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PENSIERO FILOSOFICO POST-MODERNO E TEOLOGIA

Un esame sommario della filosofia non può evitare di avere una sezione
dedicata al pensiero filosofico post-moderno. Questo pensiero si è attuato
nella cosiddetta filosofia continentale, e a quella particolare declinazione
di essa che è il pensiero debole. Vogliamo porre l’accento sulla
somiglianza tra idee del II secolo d.C. e il novecento filosofico e teologico.
Vedremo come idee di Marcione, vissuto nel II secolo, sono passate in
autori del secolo scorso, senza neppure che tanti scrittori novecenteschi
abbiano sentito il bisogno (o l’onere) di citare Marcione.
Cominciamo col parlare di Marcione. Può sembrare strano parlare delle
filosofie-teologie novecentesche e per fare questo volere esaminare questa
prospettiva filosofica guardando molto più indietro, al 2 secolo d. C.
Eppure è qui che si trovano suggestioni, idee, visioni che ritroveremo,
debitamente cambiate ma ancora presenti, che sono nate (perlomeno)
nell’epoca di Marcione. Questo per mostrare come le idee non muoiono
mai, ma in certi momenti “risorgono”.
Marcione nasce a Sinope, sul Mar Nero, nella regione del Ponto, verso
l’anno 85 d. C., da famiglia benestante, dedita al commercio marittimo.
Ben poco si sa dei lunghi anni della sua vita asiatica. Il padre, vescovo di
Sinope, gli comminò la sua prima scomunica. Marcione allora si reca,
verso il 140, a Roma, durante l’impero di Antonino Pio. Le sue condizioni
economiche devono essere tuttora eccellenti, poiché fa dono di
duecentomila sesterzi (una somma ragguardevole all’epoca) alla chiesa
romana. Egli svolge una propaganda notevolissima alle sue idee, cercando
di farle accettare alla chiesa di Roma. Poiché a quei tempi la nomina
papale avveniva per acclamazione, non è escluso che contasse di divenire
papa. La somma gli venne restituita (vedi Atti degli Apostoli, episodio di
Anania e Saffira) quando egli inizia a propagandare attivamente idee
eretiche.
La data ufficiale delle eresia marcionita è il 21 luglio del 144. Le sue opere
sono perdute. Quello che sappiamo di lui sono cenni in Tertulliano. Anche
Origene polemizzò con lui, ed abbiamo altre notizie da Eusebio, autore (IV
secolo) di una “storia ecclesiastica”. La chiesa fondata da Marcione si
sarebbe poi diffusa soprattutto in oriente, e la sua durata (fino al V secolo)
testimonia di un notevole successo di propaganda e di consensi. È parere
degli storici che questo successo sia spiegabile, nei diversi periodi della
sua lunga storia, per un concorrere di fattori diversi: per la sintonia con le
ultime ondate antisemite dell’età adriana e inoltre per l’attrazione
esercitata sugli sbandati del docetismo (dottrina eretica, secondo la quale
Gesù non ebbe corpo. Secondo questa dottrina, l’umanità del Cristo è pura
apparenza, perché egli non ha mai abbandonato la sua natura divina. La
passione e la morte del Signore erano dunque pura apparenza. Il docetismo
fu ampiamente seguito da autori gnostici. Per questi, affermare la
crocefissione era una affermazione scandalosa). Inoltre va anche ricordata
una certa tendenza all’ascetismo che sempre, nella storia del cristianesimo,
ha prestato il fianco a tentazioni gnostiche.
La sua dottrina è caratterizzata da una accesa opposizione ai giudei e
all’Antico Testamento. Gli scritti di cui abbiamo notizie sono due:
- l’Evangelio: comprendente un Vangelo di Luca (assai epurato) e
dieci lettere paoline, anch’esse molto modificate;
- l’opera “Le Antitesi”, che fungeva forse da premessa all’Evangelio,
ed esponeva le contraddizioni tra Nuovo e Antico Testamento.
Il Dio dell’A. T. è una divinità crudele, bellicosa, un Demiurgo cui si deve
la creazione dell’universo materiale, dell’universo visibile. Benché si
faccia chiamare “Dio giusto” è in realtà un Dio cattivo, di intelligenza
inferiore, di carattere imperfetto. Ricorda quindi, per certi versi, le divinità
demiurgiche dei pagani. Questo cosiddetto “Dio giusto” è creatore ed
anche cosmocratore del mondo, ed è identificabile con il Dio degli ebrei,
con il Dio dell’A.T.: a lui sono da addebitare tutti i mali del mondo.
Sopra di lui c’è un Dio buono e sconosciuto, di cui il Demiurgo non
sospetta neppure l’esistenza.
Cristo è venuto a rivelarci questo Dio Buono e sconosciuto, che sta sopra il
mondo materiale e storico. La vita e l’opera di Gesù sono da interpretare
secondo Marcione proprio come una lotta contro il Dio cosmocratore.
Gesù infatti è venuto per sostituire l’amore alla legge e a liberare le anime
dal dominio del Dio dell’Antico Testamento.
Non solo il mondo materiale, in cui il Demiurgo ha racchiuso l’uomo, è
cattivo: ma anche l’uomo stesso, la realtà materiale, corporea dell’uomo.
Cristo in terra non ebbe un corpo, ma uno spirito con apparenza di corpo
mortale (una sorta di fantasma). Il Demiurgo cattivo lo fece crocifiggere,
in quanto Gesù voleva rivelare l’esistenza del Dio dell’Amore e liberare
gli uomini. Secondo Marcione il Messia atteso dai giudei verrà, ma sarà un
anti-Cristo.
L’etica proposta da Marcione ai suoi seguaci ha un aspetto fortemente
gnostico, nel senso che per molti aspetti si pone come negazione della
natura. La liberazione dal mondo materiale può avvenire attraverso la
negazione della procreazione. Chi aderisce alla chiesa marcionita ha il
compito di rinunciare alla paternità e maternità, il dovere di dedicare tutta
la sua vita alla propaganda e al proselitismo. Quando la conversione
dell’umanità alla chiesa di Marcione sarà compiuta, la rinuncia di tutti alla
perpetuazione della specie significherà la fine del mondo.
La fine del mondo è quindi, “simultaneamente”, il tentativo delle forze del
male, dell’Anticristo, di sopraffare le forze della luce, ma anche l’esito
dello sforzo dei credenti di liberare il mondo. Si capisce come, da questa
commistione di libertà e destino, possa nascere un pensiero politico di tipo
storicista. Il credente marcionita, come il marxista ortodosso, deve cercare
con tutte le sue forze di capire e assecondare un processo storico-teologico
che è già, di per sé, inevitabile e necessario. Siamo quindi spinti a dire che
esiste una vicinanza tra Marcione ed il pensiero rivoluzionario
ottocentesco e novecentesco.
Il nucleo della interpretazione che Marcione propone del cristianesimo sta
nell’intenderne la dottrina come una forza anti-mondana, nel senso di
ribellione ad ogni forma di potere. In tal senso il cristianesimo assume un
significato politico in quanto esso diviene una forza rivoluzionaria. Ed è
solo negli ultimi due secoli precedenti quello attuale che la “rivoluzione”
ha acquistato il suo senso politico compiuto, vale a dire quello di
“rivoluzione permanente”. Sotto questo concetto di rivoluzione
(permanente) sta forse quello di dissoluzione (di ogni potere politico, di
ogni forma politica)?
La tradizione cristiana ha sempre accettato l’idea fondamentale della bontà
delle cose naturali. Dunque anche dell’essere dell’uomo naturaliter
animale sociale e, in quanto razionale, specificamente politico. Anche
l’idea che sia necessario resistere al male attraverso la politica è stata fatta
propria dalla tradizione cristiana. S. Tommaso vedeva nell’Impero
Romano la realtà e la figura di colui che resiste al male, al disordine, alle
forze della dissoluzione. Ricordiamo che secondo la tradizione patristica
veniva detto anomos (uomo senza legge) l’Anticristo. E considerava che
la chiesa cattolica avesse raccolto, dall’Impero Romano, non solo la
missione civilizzatrice e di unificazione dell’Europa, ma anche assunto
questo compito di “resistenza al male”. Quindi anche la sola presenza della
chiesa nel mondo ha per Tommaso un significato politico. Ciò significa
che la chiesa, per il fatto di esistere ed essere visibile nel mondo, considera
positivamente l’esistenza di un ordine, di una forma politica. Non per
nulla, durante la Messa, i fedeli pregano insieme per gli uomini politici,
per le loro scelte. Riconosciamo dunque in ogni tempo la necessità di un
ordine politico, di una forma politica. Il pensiero cristiano non può
accettare un principio che dissolve la forma, quindi anche la forma
politica, lo stato, quindi anche le forme di potere che si sono via via
succedute. Pensiamo alle raccomandazioni di Paolo e di Pietro sulla
necessità di obbedire alle autorità.
Alle richieste marcionite contrappone e contrapporrà sempre la richiesta di
una forma politica, di un ordine politico: e quindi l’esistenza di un potere.
Il pensiero cristiano non può essere rivoluzionario o anarchico. Quando
diciamo che il pensiero cristiano non può essere rivoluzionario ci riferiamo
evidentemente alla forma politica della rivoluzione, come l’abbiamo
conosciuta negli ultimi secoli (rivoluzione francese, bolscevica, …).
La forma politica della chiesa non può certamente essere assunta come un
modello di potere temporale, tantomeno come una dottrina cristiana della
forma migliore del potere politico. Piuttosto essa testimonia la necessità
del principio fondamentale che permane in ogni forma di potere politico,
su cui si basa l’ordine sociale. Tale principio è quello di autorità. Se esso
pare irrinunciabile, esso si incarnerà in diversi particolari ordini costituiti.
La cristianità, però, non si adagia nella accettazione dell’ordine costituito.
Ricordiamo la convivenza nel pensiero cristiano di principi opposti,
contraddittori. Se da un lato la chiesa afferma la necessità di una forma
politica, di un rapporto tra ordine sociale e autorità riconosciuta, dall’altro
la chiesa sottolinea la particolarità, la non necessità, la precarietà,
l’imperfezione di quel particolare ordine politico, il quale è solo una
forma, non necessaria né privilegiata, di configurazione politica, di ordine
politico. In particolare, nessun sguardo privilegiato, nessuna
considerazione idolatrica vanno riservati alla democrazia, agli ordinamenti
democratici. Anche la democrazia è solamente uno degli ordini possibili,
non esente da errori e mancanze. In ogni caso, non è una cosa in cui si
possa riporre una fiducia incondizionata. Alle considerazioni fatte da Paolo
di Tarso sulla necessità di rispettare l’ordine costituito, vanno aggiunte
considerazioni come quelle che seguono. Ogni forma politica tende ad
assolutizzarsi. Ciò implica che essa tenderà a porsi come la forma politica.
A ciò rispondiamo da cristiani che tutto ciò che è umano, in quanto
puramente immanente, deve riconoscere che vi è qualcosa al di là,
qualcosa che lo trascende. Rinunciare a questo principio equivale a voler
rendere trascendente l’immanente, cioè a volersi impadronire di ciò che è
per definizione imprendibile (la trascendenza). Il cristianesimo non può
compromettersi con queste (o altre) ideologie, pena il cadere in eresia.
Il cristianesimo prevede la conversione, la scelta. La prevede sempre.
Eppure nello stesso tempo si può dire che prevede anche di non scegliere
definitivamente, di tenere sempre aperto un occhio (critico) su noi stessi,
di sapere sempre valutare le scelte fatte e quelle da farsi. Altrimenti
saremmo eretici: ricordiamo che la parole “eresia” ha proprio il significato
di scelta (in greco antico). Il cristianesimo ci dice (sempre) che dobbiamo
(sempre) convertirci.
È tutta la vita che ci sentiamo dire che dobbiamo convertirci. Il
cristianesimo, da questo punto di vista, si presenta come una missione
impossibile (per l’uomo). L’uomo deve puntare a rendersi simile a Dio, ma
questo non gli può riuscire (in questa vita). Eppure viene sempre e
continuamente invitato a questo: alla conversione. La conversione, la
scelta rappresenta ciò che è precluso agli ebrei. Per l’ebreo che si riconosce
tale non c’è bisogno di ulteriori scelte, o di conversioni: deve seguire la
Torah e attendere il Messia.
Il cristianesimo nega d’altra parte il concetto di popolo (come inteso dagli
ebrei). Infatti per il cristianesimo la Chiesa è Chiesa Missionaria, rivolta in
questo a tutti gli uomini; e d’altra parte ogni uomo è figlio di Dio. Ciò è
talmente radicato nel cristianesimo da essere detto nel Vangelo (vedi
Matteo 25, 31-46).
In questo troviamo veramente una opposizione tra giudaismo e
cristianesimo. I giudei sono il popolo, il popolo eletto; gli altri sono le
genti, i pagani, i goyim. I cristiani hanno davanti la prospettiva della
conversione, ce l’hanno sempre. Gli ebrei, se seguono la Legge, la Torah,
sono già a posto, tranquilli, in pace con Dio. Il cristiano non può mai
sentirsi in pace con Dio. Mai tranquillo. I più inquieti fra i cristiani sono i
protestanti. In effetti la componente protestante è più conflittuale anche
con l’ebraismo di quanto lo sia il cattolicesimo.
Colui che si converte è colui che è libero di decidere. È col cristianesimo
che si introduce l’ateismo, in quanto c’è la possibilità di dire di no? Ciò
non appartiene all’ebreo e non apparteneva neppure al mondo greco-
romano. Il senso del divino era parte integrante della vita e della libertà del
greco. (Si veda E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo).
Il cristianesimo delle origini era un pensare apocalittico. Il pensiero
cristiano può non essere apocalittico? No: il Cristo ha realizzato (già) la
pienezza dei tempi. Qui sta una differenza fondamentale con l’ebraismo,
che attende il novum essenziale, attraverso la venuta del Messia. Anche
nell’ebraismo c’è una tensione tra attesa messianica e Legge (pratica
quotidiana dei precetti). Questa tensione (o contraddizione) è sempre
presente nell’ebraismo, e la sua storia è in parte stata data dal prevalere
dell’una o dell’altra tendenza.
Veniamo ora al novecento.Il pensiero debole è stato, in Italia, soprattutto
opera di Gianni Vattimo. Questo tipo di filosofia appartiene dunque alla
filosofia continentale europea. Notiamo che tutti i nomi che faremo sono
di filosofi che, in un modo o nell’altro, appartengono chiaramente alla
tradizione continentale. È questa una tradizione filosofica che si
contrappone a quella analitica, anglosassone, più vicina alle scienze
matematico-logiche e al linguaggio; la tradizione continentale (europea)
guarda più alla storia, alla tradizione filosofica, alla teologia. Rimandiamo
al libro della De Agostini per una trattazione esauriente della
interazione/opposizione tra analitici e continentali.
Ricordiamo qualcuno tra quelli che sono stati i principali sostenitori della
filosofia continentale, scusandoci se non possiamo nominarli tutti:
Gianni Vattimo, filosofo di Torino (1936) ha studiato con Luigi Pareyson e
in Germania con Martin Heidegger e Hans-Georg Gadamer. Ha curato vari
studi su F. Nietzsche e su M. Heidegger, interpretando l’uno con l’aiuto
dell’altro. Ha creduto di individuare nella scienza occidentale la matrice
primaria dell’affossamento della metafisica. È il principale sostenitore del
‘pensiero debole’.
Luigi Pareyson (1918-1991) scrive Verità e interpretazione nel 1971. Egli
definisce il proprio sistema come "ontologia dell'inesauribile",
distinguendolo in particolare dal "misticismo dell'ineffabile", ossia la
teoria per cui la verità si sottrae alla parola per ritirarsi nel segreto (il
riferimento è a Heidegger).
Hans-Georg Gadamer (1900- 2002), allievo di Heidegger, autore di Verità
e metodo, nel 1960. È considerato uno dei maggiori esponenti della
filosofia ermeneutica. Col suo maestro Heidegger ha coniato e reso celebre
l’espressione ‘circolo ermeneutico’.
Paul Ricoeur (1913-2005), nella sua prolifica attività intellettuale, ha
studiato la fenomenologia e l'ermeneutica creando un dialogo costante fra
queste e le scienze umane e sociali. Si è interessato di logica, di
esistenzialismo cristiano e teologia protestante, di politica e di storia. Le
sue opere si sviluppano intorno al concetto di senso, di soggettività, di
funzione euristica dell'immaginazione.
Richard Rorty (1931-2007), dopo una fase vicina alla filosofia analitica,
diventa più ermeneutico. È il teorico della fine della filosofia. Si è
occupato abbastanza attivamente anche di scienze naturali,
Jean Paul Derrida (1939-2004), conosciuto in Italia soprattutto grazie a
Gianfranco Dalmasso, Maurizio Ferraris e Carlo Sini, è stato oggetto di
contestazioni da parte di filosofi della tradizione analitica e di Jurgen
Habermas. È generalmente considerato un post-moderno, ma non ha mai
accettato questo tipo di etichette.
Jean-Luc Marion (1946), è considerato un post-metafisico. Ha studiato
Husserl e Heidegger, ma anche Cartesio. Ha scritto Dio senza essere, edito
in Italia da Jaca Book.
Pier Aldo Rovatti (1942), esponente di spicco del pensiero debole, ha
studiato Husserl, Heidegger, Foucault, Derrida, …
Jean Francois Lyotard (1924-1998), pensatore associato alla post-
modernità (fine delle grandi narrazioni).
Martin Heidegger (1889-1976), filosofo tedesco molto controverso,
soprattutto per la sua adesione (mai ritirata) al nazismo. È considerato
l’iniziatore di una nuova corrente filosofica, che si stacca dalla
fenomenologia husserliana, e viene definita esistenzialismo heideggeriano.
Molto importante è la sua considerazione della scienza/tecnica, come
chiave per comprendere il nostro mondo moderno, nel senso della crisi del
pensiero metafisico e della.
Possiamo dire che è indispensabile conoscere la teologia per comprendere
la storia dell’Occidente. Vogliamo recuperare alcune categorie teologiche
necessarie per pensare la filosofia politica. Non c’è bisogno di pensare a
tradurre le categorie filosofiche in filosofia politica, ma è la filosofia in sé
a essere politica. Contemplazione è in sé azione.
Filosofico-politico e teologico-politico sono gli ambiti che costituiscono il
nostro orizzonte.
Per il pensiero greco filosofia-politica-teologia non erano scissi. Ciò è
rimasto vero anche per la filosofia cristiana (medioevo). Le divisioni tra
filosofia, politica e teologia sono proprie del pensiero moderno e
avvengono in esso, nella modernità. Filosofia e teologia devono sempre
ripensare radicalmente la loro componente originaria. Si può leggere ad
esempio Filosofia e teologia, di Massimo Cacciari, sul volume II di Paolo
Rossi, La Filosofia, ediz. UTET.
Heidegger, Schmitt, Gogarten, tutti di grandissimo spicco nel loro ambito,
che aderiscono, sia pure in modi molto diversi, al nazismo. Infatti,
ricordiamo che Heidegger non ha mai detto una sola parola di pentimento
per la sua adesione al nazionalsocialismo. Carl Schmitt, dopo aver
insegnato in varie università tedesche, divenne professore all'Università
Humboldt di Berlino nel 1933, incarico che sarebbe stato costretto ad
abbandonare nel 1945, alla fine della seconda guerra mondiale. Aveva
aderito al partito nazista il 1º maggio 1933, e a novembre dello stesso anno
era divenuto presidente della Vereinigung der nationalsozialistischen
Juristen (Unione dei giuristi nazionalsocialisti); nel giugno 1934 divenne
direttore della Deutsche Juristen-Zeitung (Rivista dei giuristi tedeschi).
In riferimento alla promulgazione delle Leggi di Norimberga del 1935, in
cui si proibiscono i matrimoni e i rapporti extraconiugali tra ebrei e non
ebrei in nome del mantenimento "della purezza del sangue tedesco",
Schmitt osserva: «Oggi, il popolo tedesco è ritornato ad essere tedesco,
anche da un punto di vista giuridico. Dopo le leggi del 15 settembre, il
sangue tedesco e l'onore tedesco sono ritornati ad essere i concetti portanti
del nostro diritto. Lo Stato è ormai un mezzo al servizio della forza
dell'unità völkisch. Il Reich tedesco ha un solo stendardo, la bandiera del
movimento nazionalsocialista; e questa bandiera non è solamente
composta di colori, ma anche di un grande e autentico simbolo: il segno
del giuramento popolare della croce uncinata» (in: C. Schmitt, "La
costituzione della libertà" 1935).
Nel dicembre 1936 fu tuttavia accusato di opportunismo sulla rivista delle
SS e dovette rinunciare a giocare un ruolo da protagonista nel regime. Non
allineato al regime, il partito nazista puntò contro di lui l'indice accusatore
nel 1937 con un rapporto riservato in cui si contestava la sua dottrina,
troppo intrisa di “romanità”, si criticavano i suoi rapporti con la Chiesa
cattolica e infine si guardava con sospetto al suo presidenzialismo.
Fino alla fine del nazionalsocialismo, Schmitt lavorò principalmente nel
campo del diritto internazionale e in questo settore mirò a fornire al regime
delle parole chiave. Così forgiò nel 1939, all'inizio della seconda guerra
mondiale il concetto di Völkerrechtlichen Großraumordnung (macro-
pianificazione del diritto internazionale), una sorta di dottrina Monroe
tedesca, come giustificazione della politica espansionistica di Adolf Hitler.
Così Carl Schmitt fu impegnato in quello che viene chiamato Aktion
Ritterbusch, dove molte personalità accompagnarono come consulenti la
politica nazionalsocialista di insediamento in un territorio occupato.
Catturato dalle truppe alleate alla fine della guerra, rischiò di essere
imputato al processo di Norimberga, ma fu rilasciato nel 1946 e tornò a
vivere nella cittadina natale, dove continuò a lavorare privatamente e a
pubblicare nel settore del diritto internazionale. Le esperienze di questo
periodo si riflettono nei saggi Risposte a Norimberga e Ex Captivitate
Salus. Di fronte alla “coerenza” palesata da questi pensatori, è davvero
“povera” la adesione di Gogarten, la cui appartenenza ai Deutsches
Christentum durò solamente alcuni mesi. Comunque, per così poco dovette
pagare molto: fu sistematicamente trascurato dagli altri studiosi del suo
campo, cioè la teologia.
È importante cercare di capire cosa è stato davvero il nazismo. Hitler è
andato al potere in modo democratico. Non si può comprendere il
totalitarismo senza fare riferimento alla democrazia. È la democrazia che
ha prodotto il totalitarismo. L’imperfezione della democrazia è ciò che la
mantiene in atto. In tal senso essa è già degenerata. Essa però tende ad una
sua perfezione. Però il suo perfezionamento è anche il suo annullamento.
Come lo fu per la democrazia di Weimar.
Gogarten dice sì al nazismo: è un sì provvisorio, perché dopo poco tempo
uscirà dai Deutches Christentum. Ricordiamo che egli pubblicò nel 1920,
sulla rivista della teologia liberale Christliche Welt, un articolo dal titolo
“Zwischen der Zeiten” (Tra i tempi) che in seguito (1922) divenne il titolo
di una rivista a cui oltre a Gogarten prese parte attiva anche Carl Barth,
Bultmann ed altri.
Barth dice no, un “no” deciso al nazismo. Riteniamo che sia stata posta
una enfasi discutibile su questo “no” di Barth. È molto più importante
discutere sulle radici della decisione. Qui si vede la politicità della
teologia. Ecco il “frattempo”: questo frattempo è la storia dell’uomo.
Non si può interpretare Weimar come una demagogia. Se si va a vedere
dal punto di vista giuridico, si era trattato del tentativo di realizzare una
democrazia il più completa possibile. La democrazia più forte è la capacità
decisionale più debole.
Il momento espresso dalla teologia dialettica è una messa in questione
della crisi della ideologia liberale borghese. Cerca di esprimere l’attesa di
un tempo nuovo (diverso). C’è un movimento complesso che in quanto ciò
che è nuovo è indeterminato. Il nuovo è sempre rivoluzionario. È proprio
in questa dimensione che Gogarten apre alla esperienza totalitaria. Il
concetto di novità si presta sempre ad essere utilizzato in modo ideologico.
Però lo sollecita, vi aderisce, inevitabilmente. L’uso del nuovo ha
inevitabilmente una connotazione politica.
K. Barth è la seconda grande figura. Recupera la matrice del concetto di
differenza. Il suo impianto teologico è molto discutibile. Dio come il
Totalmente Altro. È per negazione anche ciò che è più profondamente
comprensibile. Fiducia radicale nel destino dell’uomo che caratterizza la
teologia liberale. Il testo più importante è il commento alla Lettera ai
Romani.
K. Barth dice no al nazismo e va in Svizzera. Questo no non va troppo
enfatizzato. È già implicito nella sua teologia. Questo non elimina il
problema della decisione e della sua necessità nel frattempo. Cosa
significa agire con responsabilità nel tempo che ci è dato? Se lui e
Gogarten fecero insieme la rivista, vuol dire che c’era una matrice comune.
In Barth sembra esserci una matrice teologica che suona: dico sì al
Totalmente Altro, quindi dico no alla storia: Gogarten sembra dire: dico sì
a Dio, quindi dico sì alla storia. Se l’accadimento storico è qualcosa che
accade nella contingenza, io sono chiamato a dire sì in modo
occasionalistico. La teologia politica vorrebbe scardinare questo
occasionalismo, ad esempio attraverso l’escatologia.
R. Bultmann, autore appartenente al movimento della teologia radicale, è
l’autore sempre nominato a proposito della demitizzazione. Tra i nomi che
vanno citati a proposito della demitizzazione c’è però anche quello di
Gogarten. Qui ci riferiamo principalmente allo studio di Gogarten su
Enthymithologisierung und Kirche (Demitizzazione e Chiesa, traduzione
italiana di Giorgio Penzo e Ursula Penzo Kirsch). Il volume è del 1953.
All’epoca, Gogarten aveva sessantasei anni. Possiamo quindi considerare
quest’opera una espressione della piena maturità del suo pensiero. Cip
proponiamo di mostrare come nel pensiero teologico del novecento operi
ancora l’eresia marcionita. Questo consentirà anche di mostrare quale sia il
peso del pensiero gnostico nell’opera di Martin Heidegger. La vita di
Gogarten può essere riassunta in poche righe. Nato nel 1887, studia nelle
università di Jena, Berlino e Heidelberg. Nel 1917 viene chiamato in una
parrocchia di campagna, poi va in una parrocchia vicina ad un centro
universitario. In seguito diviene professore di teologia sistematica,
dapprima a Breslau, poi a Gottinga, dove insegna per circa vent’anni e
dove morirà nel 1967. Apparentemente, nulla di più tranquillo della vita di
questo professore, che passò quasi tutta la sua vita accademica nella stessa
città. È però noto l’episodio del 1933, quando, a seguito della sua adesione
al nazismo, Karl Barth e i suoi seguaci si staccarono da lui, aderendo alla
Bekennende Kirche (chiesa confessante). Parimenti noto è che
l’appartenenza di Gogarten ai Deutsche Christen (cristiani tedeschi) durò
appena qualche mese. Eppure a questa breve parentesi si deve in sostanza
la successiva noncuranza che a questo studioso fu riservata dal mondo
culturale e accademico. La questione della adesione di Gogarten al
nazismo appare ancora oggi in larga misura da chiarire. Ha scritto G.
Penzo, nell’Editoriale a Demitizzazione e chiesa (p 12):
“Ora, a prescindere dal fatto che Gogarten abbandona solo dopo alcuni
mesi in modo piuttosto clamoroso il suo gruppo evangelico, non si può
però non riconoscere che la sua infelice scelta politica può essere
giustificata dalla sua stessa impostazione filosofico-teologica. A riguardo
ci tengo a far presente che di proposito dico che quella particolare scelta
politica di Gogarten ‘può’ trovare la sua giustificazione a livello di
problematica teoretica, e non già che la debba necessariamente trovare”.
La affermazioni di Penzo appaiono gravi se si pensa che si è lungamente
proposta una contrapposizione tra Gogarten e Barth, proprio sulla base
delle diversità delle loro scelte. Però gli stessi motivi che stanno alla base
del “sì” di Gogarten al nazismo si possono rinvenire anche nel pensiero di
Barth (si vedano von Balthasar e Willems). Questi motivi sono
sintetizzabili nella separazione tra Dio e il mondo, tra storia della salvezza
e storia mondana. Nel pensiero di entrambi questi autori la storia della
salvezza si svolge indipendentemente e, potremmo dire, al di fuori di ogni
evento mondano. La vita della grazia è parallela ma estranea alla vita del
mondo. Questa ‘complementarità’ tra Vangelo e mondo si fa
particolarmente evidente in Gogarten. Il mondo è completamente
abbandonato alla indagine razionale e scientifica. La dimensione della
fede è completamente disgiunta da quella della ragione. Ogni volta che un
uomo si rivolge a Dio, egli si rivolge a un ‘tu’. È dunque in una
dimensione ‘io-tu’. Ogni volta che si rivolge al mondo, egli è in una
dimensione ‘io-esso’. Diamo ancora la parola a Giorgio Penzo:
“Di qui ciò che io denomino il personalismo esistenziale di Gogarten, che
si chiarisce su un piano ontologico-teologico. L’essere come avvenimento,
come un accadere (Ereignis) che si rivela nell’atto di fede, ha luogo,
scondo Gogarten nell’ambito io-tu che si chiarisce nel rapporto diretto tra
uomo e Dio. Invece il piano del mondo rimane legato ad un conoscere che
ha sempre di fronte l’oggetto. In questo ambito, in cui non si può parlare di
avvenimento ma di indagine (Forschen, Fragen, Verwalten, Beweisen), la
dialettica non si configura più nella dimensione personalistica io-tu, ma il
quella di io-esso”.
Questo dialogismo gogarteniano sembra estraneo ad ogni preoccupazione
di salvaguardia della metafisica, come era invece quello di Buber.
Ricordiamo che per Buber la parola originaria “Io-esso” è pienamente
legittima, e all’interno di essa si apre lo spazio per l’indagine metafisica.
Questa ‘dimenticanza’ della metafisica può forse essere spiegata dalla
vicinanza al pensiero di Martin Heidegger. È stato notato come tra questi
due pensatori, Heidegger e Gogarten, si dia un parallelismo quasi perfetto.
In proposito, parlando di Gogarten, ma notando la somiglianza di certi
temi con Heidegger, dice ancora Giorgio Penzo:
“Se Heidegger dice che l’essere non è ma si dà, Gogarten dice che Dio non
è ma si dà. Se Heidegger dice che il darsi dell’essere è anche un
nascondersi, Gogarten dice che il darsi di Dio è ad un tempo un sottrarsi.
Se Heidegger dice che il darsi dell’essere costituisce la storicità
dell’essere, Gogarten dice che il darsi di Dio costituisce la storicità
dell’esistere dell’uomo. Di qui l’espressione cara a Gogarten, che
sintetizza il suo pensiero, che Dio cioè si dà all’uomo in modo personale-
storico (personal-geschichlich). Non occorre far notare che in tale contesto
il termine storico è preso, come in Heiddegger, nel senso di storicità
(Geschichte) e non nel senso di storia (Historie)”.
In effetti, negli ultimi anni della sua vita, Gogarten si era molto avvicinato
alle posizioni di Heidegger. Nel corso di tutto Demitizzazione e chiesa
Gogarten insiste sulla necessità di superare la concezione metafisico-
moderna, quella cioè che si configura in termini di soggetto/oggetto.
Questa è la tradizione inaugurata esplicitamente da Cartesio. C’è da
chiedersi se per caso non sarebbe stato il caso di tornare alla ‘vecchia’
concezione della metafisica, quella aristotelica/platonica/tomista/scotista. I
teologi della chiesa luterana sono rimasti, secondo Gogarten, rinchiusi in
un tale schema soggettivo/oggettivo, per cui fraintendono le proposte di
Bultmann sulla demitizzazione. A questa concezione, che Gogarten
chiama “metafisica”, egli oppone quella storicistica. Egli stesso ci dice:
“E’ però necessario fare qualche altra considerazione a riguardo, per
chiarire ancora meglio l’essenza della storia così come viene concepita
nella filosofia di Heidegger. In un saggio su L’epoca dell’immagine del
mondo (in Sentieri interrotti), Heidegger cerca di dimostrare che
‘l’immagine del mondo’, e cioè il fatto che il mondo diventi immagine, è
la caratteristica del mondo moderno e del suo pensiero. Non poteva
esistere un’immagine medioevale o antica del mondo. Infatti, prima
dell’avvento del mondo moderno, “l’essere dell’ente” non consiste mai nel
fatto di “essere posto dinanzi all’uomo come alcunché di soggettivo, di
rientrare nel dominio dei suoi decreti e dei suoi ordinamenti, sussistendo
così solo come tale”. “Il tratto fondamentale del mondo moderno” dice
Heidegger “è la conquista del mondo risolto in immagine”. E questo fatto
che il mondo diventi immagine, che diventi oggetto e ciò significa:
qualcosa di oggettivo che l’uomo può conquistare, o, come si esprime
Heidegger, che il mondo diventi la “configurazione della produzione
rappresentante”, ha la sua ragione nel fatto che “l’essenza stessa dell’uomo
subisce una trasformazione con il costituirsi dell’uomo a soggetto”. (…)
Con questa trasformazione dell’uomo in soggetto si è compiuta perciò una
profonda e fatale trasformazione del suo rapporto con il mondo e con ogni
ente, che è in vigore sino ad oggi. In tal modo, il mondo, e ogni ente in
generale, è divenuto oggetto che l’uomo si rappresenta” (p. 66-67 di
Demitizzazione e chiesa; le citazioni di M. Heidegger provengono da L’età
dell’immagine del mondo , p 89-99).
È senza dubbio impressionante l’impronta marcionita che emerge da
questa visione. La netta separazione tra Dio e mondo, tra Antico e Nuovo
Testamento, tra Legge e amore, sono indubbiamente temi marcioniti.
Siamo di fronte a un marcionismo riveduto e corretto, certamente raffinato.
Attraverso il linguaggio ‘dialogico’ che ha assunto, esso ha saputo darsi un
tono novecentesco.
La risoluzione del mondo in immagine spiega la sua consegna al mondo
della scienza/tecnica e allo stesso tempo anche la sua irrilevanza ai fini del
rapporto tra Dio e uomo. Infatti questa immagine, o successione di
immagini, di cui oramai consta il mondo, potrà essere solamente
manipolata, perfezionata, raffinata dai mezzi tecnici delle discipline
scientifiche.
Naturalmente questo poter/voler disporre del mondo totalmente, per cui la
natura non è più una cosa consegnata all’uomo (in affitto, perché ne abbia
cura), la sorgente della legge (naturale), qualcosa di stabilito una volta per
tutte. Essa diviene, nella visione attuale, qualcosa di indefinitamente
malleabile, manipolabile, qualcosa da costruire. Cosa significa questo se
non che tra l’uomo e Dio non c’è più il mondo, di mezzo, per trovare in
esso delle vie a Dio, come faceva il medioevo? Mai e poi mai, infatti, un
tale mondo-immagine potrà porsi come intermedio tra Dio e uomo, né
esisteranno via a Dio a partire dal mondo. Non sarà più possibile risalire
dalle creature a Dio, dagli enti al loro Creatore, come era invece sensato
per il mondo-realtà degli antichi e dei medioevali. Infatti, la risoluzione del
mondo in immagine comporta la sua dissoluzione. L’immagine attuale che
ne abbiamo può essere sostituita da un’altra, non appena sia necessario o
conveniente per la scienza e la ricerca scientifica. È per questo che Gianni
Vattimo ha potuto dichiarare: il reale non esiste più, esistono solo le sue
interpretazioni. E Heidegger ha scritto:
“con questa lotta tra le visioni del mondo, il Mondo Moderno entra nel
momento decisivo e presumibilmente più durevole della sua storia”
(Sentieri interrotti , p 99).
Questa dissoluzione del mondo nelle sue immagini manifesta e, nello
stesso tempo, realizza il sogno gnostico e neo-gnostico della fuga dal
mondo. Trova così compimento, ad opera della scienza/tecnica, l’ideale
neo-gnostico della liberazione dal mondo. Per questo Heidegger ha potuto
scrivere che nel mondo del Ge-Stell (il mondo della di-sposizione, della
organizzazione tecnica totale) si ha il primo lampeggiare dell’Ereignis.
Gogarten ha intravisto in questi processi, in questo dispiegarsi di
interpretazioni, il vero ambito in cui ha luogo la demitizzazione. Per
questo, vari commentatori hanno visto in lui, più ancora che in Bultmann,
il vero interprete delle ragioni filosofiche della demitizzazione. Notiamo
però che la critica gogarteniana al ‘mondo della metafisica’ cela il
fraintendimento grave che essa sia innanzitutto una metafisica della
contrapposizione soggetto/oggetto. Gogarten cioè si muove nell’ambito del
fraintendimento heideggeriano, secondo cui la metafisica è l’ambito del
disporre, dell’organizzazione. Secondo Heidegger, infatti, il dasein
(l’uomo) va verso l’essere sempre secondo un progetto (esistenziale,
storico, estetico, politico, sentimentale, …). Il mondo ci si fa incontro già
‘filtrato’ da questa sua percezione entro un progetto, ciò che determina la
natura simbolica, simbolico-strumentale, dell’essere che così avviciniamo.
È proprio questa impostazione che consente poi di affermare che “il tratto
fondamentale del mondo moderno è la conquista del mondo risolto in
immagine”.
Del resto, Gogarten non è l’unico ad avere subito, espresso, interpretato
tali esigenze. Esse sono così diffuse nel pensiero filosofico e teologico del
novecento da fare pensare che si tratti di una atmosfera di fondo, di un
‘clima’ la cui aria è stata respirata, più o meno, da tutti.
Gogarten non è il solo a esprimersi in senso heideggeriano ed in termini
heideggeriani. Sentiamo Karl Barth:
“Dio è il Dio sconosciuto. Come tale egli dà a tutti la vita, il pensiero ed
ogni cosa. Perciò la sua potenza non è né una forza naturale, né una forza
dell’anima, né alcuna delle più alte o altissime forze che noi conosciamo o
che potremmo eventualmente conoscere, né la suprema di esse, né la loro
somma, né la loro fonte, ma la crisi di tutte le forze, il totalmente Altro,
commisurate al quale esse sono qualche cosa e nulla, nulla e qualche cosa,
il loro primo motore e la loro ultima quiete, l’origine che tutte le annulla, il
fine che tutte le fonda. Pura ed eccelsa sta la forza di Dio, non accanto e
‘soprannaturalmente’ sora, ma al di là di tutte le forze condizionate-
condizionanti, né deve essere scambiata con esse, né messa in linea con
esse, né senza estrema cautela può essere confrontata con esse. La potenza
di Dio, che stabilisce Gesù come Cristo, è nel senso più stretto
presupposizione, libera da ogni contenuto tangibile. Essa avviene nello
Spirito e vuole essere conosciuta nello spirito. Essa è autosufficiente,
incondizionata e in sé vera”. (L’Epistola ai Romani, p. 12)
Tutto quanto detto sembra ricondurci a Heidegger. La considerazione che
Heidegger propone per l’essere è strana.
L’essere secondo Heidegger ci si dà come evento. Egli dice questo nel
senso di accadimento che fa la storia, un’opera d’arte, un evento politico,
una interrogazione filosofica. Questo sarebbe suonato un poco strano,
credo, a tutti gli antichi e i medioevali. È vero che l’essere ci si fa incontro
in tanti modi: è in questo bicchiere, in questa biro, nel libro che ho aperto
davanti; ed è sempre essere, senza essere un evento, un accadimento
(Ereignis) in senso heideggeriano.

Bibliografia.
Franca D’Agostini, Analitici e continentali, Raffaello Cortina
Hans Urs von Balthasar, La teologia di Karl Barth, Jaca Book
Karl Barth, La Lettera ai Romani, Feltrinelli
Ernst Bloch, Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli
Dietrich Bonhoffer, Atto ed essere, Queriniana
Martin Buber, Il principio dialogico, Edizioni di Comunità
Massimo Cacciari, Il potere che frena, Adelphi
George Gadamer, Verità e metodo, Bompiani
Friedric Gogarten, Demitizzazione e chiesa, Queriniana
Romano Guardini, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana
Martin Heidegger, Umanesimo e scienza nell’era atomica, editrice La
Scuola
Max Horkeimer, La nostalgia del totalmente Altro, Queriniana
Giorgio Penzo, Pensare heideggeriano e problematica teologica,
Queriniana
Sergio Quinzio, Radici ebraiche del moderno, Adelphi
Walter Schulz, Le nuove vie della filosofia contemporanea, Vol 1:
scientificità, vol 2: interiorità, vol 4: storicità, Marietti
Gianni Vattimo, Il soggetto e la maschera, Nietzsche e il problema della
liberazione, Bompiani
G. V., Credere di credere, Garzanti
G. V., La fine della modernità, Garzanti
G. V., Oltre l’interpretazione, Laterza
G. V., Filosofia al presente, Garzanti
G. V., La società trasparente, Garzanti
Carl Friederich von Weiszäcker, L’uomo nella sua storia, S. Paolo
Bernhard Welte, La luce del nulla, Queriniana
Bonifac Willems, Introduzione a Karl Barth, Queriniana

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