
Soggiogamento delle forze naturali, macchine, applicazione della chimica all’industria e all’a-
gricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafo elettrico, dissodamento di interi continen-
ti, fiumi resi navigabili, intere popolazioni sorte dal suolo come per incanto – quale dei secoli
passati avrebbe mai previsto che tali forze produttive fossero latenti nel grembo del lavoro
sociale» (ivi, p. 63).
La critica marxiana della democrazia 27

Agli albori di questo processo vi è il progressivo superamento dell’orga-


nizzazione corporativa della produzione tipica dell’epoca feudale che cede
il passo all’affermarsi della moderna manifattura. La divisione del lavoro
tra le diverse corporazioni è sostituita da quella all’interno del singolo opi-
ficio, e poi incrementata esponenzialmente con l’affermarsi dell’industria
moderna e del macchinismo. Una volta avviato il processo si alimenta di
se stesso, procedendo a ritmo sempre più accelerato e spingendo verso la
progressiva concentrazione dei mezzi di produzione, vale a dire verso l’ac-
centramento della proprietà in poche mani. Le innovazioni tecnologiche
divengono gli strumenti privilegiati della lotta economica: esse consentono
guadagni di produttività che spingono fuori dal mercato tutti quegli im-
prenditori che non riescono a tenere il passo. Piccoli produttori e piccoli
commercianti soccombono di fronte alle spietate leggi della concorrenza,
precipitando verso l’indigenza.
Lo sviluppo delle forze produttive stimolato dalle nuove tecniche di
produzione e di trasporto, accelerato e moltiplicato nei suoi effetti dalle
grandi scoperte geografiche e dal colonialismo, finisce per entrare in con-
trasto con i rapporti sociali di produzione esistenti, e per rendere neces-
saria una loro trasformazione rivoluzionaria. Il mutamento strutturale
innescatosi con l’insieme di queste trasformazioni fa sì infatti che i rapporti
di proprietà feudali - piuttosto che promuovere la produzione - divengano
un ostacolo per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive. I rapporti giuri-
dici e politici tipici del mondo feudale divengono in questo modo altrettan-
te «catene» che, dice Marx, «dovevano essere spezzate e furono spezzate»
per lasciare spazio alla «libera concorrenza con la costituzione politica e
sociale ad essa adeguata», ovvero «con il dominio economico e politico del-
la classe borghese»9. I nuovi rapporti di produzione capitalistici – che esi-
gevano la mobilità della manodopera, e dunque la sua liberazione da tutti i
vincoli personali e di ceto tipici della società feudale – sostituiscono i rap-
porti feudali distruggendo «tutti quei variopinti vincoli che nella società
feudale legavano l’uomo ai suoi naturali superiori». Eliminando la com-
plessa distinzione gerarchica dei ceti il capitalismo cancella ogni legame tra
uomo e uomo «all’infuori del nudo interesse, dello spietato “pagamento
in contanti”». L’ordinamento gerarchico che aveva caratterizzato la società
feudale è spazzato via mettendo «al posto delle innumerevoli franchigie
ben documentate e faticosamente acquisite […] la sola libertà di commercio
priva di scrupoli»10. L’accentramento della proprietà finisce per modificare
così anche il panorama sociale, riducendo tendenzialmente le classi socia-
li a due: la borghesia, che possiede e controlla i mezzi di produzione, e il

9
 Ivi, p. 63.
10
 Ivi, p. 53.
28 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

proletariato, che non possiede altro che la propria forza lavoro, che dovrà
vendere in cambio di un salario per garantirsi la propria sopravvivenza11.
Ora, quello che qui più conta per noi è che questo movimento strut-
turale di progressiva semplificazione e unificazione del panorama socio-
economico mette in moto a livello sovrastrutturale un parallelo processo di
centralizzazione politica, che coincide con l’affermarsi e il diffondersi del
moderno stato democratico rappresentativo. E’ a questo fine che

Province indipendenti, a malapena collegate tra loro da vincoli federali,


con interessi, leggi, sistemi doganali e governi diversi sono state ridotte a
una nazione, con un governo, una sola legge, un interesse nazionale di classe,
un solo confine doganale12.

Il progetto politico di Sieyès, incentrato come abbiamo visto sul prin-


cipio dell’unità della nazione rivoluzionaria, ricompare qui presentando-
si però sotto una luce sensibilmente differente da quella precedentemente
richiamata. Secondo l’interpretazione materialistica di Marx ed Engels la
concezione unitaria della nazione fatta propria dal pensiero rivoluzionario
borghese – il manico di quella «gigantesca scopa della Rivoluzione france-
se» che doveva spazzare tutti i «resti dei tempi passati», «sbarazzando il
terreno sociale dagli ultimi ostacoli che si frapponevano alla costruzione su
di esso dello Stato moderno»13 – non discenderebbe tanto dalla volontà di
ricompattare il corpo sociale sostituendo alle capziose distinzioni tipiche
della società feudale il principio democratico dell’eguaglianza di tutti gli
uomini davanti alla legge, quanto dalla necessità della borghesia di dotarsi
di uno strumento unico per amministrare efficacemente i propri comuni
interessi. È a questo scopo che le classi possidenti si dotarono delle istitu-
zioni parlamentari, attraverso le quali esse poterono efficacemente rappre-
sentare i propri interessi di classe. Per dirlo con le parole de La guerra civile
in Francia:

A misura che il progresso dell’industria moderna sviluppava, allargava,


accentuava l’antagonismo di classe tra il capitale e il lavoro, il potere dello
Stato assumeva sempre più il carattere di potere nazionale del capitale sul
lavoro, di forza pubblica organizzata per l’asservimento sociale, di uno stru-
mento di dispotismo di classe14.

È questo, in estrema sintesi, il centro della critica marxiana al moderno


stato democratico rappresentativo. Affrontiamola ora più da vicino.

11
 Cfr. ivi, p. 71.
12
 Ivi, p. 61.
13
 K. Marx, La guerra civile in Francia, Edizioni Lotta Comunista, Milano 2007, p. 68.
14
 Ibidem.
La critica marxiana della democrazia 29

2.3 La democrazia borghese e l’emancipazione politica

La nascita dello stato moderno – un’entità politica unica e centralizza-


ta, capace di imporre la propria legge in maniera uniforme sull’intero ter-
ritorio di una nazione – è il principale risultato politico delle rivoluzioni
borghesi. Si tratta di un passaggio fondamentale per l’affermarsi del princi-
pio dell’eguaglianza, nel quale già Tocqueville aveva posto l’essenza dello
spirito democratico: la nascita del moderno stato borghese coincide infat-
ti per Marx con la costruzione di un ambito politico finalmente separato
dalla società civile e perciò capace di trascenderne tutte le gerarchie e le
limitazioni:

Lo Stato sopprime a suo modo le differenze di nascita, di condizione, di


educazione, di occupazione, dichiarando che le differenze di nascita, condizio-
ne, educazione e occupazione non sono differenze politiche, proclamando
ciascun membro del popolo partecipe in egual misura della sovranità popo-
lare15.

La politica moderna nasce come un’astrazione capace di togliere valo-


re politico a tutte quelle differenze di status sociale che nelle società pre-
moderne davano direttamente forma alle relazioni politiche. Generandosi
a partire da questa originaria astrazione dalla concretezza delle relazioni
sociali, lo stato democratico borghese può garantire così per la prima vol-
ta le condizioni di possibilità della realizzazione sul piano politico dell’egua-
glianza. Da questo punto di vista il suffragio universale, prescindendo dalla
concreta situazione sociale dei cittadini per sancirne la generale capacità
politica, rappresenta per Marx un’abolizione della rilevanza politica di
tutte le distinzioni sociali. Volgendo lo sguardo agli Stati Uniti – dove il
suffragio universale (maschile) è pressoché universalmente diffuso – Marx
giunge ad affermare che esso costituisce una sorta di abolizione politica della
proprietà. Generalizzando il suffragio,

Lo Stato in quanto Stato annulla […] la proprietà privata, l’uomo dichiara


cioè politicamente soppressa la proprietà privata non appena esso abolisce il
censo per l’eleggibilità attiva e passiva, come è avvenuto in molti Stati nor-
damericani. Hamilton interpreta assai giustamente questo fatto dal punto
di vista politico: «La grande massa ha trionfato sopra i proprietari e la ricchezza
monetaria». Non è forse idealmente soppressa la proprietà privata, dacché
il nullatenente diviene legislatore del proprietario? Il censo è l’ultima forma
politica di riconoscimento della proprietà privata16.

 K. Marx, Sulla questione ebraica, in Id., La questione ebraica e altri scritti giovanili, cit., p. 57.
15

 Ibidem.
16
30 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

Marx riconosce che l’emancipazione politica realizzata dallo stato de-


mocratico borghese costituisce dunque un «grande passo avanti» per il
genere umano, «l’ultima forma dell’emancipazione umana entro l’ordine
mondiale attuale»17. Si tratta tuttavia di un’emancipazione incompleta.
Essa si realizza, infatti, solo sul piano dell’astrazione politica, lasciando che
tutte le situazioni di privilegio di cui si è pur deciso di abolire la valenza
politica continuino a sussistere immutate nella società. Per dirla in altri ter-
mini: senza incidere sul fatto che i rapporti materiali sono rimasti immuta-
ti, che la struttura della società non è cambiata magicamente assieme alla
forma politica. Se è vero infatti che la moderna democrazia borghese tende
a non conferire più alcun valore politico alle condizioni sociali di origine,

Non di meno, lo Stato lascia che proprietà privata, l’educazione e l’occu-


pazione operino nel loro modo, cioè come proprietà privata, come educazio-
ne e come occupazione. Ben lungi dal sopprimere queste differenze di fatto,
lo Stato esiste piuttosto soltanto in quanto le presuppone18.

2.4 Il formalismo della democrazia borghese

Coerentemente con l’impostazione materialistica che ne caratterizza


il metodo, il filosofo tedesco dà una spiegazione sociale del formalismo
della democrazia borghese. Se la democrazia borghese è solo una paro-
dia della democrazia che relega il principio dell’eguaglianza nell’astrazione
della politica; se in ciò si può scorgere il tradimento dell’ideale universali-
sta democratico, quell’ideale che continua però a risuonare ipocritamente
nell’invocazione dei diritti umani; ebbene, tutto ciò può avvenire a parere
di Marx poiché l’uomo cui questi diritti si riferiscono non è un uomo gene-
rico, il comune rappresentante della specie, ma il borghese, ovvero il rap-
presentante di una classe sociale particolare, i cui interessi sono distinti da
quelli della generalità della specie umana:

Su che cosa si fonda una rivoluzione parziale, una rivoluzione soltanto


politica? Sul fatto che una parte della società civile si emancipa e perviene al
dominio generale, sul fatto che una determinata classe intraprende l’emanci-
pazione generale della società partendo dalla propria situazione particolare.
Questa classe libera l’intera società, ma soltanto a condizione che l’intera so-
cietà si trovi nella situazione di questa classe, dunque, ad esempio, possieda
denaro e cultura, ovvero possa a suo piacere acquisirli19.

17
 Ivi, p. 60.
18
 Ivi, p. 57.
19
 K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in Id., La questione ebraica e
altri scritti giovanili, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 105.
La critica marxiana della democrazia 31

Ora, il limite delle rivoluzioni borghesi sta secondo Marx proprio nel
fatto che la borghesia non è una classe universale: la borghesia è solo una
parte della società, e precisamente quella parte che possiede e controlla i
mezzi di produzione. Gli interessi della borghesia non si confondono con
quelli di quella grande parte della popolazione – la cui esistenza è indi-
spensabile presupposto dell’esistenza della stessa classe borghese – che
non posseggono altro che la propria forza lavoro.
Ma c’è di più. Lo Stato democratico borghese non si limita a presuppor-
re e, per così dire, tollerare l’esistenza di tutte quelle differenze sociali cui
non riconosce formalmente alcun valore politico. Esso si propone esplicita-
mente come garante della loro conservazione. È questo per Marx il signifi-
cato dell›assioma lockeiano per il quale il fine dell›istituzione della politica
moderna è la tutela della proprietà20, ed è questo il significato sociale della
difesa della libertà che Constant, Tocqueville ed in generale il liberalismo
avevano immaginato come il compito principale dello Stato. Difendendo la
(libertà di) proprietà come fondamentale diritto umano, lo stato pone come
fine primario della propria azione la difesa del diritto all’egoismo: si spiega
così come l’azione di polizia attraverso la quale lo stato assicura la sicurezza
degli egoismi individuali possa divenire «il più alto concetto sociale della
società civile»21.
Ciò che Marx critica, criticando il formalismo della democrazia bor-
ghese, non è solo il fatto di non aver pienamente realizzato l’uguaglian-
za umana attraverso la sua formale assunzione all’interno dell’ordinamento
politico. Ciò che è peggio, ai suoi occhi, è che questa assunzione rischia
di funzionare come un grazioso paravento dietro al quale nascondere, de-
corandolo con i caratteri dell’egualitarismo, l’eternarsi nella vita sociale
dell’ineguaglianza e della gerarchia. Le gerarchie sociali esistenti vengono
pensate in questo contesto come la base naturale dell’esistenza umana, una
base che non solo non viene sostanzialmente intaccata dalla rivoluzione
politica, ma che può essere presentata come il luogo dell’espressione della
vera natura dell’uomo:

La rivoluzione politica dissolve la vita civile nelle sue parti costitutive, sen-
za rivoluzionare queste parti stesse né sottoporle a critica. Essa si comporta
verso la società civile, verso il mondo dei bisogni, del lavoro, degli interessi
privati, del diritto privato, come verso il fondamento della propria esistenza,
come verso un presupposto non altrimenti fondato, perciò, come verso la sua
base naturale. Infine l’uomo, in quanto è membro della società civile, vale

20
 Cfr. le argomentazioni del Secondo Trattato sul governo che si apre con questa perentoria
affermazione: «Intendo, dunque, per potere politico un diritto di fare leggi che contemplano
la pena di morte, e di conseguenza tutte le pene minori per la regolazione e la preservazione
della proprietà, di impiegare la forza della comunità nell’esecuzione di tali leggi, e nella difesa
dello stato dagli attacchi di altri stati» (J. Locke, Due Trattati sul governo, cit., p. 189).
21
 K. Marx, Sulla questione ebraica, cit., p. 72.
32 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

come uomo vero e proprio, come l’homme distinto dal citoyen, poiché egli è
l’uomo nella sua immediata esistenza sensibile individuale, mentre l’uomo
politico è soltanto l’uomo astratto, artificiale, l’uomo come persona allego-
rica, morale22.

Nella distinzione che Marx qui propone tra uomo e cittadino risuona in
modo evidente il titolo di quello che a buon diritto si può ritenere il testo
fondatore della democrazia europea, quella Déclaration des droits de l’homme
et du citoyen che aveva elevato la tutela dei diritti umani a fine principale di
ogni comunità politica che aspiri alla legittimità. Ora, per Marx difendere i
diritti dell’uomo senza sottoporne a critica i contenuti sociali, significa preci-
samente difendere i diritti di quel bourgeois che, sotto le spoglie dell’homme,
si nasconde e che da ogni acritica difesa dei diritti umani ottiene lo stra-
ordinario vantaggio di vedere naturalizzata ed eternata la propria logica
proprietaria e gerarchica. Difendere i diritti dell’uomo senza sottoporre a
critica il processo della loro trasposizione dal piano dell’astrazione politica
a quello della vita sociale significa non comprendere che questi diritti, nelle
condizioni di una società borghese, «non sono altro che i diritti del membro
della società civile, cioè dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e
dalla comunità»23:

Nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa dunque l’uomo egoi-


stico, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè individuo ripie-
gato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato
dalla comunità. Ben lungi dall’essere l’uomo inteso in essi come specie, la
stessa vita della specie, la società, appare piuttosto come una cornice esterna
agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria. L’unico
legame che li tiene insieme è la necessità naturale, il bisogno e l’interesse
privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica24.

2.5 Verso l’emancipazione umana

Agli occhi di Marx, insomma, i diritti umani non sono altro che un sino-
nimo di ciò che Constant aveva chiamato le libertà dei moderni. L’emergere
di questi diritti fa tutt’uno nella comprensione marxiana con l’istituzione
dello Stato moderno, che in un solo movimento separa Stato e società, rele-
gando l’eguaglianza nello spazio astratto (e tendenzialmente individuale)
della politica e naturalizzando i rapporti gerarchici esistenti all’interno della
società civile:

22
 Ivi, p. 77-78.
23
 Ivi, p. 70.
24
 Ivi, p. 73.
La critica marxiana della democrazia 33

La costituzione dello Stato politico e la dissoluzione della società civile negli


individui indipendenti – il cui rapporto è il diritto, così come il rapporto degli
uomini degli stati e delle arti era il privilegio – si adempie in un medesimo
atto. L’uomo in quanto membro della società civile, l’uomo non politico, ap-
pare perciò necessariamente come l’uomo naturale. I droits de l’homme appa-
iono come droits naturels, dacché l’attività autocosciente si concentra nell’atto
politico. L’uomo egoistico è il risultato passivo e soltanto trovato della società
dissolta, oggetto della certezza immediata, dunque oggetto naturale25.

Quello che di più preoccupa Marx in questo movimento di naturalizza-


zione delle libertà private è il fatto che, irrigidendo ed eternando la scissio-
ne tra il piano politico astratto della cittadinanza – dominato dal principio
dell’eguaglianza atomica dei suoi membri– e il piano supposto naturale e
concreto della società, la diseguaglianza sociale trovi un comodo schermo
dietro al quale continuare a sussistere immutata.
In questo costitutivo dualismo che oppone i valori politici – universali,
egualitari e interclassisti – della democrazia borghese e i suoi valori socia-
li – particolari, privatistici, classisti – Marx legge una conseguenza ed un
residuo del dualismo tipico del pensiero religioso cristiano e della conse-
guente alienazione. Secondo Marx la democrazia politica realizza gli ideali
cristiani trasformando in «realtà sensibile, presenza, massima mondana»26
il precetto evangelico dell’eguaglianza. In questo senso «lo Stato cristiano
perfetto» non è dunque uno stato confessionale «che riconosce il cristiane-
simo come proprio fondamento», ma paradossalmente proprio «lo Stato
ateo, lo Stato democratico», ovvero «lo Stato che confina la religione tra gli
altri elementi della società civile»27.
Nell’arsenale ideologico dello stato borghese l’astrattezza del piano
dell’eguaglianza politica svolge nell’intuizione marxiana una funzione si-
mile a quella svolta nel pensiero religioso cristiano dall’idea di una vita ul-
traterrena. Nella misura in cui pensa l’uguaglianza realizzata nei cieli della
politica, l’ideologia democratica rappresenta una sorta di forma secolariz-
zata dell’alienazione religiosa che contribuisce ad occultare la condizione
terrena di miseria e oppressione dell’uomo concreto, allontanando la piena
realizzazione della sua umanità:

I membri dello Stato politico sono religiosi attraverso il dualismo tra la


vita individuale e la vita della specie, tra la vita della società civile e la vita
politica, religiosi in quanto l’uomo si comporta verso la vita statale posta al
di là della sua vera individualità come verso la sua vita vera, religiosi nella

25
 Ivi, p. 77.
26
 Ivi, p. 66.
27
 Ivi, pp. 61-62.
34 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

misura in cui la religione è qui lo spirito della società civile, l’espressione


della separazione e dell’allontanamento dell’uomo dall’uomo28.

È per questo che, per Marx, se pure la democrazia borghese ha il merito


di aver emancipato politicamente il genere umano, l’emancipazione politica
realizzata dalla democrazia borghese non è solo un’imperfetta approssi-
mazione ma un vero e proprio ostacolo alla piena emancipazione umana.
Una piena emancipazione umana è infatti a suo avviso possibile solo nella
misura in cui la scissione che oppone il ruolo politico e sociale degli indivi-
dui venga risolta e superata.
Ma questa scissione, come abbiamo visto leggendo Constant e
Tocqueville, è proprio ciò che vi è di più essenziale nella libertà dei moder-
ni. La conservazione della libertà individuale è anzi, per Constant come per
la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, il fine stesso di ogni comunità politica.
Marx non accetta questa lettura del significato dell’agire politico umano,
una lettura che considera riduttiva. Per Marx – così come era già stato per
Aristotele – l’uomo è un animale naturalmente politico. La protezione delle
libertà individuali, dei privati egoismi, condanna l’uomo alla solitudine e
all’inazione riducendo lo Stato ad uno strumento al servizio della riprodu-
zione della logica individualista ed egoista che domina le relazioni sociali.
Con ciò viene negata la natura autenticamente umana che per Marx è una
natura comunitaria o sociale. È dunque proprio per questa sua essenziale
incomprensione della natura umana che, per Marx, una politica dei diritti
umani che si riduca alla protezione dell’individuo dalla Invasion of others
non è una politica all’altezza della dignità umana:

L’emancipazione politica è la riduzione dell’uomo, da un lato, a membro


della società civile, all’individuo egoista indipendente, dall’altro, al cittadi-
no, alla persona morale. Solo quando l’uomo reale, individuale riassume
in sé il cittadino astratto, e come uomo individuale nella sua vita empirica,
nel suo lavoro individuale, nei suoi rapporti individuali è divenuto membro
della specie umana, soltanto quando l’uomo ha riconosciuto e organizzato
le sue «forces propres» come forze sociali, e perciò non separa più da sé la
forza sociale nella figura della forza politica, soltanto allora l’emancipazione
umana è compiuta29.

La critica marxiana del formalismo della democrazia borghese è dun-


que una rivendicazione della essenziale politicità dell’essere umano,
una critica della pretesa – tipica del pensiero liberale – di ridurre la po-
litica a puro mezzo finalizzato alla protezione degli egoismi individuali.
Coerentemente con questa assunzione, la possibilità di un’emancipazione

28
 Ivi, p. 66.
29
 Ivi, p. 78.
La critica marxiana della democrazia 35

propriamente umana risiede per Marx proprio in coloro che non hanno al-
cun interesse proprio da difendere:

Dov’è dunque la possibilità positiva dell’emancipazione tedesca? Rispo-


sta: nella formazione di una classe con catene radicali, di una classe della
società civile la quale non sia una classe della società civile, di uno stato che
sia la dissoluzione di tutti gli stati, di una sfera che per i suoi dolori universa-
li possieda un carattere universale e non rivendichi alcun diritto particolare,
poiché contro di essa viene esercitata non un’ingiustizia particolare, bensì
l’ingiustizia senz’altro, la quale può fare appello non più ad un titolo storico
ma al titolo umano […] la quale, in una parola, è la perdita completa dell’uo-
mo, e può dunque guadagnare nuovamente se stessa attraverso il completo
riacquisto dell’uomo30.

Poiché non ha alcun privilegio da difendere, la classe proletaria non lot-


ta in difesa di un interesse particolare e proprio per questo i suoi sforzi
preparano l’emancipazione dell’insieme dell’umanità. Alla fine di questo pro-
cesso Marx immagina un uomo consapevolmente pacificato con la propria
natura politica: un uomo conscio del fatto che la sua natura non si può re-
alizzare se non vivendo in comune con altri uomini, e che dunque non vede
nel proprio simile un limite alla sua individuale libertà bensì un necessa-
rio completamento della sua essenziale politicità . Un uomo che dunque è
divenuto capace di fare della socialità il fine delle proprie azioni e non lo
strumento dei propri privilegi.
E’ evidente che la prospettiva dell’emancipazione umana immaginata
da Marx, puntando ad abolire ogni contrapposizione tra sfera politica e
sociale, spinga a superare le istituzioni della politica rappresentativa bor-
ghese. Ma come dobbiamo figurarci concretamente questo superamento?
Il luogo più classico che ci possa venire in soccorso è La guerra civile in
Francia, testo elaborato da Marx per analizzare la vicenda gloriosa e tragica
della Comune di Parigi31. Per Marx la Comune, che si componeva di “consi-
glieri comunali eletti a suffragio universale nei diversi arrondissements di
Parigi, responsabili e revocabili in qualunque momento”32 è la “forma poli-
tica finalmente scoperta, nella quale si può compiere l’emancipazione eco-
nomica del lavoro”33. Nelle istituzioni della Comune - fondate sul suffragio
universale, il mandato imperativo e la revocabilità delle cariche, e tutelate

30
 K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, cit., p. 108.
31 L’esperienza della Comune è talmente decisiva che Marx ed Engels ne fanno derivare l’u-
nica correzione teorica che a loro parere è necessario apportare all’impianto del Manifesto. La
Comune ha provato infatti in maniera definitiva che “la classe operaia non può impossessarsi
puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi
propri fini”. Proprio su questo passaggio si appoggerà Lenin per sviluppare in Stato e rivolu-
zione la propria teoria della dittatura del proletariato. Cfr. E. Balibar, Cinque studi di materiali-
smo storico, De Donato, Bari 1976.
32
 K. Marx, La guerra civile in Francia, cit., p. 68.
33
 Ivi, p. 74.
dal popolo in armi - Marx vede il modello di una forma politica nuova,
alternativa alla democrazia rappresentativa e borghese, una forma politica
“nella quale, per la prima volta, il proletariato tenne per due mesi il pote-
re politico”34. Nella democrazia proletaria della Comune Marx scorge l’em-
brione di una nuova forma istituzionale nella quale il suffragio universale,
invece di servire a “decidere una volta ogni tre o sei anni quale membro
della classe dominante dovesse mal rappresentare e opprimere il popolo
nel parlamento”35 era posto al servizio del popolo stesso per aiutarlo a in-
dividuare i propri migliori servitori. Semplificando una questione in realtà
molto complessa, si può dire che la principale innovazione istituzionale in-
trodotta dalla Comune fu il fatto che, in totale antitesi a quanto consigliato
da Constant e Tocqueville, questi rappresentanti del popolo ricevevano un
mandato imperativo: erano cioè obbligati ad attenersi alle istruzioni formali
ricevute dai propri elettori, dai quali erano costantemente revocabili nel
caso lo avessero tradito.

34 Cfr. K. Marx, F. Engels, Prefazione del 1872 al Manifesto del Partito Comunista.
35 K. Marx, La guerra civile in Francia, cit., p. 72.
Capitolo III

Bonapartismo, cesarismo, democrazia


plebiscitaria
Se c’è un paese dove la democrazia è stata realizzata,
questo paese è l’Italia fascista.
Benito Mussolini (Milano, 1 novembre 1936).

Oltre alla critica filosofica che abbiamo tentato di avvicinare nel pre-
cedente capitolo, esiste un’ulteriore dimensione della riflessione di Marx
sulla democrazia, che potremmo definire di critica storica. Il testo chiave
è in questo caso Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, nel quale Marx considera
la democrazia non come categoria politica ma come istituzione concreta.
L’analisi critica non si costruisce qui attaccando le contraddizioni concet-
tuali della democrazia borghese, ma indagando da vicino le trasformazioni
storiche che le sue istituzioni subiscono. Il principale esito di quest’analisi è
la scoperta di una forma politica nuova e particolarmente carica di destino:
il bonapartismo1. Proviamo ad analizzarla partendo dalla comprensione di
Marx, per poi seguire con Weber alcune sue metamorfosi novecentesche.

3.1 Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte

Il 18 brumaio di Luigi Napoleone è forse la più celebre tra le cosiddet-


te opere storiche di Marx. Il testo venne composto nel 1852, quando la
Rivoluzione del 1848 era già stata sconfitta, la Seconda Repubblica francese
rovesciata e Luigi Bonaparte aveva provveduto a legittimare il suo colpo
di stato con il plebiscito del 20 dicembre 1851. Ciò che Marx si propone di
spiegare attraverso la sua analisi è come sia stato possibile che la Francia –
una nazione complessivamente di 36 milioni di abitanti e non certo tra le
meno progredite dell’epoca – dopo aver con fatica riguadagnato una forma
istituzionale democratico-repubblicana abbia scelto di consegnarsi volonta-
riamente al potere personale di Luigi Bonaparte.

1
 Per un’introduzione alla storia del concetto, cfr. D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo, cit.
38 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

Il contesto storico nel quale il bonapartismo viene ad affermarsi è quello


del 1848 europeo. L’ordine politico e sociale della Restaurazione sta scric-
chiolando in tutta Europa: l’avanzare della modernizzazione porta con sé
una sempre maggiore complessità delle società, una complessità a cui i se-
veri limiti censitari al suffragio non danno rappresentazione politica alcu-
na. Movimenti liberali o democratici che richiedono l’estensione dei diritti
di partecipazione politica a frange più ampie della popolazione sorgono un
po’ ovunque, e un po’ ovunque si mettono alla guida dei moti rivoluzio-
nari che, a partire da quelli di Palermo del 12 gennaio 1848, si diffondono
in un’Europa provata da un biennio di pesante crisi economica. Mentre
la profezia di Tocqueville sull’inevitabilità dell’affermazione della demo-
crazia sembra realizzarsi, un nuovo soggetto politico appare: sono i movi-
menti socialisti, che tentano in questo contesto di saldarsi tanto con i moti
di rivolta di ispirazione liberal-democratica che con le ribellioni spontanee,
unendo agitazioni contadine e rivendicazioni salariali proletarie in una mi-
scela che dovette apparire sin da subito esplosiva. Il fenomeno bonaparti-
sta va inteso come una risposta a questo tumultuoso incedere degli eventi,
una risposta capace di venire incontro al bisogno di ordine e sicurezza del-
le classi dominanti.

3.1.1 Le libertà borghesi e i pericoli dell’autogoverno

L’analisi di Marx segue la complessa cronologia della vicenda rivolu-


zionaria, distinguendone le successive fasi e illustrando con archetipica
chiarezza un percorso concreto di crisi delle istituzioni democratiche rap-
presentative che conduce alla loro consunzione e sostituzione con un’ine-
dita forma di potere autocratico. Superata una prima ed effimera fase di
Rivoluzione sociale la fase centrale della vicenda si apre con l’insediamen-
to dell’Assemblea costituente (4 maggio 1848). È in questo passaggio che
si vengono a consolidare quelle libertà borghesi che verranno infine negate
dall’affermarsi del potere bonapartista:

[…] la libertà personale, la libertà di stampa, di parola, di associazione, di


riunione, di insegnamento e di religione ecc., indossarono una veste costitu-
zionale che le rendeva invulnerabili. Ognuna di queste libertà venne procla-
mata come diritto assoluto del cittadino francese2.

La critica teorica di Marx al carattere formale della democrazia borghe-


se – che abbiamo già incontrato analizzando i suoi scritti giovanili – viene
qui ripresa agganciandola alla concretezza delle situazione francese, per
mostrare come ciascuna di queste libertà avesse come proprio orizzonte

2
 K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 36.
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 39

invalicabile l’interesse della classe borghese dominante3. Quello che preme


a Marx in questo testo, tuttavia, non è tanto ripetere questa critica, ma mo-
strare come la borghesia, accettando la deriva plebiscitaria bonapartista, si
sia dimostrata disposta a sacrificare l’insieme di queste libertà sull’altare
della propria sicurezza.
L’affermarsi delle libertà borghesi, come abbiamo visto, coincide con l’e-
mancipazione politica dell’uomo, un’emancipazione che per Marx è molto
distante dall’obiettivo della piena emancipazione umana. Tuttavia, il pro-
cesso dell’emancipazione politica contiene in sé il rischio di trasformarsi in
testa di ponte a partire dalla quale avanzare richieste via via più radicali,
che verso l’emancipazione umana conducano. Gli ottimi risultati elettorali
di socialisti e socialdemocratici nelle elezioni suppletive del 10 marzo 1850
(con le quali si dovevano occupare i seggi lasciati liberi dalle epurazioni del
giugno precedente) furono lette dalla borghesia francese come una dimo-
strazione della concretezza di questo rischio:

La borghesia vedeva giustamente che tutte le armi da lei forgiate contro


il feudalesimo volgevano la punta contro di lei, che tutti i mezzi di istruzione
da lei escogitati insorgevano contro la sua propria civiltà, che tutti gli dèi da
lei creati l’abbandonavano. Essa capiva che tutte le cosiddette libertà e isti-
tuzioni progressive borghesi attaccavano e minacciavano il suo dominio di
classe tanto nella sua base sociale quanto nella sua sommità politica; erano
cioè diventate «socialiste»4.

La paura della borghesia nei confronti delle irrequiete istituzioni parla-


mentari che lei stessa aveva creato spinge così il parlamento a ritornare sui
propri passi. Alla fine di maggio viene approvata una riforma elettorale
che abolisce il suffragio universale reintrodotto durante la prima e più ra-
dicale fase della rivoluzione, riducendo da nove milioni e seicentomila a
sei milioni e ottocentomila gli aventi diritto di voto. Ad esso fa seguito una
legge che limita fortemente la libertà di stampa e che completa il quadro di
quello che Marx definisce un colpo di Stato borghese.

Tacciando dunque di eresia «socialista» ciò che prima aveva esaltato


come «liberale», la borghesia confessa che il suo proprio interesse le impone
di sottrarsi al pericolo dell’autogoverno; che per mantenere la calma nel pa-
ese deve anzitutto essere ridotto alla calma il suo Parlamento borghese; che
per mantenere intatto il suo potere sociale deve essere spezzato il suo potere
politico; che i singoli borghesi possono continuare a sfruttare le altre classi
e a godere tranquillamente della proprietà, della famiglia, della religione e
dell’ordine soltanto a condizione che la loro classe venga condannata a esse-
re uno zero politico al pari di tutte le altre classi; che per salvare la propria

3
 Ivi, pp. 36-37.
4
 Ivi, p. 77.
40 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

borsa essa deve perdere la propria corona, e la spada che la deve proteggere
deve in pari tempi pendere come una spada di Damocle sulla propria testa5.

È nel contesto di questa crescente diffidenza della borghesia per i pe-


ricoli dell’autogoverno che il bonapartismo giunge a maturazione. Testa di
ponte di questa progressiva deriva – che coincide con la terza fase indi-
viduata da Marx, quella della breve vita della Repubblica parlamentare –
fu la stessa Costituzione borghese che prevedeva, a fianco dell’Assemblea
contenente i 750 rappresentanti del popolo, un Presidente anch’esso eletto
a suffragio universale. Il Presidente assommava su di sé un potere enorme:
poteva nominare e revocare ministri in tutta indipendenza, gestire a suo
piacimento la politica estera, poteva graziare i criminali e sospendere la
guardia nazionale. Gestiva inoltre direttamente tutti i pubblici impieghi, il
che equivale a dire che aveva alle sue dipendenze dirette mezzo milione di
persone e che indirettamente un milione e mezzo di francesi dipendevano
da lui. Questa enorme macchina burocratica – creata già ai tempi dell’assolu-
tismo monarchico e successivamente perfezionata dalla Rivoluzione e dal
primo Napoleone – era divenuta nel tempo un’entità sempre più potente,
ma anche un’entità che correva il rischio di essere sempre più distante dalla
società. Nell’interpretazione liberale tradizionale, la rappresentanza par-
lamentare doveva servire esattamente a mantenere un forte legame dello
stato con la società, scongiurando il rischio che il potere statale potesse es-
sere percepito come autoreferenziale, ovvero come fondato sulla sola forza
della macchina.
Ora, la Costituzione dell’effimera seconda repubblica metteva la mac-
china dello stato nelle mani di un Presidente che non traeva la legittimità
della propria carica dall’investitura parlamentare ma la riceveva diretta-
mente dal suffragio popolare:

Mentre i voti della Francia si disperdono sui 750 membri dell’Assemblea


nazionale, qui invece si concentrano su un solo individuo. Mentre ogni sin-
golo rappresentante del popolo rappresenta soltanto questo o quel partito,
questa o quella città, questa o quella testa di ponte, o anche la necessità di
eleggere un settecentocinquantesimo qualunque, senza considerare troppo
per il sottile né la cosa, né l’uomo, egli è l’eletto della nazione e l’atto del-
la sua elezione è la briscola che il popolo sovrano gioca ogni quattro anni.
L’Assemblea nazionale eletta è unita alla nazione da un rapporto metafisi-
co, il presidente eletto è unito alla nazione da un rapporto personale. È ben
vero che l’Assemblea nazionale esprime nei suoi rappresentanti i molteplici
aspetti dello spirito nazionale; ma nel presidente questo spirito si incarna.
Egli possiede rispetto all’Assemblea una specie di diritto divino; egli è per
grazia del popolo6.

5
 Ivi, pp. 77-78.
6
 Ivi, p. 39.
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 41

Quando il 10 dicembre 1848 la Francia giocò la sua briscola eleggen-


do Luigi Bonaparte, lo scopo primario del neo-eletto Presidente diventò
ben presto quello di completare l’autonomizzazione dall’interferenza del
legislativo di quella macchina statale di cui la Costituzione lo aveva messo
alla guida. Nella logica politica bonapartista, d’altronde, la legittimità del
potere della macchina statale non ha bisogno di fondarsi sulla rappresen-
tazione parlamentare che è anzi percepita come un intralcio ad una ge-
stione efficiente ed efficace dello stesso. Lo stato potrà dunque liberarsi
dell’intralcio della politica rappresentativa, e lo farà subordinando rigida-
mente il potere legislativo a quello esecutivo. Il provvidenziale strumento
del suffragio diretto del Presidente basterà a garantirne la legittimità, come
chiariscono queste parole dello stesso Bonaparte, con le quali egli critica la
riforma elettorale del 31 maggio 1850:

Mi sono chiesto se, in presenza del delirio delle passioni, della confusio-
ne delle dottrine, della divisione dei partiti, mentre tutto sembra allearsi per
sottrarre ogni prestigio alla morale, alla giustizia, all’autorità, era proprio
necessario sconvolgere o intaccare il solo principio che la Provvidenza abbia
mantenuto in piedi per tenerci uniti. Una volta che il suffragio universale
ha ricostruito l’edificio sociale per il fatto stesso di aver sostituito un dirit-
to ad un fatto rivoluzionario, è forse saggio volerne restringere ancora la
base? Infine, mi sono chiesto se ciò non avrebbe significato compromettere
in anticipo i nuovi poteri chiamati a presiedere i destini del paese, fornendo
il pretesto di mettere in discussione la loro origine e disconoscere la loro
legittimità7.

3.1.2 Le basi sociali del bonapartismo

Il pieno superamento della forma politica repubblicana avviene in


seguito alle discussioni in merito alla possibilità di una revisione della
Costituzione8. La base sociale borghese, che aveva come propria aspirazio-
ne primaria la tranquillità, viveva la situazione con preoccupazione sempre
crescente. Delusa dalle divisioni e dall’inconcludenza del Parlamento, spa-
ventata dallo spettro di nuovi successi socialisti, l’aristocrazia finanziaria
fu la prima a schierarsi apertamente con Bonaparte, riconoscendolo come
provvidenziale sentinella dell’ordine9. Il resto della borghesia – che inter-

7
 Napoléon III, Oeuvres, Plon-Amyot, Paris 1861, citato in D. Losurdo, Democrazia o bonaparti-
smo, cit., p. 55.
8
 Per la revisione premevano soprattutto i bonapartisti, i quali volevano eliminare l’articolo 45
che impediva la rielezione del Presidente e si mostravano pronti a barattarla con una parziale
restaurazione monarchica. L’opposizione intransigente dei repubblicani puri e della monta-
gna, e il conflitto tra le varie anime del partito dell’ordine, portarono alla sconfitta dell’ipotesi
di revisione, una sconfitta che lasciava dietro di sé un Parlamento sempre più frammentato,
rissoso e impotente.
9
 K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, cit., p. 121.
42 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

pretava la crisi commerciale10 della Francia in una chiave tutta politica, co-
me la conseguenza dell’instabilità e dell’incertezza causate dal conflitto tra
partito dell’ordine e bonapartisti – seguì a ruota arrivando ad augurarsi:
«Meglio una fine con spavento, che uno spavento senza fine!»11.
Bonaparte avrebbe dimostrato di lì a poco di comprendere quel grido
meglio di chiunque altro. Di comprendere come la borghesia era disposta
anche consegnare tutto il potere a Bonaparte, pur che venisse ripristinata la
tranquillità necessaria all’esercizio di quegli interessi privati che, come già
Constant aveva intuito, sono la chiave della felicità dei moderni. Motore di
questa rinuncia della borghesia al proprio dominio politico non è tanto la
rappresentanza parlamentare borghese, ma la «massa extraparlamentare
della borghesia», il suo ventre molle e disarticolato che

[…] con le sue servilità verso il presidente, coi suoi oltraggi al Parlamento,
col modo brutale nel quale trattava la sua stessa stampa, provocava Bona-
parte a reprimere e a sterminare i suoi oratori e i suoi scrittori, i suoi uomini
politici e i suoi letterati, la sua tribuna parlamentare e la sua stampa, al fine
di poter attendere ai propri affari privati sotto la protezione di un governo
forte e dotato di poteri illimitati. Essa dichiarava nettamente che non vedeva
l’ora di sbarazzarsi del proprio dominio politico per sbarazzarsi delle fatiche
e dei pericoli del potere12.

Ma la base sociale del potere di Bonaparte è ben più complessa. Al di là


del già ricordato funzionariato statale che da Bonaparte dipendeva diret-
tamente, il suo vero centro propulsivo è la piccola proprietà contadina che,
a parere di Marx, si contraddistingue per il fatto di non essere una vera e
propria classe sociale. Pur essendo accomunati da un modo di vita, da una
cultura e da interessi economici comuni, i contadini piccoli proprietari non
stabiliscono infatti rapporti reciproci che consentano loro di trasformarsi in
una classe autocosciente e politicamente attiva. Il loro modo di vita, piut-
tosto, tende ad isolarli gli uni dagli altri, rinchiudendo ciascuno nella cura
individuale (o al limite familiare) dei confini ristretti del proprio appezza-
mento di terra e rendendo impossibile un’azione politica comune.

Nella misura in cui milioni di famiglie vivono in condizioni economiche


tali che distinguono il loro modo di vita, i loro interessi e la loro cultura da
quelli di altre classi e li contrappongono ad esse in modo ostile, esse formano
una classe. Ma nella misura in cui tra i contadini piccoli proprietari esistono
soltanto legami locali e la identità dei loro interessi non crea tra di loro una
comunità, una unione politica su scala nazionale e una organizzazione po-
litica, essi non costituiscono una classe. Sono quindi incapaci di far valere i

10
 Cfr. anche K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Edizioni Lotta Comunista,
Milano 2010.
11
 K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, cit., pp. 128-129.
12
 Ivi, p. 124.
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 43

loro interessi nel loro proprio nome, sia attraverso un Parlamento, sia attra-
verso una Convenzione. Non possono rappresentare se stessi; debbono farsi
rappresentare. Il loro rappresentante deve in pari tempo apparire loro come
il loro padrone, come un’autorità che si impone loro, come un potere gover-
nativo illimitato, che li difende dalle altre classi e distribuisce loro dall’alto
il sole e la pioggia. L’influenza politica del contadino piccolo proprietario
trova quindi la sua ultima espressione nel fatto che il potere esecutivo subor-
dina la società a se stesso13.

Oltre che sulla piccola proprietà contadina, il bonapartismo ha parti-


colare influenza su di un’altra componente sociale tipicamente anomica e
disorganizzata come la massa sottoproletaria. I mezzi attraverso i quali la
attrae a sé sono i più bassi e volgari. Se ai vertici dell’esercito con i quali in-
tratteneva stretti rapporti erano riservate la distribuzione di sigari e cham-
pagne, è noto come per farsi ben volere dalle truppe Bonaparte distribuisse
volentieri acquavite e salsicce. Quello di blandire il sottoproletariato, per
organizzarlo e sussumerlo ai propri scopi non era stato per Bonaparte
un vezzo narcisistico, ma il risultato di uno sforzo cosciente e meditato.
Proprio a questo scopo egli aveva istituito la Società del 10 dicembre, una so-
cietà segreta il cui scopo era quello di organizzare una sorta di esercito pri-
vato, reclutandolo tra quella «massa confusa, decomposta, fluttuante, che i
francesi chiamano la bohème». Marx commenta sarcastico:

Per Bonaparte la Società del 10 dicembre fu quel che erano stati per gli
operai socialisti i laboratori nazionali, per i repubblicani borghesi le Gardes
mobiles: la sua personale milizia di partito. Durante i suoi viaggi le sezioni
della società, spedite a destinazione per ferrovia, avevano il compito di im-
provvisargli un pubblico, di simulare l’entusiasmo pubblico, di urlare Vive
l’Empereur!, di insultare e di picchiare i repubblicani, naturalmente sotto la
protezione della polizia. Al suo ritorno a Parigi esse avevano il compito di
formare l’avanguardia, di prevenire o di disperdere le contromanifestazioni.
La Società del 10 dicembre gli apparteneva, era opera sua, era il suo più
genuino pensiero14.

Le elargizioni e le promesse strumentali fanno parte dell’arsenale quoti-


diano del populismo bonapartista. Esse non si indirizzano al solo sottopro-
letariato, ma cercano di venire incontro con offerte specifiche alle esigenze
delle diverse componenti della società, spaziando con intenzione aperta-
mente interclassista dalla distribuzione di salsicce al progetto di istituire
una banca di prestiti d’onore per gli operai, alla promessa di aumenti sala-
riali per i dipendenti statali. Il potere bonapartista si mostra così un potere
straordinariamente moderno, poiché capace di mettere volgere a proprio

 Ivi, pp. 145-146.


13

 Ivi, p. 89.
14
44 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

vantaggio proprio quella situazione di isolamento e atomizzazione che gli


interpreti liberali avevano letto come una delle più tipiche patologie della
modernità.

3.1.3 Caratteri generali del bonapartismo

Voci di un colpo di stato si erano già sparse immediatamente dopo l’e-


lezione di Bonaparte. Nel corso del 1851 i giornali a lui vicini non persero
occasione, ad ogni turbolenza parlamentare, per minacciarne l’esecuzione.
Tra settembre e ottobre le voci cominciarono a rincorrersi con sempre mag-
giore frequenza, e furono riprese dai maggiori giornali europei. Ad inizio
ottobre Bonaparte installò un nuovo ministero, cui diede il compito di sfi-
dare direttamente il Parlamento, proponendo la reintroduzione del suffra-
gio universale abolito dalla legge del 31 maggio 185015.
Mancava solo l’ultimo atto. Bonaparte lo annuncia già in un discorso del
25 novembre, in occasione della distribuzione dei premi ricevuti all’Espo-
sizione industriale di Londra: la platea di industriali riuniti per l’occasione
risponde con entusiasmo16. Il 2 dicembre si compie il percorso involutivo
della Rivoluzione: il Parlamento è sciolto, le libertà politiche borghesi sono
ritirate e al loro posto viene instaurato attraverso una parodia di restaura-
zione imperiale il potere autocratico di Luigi Bonaparte. Il proclama che
campeggia su tutti i muri di Francia nello stesso istante in cui, scioglien-
do l’Assemblea nazionale, decreta l’avvenuto colpo di stato, ripristina il
suffragio universale e chiama il popolo francese alle urne. Il plebiscito del
20 dicembre suggellerà la legittimità democratica dell’accaduto, fondandola
nell’espressa volontà di 7 milioni e mezzo di francesi.
Secondo Marx, la vicenda di Bonaparte illustra con evidenza le con-
traddizioni di una borghesia disposta a sacrificare la propria libertà politica
sull’altare della propria sicurezza economico-sociale: è per assicurare l’ordine
borghese – ovvero la propria dominanza economico-sociale – che la bor-

15
 In questa proposta, secondo Luciano Canfora, è il vero capolavoro di Bonaparte, capace di
portare a compimento il proprio colpo di stato proprio «in nome del suffragio universale» (L.
Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, cit., p. 128).
16
 «In presenza di successi così insperati, io sono in diritto di dichiarare ancora una volta
quanto la repubblica francese sarebbe grande se le fosse permesso di occuparsi dei suoi inte-
ressi reali e di riformare le sue istituzioni, invece di essere continuamente turbata, da un lato
dai demagoghi, dall’altro lato da allucinazioni monarchiche (applausi rumorosi, entusiastici e
prolungati in tutte le parti dell’anfiteatro). Le allucinazioni monarchiche impediscono ogni pro-
gresso e ogni sviluppo industriale serio. Invece del progresso non si ha che la lotta. Si vedono
degli uomini, che un tempo erano i sostenitori più zelanti dell’autorità e delle prerogative
monarchiche, diventare partigiani di una Convenzione unicamente allo scopo di indeboli-
re l’autorità uscita dal suffragio universale (applausi entusiastici e prolungati). Vediamo alcuni
uomini che più hanno sofferto della rivoluzione e più se ne sono lamentati, provocarne una
nuova unicamente per incatenare la volontà della nazione […] Io vi prometto la tranquillità
per l’avvenire ecc. (Bravo! Bravo! Applausi fragorosi)» (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte,
cit., pp. 133-134).
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 45

ghesia rinuncia spontaneamente al proprio potere politico. Frutto di questa


scelta contraddittoria, nella quale si tratta di «mantenere in vita la causa»
sopprimendo «l’effetto ovunque si manifesti»17, è il bonapartismo, una so-
luzione istituzionale nuova che riesce a esorcizzare i rischi della democra-
zia piegando il suffragio universale a docile strumento di difesa dell’ordine
sociale esistente: una forma di governo di tipo nuovo che, pur rimanendo
all’interno di modalità «democratiche» di costruzione del consenso, com-
porta uno sconvolgimento degli equilibri di potere tipici di una democra-
zia liberale. In particolare il bonapartismo subordina rigidamente il potere
legislativo (e cioè i parlamenti, luogo della rappresentanza delle differenti
opzioni politiche note alla società) a quello esecutivo. Il potere esecutivo
viene affidato ad una personalità carismatica eletta per via plebiscitaria e
che per questo è ritenuta intrattenere con la nazione uno speciale rapporto
personale. Nel bonapartismo il leader si pone come rappresentante diretto
della nazione, capace di incarnarne l’unità al di là di ogni differenza politica
che la attraversi, di riassumerne la complessità, unificando simbolicamente
nella propria figura la totalità delle diverse componenti della società civile
e politica, e garantendo così, specialmente nei momenti di crisi, l’ordine
pubblico e la sicurezza. Il cemento ideologico attraverso il quale Bonaparte
cerca di tenere assieme le diverse componenti della società delle quali cerca
il consenso sono l’imperialismo e il nazionalismo. Condivisa da un certo
numero di repubblicani, l’ideologia imperial-nazionalista solleticava in re-
altà trasversalmente tutte le classi sociali esistenti, ed era particolarmente
viva nell’esercito, tanto tra gli ufficiali quanto tra le truppe18.
Ed infatti ciò che meglio contraddistingue ideologicamente il bonapar-
tismo è proprio il suo voler «apparire come il patriarcale benefattore di
tutte le classi»19. Questo «interclassismo demagogico»20 è perfettamente
funzionale a nascondere i vincoli di profonda complicità che il potere bo-
napartista coltiva con gli interessi dei ceti possidenti e che fa sì che, nel se-
colare conflitto tra rivoluzione e reazione, il bonapartismo non costituisca
una terza via, ma rappresenti l’adattarsi della via reazionaria alle condizio-
ni della lotta politica moderna.
Facendosi forte dell’investitura popolare, la forma della politica demo-
cratica plebiscitaria che con Bonaparte si affaccia sul palcoscenico della sto-
ria, supera di un balzo l’irrequietezza e i rischi della logica rappresentativa:
nella figura del leader la nazione esorcizza ogni propria interna divisione,
per riconoscersi in lui come unica e sovraordinata rispetto ad ogni sua par-
te. Se a livello simbolico la figura del presidente rappresenta l’unità del-

17
 Ivi, p. 142.
18
 La preponderanza dell’esercito è anzi secondo Marx il vero «punto culminante delle “idées
napoléoniennes”» (cfr. Ivi, p. 152).
19
 Ivi, p. 156.
20
 L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, cit., p. 120.
46 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

la nazione, il suo potere si fonda concretamente sull’unità della macchina


statale. Secondo Marx, una delle più decisive conseguenze dell’esperienza
bonapartista, è l’aver portato a perfezione questo processo di concentrazio-
ne, unificazione e autonomizzazione del potere statale. Il risultato di questo
processo di concentrazione simbolica e amministrativa è l’identificazione,
che Marx doveva percepire come astratta – dell’interesse generale con l’in-
teresse dello Stato. L’interesse dello stato, in questo modo, si viene a contrap-
porre sempre più chiaramente all’interesse comune della società, risultante
da una considerazione concreta della pluralità delle sue componenti. In
questa netta contrapposizione, nella quale risuona una variazione della di-
cotomia di uomo e cittadino, l’autonomia del potere statale viene portata a
compimento.
Tuttavia, separandosi sempre più nettamente dalla società dalla qua-
le promana, il potere bonapartista prepara inconsapevole la propria fine.
Secondo Marx, infatti, lo sforzo interclassista di Bonaparte è votato inevi-
tabilmente al fallimento. Pur volendosi proporre come tutore dell’interesse
generale, egli «non può dar nulla all’una di esse senza prenderlo all’altra»21.
Da ciò, la valanga di contraddizioni che affligge il bonapartismo, contrad-
dizioni nelle quali Marx può scorgere il profilo di un movimento ulteriore
che dovrà condurre al di là delle contraddizioni dello stato borghese:

Ma la rivoluzione va fino al fondo delle cose. Sta ancora attraversando il


purgatorio. Lavora con metodo. Fino al 2 dicembre non ha condotto a termi-
ne che la prima metà della sua preparazione; ora sta compiendo l’altra metà.
Prima ha elaborato alla perfezione il potere parlamentare, per poterlo rove-
sciare. Ora che ha raggiunto questo risultato, essa spinge alla perfezione il
potere esecutivo, lo riduce alla sua espressione più pura, lo isola, se lo pone
di fronte come l’unico ostacolo, per concentrare contro di esso tutte le sue
forze di distruzione. E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa
seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e
griderà: Ben scavato, vecchia talpa!22

3.2 Max Weber e la democrazia cesaristico-plebiscitaria

Quando apparve, il bonapartismo venne interpretato come una for-


ma di cesarismo. Così come era stato il caso del regime inaugurato da Caio
Giulio Cesare nella Roma antica, il bonapartismo metteva infatti nelle mani
di una singola persona un potere forte, costruito a partire da un rapporto
privilegiato con l’esercito. Marx non accetta l’analogia, dichiarando sin dal-
la Prefazione del 18 Brumaio che le contingenze storiche sono troppo diver-
se perché essa possa essere considerata affidabile. Citando Sismondi Marx

21
 K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, cit., p. 156.
22
 Ivi, p. 142.
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 47

sintetizza l’incommensurabile differenza sociale che separa la Roma antica


dalle nazioni moderne, ricordando come «il proletariato romano viveva a
spese della società» mentre «la società moderna vive a spese del proletaria-
to». Questa profonda differenza nelle condizioni materiali fa sì che anche
«i prodotti politici» rispettivi siano tanto diversi da non avere «in comune
niente di più di quello che l’arcivescovo di Canterbury non abbia in comu-
ne con il gran sacerdote Samuele»23.
Nonostante la presa di distanza marxiana il concetto di cesarismo tro-
va a partire dall’esperienza bonapartista una rinnovata fortuna, di cui la
testimonianza più celebre è forse nell’opera di Max Weber. Borghese per
estrazione, nazionalista per vocazione, iscritto in gioventù al partito libe-
ral-conservatore ma vicino alla candidatura al cancellierato per il partito
socialdemocratico nel drammatico frangente del primo dopoguerra, Weber
ebbe per tutto il corso della sua vita un profondo interesse – secondo alcuni
una vera vocazione mancata – per la politica, che lo portò a interessarsi con
continuità alle trasformazioni della democrazia. Così come Tocqueville an-
che Weber scorgeva nella democrazia alcuni istinti dispotici che egli ricon-
duceva allo stretto legame esistente tra il processo della democratizzazione
e quello della burocratizzazione. Da questa analisi Weber derivò un giudi-
zio delle derive plebiscitarie della democrazia ampiamente divergente da
quello marxiano. Nei prossimi paragrafi cercheremo di comprenderne le
ragioni.

3.2.1 Democratizzazione e burocratizzazione

Il nesso esistente tra democratizzazione e burocratizzazione è centra-


le per la comprensione del fenomeno della modernizzazione, vero cen-
tro della monumentale impresa intellettuale weberiana. La modernità,
per Weber, va intesa come un processo di progressiva razionalizzazione
(Rationalisierung) tanto delle condotte di vita individuali che delle istituzio-
ni politiche e sociali. Questo processo ha una delle sue più peculiari carat-
teristiche nell’affermarsi della burocrazia. A parere di Weber, la razionalità
burocratica ha molti punti di contatto con la razionalità economica capita-
listica. Il presupposto di entrambe è infatti la separazione dei produttori
(di beni e servizi amministrativi, nel caso dello stato) dalla proprietà dei
mezzi di produzione (dal controllo centralizzato della macchina che è ne-
cessaria a garantire l’erogazione di questi servizi)24. Come l’impresa capi-
talistica lo stato burocratizzato si fonda sul calcolo: sarà dunque nel suo più
grande interesse rendere le condizioni dell’esercizio del suo potere il più
possibile omogenee. Il bisogno della calcolabilità spinge lo stato moderno
ad eliminare dal lavoro dei propri funzionari ogni traccia di arbitrio perso-

 Ivi, p. 17.
23

 Cfr. ad es. il secondo capitolo di M. Weber, Parlamento e governo, Laterza, Roma-Bari 1982.
24
48 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

nale: il potere burocratico dovrà essere amministrato in modo impersona-


le, disanimato, usando lo strumento universale del diritto ed eliminando
dall’equazione del potere ogni traccia della particolarità individuale dei
suoi interpreti. È così che, in virtù della sua intima razionalità, la burocra-
tizzazione spinge per il superamento delle differenze di status e accelera
l’affermarsi del principio tipicamente democratico dell’eguaglianza forma-
le. Preso nella sua accezione più generica, il termine democrazia allude in-
fatti per Weber all’assenza di una «differenza formale di diritti politici tra le
singole classi della popolazione»25. L’assenza di queste differenze di status
favorisce a sua volta il processo di burocratizzazione, rinforzando il ruolo
pubblico dei funzionari statali stipendiati cui vengono assegnate, sulla ba-
se della competenza, quelle cariche che nelle società di ceto venivano attri-
buite sulla base della nascita ai nobili e agli aristocratici. Questo processo è
descritto come una progressiva realizzazione dell’eguaglianza formale, la
quale ha come suo immediato riflesso l’espropriazione26 del potere di quei
ceti che nelle organizzazioni sociali premoderne avevano gestito il potere
politico e la loro sostituzione con un nuovo funzionariato, quello dei poli-
tici di professione.
Burocratizzazione e democratizzazione procedono dunque per Weber
di pari passo, rinforzandosi vicendevolmente27. Per questa sua capacità di
sposarsi con la logica burocratica, la democrazia è la sola forma politica
adeguata ad un mondo pienamente modernizzato e razionalizzato. Ma in
questa sua affinità elettiva con la burocrazia la democrazia mostra anche
il suo lato più pericoloso. L’inarrestabile incedere della burocratizzazione
comporta il rischio di un mondo totalmente impersonale e disumano, nel
quale la politica verrebbe ridotta a mera amministrazione. L’affermarsi del-
la macchina amministrativa statale coopera con il diffondersi del macchi-
nismo dell’industria «per produrre la gabbia di quella servitù del futuro
nella quale un giorno gli uomini saranno costretti a ubbidire impotenti,
come i fellah nello stato dell’antico Egitto»28. Rispetto a questa terrorizzante
prospettiva,

[…] la questione cruciale allora non è come poter ulteriormente favorire e


accelerare questo sviluppo, bensì che cosa noi dobbiamo contrapporre a
questo meccanismo per tenere libero un briciolo di umanità da questa par-
cellizzazione dell’anima, da questo dominio egemone degli ideali di vita bu-
rocratici29.

25 M. Weber, Il socialismo, in M. Weber, Scritti politici, Donzelli, Roma 1998, p. 106.
26 Cfr. M. Weber, La politica come professione, in Id. Scritti politici, cit., p. 182.
27 Cfr. G. Hübinger, «Democratizzazione» nello stato, nella società e nella cultura: Max Weber tra
politica e scienza politica, in M. Losito e P. Schiera, Max Weber e le scienze sociali del suo tempo, Il
Mulino, Bologna 1988.
28 M. Weber, Parlamento e governo, cit, p. 36.
29 M. Weber, Sulla burocrazia, in Id., Scritti politici, cit., p. 33.
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 49

Prima di indagare in che modo la tendenza della democrazia a trasfor-


marsi in una impersonale dominazione burocratica possa essere a parere di
Weber contrastata, vediamo più da vicino il carattere necessario del proces-
so di democratizzazione.

3.2.2 La «parità di destini» del cittadino moderno

Strumento principe dell’affermarsi di un orizzonte politico democra-


tico è il suffragio universale, espressione privilegiata di quella «parità di
destini»30 che lo stato moderno si propone di realizzare tra i propri concitta-
dini. Concretizzando istituzionalmente l’eguaglianza politica dei cittadini
di uno stato, l’universalità del voto realizza l’essenza dello stato moderno:

[…] suffragio universale significa innanzitutto nient’altro che il singolo fi-


nalmente, sotto questo aspetto della vita sociale, non viene considerato,
come invece in ogni altra occasione, secondo la sua specializzazione in at-
tività professionali, per la posizione familiare e in base alle peculiarità della
sua condizione materiale o sociale, bensì solo in quanto cittadino. Giunge
in questo modo ad espressione l’unità del popolo di uno Stato, rispetto alla
divisione che regna a livello della vita privata31.

L’analisi di Weber non si discosta qui dalla descrizione marxiana del


processo dell’emancipazione politica. Per Weber come già per Marx, infat-
ti, la realizzazione dell’eguaglianza politica non intacca la «divisione che
regna a livello della vita privata»32. Non è d’altronde compito della demo-
crazia mettere in discussione le disparità sociali ed economiche esistenti.
Quello che è in gioco nella distribuzione egualitaria dei diritti politici è tut-
talpiù la creazione di un meccanismo di parziale compensazione simbolica
della diseguaglianza sociale, una compensazione che avviene facendo parte-
cipare gli strati sociali dominati – e destinati a rimanere tali – alla designa-
zione dei propri capi.
Secondo Weber la necessità di una simile compensazione è divenuta nel
tempo sempre più evidente, sino a raggiungere con la prima guerra mon-
diale un’urgenza non più differibile. In uno scritto risalente alla fine del
1917 – Sistema elettorale e democrazia (Wahlrecht und Demokratie) – Weber cri-
tica con ferocia la decisione del governo prussiano di non procedere ad una
riforma del sistema elettorale introducendo il suffragio universale. Weber
affonda le radici di questa critica in una particolare interpretazione del te-
ma della «parità di destini» che egli fonda sull’uguaglianza di tutti gli uomini
di fronte alla morte. Il tema, al di là delle apparenze, non è esistenzialistico

30 M. Weber, Sistema elettorale e democrazia, in Id. Scritti politici, cit., p. 66.
31 Ivi, p. 64.
32 Ibidem.
50 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

ma politico: ciò che Weber ha in mente è quel particolare tipo di morte


che avviene sul campo di battaglia quando si incontrano eserciti riuniti at-
traverso la leva di massa obbligatoria. L’argomento di Weber a favore del
suffragio universale ruota tutto attorno alla necessità di riconoscere politica-
mente il contributo della «massa di combattenti di ritorno dal fronte»33 per
i quali lo «strumento di potere della scheda elettorale» rappresenta «quel
minimo di diritto alla determinazione comune […] per la quale essi do-
vrebbero andare incontro alla morte»34. Non riconoscere la piena cittadi-
nanza politica agli ex-soldati è per Weber prima di tutto una questione di
moralità politica ovvero una questione di «pudore e decoro sotto il quale
anche in politica non si può impunemente scendere»35. Vi è poi un’ulteriore
considerazione, schiettamente politica, che anche la borghesia più conser-
vatrice farebbe bene a considerare con attenzione:

[…] il Reich anche in futuro deve necessariamente essere nella condizione


di poter richiamare i suoi cittadini alla lotta per la propria esistenza e per il
proprio onore, nel caso in cui se ne presenti il bisogno. A tal fine non sono
sufficienti le scorte di munizioni […] bensì anche l’interiore disponibilità
della nazione a difendere questo Stato in quanto suo Stato36.

Tutti quei borghesi che per «viltà nei confronti della democrazia»37 predica-
no la necessità di qualche forma di limitazione del suffragio nel timore che
il suo allargamento possa mettere in discussione i loro privilegi economici
e sociali, non sono altro che «miopi filistei dell’ordine stabilito»38 che in re-
altà preparano inconsapevolmente il terreno alla sedizione. Lungi dal co-
stituire un cedimento ai confusi istinti della massa, il suffragio universale
appare invece a Weber come il più efficace strumento per tenerli a freno e
indirizzarli verso l’interesse della nazione, guadagnando l’interiore dispo-
nibilità delle masse a identificarsi con il suo destino di potenza (e con le sue
necessità funzionali)39.

33
 Ivi, p. 47.
34
 Ivi, p. 66.
35
 Ivi, p. 47.
36
 Ivi, p. 84.
37
 Ivi, p. 52.
38
 Ivi, p. 48.
39
 «Gli interessi e i compiti della nazione sono per noi di gran lunga più importanti di qualsi-
asi sentimento, come d’altronde sono superiori a tutte le questioni relative alla forma politica
in generale. Anche la loro realizzazione è per noi prima di tutto un sobrio problema di tecnica
istituzionale e non una questione di sentimenti» (M. Weber, La futura forma statale della Ger-
mania, in Id., Scritti politici, cit., p. 134; nello stesso volume si veda anche Lo Stato nazionale e la
politica economica tedesca).
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 51

3.2.3 La democrazia di massa

Nel confuso e tragico dopoguerra tedesco Weber partecipa attivamen-


te alla vita politica della nazione, contribuendo alla stesura della costitu-
zione della repubblica di Weimar, collaborando alle trattative di pace di
Versailles e sfiorando la candidatura al cancellierato nelle fila del partito
social-democratico. Nel contesto di questo impegno crescentemente diret-
to Weber abbandona il piano dell’analisi storica e teorica, per arrivare a
formulare delle proposte di riforma istituzionale che, arrivando poco pri-
ma della morte, possono essere considerate il suo più autentico testamento
politico.
La democrazia di massa, così come la concepisce Weber in in quest’ul-
tima fase della sua esistenza, si costruisce su due elementi irrinunciabili:
da un lato il parlamentarismo40, e dall’altro la figura del leader carismatico.
Per Weber la forma politica delle moderne democrazie non può fare
a meno dei parlamenti e dei partiti che li abitano. Nelle condizioni della
moderna politica democratica il parlamentarismo ha per Weber anzitutto la
preziosa funzione rappresentativa che gli era riconosciuta dalla tradizio-
ne liberale. Insistendo sulla necessità della rappresentanza parlamentare
Weber intende scongiurare ogni tentazione di direttismo democratico, ovve-
rosia di una concezione della democrazia che, volendo negare la necessità
di una mediazione politica della volontà popolare, aprirebbe la via alla ti-
rannia delle maggioranze e dei demagoghi che si leverebbero a blandirle. I
partiti fungono dunque da necessario filtro tra la conflittuale composizione
della società e gli interessi unitari della nazione, vero faro del pensiero po-
litico weberiano41. Contrariamente a quanto temuto dai più vili tra i bor-
ghesi, ciò è tanto più vero quanto più ci si avvicina alle condizioni di una
democrazia di massa. A riprova di questo fatto vi è ancora una volta, secon-
do Weber, la decisiva esperienza della guerra, la quale ha evidenziato come
nessun partito che aspiri a responsabilità di governo possa fare a meno di
servire gli interessi della nazione. Indipendentemente dalla loro coloritura
ideologica i partiti – e i parlamenti che sono il luogo del loro dialogo – svol-
gono dunque per Weber un’importante funzione ordinatrice delle disordi-
nate pulsioni democratiche popolari, scongiurando «il dominio arbitrario
della strada e il potere di demagoghi occasionali»42.

40
 Parlamentarismo e democrazia, ricorda Weber in Parlamento e governo, non vanno neces-
sariamente assieme. Se come modello del parlamentarismo infatti si intende un bipartitismo
fondato sull’alternanza tra due partiti di notabili, come era stato il caso dell’Inghilterra nell’età
del liberalismo più classico, parlamentarismo e democrazia possono addirittura apparire an-
titetici. Cfr. M. Weber, Parlamento e governo, cit., pp. 95 e ss.
41
 Cfr. D. Beetham, La teoria politica di Max Weber, Il Mulino, Bologna 1989; W.J. Mommsen,
Max Weber e la politica tedesca, Il Mulino, Bologna 1993; F. Ferrarotti, L’orfano di Bismarck. Max
Weber e il suo tempo, Editori Riuniti, Roma 1982; F. Ferrarotti, Max Weber. Fra nazionalismo e
democrazia, Liguori, Napoli 1998.
42
 M. Weber, Sistema elettorale e democrazia, cit., p. 83.
52 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

Una democrazia puramente parlamentare, tuttavia, non appare a Weber


una soluzione adeguata a raccogliere le sfide del tempo e ciò in virtù delle
più recenti evoluzioni della forma partito. L’intimo legame esistente tra de-
mocrazia e burocrazia, come abbiamo visto, contiene dentro di sé il rischio
che i partiti – e dunque i parlamenti – si riempiano di mestieranti politici,
grigi burocrati privi di alcuna vocazione autenticamente politica43. La ra-
zionalità burocratica ha un carattere intimamente conservatore: essa proce-
de applicando procedure, ovvero considerando il fine della propria azione
come già da sempre dato. Il politico di professione senza vocazione non
conosce l’abisso angoscioso della scelta, né l’estasi della libertà. La sua azio-
ne appare sempre conforme ai doveri dell’obbedienza: come tale essa è per
Weber politicamente irresponsabile, ossia incapace di svolgere una funzione
critica e innovatrice, e dunque inadatta all’azione ovvero alla realizzazione
di qualsiasi prospettiva di grande politica.
Questo nuovo ceto rischia a parere di Weber di sterilizzare la vita politi-
ca, sostituendo ai «valori» che la dovrebbero guidare un dispotismo ammi-
nistrativo tanto impersonale quanto irresistibile. Il dominio dei funzionari
di partito appare così come il risvolto politico di quella famosa gabbia d’ac-
ciaio della razionalizzazione di cui Weber aveva già discusso nell’Etica
protestante e lo spirito del capitalismo. Di fronte a questo rischio di dispoti-
smo politico-burocratico bisogna trovare il modo di attirare all’interno dei
parlamenti personalità di alto profilo, desiderose di vivere per la politi-
ca, e non solo di politica. Ciò può avvenire, secondo Weber, «soltanto se
il parlamento offre la prospettiva di posizioni di capo con responsabilità
di capo»44. È così che viene a maturare in Weber la convinzione che l’uni-
co modo per conservare, nelle condizioni della più avanzata modernità, la
possibilità di una autentica azione politica- un’azione libera e responsabile
– sia di affiancare all’istituto rappresentativo parlamentare la figura di un
leader carismatico. All’inizio del 1919, nel contesto delle discussioni intor-
no alla nuova Costituzione del Reich in cui è istituzionalmente coinvolto,
Weber giunge a definire l’elezione diretta del capo dello stato la Magna
Charta della democrazia:

[…] un presidente eletto dal popolo, capo dell’esecutivo, capo dell’apparato


di controllo amministrativo e detentore di un veto sospensivo e della facoltà
di sciogliere il parlamento, cha abbia in aggiunta la facoltà di indire una
consultazione popolare, è il palladio dell’autentica democrazia, che non si-

43
 Giocando attorno al doppio significato della parola Berüf – che come è noto significa tanto
professione che vocazione –, Weber distingue due significati di questa espressione. Da un lato
vi è il politico per vocazione, colui che vive per la politica, dedicando ad essa le migliori ener-
gie della propria esistenza. Dall’altro il mestierante politico, colui che vive di politica, colui
che della politica ha fatto una professione, il grigio funzionario di partito. È a questa seconda
accezione che si fa qui riferimento. Cfr. M. Weber, La politica come professione, cit.
44
 Cfr. M. Weber, Parlamento e governo, cit., p. 72.
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 53

gnifica abbandono impotente a combriccole, bensì sottomissione a capi che


essa ha eletto per sé45.

Secondo l’ultimo Weber, la democrazia cesaristico-plebiscitaria è, nelle con-


dizioni della politica di massa, la forma politica più auspicabile. Essa si
fonda sul rapporto diretto che il leader intrattiene con le masse, un rappor-
to che non dipende dalle dinamiche parlamentari ma dalle sue capacità de-
magogiche. Sua necessaria precondizione è una «attiva democratizzazione
di massa»46; la sua forma più caratteristica è il plebiscito che «non è una
normale «votazione» o «elezione», ma la professione di una «fede» nella
vocazione di capo di colui il quale pretende per sé questa acclamazione»47.
Il legame diretto che un presidente eletto direttamente dal popolo intrat-
tiene con la nazione, oltre a svolgere la fondamentale funzione simbolica di
incarnarne l’unità, sarebbe l’occasione di una riforma dei partiti capace di
far superare loro la tendenza, tipica di tutte le organizzazioni burocratiche,
a privilegiare le personalità più mediocri ed acquiescenti rispetto alle ge-
rarchie già costituite sulle persone davvero dotate di talento e vocazione.
Nelle condizioni di una democrazia di massa le opzioni tra cui scegliere so-
no solo due: o il dominio di questi mestieranti del parlamento e dunque la
fine della politica e il trionfo della burocrazia, oppure la Führerdemokratie,
una democrazia cesaristico-plebiscitaria accompagnata da una profonda
riconversione dei partiti. L’emergere di leader carismatici nelle condizioni
della democrazia plebiscitaria richiede infatti – come insegnava l’esempio
americano ed in particolare il resoconto fattone da Ostrogorski48 –, la tra-
sformazione dei partiti in macchine elettorali. Si tratta di una soluzione non
del tutto indolore, ma non per questo meno meno necessaria:

[…] la direzione dei partiti attraverso capi plebiscitari determina la «rinuncia


alla propria anima» da parte del seguito, ossia – si potrebbe anche dire – la
sua proletarizzazione spirituale. Per essere utilizzabile come apparato per il
capo, il seguito deve necessariamente ubbidire ciecamente, essere macchina
nel senso americano del termine, non disturbato dalla vanità dei notabili e
dalle pretese di opinioni personali49.

Liberandosi dal dominio di quei «fondi di magazzino» della politica


che sono i notabili, i partiti si trasformerebbero in questo modo in luoghi di

45
 M. Weber, Il presidente del Reich, in Id., Scritti politici, cit., p. 236.
46
 «[…] essa presuppone le forme più moderne dell’organizzazione di partito […] figlie della
democrazia, del diritto elettorale di massa, della necessità della propaganda e dell’organizza-
zione di massa, dello sviluppo della più alta unità della direzione e della più rigida discipli-
na» (M. Weber, La politica come professione, cit., p. 203).
47
 M. Weber, Economia e società, Comunità, Torino 1999, Vol. IV, p. 544.
48
 M. Ostrogorski, Democrazia e partiti politici, Rusconi, Milano 1991.
49
 M. Weber, La politica come professione, cit., p. 214.
54 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

selezione dei futuri capi che avrebbero nella competizione parlamentare il


luogo adatto per mettere alla prova le proprie virtù demagogiche:

È di importanza decisiva il fatto che, in ogni caso, solo persone selezio-


nate nella lotta politica hanno l’esperienza necessaria per essere capi politici,
poiché tutta la politica, nella sua essenza, è lotta. Per questo va meglio in
media il tanto vituperato «mestiere di demagogo» che la stanza delle prati-
che, che certamente per l’amministrazione effettiva offre un addestramento
infinitamente superiore50.

I Parlamenti non sono resi del tutto inutili da questo processo. Così co-
me il leader funziona come antidoto rispetto alle debolezze dell’organizza-
zione burocratica di partito, riaprendo la possibilità della grande politica
pur nelle condizioni di una democrazia di massa, così il parlamentarismo
funziona come strumento di controllo dell’operato del leader, e come via
pacifica alla sua destituzione quando questi perde il supporto popolare o
mette a rischio la stabilità dell’ordine politico51. Opposto e speculare al pe-
ricolo della sterilizzazione della politica vi è infatti quello della «preponde-
ranza di elementi emotivi» e irrazionali, che la demagogia del leader può
scatenare sporgendosi così sull’abisso della «democrazia della strada»52.

3.2.4 Il potere carismatico

Quella del leader plebiscitario è per Weber la più felice trasposizione


del tipo del potere carismatico nelle condizioni della modernità politica.
L’analisi del carisma – l’unico tipo del potere politico invero rivoluzionario53,
cioè capace di introdurre il nuovo piuttosto che limitarsi all’amministra-
zione del esistente – è centrale nella comprensione weberiana della politi-
ca plebiscitaria. Essa viene svolta nel contesto di una più ampia indagine
sulle tipologie del potere che ne distingue le differenti forme a seconda
delle differenti tipologie di legittimità a cui pretende. I differenti «motivi
di legittimità di una dominazione» sono riassunti da Weber in tre figure
tipico-ideali, che vengono così descritte nella celebre conferenza su La poli-
tica come professione:

Innanzitutto l’autorità dell’«eterno ieri», del costume consacrato da una


validità immemorabile e dall’aspettativa abituale derivante dalla consuetu-

50
 M. Weber, Parlamento e governo, cit., p. 105.
51
 M. Weber, Economia e società, Vol. IV, cit., p. 546.
52
 Ivi, p. 554.
53
 L’azione del leader carismatico assomiglia per Weber a quella di quei profeti che al potere
dello «sta scritto che» contrappongono il loro «ma io vi dico» (cfr. L. Cavalli, Il carisma come
potenza rivoluzionaria, in P. Rossi (a cura di), Max Weber e l’analisi del mondo moderno, Einaudi,
Torino 1981; sulla tipologia della legittimazione si può vedere nello stesso volume l’ottimo
contributo di Norberto Bobbio intitolato La teoria dello stato e del potere).
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 55

dine: il dominio «tradizionale», come lo esercitavano il patriarca e il principe


patrimoniale di stampo antico. Quindi, l’autorità del dono di grazia personale
non ordinario (carisma), la dedizione e la fiducia personali nelle manifesta-
zioni, nell’eroismo o in altre qualità di capo di un singolo: il dominio «cari-
smatico», come lo esercitano il profeta o – nell’ambito politico – il principe
eletto in guerra o il sovrano plebiscitario, il grande demagogo e il capo di un
partito politico. Infine: il dominio in forza della «legalità», in forza della fede
nella validità di un ordinamento giuridico e della «competenza» obiettiva fon-
data su regole create razionalmente, vale a dire in forza dell’obbedienza nel
compimento di doveri conformi ad un regolamento: un dominio quale lo
esercitano il moderno «servitore dello stato», e tutti quei rappresentanti del
potere che, in questa prospettiva, gli rassomigliano54.

Similmente in Economia e società il potere carismatico viene definito co-


me quello che «poggia sulla dedizione straordinaria al carattere sacro o alla
forza eroica o al valore esemplare di una persona»55.
Dire che la dedizione ad una persona – e dunque il suo potere – si fonda
sul suo ‘carattere sacro’, sulla sua ‘ forza eroica’ o sul suo ‘valore esemplare’
non significa in alcun modo credere che la persona in questione posseg-
ga oggettivamente queste caratteristiche. La validità del carisma, secondo
Weber, non si misura attraverso alcuna considerazione oggettiva delle qua-
lità del leader. Essa, al contrario, è una questione che dipende per intero
dalla fede che i dominati ripongono in essa, poiché il potere carismatico
– così come del resto tutte le altre forme del potere – non risiede in defini-
tiva in null’altro che nel «riconoscimento spontaneo dei dominati». Questa
sorprendente conclusione dipende dalla definizione di potere che Weber fa
propria, una definizione che sembra riproporre in maniera invertita alcuni
argomenti di La Boétie sul carattere volontario della servitù: per «potere si
deve intendere la possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone,
ad un comando che abbia un determinato contenuto»56.
Il potere del capo eletto plebiscitariamente è un potere strettamente
personale57. Egli è «l’uomo di fiducia delle masse» che, una volta ricono-
sciuto come tale, può agire libero e svincolato tanto dalla tradizione che
dalle legittimazioni di tipo legale o razionale, che pure partecipano alla
sua affermazione. E tuttavia la democrazia plebiscitaria, pur avendo come
possibile esito la «liberazione» del capo dai vincoli della legge, trova il suo
senso più genuino nel fatto di essere «una specie di potere carismatico che
si cela sotto la forma di una legittimità derivante dalla volontà dei sudditi
e sussistente soltanto in virtù di questa»58. In questo senso la democrazia

54
 M. Weber, La politica come professione, cit., p. 179.
55
 M. Weber, Economia e società, Vol. II, cit., p. 210.
56
 Ivi, p. 52.
57
 «Il duce (il demagogo) domina di fatto in virtù della fiducia e dell’attaccamento del seguito
politico alla sua persona in quanto tale» (M. Weber, Economia e società, Vol. I, cit., p. 265).
58
 Ibidem.
56 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

carismatico-plebiscitaria è una forma peculiare di potere che combina as-


sieme attraverso la vis demagogica del leader aspetti riconducibili al tipo
del potere carismatico (la fiducia personale nella virtù magica del leader)
e altri che sono più legati al tipo del potere legale-razionale (la fede nel-
la razionalità e nella legittimità della procedura elettorale plebiscitaria, ad
esempio)59. Presentandosi come espressione della volontà dei sudditi il po-
tere democratico-plebiscitario sfrutta apertamente una delle caratteristiche
più curiose dell’obbedienza – che è anche uno dei più importanti segre-
ti del potere – ovvero la circostanza generale che prevede che «l’agire di
colui che obbedisce si svolge essenzialmente come se egli, per suo stesso
volere, avesse assunto il contenuto del comando per massima del proprio
atteggiamento»60. Presentando il «contenuto del comando» come frutto del
volere dei comandati la democrazia cesaristico-plebiscitaria è una forma
politico-istituzionale particolarmente capace di rinforzare le basi dell’ob-
bedienza sociale. L’effetto complessivo di questo raffinato meccanismo isti-
tuzionale è quello di perfezionare il potere, ovvero di ottenere dalle masse
«un’obbedienza pronta, automatica e schematica», «priva di critica e di re-
sistenza»: nel linguaggio di Weber, una perfetta disciplina61.
Questa disciplina, in definitiva, si fonda sul fatto che, come ha notato
Giuseppe Duso62, il leader carismatico viene riconosciuto dai suoi sudditi
come il migliore rappresentante dell’unità loro interessi, al di là delle divi-
sioni che caratterizzano tanto la politica parlamentare che la concretezza
delle relazioni sociali. Si capisce qui come Weber ritenga parlamentarismo
e cesarismo come due forme diverse e complementari di rappresentanza: il
primo ha il compito di rappresentare la pluralità sociale, il secondo rappre-
senta l’unità nazionale. Nonostante l’esempio del bonapartismo indicasse
con chiarezza la possibilità di una rovinosa competizione tra di esse, Weber
è convinto che possano coesistere ed anzi rafforzarsi vicendevolmente.
Così per Weber la democrazia cesaristico-plebiscitaria non è una corruzio-
ne dell’ideale democratico ma ben al contrario la più autentica democrazia
possibile nelle condizioni della politica di massa63.

59
 Nulla di strano in questo, se si tenga presente il significato metodologico della tipizzazione
ideale. Cfr. M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1997.
60
 M. Weber, Economia e società, Vol. II, cit., p. 209.
61
 Ivi, p. 52.
62
 Secondo Duso «tutto il problema della legittimazione» in Weber «può essere inteso come
problema dell’agire rappresentativo» (G. Duso, Tipi del potere e forma politica moderna in Max
Weber, in M. Losito e P. Schiera, Max Weber e le scienze sociali del suo tempo, cit., p. 505).
63
 Il contrasto esistente tra rappresentanza democratico-parlamentare e rappresentanza ce-
saristico-plebiscitaria era già stato evidenziato da Engels, quando nel 1895, scrivendo una in-
troduzione al testo marxiano sulle Lotte di classe in Francia tra 1848 e 1850, aveva sottolineato
come l’esperienza bonapartista avesse prodotto un pericoloso scetticismo nei confronti del
suffragio universale. Engels chiedeva di superare questo scetticismo, fornendo a riprova della
sua tesi l’evidenza dei successi che il movimento socialista stava ottenendo tramite la lotta
parlamentare in Germania. Cfr. F. Engels, Introduzione del 1895, in K. Marx, Le lotte di classe in
Francia dal 1848 al 1850, cit.
Bonapartismo, cesarismo, democrazia plebiscitaria 57

3.2.5 Il diritto al suicidio della democrazia

Sostenendo l’idea che la democrazia cesaristico-plebiscitaria rappresen-


ti la più autentica forma di democrazia, Weber si avvicina alla riflessione
elitista e in particolare a quella di Roberto Michels. Secondo Michels un
leader carismatico

[…] ha sempre buone possibilità di successo presso le folle imbevute di sen-


timenti democratici perché le lascia nell’illusione di rimanere padrone dei
propri padroni; e tramite la procedura della delegazione da parte di vaste
masse popolari, dà inoltre a questa illusione un’apparenza giuridica, cosa
molto gradita alle masse che lottano per il loro «diritto». […] Il capo prescel-
to sembra essere stato eletto al suo posto da un atto di spontanea volontà,
anzi di arbitrio delle masse, ed è apparentemente una loro creatura. Questo
pensiero lusinga l’amor proprio di ogni singolo elettore, che si dice: «Quello
non sarebbe diventato ciò che è diventato, se non lo avessi fatto io»64.

Espressione della volontà della maggioranza, il Cesare «non può essere


contrastato in nessun modo», poiché «ogni opposizione che gli venga fatta
è antidemocratica»65. La sua volontà è per definizione «infallibile» – egli
conosce la volontà delle masse meglio delle masse stesse – e comprende
il buon diritto di annientare i propri oppositori politici, di tenere a freno
l’arroganza della burocrazia anche derogando dalla legalità, di annientare
insomma ogni potere intermedio capace di limitare la sua autorità, espres-
sione plebiscitaria della volontà della maggioranza. Con ciò, la democrazia
plebiscitaria non solo non offende i principi democratici ma costituisce la
forma esemplare della democrazia rappresentativa66. Essa infatti, nota Michels,
«riconosce la volontà popolare in modo tanto illimitato da concederle per-
fino il diritto al suicidio», ovvero la facoltà di «abolire se stessa»67 sotto-
ponendosi all’illimitato potere dittatoriale del Cesare, sintesi perfetta e
paradossale di democrazia ed autocrazia.
Ed in effetti Weber diede un importante contributo al suicidio storico
della democrazia tedesca. Partecipando alla scrittura della costituzione di
Weimar, egli fu infatti un attivo promotore dell’inserimento del famigerato

64
 R. Michels, La sociologia del partito politico, Il Mulino, Bologna 1966, p. 298.
65
 Ivi, p. 296.
66
 Su questa stessa linea si muove anche l’analisi di James Burnham che ritiene il bonaparti-
smo «l’inclinazione politica più incontestabile della nostra generazione». Il segreto del succes-
so internazionale del bonapartismo sta nel fatto che «esso non viola la forma democratica né
il posto assegnato al suffragio. La teoria bonapartista può piuttosto plausibilmente pretendere
di essere il culmine storico e anche logico della formula democratica, proprio come il plebisci-
to può pretendere di essere la forma più perfetta di suffragio democratico. Il capo bonaparti-
sta può considerarsi ed essere considerato la quintessenza del democratico; il suo dispotismo
altro non è se non l’onnipotente popolo che si guida e si disciplina da sé» (J. Burnham, I difen-
sori della libertà, Arnoldo Mondadori, Milano 1947, p. 244)
67
 R. Michels, La sociologia del partito politico, cit., p. 294.
58 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

articolo 48, il cosiddetto Diktatur Paragraf, in base al quale in caso di grave


minaccia all’ordine e alla pubblica sicurezza al Reichpräesident era attribu-
ito il potere di sospendere un ampio ventaglio di garanzie costituzionali
(la libertà personale, l’inviolabilità dell’abitazione, la libertà di parola, di
stampa, di associazione, di riunione, e persino il diritto di proprietà) isti-
tuendo uno stato d’eccezione68. Questa norma, come è noto, fu alla base della
definitiva nazistizzazione della Germania, che proprio grazie a questa di-
sposizione poté compiersi in maniera del tutto ossequiosa alla carta costi-
tuzionale. Un suicidio democraticamente perfetto.

68
 F. Ferrarotti, Max Weber. Fra nazionalismo e democrazia, cit., p. 73. Cfr. anche G. Agamben,
Stato d’eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
Capitolo IV

La critica elitista della democrazia


Sì vabbè lo ammetto
la scomparsa dei fogli e della stampa
sarebbe forse una follia,
ma io se fossi Dio,
di fronte a tanta deficienza
non avrei certo la superstizione della democrazia!
G. Gaber, Io se fossi Dio

Le tendenze cesaristiche delle democrazie dei moderni stimolarono ri-


flessioni assai diverse da quelle weberiane. Se per Weber il cesarismo dove-
va funzionare come un antidoto al rischio del dispotismo burocratico, per
i sociologi di ispirazione elitista esso mostrava con chiarezza esemplare il
carattere intrinsecamente nominalistico delle istituzioni della democrazia.
Per dare conto di questa critica, passeremo qui di seguito rapidamen-
te in rassegna le posizioni di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto
Michels.

4.1 Gaetano Mosca e la superstizione democratica

Ampiamente influenzato dal clima culturale positivista Mosca si propo-


ne di portare nel campo degli studi politici quella scientificità che ancora
manca loro. La scienza politica per Mosca non è riuscita sin qui a penetrare
al di sotto di quelle formule dietro alle quali la vera natura delle relazioni
sociali rimane nascosta. Sin dall’epoca di Aristotele le teorie tradizionali sul
governo ne distinguevano tre diverse forme, a partire dal fatto che esso ve-
nisse esercitato da uno, nel qual caso veniva chiamato governo monarchico
o dispotico, da pochi, nel qual caso era detto aristocratico o oligarchico, o da
molti, nel qual caso ci si trovava in presenza di una democrazia. Solo con
Rousseau e con la concezione moderna della democrazia si era accreditata
l’idea che il governo democratico, a rigore, non fosse il governo dei molti
ma il governo di tutti. Per Mosca questa idea era palesemente falsa:

Noi non possiamo concepire una società per quanto democratica, nella
quale il governo sia esercitato da tutti. Anche in questo caso è necessaria una
macchina organizzativa, un’organizzazione composta naturalmente da una
minoranza numerica, per la quale tutta l’azione governativa si esplichi. Sic-
60 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

ché anche in questo caso, tutte le pubbliche funzioni sono nel fatto esercitate
né da uno solo né da tutti, sebbene da una classe speciale di persone1.

L’idea rousseauiana di democrazia contrastava frontalmente con quella


che ad avviso di Mosca era la legge fondamentale della politica: che ogni
governo è sempre retto da una minoranza organizzata che domina al di so-
pra di una maggioranza disorganizzata. Questa minoranza organizzata – do-
ve con organizzazione si deve intendere tanto «l’insieme dei rapporti di
interesse che inducono i membri della classe politica a coalizzarsi tra loro»
quanto «l’apparato o la macchina statale di cui la classe politica si serve
come di strumento per la realizzazione dei propri fini»2 – forma ciò che
Mosca chiama la classe politica.

4.1.1 La teoria della classe politica

Nella sua opera di maggior respiro, gli Elementi di scienza politica, Mosca
spiega così la funzione esercitata dalla classe politica in ogni società storica:

Fra le tendenze e i fatti costanti, che si trovano in tutti gli organismi po-
litici, uno ve n’è la cui evidenza può essere facilmente a tutti manifesta: in
tutte le società, a cominciare da quelle più mediocremente sviluppate e che
sono appena arrivate ai primordi della civiltà, fino alle più colte e più forti,
esistono due classi di persone: quella dei governanti e l’altra dei governati.
La prima, che è sempre la meno numerosa, adempie a tutte le funzioni poli-
tiche, monopolizza il potere e gode i vantaggi che ad esso sono uniti; mentre
la seconda, più numerosa, è diretta e regolata dalla prima in modo più o
meno legale, ovvero più o meno arbitrario e violento, e ad esse fornisce,
almeno apparentemente, i mezzi materiali di sussistenza e quelli che alla
vitalità dell’organismo politico sono necessari3.

Quello che differenzia le forme di governo non è il soggetto titolare del


suo esercizio, che rimane in ogni caso la minoranza organizzata, la classe
politica. Tutti i governi, in definitiva, sono per Mosca dei governi dei pochi,
delle aristocrazie o oligarchie che dir si voglia. Ciò che varia sono invece
i criteri attraverso i quali le élite che li compongono si formano, ovvero le
qualità che occorre possedere per entrare a far parte della classe politica.
Nelle società più primitive la qualità più importante è la forza fisica, che dà
luogo al governo di una classe politica composta da militari. Assicurato un
periodo di pace relativa, la società può crescere economicamente, trasfor-

1
 G. Mosca, Teoria dei governi e governo parlamentale, Giuffré, Milano 1968, p. 10.
2
 N. Bobbio, Teoria delle élites, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica,
UTET, Torino 1983, p. 373.
3
 G. Mosca, La classe politica, Laterza, Bari 1966, p. 61. Si tratta di una riduzione della terza
edizione degli Elementi di scienza politica a cura di Norberto Bobbio.
La critica elitista della democrazia 61

mando i parametri di accesso alla classe politica: si passa così dal dominio
dei forti al dominio dei ricchi. Per Mosca, che qui si sposta dalla descrizio-
ne alla previsione, anche il dominio dei ricchi dovrà essere trasceso, una
volta che la crescita economica abbia reso possibile anche la crescita cultu-
rale della società. È così che, a suo avviso, le società più avanzate si avviano
verso una nuova forma di dominio, il dominio dei più intellettualmente
meritevoli.
Il quadro qui disegnato sembrerebbe costruire una filosofia della storia
ottimistica e progressiva, simile per molti versi alla teoria dei tre stadi di
Auguste Comte o in senso più lato, all’evoluzionismo di Herbert Spencer.
Mosca fu però sempre molto diffidente rispetto ad ogni ricostruzione fi-
losofica della storia umana4. Egli era consapevole che le forme dell’orga-
nizzazione sociale e i corrispondenti valori che simili teorie ritenevano
appartenere a stadi evolutivi diversi e distinti, non solo potevano essere
cronologicamente contemporanee5, ma potevano anche sovrapporsi spa-
zialmente nella stessa civiltà o addirittura nello stesso individuo. Così, no-
nostante i progressi della tecnica e della scienza, anche nelle nazioni più
avanzate non deve stupirci il fatto che

[…] vediamo ancora le religioni rivelate avere una parte importantissima


nella vita dei nostri contemporanei e, dove esse si indeboliscono, vediamo
svilupparsi le superstizioni più abbiette e gli assurdi metafisici della demo-
crazia sociale6.

Ma, se per Mosca l’evoluzionismo è una forma di ingenuità filosofica,


come si spiega la sua previsione di una tendenza storica che spingereb-
be verso l’affermazione di élite di governo meritocratiche? Come si concilia
quella che a tutta prima pare un’indebita incrostazione teleologica o mora-
le con l’algido realismo che Mosca pretese sempre di rispettare nella pro-
pria opera?
Per tentare una risposta dovremo analizzare la teoria che Mosca propo-
ne per spiegare il consenso che i popoli danno ai propri governi. In questa
teoria, che ruota attorno al concetto di formula politica, l’esigenza morale
svolge, come vedremo, un ruolo fondamentale.

4
 Uno dei capitoli più interessanti degli Elementi, escluso dalla sintesi di Bobbio, si intitola
Polemiche ed è contenuto nel primo libro. Esso è dedicato per metà a prendere le distanze dalle
teorie di Comte e Spencer.
5
 Sul modo in cui le filosofie della storia possono essere adoperate come strumenti di do-
minio, con particolare riferimento alla questione coloniale, cfr. J. Fabian, Il tempo e gli altri,
L’Ancora, Napoli 2000.
6
 G. Mosca, Elementi di scienza politica, Laterza, Bari 1939, Vol. I, p. 219.
62 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

4.1.2 La formula politica

Punto di partenza della teoria di Mosca è il fatto che qualsiasi potere,


per potersi esercitare con stabilità, ha bisogno di essere riconosciuto da co-
loro sui quali esso viene esercitato come un potere legittimo:

Infatti il consenso della maggioranza di un popolo in una data forma di


regime politico, dipende unicamente dal fatto che questo regime è fondato
sopra credenze religiose o filosofiche universalmente accettate; o, per parla-
re il linguaggio nostro, dipende dalla diffusione e dall’ardore della fede, che
la classe governata ha nella formula politica con la quale la classe governan-
te giustifica il suo potere7.

È per questo che nessuna élite politica può accontentarsi di giustificare


il proprio potere «col solo possesso di fatto, ma cerca di dare ad esso una
base morale e anche legale»8. La condivisione di questo bisogno di legit-
timazione accomuna le formule politiche più diverse, tanto quelle che si ri-
chiamano a «credenze soprannaturali», quanto quelle che si fondano su
concetti che, se pure non sono razionali, tentano almeno di apparire ta-
li. Come che sia, per quanto le formule politiche scelte possano avere una
maggiore o minore apparenza di razionalità in funzione del «diverso gra-
do di civiltà delle genti fra le quali sono in vigore», esse rimangono per
Mosca tutte indistintamente forme di pensiero superstizioso prive di riscon-
tro nei fatti:

[…] ci è d’uopo confessare che, se nessuno ha mai visto l’atto autentico con il
quale il Signore ha dato facoltà a certe persone o famiglie private di reggere
per conto suo i popoli, un osservatore coscienzioso può anche facilmente
constatare che un’elezione popolare, per quanto il suffragio sia largo, non è
ordinariamente l’espressione della volontà delle maggioranze9.

Per Mosca se «il diritto divino dei re fu la grande superstizione dei seco-
li passati», il «diritto divino delle assemblee elette a suffragio popolare» che
sta alla base della formula politica democratica è «la grande superstizione
del secolo presente»10. Il fatto che le formule politiche siano delle supersti-
zioni non toglie che il bisogno sul quale si fondano queste superstizioni,
tuttavia, sia ben reale. Le formule politiche non sono dunque solo «volga-

7
 Ivi, p. 230.
8
 Il testo prosegue: «Così, ad es., in una società fortemente imbevuta di spirito cristiano, la
classe politica governa per volontà del sovrano, il quale alla sua volta, regna perché è l’unto
del Signore. […] I poteri di tutti i legislatori, magistrati ed impiegati negli Stati Uniti d’Ame-
rica emanano direttamente o indirettamente dal suffragio degli elettori, ritenuto espressione
della volontà popolare» (G. Mosca, La classe politica, cit., p. 85).
9
 Ivi, p. 86.
10
 Ivi, p. 87.
La critica elitista della democrazia 63

ri ciarlatanerie inventate appositamente per scroccare l’obbedienza delle


masse». Esse al contrario «corrispondono ad un vero bisogno della natura
sociale dell’uomo», un bisogno universalmente diffuso di dare al potere
una base di tipo morale. Poco conta per Mosca che questa sia semplice-
mente una «illusione generale». Più importante è il fatto che essa «serve
potentemente a cementare l’unità e l’organizzazione politica di un popolo e
di un’intera civiltà»11. Per quanto frutto di un illusione, le giustificazioni di
tipo morale hanno delle conseguenze pratiche decisive sul grado di coesio-
ne di una società, e dunque sulle sue capacità di affrontare con successo la
lotta storica per la sopravvivenza:

Una parte della teoria selezionista possiamo ammettere come vera; cre-
diamo infatti che nella lotta tra due società (caeteris paribus), debba trionfare
quella i cui individui sono in media più provvisti di senso morale, e che
quindi saranno più uniti, più fiduciosi gli uni negli altri, più capaci di ab-
negazione12.

Le società più moralmente avanzate godono secondo Mosca di un van-


taggio competitivo nella lotta internazionale per la sopravvivenza. Il mag-
giore effetto coesivo della formula meritocratica trova qui spiegata la sua
efficacia storica, ovvero la ragione del tendenziale successo delle élite me-
ritocratiche sulle élite che fondano il proprio potere sulla forza o sulla ric-
chezza. La dominanza di questo genere di élite distingue i paesi di civiltà
più avanzata, dove l’organizzazione politica è più progredita e gli istinti
morali «diventano più coscienti e perfetti»13, dalle civiltà più arretrate che
simili istinti non hanno ancora portato a coscienza14, trasformandoli in isti-
tuzioni specificamente dedicate alla difesa giuridica della società.

4.1.3 La difesa giuridica

Il concetto di difesa giuridica è centrale nella comprensione della poli-


tica di Mosca. Una volta che sia stato smascherato il fatto che tutti governi
sono di fatto delle oligarchie, la sola maniera per distinguere un buon go-
verno da uno cattivo è quella di valutarne le rispettive capacità di difende-
re la società, ovverosia l’impatto che il governo ha da un lato sulle libertà
dei cittadini e dall’altro sul complesso dell’ordine sociale. Tra le esigenze
dell’ordine e della libertà Mosca non vede alcuna armonia prestabilita. Al

11
 Ivi, pp. 86-87.
12
 Ivi, p. 127.
13
 Ivi, p. 129.
14
 «Invero, se un paragone è possibile fra la morale di una tribù primitiva e quella di un po-
polo relativamente civile e che per lunghi secoli ha vissuto organizzato in grandi e numerosi
organismi politici, è quello stesso che si può fare fra la morale di un bambino e quella di un
adulto. La prima rappresenta l’incoscienza, la seconda la coscienza» (ivi, p. 128).
64 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

contrario, la difesa del godimento delle libertà private contiene in sé il ri-


schio di un uso egoistico delle stesse che risulterebbe socialmente distrutti-
vo. Il compito della politica è per Mosca quello di contemperare le esigenze
di libertà che nascono dagli individui e che contengono dentro di sé il ri-
schio di un godimento disordinato e antisociale con il bisogno di un ordine
comune. Per Mosca, che qui si avvicina alla coeva riflessione durkheimia-
na15 sul tema dell’integrazione sociale, oltre al compito di difendere le li-
bertà individuali, la politica ha il compito di costruire un «senso morale»
condiviso, che metta un freno agli istinti egoistici più distruttivi. Questa
doppia garanzia delle esigenze della libertà e dell’ordine, che Mosca de-
finisce difesa giuridica della società, è lo scopo fondamentale della politica.
Ora, secondo Mosca è impossibile che una efficace difesa giuridica del-
la società venga realizzata laddove un solo gruppo politico domina indi-
sturbato, e ciò indipendentemente dal fatto che esso si proponga come
interprete della volontà di dio o di quella del popolo: se ciò accade risulta
virtualmente impossibile trattenere gli impulsi egoistici dell’élite gover-
nante, impulsi che tendono inevitabilmente a trasformare il regime in un
dispotismo:

Una classe governante che tutto si può permettere in nome di un sovra-


no, che tutto può fare, subisce una vera degenerazione morale; quella dege-
nerazione che è comune a tutti gli uomini, i cui atti sono esenti dal freno e dal
controllo, che ad essi ordinariamente impone l’opinione dei loro simili. […]
Giacché tutto si può osare quando si interpreta la volontà, vera o supposta,
di chi crede avere il diritto che tutto pieghi a un suo cenno16.

Quanto più la macchina dello stato è potente, tanto più il rischio di una
sua gestione dispotica è grave e rende necessaria una netta separazione
dei poteri. Nelle condizioni di una società complessa e modernizzata, il
miglior governo è così quello che permette la partecipazione alla vita pub-
blica al maggior numero di forze sociali. Mosca riprende qui criticamente
la teoria della divisione dei poteri di Montesquieu, cui rimprovera un eccesso
di formalismo. Non basta che il potere venga diviso tra istituzioni formal-
mente distinte e deputate ad accoglierne le diverse componenti: si tratta
di dare voce alle diverse componenti della società civile, accogliendo l’ap-
porto di ciascuna di esse17. Colto dal punto di vista politico, d’altronde, lo

15
 A partire da De la division du travail social (1893) passando per i classici Le suicide (1897) e
Les formes élémentaires de la vie religieuse (1912), per arrivare sino agli studi della maturità sulle
istituzioni educative francesi, l’insieme della produzione teorica di Durkheim è dominata dal
problema dell’integrazione. Cfr. D. Schnapper, Qu’est-ce que l’intégration?, Gallimard, Paris
2007.
16
 G. Mosca, La classe politica, cit., p. 139.
17
 «La semplice struttura formale delle leggi e delle costituzioni non può garantire la difesa
giuridica. […] Nella effettiva vita sociale, solo il potere può controllare il potere. La difesa
giuridica può essere assicurata solo quando sono funzionanti varie ed opposte tendenze e for-
La critica elitista della democrazia 65

stato per Mosca «non è che l’organizzazione di tutte le forze sociali»18. È


solo nell’ascolto e nella responsabilizzazione di questa pluralità di forze
contrapposte che il rischio di un dispotismo egoista dell’élite al potere può
essere scongiurato.
È a partire dall’elaborazione di questa teoria – la quale si avvicina a
quella tradizionale del governo misto – che il giudizio di Mosca sul regime
parlamentare si fa progressivamente più conciliante, segnandone il defini-
tivo posizionamento politico nel campo liberale. Se nella Teorica dei gover-
ni e Governo parlamentare19 il regime parlamentare è condannato come una
forma di governo priva di futuro, nella seconda edizione degli Elementi,
pubblicata nel 1923, Mosca – che due anni dopo firmerà assieme a Croce
il Manifesto degli intellettuali antifascisti – arriva a parlare della «grande su-
periorità dei regimi rappresentativi» alla quale fa risalire la ragione dello
sviluppo culturale, economico e politico della civiltà europea20.

4.1.4 Il rifiuto della democrazia

Ciò che Mosca continuò ad avversare ostinatamente fu invece la demo-


crazia che a suo parere aveva come sua conseguenza necessaria il socia-
lismo21. Non solo nella Teorica dei governi o in Le costituzioni moderne22 ma
ancora nella terza edizione degli Elementi che risale al 1939, ossia a due
anni prima della morte, Mosca ritiene che «il ventesimo [secolo] probabil-
mente liquiderà»23 – e che anzi abbia già in molti casi liquidato – quelle per-
niciose dottrine di origine illuminista che ritengono che «Governo libero,
egalitario, legittimo, sia esclusivamente quello basato sulla volontà della
maggioranza»24 che trasmette i suoi poteri ai propri mandatari tramite lo
strumento del suffragio universale.
Per Mosca il suffragio non è un principio dotato di alcuna superiore le-
gittimità, ma solo un mezzo di selezione dell’élite dirigente:

Quando si dice che gli elettori scelgono il loro deputato, si usa una locu-
zione molto impropria; la verità è che il deputato si fa scegliere dagli elettori,
e, se questa frase sembrasse in qualche caso troppo rigida e severa, potrem-
mo temperarla dicendo che i suoi amici lo fanno scegliere25.

ze, e dove queste si controllano e si reprimono a vicenda» (J. Burnham, I difensori della libertà,
Arnoldo Mondadori, Milano 1947, p. 117).
18
 G. Mosca, Elementi di scienza politica, cit., Vol. I, p. 212.
19
 G. Mosca, Teorica dei governi e Governo parlamentare, Loescher, Torino 1884.
20
 Cfr. N. Bobbio, Introduzione a G. Mosca, La classe politica, cit.
21
 Cfr. le Conclusioni del primo libro di G. Mosca, Elementi di scienza politica, cit.
22
 G. Mosca, Le costituzioni moderne, Andrea Amenta Editore, Palermo 1887.
23
 G. Mosca, Elementi di scienza politica, cit. Vol. I, p. 204.
24
 Ivi, p. 205.
25
 Ivi, p. 206.
66 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

I settari sostenitori dell’universalità del suffragio riponevano nell’in-


completa applicazione di questo principio l’origine di «tutte le imperfezio-
ni dei Governi a base rappresentativa»26. Per Mosca è il suffragio universale
stesso ad essere all’origine delle più pericolose patologie della modernità
politica:

[…] quando le assemblee, oltre ad essere luoghi di discussione e di pubbli-


cità, diventano, come accade nei Governi parlamentari, il corpo politico che
riassume in sé tutto il prestigio e tutto il potere dell’autorità legittima, allora,
malgrado il freno delle pubbliche discussioni, su tutta la macchina ammini-
strativa e giudiziaria può pesare la tirannia irresponsabile ed anonima degli
elementi che prevalgono nelle elezioni e parlano a nome del popolo27.

La possibilità di una simile tirannia irresponsabile ed anonima, spin-


ge Mosca a sostenere che il voto andasse distribuito solo a chi possedeva
la capacità di farne uso. In un articolo pubblicato nel giugno del 1911 sul
Corriere della Sera, Mosca sintetizzava così la propria avversione alle ipo-
tesi di riforma elettorale che il parlamento stava discutendo:

[…] mi sembra evidente che la capacità media degli elettori non potrebbe es-
sere dal suffragio universale migliorata. Infatti il difetto più comune a tutto
l’elettorato politico italiano è la imperfettissima visione e lo scarso sentimen-
to degli interessi generali del paese, troppo spesso sostituito dal culto degli
interessi locali, di classe, di mestiere o da quelli puramente individuali od
anche da una vaga simpatia per la persona anziché le idee del candidato.
Ora io non vedo come e perché questo difetto sarebbe attenuato colla iscri-
zione nelle liste politiche di un numero più o meno grande di analfabeti; e
non vedo neppure come e perché questa iscrizione dovrebbe diminuire i casi
di corruzione elettorale propriamente detta, di voti comprati con la distribu-
zione di vino e cibarie od anche a denari contanti28.

Mosca non avversò solo la riforma elettorale italiana del 1912 che avreb-
be esteso il diritto di voto agli analfabeti di almeno trenta anni, ma combat-
té ogni ipotesi di riforma proporzionale e di estensione del suffragio alle
donne. In un discorso di opposizione al governo Mussolini pronunciato
il 19 dicembre 1925 al Senato egli attribuirà proprio alla riforma propor-
zionale del 1919 – che pure nelle confuse contingenze del dopoguerra egli
aveva al opportunisticamente accettato – gran parte della colpa di quella
degenerazione del sistema parlamentare che aveva condotto sino all’in-
staurazione del regime29.

26
 Ivi, p. 205.
27
 Ivi, p. 210.
28
 G. Mosca, Effetti pratici del suffragio universale in Italia, in Id., Il tramonto dello stato liberale, a
cura di A. Lombardo, Prefazione di G. Spadolini, Bonanno Editore, Catania 1971, p. 135.
29
 Cfr. G. Mosca, Il suffragio proporzionale, in Id., Il tramonto dello stato liberale, cit.
La critica elitista della democrazia 67

4.2 Pareto e l’ideologia democratica

Il pensiero di Vilfredo Pareto presenta diverse analogie con quello di


Gaetano Mosca, a partire dal comune desiderio di ricostruzione della teo-
ria sociale su basi ‘scientifiche’ e dalla comune diffidenza nei confronti del
crescente potere politico assunto dalle classi popolari. Tuttavia nel corso
della sua vita Pareto negò risolutamente ogni derivazione della sua ope-
ra da quella di Mosca e i due, pur appartenendo indubbiamente entrambi
al campo conservatore, ebbero idee assai differenti su un ampio spettro
di questioni. Se Mosca infatti si avvicinò progressivamente a quel parla-
mentarismo che inizialmente aveva tanto disprezzato, Pareto si distaccò
nel corso del tempo dalla giovanile ‘fede’ liberista e liberale, e nella sua
maturità approdò ad un disincantato e spesso acido distacco dalla politica
parlamentare.

4.2.1 L’irrazionalità dell’agire umano

Rispetto a Mosca Pareto fu un critico ancora più spietatamente disin-


cantato degli ideali democratici. Ogni teoria dei diritti umani, ogni ideo-
logia solidaristica, pacifista, umanitaria, per non parlare di ogni forma di
socialismo in qualsivoglia sua declinazione gli apparirono nel migliore dei
casi come forme di religiosità moderna, e nel peggiore come favole assur-
damente scambiate per la realtà. Vi è alla base dell’opera di Pareto una con-
cezione antropologica pessimista che si esprime con feroce sarcasmo nei
confronti di ogni pretesa dell’uomo non solo di poter realizzare alti ideali,
ma più in generale di poter agire razionalmente:

[…] il principio della mia sociologia sta appunto nel separare le azioni logi-
che dalle non-logiche e nel fare vedere che per il più degli uomini la seconda
categoria è di gran lunga maggiore della prima30.

Azioni logiche per Pareto sono solo quelle che a)stabiliscono un mezzo
oggettivamente adeguato al fine che si propongono di raggiungere e b) so-
no compiute con la consapevolezza di questa adeguatezza. Tutte le azioni
che risultano adeguate ai fini solo da un punto di vista soggettivo – os-
sia tutte quelle azioni che ripongono la propria validità non tanto nell’ade-
guatezza dei mezzi scelti e nella scienza di questa adeguatezza, ma nella
semplice credenza nella loro giustizia o efficacia da parte di coloro che agi-
scono – sono azioni illogiche.
Per Pareto sono dunque illogiche la maggior parte delle azioni umane.
Ciò non significa che esse non siano reali o prive di conseguenze. Come
abbiamo già avuto modo di apprezzare nel pensiero di Weber, le credenze

 V. Pareto, Lettere a Maffeo Pantaleoni, Banca Nazionale del Lavoro, Roma 1960, Vol. II, p. 73.
30
68 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

svolgono un ruolo pratico di prim’ordine essendo alla base, tra le altre co-
se, del meccanismo dell’obbedienza e del potere31. Denunciare l’illogicità
delle azioni umani non esime dunque il sociologo dell’indagarle: egli però
non deve cadere nell’errore di scambiare le intenzioni soggettive per i fe-
nomeni oggettivi. Per usare la terminologia che Pareto impiegherà nella
sua opera principale – il Trattato di sociologia generale, la cui prima edizione
apparve nel 1916 – si tratta di distinguere le derivazioni – ovvero i ragiona-
menti più o meno sofistici con i quali le azioni sociali vengono giustificate
– dai residui – ovvero gli elementi di carattere irrazionale che dietro a questi
ragionamenti si nascondono e che possono essere conosciuti una volta che
le azioni sociali vengano scrostate dalla loro «vernice logica»32. Solo ope-
rando una simile distinzione si accede secondo Pareto ad uno sguardo dav-
vero scientifico della realtà. Pareto è qui vicino alla denuncia marxiana del
carattere sovrastrutturale dei fatti religiosi, culturali e politici. D’altronde
come lui stesso chiarì la sua distanza da Marx non riguardava il metodo
materialista, che anzi Pareto sente affine al proprio desiderio di costruire
una sociologia basata su un metodo logico-sperimentale, ma il fatto che es-
so fosse inserito da Marx nella dialettica storica della lotta di classe.

4.2.2 La derivazione democratica

Parlando della necessità del governo delle minoranze organizzate sulle


maggioranze disorganizzate, Mosca riconduceva la necessità di una classe
politica all’inevitabile dominio degli interessi organizzati su quelli amorfi
ed inarticolati. Pareto non si accontenta di questa spiegazione che fa dipen-
dere troppo la composizione della classe politica da necessità storiche. Per
fondare scientificamente la necessità del dominio delle élite, egli si rivolge
allora alla natura stessa delle cose. Chi si voglia mantenere ad una conside-
razione scientifica della società umana deve a suo avviso riconoscere che il

31
 «Guardare in tal modo gli eventi, ponendosi deliberatamente fuori dalla fede, è utile, indi-
spensabile per la scienza sperimentale, e può essere, è spessissimo di danno per le opere. Lo
scetticismo dà la teoria, la fede spinge all’operare, e di opere è costituita la vita pratica. I fini
ideali possono essere ad un tempo assurdi ed utilissimi per la società» (V. Pareto, Trasformazio-
ne della democrazia, a cura di D. Losurdo, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 43).
32
 «Quale che sia la validità di questa classificazione (su cui nessun critico è riuscito sinora a
dire una parola chiara), il punto centrale da ritenere è che per Pareto la forma di una società,
cioè un sistema sociale, è caratterizzato dagli istinti o sentimenti primordiali rivelati dai resi-
dui, non dalle derivazioni. I residui manifestano gli elementi semplici che costituiscono ogni
società, il dato naturale, non ulteriormente scomponibile e condizionabile. Chi voglia com-
prendere il meccanismo e quindi il funzionamento di un dato sistema sociale dovrà cercare di
individuare questi elementi semplici attraverso il vario modo con cui gli uomini si esprimono,
badando a distinguere le razionalizzazioni, che sono la parte più variabile e meno importante,
dalle manifestazioni degli istinti o dei sentimenti da cui appunto emerge, deve emergere, a
partire da quello che gli uomini dicono, quello che gli uomini sono in realtà, e come si com-
portano nelle loro relazioni reciproche» (N. Bobbio, Pareto e il sistema sociale, Sansoni, Firenze
1973, p. 21).
La critica elitista della democrazia 69

naturale dominio delle élite è la diretta conseguenza di un fatto, ineliminabile


e necessario: il fatto della diseguaglianza.

Piaccia, o non piaccia a certi teorici, sta di fatto che la società umana non
è omogenea, che gli uomini sono diversi fisicamente, moralmente, intellet-
tualmente33.

Dato un qualsiasi campo dell’attività umana esistono al suo interno per-


sone di differente capacità. Per ogni campo dell’agire umano esiste dunque
anche, necessariamente, una gerarchia al sommo della quale sta la classe
eletta, composta dai migliori, che costituisce ciò che Pareto chiama l’éli-
te. Questo postulato generale del pensiero di Pareto si declina nell’ambito
politico nell’affermazione dell’esistenza in ogni società di ogni tempo di
una élite politica, che corrisponde nella sua funzione alla classe politica di
Mosca, ma che più chiaramente rispetto a questa è espressione della supe-
riorità naturale dei suoi componenti.
Se le élite formano invariabilmente lo strato superiore della società, il
loro dominio non è eterno né incontestato. Le élite hanno una storia: es-
se compiono una parabola che può essere ascendente o discendente. Per
Pareto tutte le classiche teorie intorno alle forme di governo non sono altro
che derivazioni le quali esprimono il sentimento delle élite che si avvicen-
dano al potere e che, una volta che vi siano giunte, lo vogliono invariabil-
mente conservare:

La stabilità sociale è tanto utile che, per mantenerla, mette conto ricorrere
al sussidio di fini immaginari, di teologie varie, tra le quali può avere anche
sede quella del suffragio universale, e rassegnarsi a patire certi danni reali.
Perché sia utile turbarla, occorre che tali danni siano molto gravi; e poiché gli
uomini, non dallo scettico ragionamento scientifico, ma da vivi sentimenti
esprimentesi con ideali sono efficacemente guidati, possono giovare entro
certi limiti, ed hanno effettivamente giovato, per quanto scientificamente
assurde, le teorie del «diritto divino» dei re, delle oligarchie, del «popolo»,
delle «maggioranze», di assemblee politiche, ed altre simili34.

Affermando che la teoria democratica è una derivazione Pareto non


vuole dunque negare che essa abbia una diffusa efficacia. Pur essendo una
teoria non-logica, assimilabile per molti versi a una credenza di tipo reli-
gioso, essa svolge bene il proprio compito di giustificare il potere di una
particolare forma di élite. Questo potere, tuttavia, non si fonda in definitiva
su basi diverse da tutti quelli che lo hanno preceduto e che lo seguiranno:

 V. Pareto, Trattato di sociologia generale, UTET, Torino 1988, §2025.


33

 Ivi, §2184.
34
70 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

Tutti i governi usano la forza, e tutti asseriscono di avere il fondamento


nella ragione. Nei fatti, con o senza il suffragio universale, è sempre un’oli-
garchia che governa, e che sa dare alla «volontà del popolo» l’espressione
che desidera, dalla legge regia che che dava l’imperium agli imperatori ro-
mani, ai voti della maggioranza di un’assemblea eletta in modi vari, al ple-
biscito che diede l’impero a Napoleone III, e via di seguito, sino al suffragio
sapientemente guidato, comprato, manipolato dai nostri «speculatori». Chi
è questo nuovo dio che ha nome «suffragio universale»? Non è meglio defi-
nito, meno misterioso, meno fuori della realtà di tante altre divinità; né man-
cano nella sua teologia, come nelle altre, contraddizioni patenti. I fedeli del
«suffragio universale» non si lasciano guidare dal loro dio, ma sono loro che
lo guidano, mentre proclamano la santità della maggioranza, alla maggio-
ranza si impongono coll’«ostruzione», pure essendo una piccola minoranza;
e mentre bruciano incenso alla dea Ragione, non sdegnano menomamente,
in certi casi, il sussidio dell’astuzia, della frode, della corruzione35.

4.2.3 La circolazione delle élite

Ogni società storica è, è stata e sarà guidata da un’élite che usa, ha usato
e userà la forza per governare. Ciò che distingue le diverse società sono le
diverse derivazioni attraverso le quali le élite dei governanti giustificano
il proprio potere, e il diverso modo in cui la classe dei governanti trova
periodicamente ricambio nella classe dei governati, assorbendo al proprio
interno gli elementi migliori di questa. Quando ciò non accade, infatti, «la
parte governante si avvia verso la rovina, che spesso trae seco anche quella
dell’intera nazione»36. La necessità di questo ricambio è la maggiore ag-
giunta che Pareto fa alla teoria di Mosca. Per Pareto infatti,

Le aristocrazie non durano. Qualunque ne siano le cagioni, è incontesta-


bile che dopo un certo tempo spariscono. La storia è un cimitero di aristo-
crazie37.

Pareto nomina questo ricambio «circolazione delle élite». La circola-


zione delle élite è la principale variabile che determina l’equilibrio sociale:
quando infatti per qualche motivo la circolazione si interrompe e le élite
non sono in grado di assorbire al proprio interno gli elementi di natura supe-
riore nati all’interno della classe dei governati si possono generare pericolo-

35
 Ivi, §2183.
36
 Ivi, §2055. «Non è solo pel numero che certe aristocrazie decadono ma anche per la qualità,
nel senso che in esse scema l’energia e si modificano le proporzioni dei residui che loro gio-
varono per impadronirsi del potere e per conservarlo; ma di ciò diremo più lungi. La classe
governante viene restaurata non solo nel numero, ma, ed è ciò che più preme, in qualità dalle
famiglie che vengono dalle classi inferiori, che recano in essa l’energia e le proporzioni di resi-
dui necessari per mantenersi al potere» (ivi, §2054).
37
 Ivi, §2053.
La critica elitista della democrazia 71

si squilibri, il cui esito può essere la sostituzione rivoluzionaria del sistema


sociale presente con un altro di tipo differente.

Le rivoluzioni seguono perché, sia pel rallentarsi della circolazione della


classe eletta, sia per altra causa, si accumulano negli strati superiori elementi
scadenti che più non hanno i residui atti a mantenerli al potere, che rifuggo-
no dall’uso della forza, mentre crescono negli strati inferiori gli elementi di
qualità superiore che posseggono i residui atti ad esercitare il governo, che
sono disposti ad adoperare la forza38.

La sostituzione rivoluzionaria di un sistema sociale con uno differente


non rappresenta in nessun modo un’evoluzione. Pareto, più radicalmen-
te di Mosca, critica ogni filosofia ottimistica o progressiva della storia.
Radicalmente scettico nei confronti di ogni forma di evoluzionismo, egli è
più interessato alle costanti che reggono a-temporalmente i sistemi sociali
che alle dinamiche storiche che li attraversano. Certo, Pareto riconosce che
non esistono società immobili e che, anzi, ogni ordinamento sociale è in
perpetuo divenire. Solo che un tale movimento non compone alcuna storia:
esso appare piuttosto come una monotona ripetizione, un movimento ci-
clico o, per usare una parola amata da Pareto, ondulatorio, stimolato dall’e-
terno contrapporsi dei due principali residui: l’istinto delle combinazioni, che
stimola il mutamento, e la persistenza degli aggregati, che incarna il desiderio
umano di stabilità39. Tale dinamica dà luogo ad un susseguirsi ininterrotto
di eventi, all’interno del quale non sono riconoscibili cesure storiche decisi-
ve, ma solo fasi di accentramento o decentramento del potere e di sostitu-
zione dei suoi titolari attraverso la circolazione delle élite:

[…] se gli avvenimenti si studiano solo come fatti, lasciando da parte la fede,
si conosce tosto che le ere sono nuove solo di forma, mentre, nella sostanza,
sono punti corrispondenti a cime della curva continua del moto40.

38
 Ivi, §2057.
39
 Alla prevalenza relativa dell’uno o dell’altro di questi residui Pareto collega anche il pre-
dominio di due diversi tipi di élite, che a livello politico distingue – prendendo a prestito le
categorie di Machiavelli (cfr. il celebre cap. XVIII di N. Machiavelli, Il principe, a cura di G. In-
glese, Einaudi, Torino 2005.) – come i leoni e le volpi. Nei leoni che dominano prevalentemente
con la forza prevale un istinto aggregatorio; essi danno origine a società economicamente poco
dinamiche, spesso impregnate di forti credenze religiose. Se a dominare sono le volpi, nelle
quali predomina un istinto combinatorio e che dominano principalmente con le risorse dell’a-
stuzia, le società che ne derivano saranno economicamente più dinamiche e culturalmente
scetticheggianti. La differenza tra governo dei leoni e delle volpi dipende per Pareto dalla dif-
ferente alchimia nell’uso di quelli che sono, da che mondo è mondo, gli invariabili strumenti
di ogni governo: la forza e il consenso.
40
 V. Pareto, Trasformazione della democrazia, cit., p. 43.
72 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

L’avvicendarsi al potere delle differenti élite scandisce il ritmo di questo


movimento che, nell’equilibrio tra le tendenze centripete e quelle centrifu-
ghe dei residui, dà vita al monotono panorama della storia mondiale.

4.2.4 Le trasformazioni della democrazia

Sin dall’epoca del Trattato Pareto aveva rilevato che le democrazie libe-
rali «inclinano ognor più verso un reggimento di plutocrati demagogici, e
forse per tal modo si avviano a qualche trasformazione radicale, simile ad
una di quelle che già si osservarono pel passato»41. In una serie di articoli
pubblicati nel 1920 sulla «Rivista di Milano» – poi raccolti nel 1921 in un
volume dal titolo Trasformazione della democrazia –, Pareto torna ad interro-
garsi sulla questione, domandandosi se i tempi non siano maturi per una
simile radicale oscillazione. Nel contesto di questa interrogazione Pareto fa
propria una definizione «volgare» di plutocrazia e di democrazia, per cui
intende rispettivamente «l’importanza ognora crescente di due classi so-
ciali, cioè dei ricchi speculatori, e di quella degli operai»42. Secondo Pareto
i parlamenti moderni sono stati a lungo il più efficace strumento del pote-
re plutocratico, ossia del potere dell’élite capitalista dominante: servendosi
di essi i plutocrati hanno dominato il volgo «valendosi dei sentimenti – in
particolare di quelli nazionalistici – che ci sono nella plebe e traendola in
inganno»43.
L’esempio più eclatante dell’efficacia illusionistica della plutocrazia de-
magogica l’ha dato lo straordinario sostegno popolare alla guerra mondiale
scatenata dagli appetiti dei contrapposti imperialismi, un’ubriacatura na-
zionalista alla quale finirono per aderire anche i maggiori partiti socialisti
europei. E tuttavia, giocando con il fuoco dei sentimenti nazionali delle
plebi europee sino a trascinarle entusiaste lungo la china della reciproca
distruzione, la plutocrazia demagogica ha forse compiuto un passo troppo
azzardato, come dimostra in modo esemplare la vicenda della Rivoluzione
sovietica e il diffondersi di crescenti tensioni e rivendicazioni sociali
nell’Europa postbellica.
La crescente estensione del suffragio – che pure è una condizione ne-
cessaria della plutocrazia demagogica – ha progressivamente accresciuto
il peso politico delle classi popolari, favorendo il proliferare di tendenze
democratiche – nel senso ‘volgare’ qui sopra ricordato – incompatibili con i
principi della tradizione liberale, di cui l’esempio più lampante è il diffon-

41
 V. Pareto, Trattato di sociologia generale, cit., §2257.
42
 V. Pareto, Trasformazione della democrazia, cit., p. 83.
43
 Ivi, p. 84.
La critica elitista della democrazia 73

dersi del principio della progressività dell’imposta44. Il commento di Pareto


a riguardo non potrebbe essere più caustico:

Non sono trascorsi neppure cento anni che si reputava «ingiusto» il fare
approvare l’imposta da coloro che non la pagano; anzi era assiomatico e
creduto da secoli che, per un «giusto» tributo, ci voleva il consenso dei con-
tribuenti, e fu questo il fondamento del potere della Camera dei Comuni in
Inghilterra e di altre assemblee analoghe. […] La massima d’altri tempi che
sta all’origine dei nostri reggimenti parlamentari, secondo la quale spettava
a coloro che dovevano pagare i tributi lo approvarli, è ora, implicitamente
o esplicitamente, sostituita dall’altra che spetta a coloro che non pagano i
tributi lo approvarli e lo imporli altrui. Un tempo erano i servi «tagliabili a
pietà e misericordia», oggi sono tali gli agiati45.

La crescente conflittualità sindacale e sociale che segna il clima politico


postbellico di tutte le nazioni europee è per Pareto la conseguenza diretta
del carattere sempre più demagogico della plutocrazia, un carattere reso
necessario dall’inopinata estensione della democrazia (sempre volgarmen-
te intesa) al di là del regolato recinto della rappresentanza parlamentare,
sin nelle maglie delle relazioni sociali.
Pareto sembra intuire qui che simili pericolose tensioni non potranno
essere tenute a lungo a freno dalla plutocrazia demagogica per tramite di
un sistema parlamentare rappresentativo. Così, di fronte allo spettro dell’e-
rompere di una democrazia sociale, Pareto saluterà l’avvento del fascismo
come un’ottima occasione per rompere completamente con la mitologia
democratico-parlamentare nel suo complesso. Egli non crede che si possa
ritornare indietro rispetto alla concessione del suffragio universale, quan-
to piuttosto che sia necessario combinarlo con degli opportuni contrav-
veleni. Il superamento della democrazia rappresentativa e del suo carico
di irrequietezza deve avvenire a suo avviso «continuando a renderle for-
malmente omaggio»46, ispirandosi al modello bonapartista e ricercando la
legittimazione popolare di massa anche tramite un accorto uso dello stru-
mento referendario. Un giudizio che esprime la freddezza tipica di chi sa
che, in ogni caso, tutto cambierà perché nulla cambi.

44
 Questo classico tema liberale, che come abbiamo visto era già stato tematizzato da Con-
stant, non è affatto una reliquia ottocentesca. Esso è ripreso e sviluppato negli stessi anni da
una padre nobile del liberalismo novecentesco come Ludwig von Mises. Cfr. ad es. L. von
Mises, Liberalismo, Rubbettino, Saveria Mannelli 1997.
45
 V. Pareto, Trasformazione della democrazia, cit., p. 51 e 76.
46
 D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo, cit., p. 183.
74 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

4.3 Roberto Michels e la sociologia del partito politico

Nato a Colonia nel 1876 da una famiglia appartenente all’aristocrazia


borghese, Roberto Michels ebbe una formazione significativamente diver-
sa da quella di Mosca e Pareto. In gioventù Michels militò infatti nelle file
del partito socialista, dove si distinse per le posizioni radicalmente rivo-
luzionarie. Deluso dall’organizzazione del partito, si allontanò progres-
sivamente dalla politica attiva, spostandosi teoricamente verso posizioni
sempre più conservatrici. Studioso estremamente prolifico, il contributo
più originale di Michels è l’imponente studio dedicato alla sociologia dei
partiti politici, uno studio stimolato dalla diretta esperienza che egli ne fe-
ce, e dalla delusione che ne ricavò. La tesi di partenza di Michels – che
riconosce apertamente il proprio debito nei confronti di Mosca e Pareto,
ricordando nel contempo che la prima coerente critica delle tendenze oli-
garchiche delle organizzazioni ebbe origine tra gli «studiosi socialisti di
tendenza anarchica»47 con i quali aveva sentito in gioventù una particolare
affinità di vedute – è che «nella vita moderna dei partiti l’aristocrazia si pre-
senta volentieri in forma democratica mentre il contenuto della democrazia
è compenetrato di motivi aristocratici»48.

4.3.1 Le tendenze aristocratiche dell’organizzazione

La prima parte di questa osservazione è assai facile da comprendere,


e Michels in effetti risolve la questione già nel capitolo introduttivo. Per
quanto le elezioni siano «allo stesso tempo espressione e annientamento
della sovranità di massa»49, in un’epoca destinata alla democrazia l’osse-
quio formale ai principi dell’uguaglianza politica è una necessità impre-
scindibile, anche per il più convinto sostenitore dell’inegualitarismo di
matrice aristocratica.

Un candidato conservatore che si presentasse ai suoi elettori per dichia-


rare che egli non li reputa capaci di contribuire a determinare il destino del
paese e che perciò, a suo avviso, essi dovrebbero essere privati del diritto di
voto, dovrebbe essere giudicato come il più retto degli uomini ma il più folle
dei politici. Per entrare in parlamento non gli resta che un mezzo: scendere
con gesto democratico nell’arena elettorale, rivolgersi ai contadini e ai brac-
cianti agricoli come a colleghi e persuaderli che i loro interessi economico-
sociali coincidono con i suoi propri50.

47
 R. Michels, La sociologia del partito politico, cit., p. 505.
48
 Ivi, p. 39.
49
 Ivi, p. 189.
50
 Ivi, p. 33.
La critica elitista della democrazia 75

La dimostrazione della seconda parte dell’affermazione è meno imme-


diata. Ad essa è dedicato il resto del volume, che vuole indagare le ten-
denze oligarchiche cui finiscono per soggiacere anche i partiti di schietta
ispirazione democratica o, addirittura, rivoluzionaria. Si tratta di una di-
mostrazione più impegnativa, in ragione del fatto che «per la loro origine
e per il loro programmi, questi partiti rappresentano la negazione di tali
tendenze, nati come sono proprio in opposizione ad esse»51. Lo sforzo di
Michels appare dunque volto ad allargare l’ambito di applicazione della
logica politica elitista, applicando i suoi risultati fondamentali all’ambiente
che, per lo meno in linea teorica, meno si dovrebbe adattare a lasciarsi abi-
tare da tendenze oligarchiche: il partito rivoluzionario.
Il punto di partenza del ragionamento è il riconoscimento della ten-
denziale apatia politica delle masse, generalmente assai più interessate ai
propri privati ed individuali vantaggi che al bene pubblico. L’apatia che
caratterizza l’attitudine delle masse nei confronti della politica è una diret-
ta conseguenza del loro carattere amorfo, che le rende bisognose di essere
organizzate e dirette. Questo fenomeno di carattere generale si rispecchia
anche nella vita interna dei partiti politici dove le decisioni vengono pre-
se di norma da piccole minoranze che, in virtù di «un processo di sele-
zione spontanea»52 si separano dalla massa degli iscritti, accaparrandosi
il monopolio della decisione e liberando le masse da responsabilità che
non desiderano e che, per di più, non saprebbero come gestire. Michels
vede all’opera in questo processo la «legge sociologica fondamentale» che
sancisce come una necessità storica il tendere verso l’oligarchia di ogni or-
ganizzazione politica: «l’organizzazione è di per se stessa la causa del pre-
dominio degli eletti sugli elettori, dei mandatari sui mandanti, dei delegati
sui deleganti»53. Ogni partito politico tende in ragione di questa legge gene-
rale ad assumere una forma piramidale, che elevandosi dalla base rappre-
sentata da elettori e simpatizzanti culmina nel vertice occupato dal leader.

4.3.2 La leadership professionale

La principale qualità che deve contraddistinguere un leader è la ca-


pacità oratoria. Per Michels infatti, molto più che la solidità dei contenuti
politici in una «democrazia regolata dall’azione delle masse» conta la «sug-
gestione estetica ed emotiva della parola»54. La mancanza di doti oratorie
può essere surrogata dalla bellezza o dalla fama, forze accessorie non di-
sprezzabili nella definizione della personalità di un leader55. Quali che sia-

51
 Ivi, p. 40.
52
 Ivi, p. 84.
53
 Ivi, p. 523.
54
 Ivi, p. 110.
55
 «In un popolo dotato di un forte senso della bellezza, l’uomo bello possiede, ceteris paribus,
nei confronti dei suoi rivali meno belli un vantaggio nel favore popolare. Si è così potuto
76 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

no le virtù che li caratterizzano, per quei leader che si sono proposti come
loro interpreti e difensori le masse provano sentimenti di profonda gratitu-
dine che possono sfociare in vere e proprie forme di culto:

Le masse possiedono una tendenza profonda al culto della personali-


tà. Esse necessitano nel loro idealismo primitivo di divinità terrene, cui si
legano di amore tanto più cieco quanto più fortemente sono oppressi dalla
durezza della vita. Vi è qualcosa di vero in ciò che Bernard Shaw, nel suo
stile paradossale, afferma quando definisce la democrazia un aggregato di
idolatri nei confronti dell’aristocrazia che sarebbe un aggregato di idoli56.

Il potere del leader si consolida con l’esperienza accumulata nella dire-


zione, un’esperienza che lo fornisce di un’oggettiva e formale superiorità
culturale. Acquisendo esperienza il leader, oltre ad impadronirsi di que-
sto oggettivo savoir faire professionale, si modifica anche moralmente. Per
Michels queste modificazioni sono di tenore inevitabilmente negativo: al-
lontanandosi progressivamente dall’idealismo delle origini, quando egli
ancora non rappresentava molto più di una molecola di quella stessa mas-
sa che si ritrova a guidare, il leader si fa via via più cinico, disincantato e
bramoso di potere. Così, per Michels, «L’inizio della formazione di una le-
adership professionale segna anche l’inizio della fine della democrazia»57.
Con la genesi di una leadership professionale lo svuotamento dall’interno
delle istituzioni democratiche è completato. Come già Pareto aveva chiari-
to grazie alla sua teoria della circolazione delle élite, l’affermarsi di un po-
tere di tipo democratico non corrisponde nei fatti ad altro che all’affacciarsi
al potere di una nuova ed ambiziosa minoranza:

Anche se si volesse ammettere in teoria che il parlamentarismo si iden-


tifica con il dominio della massa, si dovrebbe in pratica poi riconoscere che
esso si trasforma sempre in un continuo inganno da parte della classe al po-
tere. Tra monarchia e democrazia, se basate entrambe su un sistema rappre-
sentativo, vi sarebbe al massimo una insignificante differenza di collocazio-
ne storica e non di sostanza. Il popolo sovrano si eleggerebbe al posto di un
re un’intera categoria di piccoli sovrani: incapace di esercitare liberamente
e in modo indipendente il suo dominio sullo Stato, si lascerebbe confiscare
volontariamente il proprio diritto fondamentale. La sua unica riserva con-
sisterebbe nel diritto «pericoloso e derisorio» di potersi eleggere di tanto in
tanto nuovi signori58.

rilevare in Italia che il tipo apollineo, nella vita di partito, è assai frequente fra i dirigenti
del popolo. Su trentatré deputati, quanti ne inviò al Parlamento nel 1901 il Partito Socialista,
almeno sedici erano più belli della media: prestanti, con magnifici occhi, nasi, denti e mezzi
vocali» (ivi, p. 114).
56
 Ivi, p. 101.
57
 Ivi, p. 189.
58
 Ivi, p. 191-192.
La critica elitista della democrazia 77

Nonostante la ferocia di questa critica Michels, quantomeno all’epoca


della stesura de La sociologia del partito, non volle essere considerato un av-
versario irriducibile della democrazia. Nelle conclusioni del testo egli in-
fatti rimarca che la democrazia, nonostante le sue impasse, rimane un utile
criterio etico ideale sulla base del quale misurare il grado di oligarchia del-
le istituzioni realmente esistenti. Per questo anche se irrealizzabile essa me-
rita non di meno di essere ricercata. Proponendo un’immagine che sarà
ripresa alla lettera da Schumpeter, Michels sostiene che di fronte all’impos-
sibilità della democrazia il

[…] compito del singolo dovrà essere dunque simile a quello di colui che
ricevette dal padre morente l’indicazione di un tesoro sepolto; non il tesoro,
che non si trova, ma il lavoro dedicato alla sua ricerca renderà fertile il cam-
po. La ricerca della democrazia non produrrà frutti di altra natura59

 Ivi, p. 531.
59
Capitolo V

Apogeo e critica della socialdemocrazia


Nel momento in cui le grandi parole della libertà
e del progresso sono pronunciate da capi e politici
nel corso di una campagna elettorale, sugli schermi
televisivi, sui palcoscenici e alla radio, esse si trasfor-
mano in suoni insignificanti che traggono significato
solamente dal contesto in cui si mescolano propa-
ganda, affari, disciplina e rilassamento.
H. Marcuse

5.1 La nuova era della democrazia postbellica

La profonda crisi vissuta tra gli anni ‘30 e ‘40 del Novecento costrin-
ge l’Europa, a conclusione della tragica avventura della guerra, a ripensa-
re in profondità alla forma della propria convivenza politica e sociale. La
bruciante esperienza della crisi economica scatenatasi a seguito del crollo
di Wall Street nel 1929 da un lato e quella delle soluzioni autoritarie in-
traprese per venirne a capo dall’altro, stimolano un processo di profon-
da rivisitazione delle forme, dei contenuti e delle finalità delle istituzioni
democratiche. La concorrenza dei sistemi socialisti rende questo processo
improcrastinabile, mettendo in moto una trasformazione accelerata delle
forme della politica che permette di sorpassare di un balzo le principali
perplessità che il liberalismo classico aveva sino ad allora conservato nei
confronti della democrazia1. Le perduranti resistenze all’estensione uni-
versale del suffragio, e in particolare quelle relative alla popolazione fem-
minile, sono superate nella maggior parte dei paesi europei, mentre, in
contrasto diretto con le politiche praticate dai regimi fascisti, viene conces-
so un ampio riconoscimento della libertà di iniziativa politica e sindacale
e viene perseguito un riassorbimento delle pulsioni plebiscitarie da questi
cavalcate, riassorbimento che prende la forma di un’estensione dei poteri
dei parlamenti a scapito di quelli dei governi2. L’idea che presiede a que-

1
 Per un ampio catalogo di queste resistenze si veda D. Losurdo, Controstoria del liberalismo,
Laterza, Roma-Bari 2005. L’opposizione di principio tra liberalismo e democrazia è al cen-
tro dell’interessante lavoro di Chantal Mouffe. Cfr. Ch. Mouffe, The democratic paradox, Verso,
London-New York 2005.
2
 La più celebre sintesi di questa nuova attitudine la si può trovare nelle opere di Hans Kel-
sen. Si veda ad es. H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, in Id., La democrazia, cit.
80 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

sta riorganizzazione del sistema politico è la ricerca di un nuovo equilibrio


o compromesso tra le forze sociali, all’interno del quale, per dirla con Claus
Offe, «il deficit di potenza sociale del proletariato sarebbe stato compensa-
to da un vantaggio di potenza politica»3.
L’esperienza americana del New Deal, l’influenza crescente della rifles-
sione economica di John Maynard Keynes, il rapporto Beveridge e l’attua-
zione dei suoi indirizzi resa possibile dalla vittoria laburista nelle elezioni
inglesi del 1945, sembrano sancire il definitivo superamento dell’ortodos-
sia liberale anche dal punto di vista economico. La capacità di autorego-
lazione dei mercati non basta più a garantire le condizioni di vita delle
masse dei cittadini. È giunto il momento per lo stato di assumere compi-
ti istituzionali nuovi: diversamente dagli stati liberali ottocenteschi che
predicavano l’astensione dello stato dal gioco economico, le democrazie
postbelliche si propongono di difendere la società dalle conseguenze più
perniciose dell’integrazione socio-economica mercantile, favorendo lo
sviluppo di forme di socialità alternative4. Le democrazie postbelliche in-
tervengono attivamente nell’economia, attraverso la programmazione, il
sostegno agli investimenti e quello al reddito, oltre che con la partecipa-
zione diretta alla produzione attraverso la creazione di imprese pubbliche.
Crescita e pieno impiego diventano l’obiettivo condiviso dell’azione di tut-
te le forze politiche. Governi e parti sociali collaborano (non senza tensioni)
al loro raggiungimento, nell’idea che esso costituisca un positive sum game,
con rivolti positivi per tutti gli attori, al di là dei differenti interessi che essi
possiedono. L’intervento statale si esplica sui piani più differenti: sanitario,
scolastico, lavorativo, assistenziale ecc. In questo modo il legame di citta-
dinanza – come la ricostruzione di Thomas H. Marshall5 mostra nel modo
più esemplare –, si viene a riempire di sostanza legandosi ad un pacchetto
di diritti che si fa via via sempre più ampio: oltre a continuare a difendere
i diritti civili cari alla tradizione liberale (e corrispondenti alle libertà di cui
parlava Constant) e ad impegnarsi a generalizzare i diritti politici che erano
stati il frutto dell’evoluzione storica della democrazia dei moderni, gli stati
riempiono l’involucro formale della democrazia di diritti sociali concreta-
mente esigibili. Nasce così il welfare state, nel quale la democrazia formale
di stampo liberale si ibrida con la democrazia sostanziale di ispirazione
socialista, realizzando un compromesso che garantirà per trent’anni – che
in Francia continuano ad essere ricordati come i trente glorieuses – crescita,
occupazione e condizioni di benessere crescente per le popolazioni delle
democrazie occidentali.

3
 C. Offe, Legittimazione politica mediante decisione a maggioranza?, in N. Bobbio, C. Offe, S.
Lombardini, Democrazia, maggioranza e minoranze, Il Mulino, Bologna 1981, p. 77.
4
 Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
5
 T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, a cura di S. Mezzadra, Laterza, Roma-Bari 2002.
Cfr. R. D’Alessandro, Breve storia della cittadinanza, Manifestolibri, Roma 2006; D. Zolo (a cura
di), La cittadinanza: appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 81

Questi anni di intensa crescita socio-economica, sono anche anni di fer-


vente invenzione democratica. Sono gli anni, ad esempio, nei quali il di-
ritto all’istruzione si generalizza e si estende sino ai gradi più alti degli
studi, aprendosi alla partecipazione di ampi settori della società che sino
ad allora ne erano stati esclusi6. Sono gli anni nei quali la partecipazione
politica dei cittadini si moltiplica nei luoghi e nelle forme, rendendo la cit-
tadinanza, oltre che più carica di diritti, sempre più attiva e rivendicativa,
e ponendo con forza il tema dell’uguaglianza non solo nei termini delle
opportunità ma anche dei risultati7. La sollecitudine per i diritti e per le
possibilità delle minoranze si accrescono esponenzialmente, preparando e
sostenendo una critica serrata dell’autorità e del privilegio che vedrà il suo
culmine nei movimenti del 1968. La critica dei movimenti, come vedremo,
non risparmia la nuova configurazione assunta dalla democrazia postbel-
lica, mostrando come l’equilibrio degli interessi sul quale il compromesso
del welfare state si fondava fosse assai precario. Il postwar consensus entrerà
definitivamente in crisi negli anni ‘70, sotto il fuoco incrociato della conte-
stazione teorico-politica da un lato e della recessione economica dall’altro.
La nuova configurazione che la democrazia era venuta assumendo non
dovette attendere sino ad allora per trovare i propri critici. L’ibridazione
che la democrazia formale di ispirazione liberale stava realizzando con
quella sostanziale di ispirazione socialista fece immediatamente sussultare
molte coscienze. Stava forse la democrazia per dissolversi nel socialismo?
Questa era esattamente l’idea di Joseph Schumpeter, la cui corrosiva critica
delle istituzioni democratiche è la vera chiave teorica di quel riduzionismo
democratico che, con il trionfo dell’ideologia neo-liberale, ci accompagna
sino all’interno della presente epoca post-democratica.

5.2 L’ipotesi riduzionista di Schumpeter

Secondo Alfio Mastropaolo Joseph Schumpeter può essere considera-


to come l’«ispiratore principale del paradigma postdemocratico di fine

6
 Per restare al nostro paese, l’introduzione del ciclo unico delle scuole medie risale al 1962
(precedentemente esistevano due canali formativi, uno dei quali non permetteva di accedere
che alla formazione di tipo tecnico), la scuola materna statale è istituita nel 1968, la libera-
lizzazione degli accessi all’università è del 1969 (sino ad allora l’accesso a molte facoltà era
riservato agli studenti usciti dal classico), al 1971 risale l’istituzione del tempo pieno, al 1974 i
cosiddetti ‘decreti delegati’ che riformano il governo delle istituzioni scolastiche introducen-
dovi importanti elementi di democrazia.
7
 Sono ad esempio gli anni nei quali vengono predisposte le prime forme di affirmative action
volte a fornire canali di accesso privilegiati alle minoranze nere, a parziale compensazione
delle discriminazioni subite. Simili misure vengono introdotte all’inizio degli anni ‘70 dalle
principali università americane, a coronamento delle lotte per i diritti civili degli anni ‘60.
Sul significato di questi strumenti all’interno del più ampio panorama delle politiche della
differenza, cfr. I. M. Young, Le politiche della differenza, Presentazione di L. Ferrajoli, Feltrinelli,
Milano 1996.
82 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

Novecento»8 ovvero il pensatore le cui idee – seppure formulate nel corso


di quel cambio di paradigma cui si è fatto sopra riferimento – meglio ne
riassumono l’ispirazione.
La riflessione di Schumpeter sulla democrazia può essere considerata
in una prima approssimazione come una variante dell’elitismo. Come ab-
biamo visto secondo gli elitisti la democrazia intesa come autogoverno del
popolo non è che un mito, una formula politica o una derivazione. In ogni
caso, per usare le parole di James Burnham, essa «non corrisponde ad alcu-
na attuale possibile realtà sociale»9. Le teorie elitiste ebbero una larga fortu-
na per tutto il corso del Novecento, tanto tra chi come Burnham o Harold
D. Lasswell10 se ne volle fare continuatore, quanto tra chi, come Charles
Wright Mills11 le usò per sviluppare una feroce critica della società america-
na a lui contemporanea. Per il sociologo Mills l’élite al potere è un gruppo
tendenzialmente chiuso che occupa le posizioni strategiche dell’economia,
della politica e dell’esercito e che concentra un potere sempre crescente,
rinforzandolo a partire dai legami familiari ed economici dei suoi membri.
L’esistenza di una simile élite doveva mostrare per Mills il carattere no-
minalistico ed ideologico della democrazia americana. Di parere diverso è
Lasswell, per il quale la democrazia non è una impossibile società priva di
una élite, ma una società nella quale l’élite mantiene un particolare rappor-
to con la massa, un rapporto che condiziona e determina la selezione dei
suoi componenti. Un’idea simile era già presente in Mosca che, in un capi-
tolo aggiunto nella seconda edizione degli Elementi di scienza politica, ave-
va distinto tra élite aristocratico-autocratiche ed élite democratico-liberali,
a seconda che la trasmissione del potere avvenga in maniera ereditaria e
dunque chiusa, oppure per via «elettiva» e dunque aperta al contributo del-
le classi inferiori12. Ponendo questa distinzione Mosca aveva considerato la
democrazia come una particolare modalità di selezione dell’élite dirigente.

8
 A. Mastropaolo, La democrazia è una causa persa?, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 125. Cfr.
anche A. Mastropaolo, Democrazia e postdemocrazia, «Ragion pratica», IV, 7, 1996, pp. 39-58; A.
Mastropaolo, Democrazia, postdemocrazia, neodemocrazia, «Rivista di diritto pubblico comparato
europeo», II, 4, 2001, pp. 1612-35.
9
 J. Burnham, I difensori della libertà, Arnoldo Mondadori, Milano 1947, p. 242. Il testo di Bur-
nham, il cui titolo originale inglese è The machiavellians, è una delle tappe fondamentali della
diffusione americana dei risultati della riflessione elitista. Il distacco di Burnham dal giova-
nile trockismo era già stato compiuto con The managerial Revolution nel 1941. Cfr. anche J.H.
Meisel, The Myth of the Ruling Class. Gaetano Mosca and the «Elite», The University of Michigan
Press, Ann Arbor 1958.
10
 Cfr. H. D. Lasswell, A. Kaplan, Potere e società: uno schema concettuale per la ricerca politica, Il
Mulino, Bologna 1997.
11
 Secondo Mills il «sistema americano del potere è tale per cui il vertice è molto più unificato
e molto più potente e la base molto più disunita e pertanto impotente, di quanto suppongano
generalmente coloro che si lasciano fuorviare osservando gli strati medi del potere stesso: i
quali né esprimono la volontà della base, né determinano le decisioni del vertice» (Ch. Wright
Mills, L’élite del potere, Feltrinelli, Milano 1970 (1956), p. 34).
12
 Cfr. N. Bobbio, Teoria delle élites, cit.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 83

Anche Burnham, per il quale come abbiamo visto la democrazia intesa in


quanto autogoverno del popolo non corrisponde ad alcun fatto sociale, la
democrazia costituisce tuttavia «uno speciale meccanismo di governo della
classe eletta, differente da altri meccanismi»13. Il funzionamento di questo
speciale meccanismo è al centro dell’indagine di Schumpeter sulla quale ora
ci dobbiamo soffermare.

5.2.1 Aporie del popolo democratico

L’opera di Schumpeter si concentra essenzialmente su problematiche di


carattere economico14. L’importanza di Schumpeter per la riflessione intor-
no alla democrazia dipende da un unico testo pubblicato per la prima volta
nel 1942, e poi in seconda edizione nel 1946: Capitalismo, socialismo e demo-
crazia15. Il testo, che assona per molti versi con le coeve analisi di Burnham
sulla cosiddetta ‘rivoluzione manageriale’, immagina un’ormai prossima
scomparsa del capitalismo a seguito della sostituzione della figura dell’im-
prenditore – grazie al quale, secondo lo Schumpeter economista, il profit-
to, e dunque lo sviluppo, possono sopravvivere alle leggi dell’equilibrio
economico teorizzate da Walras – con quella del manager. Il capitalismo
burocratizzato che ne deriverà sarà destinato ad essere sostituito, malau-
guratamente secondo l’Autore, dal socialismo.
Nel contesto di questa sconfortata analisi, e senza abbandonare il regi-
stro del pessimismo, Schumpeter si sofferma sul concetto di democrazia.
Secondo Schumpeter

La democrazia è un metodo politico, uno strumento costituzionale per


giungere a decisioni politiche – legislative ed amministrative – che non può
divenire un fine in sé a prescindere da ciò che quelle decisioni produrranno
in condizioni storiche date16.

Per Schumpeter è mortalmente rischioso che la democrazia si trasformi


in valore assoluto o ideale ultimo. Per suffragare questa sua tesi propone,
attraverso un esperimento mentale, di trasportarsi in un «paese immagi-
nario» nel quale, rispettando rigorosamente le procedure democratiche si
pratichino «la persecuzione dei cristiani, la caccia alle streghe, il massacro

13
 J. Burnham, I difensori della libertà, cit. p. 243.
14
 Cfr. J. Schumpeter, L’essenza e i principi dell’economia teorica, a cura di G. Calzoni, Laterza,
Roma-Bari 1982; J. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, a cura di P. Sylos Labini, Firen-
ze 1977; J. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, a cura di P. Sylos Labini e L. Occhionero,
Torino 1990.
15
 L’edizione attuale è postuma, essendo stata pubblicata nel 1954 integrando anche il testo di
una conferenza tenuta da Schumpeter all’American Economic Association di New York pochi
giorni prima della morte.
16
 J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, ETAS, Milano 2001, p. 231.
84 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

degli ebrei». Una simile prassi non verrebbe resa legittima dal semplice ri-
spetto delle procedure. Ciò dimostra, a parere di Schumpeter, che

[…] ci sono ideali ed interessi ultimi che anche il più fervente democratico
metterà al di sopra della stessa democrazia, e, se si dichiara partigiano infles-
sibile del credo democratico, ciò significa che è convinto di trovare nella de-
mocrazia una garanzia di difesa di quegli ideali ed interessi, come la libertà
di coscienza e di parola, un governo civile ecc.17.

Schumpeter, erede qui della tradizione liberale ottocentesca, vuole pro-


porre una concezione di democrazia fondata sulla tutela delle libertà per-
sonali che si discosti il più nettamente possibile dall’idolatria della volontà
popolare. Per arrivarci egli parte da un’analisi che vorrebbe realistica del
metodo democratico, di cui scompone la complessità intorno a due assi
portanti: per arrivare ad una adeguata comprensione di ciò che significa
democrazia, da un lato si tratterà di capire da chi il potere democratico sia
effettivamente detenuto, dall’altro come si configuri concretamente il suo
esercizio18.
Schumpeter si domanda anzitutto da chi sia composto il demos cui
la teoria democratica fa riferimento. La storia ci fornisce infatti un gran
numero di esempi che dimostrano che il soggetto del potere democratico
non è mai stato la totalità del popolo. Tralasciando l’ovvio caso della de-
mocrazia schiavile dell’antica Grecia, anche nel caso delle democrazie più
avanzate l’esclusione dei minori dal suffragio lo dimostra in modo inequi-
vocabile. Questa esclusione è basata su argomenti capacitari che, mutatis
mutandis, possono essere applicati altrettanto efficacemente per legittima-
re democraticamente l’esclusione, diversamente fondata (l’abilità/disabilità
fisica, il sesso, l’appartenenza religiosa, quella razziale ecc.), di parti più o
meno ampie della popolazione. E ciò perché, in definitiva, per Schumpeter
l’unica definizione realistica di popolo democratico è quella che afferma che
ogni popolo può autodefinirsi come meglio crede19.
Dal punto di vista dell’esercizio, la parola democrazia sembra alludere
al fatto che il popolo, comunque esso si autodefinisca, si debba governare
da sé. Per Schumpeter il governo da parte del popolo è possibile a rigore
solo nel caso di comunità di piccole dimensioni, nelle quali «tutti i membri
del popolo, così come la costituzione lo definisce, partecipino effettivamen-

17
 Ibidem.
18
 È curioso notare come Schumpeter anticipi qui quasi letteralmente la metodologia impiega-
ta da Bobbio nella costruzione della sua definizione minima. Per un commento si può vedere
M. Bovero, Contro il governo dei peggiori. Una grammatica della democrazia, Laterza, Roma-Bari
2000.
19
 È la stessa conclusione cui giunge, a partire da tutt’altre premesse e preoccupazioni, Micha-
el Walzer in Sfere di giustizia, Feltrinelli, Milano 1983.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 85

te all’opera legislativa e amministrativa»20. In tal modo per Schumpeter, co-


me già era accaduto per Rousseau, l’autogoverno del popolo democratico
è impossibile nelle dimensioni di uno stato moderno. Così ciò che carat-
terizza una democrazia non può essere né la partecipazione della totalità
del corpo sociale (del popolo) al governo, né l’esercizio diretto del potere
da parte del popolo (comunque esso sia definito). Piuttosto che riferirsi ad
un fantomatico governo del popolo meglio sarebbe dunque intendere con il
termine democrazia la più modesta immagine di un governo «approvato dal
popolo»21.

5.2.2 Democratici per definizione

Se a rigore la democrazia è impossibile, come si spiega che molti siste-


mi politici si autodefiniscano democratici? Per Schumpeter la soluzione al
problema riposa su di una «convenzione arbitraria» – e storicamente de-
terminata – attraverso la quale si attribuisce alla nozione di governo de-
mocratico un significato specifico. È per via di questa convenzione che se
pure «il popolo non ha mai governato nella realtà, nulla impedisce di farlo
governare per definizione»22. Per Schumpeter democrazia è un termine do-
tato di un valore convenzionale: essa «significa soltanto che il popolo ha l’op-
portunità di accettare o rifiutare gli uomini che dovranno governarlo» in
un regime di «libera concorrenza fra i candidati alla leadership per il voto
degli elettori»23.
Il fatto che i regimi politici all’interno dei quali ci troviamo a vivere si
(auto)definiscano come democrazie è dunque il risultato di una conven-
zione linguistica. Questa scelta, ci spiega Schumpeter, ha un carattere am-
piamente ideologico. Venuto meno il paludamento sacro del potere – che ha
avuto la sua estrema espressione nel Patriarcha di Filmer con il quale aveva
già polemizzato il Locke dei Trattati sul governo24 – si trattava di ricoprire il
potere di una aura carismatica di tipo nuovo ed egualitario. A ciò doveva-
no servire le idee della volontà e della sovranità popolare che – coniugan-
dosi con una filosofia sociale di stampo razionalistico, individualistico ed
edonistico – hanno segnato l’avvento della modernità democratica. La teo-
ria classica della democrazia moderna ritiene dunque che il metodo demo-

20
 J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, cit., p. 235.
21
 Ibidem. Questa formulazione, tuttavia, è a sua volta imprecisa, poiché non permette di
distinguere la specificità dei governi cosiddetti democratici rispetto a tutte quelle forme di
governo autocratiche, dittatoriali, oligarchiche o plutocratiche che «ottennero normalmente
l’appoggio totale e spesso entusiastico di una maggioranza schiacciante del popolo».
22
 Ivi, p. 236.
23
 Ivi, p. 271.
24
 Sul tema si possono vedere le Introduzioni alle due sole edizioni italiane che contengano
il testo di entrami i Trattati: J. Locke, Due trattati sul governo e altri scritti politici, a cura di L.
Pareyson, UTET, Torino 1982; J. Locke, Due Trattati sul governo, a cura di B. Casalini, cit..
86 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

cratico permetta al popolo – il corpo collettivo composto dalla somma degli


individui liberi, eguali e razionali – di prendere decisioni politiche capaci
di realizzare la volontà generale, una volontà che tende per sua natura a re-
alizzare il bene comune. Una simile definizione, per Schumpeter, ha valore
solo nella misura in cui essa permette di surrogare, a tutto vantaggio della
coesione sociale, la perduta fede nella derivazione divina del potere politi-
co. Letta in questo modo, ovverosia letta in quanto ideologia, la democrazia

[…] cessa di rappresentare un metodo razionalmente discutibile, uno stru-


mento come una macchina a vapore od un disinfettante, e diviene […] un
ideale o, meglio, una parte di uno schema ideale delle cose. La stessa parola
può assurgere a bandiera e simbolo di tutto ciò che all’uomo è caro, di tutto
ciò che egli ama nella propria nazione25.

5.2.3 Critica della volontà popolare e del bene comune

Per quanto Schumpeter sappia bene che la fede democratica – così come
quella religiosa – non può essere eliminata mostrandone la distanza dai
fatti, egli si adopera in una sistematica distruzione delle premesse teoriche
della democrazia: il concetto di bene comune e la libertà e razionalità della
volontà popolare.
Anzitutto si tratta di capire che il bene comune non è univocamente de-
finibile, poiché gli uomini non sono affatto degli atomi intercambiabili ed
omogenei. L’eguaglianza, per Schumpeter come già per Pareto, «come af-
fermazione di fatto sulla natura umana, non è vera in nessun senso imma-
ginabile». Anzi, quando la «fraseologia democratica» tenta di identificare
ogni forma di ineguaglianza con l’ingiustizia essa non fa altro che ripren-
dere i temi tipici della «psicologia dei falliti e dell’arsenale del politicante
che la sfrutta»26.
Ma se anche si potesse definire univocamente un bene comune, esso
implicherebbe una convergenza sui mezzi e sui tempi atti a realizzarlo con-
cretamente che è impossibile stante la tendenziale irrazionalità dell’agire
umano e, particolare non certo secondario, la sua esposizione all’azione di
persuasori interessati:

Gli economisti che hanno imparato ad osservare più attentamente i fatti


di loro competenza si sono accorti che, anche nelle circostanze più banali
della vita quotidiana, i consumatori non rispondono all’immagine che i testi
di economia solevano darne. Da un lato i loro bisogni sono tutt’altro che
definiti, e le azioni che ne derivano tutt’altro che pronte e razionali; dall’al-
tro, sono talmente esposti all’influenza della pubblicità e di altri metodi di
convinzione, che spesso i produttori sembrano dettar loro legge invece di

25
 J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, cit., p. 253-254.
26
 Ivi, p. 242.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 87

lasciarsene dirigere. Particolarmente istruttiva è la tecnica della pubblicità.


È vero che, qui, il richiamo alla ragione non manca quasi mai; ma più di un
argomento razionale contano un’affermazione più volte ripetuta o l’appello
diretto al subconscio27.

Ciò che qui Schumpeter descrive con riferimento alla vita economica
vale a maggior ragione rispetto a quella politica. Il marketing politico ha in-
fatti per Schumpeter un margine di persuasività superiore alla tecnica pub-
blicitaria :

La fotografia della più graziosa fanciulla che mai sia nata su questa terra
si dimostrerà, alla lunga, impotente a sostenere la vendita di una sigaretta
cattiva; non esiste salvaguardia altrettanto efficace nel caso delle decisioni
politiche. Molte decisioni d’importanza cruciale sono di tal natura da rende-
re impossibile al pubblico un controllo sperimentale28.

La distanza delle decisioni politiche dagli interessi e dalle competen-


ze del cittadino medio riducono drasticamente la sua capacità di control-
lo dell’operato dei suoi rappresentanti politici, inibendo sin dalla radice
la possibilità di una scelta politica autenticamente razionale. Esposti co-
me sono ai condizionamenti continui degli esperti di marketing politico,
i cittadini non possono che avere un senso della realtà e della responsabi-
lità politica molto flebile, e di conseguenza una volontà politica debole e
condizionabile:

Quanto più debole è l’elemento logico nei processi mentali collettivi e


quanto più sono assenti una critica razionale e l’influsso razionalizzatore
dell’esperienza e della responsabilità personale, tanto maggiori saranno le
possibilità di influenza di gruppi interessati a sfruttare la situazione. Questi
gruppi possono consistere di politici professionali o di esponenti di un inte-
resse economico o di idealisti di questo o quel tipo, o di persone ansiose di
organizzare spettacoli da parata. La sociologia di questi gruppi è, ai fini della
discussione in corso, indifferente: il solo punto importante è che, la natura
umana essendo, in politica, quella che è, essi sono in grado di forgiare e, in
limiti molto estesi, perfino di creare la volontà del popolo29.

Lungi dall’essere il motore del processo politico, la volontà popolare


si ritrova qui come suo prodotto, come il risultato abilmente artefatto del
gioco di creazione della volontà generale manovrato dai professionisti della
politica e dell’opinione. Ciò significa che in democrazia, per Schumpeter,

27
 Ivi, p. 245-246.
28
 Ivi, p. 251.
29
 Ivi, p. 250-251.
88 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

«il popolo non solleva né decide nessun problema, ma i problemi da cui il


suo destino dipende sono normalmente sollevati e decisi per lui»30.

5.2.4 La democrazia reale

Schumpeter considera costruzioni ideologiche tutte le definizioni della


democrazia che chiamano in causa concetti come ‘bene comune’ o ‘volon-
tà generale’. Per arrivare ad un’immagine realistica della democrazia egli
propone una sua definizione che avrà, sino ai nostri giorni, una straordina-
ria fortuna. Secondo questa definizione

[…] il metodo democratico è lo strumento istituzionale per giungere a deci-


sioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di deci-
dere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare31.

Una simile definizione contiene, a parere di Schumpeter, molti van-


taggi. Anzitutto essa consente di limitare il grado di iniziativa «del tutto
irrealistico» che la teoria classica attribuiva agli elettori, riconoscendo al fe-
nomeno della leadership un’importanza consona al suo ruolo nella politica
moderna. Per Schumpeter infatti

[…] le collettività agiscono quasi esclusivamente accettando una leadership –


è questo, si può dire, il meccanismo dominante di ogni azione collettiva che
non si riduca a un semplice riflesso –, e le proposizioni sul funzionamento e
sui risultati del metodo democratico che ne tengono conto saranno infinita-
mente più realistiche di quelle che le trascurano. Invece di fermarsi all’esecu-
zione di una volonté générale, esse cercheranno di mostrare come questa sor-
ge, o come viene surrogata o contraffatta. Così, quella che abbiamo chiamato
«volontà manipolata» non esula più dalla teoria, non è più un’aberrazione
dalla dottrina pura in cui preghiamo il Cielo di non cadere mai; anzi, vi si
incasella32.

Autentiche volizioni di gruppo possono anche esistere, ma è appunto


compito del leader quello di trascinarle fuori dalla virtualità e trasformarle
in concreti obiettivi di azione politica. Il popolo insomma, non agisce mai
direttamente in politica, se non nell’atto in cui sceglie il leader o il partito
da incaricare per il governo. Né, d’altronde, il governo è tenuto a «rappre-
sentare» il popolo. Sua funzione è governare, ovvero prendere decisioni
esplicitando «la volontà della maggioranza». Questa in nessun caso può
essere identificata con «la volontà del popolo» che «è un mosaico che la pri-

30
 Ivi, p. 252.
31
 Ivi, p. 257.
32
 Ivi, p. 258.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 89

ma non può assolutamente “rappresentare”»33. Una delle condizioni fonda-


mentali da rispettare perché un governo democratico possa essere efficace,
precisa infatti Schumpeter nel Corollario che conclude la sua trattazione, è
che gli elettori siano capaci di un severo autocontrollo democratico34. Questo
autocontrollo consiste in un accurato rispetto della divisione del lavoro tra
cittadini ed eletti, ovvero in un rispetto di quello stesso principio di di-
stanza rappresentativa sul quale aveva insistito Tocqueville. Essenziale è
infatti che le pressioni dal basso siano il più possibile ridotte, ossia che il
cittadino, una volta compiuto il proprio dovere elettorale, si autocontrolli e
capisca che l’azione politica non spetta più a lui ma agli eletti che lo rappre-
sentano. È questo un principio decisivo «universalmente riconosciuto dalle
costituzioni»35, un principio del quale però spesso sfuggono le conseguen-
ze. A parere di Schumpeter esso conferma da un punto di vista teorico la
necessità di abbandonare la dottrina classica della democrazia fondata sul-
le idee di bene comune e di volontà popolare, e da quello pratico non solo
impone di difendere la libertà dei rappresentanti politici da ogni forma di
mandato obbligatorio, ma consiglia di limitare severamente anche i tenta-
tivi informali di fare pressione su di essi da parte dell’opinione pubblica.

5.2.5 Una democrazia maggioritaria e competitiva

La definizione di democrazia che Schumpeter propone contiene al


proprio interno un implicito argomento a favore dei sistemi elettorali
maggioritari. Se infatti «il principio della democrazia» non implica la rap-
presentanza «ma significa soltanto che le redini del governo devono essere
affidate al concorrente che ottiene appoggi superiori a qualunque altro»,
«l’inefficiente» sistema proporzionale che permette «ad ogni sorta di idiosin-
crasie di affermarsi»36 deve essere scartato a vantaggio di quello maggiorita-
rio, intimamente meglio rispondente alla logica competitiva della concezione
schumpeteriana della democrazia.
La naturalizzazione del paradigma maggioritario contenuta nella de-
finizione schumpeteriana di democrazia spiega come per l’economista
austriaco l’attività politica democratica possa essere paragonata ad una
guerra. Come in guerra lo scopo della conquista di una porzione di terri-
torio non è in alcuna qualità intrinseca del territorio conquistato, ma nella
probabilità che tale conquista avvicini o allontani la vittoria, così, nell’agire
politico, il contenuto delle decisioni prese è irrilevante rispetto alla proba-
bilità che queste decisioni avvicinino o allontanino una vittoria elettorale:

33
 Ivi, p. 260.
34
 Cfr. ivi, p. 280.
35
 Ivi, p. 281.
36
 Ivi, p. 260.
90 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

[…] il significato o la funzione sociale dell’attività parlamentare è indubbia-


mente di produrre leggi e, in parte, misure di ordine amministrativo. Ma,
per capire come la politica democratica serva questo fine sociale, dobbiamo
partire dalla lotta di concorrenza per il potere e riconoscere che la funzione
sociale è assolta, per così dire, incidentalmente; nello stesso senso in cui la
produzione è incidentale rispetto alla realizzazione di un profitto37.

La politica nelle condizioni democratiche del suo esercizio viene così ri-
dotta dalla teoria di Schumpeter a semplice funzione incidentale della ben
più decisiva lotta per il potere. Da questa concezione residuale del politico
ripartirà pochi anni dopo l’ancor più cinica riflessione di Anthony Downs.
Per Downs lo scopo di ogni partito che partecipi al gioco elettorale demo-
cratico è solo apparentemente la realizzazione di questo o quel programma
politico-sociale. In verità «l’obiettivo primario degli appartenenti ai partiti
è» – invariabilmente – «quello di essere eletti»38. Nella prospettiva del radi-
cale egoismo metodologico fatta propria da Downs i politici

[…] agiscono solo per ottenere il reddito, il prestigio e il potere che derivano
dall’essere in carica. Di conseguenza non si verificherà mai nel nostro model-
lo che i politici cerchino una carica come mezzo per realizzare determinate
politiche; il loro unico obiettivo è di ottenere vantaggi connessi alla carica in
quanto tali: le proposte politiche sono semplicemente un mezzo per quegli
obiettivi personali che possono raggiungere solo se eletti. Su questo ragiona-
mento si basa l’ipotesi fondamentale del nostro modello: i partiti formulano
proposte politiche per vincere le elezioni; non cercano di vincere le elezioni
per realizzare proposte politiche39.

Ogni differenza ideologica tra i partiti concorrenti diviene in questo


modo del tutto secondaria rispetto allo scopo che li accomuna tutti: vincere
la competizione elettorale per il potere. Lo scopo di ogni partito politico divie-
ne così non tanto quello di realizzare la propria particolare concezione del
bene sociale ma quello di forgiare adeguatamente la volontà degli elettori al fine
di ottenerne il suffragio. Per farlo

[…] tutti i partiti, in ogni momento dato, si provvederanno di uno stock di


principi o di una piattaforma programmatica, e questi possono caratteriz-
zare il partito che li adotta ed essere importanti per il suo successo come
i marchi di fabbrica degli articoli per il magazzino che li vende; ma né il
magazzino può essere definito nei termini dei marchi di fabbrica dei suoi ar-
ticoli, né un partito è definibile nei termini dei suoi principi. […] Se così non

37
 Ivi, p. 269.
38
 A. Downs, Teoria economica della democrazia, Il Mulino, Bologna 1988, p. 63.
39
 Ivi, p. 60.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 91

fosse, non potrebbe avvenire il fatto di esperienza comune che partiti diversi
adottino esattamente o quasi lo stesso programma»40.

Schumpeter presenta questa cinica concezione fondata sull’economic


analogy come la sola possibile descrizione realistica della democrazia. In
verità il modello interpretativo proposto da Schumpeter è per lo meno
parziale. Esso sembra infatti costruito su quello che il politologo Arend
Lijphart chiama il modello maggioritario (o Westminster, giacché esso è
costruito sull’esempio britannico). Secondo Lijphart, che pure si interessa
di fornire una modellistica capace di descrivere il funzionamento delle de-
mocrazie reali, questa modello convive sulla scena internazionale con un
modello alternativo, che egli chiama consensuale41. Il tratto essenziale che
contraddistingue il modello Westminster è appunto il meccanismo elettorale
maggioritario. In questo genere di democrazie che privilegia fortemente i
vincitori delle lotte elettorali l’esistenza di minoranze dissenzienti stenta a
trovare espressione politica. Lo strapotere concesso alla maggioranza favo-
risce la polarizzazione della lotta politica, trovando la sua più caratteristica
espressione nel tendenziale bipartitismo delle democrazie maggioritarie.
Per queste sue caratteristiche il modello Westminster, secondo Lijphart, è
adatto solo a società fortemente omogenee tanto dal punto di vista linguisti-
co, che religioso, culturale, socio-economico ecc. Il modello maggioritario
contiene infatti dentro di sé, nota Lijphart sulla scorta del premio Nobel
per l’economia Arthur Lewis, «un principio di esclusione»42. Se infatti il
significato originario del termine democrazia è che «tutti quelli che sono
toccati da una decisione dovrebbero avere la possibilità di partecipare al-
la sua elaborazione, direttamente o tramite dei rappresentanti eletti» quei
sistemi che escludono dal processo decisionale i partiti sconfitti commet-
tono «una patente violazione del significato originario di democrazia»43.
Una simile violazione è particolarmente carica di conseguenze nelle società
plurali, ovverosia in tutte quelle società dove il pluralismo culturale, reli-
gioso, ideologico, linguistico o culturale dà luogo all’esistenza di minoran-
ze consistenti e divise. La logica maggioritaria, in simili situazioni, rischia

40
 J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, cit., p. 270. L’ipotesi è ripresa e svilup-
pata da Downs nei capitoli quarto e ottavo del suo Teoria economica della democrazia, cit.
41
 Il modello consensuale di democrazia si sviluppa in netto contrasto con il modello mag-
gioritario. Esso si fonda sul meccanismo elettorale proporzionale e ha come proprio obiettivo
fondamentale quello di rispondere «agli interessi del maggior numero possibile di persone»,
stimolando «un’ampia partecipazione al governo e […] un ampio accordo sulle politiche che
questo deve perseguire»(A. Lijphart, Le democrazie contemporanee, Il Mulino, Bologna 1988, p.
14). Le democrazie consensuali si caratterizzano per una offerta politica più ampia, non solo
nel numero ma anche nella qualità, un’offerta che per trovare espressione politica deve pro-
durre governi di coalizione. La necessità della mediazione tra i diversi gruppi fa sì inoltre che
il potere politico sia meno rigidamente accentrato nell’esecutivo.
42
 A. Lijphart, Le democrazie contemporanee, cit., p. 31.
43
 W.A. Lewis, Politics in West Africa, George Allen and Unwin, London 1965; citato in A.
Lijphart, Le democrazie contemporanee, cit., p. 31.
92 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

di risultare non solo inefficiente ma pericolosa: l’esclusione dalla gestione


del potere delle minoranze perdenti, infatti, rischia di alienarne la fedeltà
al sistema. In una condizione di forte pluralismo socio-politico il modello
maggioritario rischia insomma di trasformarsi in una dittatura della mag-
gioranza, capace di accentuare l’esclusione delle minoranze e, nei casi peg-
giori, di produrre le condizioni di una guerra civile44.

5.3 La contestazione da sinistra della democrazia welfarista

Indebolito dalla crisi petrolifera e confrontato per la prima volta con


una prospettiva di crescita economica difficile, il welfare state entra uf-
ficialmente in crisi nel corso degli anni ‘70. La contestazione teorica uf-
ficiale viene condotta da economisti come Friedrick von Hayek o Milton
Friedman – rispettivamente premio Nobel nel 1974 e 1976. L’interventismo
statale, si dice in queste critiche, ha costi esorbitanti, costi che sono all’o-
rigine della spirale perversa della stagflazione (stagnazione economica
sommata ad inflazione). La cura, nella più schietta tradizione liberale, è
identificata nel ritorno al virtuoso paradigma dell’astensione dello stato
dall’economia. Le politiche di disimpegno economico dalla spesa sociale
sostenute da Thatcher e Reagan realizzeranno concretamente questa ricet-
ta, mettendo fine al compromesso sociale che aveva sostenuto la crescita
economica e sociale delle democrazie nel periodo postbellico e aprendo la
strada al neoliberalismo trionfante della presente epoca globalizzata.
Le critiche neoliberali, tuttavia, non sono le sole ad essere piovute ad-
dosso alla democrazia welfarista. Rivendicando di contro all’invasività
della burocrazia e della tecnica una democracy of individual participation, la
Dichiarazione di Port Huron del giugno 196245 conteneva già un’esplicita di-
chiarazione di guerra alla sudditanza delle istituzioni democratiche agli
imperativi tecnocratici provenienti dalla società industriale. Non a caso a
icona teorica dei movimenti fu eletta la filosofia di Herbert Marcuse che
– con la sua denuncia del carattere unidimensionale della società del be-
nessere e del potere anti-utopico e dunque repressivo della stessa tolleran-
za che vi si pratica – ne incarnò esemplarmente gli ideali anti-burocratici
e anti-autoritari46. Per tutt’altra via dovevano giungere a risultati simili i
coevi sforzi genealogici di Michel Foucault47 che, in quegli stessi dispositi-

44
 Per una critica del modello maggioritario si veda M. Bovero, Contro il governo dei peggiori,
cit.
45
 La dichiarazione è consultabile all’indirizzo: <http://coursesa.matrix.msu.edu/~hst306/do-
cuments/huron.html> (08/12).
46
 Cfr. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967; Id., Critica della tolleranza,
Mimesis, Milano-Udine 2011.
47
 L’abbandono della prospettiva analitica centrata sulla sovranità fatta propria dalla micro-
fisica del potere foucaultiana è anche una denuncia del carattere nominalistico dell’insieme
del vocabolario politico democratico. Stimolato dal 68, il pensiero di Foucault proseguirà e
Apogeo e critica della socialdemocrazia 93

vi del welfare che la democrazia postbellica aveva considerato come delle


conquiste di civiltà, scorgeva l’ombra di altrettanti strumenti di disciplina
e controllo sociale. Tanto i movimenti studenteschi che la parte più critica
dell’accademia, avevano dunque avanzato delle critiche radicali delle de-
mocrazie del compromesso già prima della fine degli anni ‘6048. Il 68 portò
questa critica al suo compimento. Per analizzare i contenuti della contesta-
zione sessantottina alle istituzioni della democrazia rappresentativa pren-
deremo in considerazione qui di seguito due figure esemplari, quelle di
Johannes Agnoli e di Guy Debord, per concludere questa sezione avvici-
nando la riflessione del filosofo di ispirazione marxista Claus Offe.

5.3.1 Johannes Agnoli: democrazia e pace sociale

In quella che è stata definita la bibbia del movimento studentesco tede-


sco, La trasformazione della democrazia di Johannes Agnoli, la democrazia del
compromesso è integralmente rifiutata. Secondo Agnoli la trasformazione
che le democrazie occidentali hanno attraversato in seguito alla bancarotta
dell’esperimento nazifascista ha conservato intatto quello che era stato uno
degli obiettivi fondamentali della politica fascista, ovvero il coinvolgimen-
to delle masse nella difesa dell’ordine sociale borghese.
La novità della democrazia postbellica rispetto al fascismo starebbe
dunque più nei mezzi scelti che nell’obiettivo dell’azione politica. Tanto per
i fascismi che per le democrazie postbelliche l’obiettivo politico fondamen-
tale rimane il disciplinamento delle masse e la difesa dell’ordine. Rispetto
al fascismo, che pretendeva di ottenere questo risultato escludendo le mas-
se da qualsiasi forma di partecipazione politica e non disdegnando l’uso
della violenza nel caso di una sua perturbazione, le democrazie usano una
diversa strategia che impone come obiettivo primo ed irrinunciabile di
ogni politica statale quello che Agnoli chiama il «programma della pace
sociale»49. Scopo della politica democratica è difendere l’ordine borghese
disinnescando sistematicamente ogni antagonismo sociale. Diversamente
da quanto accadeva con il fascismo, nel programma della pace sociale il di-
sciplinamento è ottenuto minimizzando l’uso della repressione e conce-

approfondirà questo indirizzo di analisi nel corso degli anni ‘70, portando a compimento la
definizione del paradigma biopolitico. Cfr. da primo M. Foucault, Microfisica del potere. Inter-
venti politici, Einaudi , Torino 1977. Il quadro analitico sviluppato negli anni da Foucault è
particolarmente complesso, anche perché la sua analisi si sovrappone al superamento storico
della biopolitica welfarista – e all’affermarsi della nuova governamentalità neoliberale – che
stava avvenendo proprio in quegli anni. A proposito si vedano i corsi tenuti al Collège de
France, in particolare i decisivi Bisogna difendere la società (1975-1976), Sicurezza, territorio e po-
polazione(!977-1978), Nascita della biopolitica (1978-1979) tutti editi in Italia da Feltrinelli.
48
 Cfr. J.-W. Müller, L’enigma democrazia. Le idee politiche nell’europa del Novecento, Einaudi, To-
rino 2012.
49
 J. Agnoli, La trasformazione della democrazia, Feltrinelli, Milano 1969.
94 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

dendo alle masse operaie un livello di consumi sconosciuto alle precedenti


generazioni50.
Dal punto di vista politico per Agnoli «la base essenziale» di una simile
«politica di pacificazione» fondata sullo scambio tra opulenza e obbedien-
za, è il pluralismo parlamentare51. Nella prospettiva di Agnoli la funzio-
ne primaria dei parlamenti non è tanto quella di funzionare come istanze
decisionali, ma piuttosto quella di agire come una sorta di palcoscenico sul
quale rendere visibile l’esercizio del dominio da parte delle élite al potere.
Solo esibendosi pubblicamente nell’arena parlamentare il dominio si può
presentare come il risultato di una scelta popolare, confermando così la fi-
ducia delle masse nell’efficacia del gioco politico democratico al quale sono
chiamate a partecipare.
Il pluralismo politico, tuttavia, nasconde assai più di ciò che rende mani-
festo. Innanzitutto esso maschera la divisione polare della società in una
classe di dominanti e una di dominati, dandole l’apparenza di un confron-
to tra una pluralità di forze sociali dotate di eguale dignità e diritti. In se-
condo luogo nasconde dietro alla ritualità della dialettica parlamentare tra
queste forze l’impotenza dei parlamenti di fronte ai condizionamenti delle
lobbies economiche, le vere artefici delle scelte sociali fondamentali sulle
quali tutte le forze concordano a partire da considerazioni che appaiono
invariabilmente come frutto della necessità52. In terzo luogo rappresenta la
dialettica parlamentare come un processo aperto ai contributi di tutte le
forze sociali, laddove invece essa funziona come un meccanismo di rigida
selezione delle stesse: pur svolgendo una preziosa funzione integrativa, il
regime parlamentare – così come Marx aveva notato già nel 18 brumaio – è
infatti un regime irrequieto, che rischia di vedere nascere al proprio in-
terno posizioni anti-sistemiche. La democrazia postbellica, così come già
aveva fatto lo stato fascista, lavora per impedire ogni evoluzione che con-
duca in tale direzione. Da qui, l’insistenza sul rispetto delle regole che deve
caratterizzare tutti gli attori che partecipano al gioco politico parlamenta-
re, un’insistenza che secondo Agnoli ha lo scopo di marginalizzare tutte le
opposizioni realmente antagonistiche, ovvero tutte quelle opposizioni che,
proponendo alternative sistemiche all’ordine esistente, vengono accusate
di usare metodi incompatibili con la dialettica parlamentare poiché della
politica dei parlamenti democratici borghesi non condividono i fini.

50
 «il soddisfacimento ottimale [della classe operaia] si adatta a meraviglia a rendere invulne-
rabile la posizione della classe dominante e a creare il consenso verso il sistema politico» che
la difende (ivi p. 27).
51
 Ivi p. 28.
52
 L’espressione più aperta di questa tendenza è nelle ipotesi di governo tecnico, ipotesi che ri-
flettono la logica del nuovo partito quasi-istituzionale che «agisce come organo di classe della
conservazione perché pretende di non conoscere più classi ma soltanto ‘persone’, non idee in
rapporto con la società, ma soltanto ‘cose’. Al momento della decisione non prevalgono più i
bisogni e la pressione dei gruppi sociali esistenti, bensì ‘la forza delle cose’» (ivi p. 42).
Apogeo e critica della socialdemocrazia 95

Un adeguato controllo del pluralismo è dunque fondamentale per la


conservazione dell’equilibrio del sistema democratico, ossia per impedi-
re che si realizzi ogni prospettiva di revolution by consent53, ogni ipotesi
di radicale democratizzazione dei contenuti delle politiche parlamentari.
Selezionati sulla base della congruenza dei propri fini con gli imperativi
sistemici, i partiti che compongono l’arco parlamentare non appaiono più
come rappresentanti delle diverse parti di cui si compone il popolo, ma
semmai, come aveva insegnato la riflessione elitista, come rappresentan-
ti delle élite dominanti in concorrenza per il potere. Il risultato di questo
imperativo del controllo dei contenuti della finzione politica parlamentare è
che i partiti tendono sempre di più a presentarsi come rappresentanti di
«interessi generali» piuttosto che come espressione di concreti interessi ri-
conducibili a una precisa base sociale. In questo modo essi si trasforma-
no tutti in «partiti d’ordine», in istituzioni «quasi statali» il cui obiettivo
universalmente condiviso è la difesa dell’ordine sociale e politico esisten-
te. Riducendo la lotta politica delle forze sociali a contesa parlamentare, e
sincerandosi che questa contesa sia combattuta da attori sistemici, i partiti
contribuiscono così a isolare il conflitto sociale e le sue fonti, provveden-
do a disinnescare attraverso la rappresentazione parlamentare tutti i temi
pericolosi che sorgono dalla concretezza della vita sociale. In questo modo
essi appaiono ed agiscono, secondo Agnoli, come versioni pluralistiche del
partito unitario di matrice fascista ed hanno come obiettivo fondamentale la
perpetuazione del proprio dominio attraverso la spoliticizzazione delle mas-
se, ovvero attraverso la riduzione della loro attività politica al ruolo di pas-
sive spettatrici del teatro politico parlamentare.
Furono simili critiche della rappresentanza parlamentare che condusse-
ro i movimenti studenteschi di tutta Europa ad assumere come propria pa-
role d’ordine «il rifiuto di delegare», con toni che – come molti osservatori
conservatori e liberali non mancarono di far notare, descrivendo i movi-
menti come una sorta di «fascismo di sinistra» – a volte sembrano con-
sonare con l’antiparlamentarismo di un Carl Schmitt negli anni Venti54. E
tuttavia il rifiuto della rappresentanza parlamentare che i movimenti fece-
ro proprio era permeato da tutt’altro spirito: esso conteneva infatti dentro
di sé il desiderio di una diversa democrazia, non più delegata e rappresentati-
va, ma diretta e partecipata.

53
 Cfr. H. Laski, Reflections on the Revolution of our Time, Viking Press 1943.
54
 Cfr. J.-W. Müller, L’enigma democrazia. Le idee politiche nell’europa del Novecento, Einaudi, To-
rino 2012.
96 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

5.3.2 Guy Debord: lo spettacolo della democrazia

Dall’altro lato del Reno, pubblicando nel 1967 La società dello spettaco-
lo55, Guy Debord aveva dato forma ad una critica altrettanto spietata della
democrazia postbellica, una critica che converge con quella di Agnoli nella
denuncia della riduzione spettacolare subita dalle istituzioni democratiche
nel corso delle loro trasformazioni.
Per comprenderne gli argomenti sarà qui necessario anzitutto soffer-
marsi sul concetto di spettacolo. Come già la merce in Marx, così anche lo
spettacolo sembra a prima vista una cosa triviale e ovvia, ma se viene ana-
lizzato nei suoi dettagli si scopre «che è una cosa imbrogliatissima, piena
di sottigliezza metafisica e di capricci teologici»56. Per Debord lo spettacolo
è, in un senso più ristretto, «il discorso ininterrotto che l’ordine presente
tiene su se stesso» per tramite dei mezzi di comunicazione di massa, un
discorso che rappresenta «l’autoritratto del potere all’epoca della gestione
totalitaria delle condizioni di esistenza»57. Il «monologo elogiativo» in cui
tale discorso spettacolare consiste, si configura come un regime di comunica-
zione rigidamente unilaterale cui spetta un sostanziale monopolio dell’appa-
renza di fronte al quale l’unico atteggiamento possibile rimane quello della
«accettazione passiva». Funzione dello spettacolo è la produzione comple-
mentare della passività dello spettatore-consumatore da un lato, e di un’
immagine della realtà volta a rappresentarla come «un’enorme positività
indiscutibile e inaccessibile» dall’altro58. Questa immagine unificata e in-
contestabile è per Debord «la principale produzione della società attuale»,
una produzione che contiene dentro di sé tanto una «esposizione generale
della razionalità del sistema»59 che la rende possibile, che una complessiva
giustificazione dello stesso.
Ridurre lo spettacolo alla narrazione massmediatica e alle sue insidie,
tuttavia, significherebbe per Debord cadere vittime dell’inganno in cui lo
spettacolo consiste. Oltre ad essere quella parte della società sulla quale
la società «concentra ogni sguardo e ogni coscienza» come su un settore
separato nel quale si trova «il centro della falsa coscienza»60 della società
contemporanea, lo spettacolo, inteso in un senso più ampio, coincide in-
fatti con la forma stessa della società. In questo senso, la società non è ‘spet-
tacolare’ in ragione dello sviluppo del sistema massmediatico, ma perché

55
 G. Debord, La società dello spettacolo, Introduzione di C. Freccero e D. Strumia,
Baldini&Castoldi, Milano 2001-2002.
56
 K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Libro I, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 103.
57
 G. Debord, La società dello spettacolo, cit., §24. È in questo senso che Debord riconosce, alla
base del regime spettacolare contemporaneo, «la più vecchia specializzazione sociale», quella
del potere: con ciò «il più moderno» finisce per coincidere con «il più arcaico» (ivi, §23).
58
 Ivi, §12.
59
 Ivi, §14.
60
 Ivi, §3.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 97

lo spettacolo è assieme «il risultato e il progetto del modo di produzione


esistente»61. Così come «l’arcano della forma di merce» per Marx consisteva
«nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri
sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti
di quel lavoro»62, così per Debord, se si vuole procedere al di là del fetici-
smo delle immagini lo spettacolo non deve essere considerato semplice-
mente come «un insieme di immagini», ma come «un rapporto sociale fra
individui, mediato dalle immagini»63.
Sulla scia del Lukács di Storia e coscienza di classe64, nella sua personalis-
sima rilettura ed attualizzazione delle categorie marxiane Debord affida
una assoluta centralità alla tematica dell’alienazione. Per Debord l’affermar-
si del modo di produzione spettacolare non è tanto il prodotto di un’evo-
luzione tecnica del regime di comunicazione, quanto la perfezione di un
modo di produzione fondato sulla sistematica separazione del lavoratore
dal suo prodotto, una separazione che trova la sua forma più concreta nella
distanza che finisce per separare le immagini di cui lo spettacolo si nutre
dalla realtà che esse rappresentano e che rende possibile la loro produ-
zione e diffusione. La perfetta indipendenza delle immagini accumulate
dallo spettacolo corrisponde ad un proporzionale approfondirsi dell’alie-
nazione, ossia della separazione del lavoratore dal prodotto del suo lavoro.
Nelle condizioni dell’accumulazione spettacolare, il prodotto del lavoro uma-
no si rappresenta di fronte all’uomo come una potenza sempre più sepa-
rata e indipendente, una potenza sfuggita al suo controllo che attraverso
l’astrazione della propria irreale immagine unitaria nasconde nel modo più
efficace la frantumazione reale della società che lo produce. L’astrazione in
cui lo spettacolo consiste è dunque, per parafrasare ancora Marx, una cosa
sensibilmente sovrasensibile: essa è assieme il prodotto e la rappresenta-
zione dell’«occupazione totale della vita sociale» da parte della merce:

Il mondo contemporaneamente presente e assente che lo spettacolo fa


vedere è il mondo della merce dominante su tutto ciò che è vissuto. E il mon-
do della merce è quindi mostrato com’è, perché il suo movimento è identico
all’allontanamento degli uomini tra loro e rispetto al loro prodotto globale65.

Il contenuto unico che l’immagine spettacolare si ripromette di riassu-


mere e di diffondere è dunque la merce totale, ovvero l’insieme del lavo-
ro alienato e venduto sul mercato unico mondiale, che si ripresenta allo
sguardo dei suoi produttori – adeguatamente atomizzati e passivizzati, os-

61
 Ivi, §6.
62
 K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Libro I, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 103.
63
 G. Debord, La società dello spettacolo, cit., §4.
64
 G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973.
65
 G. Debord, La società dello spettacolo, cit., §37.
98 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

sia quantomai distanziati non solo dal prodotto del lavoro sociale ma anche
dalla coscienza di esserne gli artefici – sotto la forma di immagine. Come
per Agnoli lo scambio di opulenza e obbedienza tipico delle democrazie
del benessere permette di raggiungere la pace sociale senza intaccare real-
mente le strutture del dominio, così per Debord l’economia dell’abbondan-
za resa possibile dal welfare state non ha alleviato l’alienazione umana, ma
se possibile ha contribuito ad approfondirla:

Mentre nella fase primitiva dell’accumulazione capitalistica «l’economia


politica non vede nel proletario che l’operaio», che deve ricevere il minimo
indispensabile per la conservazione della sua forza-lavoro, senza mai con-
siderarlo «nei suoi svaghi, nella sua umanità», questa posizione delle idee
della classe dominante si rovescia non appena il grado di abbondanza rag-
giunto nella produzione di merci esige un surplus di collaborazione dall’o-
peraio. Questo operaio improvvisamente lavato dal disprezzo totale che gli
è chiaramente espresso da tutte le modalità di organizzazione e di sorve-
glianza della produzione, si ritrova ogni giorno al di fuori di essa trattato
apparentemente come una persona grande, con una cortesia premurosa, sot-
to il travestimento del consumatore. Allora l’umanesimo della merce prende a
proprio carico «gli svaghi e l’umanità del lavoratore, semplicemente perché
l’economia politica può e deve ora dominare queste sfere in quanto economia
politica. Così «il rinnegamento compiuto dell’uomo» ha preso in appalto la
totalità dell’esistenza umana66.

Completando sul terreno dell’immaginario l’occupazione di ogni am-


bito dell’esistenza umana iniziato sul terreno della produzione, lo spetta-
colo – in quanto apoteosi della merce, ovvero compiuta realizzazione ad un
tempo simbolica e materiale di quel dominio dell’economico sull’umano
che sin dal principio è contenuto nella logica del capitale67 – si garantisce la
fedeltà di quelle stesse classi operaie che non cessa di sfruttare. Lavorando
come guardiana dell’ordine esistente, l’industria culturale porta il sistema
a perfezione, ricostruendo su basi materiali qualcosa di simile all’illusione
religiosa che aveva dominato l’uomo nelle epoche premoderne. La critica
di questa illusione era stata al centro dell’opera di Feuerbach, e da essa
aveva preso le mosse il giovane Marx per costruire, come abbiamo visto,
la sua critica del carattere formale della democrazia borghese. Proiettando
nel cielo dell’astrazione politica la realizzazione dell’eguaglianza mentre
manteneva intatta la struttura diseguale della società civile, la democra-
zia borghese conservava per Marx un carattere tipico dell’alienazione re-
ligiosa: in quanto fondata sulla divisione e sull’opposizione del sociale e
del politico – dell’uomo e del cittadino –, essa rimaneva infatti «espres-
sione della separazione e dell’allontanamento dell’uomo dall’uomo», os-

66
 Ivi, §43.
67
 Cfr. il I capitolo del primo libro del Capitale.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 99

sia dell’indefinito differimento della soddisfazione dei suoi bisogni68. Per


tramite dell’industria culturale, la politica nell’era dello spettacolo porta
alla perfezione questo secolare processo di astrazione messo in moto dalle
rivoluzioni borghesi:

Lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa. La tec-


nica spettacolare non ha dissipato le nubi religiose in cui gli uomini avevano
deposto i loro poteri staccati da loro stessi: le ha soltanto riallacciate ad una
base terrena. Così è la vita terrena che diviene opaca e irrespirabile. Essa
non respinge più il cielo, ma alberga presso di sé il suo ripudio assoluto, il
suo ingannevole paradiso. Lo spettacolo è la realizzazione tecnica dell’esilio
dei poteri umani in un al di là; la scissione compiuta all’interno dell’uomo69.

Considerato da questo punto di vista lo spettacolo assume le sembian-


ze di un dispositivo politico ipnotico, il cui scopo precipuo è la produzione
e riproduzione dell’alienazione umana70, ottenuta attraverso la sostituzio-
ne di ogni attività vitale con la sua rappresentazione spettacolare. Questo
dispositivo, che rappresenta la perfezione del processo di allontanamento
dell’ambito politico dalla concretezza della società che lo produce, è per
Debord inseparabile dalla forma politica del moderno stato rappresen-
tativo, del cui potere separato rappresenta la più compiuta espressione.
Attraverso l’immagine della sua fantasmatica unità lo spettacolo occulta la
divisione della società e le lotte che la attraversano, silenziando attraver-
so l’unidirezionalità della propria narrazione ogni possibilità di critica e
di dissenso che fuoriesca dai canoni dello spettacolo politico. Non che la
narrazione spettacolare non preveda alcuna funzione per l’opposizione:
il fulcro della narrazione spettacolare è anzi proprio la lotta per il pote-
re, la competizione politica trasformata in spettacolo. Inglobata all’interno
del meccanismo spettacolare, la politica – che dovrebbe essere il luogo per
eccellenza dell’attività umana- viene banalizzata e addomesticata, ovvero ri-
dotta a oggetto di consumo passivo e a strumento di conservazione dell’e-
sistente. È così che, per Debord come per Agnoli, «la messa in scena della
democrazia inverte e sostituisce la sua pratica reale»71, riducendo la demo-
crazia a ideologia al servizio della «libertà dittatoriale» del mercato globa-
le, una libertà che è assieme temperata e garantita dal «riconoscimento dei
diritti dell’uomo-spettatore»72.
Di contro a questa riduzione ideologica della democrazia Debord – per
il quale il socialismo reale non rappresentava una alternativa allo spetta-

68
 K. Marx, La questione ebraica, cit., p. 66.
69
 G. Debord, La società dello spettacolo, cit., §20.
70
 Ivi, §24.
71
 M. Pezzella, Società autoritaria e democrazia insorgente, in G. Borrelli et al., La democrazia in
Italia, Cronopio, Napoli 2011, p. 182.
72
 Cfr. l’introduzione all’edizione della Société du spectacle pubblicata da Gallimard nel 1992.
100 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

colo, ma solo una sua variante73 – propone assieme al movimento situazio-


nista di perseguire in ogni modo il recupero dell’azione. Debord rifiuterà
sempre ogni forma di rappresentanza fosse anche quella del partito d’avan-
guardia74. Il suo ideale rimarrà quello di una democrazia di prossimità, di-
retta e partecipata, una democrazia di cui i Consigli operai e le Assemblee
studentesche sono per lui i più significativi esempi.

5.3.3 Claus Offe: la crisi di legittimazione delle democrazie

Claus Offe è un sociologo e filosofo politico vivente di ispirazione mar-


xista, che ha dedicato tra gli anni’70 e gli anni ‘80 un continuo interesse
alla crisi di legittimazione delle società capitalistiche avanzate. In una so-
cietà capitalistica matura, secondo Offe, il capitale ha subordinato alla pro-
pria «autovalorizzazione guidata dalla ricerca del profitto tutti gli ambiti
e aspetti della società»75. Con ciò la conflittualità e la contraddizione che
erano rimaste a lungo confinate all’interno del mondo del lavoro si amplifi-
cano e si estendono all’insieme della società. Il welfare state nasce secondo
Offe nel tentativo di rispondere a questa situazione.
Ora, secondo Offe lo stato democratico welfarista è giunto nel corso de-
gli anni ‘70 a completare il ciclo della propria maturazione e consunzione.
La ragione profonda della crisi delle istituzioni democratiche non risiede
in quel caratteristico mix di sovraccarico di richieste e di perdita di autorità
che l’analisi conservatrice riassumeva, come vedremo più nel dettaglio in
seguito, nel concetto di ingovernabilità76. Per Offe il problema degli stati de-
mocratici non è l’eccessiva conflittualità che è veicolata dalla crescita delle

73
 Nella prima edizione del testo – ripubblicata immutata una prima volta nel 1971 da Champ
Libre, e in seguito in una nuova versione da Gallimard nel 1992 – Debord distingue due forme
di spettacolo che nel loro insieme rendono conto della divisione mondiale dei compiti spet-
tacolari: lo ‘spettacolo concentrato’, tipico delle società del socialismo reale, e lo ‘spettacolo
diffuso’, tipico delle democrazie occidentali. Le due figure vengono sottoposte nel 1988 a una
revisione, per essere riunite nel contesto della stesura dei Commentari sulla società dello spetta-
colo nel concetto di ‘spettacolo integrato’.
74
 Debord e i situazionisti si ritrovano qui – per lo meno in una prima fase vicini alle posizioni
‘eretiche’ del gruppo di Socialisme ou barbarie, fondato a Parigi nel 1949 da Cornelius Casto-
riadis e Claude Lefort. Socialisme ou barbarie aveva chiaro sin da allora che la società sovietica
rimaneva una società di classe basata sullo sfruttamento brutale della forza lavoro nonostante
la proprietà fosse stata trasferita allo stato. Secondo gli autori, l’opposizione di classe in URSS
non era in effetti costruita intorno alla proprietà giuridica, ma piuttosto, poggiando sulla se-
parazione delle funzioni di direzione ed esecuzione del lavoro, sulla distinzione tra classe
dei burocrati-organizzatori e popolo oggetto dell’organizzazione. A partire da questa analisi
viene rifiutato il concetto stesso di partito di avanguardia, che si ritiene perpetui la medesima
scissione. Per i rapporti tra Debord e il gruppo di Socialisme ou barbarie cfr. A. Jappe, Guy De-
bord, Manifestolibri, Roma 1999.
75
 C. Offe, Lo stato nel capitalismo maturo, tr. it.parziale a cura di R. Schmidt e D. Zolo, Etas
Libri, Milano 1977, p. 20.
76
 Cfr. C. Offe, «Ingovernabilità»: lineamenti di una teoria conservatrice della crisi, in Id. Ingoverna-
bilità e mutamento delle democrazie, Il Mulino, Bologna 1982.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 101

aspettative popolari, ma piuttosto il progressivo «restringimento dell’area


del conflitto politico ammissibile»77 e la parallela tendenza a una involu-
zione tecnocratico-autoritaria delle democrazie assistenziali. Il problema
delle democrazie del compromesso sociale non è dunque la mancanza di
capacità di governo dell’esistente derivante dalla crisi di autorità delle isti-
tuzioni, ma al contrario l’estensione crescente degli ambiti di applicazione
delle politiche statali che incalzano il cittadino sempre più da vicino mani-
polando e gestendo le risorse umane e naturali in maniere sempre più per-
vasive e sofisticate. Dallo sviluppo della scienza a quello della tecnologia,
dalla gestione delle materie prime e dell’energia a quella dei beni comuni
come l’aria e l’acqua, dalle politiche della salute a quelle del territorio, non
vi è campo nel quale lo stato faccia mancare il proprio intervento. Ciò che
preoccupa Offe, di fronte a questo processo di progressiva sottomissione al
potere politico della realtà sociale, non è l’inefficienza economica, che come
vedremo sarà invece al centro delle critiche di matrice neo-liberale, ma la
mancanza di una cornice politica adeguata a rendere conto politicamente
della pluralità degli interessi e dei corrispondenti conflitti che di volta in
volta, in ognuno di questi interventi, sono in gioco.
Quella crisi della democrazia borghese che gli analisti di parte conser-
vatrice imputano ad un eccesso democratico è semmai per Offe il prodotto
di un suo difetto: dell’incapacità già denunciata da Marx di una democrazia
ancora essenzialmente formale di risolvere le contraddizioni tipiche del si-
stema economico capitalistico. L’emergere dello stato sociale ha certamente
modificato rispetto ai tempi di Marx i termini della questione. Lo stato assi-
stenziale non si limita più, come faceva lo stato liberale classico, a svolgere
la funzione di gendarme degli equilibri economico-sociali esistenti. Esso
al contrario interviene direttamente nell’economia reale, regolandola, ra-
zionalizzandola e amministrandone le crisi ricorrenti. Ora, secondo Offe
– le cui tesi assonano qui profondamente con quelle di Agnoli – è proprio
in questo nuovo ruolo assunto dallo stato che si nasconde il problema: il
nuovo equilibrio sociale realizzato dalla democrazia del welfare non solo
non ha aumentato eccessivamente la «reale potenza sociale» della massa
lavoratrice, ma anzi «ha in maniera nascosta rotto il potenziale rivoluzio-
nario del movimento dei lavoratori» integrandone alcune rivendicazione
allo scopo di meglio garantire «la continuità del dominio del capitale»78.
L’insieme delle trasformazioni politico istituzionali attraversate dalle de-
mocrazie occidentali ha modificato le strategie di questo dominio senza to-
glierlo: se nell’epoca del liberalismo classico questo poteva essere esercitato
per esclusione – ovvero escludendo la maggioranza della popolazione dalla

77
 C. Offe, Stato, ingovernabilità e ricerca del «non politico», in Id., Ingovernabilità e mutamento delle
democrazie, cit., p. 48.
78
 Cfr. C. Offe, Legittimazione politica mediante decisione a maggioranza?, in N. Bobbio, C. Offe, S.
Lombardini, Democrazia, maggioranza e minoranze, Il Mulino, Bologna 1981, p. 78.
102 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

partecipazione politica – nell’epoca della democrazia progressiva esso fun-


ziona per inclusione. Letto in questa prospettiva, lo stato assistenziale svolge
una funzione repressiva «indicata dal fatto che per essere qualificato a rice-
vere i benefici e i servizi […] il cliente non solo deve provare il proprio «bi-
sogno», ma deve anche essere un cliente «meritevole», un cliente cioè che
si conforma alle norme e agli standard economici, politici e culturali della
società» sottomettendosi al suo ordine morale»79. La funzione principale
del welfare state è dunque, a parere di Offe, quella di fornire una «formula
pacificatrice»80 delle contraddizioni tipiche di una società capitalistica, una
soluzione politica di compromesso al conflitto di classe capace di limitarlo ed
imbrigliarlo anche attraverso i meccanismi della contrattazione collettiva.
Il carattere ideologico della formula politica della democrazia del wel-
fare risiede, per Offe come per Debord, nel fatto che essa perfeziona la scis-
sione già denunciata da Marx tra la sfera astratta e pacificata della politica
della cittadinanza e dei diritti ad essa connessi e la sfera concreta e conflit-
tuale della società e del lavoro, impedendo la comprensione dell’intimo
legame esistente tra le due:

Nonostante gli indubbi miglioramenti delle condizioni di vita dei sala-


riati, la struttura istituzionale dello Stato assistenziale ha fatto poco o niente
per modificare la distribuzione del reddito fra le due classi di lavoro e ca-
pitale. L’enorme meccanismo della redistribuzione opera in direzione non
verticale, ma orizzontale, cioè entro la classe dei salariati81.

Lo stato assistenziale, in altre parole, interviene sempre post factum, mi-


tigando gli effetti negativi del mercato senza intaccare le cause che li pro-
ducono: le strutture di autorità e di proprietà che regolano la produzione.
Se pure esso concede ai lavoratori di poter contrattare le proprie condizioni
di lavoro a partire da una posizione di maggior forza, esso fa sì che questa
contrattazione sia mantenuta sempre e comunque nei limiti di una accetta-
zione dei rapporti sociali di produzione esistenti.
Per realizzare questo controllo il gioco politico viene progressivamen-
te neutralizzato, espellendo le forze disomogenee rispetto al fine della con-
servazione del sistema. Un riflesso politico importante della situazione di
compromesso tra le forze sociali che lo stato assistenziale rappresenta è
dato dal sorgere di ‘partiti-pigliatutto’, ovvero di partiti che – come già
avevano immaginato Schumpeter e Downs – sono simultaneamente sem-
pre più specializzati nella logica della competizione elettorale e sempre più
generalisti sia per quanto riguarda la propria base sociale di riferimento che

79
 C. Offe, Alcune contraddizioni del moderno stato assistenziale, in Id., Ingovernabilità e mutamento
delle democrazie, cit., p. 78.
80
 Ivi, p. 65.
81
 Ivi, p. 76.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 103

per ciò che riguarda i propri obiettivi politici82. Questi ultimi tendono anzi
sempre più a ridursi al raggiungimento del predominio nelle competizioni
elettorali:

[…] il «partito piglia tutto» socialdemocratico o liberal-conservatore piena-


mente sviluppato pretende caratteristicamente di essere aperto e sensibile a
tutte le domande politiche e a tutti i settori della popolazione, e così facendo
perde – e spesso nega attivamente – qualsiasi relazione specifica con rag-
gruppamenti culturali e/o socio-economici83.

Sembrerebbe così realizzarsi – per lo meno dal lato dell’input del pro-
cesso politico – una sempre più compiuta scissione tra un ambito della po-
litica, reso sempre più astratto, e quello della vita della società. Ciò non
significa che Offe non riconosca come i gruppi di interesse rappresentativi
delle diverse parti sociali non abbiano ruolo nella vita politica dei paesi de-
mocratici. Questo ruolo è anzi divenuto nel contesto dello stato assistenzia-
le maturo così rilevante che per influire sulle scelte politico-amministrative
questi gruppi non hanno più bisogno di passare attraverso la mediazione
della politica, ma intervengono direttamente e attivamente nel processo
decisionale usando i propri rispettivi «poteri di ostruzione» per produrre
attraverso «contrattazioni informali e altamente segrete» un consenso tanto
efficace quanto privo di formale legittimità democratica84.
Mentre i processi decisionali si spostano verso arene non politiche, l’a-
rena della politica democratica ufficiale vive un processo di rarefazione
progressiva dei propri contenuti. La trasformazione della forma e degli
obiettivi dei partiti fa sì che gli imperativi sistemici della crescita e della sicu-
rezza (declinata nel triplice senso della sicurezza sociale, della difesa dai
nemici esterni e del controllo interno della devianza) assurgano a principi
unanimemente condivisi dalla totalità dei partiti che si scontrano nel gioco
elettorale, contribuendo alla marginalizzazione politica di ogni espressione
di bisogni sociali eterogenei. La riconfigurazione politica avvenuta assieme
al sorgere dello stato assistenziale appare così come un raffinato sistema di
prevenzione di ogni messa in discussione radicale dell’ordine esistente. Il
sistema di protezioni sociali che alleviano le sofferenze dei reietti del mer-

82
 Cfr. C. Offe, Il cambiamento dei confini del politico, in Id., Ingovernabilità e mutamento delle de-
mocrazie, cit.
83
 Ivi, p. 90. Un’ulteriore implicazione della questione è che laddove si affermano i partiti
piglia-tutto, ovvero laddove «non esiste un sistema di partiti di classe,» o ancora «dove pre-
vale una situazione osannata verso il sessanta come la fine dell’ideologia, è verosimile che gli
interessi di classe», ossia le domande politiche delle diverse parti di cui si compone la società,
«siano espressi tramite canali altri dal sistema dei partiti» (C. Offe, Stato, ingovernabilità e ricer-
ca del «non politico», cit., p. 56).
84
 Ivi, p. 51.
104 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

cato consente di allargare le basi del consenso a questo stesso meccanismo


di controllo, ovvero di aumentare la legittimità democratica che lo stato
può vantare85.
Sembrerebbe un gioco a somma positiva, capace di rafforzare e perpe-
tuare gli equilibri politici. Ma in realtà il crescente interventismo statale è
il segno per Offe della cronica crisi di un sistema che vorrebbe realizzare
insieme gli incompatibili obiettivi dell’accumulazione e della legittimazio-
ne86. Tale permanente crisi di legittimazione prende la forma di «un grande
incremento di sfiducia e di cinismo»87 nei confronti della politica tradizio-
nale, e spiega il proliferare di movimenti sociali che si propongono come
alternativi ai canali della politica ufficiale, rivendicando di contro ad essa
– e ad ogni prospettiva separante – l’immediata politicità del sociale.
E tuttavia secondo Offe, che scrive il testo qui citato nel 1980, lo stru-
mento dello stato sociale è una «struttura irreversibile»: esso sarebbe cioè
divenuto indispensabile alla sopravvivenza dello stato in una fase di ca-
pitalismo maturo. Il suo superamento «lascerebbe il sistema in uno stato
conflittuale esplosivo»88 che per essere tollerato richiederebbe «una abo-
lizione della democrazia politica e dei sindacati»89. Il superamento dello
stato sociale dunque non rappresenta a suo parere che «una fantasticheria
politicamente impotente»90. Una fantasticheria destinata a trasformarsi nel
volgere di pochi anni in realtà, sotto la spinta irresistibile del nuovo con-
senso internazionale che si solidificherà intorno alla proposta neoliberale91.

5.4 La ristrutturazione neo-liberale dello stato

Alla base della proposta politica neo-liberale che a partire dall’inizio


degli anni ‘80 si diffonderà sino a diventare mondialmente egemone, sta
la denuncia del carattere eccessivo92 della democrazia postbellica, versione

85
 Cfr. C. Offe, Legittimazione politica mediante decisione a maggioranza?, cit.
86
 Cfr. J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Roma-Bari 1975.
87
 C. Offe, Stato, ingovernabilità e ricerca del «non politico», cit., p. 52. Offe è qui vicino alle analisi
di O’ Connor per il quale lo stato tardo-capitalista è intimamente e contraddittoriamente divi-
so tra i bisogni dell’accumulazione e della legittimazione. Ciò spiega la necessità della sua cri-
si che O’Connor descrive come la logica risultante di un circolo vizioso: la ricerca di consenso
spiega la tendenza delle spese governative ad aumentare più delle entrate; in virtù del tam-
pone dello stato sociale l’accumulazione privata cresce a ritmi accelerati; ma l’accumulazione
a sua volta produce su scala sempre più grande le costose conseguenze sociali che i sistemi di
welfare si occupano di mitigare, richiedendo un sempre più massiccio intervento dello stato
in economia: cfr. J. O’ Connor, La crisi fiscale dello Stato, Einaudi, Torino 1977.
88
 C. Offe, Alcune contraddizioni del moderno stato assistenziale, cit., pp. 74-75.
89
 Ivi, p. 73.
90
 Ivi, p. 74.
91
 Per Offe il compromesso welfarista è già sostanzialmente superato quando, a metà degli
anni ‘80 scrive Disorganised capitalism: contemporary transformations of work and politics, MIT
Press, Cambridge (Mass.) 1985.
92
 L’espressione è di Samuel P. Huntington, in M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, La
crisi della democrazia. Rapporto alla Commissione trilaterale, Prefazione di Giovanni Agnelli, In-
Apogeo e critica della socialdemocrazia 105

aggiornata e corretta dell’irrequietezza del regime parlamentare invisa alla


borghesia francese ai tempi di Luigi Bonaparte. Agli spaventi senza fine
tipici delle democrazie postbelliche il neoliberalismo si sforzerà di sosti-
tuire un nuovo paradigma democratico, fondato sulla visione riduzioni-
sta schumpeteriana. La questione viene sintetizzata così, nel 1973, da un
epocale rapporto della Trilateral Commission93 (think tank vicino alla Mont
Pelerin Society che riuniva i più autorevoli rappresentanti del mondo occi-
dentale nello sforzo di difenderne il primato economico e politico mondia-
le) significativamente intitolato La crisi della democrazia:

Il nocciolo del problema sta nelle contraddizioni intrinseche della stessa


espressione «governabilità della democrazia». Infatti, quelli di governabilità
e democrazia sono, in un certo senso, concetti tra loro in conflitto. Un eccesso
di democrazia significa una carenza di governabilità; una facile governabili-
tà lascia intendere una democrazia difettosa94.

Per gli autori del Rapporto, la crisi di governabilità della democrazia di-
pende dal successo stesso di quella democrazia progressiva di cui abbiamo
tracciato più sopra un sommario ritratto. I successi della democrazia post-
bellica hanno ampliato lo spettro dei partecipanti al gioco politico. Le fila
del ceto medio si sono ingrossate, innalzando il livello complessivo delle
aspettative e delle aspirazioni. Questo processo, nel contesto di un’ampia
ed attiva partecipazione politica, si è tradotto in una crescita delle richieste
avanzate nei confronti dei governi. L’eccesso di democrazia ha dunque so-
vraccaricato i governi, causando un indebito ampliamento della sfera del
loro intervento nell’economia e nella società ed esasperando così le ten-
denze inflazionistiche dell’economia. L’inflazione, a parere degli autori del
Rapporto, è «il male economico delle democrazie»95, incapaci di fronte alle
pressioni di una popolazione sempre più «esigente» e rivendicativa di limi-
tare le elargizioni statali, tagliando la spesa, aumentando le tasse o control-
lando prezzi e salari.
Il benessere ha poi reso possibile la diffusione, specie tra i giovani e le
categorie professionali «intellettuali», di nuovi valori politico-sociali post-

troduzione di Zbigniew Brzezinski, Franco Angeli, Milano 1973, p. 108. Espressioni coeve di
una medesima temperie culturale – che con Claus Offe si può definire «teoria conservatrice
della crisi» – sono anche: D. Bell, The cultural contradicitons of capitalism, Basic Books, New
York 1976; R . Moss, The collapse of democracy, Maurice Temple Smith, London 1975; J. Cornford
(ed.), The Failure of the State, Croom Helm, London 1975. Secondo Offe la caratteristica essen-
ziale di questa letteratura è quella di stornare le cause dell’ingovernabilità dal conto delle con-
traddizioni delle relazioni sociali capitaliste, per imputarle, appunto, all’eccesso di democrazia.
93 Per una presentazione contestualizzata del Rapporto, si veda A. Mastropaolo, La democrazia
è una causa persa, cit., in particolare le pp. 132-143. Cfr. anche J.-W. Müller, L’enigma democrazia,
cit.; D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2007.
94
 M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia, cit., p. 157.
95
 Ivi, p. 151.
106 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

borghesi. Questi valori sono stati fatti propri da una stampa sempre più
libera dalla deferenza nei confronti dell’autorità, e che ha «assunto un ruo-
lo sempre più critico verso il governo e i funzionari pubblici»96 abdicando
nel contempo alle proprie responsabilità nella conservazione degli assetti
sociali esistenti. L’espansione dell’istruzione superiore sulla base del prin-
cipio democratico dell’esistenza di un universale diritto allo studio ha peg-
giorato ulteriormente le cose. I sistemi di istruzione – spesso orientati alla
produzione di valori «contrastanti con quelli della società»97 – hanno infatti
sfornato «un numero di persone fornite di istruzione universitaria spro-
porzionato rispetto alle occupazioni per esse disponibili», con il corollario
di spreco di risorse e di produzione di frustrazioni psicologiche per i lau-
reati sotto o mal impiegati. La diffusione di questi valori ha prodotto un
diffuso indebolimento del principio di autorità in ogni ambito della vita socia-
le. Quelle che erano state le più importanti agenzie di socializzazione della
modernità – la famiglia, la chiesa, la scuola, l’esercito – sono state investite
da una critica che ne ha minato la legittimità e l’efficacia. Questa crisi del
principio di autorità aggrava la crisi della democrazia: è infatti nei con-
fronti di queste stesse leadership depotenziate che il pubblico dei cittadini
avanza le sue crescenti richieste di assistenza.
Secondo gli autori del rapporto:

[…] uno spirito di democrazia, troppo diffuso, invadente, può costituire una
minaccia intrinseca e insidiare ogni forma di associazione, allentando i vin-
coli sociali che reggono la famiglia, l’azienda e la comunità. Ogni organizza-
zione sociale richiede, in una certa misura, disparità di potere e differenze
di funzione. Nella misura in cui l’indole democratica intacca, nel suo diffon-
dersi, tutte queste componenti, esercitando in influsso livellatore e omoge-
neizzatore, distrugge le basi della fiducia e della cooperazione tra i cittadini
e intralcia la possibilità di collaborazione per un fine comune98.

Gli eccessi dello spirito democratico hanno conseguenze perniciose


anche sull’offerta politica. Da un lato si assiste – come abbiamo già visto
sottolineare da Offe – ad una convergenza nell’offerta politica dei partiti
maggioritari che per accaparrarsi l’elettorato tendono a presentarsi come
rappresentanti di tutte le domande politiche di tutti i settori della popola-
zione. Con ciò si innesca un gioco al rialzo nell’offerta di protezione sociale
che a sua volta rafforza e amplifica le esigenze della cittadinanza. Per acca-
parrarsi i voti dei propri elettori, i partiti tenderanno a socializzare versioni
sempre più generose della cittadinanza sociale, concorrendo a aumentare
le aspettative dei cittadini e allontanando così contemporaneamente la so-

96
 Ivi, p. 164.
97
 Ivi, p. 167.
98
 Ivi, p. 149.
Apogeo e critica della socialdemocrazia 107

glia di una possibile soddisfazione: l’effetto inflazionistico sulle aspettative


dei cittadini elettori è dunque assicurato.
La convergenza nell’offerta da parte dei partiti che puntano a un con-
senso maggioritario allontana nello stesso tempo l’offerta politica da ogni
legame concreto con le condizioni economiche e sociali dei differenti grup-
pi. Così la concorrenza partitica oltre a stimolare il progressivo allargarsi
delle aspettative sostiene il fenomeno della disaggregazione del voto. Ed in
effetti uno dei tratti comuni ai maggiori paesi occidentali alla metà degli
anni ‘70, è la crisi dei partiti maggiori, tradizionalmente capaci di aggre-
gare grandi quantità di voti, e il proliferare di partiti più piccoli e di movi-
menti extra-parlamentari, in grado di esibire un più concreto radicamento
nelle condizioni reali della popolazione. Nuove forme della politica esterne
rispetto al quadro della democrazia rappresentativa e ad essa alternative
vengono così alla luce, mentre si moltiplicano i movimenti caratterizzati
dalla partecipazione diretta che contestano la politica istituzionale tanto
nelle forme che nei contenuti. Si contesta la separatezza della politica isti-
tuzionale e se ne reclamano gli spazi. Il compromesso sociale realizzato
intorno al binomio crescita/occupazione è messo radicalmente in discus-
sione: una nuova immaginazione democratica è mobilitata per prefigurare
nuovi rapporti allo spazio, al tempo, all’identità. Si critica il centralismo
amministrativo e politico dello stato e lo si vorrebbe sostituire con nuo-
ve forme di socialità delocalizzate, rizomiche, irrimediabilmente plurali.
Il risultato complessivo di questo processo – che Tocqueville avrebbe forse
salutato gioiosamente, ritenendo la partecipazione il migliore antidoto ai
rischi complementari del dispotismo e dell’apatia – è che la democrazia
competitiva e maggioritaria immaginata da Schumpeter sembra essere ar-
rivata, intorno alla metà degli anni ‘70, ad un capolinea. Di fronte a questo
quadro la proposta del rapporto, che è la spina dorsale della proposta neo-
liberale, è duplice:

• economicamente e socialmente si tratta di ridurre il sovraccarico della do-


manda sociale di prestazioni. Lo stato dovrà praticare il disimpegno,
liberandosi dall’eccesso di responsabilità economico-sociali di cui si
è caricato. La via maestra è la privatizzazione o destatalizzazione del-
le prestazioni pubbliche e la loro cessione ad enti economici privati e
concorrenziali.

• politicamente e culturalmente si tratta ripristinare l’autorità e la legittimità


dello stato: è un movimento in larga misura inverso al precedente, che
punta a rifondare il bisogno e la legittimità delle leadership, facendo
argine ai valori post-borghesi e post-acquisitivi. Si tratta di re-instillare
valori come la rinuncia, la disciplina, il senso comunitario, ripristinando
un adeguato controllo della stampa e del sistema dell’istruzione. La cultura,
in senso ampio, deve essere riconvertita alla responsabilità, ovvero a
funzione degli interessi economici o sistemici.

La via che conduce alla post-democrazia è ufficialmente aperta.


Capitolo VI

Verso la postdemocrazia?

Non sarai tanto ingenuo da credere che viviamo in


una democrazia, vero Buddy? È il libero mercato.
Gordon Gekko in Wall Street

Il progetto politico della Commissione Trilaterale sembra aver trovato


una quasi perfetta realizzazione in quell’epoca che sarà probabilmente ri-
cordata nella storia come l’età neoliberale. L’egemonia globale neoliberale
ha provocato una serie di trasformazioni, che hanno modificato in pro-
fondità tanto la tradizionale concezione liberal-rappresentativa della de-
mocrazia, quanto la sua revisione postbellica, conducendoci all’interno di
un’epoca che, usando una categoria sviluppata dal sociologo inglese Colin
Crouch, possiamo definire postdemocratica.
Secondo Crouch quello di post-democrazia, così come tutti i concetti co-
struiti per tramite del prefisso post, allude all’idea di una «parabola sto-
rica». Se insomma oggi viviamo in una fase storica post-democratica è
perché abbiamo attraversato una fase democratica, la quale a sua volta era
preceduta da una fase pre-democratica. Ciò che contraddistingue la fase
presente è il fatto che «le forme della democrazia rimangono pienamente
in vigore» mentre «la politica e i governi cedono progressivamente terreno
cadendo in mano alle élite privilegiate, come accadeva tipicamente prima
dell’avvento della fase democratica»1.
Vinta la battaglia ideologica che ha segnato gli anni della guerra fredda,
le critiche teoriche alla democrazia si sono fatte tanto più rare quanto più
rapidamente procedeva il processo di autoconsunzione delle sue istituzio-
ni. In assenza di passi avanti decisivi nella critica teorica, è su questi proces-
si storici concreti che quest’ultimo capitolo si concentrerà. Lo svuotamento
che la democrazia sta subendo dal proprio interno verrà affrontato nelle
prossime pagine concentrandosi intorno a tre fuochi. La consunzione delle
istituzioni rappresentative, ed in particolare dei partiti; la crisi della dimensio-

1
 C. Crouch, Postdemocrazia, cit., p. 9.
110 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

ne nazionale innescata dal fenomeno della globalizzazione e il conseguente


processo di commercializzazione della cittadinanza sociale; il tema antico e
inesausto, ma rinnovato nella sua significanza a partire dal fenomeno delle
migrazioni internazionali, dell’esclusione democratica.

6.1 La democrazia dei partiti e la sua crisi

Dal punto di vista delle unità politiche nazionali, l’età neoliberale è se-
gnata dall’apparire di una nuova forma istituzionale, diversa tanto dal par-
lamentarismo liberale a suffragio ristretto fondato sui partiti di notabili,
quanto dalle liberal-democrazie fondate sui partiti di massa e sul suffragio
universale. Questo sistema liberaldemocratico di ultima evoluzione, che al-
cuni chiamano appunto postdemocratico, si fonda su una nuova concezio-
ne del partito politico che, in linea con il riduzionismo schumpeteriano, lo
intende come una macchina elettorale sempre meno fondata sulla parteci-
pazione e sempre più condizionata, quando non direttamente controllata,
dalle lobbies affaristiche. In questo processo i partiti hanno trasformato le
proprie strutture, piegandole ad una deriva sempre più accentuatamente
plebiscitaria, attraverso la quale il cittadino-elettore è stato trasformato in
consumatore passivo di politica, che al momento del voto «acquista» l’of-
ferta migliore o meglio confezionata o meglio videopromossa2. Il potere
dell’oligarchia economica globale è divenuto tanto più forte quanto più i
partiti di massa tradizionali sono stati sostituiti da questi nuovi partiti ‘leg-
geri’, che non si fondano più sulle antitesi di classe e sulla militanza terri-
toriale ma che funzionano come macchine elettorali che sfruttano anzitutto
il potere di marketing politico conferito loro dal controllo dei mezzi di co-
municazione di massa.

6.1.1 L’avvento della democrazia dei partiti

La democrazia rappresentativa di stampo liberale aveva a lungo avver-


sato la formazione dei partiti politici. I deputati dei parlamenti liberali ot-
tocenteschi non erano considerati i rappresentanti di un particolare gruppo
sociale o politico, né di un distretto elettorale, ma del popolo nella sua uni-
tà3. Come tali, essi dovevano essere protetti nella libertà e ‘sovranità’ delle

2
 Luigi Ferrajoli descriveva già questa deriva alla fine degli anni ‘70, parlando dell’emergere
di una forma di democrazia consensuale – che ha le sue radici nel fascismo «primo regime con-
sensuale di massa», e che non differisce differisce dai sistemi politici di stampo sovietico che
nei «mezzi di attivazione» del consenso stesso – non più fondata sulla rappresentanza degli
interessi, ma sulla rappresentazione del consenso. Cfr. L. Ferrajoli, Esiste una democrazia rappre-
sentativa?, cit., p. 35.
3
 A questo modo di concepire la rappresentanza parlamentare allude ancora l’articolo 67 della
nostra Costituzione: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue
funzioni senza vincolo di mandato».
Verso la postdemocrazia? 111

proprie decisioni, ed è proprio sulla base di questa considerazione che tut-


te le maggiori democrazie liberali si dotarono di regole atte a escludere che
i rappresentanti potessero ricevere dai propri elettori vincoli di mandato.
Un deputato costretto nei limiti di un mandato non avrebbe avuto più la
libertà, l’autonomia e dunque anche la dignità necessarie a rappresenta-
re la nazione nella sua unità. Poiché in una simile visione un degno rap-
presentante della nazione non dovrebbe essere vincolato che dalla propria
coscienza, l’esistenza di partiti capaci di condizionare le decisioni politi-
che dei propri membri era avversata dal liberalismo più classico. Secondo
Gerhard Leibholz, la storia politica europea del XIX secolo è segnata in
profondità da «una vera e propria lotta del parlamento contro contro il
riconoscimento e la legalizzazione dei partiti»4 che spiega perché fino agli
inizi del XX secolo le costituzioni, i regolamenti parlamentari e le leggi eu-
ropee non riconoscessero ai partiti alcun ruolo5. È solo con l’avvento della
società di massa e con la parallela emancipazione politica delle classi popolari che
i partiti hanno potuto assumere il ruolo fondamentale che essi sino ad oggi
possiedono. Nelle democrazie di massa fondate sul suffragio universale
«sono proprio i partiti i soli organi in grado di organizzare il popolo politi-
camente e di renderlo capace di agire»6:

Oggi, nei grandi Stati territoriali, sono i partiti i soli soggetti che han-
no la possibilità di riunire milioni di elettori in gruppi politicamente attivi.
Essi sono i portavoce di cui si serve il popolo, ormai emancipatosi, per poter
prendere le decisioni politiche e per potersi esprimere in modo articolato.
Oggi, senza il tramite di queste organizzazioni, il popolo vagherebbe qua
e là impotente e politicamente disordinato, come una massa amorfa, e non
sarebbe più in grado di esercitare un influsso sulle vicende statali, e di realiz-
zare se stesso, dunque, come unità che agisce nella sfera politica7.

Nelle condizioni dell’esercizio della moderna politica democratica par-


lamentare l’individuo isolato non ha, per dirla con Kelsen, «alcuna esisten-
za reale, non potendo esercitare un reale influsso sulla formazione della

4
 G. Leibholz, Stato dei partiti e democrazia rappresentativa, in Id., La rappresentazione nella demo-
crazia, cit., p. 384.
5
 Nel suo classico studio Teoria generale dello Stato (Allgemeine Staatslehre), Georg Jellinek può
sostenere ad esempio ancora nel 1900 che «nell’ordinamento statale il concetto di partito in
quanto tale non riveste alcun ruolo» (citato in G. Leibholz, Stato dei partiti e democrazia rappre-
sentativa, cit., p. 385).
6
 G. Leibholz, Il mutamento strutturale della democrazia nel XX secolo, in Id., La rappresentazione
nella democrazia, cit., p. 333. Il mutamento strutturale cui accenna il titolo riguarda proprio
la transizione dalla democrazia liberale ottocentesca fondata sulla libertà da ogni forma di
mandato dei rappresentanti politici, ad una nuova forma di democrazia di ispirazione plebi-
scitaria, lo «Stato democratico dei partiti», nella quale i partiti fungono da organi di raccolta e
trasmissione della volontà popolare.
7
 G. Leibholz, Stato dei partiti e democrazia rappresentativa, cit., p. 387.
112 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

volontà dello Stato»8. Kelsen ne concludeva per la necessità dei partiti politi-
ci, che dovevano sorgere naturalmente dall’»evoluzione irresistibile»9 delle
istituzioni democratiche come quegli indispensabili strumenti attraverso i
quali raggruppare e rendere così politicamente efficaci le affinità politiche
dei cittadini. A suo avviso l’attacco ai partiti nell’era del liberalismo classico
(che Kelsen preferisce descrivere come l’era delle monarchie costituziona-
li) nascondeva un attacco «ideologicamente mascherato contro l’attuazio-
ne della democrazia»10. Poiché l’idea di un «interesse generale superiore e
trascendente gli interessi dei gruppi»11 va catalogata tra le illusioni metafi-
siche, se una volontà generale può esistere essa deve emergere dal compro-
messo tra gli interessi, e di questi interessi i rappresentanti naturali sono
per Kelsen i partiti. Chi ne critichi la funzione è dunque qualcuno che mira
al dominio assoluto degli interessi di un gruppo e a mascherare questo
dominio qualificandolo come realizzazione di una volontà ‘organica’ supe-
riore a quella delle singole parti. Così, pur se l’affermazione dei partiti non
comporta una reintroduzione del mandato imperativo «nella sua antica
forma», essa comporta nondimeno «un controllo permanente dei deputati
da parte dei gruppi di elettori costituiti in partiti politici» che rappresenta
una innegabile novità rispetto al parlamentarismo liberale classico, una no-
vità capace di minimizzare il classico problema della «irresponsabilità del
deputato di fronte ai suoi elettori»12.
Per Leibholz, diversamente che per Kelsen, l’affermazione dei partiti
non è nulla di connaturato alla democrazia moderna in quanto tale. Essa
segna piuttosto una decisiva cesura nell’evoluzione delle istituzioni de-
mocratiche, una cesura capace di inaugurare una nuova forma politica, lo
«Stato dei partiti» appunto. Secondo Leibholz lo Stato dei partiti – diversa-
mente dalla democrazia liberale che Kelsen stesso riconosceva fondarsi sul-
la «finzione della rappresentanza»13 – è «una manifestazione razionalizzata
della democrazia plebiscitaria o, se si vuole, un surrogato della democrazia
diretta»14 fondato sull’identificazione della volontà della maggioranza in
carica con la volontà generale. Questa nuova configurazione del gioco de-
mocratico è essenzialmente diversa dalla configurazione precedente, quel-
la della democrazia liberale classica. La differenza principale tra queste
due forme politiche sta nel fatto che, nella nuova configurazione tipica del-
le società di massa, i partiti ricevono in realtà dai propri elettori una sorta
di mandato plebiscitario che costituisce una radicale innovazione rispetto alle

8
 H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, cit., p. 63.
9
 Ivi, p. 70.
10
 Ivi, p. 64.
11
 Ivi, p. 68.
12
 Ivi, p. 89.
13
 Ivi, p. 76 e ss..
14
 G. Leibholz, Stato dei partiti e democrazia rappresentativa, cit., p. 390.
Verso la postdemocrazia? 113

regole tipiche della rappresentanza liberale e del suo rigoroso individuali-


smo metodologico.
Se a queste riflessioni si aggiunge il ruolo crescentemente importante
che nei destini delle democrazie postbelliche hanno svolto le rappresentan-
ze sindacali e di categoria, si comprende come esse abbiano potuto esse-
re descritte anche come società policentriche o poliarchiche15, delle quali sono
stati protagonisti non più soltanto gli individui – come voleva la classi-
ca teoria liberale – ma i gruppi sociali. Questo movimento, che Bobbio ha
descritto come la «rivincita degli interessi»16 elencandolo come una delle
promesse non mantenute della democrazia, ha dato luogo ad una trasfor-
mazione irreversibile delle istituzioni democratiche che ha conferito ai par-
titi politici una inusitata centralità. È proprio questa centralità che fa sì che
la crisi di legittimità che i partiti stanno vivendo corrisponda ad una pro-
fonda crisi di legittimità della democrazia nel suo insieme. È ciò che dovre-
mo ora indagare.

6.1.2 La crisi dei partiti democratici

La crisi dei partiti democratici ha radici profonde che affondano nel-


le più complessive trasformazioni della composizione sociale delle socie-
tà contemporanee. La parabola storica della post-democrazia, per dirla in
altri termini, è anche la parabola del declino della classe operaia, e del-
la sua coscienza in quanto soggetto storico. L’affermazione delle moderne
istituzioni democratiche ha coinciso infatti storicamente con l’affermazione
della centralità politica della questione sociale. Crouch riassume così questo
decisivo processo:

Verso la fine del XIX secolo gruppi di operai, molti di quelli specializza-
ti e anche alcuni di quelli non specializzati, si organizzarono con successo
creando i sindacati e aspirando alla piena partecipazione politica nella gran
parte del mondo industrializzato, ma con esperienze molto diverse nei vari
paesi. […] Nonostante questa estrema diversità sulla strada della democra-
zia, quasi sempre la classe operaia ha sperimentato qualche forma di esclu-
sione politica. Vi era anche un forte senso di esclusione sociale, poiché la
maggior parte dei gruppi di lavoratori non manuali del periodo ritenevano
persino gli operai specializzati socialmente inadeguati. Questi fattori erano
rafforzati da modelli di segregazione abitativa che producevano comunità
di una sola classe nelle periferie di molte città industriali. […] La relativa
esclusione sociale dei lavoratori portava a temere il loro malcontento e la

15
 Il concetto è sviluppato per la prima volta da R.A. Dahl nel 1961 in Who Governs?: Demo-
cracy and Power in an American City. Dahl lo usava per sostenere, contro alla teoria delle élite
di Wright-Mills, che seppure quella americana non fosse descrivibile come una democrazia
‘popolare’, essa era comunque almeno una società politica pluralista, percorsa da poteri e
contropoteri in grado di controbilanciarsi l’uno con l’altro.
16
 Cfr. N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1995, p. 11.
114 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

miseria di una parte di essi era un preoccupante problema sociale – noto nel
dibattito politico in ambiente cattolico come la questione sociale. Dalla fine
del XIX secolo al terzo venticinquennio del XX, la principale preoccupazione
in politica interna fu la gestione dell’esistenza di questa classe. […] In que-
sto periodo la classe si accresceva numericamente, e probabilmente anche
nel reddito, tanto che cominciò a incidere sui consumi, nella politica delle
relazioni industriali e del benessere sociale. Poteva ragionevolmente essere
presentata come la classe del futuro, e i politici di quasi tutti i partiti sape-
vano che il loro futuro dipendeva dalla loro capacità di rispondere alle sue
richieste. Inoltre, fu solo quando l’economia venne ristrutturata per rendere
possibili condizioni di vita favorevoli alla classe lavoratrice, a metà del XX
secolo, che decollò il capitalismo della produzione di massa17.

Ora, verso la metà degli anni 70 – la svolta simbolica può essere posta
nella crisi petrolifera – il ruolo politico centrale della classe operaia iniziò
a declinare. La smisurata crescita della produttività resa possibile dall’au-
tomazione ridusse il numero di lavoratori necessari a svolgere un deter-
minato compito, comportando una riduzione secca della dimensione della
classe operaia. Contemporaneamente, la crescita dell’economia immateria-
le e dei servizi attirò un crescente numero di lavoratori fuori dal lavoro di
tipo manuale, moltiplicando l’eterogeneità sociale della popolazione:

[…] professionisti, amministrativi, impiegati statali e addetti al commercio,


bancari, burocrati e dipendenti delle organizzazioni del welfare state. Sto-
ricamente definiti da livelli di istruzione, reddito e condizioni di lavoro su-
periori rispetto ai lavoratori manuali, la maggior parte di questi gruppi son
stati riluttanti ad allearsi a interessi e organizzazioni dei lavoratori, anche se
di rado sono riusciti a creare profili politici autonomi. I loro sindacati sono in
genere deboli (con l’eccezione rilevante dei professionisti e degli impiegati
statali); i comportamenti elettorali sono piuttosto diversificati, mancano le
tendenze nette della classe operaia e borghese18.

Il panorama politico e sociale si complicò ulteriormente per l’ingresso


sulla scena di nuovi soggetti – come le donne, il movimento nero, gli eco-
logisti ecc. – che spezzavano il quadro tradizionale delle politiche di classe,
costruendo le proprie rivendicazioni a partire da fattori identitari capaci di
tagliare trasversalmente le tradizionali linee di divisione politica19. I grandi
partiti di classe si trovarono di fronte a sempre più importanti emorragie
di consensi. La reazione fu quella di mutare struttura e scopi, tentando di
trovare una base alternativa a quella operaia, come avvenne esemplarmen-
te per il caso del Labour inglese, vero laboratorio delle forme partitiche
postdemocratiche. Questi nuovi partiti post-democratici si caratterizzavano

17
 C. Crouch, Postdemocrazia, cit., pp. 61-63.
18
 Ivi, pp. 65-66.
19
 Cfr. I.M. Young, La politica della differenza, cit.
Verso la postdemocrazia? 115

anzitutto per il fatto di voler abbandonare l’ancoraggio a qualsivoglia base


sociale specifica per tentare di massimizzare il proprio appeal sul mercato
elettorale presentandosi come dei «partiti per tutti».
Al mutamento della base ricercata corrispondeva poi un parallelo muta-
mento della forma organizzativa del partito politico. Nella sua conformazio-
ne più tradizionale il rapporto tra un partito di massa e il suo elettorato può
essere descritto come una serie di cerchi concentrici, che dal nucleo ristretto
dei dirigenti, si allarga progressivamente, attraverso i cerchi successivi de-
gli attivisti, dei tesserati ordinari, degli elettori fedeli, sino ad arrivare all’e-
lettorato nazionale in senso lato, che ogni partito cerca di attrarre verso di
sé. Questo modello presuppone una continuità e una congruenza tra base
e vertice dell’organizzazione che negli ultimi anni è entrata in una grave
crisi. Di fronte al calo dei consensi indotto dalla crescente complessità so-
ciale, i vertici dei partiti di massa tradizionali hanno cercato in ogni modo
di allargare le proprie basi al di là dei confini tradizionali, abbracciando
apertamente il programma di interclassismo demagogico che era stato già
tipico del bonapartismo. Per fare questo si sono spesso serviti di consulenti
esterni al cerchio dei militanti e spesso anche dei sostenitori. Questi profes-
sionisti hanno aiutato i vertici dei partiti ad interrogare «direttamente» l’e-
lettorato attraverso il sondaggio d’opinione, senza bisogno di passare per la
base. Il risultato complessivo di questa operazione è stato «l’avvicinamento
a gruppi estranei agli attivisti e assolutamente non concentrici al partito»20.
Questo avvicinamento ha provocato una deformazione della forma partito,
trasformando quello che poteva essere descritto come un cerchio in una
sorta di ellissi. La composizione del nucleo dirigente del partito postdemo-
cratico è venuta così a divergere progressivamente dal suo ambito ‘natura-
le’ – il campo della militanza e della partecipazione all’interno del quale i
partiti democratici classici pescavano le proprie risorse – tendendo a scon-
finare verso l’esterno, attratta irresistibilmente dal fuoco degli interessi
lobbistici. Le lobbies in cambio di un sostegno dei propri interessi nell’atto
della legislazione, forniscono il denaro necessario per le sempre più costo-
se campagne elettorali televisive nazionali che hanno quasi completamente
sostituito l’attività territoriale per la raccolta di voti, tradizionalmente la
principale delle prestazioni fornita al partito dalla militanza di base. Una
simile deformazione del nucleo dirigente dei partiti determina insomma
la rottura di quella continuità tra base e vertice del partito che aveva carat-
terizzato la forma tradizionale del partito di massa, comportando nel con-
tempo una sempre più decisa professionalizzazione dei suoi vertici21. Questa

 C. Crouch, Postdemocrazia, cit., p. 81.


20

 «Se ci basiamo sulle tendenze recenti, il classico partito del XXI secolo sarà formato da una
21

élite interna che si auto-riproduce, lontana dalla sua base del movimento di massa, ma ben
inserita in mezzo a un certo numero di grande aziende, che in cambio finanzieranno l’appalto
di sondaggi d’opinione, consulenze esterne e raccolta di voti, a patto di essere ben viste dal
partito quando questo sarà al governo» (Ivi, pp. 83-84).
116 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

professionalizzazione ha comportato da un lato, come già Michels aveva


intuito, una parallela elitizzazione dei vertici postdemocratici. Dall’altro,
riprendendo il filo delle riflessioni di Marx e Weber che più sopra abbiamo
incontrato, ha comportato una sempre più netta burocratizzazione della vita
degli stessi partiti, che tendono sempre più a veder coincidere i propri inte-
ressi con quelli della macchina statale, una macchina che si presenta come
sempre più separata ed autonoma dall’interesse comune della società.

6.1.3 Il ritorno del cesarismo

Gli odierni partiti post-democratici non sono più come all’origine della
parabola storica della democrazia partitica un’emanazione degli interessi
concorrenti delle diverse classi sociali, ma funzionano piuttosto come un
meccanismo autolegittimante che, pur continuando a fondarsi sulla finzione
istituzionale della rappresentanza, compone un insieme ormai simile a una
burocrazia di stato, una burocrazia impegnata a reinvestire il proprio po-
tere nella ricostruzione delle basi del potere stesso, in un corto circuito che
distribuendo risorse, vantaggi e privilegi costruisce stabilità e immunizza
dal rischio del mutamento sociale. Come afferma Danilo Zolo, le direzio-
ni dei partiti si ritrovano ad essere ormai titolari esclusive del potere che
Schumpeter affidava agli elettori: «sono esse che ‘producono’ i governi e
sono esse che i governi ‘rappresentano’»22. Così, non solo nelle condizio-
ni politiche della postdemocrazia, «l’elettore, anziché scegliere, sarà stato
scelto, creato, plasmato dall’eligendo» trasformando l’elezione in «un mero
rito di legittimazione esteriore»23 che assume connotati autocratici, ma, co-
me avevano intuito Agnoli e Debord, allo stesso tempo la competizione tra
partiti tende a minimizzarsi.
L’offerta politica, sempre più sensibile alle ‘richieste della gente’ che i
sondaggi permettono di auscultare, tende infatti ad omogeneizzarsi per
raggiungere il condiviso obiettivo della customer satisfaction. Le differen-
ze tra le proposte politiche vengono così sostituite dalla competizione
mediatica tra le ‘immagini’ dei differenti partiti. I nuovi partiti post-demo-
cratici dedicano infatti «alla confezione retorica e telegenica dei loro mes-
saggi» tanta più cura quanto meno «la sostanza del prodotto è realmente
differenziata»24. Per caratterizzare l’offerta di questi prodotti politici sem-
pre più sostanzialmente indistinguibili, indispensabile diviene la figura del
leader che – come vuole la logica del marketing impadronitasi della politi-
ca – è scelto in virtù della capacità carismatica di imporre al proprio brand
politico un sapore distinto e riconoscibile, permettendo al partito-macchina
di riferimento di trionfare nelle campagne elettorali.

22
 D. Zolo, Il principato democratico, Feltrinelli, Milano 1996, p. 148.
23
 M. Bovero, Contro il governo dei peggiori, cit., p. 149.
24
 D. Zolo, Il principato democratico, cit., p. 152.
Verso la postdemocrazia? 117

Se per un verso l’emergere di questo nuovo tipo di leadership carisma-


tica tipico della presente epoca spettacolare è espressione della profonda
crisi vissuta dalla democrazia dei partiti, per un altro esso incarna l’estre-
mo sviluppo di un movimento di lungo corso, un movimento di cui nei
capitoli precedenti abbiamo conosciuto l’origine nel momento bonaparti-
sta25. Al centro del dispositivo di questa nuova ed aggiornata versione della
democrazia cesaristico-plebiscitaria di weberiana memoria si staglia la fi-
gura del leader post-democratico che, ricongiungendosi con quella che era
stata sin dall’inizio la funzione del leader bonapartista, è pensato assieme
come simbolo dell’unità della nazione al di là di ogni sua possibile divi-
sione interna, e come garante di quella congiunzione con gli elettori che il
superamento della tradizionale forma partitica ha rimesso pesantemente
in discussione ben oltre all’età delle esclusioni censitarie e di genere tipiche
del liberalismo classico. Con ciò la postdemocrazia sembra anche in questo
caso aver spostato all’indietro, verso forme tipiche del parlamentarismo li-
berale, il baricentro del sistema politico, ritornando da quell’equilibrio is-
sue centered che era stato guadagnato con l’affermarsi della democrazia dei
partiti verso un equilibrio candidate centered, come nella più classica delle
tradizioni del notabilato liberale.
Questo nuovo sistema rappresenta la perfezione dell’idea schumpete-
riana di democrazia competitiva. In esso il partito politico che si dimostra più
adatto alle condizioni della presente competizione spettacolare, è quello
che più si distanzia dalle ideologie, rendendosi indipendente dagli interes-
si di qualunque parte dei propri elettori, e che proprio per questo può se-
guirne le fluttuazioni, spostandosi laddove il vento della pubblica opinione
spira più forte per gonfiare le proprie vele verso il successo elettorale.
Questo partito, professionale e centralizzato, appare come una sofisticata
macchina elettorale, sempre più sganciata da ogni responsabilità ideale o
sociale, e unita da un vincolo di fedeltà personale alla figura del capo cui
deve l’essenziale delle proprie possibilità di successo.
Secondo Luigi Ferrajoli la trasformazione dei partiti sta modificando
in profondità il significato stesso della democrazia, imprimendo alle sue
istituzioni una deformazione che non solo è tendenzialmente dispotica –
poiché tende a negare la separazione dei poteri e a limitare i diritti fon-
damentali di tutti, a favore dell’onnipotenza della maggioranza e del suo
capo – ma è incapace di dare rappresentanza alla pluralità sociale, ricom-
prendendola nella «mistificazione ideologica dell’identificazione della vo-

25
 «I moderni capi non sono in rotta con la democrazia, anzi, per molti versi, ne incarnano
l’estremo sviluppo. Godono di un ampio consenso popolare, in forme sempre più plebisci-
tarie e sondocratiche che non possono, tuttavia, essere tacciate di violare il principio base
della democrazia: l’investitura da parte di una maggioranza di elettori. La loro forza consiste
proprio nel potersi vantare di aver ripristinato – spesso attraverso lo strumento dell’elezione
diretta – il rapporto tra leader e popolo che i vecchi partiti avevano logorato» (M. Calise, Il par-
tito personale. I due corpi del leader, nuova edizione ampliata, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 114).
118 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

lontà dei rappresentanti e del loro capo con la volontà popolare»26. I partiti
post-democratici sembrano dunque essere regrediti verso una concezione
della rappresentanza simile a quella del più classico liberalismo ottocen-
tesco27, una concezione metodologicamente individualistica e tendenzial-
mente plebiscitaria, che ha come proprio fine l’identificazione diretta del
singolo elettore con la maggioranza di governo e in particolare con il suo
capo, immaginati come «l’espressione diretta ed organica della volontà e
della sovranità popolare sulle quali soltanto si fonderebbe la legittimità dei
pubblici poteri»28.

6.1.4 L’apatia e la tentazione antipolitica

La crisi della democrazia dei partiti, innescatasi come abbiamo visto nel
corso degli anni ‘70, ha avuto un decorso particolarmente rapido. Le tra-
sformazioni sopra descritte sono state accompagnate da una crescita della
sfiducia nelle istituzioni democratiche sulle cui ragioni torneremo anche
nel corso del prossimo paragrafo, descrivendo il processo di commercia-
lizzazione della cittadinanza sociale. Un’ultima considerazione che qui si
impone riguarda quelle risposte che, di fronte all’evidente malessere in cui
versano le istituzioni democratiche, tendono a rifiutare in maniera radicale
l’insieme dei dispositivi della politica ufficiale, considerandoli espressione
di un mondo intimamente corrotto e autoreferenziale. È il fenomeno co-
nosciuto giornalisticamente sotto l’etichetta di antipolitica, termine parti-
colarmente ambiguo all’interno del quale convergono fenomeni di natura
assai diversa.
Vi è anzitutto un’antipolitica dal basso, fatta di rancore nei confronti di
quella che è percepita come una ‘casta’ chiusa ed autoreferenziale, di sem-
pre più alti tassi di astensionismo elettorale, di calo dei militanti e degli
iscritti ai partiti, di disinteresse e di sfiducia nei confronti di tutto ciò che
con la politica ufficiale ha a che fare, di tentazioni giustizialiste di far ‘piaz-
za pulita’ di ogni cosa. Un’apatia rancorosa e per nulla rassicurante che non

26
 L. Ferrajoli, Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 22.
Facendo riferimento al nostro paese, Ferrajoli indica l’espressione più evidente di questa ten-
denza nella Legge 270 del 2005 – nota anche come legge Calderoli o Porcellum – che ha tra-
sformato le elezioni in nomine dei rappresentanti da parte dei vertici dei partiti, privando nel
contempo della rappresentanza consistenti minoranze, deformando così in senso plebiscitario
la nostra democrazia.
27
 Secondo Danilo Zolo sarebbe questo invece il segno del carattere post-rappresentativo de-
gli attuali partiti, che non sarebbero altro che «una oligarchia di imprenditori elettorali». Ma
è appunto questa, mi pare, la continuità degli attuali meccanismi della rappresentanza con
la tradizione del notabilato liberale. Cfr. D. Zolo, Da cittadini a sudditi, Edizioni Punto Rosso,
Roma 2007, p. 76.
28
 L. Ferrajoli, Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana, cit., p. 22.
Verso la postdemocrazia? 119

appare più come era potuto pure accadere nel passato come sinonimo del
buon funzionamento delle istituzioni democratico-liberali29.
Quello che più conta però, è che questo genere di antipolitica ‘dal bas-
so’ è stata intercettata dai meccanismi del marketing elettorale, facendo la
fortuna di partiti e movimenti ‘di protesta’ che ad essa si sono ispirati per
ottenere importanti consensi elettorali, riprendendo a proprio vantaggio il
discorso sul malessere democratico30. Questo fenomeno può essere descrit-
to come una forma di antipolitica ‘dall’alto’: alla sua base vi è il fatto che gli
esperti di marketing politico hanno compreso che, in un’epoca postpolitica
nella quale il meccanismo della rappresentanza partitica si è come abbiamo
visto inceppato, anche ‘l’odio per i partiti politici’ può divenire un interes-
sante prodotto elettorale. Il consenso elettorale può infatti essere raccolto in-
torno a qualunque tema susciti le paure, l’indignazione, la curiosità anche
morbosa della pubblica opinione. Ogni tema oggetto di pubblica discussio-
ne, anche quelli le cui rilevanze pubbliche sono più discutibili, può assur-
gere, nella logica della competizione elettorale spettacolare, a strumento di
costruzione di cleavages politici, e dunque a strumento di distinzione del
proprio brand. In questo senso l’antipolitica non deve essere considerata
come un fenomeno esterno alla politica stessa, ma come una delle tante di-
rezioni prese dalla politica in un’epoca postdemocratica.

6.2 Globalizzazione e crisi delle democrazie nazionali

La trasformazione dei partiti non è la ragione unica, né la primaria, che


sta segnando il nostro ingresso nell’era postdemocratica. L’avvento della
postdemocrazia non si può iniziare a comprendere se non la si pone sul-
lo sfondo della pressione che le grandi trasformazioni socio-economiche
globali hanno indotto nei sistemi politici democratici nazionali. L’emergere
del paradigma postdemocratico ha coinciso infatti con l’era della cosid-
detta globalizzazione e dunque anche con la crisi delle istituzioni politiche na-
zionali che questa ha comportato31. L’avvento a livello nazionale dei nuovi
regimi postdemocratici si è sovrapposto al progressivo trasferimento delle
competenze e dei poteri verso organismi internazionali, formali ed infor-

29
 Cfr. W.H. Morris Jones, In Defense of Apathy. Some Doubts on the Duty to Vote, «Political Stu-
dies», II, 1, 1954, pp. 25-37. Ma si veda anche, per un diverso argomento, A. Muxel, L’absten-
sion. Déficit démocratique ou vitalité politique?, «Pouvoirs», 120, 1, 2007, pp. 43-55. Non sempre
poi la partecipazione elettorale è sinonimo di affezione al gioco democratico: cfr. A. Mastropa-
olo, Nuove destre, populismo, antipolitica, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
30
 Cfr. A. Mastropaolo, La democrazia è una causa persa, cit., pp. 252-279.
31
 U. Beck, Che cos’è la globalizzazione: rischi e pericoli nella società planetaria, cit.; D. Zolo, Glo-
balizzazione. Una mappa dei problemi, cit.; Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze
per le persone, Laterza, Roma-Bari 2001; D. Held, A.G. McGrew, Globalismo e antiglobalismo, Il
Mulino, Bologna 2001; S. Sassen, Una sociologia della globalizzazione, Einaudi, Torino 2008; Z.
Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2007; C. Galli, Spazi globali. L’età moderna e l’età
globale, Il Mulino, Bologna 2001.
120 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

mali, la cui influenza non ha smesso di crescere anche a fronte del loro
palese deficit democratico32. La pressione di queste istituzioni, e più in ge-
nerale quella dell’economia e della finanza globalizzati, hanno contribuito
ad innescare, all’interno degli stati nazionali, una lunga stagione di libe-
ralizzazioni che hanno svuotato dall’interno la sostanza di cui si era rive-
stita la democrazia postbellica, sottomettendo i servizi pubblici a logiche
privatistiche, spogliandoli di competenze, inquinandone le ragioni di esi-
stenza. Questa nuova temperie culturale ha prodotto una sempre maggiore
disaffezione degli utenti, che ha confermato circolarmente la necessità di
procedere a ulteriori trasferimenti di competenze dal pubblico al privato.
La nuova egemonia neoliberale si è concretizzata così in una sistematica
opera di disinvestimento dall’intervento pubblico da parte degli stati e di
progressiva demolizione delle istituzioni del welfare state.

6.2.1 La pressione delle aziende globali

La destrutturazione del sistema di produzione fordista-keynesiano che,


come abbiamo visto, ha frantumato e scomposto il panorama delle relazio-
ni di classe, ha coinciso storicamente con l’affermarsi della globalizzazione,
ovvero con la sempre più pervasiva integrazione economica e culturale del
mondo. Questa integrazione – come Marx aveva già intuito – si è svolta sot-
to il segno del capitalismo, e ha coinciso in buona sostanza con la creazione
di un mercato unico di dimensioni mondiali che, esasperando la competizione
internazionale, ha permesso di realizzare straordinari aumenti di produt-
tività. La globalizzazione ha così moltiplicato le ricchezze prodotte senza
però ridurre né i divari tra le potenze industriali e le economie dei paesi
poveri, né i livelli di diseguaglianza sociale all’interno di ciascuna di es-
se33. Al contrario essa ha innescato, anche all’interno della ricca Europa, un
meccanismo perverso di livellamento verso il basso di quel sistema di tute-
le del lavoro che si era affermato con la democrazia postbellica. Mentre la
base sociale dei partiti di massa tradizionali si erodeva progressivamente, il
potere delle grandi aziende che la meccanica della concorrenza internazio-
nale costringeva a divenire globali cresceva a dismisura. Le conseguenze
politiche della crescente forza economica di questi colossi sono state parti-
colarmente perniciose. La sempre maggiore mobilità internazionale degli
investimenti si è rivelata una potente arma di ricatto che è stata ampiamen-
te impiegata per scatenare una vera e propria corsa al ribasso tra le nazioni

32
 S. Strange, Chi governa l’economia mondiale? Crisi dello stato e dispersione del potere, Il Mulino,
Bologna 1998; S. Sassen, Fuori controllo, Il Saggiatore, Milano 1998; J. Habermas, La costellazione
postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, Feltrinelli, Milano 1999.
33
 G. Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, cit.; F. Chesnais, La mondialisation du capital,
Syros, Paris 1997; L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, cit.; L. Gallino, Glo-
balizzazione e disuguaglianze, cit.; S. Sassen, Globalizzati e scontenti. Il destino delle minoranze nel
nuovo ordine mondiale, Il Saggiatore, Milano 2002.
Verso la postdemocrazia? 121

tanto negli standard di tutela del lavoro, quanto nel sistema fiscale e dunque,
più o meno indirettamente, nella qualità dei servizi pubblici. Il meccanismo
è tanto semplice quanto noto. Se un’impresa globale trova il regime fiscale
o l’organizzazione del lavoro di un determinato luogo poco favorevoli, può
minacciare di trasferirsi altrove. Una simile minaccia funziona nei confron-
ti dei governi locali come una pressione assai più efficace di quella che può
essere esercitata dai cittadini di quel dato paese. Le aziende globali diven-
gono dunque capaci di condizionare in profondità le politiche delle diverse
nazioni, in particolare le politiche del lavoro e quelle fiscali, e questo «an-
che se non risiedono nel Paese in questione, non godono dei diritti formali
di cittadinanza e non pagano le tasse»34.
La difficoltà di resistere a simili pressioni si aggrava se si tiene in con-
siderazione la forma inafferrabile assunta dalle multinazionali globali, la
cui proprietà si nasconde dietro una mutevole costellazione di azionisti, i
cui investimenti si spostano in continuazione. Queste aziende inafferrabili
– specie riguardo alle proprie responsabilità fiscali, sociali e ambientali –
esercitano dunque sui governi una pressione pressoché irresistibile perché
questi realizzino condizioni più favorevoli all’investimento, deregolamen-
tando le condizioni del lavoro, abbassando i regimi di imposizione fiscale,
tagliando le spese statali inutili dal punto di vista delle aziende. Abbassare
il costo della macchina statale – anche a costo di mettere a rischio i servizi
essenziali per la cittadinanza (la sanità, l’istruzione, la previdenza sociale
ecc.) – significa infatti, dal punto di vista delle multinazionali, ottimizzare il
regime fiscale di riferimento.
Il mercato del lavoro deve essere reso flessibile, al doppio scopo di com-
primerne nel breve termine il costo e, a lungo termine, di atomizzarne le
componenti, riducendone le capacità rivendicative. Come ha messo in luce
Luciano Gallino, una flessibilità pienamente realizzata tende a sostituire
(sino al limite della tendenziale estinzione) la contrattazione collettiva con
una contrattazione puramente individuale35. La logica sociale neoliberista
tende asintoticamente a spazzare via ogni solidarietà sociale, per ridurre
la società ad una somma inorganica di individui solitari e conflittualmente
competitivi36. La funzione di pacificazione sociale che, secondo Agnoli ed
Offe, veniva garantita dallo stato sociale viene rilevata dallo stato penale37.

34
 C. Crouch, Postdemocrazia, cit., pp. 42-43.
35
 Cfr. L. Gallino, Il costo umano della flessibilità, Laterza, Roma-Bari 2001.
36
 Nella medesima direzione spinge la logica del debito analizzata da Maurizio Lazzarato, La
fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, DeriveApprodi, Verona 2012.
37
 S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli, Milano 2000;
L. Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neo-
liberale, Feltrinelli, Milano 2000; L. Wacquant, Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale,
Ombre corte, Verona 2002; D. Garland, The Culture of Control: Crime and Social Order in Con-
temporary Society, Oxford University Press, Oxford 2001; L. Re, Carcere e globalizzazione. Il boom
penitenziario negli Stati Uniti e in Europa, Laterza, Roma-Bari 2006. Cfr. anche il Poscritto sulle
società di controllo, in G. Deleuze, Pourparlers, Quodlibet, Macerata 2000.
122 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

Diventa così vero per l’intera società ciò che nell’analisi marxiana era tipi-
co della piccola proprietà contadina, che come abbiamo visto era stata la
base sociale fondamentale del bonapartismo: oggettivamente accomunati
da condizioni di vita sempre più simili nella loro sempre più spinta pre-
carietà, gli abitanti delle società postdemocratiche non riescono a costruire
rapporti reciproci tali da permettere loro di trasformarsi in una classe au-
tocosciente e politicamente attiva. Ridotti dalla solitudine del proprio isola-
mento a curarsi solo del proprio individualissimo ‘pezzo di terra’, «incapaci
di far valere i loro interessi nel loro proprio nome» gli individui postdemo-
cratici divengono così l›ideale terreno di coltura delle nuove forme di cesa-
rismo mediatico che abbiamo analizzato nel precedente paragrafo, forme
che legittimano plebiscitariamente il controllo sociale sempre più capillare
ed invasivo che viene esercitato su di loro. Come i piccoli proprietari di cui
parlava Marx essi

Non possono rappresentare se stessi; debbono farsi rappresentare. Il loro


rappresentante deve in pari tempo apparire loro come il loro padrone, come
un’autorità che si impone loro, come un potere governativo illimitato, che li
difende […] e distribuisce loro dall’alto il sole e la pioggia38.

6.2.2 La dismissione del welfare

Il risultato della corsa al ribasso nelle tutele innescata dalla pressione


delle multinazionali globali è stata la complessiva messa in discussione
delle nozioni di servizio pubblico e di Stato sociale, nozioni che, come ab-
biamo visto, hanno rappresentato una componente fondamentale nel pro-
cesso di risemantizzazione postbellico della democrazia. Crouch racconta
così questo decisivo momento:

Dalla metà del XX secolo una serie di servizi di base sono stati almeno
parzialmente sottratti alla sfera d’azione del capitalismo e alle logiche del
mercato, perché considerati troppo importanti e universali. Come ha soste-
nuto T.H. Marshall in una formulazione memorabile, la gente ha acquisito il
diritto a questi beni e servizi, specie questi ultimi, in virtù del proprio status
di cittadini e non perché potessero comprarli sul mercato. Così come è dive-
nuto un tratto distintivo della democrazia che il diritto di voto o il diritto al
giusto processo non fossero in vendita, altrettanto è stato per il diritto a certi
servizi: se essi fossero messi sul mercato, questo rappresenterebbe una sorta
di diminuzione del valore della cittadinanza. […] La lista dei servizi varia
da una società all’altra e secondo le epoche, ma di solito include il diritto a
certi livelli di istruzione, sanità, varie forme di assistenza (compresi diversi

38
 K. Marx, Il 18 brumaio, cit., p. 146.
Verso la postdemocrazia? 123

servizi per l’infanzia) in caso di necessità, aiuti economici per la vecchiaia o


in caso di perdita temporanea o permanente della capacità di guadagnare
per disoccupazione, malattia o invalidità39.

Cedendo alle pressioni delle aziende globali sembra che i governi


postdemocratici stiano ripercorrendo questa via all’inverso, privatizzando
importanti funzioni pubbliche, ossia spogliandosi di ogni responsabilità di-
retta nella conduzione di quei servizi e nell’erogazione di quelle prestazio-
ni che avevano caratterizzato la cittadinanza delle democrazie welfariste.
Quello delle privatizzazioni è un meccanismo che si auto-alimenta e si au-
to-convalida. Spogliandosi del potere di intervento nei campi della sanità,
dell’assistenza, della previdenza che avevano riempito di sostanza l’invo-
lucro della democrazia liberale, gli stati perdono progressivamente le com-
petenze che operando in tali settori avevano acquisito. Essi sono dunque
costretti «a subappaltare ancora di più e a pagare consulenti per farsi dire
come fare» un lavoro che sino a poco prima rientrava nella amministrazio-
ne più ordinaria. In questo modo, secondo Crouch, i governi divengono
una sorta di idiota istituzionale, le cui mosse sono sempre mal informate e
avvengono sempre in ritardo rispetto a quelle dei soggetti che agiscono nel
mercato.
Dal disimpegno dalle funzioni che vengono di volta in volta ‘privatiz-
zate’ segue dunque un calo dell’autorità dello Stato e delle sue competenze,
un calo che a sua volta alimenta il bisogno di ricorrere a consulenti priva-
ti, in un circolo vizioso che ad ogni spossessamento dell’influenza e della
competenza pubblica fa corrispondere un aumento del potere delle lobby
industriali e finanziarie. Oltre al fatto che un alto livello di servizi è pos-
sibile solo a fronte di un regime impositivo elevato, ciascuno degli ambiti
che vengono in questo modo sottratti al controllo pubblico diviene infatti
un’area di ulteriore profitto per le imprese.
Da ciò dipende quella che è «la raccomandazione politica centrale
dell’ortodossia economica contemporanea» e che, in perfetta continuità con
la teorizzazione neoliberale dei Mises e degli Hayek, insegna che «lo Stato
farebbe meglio a non fare nulla, salvo garantire la libertà dei mercati»40.

6.2.3 La commercializzazione della cittadinanza

Questo processo di disimpegno dello stato dall’economia non ha solo


conseguenze di tipo economico-sociale. Esso comporta un mutamento pro-
fondo del significato anche politico della cittadinanza, un mutamento che
– allo stesso modo di quello innescato dalla trasformazione postdemocra-
tica dei partiti – sembra farne regredire il contenuto verso schemi che pa-

 C. Crouch, Postdemocrazia, cit., p. 93.


39

 Ivi, p. 53.
40
124 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

revano superati. Le aree socialmente strategiche che il welfare state aveva


progressivamente sottratto al mercato avevano, come abbiamo già avuto
modo di dire, riempito di contenuto la cittadinanza politica, trasformando-
la da legame puramente formale in una cittadinanza dotata di un contenu-
to sociale sostanziale41. Questo genere di cittadinanza sociale è stata la base
sulla quale, nel secondo dopoguerra, si sono edificate le democrazie con-
temporanee. Il fenomeno delle privatizzazioni può essere descritto come
un processo di progressiva commercializzazione e mercificazione dei contenuti
della cittadinanza democratica sorta da questo processo, e dunque come
un regresso verso una concezione prebellica di democrazia.
Le conseguenze politiche di questa commercializzazione appaiono con
evidenza se si prende per un attimo il punto di vista degli individui che
subiscono gli effetti delle crescenti pressioni che le grandi aziende multi-
nazionali possono esercitare nei confronti dei governi locali. Le masse po-
polari, infatti, non hanno a disposizione scelte simili a quelle delle imprese
multinazionali e dei grandi capitali finanziari che le sostengono. Esse, no-
nostante l’imponenza del fenomeno delle migrazioni internazionali42, sono
e rimangono assai più rigidamente legate ai territori degli stati nazionali
e agli obblighi fiscali che ne discendono di quanto non lo siano capitali ed
aziende43. La situazione che ne deriva, secondo Crouch, è per molti versi
simile a quella della Francia pre-rivoluzionaria, «quando monarchia e ari-
stocrazia erano esonerate dalla tassazione ma monopolizzavano il potere
politico, mentre classe media e contadini pagavano le tasse ma non aveva-
no diritti politici»44:

In epoca pre-democratica, le élite che dominavano la vita economica e


sociale monopolizzavano anche l’influenza politica e le cariche pubbliche.
La nascita della democrazia le ha obbligate quantomeno a condividere
quegli spazi con rappresentanti di gruppi non appartenenti all’élite. Oggi,
tuttavia, a causa della crescente dipendenza dei governi dalle competenze
e dai pareri di dirigenti delle multinazionali e grandi imprenditori e della
dipendenza dei partiti dai loro finanziamenti, andiamo verso la formazione
di una nuova classe dominante, politica ed economica, i cui componenti non
solo hanno potere e ricchezza in aumento per loro conto via via che le società

41
 È ciò a cui allude, come è noto, l’articolo 3 della nostra Costituzione, che dopo aver ricorda-
to il principio di eguaglianza ci tiene a precisare che questo principio non deve essere inteso in
senso soltanto formale: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economi-
co e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazio-
ne politica, economica e sociale del Paese».
42
 La migliore panoramica è quella di S. Castles, M.J. Miller, The Age of Migrations (4th ed.),
Palgrave MacMillan 2009.
43
 Cfr. ad es. S. Sassen, Globalizzati e scontenti, cit.
44
 C. Crouch, Postdemocrazia, cit., p. 43.
Verso la postdemocrazia? 125

diventano sempre più diseguali, ma hanno anche acquisito il ruolo politi-


co privilegiato che ha sempre contraddistinto l’autentica classe dominante.
Questo è il fattore centrale di crisi della democrazia all’alba del XXI secolo45.

Se le trasformazioni dei partiti sembrano aver fatto regredire la conce-


zione della rappresentanza verso una concettualità di tipo liberale ottocen-
tesco, l’effetto politico della globalizzazione sarebbe per Crouch dunque
quello di far regredire i legami di cittadinanza addirittura verso un oriz-
zonte pre-moderno.

6.3 Democrazia ed esclusione nell’era globale

Le pagine di Constant affrontate all’inizio del nostro percorso, e che ci


hanno permesso di scorgere alle origini del pensiero liberaldemocratico un
intreccio di democrazia ed esclusione, non avevano un interesse meramen-
te archivistico. Infatti, se l’esclusione politica della popolazione femminile
e delle ‘classi pericolose’ è stata lentamente superata, la facoltà di discri-
minare politicamente gli stranieri continua sino ad oggi ad essere pensa-
ta come un attributo naturale della sovranità statale. Questa circostanza,
se posta di fronte al fenomeno delle migrazioni internazionali, costituisce
un’ulteriore e decisiva linea di crisi delle istituzioni democratiche che sarà
necessario qui indagare. A questo scopo si tratterà anzitutto di chiarire che
cosa si debba intendere per cittadinanza all’interno di un orizzonte politico
democratico di tipo moderno.

6.3.1 Lo status di cittadino

Secondo Henry Sumner Maine l’affermarsi della modernità politica an-


drebbe compreso come un passaggio da società costruite sullo status, emi-
nentemente statiche e basate su dipendenze di tipo personale, a società
costruite sul contratto, nelle quali i rapporti sociali sono più dinamici e i di-
ritti degli individui non dipendono più dal ruolo da essi svolto all’interno
della comunità familiare d’ origine:

[…] partendo da una condizione della società nella quale tutte le relazioni
tra Persone erano riassunte all’interno delle relazioni della Famiglia, sembra
ci siamo mossi verso verso una fase dell’ordine sociale nella quale tutte que-
ste relazioni nascono da liberi accordi tra Individui. In Europa Occidentale il
progresso realizzato in questa direzione è considerabile. Lo status di Schiavo
è scomparso – è stato sostituito dalla relazione contrattuale che lega servo e
padrone. Lo stato della Donna sotto Tutela, se la tutela viene concepita come
quella di persone diverse dal marito, ha anch’essa cessato di esistere; dal

 Ivi, pp. 59-60.


45
126 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

momento della maggiore età sino al matrimonio tutte le relazioni nelle quali
la donna può entrare sono di tipo contrattuale. Così pure lo status del Figlio
sottomesso al Potere genitoriale non ha spazio nell’ordinamento legale delle
moderne società europee. Se una qualche obbligazione civile lega assieme il
Genitore e il figlio che abbia raggiunto l’età adulta, si tratterà di un’obbliga-
zione che trae la sua validità legale solamente dal contratto46.

Nel suo classico studio sulla cittadinanza Thomas Humphrey Marshall


riprende criticamente l’intuizione di Maine. A parere di Marshall, Maine
coglie una verità profonda occultando però un fatto essenziale. Per poter
affermare di trovarsi all’interno di una società moderna e democratica non
basta affermare che allo status si è sostituito il contratto, ma si deve presup-
porre che la libertà di contrattare si sia generalizzata e appartenga omogene-
amente a tutti membri del corpo politico.

[…] il contratto moderno è in sostanza un accordo tra uomini che sono liberi
e che posseggono uno status di uguaglianza. Lo status differenziato, legato
alla classe, alla funzione e alla famiglia, veniva sostituito da un unico status
uniforme della cittadinanza, che forniva le basi ugualitarie su cui si poteva
edificare la struttura della disuguaglianza47.

Questa libertà comunemente posseduta di disporre della propria perso-


na è dunque ciò che secondo Marshall fonda l’ultimo degli status conosciu-
ti dalla teoria politica moderna: lo status, appunto, di cittadino48. Se questo
è vero la differenza tra un sistema sociale di tipo antico ed uno moderno e
democratico non può essere compresa, come sosteneva Maine, come l’eli-
minazione dello status dalle relazioni sociali, quanto con l’estensione pro-
gressiva all’intera comunità di uno status unico e comune a tutti i membri
della comunità, uno status di libertà ed uguaglianza che coincide con la
cittadinanza democratica e che deve essere presupposto alla base di ogni ca-
pacità contrattuale.
Lo status della cittadinanza funziona per Marshall come un principio
formale. Il contenuto concreto di questa uguaglianza è invece un dato sto-
rico e contingente, che dipende da un lato dalla definizione dei membri di
pieno diritto e dall’altro dallo specifico set di diritti che vengono uguali-
tariamente garantiti ai membri del gruppo. Marshall segue nel suo studio
questo doppio percorso di progressiva estensione della cittadinanza alla
totalità del corpo politico e di progressivo differenziarsi ed approfondirsi

46
 H.S. Maine, Ancient Law. Its Connection With the Early History of Society, and Its Relation to
Modern Ideas, 1861.
47
 T. H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, cit., p. 37.
48
 La cittadinanza, nella presentazione marshalliana, «è uno status che viene conferito a co-
loro che sono membri a pieno diritto di una comunità. Tutti coloro che posseggono questo
status sono uguali rispetto ai diritti ed ai doveri conferiti da tale status» (ivi, p. 31).
Verso la postdemocrazia? 127

dei diritti ad essa connessi, secondo la ben nota successione di diritti civili,
politici e sociali. La storia della cittadinanza moderna appare così come la
storia di un movimento irresistibilmente tendente all’inclusione e all’ugua-
glianza, un movimento che coincide in buona misura con la storia del pro-
gressivo affermarsi delle moderne democrazie.

6.3.2 Dialettica della cittadinanza

Anche l’approccio di Marshall coglie un aspetto importante della que-


stione, occultando però un fatto essenziale. Il carattere statutario assun-
to dalla cittadinanza all’interno di un ambiente politico democratico può
entrare in profonda contraddizione con il carattere includente e progres-
sivo del movimento storico qui sopra descritto. Come ha mostrato con
chiarezza Etienne Balibar49, se all’interno dei confini della comunità politi-
ca la cittadinanza moderna opera come base per l’uguaglianza, riguardata
dall’esterno essa assume tutt’altra connotazione. Guardata con gli occhi di
coloro che non possiedono lo status di cittadini, la cittadinanza funziona
infatti anzitutto come una regola d’esclusione:

[…] per definizione non vi è «cittadinanza» che là dove vi è «città», vale a


dire là dove i «con-cittadini» e gli «stranieri» sono chiaramente distinti in
termini di diritti e obbligazioni all’interno di un territorio comune50.

In effetti, il carattere escludente della cittadinanza esiste sin dalle sue


più antiche formulazioni. Come ricorda Emile Benveniste «bisogna rico-
noscere in civis la designazione che si scambiavano, all’origine, i membri
di un gruppo detentore dei diritti di indigenato, in opposizione alle diverse
varietà di ‘stranieri’»51. Così già nell’Atene classica il criterio della residen-
za non era sufficiente a qualificare il cittadino che, per essere tale, doveva
essere figlio di ateniesi52, venendo a costituire di fatto una comunità chiusa
che si autoriproduce seguendo la linea della filiazione. Nelle condizioni
della modernità la cittadinanza si allontana progressivamente dalle conce-
zioni sostanzialiste che la concepivano come riflesso di una comunanza di
stirpe, e questo in special modo a seguito della sconfitta del nazismo e della
metafisica razziale sulla quale era ideologicamente fondato. Dopo l’esperien-
za nazista

49
 E. Balibar, Nous citoyens d’Europe. Les frontières, l’Etat, le peuple, La Découverte, Paris 2001; E.
Balibar, Droit de cité. Culture et politique en démocratie, Editions de l’Aube, Paris 1998.
50
 E. Balibar. Nous citoyens d’Europe, cit., p. 246.
51
 E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino 1976, vol. I, p. 258.
52
 Cfr. M. Détienne, Comment être autochtone. Du pur Athénien au Français raciné, Seuil, Paris
2003.
128 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

[…] il rifiuto del razzismo di stato e la contemporanea celebrazione dei di-


ritti umani sono divenuti la doxa o l’episteme delle società occidentali, che
nessuno sano di mente può mettere in dubbio. Anche coloro che ne dissen-
tono devono formulare le loro rivendicazione in una nuova lingua, la lingua
dell’eguaglianza e della non discriminazione53.

Nonostante questa rivoluzione epistemologica – che ha coinciso con quella


democratizzazione delle relazioni internazionali che Bobbio ha chiamato
‘l’età dei diritti’54 – abbia costretto a prendere le distanze dalle concezioni
sostanzialiste del legame di cittadinanza, l’idea che gli stati non avrebbero
alcuna obbligazione morale nei confronti degli ‘estranei’ e sarebbero dun-
que liberi di restringere l’immigrazione a loro totale discrezione, continua
ad apparire scontata. Ciò trova riscontro nella stessa Dichiarazione dei diritti
dell’uomo del 1948 che, pur contemplando come un diritto di libertà fon-
damentale quello di poter lasciare in ogni momento il proprio paese, non
prevede un corrispettivo dovere di accogliere chi se ne avvalga.
Secondo Michael Walzer – il quale ha il merito di essere stato uno dei
primi a porsi filosoficamente il problema –, ciò dipende dal fatto che, una
volta riconosciuto un limitato dovere d’asilo fondato sull’obbligo umano al
«reciproco aiuto» (qualcosa di simile al concetto kantiano di ospitalità55), è
assolutamente legittimo per uno stato democratico controllare e restringe-
re l’immigrazione. Come i soci di un circolo esclusivo hanno il diritto di con-
trollare le ammissioni allo stesso, così i «membri di una comunità politica
hanno il diritto collettivo di plasmare la popolazione residente»56 come me-
glio credono. Anzi, il potere di ammettere o di escludere a piacimento gli
stranieri costituisce a suo avviso «il nucleo dell’indipendenza di una comu-

53
 C. Joppke, Citizenship and Migration, Polity, Cambridge 2010, p. 149. Joppke ne deduce che
non ci sia alcuna possibile way back verso questo mondo definitivamente passato. In verità,
la rivoluzione epistemologica cui Joppke si riferisce ha contribuito a diffondere l’illusione
che la battaglia contro il razzismo fosse vinta già negli anni ‘50 del Novecento, quasi che le
pretese scientifiche del razzismo teorico fossero state in ultima istanza la causa determinante
del razzismo europeo e che la tragica sconfitta storica della metafisica razziale nazista, unita
ad un’adeguata opera di educazione antirazzista, avesse potuto scongiurare il rischio del suo
ripresentarsi. L’esperienza successiva ci ha mostrato una diversa evidenza: le razze, la cui
stessa esistenza era pur stata screditata dalla scienza biologica, hanno continuato ad esistere
e a riprodursi nelle pratiche sociali, tanto come risultati dei processi di gerarchizzazione e di
sfruttamento, quanto come punti di convergenza identitari attorno ai quali organizzare stra-
tegie di resistenza a questi stessi processi. Cfr. E. Balibar, La construction du racisme, «Actuel
Marx», 38, 2, 2005, pp. 11-28; Th. Casadei, L. Re (a cura di), Differenza razziale, discriminazione e
razzismo nelle società multiculturali, Voll. 1 e 2, Diabasis, Reggio Emilia 2007; Th. Casadei (a cura
di), Razza, discriminazioni, istituzioni, numero monografico della «Rivista trimestrale di scienza
dell’amministrazione», LII, 4, 2007.
54
 Cfr. N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990.
55
 Cfr. I. Kant, Per la pace perpetua, in particolare il Terzo articolo definitivo, in Id., Sette scritti
politici liberi, a cura di Maria Chiara Pievatolo, Firenze University Press, Firenze 2011. Per una
analisi delle implicazioni si veda G. Marini, La filosofia cosmopolitica di Kant, Laterza, Roma-
Bari 2007.
56
 M. Walzer, Sfere di giustizia, cit., p. 61.
Verso la postdemocrazia? 129

nità», e racchiude «il significato più profondo dell’autodeterminazione». Se


gli stati abdicassero a questo potere non potrebbero più esserci «comunità
con un carattere proprio, associazioni continuative e storicamente stabili»57.
L’argomento di Walzer ci permette di capire alcune delle ragioni di
quella vera e propria ossessione del confine che caratterizza ideologicamen-
te il nostro mondo globalizzato. La globalizzazione è un movimento di
travalicante sconfinamento che sfida apertamente la logica politica delle
modernità nazionali, fatte di identità riconoscibili, distinte e concorrenti,
racchiuse e delimitate da precisi confini culturali e territoriali. Letto in que-
sta prospettiva, il controllo del movimento degli esseri umani – e dunque il
potere di esclusione della cittadinanza – è percepito come una questione
decisiva per quelle comunità culturali autodeterminate ed indipendenti
che gli stati nazionali vogliono essere58. Nonostante nel nostro sempre più
piccolo mondo capitali, merci e informazioni circolino con una velocità ed
una libertà inusitate, o forse proprio per questo, «la nazione moderna è an-
cora (poiché vuole ancora essere) una città»59.

6.3.3 Esclusione, sfruttamento, razzismo.

Le politiche di controllo dell’immigrazione praticate dalle democrazie ne-


oliberali dimostrano che la dimensione dell’appartenenza nazionale ha
ancora un’importanza politica decisiva. Il risorgere delle politiche dell’i-
dentità non deve essere letta solo come una reazione di rigetto o una forma
di auto-difesa delle comunità nazionali minacciate dall’incedere travol-
gente della globalizzazione. L’ossessione del confine non è solo una poli-
tica simbolica di difesa delle etnicità più o meno fittizie e dei loro ‘effetti di
comunità’60: essa incarna una necessità sistemica che trae profitto dalla divi-
sione e dalla concorrenza tra le nazioni61. Il confinamento degli esseri umani
è infatti perfettamente funzionale a esacerbare quei meccanismi di concor-
renza internazionale che abbiamo visto stare alla base del fenomeno del-
la commercializzazione della cittadinanza sopra descritto. Non solo, ma
l’immigrazione, spingendo ingenti masse di persone a spostarsi nei luoghi
dove le prospettive economiche e le tutele del lavoro appaiono migliori, di-

57
 Ivi, p. 70.
58
 In realtà questa necessità dipende dal carattere «binario» (dentro-fuori) della cittadinanza
che, diversamente dall’appartenenza (belonging) o dai legami socio-economici (ties o stakes),
non conosce quel genere di sfumate gradazioni che contraddistinguono l’esperienza concreta
di chi vive sui – o tra i – confini. Cfr. R. Bauböck (ed.), Blurred boundaries. Migration, Ethnicity,
Citizenship, Ashgate, Aldershot 1997.
59
 E. Balibar. Nous citoyens d’Europe, cit., p. 246.
60
 Cfr. E. Balibar, Lo schema genealogico: razza o cultura?, «La società degli individui», 41, 2,
2011, pp. 11-21.
61
 P. Basso (a cura di), Razzismo di stato. Stati Uniti, Europa, Italia, Franco Angeli, Milano 2010;
P. Basso, F. Perocco (a cura di), Gli immigrati in Europa. Diseguaglianze, razzismo, lotte, Franco
Angeli, Milano 2003.
130 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

sloca e moltiplica l’effetto dei confini, trasportandoli attraverso i corpi dei


migranti all’interno degli spazi politici nazionali. In questo modo, come ha
sostenuto Linda Bosniak,

Il controllo dei confini nazionali non si limita allo specifico dominio dei
confini fisici e territoriali dello stato nazione ma si estende anche al territorio
interno, e dà forma alla messa in atto della cittadinanza democratico-eguali-
taria all’interno della società nazionale 62.

La concorrenza al ribasso diviene così – per tramite di questa introver-


sione dei confini – un fenomeno interno alla stessa popolazione lavoratrice
presente all’interno dei singoli territori: una volta che le popolazioni locali,
titolari dei pieni diritti civili, politici e sociali, siano statutariamente sepa-
rate dalle popolazioni immigrate, dotate di diritti e dunque di capacità di
rivendicazione inferiori, la presenza in loco di queste ultime innesca un
meccanismo che comprime complessivamente i diritti di tutti, ottimizzan-
do le condizioni di investimento delle grandi aziende globali. La comoda
gerarchizzazione politica, sociale ed economica che è generata da un simile si-
stema di controllo della mobilità umana merita, secondo Balibar, di essere
descritta come un vero e proprio regime di apartheid63. Secondo il filosofo
francese

[…] ciò che suggerisce l’impiego di un simile termine, è il processo di costru-


zione di una popolazione inferiorizzata (nei diritti e dunque anche nella di-
gnità), tendenzialmente sottomessa a forme violente di controllo securitario,
che deve vivere in permanenza «sulla frontiera», né assolutamente all’ester-
no né completamente all’interno64.

Letta nella prospettiva del confinamento e del controllo della forza la-
voro mondiale, la cittadinanza nazionale, lungi dal funzionare come un
principio di inclusione, produce dunque gerarchia e inferiorità, contri-
buendo a perpetuare sino al nostro presente dispositivi di origine colo-
niale65. Secondo Stephen Castles è proprio a tali dispositivi che dobbiamo

62
 L.S. Bosniak, The Citizen and the Alien: Dilemmas of Contemporary Membership, Princeton Uni-
versity Press, Princeton 2006, p. 9.
63
 L. Ferrajoli, Democrazia e paura, in M. Bovero, V. Pazé, La democrazia in nove lezioni, Laterza,
Roma-Bari 2010; D. Bigo, Sicurezza e immigrazione. Il governo della paura, in S. Mezzadra, A.
Petrillo, (a cura di), I confini della globalizzazione. Lavoro, culture, cittadinanza, Manifestolibri,
Roma 2000; A. Geddes, Immigration and European Integration. Towards Fortress Europe?, Man-
chester University Press, Manchester and New York 2000; A. Dal Lago, Non persone. L’esclusio-
ne dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 1999.
64
 E. Balibar, Nous citoyens d’Europe, cit. p. 309.
65
 Cfr. S. Mezzadra, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Ombre corte, Vero-
na 2006 (nuova ed.); S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale,
Ombre Corte, Verona 2008; D. Costantini (a cura di), Multiculturalismo alla francese? Dalla colo-
nizzazione all’immigrazione, FUP, Firenze 2009.
Verso la postdemocrazia? 131

guardare se vogliamo spiegare il fenomeno del razzismo contemporaneo.


Com’è stato ripetuto da molti prestigiosi interpreti del fenomeno66, il neo-
razzismo è un razzismo di stampo culturalista o differenzialista, un razzismo
‘senza razza’ che per essenzializzare le differenze tra i gruppi – legittiman-
done così le relazioni gerarchiche – non fa più riferimento a concetti di
tipo biologico. Al posto della razza, per fissare i confini tra i gruppi, sono
mobilitate le differenze culturali che – certificate nel modo più imparziale
proprio dallo status giuridico di ‘straniero’ – possono essere usate come
strumenti tassonomici altrettanto efficaci. La lettura che deriva da questa
griglia di analisi culturalista, ribaltando l’ordine delle cause e delle con-
seguenze, può così leggere le situazioni sociali razziste come conseguenza
dell’eccesso di differenza indotta dal fenomeno dell’immigrazione e ap-
pellarsi allo strumento giuridico della cittadinanza per difendersi da esso.
Facendo leva su di un simile strumento non c’è bisogno neppure di insiste-
re sulla superiorità (o sull’inferiorità) di un gruppo rispetto ad un altro per
naturalizzarne l’esclusione (o per invocarne l’espulsione): nella prospettiva
‘ecologica’ del razzismo differenzialista ciò che conta è che ‘ognuno stia al
suo posto’.
Al di là delle retoriche intorno alla diversità ‘culturale’ delle popolazio-
ni immigrate, è proprio la cittadinanza (e l’acritica difesa dei suoi confini)
lo strumento fondamentale che legittima politicamente e diffonde social-
mente queste «nuove tecniche di selezione umana, individuale o colletti-
va legate alla concorrenza mercantile generalizzata»67. Formalmente eguali
tanto al proprio interno che tra di loro, le diverse cittadinanze nascondono
dietro di sé «l’ineguaglianza della concrete possibilità di vita»68 che a cia-
scuna di esse è connessa. Dietro alla maschera di un pluralismo inteso in
modo quasi naturalistico, si viene così a comporre una stratificata gerarchia
globale delle cittadinanze69, denso precipitato degli intrecci complessi della
storia e del potere.

66
 Questa trasformazione delle strategie del razzismo erano già state colte da Frantz Fanon
che in una conferenza pronunciata nel 1956 a Parigi, in occasione del ‘Primo congresso degli
scrittori e degli artisti neri’, descriveva il riconfigurarsi del razzismo su basi ‘culturali’ e met-
teva in guardia contro le aporie dell’educazione antirazzista. Cfr. F. Fanon, Razzismo e cultura,
in F. Fanon, Scritti politici. Per la rivoluzione africana. Vol. I, DeriveApprodi, Verona 2006. Cfr.
anche P.A. Taguieff, La force du préjugé. Essai sur le racisme et ses doubles, Editions La Découver-
te, Paris 1988; G.M. Fredrickson, Breve storia del razzismo, Donzelli, Milano 2005; M. Wieviorka,
Il razzismo, Laterza, Roma-Bari 2000.
67
 E. Balibar, Il ritorno al futuro della razza: tra società e istituzioni, intervista a cura di Th. Casa-
dei, «Rivista trimestrale di scienza dell’amministrazione», LII, 4, 2007, pp. 13-38, p. 15.
68
 A. Shachar, The Birthright Lottery: Citizenship and Global Inequality, Harvard Univeristy Press,
Cambridge (MA) 2009, p. 9.
69
 S. Castles, Nation and Empire: Hierarchies of Citizenship in the New Global Order, «International
Politics», XLII, 2, 2005, pp. 203-224. Cfr. anche le tesi di I. Wallerstein, in E. Balibar, I. Waller-
stein, Razza, nazione, classe. Le identità ambigue, Edizioni associate, Roma 1991.
132 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

6.3.4 I confini della democrazia

Il neo-razzismo contemporaneo – che, come tutti i razzismi che lo hanno


preceduto, è assieme una situazione sociale di sfruttamento e una strategia
di legittimazione della stessa – ha trovato come via maestra per la produ-
zione delle proprie comode tassonomie culturali la gerarchia globale delle
cittadinanze. Questa gerarchia trova fondamento giuridico e simbolico nel
sistema dei controlli dell’immigrazione, un sistema che costruisce intor-
no alla pietra angolare della cittadinanza quei processi di compartimenta-
zione della società che sono la principale fonte del razzismo istituzionale
contemporaneo. Lette in questa prospettiva, le difficoltà che le moderne
democrazie liberali hanno nell’accomodare la crescente differenza che le
abita70 non sono dunque il segno di una questione vagamente culturale –
della presunta impossibilità di integrare un altro che spesso è pensato co-
me essenzialmente antimoderno ed antidemocratico71 –, ma di un decisivo
problema politico. Queste difficoltà indicano cioè una crisi profonda della
cittadinanza democratica, un’istituzione che non riesce più ad essere ciò
che la teoria politica moderna aveva preteso all’origine che fosse, e cioè un
fattore di inclusione e di uguaglianza.
Walzer stesso del resto coglieva il problema che il fenomeno dell’im-
migrazione costituisce per la nostra democrazia quando riconosceva che
quegli stessi estranei che la comunità democratica ha pure il diritto di te-
nere fuori dai propri confini, una volta che siano entrati al loro interno,
dovranno essere ammessi al godimento dei pieni diritti di cittadinanza, a
pena di mettere a rischio lo stesso carattere democratico della comunità
di accoglienza. Il potere politico, infatti, «non può essere esercitato demo-
craticamente senza il continuo consenso di chi vi è soggetto». E poiché a
questo potere «sono soggetti tutti gli uomini e tutte le donne che vivono
nel territorio in cui quelle decisioni sono imposte»72 i diritti di partecipazio-
ne politica all’interno di una società che si voglia democratica dovrebbero
essere estesi all’insieme delle popolazioni immigrate. Non soddisfacendo
questa condizione il regime di controllo esistente dell’immigrazione viene
così a violare quello che Walzer considera il basilare principio della giustizia
politica in una società democratica, il quale stabilisce che

70
 Il problema dell’integrazione della differenza è stato affrontato negli ultimi decenni da una
pluralità di prospettive diverse. Tra le tante, si vedano almeno, M.I. Young, La politica della
differenza, cit.; W. Kimlicka, La cittadinanza multiculturale, Il Mulino, Bologna 1999; A. Honneth,
La lotta per il riconoscimento, Il Saggiatore, Milano 2002. Per una sintetica introduzione alle que-
stioni in gioco: M.L. Lanzillo, Il multiculturalismo, Laterza, Roma-Bari 2005; C. Galli (a cura di),
Multiculturalismo, ideologia e sfide, Il Mulino, Bologna 2006; F. Fistetti, Multiculturalismo. Una
mappa tra filosofia e scienze sociali, UTET, Torino 2008.
71
 Cfr. D. Costantini, Metamorfosi dell’integrazione. Dalla non discriminazione al razzismo, «La so-
cietà degli individui», 41, 2, 2011, pp. 39-56.
72
 M. Walzer, Sfere di giustizia, cit., p. 67.
Verso la postdemocrazia? 133

[…] i processi di autodeterminazione attraverso i quali uno stato democrati-


co organizza la propria vita interna devono essere aperti, in misura uguale,
a tutti gli uomini e a tutte le donne che vivono sul suo territorio, lavorano
nell’economia locale e sono soggetti alla legge locale73.

Contribuendo a legittimare l’esclusione e l’inferiorizzazione di masse cre-


scenti di popolazioni che partecipano costantemente e attivamente alla
vita economica e sociale dei nostri paesi, le politiche migratorie fondate
sul carattere escludente della cittadinanza sollevano dunque delle questio-
ni decisive per la teoria democratica. Tali questioni risultano ancora più
stridenti rispetto al nostro senso comune se si nota, come ha fatto Joseph
Carens, che la cittadinanza

È assegnata al momento della nascita; non può nella maggior parte dei
casi essere cambiata dalla volontà o dagli sforzi dell›individuo; ed ha conse-
guenze decisive sulle sue chances di vita74.

Ayelet Shachar ha analizzato in profondità il meccanismo ascrittivo del-


la cittadinanza qui descritto da Carens, leggendolo a partire da una pro-
spettiva di giustizia globale. Le leggi che presiedono alla trasmissione della
cittadinanza, suggerisce Shachar, assomigliano curiosamente a quelle «che
davano forma e regolavano nel dettaglio la rigida legislazione riguardante
la trasmissione della proprietà terriera negli antichi regimi di proprietà»75.
Letta in questa prospettiva la cittadinanza appare come un titolo di proprietà
trasmesso ereditariamente «ad un ristretto gruppo di percettori, a condizioni
che perpetuano il trasferimento di questo prezioso titolo al corpo dei loro, e
specificamente a quello dei loro eredi»76. Secondo Shachar, mentre nel cam-
po delle ricchezze materiali le conseguenze socialmente disfunzionali della
trasmissione ereditaria sono state lungamente criticate dal punto di vista
teorico e regolate da quello legale al fine di ottenere un effetto perequativo,
quel decisivo privilegio di nascita che è connesso al possesso delle cittadi-
nanze più ‘fortunate’ non è mai stato messo in questione, e si trasferisce in-
tatto di generazione in generazione sottoponendo il destino di ogni nuovo
nato ad una cinica birthright lottery che, determinando arbitrariamente alla
nascita il posizionamento di ciascuno nella gerarchia globale delle cittadi-
nanze, ne segna indelebilmente il destino personale, contribuendo a ga-

73
 Ivi, p. 69.
74
 J.H. Carens, Migration and Morality: A Liberal Egalitarian Perspective, in B. Barry and R. Goo-
din (eds.) Free Movement. Ethical Issues in the Transnational Migration of People and of Money, The
Pennsylvania University Press, Pennsylvania 1992, p. 26.
75
 A. Shachar, The Birthright Lottery: Citizenship and Global Inequality, cit., p. 2. Si veda anche
A. Shachar, R. Hirschl, Citizenship as Inherited Property, «Political Theory», XXXV, 3, 2007, pp.
253-287.
76
 A. Shachar, The Birthright Lottery, cit., p. 5.
134 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

rantire nel tempo la riproduzione dell’attuale distribuzione mondiale della


ricchezza e del potere.
Nonostante l’evidente problematicità delle questioni qui brevemente ri-
cordate, la riflessione filosofico politica intorno al tema della cittadinanza
ha dato a lungo per scontata l’idea che le democrazie liberali avessero defi-
nitivamente risolto il problema dell’inclusione e dell’eguaglianza politica77.
Come ha rilevato Linda Bosniak in ciò si scorge il profilo di una sorta di
nazionalismo metodologico, che ha mantenuto come una premessa inquestio-
nabile l’assunto rawlsiano per il quale «la società democratica è un sistema
sociale chiuso e completo»78. Un simile assunto ha permesso di elimina-
re dalla considerazione le interazioni delle società democratiche con tutto
ciò che sta – spesso solo formalmente – all’esterno dei loro confini. Se ta-
li interazioni venissero tenute nella debita considerazione – comprenden-
do che ciò che è considerato come formalmente esterno è invece spesso parte
integrante della vita interna degli stati democratici – la cittadinanza moderna
apparirebbe tutt’altro che politicamente egualitaria e il problema dell’in-
clusione rimarrebbe manifestamente aperto, disvelando la condizione di
statutaria inferiorità di quei milioni di ‘stranieri’ che, pur vivendo sul territo-
rio di stati democratici, pur essendo sottoposti alle loro legislazioni, e pur
partecipando quotidianamente e continuativamente alla loro vita economi-
ca, sociale e culturale, rimangono formalmente esclusi dalla partecipazione
politica.
Intesa come status piuttosto che come «produttrice di status»79, la cit-
tadinanza democratica finisce in questo processo per assomigliare sempre
più a ciò che voleva sostituire: assomiglia cioè ad un privilegio, ovvero, per
usare le parole di Luigi Ferrajoli, «ad un ultimo relitto premoderno delle
disuguaglianze personali»80 in aperto contrasto con la proclamata univer-
salità dei diritti fondamentali della persona umana.

77
 Cfr. R. Bauböck, Migration and Citizenship. Legal Status, Rights and Political Participation, Am-
sterdam University Press, Amsterdam 2006.
78
 J. Rawls, Political Liberalism, Columbia University Press, New York 1993, citato in L.S. Bos-
niak, The Citizen and the Alien, cit., p. 6. «Analysts maintain a presumption of national priority
without the need for either its acknowledgement or its defense. Their moral nationalism ap-
pears not to be a normative choice but a metaphysical given» (ivi, p. 7).
79
 Sono quelli che Balibar chiama il polo statutario e il polo egualitario della cittadinanza. Cfr. E.
Balibar. Nous citoyens d’Europe, cit., p. 252.
80
 L. Ferrajoli, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, in D. Zolo (a cura di), La cittadinanza.
Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994, pag. 288. Per un approccio critico alla
questione dell’esclusione democratica si vedano anche L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo mod-
erno, Laterza, Roma-Bari 2004; J.H. Carens, Immigrants and the Right to Stay, MIT Press, Boston
2010; B. Honig, Democracy and the Foreigner, Princeton University Press, Princeton 2001; S.
Castles, A. Davidson, Citizenship and Migration. Globalization and the politics of belonging, Mac-
millan, London 2000; J.H. Carens, Membership and morality: admission to citizenship in liberal
democratic states, in W.R. Brubaker (ed.), Immigration and the Politics of Citizenship in Europe and
North America, University Press of America, Washington D.C. 1989.
Conclusione

Le lamentele ordinarie sulla democrazia ingoverna-


bile rinviano in ultima istanza al fatto che la demo-
crazia non è una società da governare né un governo
della società, ma proprio l’ingovernabile su cui ogni
governo si scopre infine fondato.
J. Rancière, L’odio per la democrazia

Nonostante la crisi delle sue istituzioni ‘reali’ sia sempre più manife-
sta, l’idea democratica continua ad essere considerata come la sola garan-
zia possibile della legittimità degli ordinamenti politici. L’automatismo di
questo richiamo – specie quando viene operato da quegli stessi governi
post-democratici che si adoperano con tanta alacrità alla distruzione dei
contenuti che le istituzioni democratiche avevano faticosamente guadagna-
to nel corso della loro storia – rischia di sfociare in una pietrificante rei-
ficazione. Accettando la riduzione della democrazia alle istituzioni delle
democrazie d’elezione realmente esistenti, il concetto di democrazia viene
privato di ogni profondità storica e di ogni urgenza politica. Nell’epoca
della democrazia trionfante e inquestionabile, la forma – particolare e con-
tingente – assunta dalle istituzioni democratiche al termine di quel lungo e
accidentato cammino storico il cui profilo si è scorto sullo sfondo della no-
stra indagine, viene pensata come una forma naturale e definitiva. Sottratta
alla critica teorica e alla lotta politica, la democrazia si ipostatizza, santifi-
cando le proprie istituzioni trionfanti cui fornisce una legittimazione sem-
pre più formalistica.
L’irriflessa e diffusa disponibilità ad accettare una tale riduzione rap-
presenta uno dei più gravi problemi del nostro presente politico. Il trionfo
ideologico sopprime infatti quello che era stato un motore fondamentale
della dinamica storica della democrazia, ovvero il confronto critico sul si-
gnificato e sul funzionamento delle sue istituzioni. Come il percorso che
abbiamo svolto dovrebbe aver permesso di apprezzare, l’evoluzione stori-
ca delle istituzioni democratiche aveva sempre trovato nelle critiche teori-
che (e nelle lotte politiche e sociali da queste ispirate) un prezioso stimolo:
la critica liberale aveva permesso il costituirsi e il perfezionarsi del mecca-
nismo della rappresentazione parlamentare; la critica socialista ne aveva
criticato i limiti formali e sostanziali, spingendo prima per l’allargamento
136 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

del suffragio e poi per quello dei contenuti della cittadinanza democratica;
la critica elitista aveva fornito gli elementi utili a una critica delle ‘demo-
crazie reali’ e, più in generale, delle derive autoreferenziali delle organiz-
zazioni politiche.
Nel loro complesso queste critiche hanno accompagnato la parabola
storica compiuta dalle istituzioni democratiche, fornendo un costante sti-
molo alla loro evoluzione. Il trionfo ideologico della democrazia seguito
al collasso dell’esperimento sovietico sembra aver messo fine a questa di-
namica. Ridotta al guscio vuoto ed immobile della sua presente ipostasi
neoliberale, la democrazia si è progressivamente svuotata di contenuto,
pur continuando a trarre l’essenziale della propria legittimità dal fatto di
autoproclamarsi perfettamente realizzata. Smettendo di essere l’oggetto
di quell’aspro confronto ideologico e di quella dura battaglia politica che
aveva come posta in gioco l’evoluzione delle sue istituzioni, la democra-
zia si è progressivamente de-politicizzata1. Esorcizzando ogni disaccordo2
profondo intorno alle proprie istituzioni e finalità, essa si è ridotta a quel
meccanismo di legittimazione cinico e formalistico che abbiamo chiamato
postdemocrazia.
Se questo è vero, allora ciò che si richiede per tentare di uscire dall’im-
passe nella quale le nostre democrazie sembrano sprofondate è anzitutto
che non ci si accontenti della riduzione normativa della democrazia alle boc-
cheggianti forme della competizione elettorale cui il pensiero schumpete-
riano e neoliberale l’hanno ridotta. Ciò che si richiede è che si riapra una
stagione di interrogazione critica rispetto alle sue istituzioni, che riattivi la
perduta capacità di pensarne la storicità e la politicità.
Come antidoto al riduzionismo imperante sembra utile proporre un’in-
tuizione del giovane Marx. Nel nostro percorso abbiamo avuto modo di
soffermarci sulla critica marxiana del formalismo della democrazia bor-
ghese, una critica che ha inaugurato un intero filone interpretativo il quale
ha avuto un ruolo decisivo nella successiva evoluzione storica delle istitu-
zioni democratiche.

1
 Secondo Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, le principali patologie che affliggono le moderne
democrazie liberali derivano proprio dalla progressiva neutralizzazione del conflitto propria-
mente politico intorno ai valori fondanti del discorso e delle istituzioni democratiche. Per
Laclau e Mouffe, pensare una democrazia perfettamente consensuale – una democrazia che
non ha più bisogno di quell’agonico disaccordo sui fondamenti di cui la politica si nutre – è
dunque pensare una democrazia impolitica. Cfr. E. Laclau, Ch. Mouffe, Hegemony and socialist
strategy. Towards a radical democratic politics, Verso, New York 2001 (2nd ed.). Sul tema si ve-
dano anche Ch. Mouffe, On the political, Routledge, London 2005; Ch. Mouffe, The democratic
paradox, cit.
2
 Cfr. J. Rancière, Il disaccordo, Meltemi, Roma 2007. Per una lettura sociologica che valorizza
il conflitto come «vero pilastro della società democratica» cfr. A. Hirschman, Social conflicts as
pillars of democratic market society, «Political Theory», 22, 1994, pp. 203-218, p. 206. In una dire-
zione simile si muove anche E. Balibar, Cittadinanza, Bollati Boringhieri, Torino 2012.
Conclusione 137

Il rapporto del pensiero marxiano con la democrazia è assai più com-


plesso di come lo abbiamo dipinto: accanto alla critica del formalismo
democratico c’è nella vasta opera di Marx spazio per una considerazione
molto più positiva della democrazia, una considerazione che si potrebbe
giustificare anche solo ricordando che l’estensione universale del suffragio
fu uno degli obiettivi politici del movimento operaio sin dalle sue origini3.
Alcune riletture recenti dell’opera marxiana sono andate oltre all’afferma-
zione dell’esistenza di questa convergenza strategica, sottolineando come il
desiderio di venire a capo del problema dell’emancipazione umana – e con
esso dunque anche di tutto ciò che è abitualmente rubricato come comu-
nismo –, non possa in verità essere compreso se non avvicinandolo anche
attraverso il prisma della ricerca di una «vera democrazia»4. Sin dalla pro-
duzione più giovanile sembra infatti che convivano in Marx due diverse
concezioni di democrazia. Se democrazia è infatti il nome di quella parti-
colare forma di governo di cui abbiamo già affrontato la critica, d’altro can-
to essa indica quella universale capacità di autodeterminazione popolare sulla
quale, in ultima istanza, ogni forma di governo è fondata. Secondo il Marx
della Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico,

La democrazia è il genus della costituzione. […] Nella monarchia il tut-


to, il popolo, è sussunto sotto uno dei suoi modi di esistere, la costituzione
politica; nella democrazia la costituzione stessa appare semplicemente come
una determinazione, cioè autodeterminazione del popolo. Nella monarchia
abbiamo il popolo della costituzione; e nella democrazia la costituzione del
popolo5.

3
 Si confronti ad esempio il Manifesto del partito comunista, ed in particolare le conclusioni
del secondo capitolo (Proletari e comunisti) dove la «conquista della democrazia» è identifica-
ta come il primo degli obiettivi del partito comunista.
4
Penso ad esempio a M. Abensour, La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavel-
liano, Cronopio, Napoli 2008 e M. Ciliberto, La democrazia dispotica, Laterza, Roma-Bari 2011.
Lo stesso Giovanni Sartori, da posizioni del tutto differenti, ritiene che la considerazione mar-
xiana della democrazia rimanga ampiamente ‘positiva’ sino al 1845, anno della sua «conver-
sione» (sic) al comunismo (cfr. il capitolo 13.1 di G. Sartori, Democrazia: cosa é?, Rizzoli, Milano
2000). In verità la considerazione ‘positiva’ della democrazia risuona ben oltre, ad esempio
nel Manifesto del partito comunista del 1848 o in La guerra civile in Francia del 1871. La ricerca
di una ‘vera democrazia’ non si può limitare tuttavia alle celebri pagine sulla Comune, nelle
quali viene impostata la canonica contrapposizione di una democrazia liberal-rappresentativa
ad una popolare e diretta, ma sembra rimandare ad una sua ancor più costitutiva ambiguità.
Tale ambiguità è particolarmente difficile da sciogliere anche perché il filosofo tedesco non
riuscì mai a compiere lo studio sistematico dello Stato politico che pure aveva pensato di rea-
lizzare. L’essenziale deve così essere ricavato incrociando la lettura da un lato dei suoi scritti
giovanili (in particolare la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico e La questione ebraica)
e dall’altra degli scritti storici (Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Il 18 brumaio di Luigi
Bonaparte, La guerra civile in Francia).
5
 K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, Quodlibet, Macerata 2008, p. 69.
138 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

La democrazia, continua Marx, «è l’enigma risolto di tutte le costitu-


zioni» poiché essa sola permette di comprenderne la «verità»6, mostran-
do quindi ciò che è vero per ogni costituzione politica: essa svela cioè
come ogni costituzione non sia in definitiva altro che il «libero prodotto
dell’uomo».
In questa affermazione vi è l’essenziale di quel completo ribaltamento
della filosofia di Hegel che Marx conduce a termine. Nella filosofia del di-
ritto hegeliana tutte le figure che compongono la società civile (la proprie-
tà, il contratto, il matrimonio ecc.) vengono comprese infatti come modi di
esistenza particolari che costituiscono nel loro complesso il contenuto dello
Stato politico. Lo Stato, da parte sua, viene interpretato da Hegel come la
forma capace di organizzare questi contenuti, di dare loro ordine, coerenza
e stabilità. La forma, nella considerazione hegeliana, ha una precedenza
logica e ontologica sul contenuto così come un insieme ha precedenza sul-
le parti che lo compongono. Lo Stato hegeliano risulta così sovraordinato
alla società civile, come il tutto è sovraordinato alle parti, o come la forma
lo è alla materia. Dire con Marx che la democrazia «sta alle altre costitu-
zioni come il genere sta alla specie»7, significa ribaltare questo rapporto:
la società non appare più come accadeva in Hegel subordinata allo Stato,
ma è lo Stato che deve invece essere compreso come un prodotto storico e
contingente della società. Lo Stato e la sua costituzione sono di volta in vol-
ta il risultato particolare di quella grandezza generale che è la capacità di
autodeterminarsi di un popolo, la materia democratica originaria di cui ogni
costituzione immaginabile è composta.
Questa intuizione marxiana è preziosa per prendere le distanze da tutti
quei riduzionisti che concepiscono la democrazia realmente esistente come
la sua sola forma possibile ed autentica, e dunque come la sola legittima,
non solo per il presente ma anche per un indefinito futuro. Intendere con
il giovane Marx la democrazia – piuttosto che come una forma di governo
particolare – come l’«essenza di ogni costituzione politica»8, permette di
sfuggire alla ricorrente tentazione di pensare che la storia sia finita e che
le consunte istituzioni dell’attuale democrazia elettorale coincidano con il
compimento del destino politico dell’umanità.
Il peggiore rischio che la democrazia possa correre è quello di pensarsi
come realizzata. Come aveva già notato Norberto Bobbio la democrazia è
invece essenzialmente trasformazione: è una dinamica e non un risultato,
una direzione di marcia e non una quieta destinazione d’arrivo9. L’ossequio
sempre più rituale alla forma delle istituzioni democratico-rappresentati-

6
 Ibidem.
7
 Ivi, p. 70.
8
 Ibidem.
9
 N. Bobbio, Premessa all’edizione del 1984, in Id., Il futuro della democrazia, cit. L’approccio di
Bobbio, peraltro, non è del tutto esente da riduzionismi, come mostra l’evidente somiglianza
della definizione minima di democrazia da lui proposta con quella schumpeteriana.
Conclusione 139

ve, per quanto funzioni come un argine rispetto alle derive più smacca-
tamente autoritarie, rappresenta anche un ostacolo alla riattivazione della
possibilità di una loro evoluzione che sia capace di riportare la politica de-
mocratica all’altezza delle sfide dei nostri tempi globali, riattivandone le
capacità inclusive e perequative10.
Se vogliamo conservare un futuro per l’agire democratico, dobbiamo
dunque pensare alla democrazia come ad un processo inesausto ed inesau-
ribile, fondato sul potere eternamente costituente11 dei popoli e sul bisogno
inestinguibile della socializzazione delle loro azioni. Intesa in questo modo
– come quello spazio vuoto di determinazioni ‘naturali’ che secondo Claude
Lefort si tratta in ogni ambito della vita sociale di occupare e determinare12
–, la democrazia non può né potrà mai coincidere con alcuna antica tra-
dizione da difendere e conservare, né con alcun meccanismo istituzionale
consolidato cui venga conferito significato sacrale, ma rimarrà sempre co-
me un compito, come una responsabilità rinnovantesi, di generazione in
generazione13.
La breve ed incompleta storia della critica delle istituzioni della demo-
crazia che si è qui voluto scrivere, vorrebbe costituire un piccolo contributo
in questa direzione. Le tre linee di crisi delle istituzioni democratiche de-
scritte nell’ultimo capitolo – e più in generale, le critiche dei meccanismi
della rappresentanza politica che gli autori che abbiamo incontrato nel no-
stro percorso hanno, dai più diversi punti di vista, proposto – vorrebbero
cioè funzionare come altrettante tracce a partire dalle quali analizzare l’in-
sufficienza delle attuali istituzioni politiche a veicolare il diffuso bisogno di
partecipazione che, a dispetto di ogni formalistico riduzionismo, continua
a percorrere le nostre società in quanto materia prima democratica di cui
sono costituite. Solo comprendendo a fondo le patologie che affliggono le
istituzioni oggi esistenti si potranno infatti immaginare istituzioni di nuo-
va natura, capaci di veicolare in modo meno contraddittorio il desiderio di
democrazia che non può fare a meno di pervadere il corpo sociale.
Quest’obiettivo non può essere realizzato in questa sede e non solo per
esigenze di spazio. Si tratta di un compito per affrontare il quale la teoria
politica farà bene, infatti, a mettersi anzitutto all’ascolto della realtà, ovvero

10
 Anche Zolo del resto sosteneva che una delle circostanze che mostravano con la maggiore
evidenza lo stato di crisi della democrazia era proprio «la perdita di capacità espansiva ed
evolutiva» delle sue istituzioni. Il secolare cammino progressivo delle istituzioni democrati-
che sarebbe anzi a suo parere giunto ad un «vero e proprio collo di bottiglia evolutivo» (D.
Zolo, Il principato democratico, cit., p. 132).
11
 Cfr. A. Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, Manifestolibri, Roma
2002.
12
 Cfr. C. Lefort, Saggi sul politico. XIX e XX secolo, Il Ponte, Bologna 2007.
13
 Secondo Jean-Luc Nancy questo compito corrisponde a quell’ingiunzione, a quella pro-
messa e a quel rischio che sono contenuti nella formula di Pascal secondo la quale l’uomo è
destinato a superare infinitamente l’uomo. Cfr. J.L. Nancy, Verità della democrazia, Cronopio,
Napoli 2009, p. 23.
140 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

alla ricerca di tutte quelle esperienze di innovazione delle istituzioni e delle


forme della partecipazione che già si stanno compiendo e moltiplicando
nel nostro piccolo globo.
Indice
dei nomi

Abensour, M. 137 Benveniste, E. 127


Africa xv, 91 Berlino xxi
Agamben, G. 58 Beveridge, W. 80
Agnoli, J. xxiv, 93-96, 98-99, 101, Bigo, D. 130
116, 121 Bloch, J. 25
Alessandro Magno xvi Bobbio, N. 54, 60-61, 65, 68, 80, 82,
Alienazione 24, 33, 97-99 84, 101, 113, 128, 138
Allegretti, G. xxvi Bonapartismo 7, 37, 38, 40-41, 43-46,
Allegretti, U. xxv 56-57, 73, 115, 122
Altini, C. 4 Bonaparte, L.N.
Antipolitica 118-119 vedi Napoleone III
Apatia xxiii, 5-6, 18, 20, 75, 107, 118 Borrelli, G. 99
Arendt, H. 3, 16 Bosniak, L. 130, 134
Aristotele 1, 34, 59 Bovero, M. 84, 92, 116, 130
Arrighi, G. xxiii, 120 Brubaker, W.R. 134
Atene xvii Brzezinski, Z. 105
Bacqué, M.-H. xxvi Burnham, J. 57, 65, 82-83
Balibar, E. 35, 127-131, 134, 136 Burocrazia 47-48, 52-53, 57, 92, 116
Barry, B. 133 Calise, M. 117
Basso, P. 129 Canfora, L. xiv, xvii, 44-45
Bauböck, R. 129, 134 Canterbury, arcivescovo di 47
Bauer, B. 24 Carens, J. 133-134
Bauman, Z. 119 Casadei, Th. 128, 131
Beck, U. xxiii, 119 Casalini, B. 3, 85
Bedeschi, G. 23 Castles, S. 124, 130-131, 134
Beetham, D. 51 Castoriadis, C. 100
Bell, D. 105 Cavalli, L. 54
142 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

Cavicchioli, R. 7 Egitto 48
Cesarismo 37, 46-47, 56, 59, 116, 122 Elitismo/élite xvii, xxvi, 60-65, 68-72,
Chakrabarty, D. xvi 76, 82, 94, 95, 109, 113, 115, 124
Chesnais, F. 120 Engels, F. 25, 26, 28, 35, 36, 56
Chiapas xvi Europa xvi, xxv-xxvi, 11, 15, 38, 46,
Ciliberto, M. 137 72, 79, 95, 120-121, 125, 129
Cina xv, xxii Fabian, J. 61
Cini, L. xxiv Fanon, F. 131
Cittadinanza 8, 11, 33, 50, 80-81, 102, Fascismo 73, 93, 95, 110
106, 110, 118, 121-134, 136 Ferrajoli, L. xvi, 81, 110, 117-118, 130,
Colonia 74 134
Commissione Trilaterale 109 Ferrarotti, F. 51, 58
Comte, A. 61 Feuerbach, L. 24, 98
Comune di Parigi 35-36, 137 Filmer, J. 85
Constant, B. xxiv, xxvi, 1-9, 14, 17, 20, Fistetti, F. 132
31-32, 34, 36, 42, 73, 80, 125 Foucault, M. 17, 92-93
Cornford, J. 105 Francia 28, 35-37, 40-42, 44, 56, 80,
Corriere della Sera, giornale 66 124, 137
Costantini, D. 4, 130, 132 Fredrickson, G.M. 131
Costa, P. 3-4 Freedom House xxii
Croce, B. 65 Friedman, M. 92
Crouch, C. 109, 113-115, 121-125 Fukuyama, F. xiii, xxi
Crozier, M. 104-105 Gaber, G. 59
Dahl, R.A. xvii, 113 Galli, C. xxv, 119, 132
D’Alessandro, R. 80 Gallino, L. xxiii, 120-121
Dal Lago, A. 130 Garland, D. 121
Davidson, A. 134 Garnier, G. 8
Debord, G. xxiv, 93, 96-100, 102, 116 Geddes, A. 130
Deleuze, G. 121 Gekko, G. 109
Democrazia cesaristico-plebiscitaria Germani xvi
46, 53, 56-57, 117 Ghana xv
Democrazia elettorale xxi, xxiv, 138 Giappone xv
Democrazia plebiscitaria 37, 53, 55, Giulio Cesare 46
57, 112 Globalizzazione xxiii, 119-120
Détienne, M. 127 Goodin, R. 133
Diamond, L. xxiii Gouges, O. de 7
Dichiarazione di Port Huron 92 Graeber, D. xv-xvi, xviii
Diritti umani/diritti dell’uomo 30, 32, Greci 2
34, 67, 99, 128 Grecia xxiii, 5, 84
Downs, A. 90-91, 102 Gret, M. xxvi
Dupuis-Déri, F. xxvi Habermas, J. xxiv, 14, 104, 120
Durkheim, E. 64 Hamilton, A. xix, 29
Duso, G. 14, 56 Harvey, D. 105
Indice dei nomi 143

Hayek, F. von xxiv, 92, 123 Lijphart, A. 91


Hegel, G.W.F. xvi, xxi, 24, 30, 35, 138 Locke, J. 3, 4, 31, 85
Held, D. 119 Losito, M. 48, 56
Hirschl, R. 133 Losurdo, D. 7, 37, 41, 68, 73, 79
Hirschman, A. 136 Luhmann, N. xxiv
Hobsbawn, E. xxi Luigi XVI, re di Francia 8
Honig, B. 134 Lukács, G. 97
Honneth, A. 132 Machiavelli, N. 71
Hübinger, G. 48 Macpherson, C.B. 4
Huntington, S. xiii-xvii, 104-105 Madison, J. xix-xx
India xv-xvi Maine, H.S. 125-126
Inghilterra 51, 73 Malesherbes 8
Iraq xv Malesia xv
Irochesi xvi Manin, B. 14
Italia xiv, xxiii, xxv, 37, 66, 76, 93, 99, Marcuse, H. 79, 92
129 Marini, G. 128
Joppke, C. 128 Marketing politico xxvi, 87, 110, 119
Kant, I. 128 Márquez, G.G. xiv
Kelsen, H. xxv, 79, 111-112 Marshall, Th.H. 80, 122, 126-127
Keynes, J.M. 80 Marx, K. xxiv, 23-47, 49, 56, 68, 94,
Kimlicka, W. 132 96-99, 101-102, 116, 120, 122,
La Boétie, E. de 55 128, 136-138
Laclau, E. 136 Mastropaolo, A. 81-82, 105, 119
Lanzillo, M.L. 132 Matteucci, N. 60
La Repubblica, giornale xxiii McGrew, A.G. 119
Laski, H. 95 McLellan, D. 23
Lasswell, H.D. 82 Meier, Ch. 4
Lazzarato, M. 121 Meisel, J.H. 82
Leader xiv, 45, 51-57, 75-76, 88, 116- Merker, N. 11, 23
117 Mezzadra, S. 80, 130
Leadership 75-76, 85, 88, 106, 107, Michels, R. 57, 59, 74-77, 116
117 Miller, M.J. 124
Lefort, C. 100, 139 Mises, L. von 73, 123
Leibholz, G. xvii, 14, 111-112 Mommsen, W.J. 51
Lewis, A. 91 Montesquieu xvii, 64
Liberalismo xxi, 7, 17, 31, 51, 73, 79, Morris Jones, W.H. 119
101, 111-112, 117-118 Mosca, G. 59-71, 74, 82
Libertà xiii, xix, xxii, 2-7, 14-15, 17- Moss, R. 105
20, 27, 31-35, 38-39, 44, 52, Mouffe, Ch. 79, 136
57-58, 63-65, 79-80, 82-84, 86, Müller, J.-W. 93, 95, 105
89, 99, 110-111, 123-124, 126, Mussolini, B. 37, 66
128-129 Muxel, A. 119
Libia xv Nancy, J.-L. 139
144 La democrazia dei moderni. Storia di una crisi

Napoleone III 37-38, 41-46, 70, 105, Putney xvii


137 Rancière, J. xvii, xviii, 135, 136
Nash, K. xv Rappresentanza xviii-xix, 7, 20, 23, 40,
Nazionalismo 45, 51, 58, 134 42, 45, 51, 56, 73, 89, 95, 100,
Negri, A. 139 110, 112-113, 116-117, 118-119,
New Deal 80 125, 139
O’ Connor, J. 104 Rappresentazione xvii, xxvi, 14-15, 38,
Offe, C. xxiv, 80, 93, 100-106, 121 41, 95, 97, 99, 110-111, 135
Ostrogorski, M. 53 Rawls, J. xiv, xxiv, 134
Paine, Th. XIII Razza/razzismo xviii, 8, 9, 128-129,
Palermo 38 131-132
Palidda, S. 121 Re, L. 121, 128
Pareto, V. 59, 67-74, 76, 86 Rey, H. xxvi
Pareyson, L. 85 Riduzionismo democratico XIII, 81,
Parigi 2, 43 110, 136, 139
Parlamentarismo xiv, xvii, 51, 54, 56, Rivista di Milano 72
67, 76, 110, 112, 117 Rivoluzione del 1848 38, 44
Partecipazione xvii, xxi-xxii, 2-7, 20, Rivoluzione francese 5-6, 10-11, 28,
38, 64, 80-81, 85, 91, 93, 102, 40
105, 107, 110, 113, 115, 119, Rivoluzione industriale 26
124, 132, 134, 139-140 Rivoluzione sovietica 72
Pascal, B. 13, 139 Robespierre 8
Pasquino, G. 60 Rosanvallon, P. 14
Pazé, V. 130 Rossi, P. 54
Perocco, F. 129 Rousseau, J.-J. xxvi, 1-3, 20, 59, 85
Petrillo, A. 130 Ruffini, E. xiv
Pezzella, M. 99 Salvadori, M. xxi, xxv
Pievatolo, M.C. 128 Samuele, gran sacerdote 47
Pitkin, H. 14 Sartori, G. 137
Platone xvii, xviii Sassen, S. 119, 120, 124
Plutocrazia 72-73 Schiera, P. 48, 56
Pohlenz, M. 4 Schmitt, C. xxiv, 95
Polanyi, K. 80 Schnapper, D. 64
Popolo xvii, xix-xx, 1-2, 5-6, 9, 11-13, Schumpeter, J. xiv, 77, 81-91, 102, 107,
15, 17, 20, 23, 25, 29, 36, 40, 44, 116
49, 52-53, 57, 62-64, 66, 69-70, Scott, A. xv
75-76, 82-88, 95, 100, 110-111, Sen, A. xiii-xv
117, 137-138 Shachar, A. 131, 133
Popper, K. 5-6 Sieyès, E.-J. xx-xxi, 11, 28
Postdemocrazia 82, 109, 116-117, 119, Singapore xv
136 Sintomer, Y. xviii-xix, xxvi
Potere carismatico 54-56 Sismondi, S. de 46
Protagora xviii Slovacchia xv
Indice dei nomi 145

Smith A. 8 Wall Street 79, 109


Società civile 24, 29-35, 45, 64, 98, 138 Walras, L. 83
Società del 10 dicembre 43 Walzer, M. 84, 128-129, 132
Sorteggio xvii-xviii Washington 13, 134
Sousa Santos, B. de xxvi Watanuki, J. 104-105
Spencer, H. 61 Weber, M. xxiv, 10, 37, 46-59, 67, 116
Stati Uniti d’America xix, 11, 14, 29, Weimar 51, 57
62, 121, 129 Welfare state/stato assistenziale 80-81,
Strange, S. 120 92-93, 98, 100-104, 114, 120,
Suffragio universale 6-8, 11, 14, 15, 29, 122, 124
35, 36, 39-41, 44-45, 49-50, 56, Westminster, modello elettorale 91
65-66, 69-70, 73, 110-111 Wieviorka, M. 131
Taguieff, P.A. 131 Wollstonecraft, M. 7
The Economist, rivista xxii-xxiii Wright Mills, Ch. 82
Tocqueville, A. de xxiv, 8-15, 17-21, Wright-Mills, Ch. 113
23, 29, 31, 34, 36, 38, 47, 89, 107 Young, I.M. 81, 114, 132
Urbinati, N. 14 Zagrebelsky, G. xxi
Veyne, P. 4 Zakarias, F. xv
Volontà generale 86-88, 112 Zolo, D. xv-xvi, xxiii, 80, 100, 116,
Wacquant, L. 121 118-119, 134, 139
Wallerstein, I. xxiii, 131
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