Mauro Murzi
IL FILOSOFO E
I MODELLI
Gianni Vattimo
La scienza è sì (heideggerianamente) figlia della metafisica, ma si
rivela essere figlia matricida. È dalla scienza e grazie alla scienza,
allora, che giunge la notizia della fine della metafisica. Sta alla
filosofia, in particolare a quella “voce comune” della coscienza
europea che è la filosofia ermeneutica, interpretare l’annuncio
proveniente dal mondo della scienza/tecnica, articolare
argomentativamente quello che la scienza ha inesorabilmente
sancito. Nietzsche aveva proclamato la “morte di Dio”.
Quell’annuncio andava inteso come la dichiarazione
dell’impossibilità di pensare ancora il Dio della metafisica, ossia
legato al rinvenimento del fondamento e delle certezze
incontrovertibili della metafisica. Se quella nietzschiana era una
profezia, è ora dalla scienza, sostiene Vattimo, che giunge la notizia
preannunciata da Nietzsche.
Con questa notizia dobbiamo fare filosoficamente i conti. Quanto
asserito dal filosofo torinese costituisce certamente una novità nel
campo del pensiero ermeneutico (o continentale). La sua definizione
del ruolo della scienza nella dissoluzione della metafisica costituisce
un rovesciamento rispetto alle idee di quei pensatori (pensiamo a
Heidegger e a Gadamer, innanzitutto) che hanno relegato le scienze
ad un ruolo tecnico, estraneo ai temi filosofici della verità e della
conoscenza veritiera.
Questa posizione di Vattimo, inoltre, è in rilevante contrasto con
quella di altri debolisti, quali Odo Marquard5, secondo il quale la
cultura umanistico-filosofica espressa dal pensiero post-moderno ha
soprattutto una funzione difensiva, di riparo, per lo husserliano
“mondo della vita” (lebenswelt). Riparo e protezione nei confronti
della aggressiva crescita della scienza/tecnica nel nostro mondo. Il
“moderno” è caratterizzato soprattutto dal pensiero tecnico e
scientifico: dunque il post-moderno è una risposta al pensiero
moderno, alla situazione impressa all’umanità a partire dall’epoca
moderna. Poiché costituisce un tentativo di correzione o di
indebolimento del “mondo delle macchine”, il post-moderno è, in tal
senso, ben inserito nel moderno. Il post-moderno è infatti una specie
di panacea, di dolcificante o, potremmo dire, l’oppio di chi è travolto
dal mondo e pensiero moderni, di chi è stordito dalla accelerazione
impressa al mondo dal moderno.
Se il post-moderno ha, nel pensiero di Marquard, questa funzione
vicaria, necessaria per alleviare le asprezze della vita nel mondo
della scienza/tecnica, della produzione, della massificazione, allora è
evidente che tra moderno e post-moderno non c’è opposizione o
contrapposizione; essi rappresenterebbero due categorie
complementari e due realtà compatibili, sia pure dialetticamente
compatibili. Questa interpretazione di Marquard del post-moderno,
se inserita nella concezione heideggeriana della scienza come
prodotto del pensiero metafisico, significherebbe che anche il post-
moderno, in quanto parte (nel senso detto) del moderno, rientra nel
sistema di pensiero e nel mondo creati dal pensiero metafisico greco.
Un esito, questo, di segno opposto a quello della riflessione di
Vattimo.
5
Marquard 1986, Marquard 1989.
Vedremo nel seguito quale forza e quale coerenza manifesti la
posizione vattimiana, se paragonata alla posizione di Marquard, così
consolatoria, accomodante e, insieme, così “umanistica”. L’impianto
concettuale di Vattimo appare ben più motivato, articolato e
rigoroso.
6
Gadamer 1960.
7
“Die Wissenschaft denkt nicht” in Heidegger 1954 p. 4.
Tra i modi in cui questo accadere si fa presente all’uomo, tra gli
eventi inaugurali dell’essere, egli annovera l’opera d’arte, l’evento
politico, le grandi esperienze religiose e le interrogazioni filosofiche.
Mancano, in questo elenco, le scoperte scientifiche. Infatti
Heidegger considera la scoperta scientifica come in qualche modo
preannunciata nel sistema logico-deduttivo nel cui ambito viene
rinvenuta, prodotta, enunciata. Nella scienza secondo Heidegger non
ci sono novità vere e proprie, ma solamente deduzioni di risultati già
implicitamente contenuti nelle premesse della teoria. Ciò è
particolarmente evidente nei sistemi assiomatici, in cui gli assiomi
iniziali della teoria contengono in nuce tutto quanto verrà man mano
dedotto nei teoremi.
Per questo si può affermare che la scienza calcola, non pensa. Se la
raffigurazione heideggeriana della scienza suona rassicurante per i
sistemi deduttivi, non va dimenticato che la scienza non è costituita
da un unico sistema deduttivo, ma la storia della scienza ha visto un
succedersi di tali sistemi (deduttivi e non-deduttivi). Karl Popper ha
descritto l’affermarsi di una teoria su un’altra attraverso il processo
di falsificazione: a seguito di un disaccordo tra teoria ed esperienza
occorre introdurre un’altra teoria al posto di quella “vecchia”.
Resterebbe il problema, nella concezione ispirata ad Heidegger, di
come considerare questo subentrare di una teoria ad un’altra. È anche
questo un “evento inaugurale dell’essere”?
Tale problema si manifesta anche se si adotta la descrizione di
Thomas Kuhn del progresso scientifico attraverso sostituzioni
rivoluzionarie di teorie con altre. Qui “rivoluzionario” significa: con
ripercussioni su tutto il quadro teorico della scienza e su quello
globale di percezione della realtà. A quest’ultima teoria
epistemologica fa riferimento il filosofo americano Richard Rorty.
Rorty8 suggerisce che le categorie interpretative della filosofia
ermeneutica possano utilmente affiancare gli strumenti concettuali
elaborati dagli epistemologi, al fine di pervenire ad una migliore
comprensione della scienza. Rorty fa questo proprio utilizzando la
filosofia della scienza di Kuhn. Egli suggerisce che la descrizione di
Kuhn possa essere utilmente arricchita ricorrendo all’ermeneutica.
8
Rorty 1979.
Da un lato, l’epistemologia ci offre gli strumenti per descrivere e
capire la ricerca “normale” e gli scienziati “normali”, abili risolutori
di rompicapo e fedeli esecutori di un lavoro di routine, che non esce
dall’alveo stabilito dal paradigma in auge in quel momento;
dall’altro, l’ermeneutica è in grado di descrivere i cambiamenti di
paradigma, ossia le rivoluzioni scientifiche, mostrandocene la natura
di accadimenti (in senso heideggeriano).
Richard Rorty
È da notare che per Kuhn i cambiamenti rivoluzionari non
avvengono per motivi interni alla razionalità scientifica, non sono
cioè spiegabili a partire da strumenti interni alla razionalità
scientifica. Infatti essi rappresentano piuttosto il passaggio ad un tipo
di razionalità diverso dal precedente, poiché tutta la comprensione e
percezione della realtà viene interessata dal cambiamento e ne risulta
trasformata in modo imprevedibile.
Ecco quindi che, secondo Rorty, le rivoluzioni scientifiche di Kuhn
sono eventi inaugurali dell’essere, accadimenti originari della verità.
Dopo ogni rivoluzione scientifica, i ricercatori tornano al loro lavoro
“normale”, che consiste nel risolvere problemi definiti a partire da un
quadro comune accettato (ossia un nuovo paradigma). Questo
comprende un nuovo impianto assiomatico, regole di calcolo, un
insieme collaudato di tecniche di misura, il riferimento a certi
esperimenti considerati basilari. Non è detto che tutti questi elementi
costitutivi del paradigma siano stati rivoluzionati, ma il loro insieme
ha un aspetto nuovo e caratteristico del nuovo paradigma scientifico.
È questo, ora, a guidare il lavoro di ricerca.
Secondo Rorty, c’è una perfetta corrispondenza tra Kuhn e
Heidegger.
I periodi “normali” di ricerca, quelli cioè più frequenti e duraturi,
sono quelli in cui il lavoro di ricerca è in qualche modo di routine. In
questi periodi si vedono gli scienziati immersi nei loro calcoli del
tutto interni al sistema assiomatico accettato; i loro risultati, quindi,
sono in un certo senso prestabiliti e coerenti col quadro generale. Lo
scienziato normale di Kuhn è insomma facilmente interpretabile
come un tecnico immerso nei suoi calcoli, di cui ci parla Heidegger.
Non ci vuole molto, se si guarda a questo specialista, curvo sul suo
lavoro avaro di sorprese, a veder in esso niente altro che uno
specialista, un tecnico, una persona oltremodo specializzata ma
immemore del senso dell’essere.
Però la storia della scienza, sembra suggerirci Rorty, non è tanto
costituita dal paziente lavoro di questi oscuri operai specializzati, ma
è soprattutto e principalmente la storia delle sue rivoluzioni, dei
cambiamenti di teorie e quadri concettuali operati da pochi, geniali
individui. Nella storia della scienza, quindi, quello che veramente
conta sono le creazioni geniali, imprevedibili, che al pari delle opere
d’arte vanno considerate autentici eventi inaugurali dell’essere.
Vattimo accetta quanto sostenuto da Rorty, ma
contemporaneamente ne prende le distanze. La discussione condotta
dal filosofo americano gli sembra in larga misura estetizzante e un
poco “romantica”. È su un punto di essa che in particolare si
concentrano le critiche di Vattimo. Rorty assume che la scienza sia
una tra le tante voci della nostra società, della nostra cultura, senza
particolari titoli di rilevanza. Preoccupazione di Rorty è insomma
quella di garantire un terreno di discussione tra teorie e metodi
diversi.
Vattimo ricorda un ritornello costante di Rorty: “l’importante è che
la discussione continui”. Vattimo, invece, vuole sottolineare la
centralità della scienza per la riflessione filosofica che vuole
comprendere l’attualità storica ed i suoi motivi di fondo. Motivi
analoghi di insoddisfazione si possono secondo Vattimo palesare
riguardo alla impostazione di questi problemi di Habermas.
Questo pensatore ha cercato di ricomporre un quadro di razionalità
diverso da quello della sola razionalità scientifica. Per fare questo,
anch’egli ricorre al concetto, utilizzato anche da Marquard, di
lebenswelt (mondo vitale, mondo della vita). Habermas propone di
intendere per razionalità, in generale, l’argomentatività
intersoggettiva. È questa razionalità discorsiva che permette la
comunicazione tra individui e gruppi umani. Su di essa si basa
l’edificazione della democrazia e dell’agire politico nel mondo della
vita.
All’interno di essa, secondo Habermas, vanno assunti problemi e
linguaggi della razionalità tecnologica, ossia del mondo della
strumentalità e del dominio tecnologico. In effetti la razionalità
scientifico-tecnica necessita dell’assunzione entro un quadro di
significati e di valori più vasto. Se quest’ultimo ruolo viene svolto
dalla razionalità discorsiva (quella che permette l’agire
comunicativo), ciò dovrebbe garantire la possibilità di accordi
intersoggettivi ed il controllo della democrazia sulla scienza/tecnica.
Come si vede, ci troviamo in prossimità delle idee di Marquard
(resistenza umanistica alle istanze della tecnica) e di Rorty (necessità
di garantire le condizioni per la discussione intersoggettiva). Anche
Habermas, quindi, accoglie come valida l’istanza umanistica secondo
cui agli automatismi dell’organizzazione tecnica va affiancata e in
qualche modo contrapposta una razionalità politico/discorsiva. Il
fatto che nel discorso di Habermas sia implicita la convinzione che
bisogna resistere al mondo dell’organizzazione totale significa però
che si ha una opposizione tra istanze umanistiche e criteri tecnici, tra
scienze dello spirito e Naturwissenschaften.
Questo breve riassunto delle posizioni dei principali pensatori
dell’ermeneutica nei confronti del problema della scienza pone in
evidenza un atteggiamento generale di carattere negativo verso la
scienza. La critica del pensiero scientifico è anche teoreticamente
abbastanza radicale, per via della denuncia degli aspetti per cui la
razionalità scientifica non è sufficiente all’uomo in quanto inserito
nel mondo della vita. È rilevante, d’altra parte, anche la critica sul
piano pratico/etico (ovvero politico), in quanto si dichiara la
necessità di opporre resistenza alla colonizzazione del mondo
dell’uomo da parte della scienza/tecnica.
L’impostazione di Vattimo è, come dicevamo, radicalmente
diversa, di segno opposto. Essa asserisce infatti che nei confronti del
mondo della tecnica occorre non resistere, ma farsi carico della realtà
della scienza e delle implicazioni culturali che ne derivano. Come si
può vedere, rispetto a tutti gli altri pensatori post-moderni con cui si
confronta, Vattimo non pretende di avere compreso esaurientemente
la logica della scienza, ovvero la razionalità della scienza/tecnica; né
accetta di stabilire preventivamente quali atteggiamenti vadano
adottati nei confronti del mondo della organizzazione totale.
Secondo Vattimo è centrale il chiarimento delle implicazioni
filosofiche portate in essere dalla costituzione della scienza moderna
e dall’affermarsi del suo metodo. La posizione di Vattimo appare
perciò più animata da una preoccupazione di sobrio rigore che
tralascia, almeno per il momento, ogni preoccupazione pratica.
Non si può pertanto dare torto a Vattimo, quando dice che gran
parte della filosofia continentale rischia di essere invischiata nella
“incapacità di cogliere il significato nichilistico della filosofia
dell’interpretazione”9, né quando afferma che in tal modo
l’esperienza filosofica del postmoderno sembra faticare “a distaccarsi
da una generica, e spesso relativistica, filosofia della cultura” 10.
Lungi dall’adagiarsi in comode e consolanti narrazioni di quanto
accade nella nostra epoca, il pensiero deve accettare le sfide e
raccogliere le sollecitazioni che vengono dal nostro tempo, dalla
scienza, dall’organizzazione tecnica. Cercare di capire tali
sollecitazioni significa cercare di capirne fino in fondo le
implicazioni filosofiche. Questo diverso atteggiamento è secondo
Vattimo l’unico coerente con una impostazione di pensiero che si
vuole e si autopercepisce come postmetafisica.
Il superamento della metafisica significherà infatti per la filosofia
confrontarsi non più con strutture immutabili, pensate come il
fondamento del pensiero stesso, ma confrontarsi con gli accadimenti
9
Vattimo 2002 p. 25.
10
Vattimo 2002 p. 27.
nuovi ed originali dell’essere. Ma il modo nuovo ed originario con
cui l’essere ci si fa incontro nell’epoca contemporanea è
l’organizzazione della scienza/tecnica.
Questo è anche il pensiero di Heidegger, che in Identità e
differenza11 dichiara che nel mondo della organizzazione scientifica
si accende, si segnala la possibilità di un oltrepassamento della
metafisica.
Martin Heidegger
14
Citiamo almeno qualche nome, tra i più conosciuti, fra gli scienziati
(matematici, fisici, biologi, ecc.) che si sono dilettati di epistemologia:
Ageno 1992a, Amaldi 2004, Dirac 1939-83, Eddington 1938, Einstein 1950,
Feynman 1967, Heisenberg 1958, Jordan 1957, Kemeny 1959, Planck
1923-36, Schrödinger 1929-58, Wigner 1959.
15
Che cosa è la logica dei trasporti? Un risultato, un metodo risultato
valido in una disciplina o in un campo particolare di ricerca viene
trasportato in un altro ambito, un’altra materia di indagine, magari un’altra
interdisciplinare, i contatti tra specialità diverse sono andati
crescendo; ciò è ritenuto necessario ai fini della stessa
produttività scientifica;
4) è vero che, nel medioevo cristiano, vi era una immagine
prevalente del mondo; non è vero invece che essa venisse presa
molto sul serio da tutti i pensatori medioevali; ad esempio, S.
Tommaso dice16 che il mondo in cui viviamo lo vediamo in un
certo modo: ma potrebbe anche non essere così (e di questo non
gli importa poi molto); altra difficoltà, per Vattimo, viene dalla
tendenza della scienza all’unificazione (legata anche alla logica
dei trasporti, ma non solo); tale tendenza è proprio lo sforzo di
ottenere un’unica “teoria della realtà”, di ricondurre entro l’alveo
di un unico “grande modello” i rivoli delle indagini
specialistiche; i tentativi di grande unificazione, anche se hanno
conosciuto, e conoscono attualmente, momenti di grande crisi,
sono più che mai vivi nella scienza17.
Si badi: non stiamo semplicemente dicendo che Vattimo non sia
informato di quel che oggi accade nella scienza. Ciò non sarebbe poi
tanto grave. Stiamo dicendo che queste carenze di informazione si
ripercuotono sull’immagine complessiva che egli ha e dà della
scienza.
Ad esempio: la stessa possibilità di comunicazione tra ricercatori di
specialità diverse (come esplicitamente riconosciuta quando si parla
di logica dei trasporti) sottintende e mostra che i paradigmi (o
modelli) locali non sono chiusi in sé stessi, intraducibili gli uni negli
altri. Essi non sono cioè, per usare il linguaggio di Kuhn,
incommensurabili18.
scienza.
16
Tommaso d’Aquino, De Caelo et Mundo, II, lectio 17.
17
Horgan 1994. Questo è solo un esempio di un vasto numero di tali
tentativi, che non deve essere fonte di imbarazzo, dato che testimonia, se
non altro, la perenne attualità del relativo programma di ricerca. La proposta
di un quadro interpretativo unitario, coerente e sintetico, è evidentemente
nello spirito della scienza.
18
Kuhn 1962. Si veda anche Masterman 1970.
Questo significa che i modelli, le teorie dei vari specialisti non sono
entità monadiche, destinate all’isolamento, ma anche se restano
individuali, con una loro identità distinta, non sono oggetti senza
porte né finestre. Le immagini del mondo prodotte dai vari specialisti
non sono destinate ad una lotta gigantesca, piuttosto alla
collaborazione ed alla mutua integrazione. Heidegger parlava, in
Sentieri interrotti, della lotta tra le visioni del mondo, con cui l’epoca
moderna entra nel momento più decisivo e durevole (probabilmente)
della sua storia. A questa affermazione opponiamo che le immagini
del mondo (i modelli) prodotte dai diversi ricercatori sono contributi
differenti, integrabili, che possono arricchirsi a vicenda. Non sono
modelli (ovvero immagini del mondo) mutuamente escludentisi in
una logica aut-aut.
Vorremmo esaminare il ruolo, la struttura interna dei modelli, i
rapporti tra essi, il che significa rispondere alle domande che sorgono
spontanee dalla lettura di Oltre l’interpretazione di Vattimo. Si tratta
di dare insomma uno spessore filosofico alla sua “narrazione”. Una
narrazione, quella vattimiana, che contiene indubbiamente tante
verità accanto a qualche significativa menzogna 19. Al di là di questo,
si può prendere per buono quello che Vattimo dice sulla
frammentazione della visione del mondo prodotta dalla scienza e
chiedersi: che ruolo hanno avuto i modelli in questa
frammentazione? Ci sono poi tante domande che sorgono spontanee
a proposito di tale frammentazione: è legittima, dal punto di vista
epistemologico, tale frammentazione? Che riflessi ha questo sulla
nostra visione del mondo, sulla nostra cultura, sulla società nel suo
complesso? Perché, a volte, due o più rivoli divengono, da
19
Qualche esempio di menzogna può bastare. Vattimo citava, sulla scorta
di Heidegger, i sistemi logico-deduttivi, come esempio di sistemi in cui tutte
le verità sono già contenute nelle premesse. Ci basta pensare al teorema di
incompletezza di Gödel per negare che sia così. Precisamente, il teorema di
incompletezza di Gödel nega che si possa pensare l’attività dei matematici
come rimpiazzabile da un computer o un qualunque altro strumento
meccanico. Secondo quest’ultima visione, la matematica sarebbe un’attività
meccanica, già stabilita una volta che si siano introdotti gli assiomi della
teoria. Al matematico non resterebbe altro da fare che ricavare via via,
meccanicamente, le conseguenze degli assiomi, in forma di teoremi.
divergenti, convergenti? Ci sono solamente ragioni “interne” per
questa moltiplicazione dei rivoli, o anche “esterne”? La
frammentazione è per caso già inscritta nella scienza all’atto della
sua nascita, con Galileo?
Occorre allora, innanzitutto, andare a vedere come si sviluppa una
tale frammentazione di immagini nella scienza. Perché, scopriremo,
è all’interno della scienza che si produce una tale moltiplicazione di
immagini. Ciò vuole dire: ci sono ragioni che soltanto
l’epistemologia può e deve scoprire, per chiarire come la scienza
avanza.
Poiché Vattimo parla di immagini del mondo, noi dobbiamo parlare
di modelli. Questo è un libro di filosofia, ma di filosofia della
scienza. C’è più di un perché, nell’utilizzo, da parte di Vattimo, di
quella locuzione, “immagini del mondo”. Come già detto in altra
occasione, da un modello qualunque è facile, immediato, trarne una
immagine del mondo. Il filosofo salta qui alle conclusioni, quindi.
Eppure, se uno stesso modello viene trattato in diversi modi (con
diversi modelli) ne nascono altrettante visioni del mondo. Pertanto, è
più prudente parlare di modelli, oltre che più aderente alla ricerca
scientifica.
Che bisogno c’è di un libro sui modelli usati nella scienza? Non c’è
già abbastanza letteratura sui modelli scientifici? A questa domanda
bisogna rispondere con un deciso sì. Però è letteratura specialistica,
molto specialistica. Nell’ambito della filosofia della scienza, ed
ancor più nella filosofia della scienza italiana, manca un libro sui
modelli scientifici, che sia abbastanza semplice: insomma un libro
che appartenga alla filosofia della scienza divulgativa, anziché a
quella specialistica. Non vogliamo scrivere per un pubblico di soli
specialisti in filosofia della scienza, ma per un più vasto pubblico di
persone istruite ed interessate a questi problemi. Se noi ci siamo
decisi a scrivere questo libro, è perché ci offre molte occasioni per
rafforzare la nostra teoria circoscrizionista della scienza 20.
Ricordiamo cosa dice questa teoria:
1) Ogni teoria scientifica non viene falsificata, ma piuttosto
circoscritta.
20
Valenti 2012, Valenti 2014, Murzi e Valenti 2014.
2) Quindi essa ha a disposizione un campo di validità che riesce a
gestire. Nel proprio campo di validità, ogni teoria è praticamente
certa; ossia, è al riparo dalle falsificazioni.
3) Le procedure con cui uno scienziato cerca di stabilire qual è il
dominio della propria teoria non sono diverse da quelle di uno
che stia cercando (o meglio: credendo di cercare) di falsificarla.
4) Ogni teoria scientifica ha controesempi.
5) I controesempi non dimostrano che la teoria è falsificata e deve
essere sostituita con una migliore, ma segnalano che il limite del
campo di validità della teoria è stato oltrepassato.
6) Gli scienziati hanno fiducia in una teoria solo quando il suo
campo di validità è stato delimitato (ossia, solo quando la teoria
è stata apparentemente falsificata).
7) La storia della scienza non è un cimitero di teorie falsificate, ma
il campo vivo di teorie che hanno trovato il loro proprio campo
di applicazione.
8) Chi accetta il falsificazionismo giudica il comportamento degli
scienziati irrazionale, perché gli scienziati si ostinano a usare,
sviluppare e insegnare teorie falsificate. Il distacco tra la teoria
del falsificazionismo e la pratica dell’attività scientifica ha
favorito lo sviluppo dell’irrazionalismo e della tesi “anything
goes” (qualsiasi cosa può andar bene).
9) La sorte di una teoria non dipende dal suo essere vera o falsa. È
quindi fuorviante parlare della verità o della falsità delle teorie
scientifiche. La nozione di “verità” deve essere sostituita con
quella di “campo di validità”.
10) Gli scienziati usano modelli di una medesima teoria che sono
contraddittori tra di loro e con i principi della teoria stessa. La
teoria sembra non contenere contraddizioni esplicite perché gli
scienziati non enunciano tutte le conseguenze che derivano dai
modelli usati. Le teorie scientifiche non sono chiuse rispetto alla
nozione di conseguenza logica.
11) Le teorie scientifiche possono essere descritte come un insieme
di modelli (preferenza per la rappresentazione semantica rispetto
a quella sintattica).
12) La scienza è il miglior modo per acquisire conoscenza e per
scoprire spiegazioni.
Il nostro obiettivo è vedere se il modo in cui i modelli entrano nella
scienza può aiutarci a dare forza a questa teoria.
La scienza vive oggi una strana contraddizione. Infatti, come
abbiamo più volte chiarito, la scienza è, da un lato, limitata in ogni
sua teoria a certi domini21. Però, dall’altro lato, la scienza è abitata da
una incontenibile tendenza a colonizzare ogni aspetto del mondo
conosciuto. A questo fenomeno, in particolare per la scienza fisica,
Roberto Fieschi ha dedicato un libro22. Già nei primi anni Ottanta del
Novecento, Fieschi scriveva23 che la scienza non può considerare
nessun problema, nessuna questione al di fuori del proprio campo
d’azione, al di fuori dei propri interessi; chi voglia divenire
scienziato deve considerare ogni cosa come possibile oggetto
d’indagine. Diciamo allora che la scienza manifesta una tendenza
potenziale all’infinito. Essa cerca di studiare tutto il nostro mondo,
tutto il nostro universo; ma se si scoprissero altri universi, essa
cercherebbe di capire anche quelli.
Vale la pena di spendere qualche parola su questa contraddizione.
Innanzitutto: quando diciamo che la scienza è (tendenzialmente)
infinita, non pensiamo alla ricerca attiva, praticata dagli scienziati.
Sappiamo infatti che tutta la ricerca (intendiamo proprio tutta, come
è praticata in tutto il mondo) è concentrata su un ristretto numero di
temi e problemi. In ogni momento, tutta la ricerca in tutti i continenti
è concentrata su un pugno di temi. Basta consultare un qualunque
numero di una rivista scientifica o anche di più riviste scientifiche.
Ciò va contro il senso comune che, quando riflette su questi temi,
spesso argomenta così: che senso ha che tutti quanti, nel mondo, si
occupino di una stessa cosa? Ognuno deve ricercare su argomenti
diversi. Seguendo il senso comune, andrebbe così perduta la
possibilità, vitale per la scienza, di controllare in laboratorio i
21
Valenti 2012, Murzi e Valenti 2014.
22
Fieschi 2013.
23
Fieschi, Corso di Struttura della materia per universitari, dispense,
nelle pagine introduttive.
risultati ottenuti da un altro. Diciamo che verrebbe a mancare la
possibilità del controllo intersoggettivo.
Ci riferiamo invece allo spirito che informa lo scienziato, il singolo
ricercatore, al suo “cuore” di scienziato. Se immaginiamo per un
attimo che qualcuno si rivolga allo scienziato e gli dica: “Tu non
puoi partecipare a questo progetto scientifico (a questa ricerca, non
puoi collaborare con queste persone, …), per motivi religiosi
(sociali, politici, …)”. Ebbene, se lo scienziato rispondesse che è
d’accordo con il suo interlocutore, non potremmo più considerarlo
uno scienziato. Lo scienziato, il vero scienziato, deve essere pronto,
in linea di principio, a ricercare in qualunque direzione. Deve essere,
per usare una parola del greco antico, polytropos: cioè deve sapersi
volgere in tante (ovvero: in tutte le) direzioni.
Questo è un libro di epistemologia, che desidera entrare nella
operatività degli scienziati. Gli autori desiderano entrare nel vivo
della pratica scientifica. Essi ritengono che occorra, per usare uno
slogan sfruttato, sporcarsi le mani. Riteniamo infatti che soltanto
calandosi nella pratica scientifica sia possibile individuare gli snodi
attraverso cui si dipana il lavoro scientifico, con le sue scelte, i suoi
incroci, le traiettorie adottate. A parer nostro, infatti, ci sono in giro
molte convinzioni tenaci sulla scienza, convinzioni pertinaci ma
sbagliate. Ci sono alcuni pregiudizi sui modelli che sono adottati da
tutti. Tali pregiudizi fanno parte del buon senso comune. Essi sono:
1) Ogni modello scientifico si propone in quanto è in
corrispondenza biunivoca (isomorfismo) con una parte della
realtà.
2) All’atto di introdurre un modello, lo scienziato lo dichiara
(sempre).
3) Quando uno scienziato usa più modelli, essi sono tutti tra loro
coerenti.
4) Ogni cambio di modello verrà segnalato.
5) In caso (eccezionale) di incoerenza, lo scienziato avviserà
(sempre) dell’avvenuto cambiamento di situazione.
Vorremmo argomentare contro tutti questi pregiudizi, mostrandone
la radicale falsità. A dispetto della loro apparente ovvietà, essi sono,
dal primo all’ultimo, delle autentiche falsità, vere e proprie patacche
che, appiccicate all’inizio del nostro pensare, ne distorcono fin da
subito le conclusioni.
1) Cominciamo dal primo: ogni modello scientifico si propone in
quanto è in corrispondenza biunivoca (isomorfismo) con una
parte della realtà. Sappiamo già che cosa vuole dire “una parte
della realtà”. Supponiamo di voler costruire un modello di una
parte della realtà. Occorre innanzitutto scartare i particolari
contingenti e che non c’entrano niente, gli accidenti. Insomma, si
vuole ridurre il modello all’essenziale. Quindi: quando un
ricercatore ci dice che tutti gli oggetti cadono, vicino alla
superficie della Terra, con la stessa accelerazione, esclude di
volersi occupare del colore, del sapore, della forma fisica degli
oggetti. Se fa cadere una palla, o un cubetto, o un altro oggetto,
che differenza fa? A questo si riferiva Galileo quando parlava di
“impedimenti da diffalcare”. Accade però abbastanza spesso che
gli scienziati usano modelli che non corrispondono ad alcuna
parte della realtà. Ciò accade non per caso, come se il modello
potesse, in linea di principio, corrispondere a una parte della
realtà ma, per un errore o un eccesso di semplificazione, in realtà
non corrisponde. Accade invece necessariamente, perché il
modello non può corrispondere ad alcuna porzione della realtà,
in quanto ciò è vietato da leggi fisiche note. Offriamo un
esempio. In molti testi di meccanica classica, dopo aver
enunciato le tre leggi del moto, si introduce un modello (quello
della gravità come di una forza centrale diretta verso il Sole) che
permette di derivare le leggi di Keplero. Questo modello
contraddice la terza legge del moto, il principio di azione e
reazione. Quindi, necessariamente non può corrispondere ad
alcuna parte della realtà (perlomeno nella fisica classico-
newtoniana).
2) Il secondo pregiudizio afferma che ogni introduzione di un
modello è sempre esplicitamente dichiarata. Questo non
corrisponde al vero. Gli scienziati si comportano a questo
riguardo nel modo più disparato immaginabile. Il lettore è in
grado di individuare un testo universitario di (diciamo)
meccanica classica in cui siano esplicitamente indicati i cambi di
modello? Nella pubblicazione dei risultati delle ricerche, dove lo
spazio è limitato e conteso, non si ha la possibilità di sprecare
qualche riga per avvertire il lettore del cambio di modello.
3) Il terzo pregiudizio è, se possibile, ancora più falso dei primi
due. Vedremo alcuni esempi, qualcuno anche tratto da libri di
testo scolastici, di modelli contraddittori usati simultaneamente.
Il caso della teoria di Bohr dell’atomo di idrogeno è noto a tutti,
ma non è l’unico. Vedremo in questo libro quanti modelli
contradditori sono impiegati nella meccanica celeste.
4) È quantomeno dubbio che si possa asserire che ogni
cambiamento di modello sia segnalato. Spesso l’introduzione in
un modello di una variante (di modo che il modello stesso è, di
fatto, cambiato) è effettuata in maniera subdola e, anche se
apparentemente esplicita, è – in realtà – nascosta, surrettizia. Fu
proprio in questo modo che Ludwig Boltzmann riuscì a
dimostrare l’irreversibilità dell’aumento dell’entropia. Egli partì
dalle premesse della meccanica statistica classica. Tale teoria
ammette solo leggi reversibili rispetto al tempo e, dunque, non
può essere sufficiente per dimostrare una legge irreversibile. In
qualche punto della dimostrazione, Boltzmann ha introdotto
surrettiziamente qualche premessa addizionale. Lo ha fatto in
maniera così nascosta, che ancor oggi i fisici non sono d’accordo
nell’indicare i principi addizionali da lui usati. Il padre della
biofisica italiana, Mario Ageno, ha scritto un libro sulla
dimostrazione di Boltzmann24, in cui espone alcune idee
filosofiche che anticipano i principi del circoscrizionismo. Ad
Ageno si deve sia la distinzione tra “sistema reale”, “sistema
ideale” e “sistema schematizzato”, che costituisce la base della
teoria dei modelli scientifici proposta dal circoscrizionismo, sia
l’osservazione che i modelli delle teorie sono spesso
contradditori tra di loro e verso i principi della teoria stessa. Ci
pare a questo punto opportuna una precisazione. Gli autori di
questo libro hanno il massimo rispetto per la scienza e gli
scienziati, e ritengono la ricerca scientifica un’altissima
espressione del sapere umano. Non abbiamo alcuna volontà di
24
Ageno 1992b.
sminuire il valore della scienza. Quando osserviamo che le teorie
scientifiche e i loro modelli sono contraddittori, non muoviamo
un’accusa alla scienza, come se potesse esistere una qualche
forma migliore di conoscenza. Ci limitiamo a constatare un fatto.
La critica è rivolta (con grandissimo rispetto) a quei filosofi che
non si sono accorti di questo fatto e che, quindi, hanno elevato il
falsificazionismo e il verificazionismo a schemi privilegiati per
la comprensione dell’attività scientifica. L’attività scientifica è
più complessa di quello che i filosofi hanno immaginato. Lo
scienziato corre sempre il rischio di incappare in contraddizioni,
usando modelli tra loro non compatibili. È questa l’origine della
“scarsa rispondenza tra la concreta realtà dei fatti empirici e le
rappresentazioni matematiche, faticosamente e un po’
goffamente schematizzate, che riusciamo a darne” 25
Osserviamo che ci sono (almeno) tre sensi distinti in cui parliamo
di modello:
2) Visione personale.
3) Teoria matematica/insieme matematico assunto come modello.
4) Distribuzione di probabilità (nelle scienze sociali e statistiche).
Faremo riferimento, nel corso di questo libro, soprattutto ai primi
due sensi. Per il terzo, rimandiamo alla bibliografia in nota 26.
25
Ageno 1987 p. 66.
26
Russo F. 2015 e la ricca bibliografia ivi citata.
Capitolo 2. Cos’è una teoria scientifica?
2.1 Il circoscrizionismo
Il circoscrizionismo è una teoria filosofica sulle teorie scientifiche.
I suoi principi base sono:
1) le teorie scientifiche hanno un campo di validità limitato;
5) l’obiettivo della verifica delle teorie scientifiche è di individuare
i limiti del campo di validità.
Questi due principi sono necessari per studiare temi quali:
1) la natura delle teorie scientifiche;
2) la questione della loro verità o falsità;
3) il ruolo della verifica delle teorie scientifiche;
4) la portata ontologica delle teorie scientifiche;
5) il dibattito tra realismo, strumentalismo ed empirismo;
6) la spiegazione scientifica.
In questo libro, sviluppando i principi del circoscrizionismo,
arriveremo alle seguenti conclusioni.
1) Si può descrivere una qualsiasi teoria scientifica come un
insieme di interpretazioni che sono contraddittorie tra di loro e
rispetto ai principi fondamentali della teoria stessa. A causa di
tale contraddittorietà, una teoria scientifica non può essere
rappresentata mediante un insieme di enunciati chiuso rispetto
alle regole di deduzione.
2) A rigore, tutte le teorie scientifiche sono false, perché ogni teoria
scientifica ha qualche controesempio. Per questo, la bontà di una
teoria scientifica (ossia, il suo successo o insuccesso in ambito
scientifico) non dipende dall’essere vera o falsa. Dunque, è
preferibile abbandonare i discorsi sulla verità o falsità delle
teorie scientifiche, per cercare un diverso criterio con cui
valutarle. Poiché la verità o falsità di una teoria scientifica è
irrilevante, il verificazionismo e il falsificazionismo sono
destinati a fallire.
3) L’obiettivo della verifica di una teoria scientifica non è di
controllarne la verità, di stimarne la probabilità o di falsificarla
per poi sostituirla con una teoria migliore. L’obiettivo è di
determinare, nella maniera più precisa possibile, l’effettiva
estensione del campo di validità.
4) Accettiamo la distinzione tra l’ontologia primitiva (ciò di cui la
teoria vorrebbe parlare) e la struttura nomologica (le
idealizzazioni introdotte per semplificare lo sviluppo della
teoria). Ad esempio, la meccanica celeste si occupa del moto dei
pianeti e dei satelliti, che fanno parte della sua ontologia
primitiva. Il campo gravitazionale, invece, è un’idealizzazione
introdotta per sviluppare la parte matematica della teoria in modo
più semplice. La meccanica celeste presuppone che i pianeti e i
satelliti esistano realmente, ma non assume alcun impegno
ontologico sulla reale esistenza del campo gravitazionale. In una
prima, grossolana approssimazione, possiamo dire che una teoria
scientifica asserisce l’esistenza degli oggetti della propria
ontologia primitiva, ma è agnostica sull’esistenza degli oggetti
della struttura nomologica.
5) Il circoscrizionismo sostiene una forma di realismo scientifico
che abbiamo chiamato realismo plurale. Siamo convinti che la
ricerca scientifica sia il migliore strumento che l’umanità abbia
per capire cosa esiste nel mondo. Tuttavia, crediamo anche che
gli oggetti della ricerca scientifica non siano indipendenti dalla
mente umana, nel senso che essi (e le loro proprietà) dipendono
anche (ma non esclusivamente) dall’obiettivo della ricerca e
dagli strumenti usati per studiarli (per strumenti intendiamo sia
gli oggetti materiali utilizzati per l’osservazione, come telescopi
e microscopi, sia i modelli ideati per descriverli). A proposito
della necessaria dipendenza delle proprietà degli oggetti studiati
dagli strumenti di osservazione, ci sia permesso di citare un
ampio passo di un nostro lavoro. “La classificazione delle
galassie dipende dagli strumenti usati per osservarle. La
spiegazione di questo fatto è relativamente semplice. La
radiazione elettromagnetica emessa da una stella è assimilabile,
in prima approssimazione, alla radiazione emessa da un corpo
nero. L’intensità della radiazione emessa da un corpo nero varia
in funzione della lunghezza d’onda. Quindi, anche l’intensità
della radiazione elettromagnetica emessa dalla stella varia in
funzione della lunghezza d’onda. La luce proveniente da una
galassia è la sovrapposizione della luce emessa dalle stelle.
Quindi, l’aspetto della galassia varia in funzione della lunghezza
d’onda della luce osservata. Ne consegue che la classificazione
di una galassia dipende dalla lunghezza d’onda della luce alla
quale è sensibile lo strumento di osservazione. Non c’è alcuna
ragione fisica per scegliere una determinata lunghezza d’onda
come quella privilegiata, alla quale riferire la classificazione. Al
contrario, la fisica dimostra che non esiste alcuna lunghezza
d’onda privilegiata. Per la fisica teorica, ogni lunghezza d’onda è
buona come ogni altra. Le uniche limitazioni sono di tipo
pratico. L’atmosfera terrestre è trasparente a poche lunghezze
d’onda, quali la luce visibile, l’infrarosso, l’ultravioletto vicino e
alcune onde radio. Per osservare le galassie ad altre lunghezze
d’onda si devono usare rilevatori su satelliti artificiali. Di
conseguenza, la maggiore parte delle osservazioni si riferisce a
quelle lunghezze d’onda che attraversano l’atmosfera. Non esiste
dunque alcuna classificazione delle galassie che sia oggettiva
(ossia, indipendente dagli strumenti di osservazione). Desidero
evidenziare che la dipendenza della classificazione dagli
strumenti di osservazione è causata da ragioni fisiche
fondamentali, insite nei meccanismi stessi dell’emissione della
luce.”27
6) Quanto detto al punto precedente assume un’importanza
fondamentale sul dibattito tra realismo, strumentalismo ed
empirismo. Tendenzialmente siamo più vicini alla prima di
queste tre posizioni, nel senso che crediamo che le teorie
scientifiche forniscano una conoscenza sul mondo. Le teorie
scientifiche, secondo noi, non sono soltanto strumenti per
risolvere determinati problemi teorici o pratici. Le teorie
27
Murzi 2011b p. 17.
scientifiche ci danno una comprensione del mondo che va oltre
la semplice concordanza con le osservazioni empiriche. I termini
teorici di una teoria scientifica possono aspirare a una portata
ontologica: secondo noi, gli elettroni (per fare un esempio)
esistono realmente e non sono mere creazioni della mente
umana. Tuttavia, le proprietà che possiamo ascrivere agli
elettroni non sono del tutto indipendenti dalle domande che ci
poniamo e dagli strumenti (teorici o materiali) che possiamo
utilizzare per descriverli. Vorremmo abbracciare tutte le tre
posizioni del realismo, dello strumentalismo e dell’empirismo.
Le teorie scientifiche ci fanno conoscere il mondo intorno a noi;
contengono elementi ideali, ai quali lo scienziato non attribuisce
una realtà indipendente, che servono a semplificare i calcoli o a
costruire modelli più idonei a descrivere il sistema oggetto di
studio; entro certi limiti, che preciseremo in seguito, devono
essere in accordo (in modo talvolta molto labile) con
l’esperienza.
7) Il circoscrizionismo pone un nuovo problema a ogni tentativo di
interpretazione della spiegazione scientifica: una teoria
scientifica, che è falsa e che è costituita da interpretazioni che
non solo sono tra loro contraddittorie ma che contraddicono
persino i principi della teoria stessa, come può spiegare
qualcosa? La spiegazione scientifica è un processo nel quale
alcuni fatti, che sono ritenuti reali, sono spiegati mediante una
teoria contraddittoria, limitata e della quale sovente già si sa che
è falsa. Com’è possibile? Tenteremo di dare una risposta a questa
domanda in un futuro lavoro. Si osservi, tuttavia, che il problema
assume un aspetto particolare se si tiene conto che i fatti da
spiegare non sono poi così reali come si tende a credere. Spesso
si spiegano fatti falsi mediante teorie false. Questa osservazione
non è una critica alla spiegazione scientifica ma è la
constatazione che il processo di spiegazione scientifica è più
complesso di quello che si ritiene solitamente. Soprattutto,
questo fatto conferma che la bontà di una teoria e delle
spiegazioni che può offrire non è dipendente dalla propria verità
o falsità.
Il circoscrizionismo è una teoria filosofica sulle teorie scientifiche.
Sorge dunque, in modo spontaneo, la domanda “Cos’è una teoria
scientifica?” Per rispondere a questa domanda, ci avvaliamo di alcuni
esempi tratti dalla fisica.
Figura 1
Il problema originario: Sole, Terra e Giove si muovono sotto l’effetto delle
reciproche influenze gravitazionali (disegno non in scala).
Figura 2
Il problema semplificato: Sole, Terra e Giove si muovono sotto l’effetto della
sola influenza gravitazionale del Sole (disegno non in scala).
Figura 3
Una nuova semplificazione del problema già semplificato: Sole, Terra e Giove
si muovono sotto l’effetto della sola influenza gravitazionale del Sole e sono
rappresentati da “punti materiali” (disegno non in scala; i punti materiali sono
graficamente rappresentati come piccoli cerchi per renderli visibili).
30
È possibile superare questa difficoltà calcolando il centro di massa di
ciascun corpo celeste interessato e utilizzando questo punto, in luogo del
centro geometrico, per rappresentare il corpo celeste come un punto
materiale. Nel sistema solare, il baricentro dei pianeti quasi coincide con il
centro geometrico; quindi, il modello della figura 3 è ragionevolmente
corretto. Il punto che desideriamo sottolineare è che questo modello è
ragionevole entro certi limiti; trovare questi limiti è uno degli obiettivi della
ricerca scientifica.
Cos’è una teoria scientifica? Risposta n. 3
31
Quale logica? Classica, intuizionista, quantistica, polivalente, modale (e,
in questo caso, quale sistema modale?) o fuzzy? O forse parliamo di logica
induttiva? O paraconsistente? Quest’ultima potrebbe essere utile, visto che
le teorie scientifiche includono modelli contraddittori. Per il momento,
accontentiamoci di rispondere che ci riferiamo alle regole della logica
classica (per semplificare, la logica che riconosce due soli valori di verità,
Vero e Falso, e accetta sia il principio del terzo escluso sia le dimostrazioni
di esistenza non costruttive).
32
Newton 1713 p. 34.
rettilineo uniforme, descrive intorno a quel punto aree proporzionali
ai tempi, è spinto da una forza centripeta tendente al medesimo
punto33.
Newton enuncia un corollario, il sesto, secondo il quale il teorema I
è vero anche “qualora i piani sui quali i corpi sono mossi, insieme ai
centri delle forze che sono siti sugli stessi [piani], non sono in quiete,
ma si muovono uniformemente in linea retta” 34. Con questa
generalizzazione, il primo teorema afferma che se un corpo si muove
per l’effetto di una forza centripeta diretta verso un punto immobile o
in moto rettilineo, allora percorre un’orbita che soddisfa le prime due
leggi di Keplero. Il secondo teorema afferma che se un corpo si
muove intorno a un punto immobile o in moto rettilineo uniforme
percorrendo un’orbita che soddisfa le prime due leggi di Keplero,
allora è mosso da una forza centripeta diretta al medesimo punto.
Unendo i due teoremi, si ottiene che un corpo percorre un’orbita in
accordo alle prime due leggi di Keplero se e solo se si muove sotto
l’influsso di una forza centripeta diretta verso un punto immobile o
in moto rettilineo uniforme.
Newton ha pertanto individuato la condizione necessaria e
sufficiente per la validità delle prime due leggi di Keplero. Per
ottenere questo risultato, Newton ha utilizzato l’ipotesi che la forza
agente sui pianeti è di tipo centripeto, diretta verso il Sole. Non è
stato necessario supporre alcuna legge circa la variazione della forza
rispetto alla distanza. In particolare, Newton non ha dovuto supporre
che la forza sia inversamente proporzionale al quadrato della
distanza. Ha invece dovuto supporre che i pianeti non solo non
esercitano alcuna forza tra di loro, ma anche che non influenzano il
moto del Sole. Il Sole è supposto immobile o in moto rettilineo
uniforme, quindi non soggetto ad alcuna forza esterna. Questa nuova
ipotesi conduce al sistema schematizzato rappresentato nella figura
4.
33
Newton 1713 p. 36.
34
Newton 1713 p. 36.
Figura 4
Ancora una semplificazione: la forza gravitazionale esercitata dal Sole è
rappresentata tramite una forza diretta verso il centro del Sole, senza che il
Sole subisca alcuna reazione da parte dei pianeti (disegno non in scala; i punti
materiali sono graficamente rappresentati come piccoli cerchi per renderli
visibili).
2.4 Spettroscopia
La spettroscopia di emissione è un metodo per determinare la
composizione chimica di un composto. Si riscalda il composto, allo
stato di gas o vapore, mediante una fiamma o una corrente elettrica,
provocando l’emissione di luce. Si scompone quindi la luce
facendola passare attraverso un reticolo o un prisma. Si ottiene così
un’immagine composta di righe luminose su fondo scuro.
L’osservazione può essere estesa oltre la luce visibile, usando
rilevatori per l’ultravioletto o l’infrarosso. La posizione delle righe,
dette “righe spettrali”, è tipica di ciascun elemento. Ciò consente di
determinare la composizione chimica di gas e vapori. La figura 5
illustra lo spettro di tre elementi.
Figura 5
Lo spettro di tre elementi chimici: carbonio (in alto), elio (al centro) e
idrogeno (in basso). L’immagine dello spettro è semplificata e mostra solo
alcune linee osservabili. Il fondo scuro è stato eliminato per rendere
l’immagine chiaramente visibile. Nella scala di riferimento, sotto lo spettro
dell’idrogeno, è riportata la lunghezza d’onda della luce in nanometri.
35
Balmer 1885.
che le quattro frazioni appartenessero a due serie distinte,
m2
proponendo la seguente formula: ove m e n sono numeri
m 2−n2
interi. Posto n=2 e variando m>2 ottenne la serie i cui termini iniziali
sono 9/5, 16/12, 25/21, 36/32, 49/45, 64/60, 81/77, 100/96. I primi
quattro termini sono i coefficienti già determinati dallo stesso
Balmer. Tramite il fisico svizzero Eduard Hagenbach-Bischoff,
Balmer seppe che in alcune stelle erano state osservate le linee
spettrali dell’idrogeno nel vicino ultravioletto. Le corrispondenti
lunghezze d’onda erano uguali a quelle previste dalla sua formula.
Era dunque possibile calcolare la lunghezza d’onda λ delle linee
spettrali dell’idrogeno mediante la formula:
m2
λ=h , h=364,56 nm (2.1)
m2 −n2
Il fisico svedese Johannes Rydberg modificò la formula di
1 1 1
Balmer36, proponendo la relazione =R( 2 − 2 ), ove λ è la
λ n m
lunghezza d’onda, R è la costante 1,097 ∙ 107 m-1, n e m sono numeri
interi.
Le formule di Balmer e di Rydberg prevedevano la lunghezza
d’onda delle righe spettrali dell’idrogeno e, tramite opportune
modifiche, anche di altri elementi. Tuttavia, nessuno era in grado di
fornire una spiegazione teorica del loro successo.
41
Bohr 1913 p. 2.
42
Bohr 1913 p. 4.
Nella formula (2.3) compare una frequenza cui non siamo in grado,
per il momento, di attribuire alcun significato fisico. Per risolvere
questo problema, Bohr propone due ipotesi. La prima, è che il moto
dell’elettrone sia circolare; la seconda, è una particolare relazione tra
la frequenza ν che compare nella (2.3) e la frequenza ω con la quale
l’elettrone orbita intorno al nucleo.
Si consideri un elettrone posto a distanza infinita dal nucleo.
Possiamo asserire che la frequenza ω è pari a 0, poiché l’elettrone
non ruota intorno al nucleo. Immaginiamo che l’elettrone si avvicini
al nucleo a causa della reciproca attrazione. Secondo
l’elettrodinamica classica, l’elettrone emetterà una radiazione
elettromagnetica di frequenza variabile. A un certo punto, l’elettrone
inizierà a ruotare intorno al nucleo su un’orbita circolare stabile, il
cui centro coincide con il nucleo stesso, caratterizzata da una
frequenza di rivoluzione ω. Bohr ipotizza, contro l’elettrodinamica
classica, che la radiazione emessa dall’elettrone nell’avvicinarsi al
nucleo abbia una frequenza fissa ν (è dunque monocromatica) e che
il legame tra ν e ω sia estremamente semplice: la frequenza ν della
radiazione emessa è uguale alla metà della frequenza ω di
1
rivoluzione. Ossia: ν= ω. Sostituendo questa espressione nella
2
(2.3) si ricava:
1
E= τhω (2.4)
2
Sostituendo la (2.4) nella (2.2), si ottiene la seguente equazione,
risolubile con i metodi della meccanica classica:
ℏ2 2
r τ =4 π ε 0 τ (2.5)
m e2
h
Nella (2.5) si è posto, secondo l’uso contemporaneo, ℏ= ;mè
2π
la massa dell’elettrone; r τ è il raggio dell’orbita dell’elettrone, che
dipende dal numero intero τ. Per controllare se queste ipotesi abbiano
una qualche possibilità di essere veritiere, Bohr sostituisce nella (2.5)
i valori numerici della costante di Planck, della massa e della carica
dell’elettrone; pone inoltre τ =1. Ottiene quindi una stima del raggio
dell’atomo il cui ordine di grandezza (10 -10 m) è compatibile con i
dati osservativi disponibili. Calcola inoltre il potenziale di
ionizzazione dell’idrogeno, uguale al rapporto tra l’energia e la
carica dell’elettrone, ottenendo il valore di 13 volt, compatibile con il
dato osservativo di 13,6 volt. Il modello, quindi, fornisce i corretti
ordini di grandezza del raggio atomico e del potenziale di
ionizzazione dell’idrogeno.
Bohr cerca poi di formalizzare il proprio modello dell’atomo.
Secondo Bohr, il modello atomico da lui proposto richiede due
ipotesi principali43.
1) L’equilibrio dinamico dei sistemi negli stati stazionari può essere
trattato con l’ausilio della meccanica ordinaria, mentre il
passaggio dei sistemi tra stati stazionari diversi non può essere
trattato su questa base.
2) Il passaggio dei sistemi tra stati stazionari diversi è
accompagnato dall’emissione di una radiazione omogenea, per la
quale la relazione tra la frequenza e la quantità di energia è
quella data dalla teoria di Planck.
In sintesi, il moto circolare dell’elettrone intorno al nucleo può
essere descritto dalle leggi della meccanica e dell’elettrodinamica,
salvo aggiungere l’ipotesi (inspiegabile, e per questo motivo assunta
come un postulato) che l’elettrone non emette radiazione
elettromagnetica. Quando l’elettrone cambia orbita, avvicinandosi al
nucleo, emette una radiazione elettromagnetica monocromatica ν
(dovrebbe essere variabile, secondo l’elettrodinamica classica) legata
all’energia E emessa tramite la relazione (2.3) di Planck. Bohr si
riserva di mostrare come rimuovere l’ipotesi che la frequenza ν della
radiazione emessa sia uguale alla metà della frequenza ω di
rivoluzione.
Posta la teoria in questa forma, Bohr tenta di spiegare teoricamente
le leggi empiriche note relative allo spettro dell’atomo di idrogeno.
La meccanica e l’elettrodinamica classiche forniscono
43
Bohr 1913 p. 7.
un’espressione molto semplice per l’energia E dell’elettrone su
un’orbita di raggio r.
−1 e 2 1
E= (2.6)
2 4 π ϵ0 r
Si consideri la transizione di un elettrone da un’orbita di raggio r1 a
una di raggio r2, con r1 > r2. Sia E21 la differenza di energia
dell’elettrone. Risulta
1 e2 1 1
E21= ( −
2 4 π ϵ0 r1 r 2 ) (2.7)
45
Bohr 1913 p. 15.
La sostituzione del principio di corrispondenza con il principio
della quantizzazione del momento angolare è evidente nel seguito
dell’articolo.
Per un sistema consistente di un nucleo e di un elettrone che gli ruota
intorno [l’atomo di idrogeno], lo stato [fondamentale] … è
determinato dalla condizione che il momento angolare dell’elettrone
h 46
intorno al nucleo sia eguale a .
2π
La condizioni di quantizzazione del momento angolare, introdotta
poche pagine prima come “una semplicissima interpretazione del
risultato”, è divenuta una condizione dalla quale derivare lo stato
stabile dell’atomo di idrogeno.
Trattando di atomi con più elettroni, Bohr asserisce che
la stabilità di un anello di elettroni che ruotano intorno al nucleo è
assicurata dalla sopra citata condizione della costanza universale del
momento angolare.47
La prima parte dell’articolo del 1913 termina enunciando la
seguente condizione.
In ogni sistema molecolare consistente di nuclei positivi e di
elettroni in cui i nuclei sono fermi gli uni relativamente agli altri e
gli elettroni si muovono in orbite circolari, il momento angolare di
ogni elettrone rispetto al centro della propria orbita sarà, nello
h 48
stato fondamentale del sistema, uguale a .
2π
Ancora più esplicito è l’inizio della seconda parte:
Al fine di determinare la frequenza e le dimensioni degli anelli [di
elettroni] … faremo uso della principale ipotesi della prima parte
[dell’articolo], ossia che nello stato fondamentale di un atomo il
46
Bohr 1913 p. 20.
47
Bohr 1913 p. 23.
48
Bohr 1913 p. 25 enfasi nell’originale.
momento angolare di ogni elettrone … è uguale al valore universale
h 49
.
2π
Quella regola che era stata presentata come “una semplicissima
interpretazione del risultato” è adesso trasformata nella “principale
ipotesi”.
In conclusione della terza e ultima parte del proprio lavoro, Bohr
riepiloga le cinque assunzioni fondamentali che ha usato. I primi tre
principi sono sostanzialmente equivalenti ai due principi enunciati in
apertura della prima parte. Sono diventati tre perché Bohr enuncia il
principio di Planck (E=hν) come un principio a sé stante. I due nuovi
principi riguardano il momento angolare: gli stati stazionari sono
determinati dalla condizione che il momento angolare dell’elettrone
h
sia un multiplo intero di ; lo stato fondamentale è determinato
2π
dalla condizione che il momento angolare degli elettroni sia uguale a
h
. In definitiva, Bohr assume che gli elettroni abbiano momento
2π
angolare nℏ, ove n è un numero intero maggiore di 0, che prende il
nome di numero quantico. Il valore n=1 individua lo stato
fondamentale. Nel riepilogo finale della teoria, il principio di
corrispondenza scompare. I cinque principi enunciati da Bohr sono i
seguenti.
(P1) L’orbita dell’elettrone è caratterizzata da alcuni stati stazionari,
descrivibili mediante la meccanica e l’elettrodinamica classica. Il
passaggio da uno stato stazionario all’altro non è descrivibile dalle
teorie ordinarie, ma richiede alcuni nuovi principi.
(P2) Il passaggio dell’elettrone da uno stato stazionario all’altro è
accompagnato dall’emissione di radiazione elettromagnetica
monocromatica.
49
Bohr 1913 p. 477.
(P3) La relazione tra la frequenza ν della radiazione emessa nel
passaggio da uno stato stazionario all’altro e la quantità di energia
E persa dall’elettrone è data dalla legge di Planck E=hν.
(P4) Gli stati stazionari sono determinati dalla condizione che il
h
momento angolare dell’elettrone sia uguale a n ove n è un
2π
numero intero.
(P5) Lo stato fondamentale è determinato dalla condizione che il
h
momento angolare dell’elettrone sia uguale a , ossia è
2π
determinato da (P4) con n=1.
50
Bohr 1913 p. 4.
51
Bohr 1913 p. 24 enfasi aggiunta.
52
Bohr 1913 p. 482.
La condizione relativa alla natura circolare dell’orbita degli
elettroni va dunque considerata come una condizione limite. Quanto
più l’orbita degli elettroni si avvicina all’orbita circolare, tanto più la
teoria è applicabile. Dunque, possiamo riformulare la (C 3) nel modo
seguente:
(C4) Gli elettroni tendono a percorrere un’orbita circolare.
Questa condizione si declina in modo diverso a seconda della
particolare situazione fisica studiata. Per esempio, nel caso di un
sistema contenente diversi anelli di elettroni che ruotano con
frequenze diverse, Bohr richiede che “la distanza tra gli anelli non sia
piccola in confronto al loro raggio e […] il rapporto tra le loro
frequenze non sia prossimo all’unità”53.
Le condizioni (C1), (C2) e (C4) sono dunque le condizioni
necessarie affinché la teoria di Bohr possa fornire previsioni
ragionevoli. Qualunque sistema nel quale si desideri applicare la
teoria di Bohr deve soddisfare (C1), (C2) e (C4).
Il lettore potrebbe porre la seguente questione: Perché considerare
(C1), (C2) e (C4) come le condizioni necessarie per la validità della
teoria di Bohr e non considerarle, invece, come facenti parte della
teoria stessa? Cosa distingue (C1), (C2) e (C4) dai principi
fondamentali (P1)-(P5)? La risposta è che (C 1), (C2) e (C4) sono
condizioni esterne alla teoria, mentre (P1)-(P5) sono interne. Cosa
vogliamo dire? Consideriamo dapprima (C 4) o, per semplicità, (C3).
Che l’orbita degli elettroni sia circolare non è una proposizione della
teoria di Bohr. L’orbita dell’elettrone, secondo la teoria di Bohr, può
essere ellittica. Di fatto, questa possibilità è contemplata da Bohr.
All’inizio della presentazione della propria teoria, Bohr asserisce che
“gli elettroni descriveranno orbite ellittiche stazionarie” 54. Tuttavia,
le orbite ellittiche scompaiono nella seconda e terza parte
dell’articolo. Ciò avviene non perché Bohr sia convinto che l’orbita
degli elettroni è circolare, ma per esigenze di semplificazione del
calcolo. La teoria di Bohr prevede che le orbite degli elettroni sono
ellittiche. Tuttavia, al fine di applicare la teoria ai sistemi fisici
53
Bohr 1913 p. 482.
54
Bohr 1913 p. 3.
studiati, Bohr assume che le orbite sono circolari. I risultati ottenuti
saranno validi quanto più l’orbita reale approssima un’orbita
circolare. Dobbiamo distinguere tra la teoria idealizzata di Bohr,
secondo la quale l’orbita degli elettroni è ellittica, e la teoria
schematizzata di Bohr, che consente la semplificazione dei calcoli
matematici tramite l’ipotesi aggiuntiva che l’orbita degli elettroni è
circolare. L’asserzione della circolarità dell’orbita degli elettroni,
dunque, non appartiene alla teoria di Bohr. Essa è una condizione
addizionale che serve a semplificare i problemi matematici. Tuttavia,
i risultati dedotti dalla teoria di Bohr sono validi soltanto se la
semplificazione operata è rispettata (salvo casi, sempre possibili, di
straordinaria fortuna, nei quali il risultato ottenuto in determinate
condizioni ristrette vale anche per condizioni più generali). I risultati
conseguiti dalla teoria di Bohr valgono soltanto nei sistemi fisici (è
meglio dire, nei modelli) nei quali l’orbita degli elettroni tende ad
essere circolare. Nei casi in cui l’orbita è fortemente ellittica, la
teoria non può valere. Fu proprio il superamento della
semplificazione concernente la natura circolare dell’orbita degli
elettroni che permise di dar conto di alcune particolarità dello spettro
dell’atomo di idrogeno inspiegabili dalla teoria di Bohr nella sua
versione del 1913. Dunque, la condizione (C3) non fa parte della
teoria di Bohr, ma delle restrizioni applicate alla teoria per esigenze
di semplificazione. La condizione (C3) è una condizione necessaria
per la validità della teoria di Bohr applicata allo studio di sistemi
fisici reali. Per questo diciamo che (C 3) ha una natura diversa dai
principi (P1)-(P5). Questi ultimi definiscono la teoria di Bohr, mentre
(C3) definisce le condizioni necessarie affinché le previsioni della
teoria siano vere.
Analoghe considerazioni valgono per (C 1) e (C2). Iniziamo con
(C1), che afferma che l’elettrone si muove sotto l’influsso di un
campo di forza centrale. Che la teoria, nella sua versione iniziale, sia
valida soltanto nel caso in cui l’elettrone si muova in un campo di
forze centrale, diretto verso il nucleo, è dimostrato sia dall’ipotesi
che “la massa dell’elettrone è piccola, in modo trascurabile, in
confronto con quella del nucleo”, sia dalle formule usate da Bohr per
descrivere la frequenza e l’energia dell’elettrone, che sono valide nel
caso di una forza centrale 55. Inoltre, il moto dell’elettrone in
un’orbita circolare intorno al nucleo con velocità costante in valore
assoluto è possibile solo se l’elettrone è soggetto a una forza centrale.
Questa limitazione della teoria di Bohr è esplicitamente ammessa nel
calcolo di una tabella che fornisce, approssimativamente, il numero
massimo di elettroni che possono risiedere in un determinato anello,
in funzione del numero di protoni contenuti nel nucleo.
Sopra [nel calcolo della tabella] noi abbiamo supposto che gli
elettroni si muovano sotto l’influenza di una forza radiale stazionaria
e che le loro orbite siano circolari.56
Tenuto conto di queste asserzioni di Bohr, in che senso possiamo
dire che la condizione (C1) è una condizione esterna alla teoria? Per
quale motivo (C1) non è un assioma della teoria di Bohr, ma è una
delle condizioni che qualsiasi modello deve soddisfare affinché la
teoria di Bohr sia applicabile? La risposta è semplice: la teoria di
Bohr, pur essendo valida soltanto nel caso che la condizione (C 1) sia
soddisfatta, non postula la validità di (C 1). La teoria di Bohr non
suppone che l’elettrone sia sotto l’influsso di una forza centrale.
Questa assunzione è aggiunta al fine di semplificare alcuni problemi
di calcolo. La teoria di Bohr è pronta a rinunciare alla validità di (C 1)
per migliorare la corrispondenza con i dati osservativi. L’abbandono
della condizione (C1) avverrà in seguito, consentendo alla teoria di
spiegare alcune particolarità dello spettro dell’idrogeno.
Possiamo esprime questo concetto in un altro modo. Mentre
l’affermazione che l’emissione di radiazione elettromagnetica
avviene solo nel passaggio tra due stati stazionari è un assioma
fondamentale della teoria di Bohr, l’affermazione che l’elettrone è
soggetto a una forza centrale è un mezzo per semplificare i calcoli.
Quindi, (C1) rappresenta una condizione di applicabilità della teoria,
ma non è un assioma della teoria stessa.
È possibile esprimere questo fatto ancora in un modo diverso. Ogni
modello della teoria di Bohr deve soddisfare la condizione che
l’emissione di radiazione elettromagnetica avviene solo nel
55
Bohr 1913 p. 3.
56
Bohr 1913 p. 482.
passaggio tra due stati stazionari secondo la legge hν=Em-En. Un
sistema che non soddisfa tali condizioni non può essere,
necessariamente, un modello della teoria di Bohr. Al contrario, un
sistema nel quale l’elettrone non è soggetto a una forza centrale
potrebbe essere un modello della teoria, anche se non lo è
contingentemente.
Per essere più chiari, consideriamo l’esempio seguente. Siano I1 e I2
due interpretazioni della teoria di Bohr. Supponiamo che le
previsioni della teoria di Bohr siano, magari per semplice fortuna,
corrette sia in I1 sia in I2. Supponiamo che nel sistema fisico descritto
dall’interpretazione I1 non valga la legge hν=Em-En mentre in I2 vale
la legge hν=Em-En, ma non valga (C1). Noi affermiamo che I1 non
può essere un modello della teoria di Bohr, mentre I2 può esserlo. Gli
assiomi della teoria non possono essere cambiati (o, meglio, se sono
cambiati si formula una teoria diversa), ma le condizioni restrittive
per la validità della teoria, che spesso derivano da tentativi di
semplificare i calcoli, possono essere modificate restando nella
medesima teoria. Per questo motivo (C 1) non è un assioma della
teoria, ma è una condizione che impone alcuni limiti all’applicabilità
della teoria.
Ci sia consentito di evitare un’analisi dettagliata di (C2). In estrema
sintesi, l’ipotesi che la velocità dell’elettrone sia piccola rispetto alla
velocità della luce non fa parte della teoria di Bohr, ma serve
anch’essa a semplificare i calcoli, trascurando le correzioni
relativistiche. Poiché il rapporto tra velocità dell’elettrone dell’atomo
di idrogeno e velocità della luce è di circa 1 a 137, in prima
approssimazione (C2) è soddisfatta. (C2) non è un assioma della
teoria, ma una restrizione circa la sua applicabilità. Tale restrizione
sarà in seguito rimossa, permettendo l’applicazione delle correzioni
relativistiche ai calcoli di Bohr. L’esito sarà quello di consentire di
spiegare la struttura fine delle righe dello spettro dell’idrogeno, ossia
il loro dividersi in più righe tra loro vicinissime.
Riepilogando, la teoria di Bohr contiene le proposizioni (P1)-(P5)
come assiomi fondamentali. Le proposizioni (C1), (C2) e (C4),
invece, sono le condizioni che devono essere soddisfatte per
l’applicabilità della teoria di Bohr.
Si osservi, infine, che la teoria di Bohr nasce già con precise
limitazioni di validità. Questi limiti erano noti al suo stesso ideatore
che, con grande precisione, li evidenzia tutti. La teoria, dunque,
nasce già circoscritta e non può aspirare a una validità generale.
{ N 1 , N 2 , N 3 } ⊧¬ K 2 (3.2)
{ N 1 , N 2 }⊧ C ↔ ( K 1 ⋀ K 2 ) (3.3)
Le relazioni (3.1) e (3.2) esprimono il fatto che la meccanica
celeste implica la falsità delle leggi di Keplero, mentre la (3.3)
mostra che la meccanica celeste è in grado di dimostrare che le leggi
di Keplero sono vere se e solo la forza è centripeta ed è diretta verso
un punto immobile o in moto rettilineo uniforme.
Consideriamo la teoria costituita dalle prime due leggi di Keplero.
La (3.3) rappresenta il fatto che la meccanica celeste è in grado di
individuare la condizione necessaria e sufficiente affinché le leggi di
Keplero siano vere. Esprimiamo ciò dicendo che la meccanica
celeste determina il campo di validità delle due leggi di Keplero.
Tale campo di validità è l’enunciato C, ossia la condizione che la
forza è centripeta ed è diretta verso un punto immobile o in moto
rettilineo uniforme. La (3.3) stabilisce una relazione tra tre termini:
1° termine: l’insieme di enunciati { N 1 , N 2 }
2° termine: l’enunciato ( K 1 ⋀ K 2 )
3° termine: l’enunciato C
Tale relazione può essere così espressa: il campo di validità
dell’enunciato ( K 1 ⋀ K 2 ) rispetto all’insieme di enunciati { N 1 , N 2 } è
l’enunciato C.
Assumiamo, per rendere più semplice l’esposizione, che la risposta
n. 1 al quesito “Cos’è una teoria scientifica?” sia corretta
(naturalmente, sappiamo che tale risposta è errata). Aggiungiamo
un’ipotesi che semplifica ancor di più la descrizione delle teorie
scientifiche, ossia supponiamo che gli assiomi di una teoria
scientifica siano in numero finito, in modo tale che la loro
congiunzione sia un enunciato sintatticamente corretto. Una teoria
scientifica potrà dunque essere rappresentata mediante un unico
enunciato T, costituito della congiunzione di tutti gli assiomi della
teoria stessa. L’enunciato T può essere considerato come l’unico
assioma della teoria. Questo modo di descrivere le teorie scientifiche
è quello introdotto dal neopositivismo logico e va sotto il nome di
modello sintattico delle teorie scientifiche.
Siano date due teorie, identificabili con gli enunciati T1 e T2
corrispondenti alla congiunzione dei loro assiomi. Sia C un
enunciato. Supponiamo che valga la relazione seguente.
{ T 1 } ⊧ ( C ↔ T 2) (3.4)
La (3.4) afferma che il campo di validità della teoria T2, rispetto
alla teoria T1, è l’enunciato C. Quindi, in prima grossolana
approssimazione, il campo di validità di una teoria T2, rispetto a
un’altra teoria T1, è quell’enunciato che rappresenta la condizione
necessaria e sufficiente, rispetto a T1, affinché T2 sia vera.
Naturalmente, questa definizione è errata, perché una teoria non è
identificabile con un insieme di enunciati, ma è rappresenta da un
insieme di modelli, talvolta tra loro contraddittori, talvolta basati su
assiomi contraddittori e talvolta basati su ipotesi notoriamente false.
Quindi, dobbiamo cercare di individuare una definizione del campo
di validità di una teoria che tenga conto di tali fatti.
M 21 , M 10 ⊧ A (3.6)
Possiamo dire che la meccanica celeste, ossia la teoria T2, individua
il campo di validità delle prime due leggi di Keplero, ossia la teoria
T1, poiché esiste un modello di T2, ossia M 21 e un modello di T1, ossia
M 10, tra i quali sussistono le relazioni (3.5) e (3.6). L’insieme 𝓐 è il
campo di validità delle leggi di Keplero (teoria T1) rispetto alla
meccanica celeste (teoria T2). Tentiamo di generalizzare questo
esempio.
Figura 6
Precessione del perielio di Mercurio, uguale all’angolo α (l’effetto è
esagerato per una migliore visualizzazione).
[ 0 −1 0 0
0
0
0 −1 0
0 0 1
] (3.9)
66
Vankov 2014.
Einstein osserva che “l’equazione [(3.12)] si distingue dalla
corrispondente teoria Newtoniana solo per l’ultimo membro della
parte destra”, ossia per il termine kx3. Per integrare la (3.12), Einstein
usa un metodo ben noto: ipotizza che il termine kx3 sia così piccolo
da poterlo trattare come una perturbazione dell’orbita newtoniana.
Tuttavia, osserva ancora Vankov, l’errore introdotto da questa
ipotesi, pur essendo piccolo, ha l’ordine di grandezza dell’effetto da
calcolare e potrebbe quindi alterare significativamente il risultato
finale. Detto ε l’avanzamento del perielio in una rivoluzione, a il
semiasse maggiore dell’orbita di Mercurio ed e l’eccentricità
dell’orbita, Einstein deriva la seguente relazione:
r
ε =3 π 2
=43} /secol ¿ (3.13)
α ( 1−e )
In questo modo risulta spiegata la differenza tra la precessione del
perielio di Mercurio osservata e quella calcolata tramite la meccanica
classica. Al valore previsto dalla meccanica classica si deve
aggiungere una piccola correzione, dovuta a un effetto relativistico,
che spiega perfettamente la precessione del perielio di Mercurio.
Figura 7
Rappresentazione schematica di una particella in una buca di potenziale
infinito ma continuo. La particella ha energia meccanica E. La parabola
rappresenta l’energia potenziale. Quando la particella è nell’origine 0, tutta la
sua energia meccanica è sotto forma di energia cinetica. Nei punti a e b,
l’energia meccanica della particella si è interamente trasformata in energia
potenziale. Da un punto di vista classico, la particella si muove nell’intervallo
tra a e b, senza poterne uscire. Secondo la meccanica quantistica, la particella
può invece entrare nella regione proibita.
ξ=αx
√ ℏ2
(3.19)
(3.20)
2E
ε= (3.21)
ℏω
L’equazione (3.18) diviene:
2
d Ψ (ξ) 2
−ξ Ψ ( ξ )=0 (3.22)
d ξ2
La soluzione è:
Ψ ( ξ )=H (ξ ) e−ξ /2 (3.23)
dove H è:
∞
H ( ξ )= ∑ a n ξ n (3.24)
n=0
En = n+( 12 ) ℏ ω (3.27)
68
Ageno 1992b p. 66.
Capitolo 4. Cos’è un modello?
75
Carnap 1931 p. 441.
76
Carnap 1931 p. 447.
H. Hahn, O. Neurath, R. Carnap:
La concezione scientifica del mondo è caratterizzata non tanto da tesi
peculiari, quanto, piuttosto, dall’orientamento di fondo, dalla
prospettiva, dall’indirizzo di ricerca. Essa si prefigge come scopo
l’unificazione della scienza.77
M. Schlick:
Che l’unione di tutte le verità nel sistema di una scienza rigorosa
possa essere rappresentata mediante le forme inferenziali della
logica, lo insegna l’analisi di qualsiasi scienza78.
O. Neurath:
Il linguaggio fisicalistico, linguaggio unificato, è l’alfa e l’omega di
tutta la scienza. Non c’è linguaggio «fenomenistico» oltre il
linguaggio «fisico»; non c’è «solipsismo metodologico», più qualche
altra posizione possibile; non c’è «filosofia» né «teoria della
conoscenza»; non c’è una nuova «intuizione del mondo» accanto alle
altre. C’è soltanto la scienza unificata, con le sue leggi e le sue
previsioni79.
Il linguaggio unificato della scienza unificata, che in larghissima
misura è derivabile dal linguaggio della vita d’ogni giorno, è il
linguaggio della fisica…80
In questo i neopositivisti seguivano tutta una tradizione fisica che si
affermò, come abbiamo visto, fin dal nascere della scienza 81. Stiamo
parlando dell’idea di unità della scienza e della sua capacità di
rendere conto di tutti i fenomeni osservati o osservabili. Attualmente
77
Hahn, Neurath, Carnap 1929.
78
Schlick 1918, II, 14-15, p. 95.
79
Neurath 1931 p. 405.
80
Neurath 1931 p. 399.
81
Ad esempio, Cartesio era convinto che la sua “filosofia” poteva ricoprire
sostanzialmente tutti i fenomeni dell’universo. “Così, con una facile
enumerazione, si conclude che in questo scritto non ho tralasciato nessun
fenomeno della natura” (Principi della filosofia, CXCIX, UTET, Torino
1994 pag. 384). Così anche tanti altri filosofi e scienziati. Che chiamino
questa totalità, cui farebbe riferimento la scienza, col nome di natura,
mondo, universo, o uno-tutto, non ha in fondo molta importanza.
tale supposizione è (per lo più tacitamente) presente nel sentire
comune, anche delle persone colte. Tutti stiamo più o meno
inconsciamente attendendo l’arrivo di una teoria che ci spieghi tutto
quanto, che superi le limitazioni cui sono andate incontro le teorie
finora escogitate. Occasionalmente (abbastanza spesso, a dire il vero)
qualche scienziato o filosofo discute della eventualità che la scienza
raggiunga la sua fine: come interpretare queste affermazioni? È
invero abbastanza semplice. Lo scienziato o il filosofo in questione
vogliono dire: quando avremo trovato finalmente la teoria definitiva,
non avremo più nulla da fare.
Otto Neurath
Anche Popper ha condiviso, sostanzialmente, questa opinione. Si
può in effetti argomentare attorno alla possibilità di dedurre dal
falsificazionismo popperiano l’idea che la scienza ha come dominio
tutto il reale. Popper ha indicato il fatto di poter essere smentite come
caratterizzante le teorie scientifiche rispetto a quelle pseudo-
scientifiche. Questo è il criterio di demarcazione popperiano: una
teoria offre sempre sé stessa alla possibilità di essere smentita.
La mia proposta – dice Popper – si basa su un’asimmetria tra
verificabilità e falsificabilità, asimmetria che risulta dalla forma
logica delle asserzioni universali. Queste, infatti, non possono mai
essere derivate da asserzioni singolari, però possono venir
contraddette da asserzioni singolari. Di conseguenza è possibile, per
mezzo di inferenze puramente deduttive (con l’aiuto del modus
tollens della logica classica), concludere dalla verità di asserzioni
singolari alla falsità di asserzioni universali. Un tale ragionamento,
che conclude alla falsità di asserzioni universali, è il solo tipo di
inferenza strettamente deduttiva che proceda, per così dire, nella
«direzione induttiva», cioè da asserzioni singolari ad asserzioni
universali …82
Un asserto scientifico, dunque, non può mai essere compiutamente
verificato. Esso può ricevere solo conferme sperimentali (sempre
provvisorie) o smentite (queste definitive). Come esempio di teoria
scientifica, prendiamo l’asserto “tutti i corvi sono neri”. Questa
proposizione è logicamente equivalente a “non esistono corvi che
non siano neri”. Chiaramente, non esistono conferme definitive di
questo asserto. Ma basta un solo incontro con un corvo non-nero per
smentire la teoria, per mostrarcela chiaramente come falsa.
Analogamente, basta un solo esempio sperimentale contrario, purché
debitamente controllato, a screditare una teoria.
Possiamo chiamare negativismo logico la filosofia di Popper, in
opposizione al positivismo logico. Ricordiamo l’accostamento, fatto
da Popper, tra legge scientifica e leggi civili. Entrambe si chiamano
leggi, secondo Popper, perché vietano qualcosa. Certamente la
filosofia del falsificazionismo mantiene alcuni caratteri che già
furono propri del positivismo logico. Ad esempio, il ritenere
(condiviso da Popper tacitamente, per quello che ci risulta) oggetto
di ogni teoria scientifica tutto il reale. Questa opinione è stata
tacitamente condivisa anche da Popper. Ecco come Popper ha potuto
scrivere:
Credo che dovremo abituarci all’idea che non si deve guardare alla
scienza come a un «corpo di conoscenza», ma piuttosto come a un
sistema di ipotesi; cioè a dire, come a un sistema di tentativi di
82
Popper 1935, I, 6, p. 23.
indovinare, o di anticipazioni, che non possono essere giustificati in
linea di principio, ma con i quali lavoriamo fintanto che superano i
controlli, e dei quali non abbiamo mai il diritto di dire che sappiamo
che sono «veri» o «più o meno certi», o anche «probabili»83.
Nel suo Poscritto, egli ha scritto:
Tuttavia, la nostra discussione mostra come il mondo è – il fatto che
esso abbia una struttura, o che le sue regioni più lontane siano tutte
soggette alle stesse leggi strutturali – sembra in linea di principio
inesplicabile e quindi ‘mistico’84.
Popper ha più volte rimarcato questo suo punto di vista. Se diciamo
che se egli ha apertamente sostenuto che la scienza (unitariamente)
ha per scopo la verità, non è soltanto perché egli ha più volte
sottolineato questo aspetto della scienza, ma è anche perché egli non
ha mai parlato né si è mai occupato di dominio di una teoria, o di
dominio efficace, … Popper ha sempre (almeno tacitamente)
sostenuto che la scienza ha per scopo la comprensione del mondo.
Questo è stato da lui inteso nel senso che la scienza cerca un’unica
teoria che renda conto di tutti i fenomeni osservati. Questo aspetto
del filosofo austriaco rimane vero, nonostante l’osservazione (che
possiamo fare), che Popper ha avuto modo di rifiutare la scienza
“unificata” già sostenuta dai neopositivisti.
Ha scritto (a proposito di Popper) J.J. Sanguineti:
Le ‘riduzioni’ sono valide come metodo scientifico, ma non come
filosofia. L’ideale di unificazione monistica delle scienze è un
impoverimento della realtà. La psicologia non è riducibile alla
biologia, né quest’ultima può essere interamente assorbita dalla
fisica. L’origine della vita, della coscienza animale e della mente
umana sono eventi veramente nuovi e improbabilissimi. In questo
senso sono inspiegabili dalla scienza, se spiegare vuol dire dedurre
da una legge naturale85.
La filosofia popperiana si delinea invece come strettamente legata
al “mondo aperto”, alla sua imprevedibilità, alla sua meraviglia. In
83
Popper 1935 p. 351.
84
Popper 1956-1984, vol.1, p. 169.
85
Sanguineti 1997.
un certo senso, si può dire che il filosofo della scienza Karl R.
Popper non era uno scientista. Col suo porre l’accento sulla
meraviglia, sulla creatività della mente umana, egli si è distaccato
definitivamente dal determinismo scientista.
91
Valenti 2012.
92
Una proiezione isogonica è una proiezione che, rispetto alla realtà, lascia
inalterati gli angoli. Quindi è ottima per le esigenze di navigazione, in
particolare può dirci qual è la rotta giusta.
Le due teorie sono pienamente equivalenti. La filosofia del “come
se” si configura come una precisazione quanto al contenuto delle
osservazioni e osservazioni umane. La precisazione consiste nel
preporre alle proposizioni la dicitura; “tutto va come se …”. Il
finzionalismo è una teoria su tutte le attività intellettuali umane.
Dunque, è anche una teoria sulla scienza. Per quanto riguarda
quest’ultima, cominciamo con l’osservare che la lettera della scienza
non è finzionalista. Gli articoli scientifici non sono zeppi di frasi che
dicano che “tutto va come se ...”. Questa locuzione viene usata per lo
più per quei casi che si presentano come ancora dubbi, che
richiedono ancora sperimentazioni e calcoli; enuncia quindi
un’ipotesi di lavoro, sottolineando che quanto segue è probabile, ma
non ancora certo, allo stato dell’arte. Salvo questo caso, gli scienziati
non seguono generalmente il diktat finzionalista. Qualche scienziato
finzionalista qua e là si trova, però attua la precisazione finzionalista
tra sé e sé, non solo per quanto attiene la sua professione, ma in tutti
gli ambiti umani. Che dire allora del finzionalismo, nei riguardi della
scienza? Tale teoria asserisce anche della scienza la sostanziale
“finzionalità”, come di tutte le altre attività conoscitive. Cosa
intendiamo dire, o meglio: che cosa intende un autentico finzionalista
per “finzionalità”? Questo può essere chiarito con un esempio. Un
fisico dice: l’energia si conserva; il finzionalista lo corregge
precisando che si deve dire “tutto va come se l’energia si
conservasse”. Un fisico finzionalista dice invece, correttamente
secondo il finzionalismo, “tutto va come se l’energia si conservasse”.
Chiaramente, finzionalità è cosa diversa dal finzionalismo. È chiaro
però che questi due atteggiamenti, (entrambi finzionalisti) possono
essere trattati congiuntamente.
Per quanto riguarda la scienza, il finzionalismo si presenta in una
duplice veste, ma entrambe tali vesti sono criticabili secondo un
unico insieme di argomentazioni. Innanzitutto notiamo che il
finzionalismo presenta capacità di regresso all’infinito. Sia p una
proposizione scientifica. È chiaro che posso “correggerla” (in senso
finzionalista) dicendo: tutto va come se p. Ma anche questa
93
Vaihinger 1911. Si veda in particolare, per una discussione approfondita
della coincidenza detta, tra strumentalismo e finzionalismo, Chalmers 1976.
proposizione può essere corretta in senso finzionalista. Potrei cioè
dire: tutto va come se tutto andasse come p. E così via … Insomma
non si dà nessun criterio per fermarsi, per qualunque p (scientifica, in
particolare) al finzionalismo di primo o di secondo o … di qualunque
livello. Per meglio dire: qualunque sia il criterio proposto, esso
suonerebbe arbitrario (e di comodo). Possiamo anche enunciare
questa mancanza di criteri in modo accettabile per un finzionalista:
tutto va come se non ci fosse alcun criterio per preferire il
finzionalismo applicato ad un qualunque livello piuttosto che agli
altri.
Non si vede, d’altra parte, perché accettare singole proposizioni
finzionaliste, relative a singole proposizioni scientifiche, invece di
ricapitolare il tutto. Ciò potrebbe essere fatto dicendo: tutto va come
se tutto andasse così. Insomma: quel che non va, in una frase come
“tutto va come se l’energia si conservasse”, e che ci mette in dubbio,
è quel “tutto”. La frase, a rigore, è ambigua, perché non è chiaro se
ciò significhi: che l’apparenza è a favore della conservazione
dell’energia (ma noi non ne sappiamo in realtà nulla: finzionalismo
forte); oppure che l’insieme dei fatti conosciuti è tale che
l’asserzione che l’energia si conserva ne rende giustizia (sia pure in
modo arbitrario, ma “sostanziale”: finzionalismo debole).
Non solo il finzionalismo presenta capacità di regresso all’infinito,
ma anche capacità di auto-descrizione. Chi ci vieta di dire una frase
come la seguente? “Tutto va come se il finzionalismo funzionasse”.
Infatti, è troppo “realista” affermare: “Il finzionalismo funziona”.
Meglio la frase scritta una riga sopra. Le ambiguità interpretative di
cui si è detto, poi, non costituiscono sicuramente dei buoni titoli, agli
occhi dei logici. La possibilità di totalizzarlo (tutto va come se tutto
andasse così) e di interpretarlo in senso forte (tutto va come se la
realtà ci fosse per davvero, ma non deduco che sia così) ne mostrano
senz’altro la portata quanto a far vacillare il realismo. È anche il
realismo a poter essere messo in discussione, finché si resta in
ambito finzionalista.
In questo senso, il finzionalismo ci sembra una sofisticata versione
del dubbio cartesiano. Quest’ultimo, poi, è da prendere solamente
come un modello dell’eterno dubbio degli scettici (dei solipsisti, …):
esiste veramente il mondo oppure è tutto uno scherzo, una finzione?
Chi mi assicura che in questo momento io non stia sognando? Chi o
che cosa può darmi la certezza che questa è una mia mano?
98
Rogers 1971.
semantica della scienza99, che una teoria scientifica non possa essere
considerata semplicemente come una collezione di modelli. È vero
che la teoria è in corrispondenza con una collezione (che può anche
essere infinita) di modelli, tuttavia essa non va pensata come
qualcosa di diverso da quello che è: un insieme di proposizioni, di
segni, che ovviamente richiedono un’interpretazione. In ogni caso,
consideriamo questa esagerazione come significativa: anche per i
sostenitori della visione semantica, la considerazione dei modelli è
importante. L’importanza dei modelli è significata anche dal fatto
che quei filosofi ne hanno esagerato il ruolo nel definire che cosa sia
una teoria scientifica.
È comunque importante sottolineare che è fondamentale avere
presente il campo di applicazione di un modello e i suoi limiti.
Essere in grado di maneggiare più modelli, infatti, sapendo quando
questo si può fare, quando un certo modello è effettivamente
applicabile e con quali limiti, è il cuore della visione scientifica del
mondo. Il fatto che una teoria sia in corrispondenza con un insieme
di modelli, può aiutarci a spiegare la sopravvivenza di qualche
modello al cambio di teoria. Infatti, come ad una teoria
corrispondono più modelli, così un modello può corrispondere a più
di una teoria.
Per non stupirci troppo di questa affermazione, conviene riferirci a
qualche esempio. Così, ad esempio, l’equazione di Laplace si applica
alla dinamica dei fluidi ed alla diffusione del calore; ritroviamo la
seconda legge di Ohm (sostanzialmente) tutte le volte che si ha a che
fare con fenomeni di trasporto in presenza di un gradiente e di
un’impedenza. L’equazione di Laplace è un buon esempio di quel
che vogliamo dire. La funzione f è una funzione reale incognita. Il
significato fisico dell’equazione di Laplace dipende dalla funzione f.
Secondo la natura di f, l’equazione di Laplace descrive problemi di
fluidodinamica, conduzione del calore (che fanno parte del modello:
meccanica classica) ed elettrostatica-elettrodinamica (parte del
modello/teoria di Maxwell).
Le cose stanno insomma proprio come dice Basti 100:
99
Giere 1988, Fano 2005, Fano e Macchia 2009.
100
Basti 2002.
La teoria maxwelliana dell’elettromagnetismo, altro non è che un
particolare modello applicativo di una certa classe di equazioni alla
rappresentazione del moto delle cariche elettriche in un campo di
forze. Il medesimo tipo di equazioni può essere applicato anche alla
rappresentazione del moto delle particelle in un fluido, secondo un
altro modello o «interpretazione» del medesimo sistema formale.
Anzi, storicamente, Maxwell mutuò la sua teoria (modello) elettro-
magnetica proprio da un tale modello idrodinamico e solo dopo fu
definito il sistema formale da cui e l’uno e l’altro modello
derivavano.
Più sopra, elencando i vari casi in cui può parlarsi di modello,
ovvero elencando le diverse modalità in cui un modello può
presentarsi, abbiamo evocato anche quello di “esemplare
paradigmatico”. Margaret Masterman dice 101 che il paradigma
kuhniano è (praticamente) uguale al modello. Si può, perciò,
rileggere Kuhn, perlomeno il suo La struttura delle rivoluzioni
scientifiche, come se egli avesse scritto “modello” al posto di
“paradigma”. Lo scienziato fa uso continuamente di modelli. Egli ne
fa uso anche quando deve spiegare qualcosa ad un suo amico o ad un
conoscente. Anche – lo diciamo in via di ipotesi, ma ne siamo
abbastanza sicuri – tra sé e sé. Se poi poniamo allo scienziato un
problema di carattere teorico o pratico, che sia abbastanza rilevante,
se gli chiediamo spiegazioni su di un fatto abbastanza complicato,
diciamo un problema che riguardi un sistema fisico abbastanza
complesso, o meglio una parte di un tale sistema, lo sentiremo
risponderci, a seconda del tipo specifico di problema che gli stiamo
ponendo, facendo appello ad un modello di tipo classico, o ad un
modello di tipo quantistico, o magari al modello semiquantistico.
Ripetiamo: è il tipo di problema che gli poniamo, che orienta lo
scienziato nel porci una possibile risposta. Interessa assai poco, allo
scienziato detto, che i possibili modelli siano tra loro contraddittori.
Anzi: egli non si farà scrupolo di utilizzare, nella stessa spiegazione,
due o più modelli tra loro contraddittori102. Tutto questo per dare una
spiegazione che risulti soddisfacente al suo interlocutore. Se questi si
101
Masterman 1970.
102
Si veda l’esempio alle pagine seguenti.
ribellasse, e chiedesse: “Come mai mi stai dicendo cose
contraddittorie?”, lo scienziato risponderebbe più o meno così: “Sai,
a questa scala di eventi non ti devi porre di queste preoccupazioni. A
questa scala di eventi, la tal cosa è descrivibile come … invece a
questa scala occorre tener conto del contributo quantistico …” E così
via. Insomma, lo scienziato sa di usare modelli incoerenti, tra loro e
con la realtà, ma non si preoccupa di questo. Invece è attentissimo
alla produzione di teorie che siano assolutamente coerenti. Anzi:
coerenti ed eleganti.
∆ p parete 2 m ⟨ v ⟩ m ⟨ v ⟩2
f media = = = (4.3)
∆t 2 L/ ⟨ v ⟩ L
La forza media complessiva F esercitata dalle N/3 molecole sulla
parete risulterà pari a N/3 volte la forza della singola molecola
urtante:
2
N Nm ⟨ v ⟩
F= ( )
3
f media =
3L
(4.4)
103
Amaldi 1999.
104
Einstein e Born 1973.
105
Schrödinger 1929-59.
106
Planck 1923-36.
107
Dirac 1939-83.
108
Si veda, ad es., Rogers 1971.
teoria, nel nostro lavoro: perché altrimenti lo invalideremmo del tutto
in maniera irreparabile.
E perché, allora, non c’è una tale attenzione nel caso dei modelli?
Perché si tollera di utilizzare dei modelli incoerenti? La risposta va
cercata nel fatto che i modelli hanno nella teoria una funzione
didattica o euristica, quindi limitata rispetto agli assunti generali
della teoria. Ogni modello viene introdotto per uno scopo ben preciso
(di solito in silenzio: lo scienziato non dice sempre che si tratta di un
modello, né per quali motivi esso viene utilizzato). Quindi è previsto
per esso un uso limitato, circoscritto. È questo uso dei modelli, un
uso limitato, sporadico, spesso contraddittorio, anomalo, che li
differenzia sostanzialmente dalle teorie. Vale la pena di approfondire
il discorso.
109
Gusmano 2007 p. 15. Poco importa che Gusmano parli di “immagini”; è
chiaro che potrebbe anche dire “modelli”. Qualche pagina dopo, Gusmano
scrive, parlando di Wilfrid Sellars: “L’obiettivo […] non è, come si è spesso
stati tentati di pensare, quello di ‘naturalizzare’ l’umano ma, al contrario,
quello di mostrare i limiti insuperabili di ogni tentativo del genere. In altri
termini, quello di delimitare lo spazio dell’immagine scientifica
tracciandone, in modo visibile, i confini”.
gas si troverà, inizialmente, concentrata in una zona particolare del
contenitore. Come studiare questo sistema? A quali leggi della fisica
affidarsi? Vedremo che la risposta a questa domanda non è scontata,
ed apre scenari molto diversi tra loro. Immaginiamo che un fisico
voglia studiare questo sistema, con buona approssimazione isolato,
costituito da un certo numero N (molto grande, probabilmente) di
particelle mutuamente interagenti secondo una legge nota. Le
condizioni iniziali siano note, pur non formulando nessuna ipotesi
aggiuntiva sullo stato del sistema al tempo t=0, salvo che, poniamo,
tutte le particelle siano confinate nella parte sinistra del contenitore.
Supponiamo che questo110 fisico immaginario non debba fare i conti
con l’impossibilità pratica di risolvere esattamente il moto del
sistema secondo la fisica classica, se N non è piccolo, il che rende in
pratica impossibile questo tipo di trattazione. Si può anche supporre
che egli studi il gas con l’aiuto di un computer, il che gli
permetterebbe di avere a disposizione un complesso modello
computistico del gas in esame. Egli potrebbe allora scrivere le
equazioni differenziali corrispondenti ai gradi di libertà del sistema.
Le previsioni ottenute in questo modo corrisponderebbero ai dati
sperimentali (stiamo supponendo le condizioni iniziali note con
precisione arbitraria). La conclusione cui il fisico perverrebbe
sarebbe che l’evoluzione del sistema è descritta rigorosamente da
una legge di causalità. Dato che il fisico ha a disposizione un
computer, potrebbe decidere di seguire il percorso di una particolare
particella sullo schermo del computer: allora giungerebbe alla
conclusione che il caso governa il comportamento del sistema in
esame. Alla medesima conclusione arriverebbe se si servisse della
teoria statistica, per ragionare con le quantità fornite da tale teoria per
studiare il sistema in esame. Egli potrebbe però decidere di servirsi,
anziché di questi due modelli, di equazioni variazionali. Allora
avrebbe l’impressione che la natura si comporti in modo tale da
raggiungere determinati fini, in modo cioè da massimizzare
determinati parametri. Gli sembrerebbe cioè che la natura abbia uno
scopo, al quale si uniformino i fenomeni osservati, che sarebbero
110
Suppes 1961, Suppes 1962, Suppe 1977, Suppe 1989, van Frassen 1980,
Ageno 1987, Ageno 1992b, Giere 1988, Fano 2005, Murzi 2011a.
comunque in accordo con le sue previsioni. Quindi vediamo che al
variare della nostra impostazione (modellistica, modellizzante) del
problema abbiamo un responso diverso: se seguo ogni particella,
vedo il caso; se seguo l’evoluzione come descritta da un’equazione
di marcia verso l’equilibrio, ho l’impressione che il sistema sia
deterministico; se calcolo le funzioni in base al calcolo variazionale,
ho l’impressione che il gas segua dei principi teleologici ovvero
persegua delle finalità.
Il sistema ci appare ora, a posteriori, come intrinsecamente
ambiguo: ci sembra, non appena ci solleviamo ad un livello
superiore, che esso possa essere descritto da ben tre modelli
intrinsecamente differenti. Siamo forse capitati in uno di quei casi in
cui abbiamo a che fare con un’ambiguità intrinseca, irrisolvibile,
insomma con una di quelle figure interpretabili a piacere come
moglie/suocera o anatra/coniglio111? Passando dal gas che abbiamo
considerato ad un qualunque sistema fisico, avremo la domanda: di
quale sistema di indagine si è servito il fisico? Il suo modello
interpretativo è tale da suggerire una visione del mondo
deterministica, oppure finalistica? Oppure dobbiamo pensare che alla
base di tutto ci sia il caso? Quindi abbiamo raggiunto questa
importante conclusione: l’interpretazione della dinamica del sistema
è strettamente legata alla tecnica di calcolo che si utilizza. Lo stesso
problema si presenta anche in Teoria Quantistica. Consideriamo un
sistema (s) assoggettato ad una misura, rappresentata nel nostro caso
dall’operatore A; As=s0. Qui s (come anche s0) rappresenta lo stato
del sistema. Quando scriviamo As intendiamo significare che il
sistema s è assoggettato ad un procedimento di misura, rappresentata
dall’operatore A. Se pensiamo che tutto il sistema, compreso
l’apparato (a) di misura, deve obbedire alle regole della meccanica
quantistica, abbiamo che il “nuovo” sistema (s+a) deve evolvere nel
tempo secondo l’equazione di Schrödinger. Quindi si ha qui un
paradosso: quello di un sistema che evolve in modo non-causale,
quando assoggettato ad una misura; e un sistema allargato (costituito
dal “vecchio” sistema più l’apparato di misura) che evolve in modo
prevedibile (secondo l’equazione di Schrödinger). Questa è una
111
Kuhn 1962.
contraddizione che dà ancora da pensare ai fisici interessati ai
fondamenti della loro teoria. Come viene affrontata dalla stragrande
maggioranza degli scienziati?
Ritorniamo all’esempio che stavamo discutendo. Il moto delle
molecole di un gas in un contenitore è determinato dagli urti delle
molecole tra loro e con le pareti del contenitore. Gli urti seguono le
leggi della meccanica classica, che sono deterministiche.
L’evoluzione del sistema è allora, egli direbbe in questo caso,
descritta da una legge di causalità. Se il fisico invece seguisse il
percorso di una singola particella, osserverebbe un tipico moto
browniano, del tutto casuale. L’evoluzione del sistema è governata
dal caso, dalla fatalità, dalla sorte. Oppure anche: egli potrebbe
decidere di prestare attenzione al fatto seguente. Le molecole del gas
si dispongono nel contenitore in modo da massimizzare l’entropia.
L’evoluzione del sistema tende a un determinato stato finale. Siamo
quindi costretti a questa conclusione: l’interpretazione della dinamica
di un sistema dipende dal modello usato per la sua descrizione.
Abbiamo detto: a seconda dell’interpretazione che scegliamo di
utilizzare per analizzare il nostro sistema, anzi proprio a seconda del
modello interpretativo che adottiamo a questo scopo, abbiamo una
diversa visione dei fenomeni in gioco. Questo, tra l’altro, toglie
molta vigoria a chi dichiara solennemente di seguire la visione
scientifica del mondo. Infatti: quale visione è, quella che egli
dichiara scientifica? Quale tra le tante? Da quale modello la trae? Il
fatto innegabile che il modello possa essere molto utile per effettuare
calcoli, avere idee ingegnose, poter ottenere una visione d’insieme
del fenomeno, non ci autorizza ad estrarne considerazioni relative a
presunte visioni scientifiche del mondo.
È però possibile parlare in un altro senso, più debole e meno
ideologico, di visione scientifica del mondo. Si vuole dire che è
possibile acquisire una forma mentis, uno sguardo, un modo di
considerare le cose, una sensibilità particolare eppure generalissima,
che contraddistingue (quasi) tutte le menti scientifiche. È possibile
individuare in questa visione del mondo qualche tratto più preciso?
Sostanzialmente, l’avere acquisito una visione scientifica del mondo
significa essere in grado di orientarsi quando siamo posti dinanzi ad
un problema, o una questione, o ad un dilemma che riguarda un tema
scientifico, ovviamente non specialistico. Possiamo specificare
ulteriormente che cosa (operativamente) significa questo
“orientarsi”:
1) Riconoscere a quali discipline si può far risalire il problema, e
d’altra parte sapere individuare il sistema interessato al
problema.
2) Conoscere il significato dei termini usati in modo da saperli
eventualmente spiegare a chi non conosce bene queste materie e
sapere almeno alcuni dei modelli che si possono applicare in
questa situazione.
3) Sapersi muovere all’interno dei modelli validi per questi sistemi
e sapere emettere giudizi corretti dal punto di vista scientifico,
anche quantitativi.
Il procedimento intellettuale che si è delineato può cominciare con
l’individuare la scala spaziale e temporale dei fenomeni. Già questo
fatto significa scegliere tra uno, due, massimo tre modelli (e
scartarne “infiniti” altri).
112
Citato il 6 aprile 2011 su “La Repubblica”, articolo tratto da Stephen
Hawking e Leonard Mlodinov, Il grande disegno, Mondadori, Milano,
2017.
113
Ageno 1992b.
114
Amaldi 2004.
115
Sanguineti 1997.
116
Jaki 1966.
117
Agazzi et al. 1989.
118
Heisenberg 1935.
119
Schrödinger 1929-59.
Il teorema di Gödel implica che la matematica pura è inesauribile.
Non importa quanti problemi vengono risolti, ci saranno sempre altri
problemi che non possono essere risolti con le regole esistenti. [...] A
causa di questo teorema, anche la fisica è inesauribile. Le leggi della
fisica sono un insieme finito di regole e includono quelle della
matematica, quindi il teorema di Gödel si applica anche a loro.
Come si vede, per almeno due pensatori, grandi scienziati e stimati
spiriti liberi, quali erano Freeman Dyson e Stephen Hawking, il
teorema di Gödel ha costituito lo spartiacque per decidersi contro una
teoria del tutto, anziché a favore. Che cosa è stato, allora, questo
famoso teorema di Gödel, il teorema di incompletezza? Che
importanza ha avuto nella matematica e nella logica del Novecento?
È questo quanto andremo ora ad analizzare.
Capitolo 5. Teoria circoscrizionista e sistemi
formalizzati
Kurt Gödel
125
Koyré 1943.
di reale, ma sono solo la manifestazione di certi aspetti della
struttura del modo umano di conoscere.
Accanto a queste scuole, altre se ne sono presentate nel corso
dell’Ottocento e soprattutto del Novecento:
4) innanzitutto il formalismo: secondo i formalisti, la matematica,
per così dire, si riduce ad un gioco che si gioca con inchiostro e
carta; gioca bene chi riesce a rispettare tutte le regole, ma mostra
di avere altresì abbastanza fantasia126;
5) accanto a questo, il movimento intuizionista sosteneva invece
che né la logica né il linguaggio possono fare del bene alla
matematica, in quanto questa si basa su un atto fondamentale di
intuizione da parte del matematico;
6) un’altra corrente di pensiero, nota come logicismo, sosteneva che
la matematica, in definitiva, si riduceva ad una forma di logica, e
che la logica era alla base della matematica. Essa si proponeva
quindi di risolvere l’intera matematica in un capitolo della logica
dimostrando che (nella terminologia kantiana) tutte le
proposizioni matematiche esprimono giudizi analitici a priori.
Questo programma logicista è stato attuato in parte, da Frege e
Russell e Whitehead, sul presupposto di una logica di validità
assoluta. È stato particolarmente Gottlob Frege a sostenere
questa scuola filosofica, che non è certamente una novità in
filosofia: già Leibniz sosteneva la necessità di ricercare una
fondazione assiomatica della matematica;
7) infine la scuola del predicativismo, iniziata da Poincaré e Weyl.
È stata descritta, in modo leggermente ironico, così: I numeri
naturali esistono realmente; tutto il resto è opera dell’uomo.
Questa scuola si richiama esplicitamente a Kant, e in particolare
al passo della Critica della ragion pura nel quale Kant sostiene
che la definizione di un ente matematico non è la descrizione di
un oggetto esistente indipendentemente dall’uomo, ma è la
costruzione che legittima tale oggetto.
126
Il principale artefice del formalismo fu David Hilbert. È noto quello che
egli rispose quando gli venne comunicato che un suo allievo intendeva da lì
ad innanzi dedicarsi alla poesia. La risposta di Hilbert fu, pressappoco, che
quell’alunno non aveva abbastanza fantasia per fare il matematico!
Un elemento comune a queste concezioni è quello di considerare la
matematica come un corpo completo. Riassumiamo cosa questo
significa e comporta, scusandoci se saremo un po’ schematici.
Ogni problema matematico, se esattamente formulato, trova una
risposta definitiva. Tale risposta può essere negativa, come nel caso
della quadratura del cerchio. Il problema di costruire un quadrato di
area uguale a un cerchio dato, usando solo riga e compasso, è stato
risolto dimostrando l’impossibilità di una tale costruzione. Il punto
essenziale è, comunque, che ogni quesito matematico ha una risposta
univoca. Può essere difficile trovare una dimostrazione che individua
la risposta corretta. Tuttavia, tale dimostrazione esiste. Compito del
matematico è cercarla. Questa è l’idea di matematica come corpo
completo di conoscenze. Ancora: l’idea che possa esistere un
problema matematico che, in linea di principio, non abbia alcuna
risposta, appare semplicemente assurda. C’è chi, come Leibniz, ha
anche sostenuto che ogni problema matematico (e persino filosofico)
sia risolvibile mediante il calcolo ossia, per usare un termine
moderno, mediante un algoritmo. Ma anche chi ha negato questa
possibilità, contestando che i problemi matematici siano risolvibili
mediante il calcolo, non ha mai negato la completezza della
matematica.
Ogni problema matematico ha una sola risposta corretta. Potrebbe
essere impossibile trovarla: in fondo, gli uomini sono esseri finiti.
Ma la risposta esiste. Dio sicuramente conosce la risposta corretta.
Pensate per un attimo quanto potrebbe sembrare assurda
l’affermazione che esistono problemi matematici la cui risposta è
ignota a Dio stesso.
Eppure, dalla dimostrazione di Gödel, sappiamo che è così 127.
Sembra però che la filosofia della matematica non abbia compreso
l’importanza dei teoremi di incompletezza. Essi sono visti come una
falsificazione del programma finitista di Hilbert e come una
dimostrazione dell’intrinseca limitazione dei metodi assiomatico-
deduttivi.
127
Perlomeno, se Dio pensasse per concetti. Questa, a ben vedere, potrebbe
essere la prova che effettivamente Dio non pensa per concetti, come già
affermato più volte da illustri filosofi e teologi.
Noi vogliamo invece provare che l’incompletezza di una teoria
matematica non è una sua limitazione, ma è un’importante proprietà
positiva. Le teorie incomplete sono fondamentali, perché aprono la
possibilità di esplorare nuovi territori impensabili. L’incompletezza è
essenziale alle teorie matematiche. Ma è essenziale non perché tali
teorie sono limitate (nel senso negativo del termine).
L’incompletezza è essenziale perché è vitale alla ricerca
matematica. L’incompletezza non è una limitazione della mente
finita dell’uomo. L’incompletezza è l’essenza delle teorie
matematiche.
Recentemente, si è assistito ad un indebolirsi della trattazione
filosofica dei teoremi di Gödel. Infatti, dopo un periodo euforico di
ricerche, volto a trovare applicazioni le più disparate 128, si è assistito
ad una progressiva diminuzione d’interesse, oltre ad uno
specializzarsi delle ricerche. Dopo una prima fase, a dir poco
entusiastica, in cui pareva che dai teoremi di Gödel si potesse
ottenere (quasi) tutto, si è passati ad una fase di stanca. Così, non è
azzardato dire che, se si interroga un qualunque filosofo
sull’argomento, ci si sente rispondere che, tutto sommato, i teoremi
di Gödel hanno lasciato la matematica così com’è.
Eppure noi crediamo (e vorremmo discutere la cosa) che ci sia una
applicazione filosofica (e potremmo aggiungere: relativamente
sicura, immediata, senza sforzi) dei teoremi di Gödel: precisamente
alla teoria circoscrizionista della scienza. Prima di approfondire
questi argomenti, è bene però fare un poco di chiarezza sui problemi
che andiamo trattando. Cominceremo pertanto con un breve esame
storico degli ultimi tre secoli.
128
Jaki 1992. L’autore in particolare “cerca” di applicare i risultati di Gödel
alla “teoria del tutto”, ovvero alla fisica nel suo insieme. Così, egli sembra
sostenere l’applicabilità dei teoremi di Gödel, pensati per le teorie
formalizzate, anche nel caso di quelle non formalizzate (e, aggiungiamo noi,
forse non formalizzabili).
5.2 L’Ottocento. Logicismo e crisi dell’evidenza: le geometrie
non euclidee
La prima differenza che salta all’occhio, a chi studi la matematica
del secolo XVIII e la confronti con quella del secolo successivo, è la
straordinaria ripresa di una attenzione tenace al problema del rigore
matematico. Si parla a tale proposito di rigorismo ottocentesco. In
effetti, nasce e si manifesta pienamente un’esigenza di rigore e
precisione concettuale e metodica. Tale esigenza va via via
trasformandosi, poi, nell’esigenza sempre più chiara e marcata di
fondazione delle varie discipline e poi di tutta la matematica.
In particolare si fa luce quello che possiamo chiamare logicismo
ottocentesco. Kaspar Wessel, Jean Robert Argand, Karl Friedrich
Gauss danno inizio al processo di cui stiamo parlando, e il cui
carattere logicista emergerà soltanto più tardi. Essi iniziano il
processo di riconduzione della teoria dei numeri complessi alla teoria
dei numeri reali.
La corrente di pensiero, nota come logicismo, sosteneva che la
matematica, in definitiva, si riduceva ad una forma di logica, e che la
logica era alla base della matematica. Essa si proponeva quindi di
risolvere l’intera matematica in un capitolo della logica dimostrando
che (nella terminologia kantiana) tutte le proposizioni matematiche
esprimono giudizi analitici a priori. Questo programma logicista è
stato attuato parzialmente da Friedrich Ludwig Gottlob Frege, da una
parte, e Bertrand Russell e James Whitehead, dall’altra, sul
presupposto di una logica di validità assoluta.
Il logicismo sostiene che alla base della matematica c’è la logica.
Pertanto è entrato in crisi, e si pensa attualmente che non sia più
riproponibile, dopo la scoperta di logiche non-aristoteliche.
Accanto a questi studi, il lavoro di tanti sul quinto postulato di
Euclide ha portato alla scoperta delle geometrie non-euclidee.
Ricordiamo questi nomi, tra i tanti che si sono affannati a scoprire se
potevano dimostrare il quinto postulato di Euclide, ovvero cambiare
l’esposizione euclidea col proporre una migliore e diversa
definizione di parallelismo, oppure con la proposta di un altro
postulato, che godesse di maggiore evidenza rispetto a quello
euclideo: Tolomeo (II secolo a. C.), Posidonio (I secolo a. C.), Proclo
(410-485), Al Narizi (IX secolo), Nasir ed Din (1201-1274), F.
Commandino (1509-1575), R.S. Clavio (1537-1612), P. A. Cataldi
(1552-1626), Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679), John Wallis
(1616-1703), Giordano Vitale (1633-1711). Questi autori
prepararono il terreno per la scoperta delle geometrie non-euclidee.
Tra gli scopritori vanno menzionati: Carl Friedrich Gauss (1777-
1855), Janos Bolyai (1802-1860), Nicolaj Ivanovic Lobacevskij
(1792-1856) e George Friedrich Bernhard Riemann (1826-1866).
Questa scoperta ha riaperto il duplice problema: dello status
ontologico degli enti matematici e della verità delle proposizioni
matematiche.
Le geometrie non-euclidee costituirono uno scandalo intellettuale
in quanto contrastanti con la realtà del mondo delle idee, ritenuta a
torto euclidea dai platonisti; con la struttura del mondo percepito dai
sensi, ritenuta a torto euclidea dagli aristotelici; con la struttura a
priori dell’umano conoscere, ritenuta a torto euclidea dai kantiani.
Si generò l’aspettativa che prima o poi le geometrie non-euclidee
potessero essere smascherate come assurde: ma tale aspettativa si
rivelò ingannevole; anzi si sono ottenute prove e riprove che
ciascuna geometria non-euclidea può essere tradotta, grazie ad un
opportuno “vocabolario”, in un capitolo della geometria euclidea, e
viceversa. Un matematico italiano (Eugenio Beltrami) è riuscito ad
ottenere modelli euclidei di ciascuna delle geometrie non-euclidee;
questo prova che la geometria euclidea, se dimostrata incoerente,
trascinerebbe con sé, in questa sentenza di incoerenza, anche quelle
non-euclidee.
Insomma, geometria euclidea e geometrie non-euclidee simul
stabunt aut simul cadent. Come hanno reagito le varie filosofie della
matematica a questa notizia?
I platonisti hanno pensato che le diverse geometrie descrivono
regioni diverse del mondo delle idee; secondo gli aristotelici le varie
geometrie astraggono strutture formali diverse del mondo percepito
dai sensi, utilizzando metodi diversi; infine secondo i kantiani esse
costituiscono altrettante “griglie conoscitive” a priori, tra le quali il
soggetto liberamente sceglie.
La storia della matematica aveva dimostrato, fino a questo punto,
che estendendo il campo degli assiomi si poteva ottenere la
possibilità di risolvere problemi che prima di allora erano preclusi.
Forse questo procedimento poteva essere esteso fino a far sì che la
matematica potesse risolvere tutti i problemi? La matematica poteva
ricoprire tutto l’Universo, per quanto è vasto? Questa domanda, in
cui riconosciamo la caratteristica della modernità, fu effettivamente
posta.
Sembrò, ad un certo punto, che fosse possibile darvi una risposta
affermativa.
Ma fu una breve illusione. Ben presto subentrò la sensazione di una
nuova Torre di Babele. Questa venne con la cosiddetta crisi dei
fondamenti.
David Hilbert
Dunque caratteristica di una teoria formale è che tutto è
determinato dalla forma dei simboli. Non ci sono significati
preesistenti. Sono le regole del gioco a dare i significati. Ad esempio,
se diciamo: “La regina, insidiata da un alfiere, si rifugia dietro un
cavallo”, noi pensiamo al gioco degli scacchi, cioè ad un gioco in cui
il nome è legato alla posizione iniziale e alle mosse possibili. A
(quasi) nessuno verrebbe fatto di pensare a veri cavalli, a torri di un
castello medievale, con cavalieri, re e regine. Abbiamo quindi un
insieme di regole ed una configurazione iniziale. Esiste un problema
circa quali sono le configurazioni raggiungibili e quelle non
raggiungibili. Ad esempio, finire una partita a scacchi con un solo
pezzo sulla scacchiera è una configurazione impossibile. Il problema
può essere indicato nel modo seguente. Possiamo raggiungere, con
regole formali (ovvero meccaniche o, per dirla come Hofstadter 129,
“tipografiche”), tutte le configurazioni che ci interessano? Gli scopi
da raggiungere sono formalmente sono due: completezza e coerenza.
Diremo che un sistema formale è completo se esso è sufficiente per
decidere di ogni proposizione correttamente costruita o formulata a
partire dagli assiomi. Quindi completezza di un sistema significa che
deve essere possibile dimostrare nel sistema ogni proposizione
(possibile nel sistema stesso, in base alle regole grammaticali-
sintattiche di composizione) o la sua negazione.
Diremo inoltre che un sistema formale è coerente se è impossibile
dedurre, al suo interno, p e non-p. Insomma è coerente se e soltanto
se non è contraddittorio.
Hilbert (si) proponeva poi di dimostrare in modo puramente
combinatorio che tale gioco è sintatticamente coerente, ossia che
usando le sole regole di deduzione a partire dalle configurazioni
iniziali non è possibile riottenere tutte le configurazioni ammissibili.
Ricordiamo che, in logica aristotelica, se una teoria assiomatica non
è coerente in sé allora dagli assiomi si possono dedurre tutte le
proposizioni della teoria.
Nasce così il concetto di sistema formale, costituito da:
1) un elenco finito di pezzi, ciascuno replicabile a volontà
(“alfabeto” del sistema); i vari pezzi vanno combinati secondo
una lista finita di regole di costruzione, che nel loro complesso
specificano le configurazioni ammissibili del sistema (“tettonica”
del sistema);
2) una lista finita di configurazioni iniziali e di regole di deduzione,
che nel loro complesso specificano le configurazioni deducibili
nel sistema tra le configurazioni ammissibili (“struttura
deduttiva” del sistema).
La tettonica e la struttura deduttiva di un sistema formale ne
costituiscono la sintassi.
129
Hofstadter 1979.
A questo punto, occorre ribadire la seguente osservazione.
Che differenza, potremmo chiederci, passa tra assiomatizzazione e
formalizzazione di un sistema o di una dottrina? Quando si
assiomatizza una dottrina, si lasciano sottintese: la lingua utilizzata
per esporla (solitamente, la lingua corrente nel paese) e la logica
usata per dedurre (solitamente, una versione di quella aristotelica).
Quando invece si formalizza una dottrina, si specificano
esattamente (per mezzo di alfabeto e tettonica) la lingua usata per
esporla (di regola, una lingua artificiale); si specifica poi, per mezzo
della struttura deduttiva, la logica usata per dedurre, che non è
necessariamente quella aristotelica.
La semantica di un sistema formale, invece, è costituita dal
complesso delle dottrine che il sistema stesso formalizza, con
annesse logiche e lingue d’uso.
In questa ottica, nasce la concezione di uno studio radicalmente
formalistico della matematica, intesa come studio dei sistemi
formali. A tale formalismo radicale venivano assegnati tre compiti:
1) formalizzazione di dottrine assegnate;
2) discutere la coerenza sintattica di sistemi formali assegnati;
3) discutere la sintattica di sistemi formali assegnati.
Notiamo per inciso che in tale concezione l’intera logica veniva
risolta in un capitolo della matematica (risultato opposto a quello cui
arrivava il logicismo, che invece considerava la matematica stessa
come una parte della logica). A proposito del logicismo, va registrata
la sua definitiva fine tra gli eventi importanti di questo periodo.
Questa filosofia della matematica (ricordiamolo) si proponeva di
risolvere l’intero sapere matematico in un capitolo della logica. È
stato Bertrand Russell, con James Whitehead, a riproporre un
programma logicista, sul presupposto di una logica di validità
assoluta.
Il logicismo ricevette il colpo definitivo dalla comparsa di molte
logiche, diverse da quella aristotelica; quest’ultima logica che era
servita ai suoi scopi (egregiamente) per tutto il medioevo ed anche
nel rinascimento, ed era stata perfezionata e migliorata dai logici
medievali130.
130
Pozzi 1992.
In effetti potrebbe risultare utile al lettore tener presente la seguente
tabella, che presenta alcune delle logiche attualmente in vigore:
A) Logica tradizionale
sillogistica aristotelica
B) Logica classica
calcolo delle proposizioni (bivalente)
calcolo predicativo del primo ordine
calcolo predicativo del secondo ordine
C) Logiche estese
logiche modali
logiche temporali
logiche deontiche
logiche epistemiche
logiche della preferenza
logiche imperative
logiche erotetiche o interrogative
D) Logiche devianti
logiche polivalenti
logiche quantistiche
logiche intuizionistiche
logiche libere (da presupposizioni esistenziali)
Tra queste vanno ricordate, come rilevanti nell’ambito di ciò che
stiamo discutendo (la crisi del logicismo), le invenzioni delle logiche
polivalenti (operata da Jan Lukasiewicz, Emil Leon Post, Charles
Sanders Peirce, Alfred Tarski e la scuola logica polacca), modali
(ricordiamo in proposito i lavori di David K. Lewis e Samuel A.
Kripke), nonché le logiche intuizionistiche (Arend Heyting e molti
altri). Oltre a queste, c’è una virtualmente infinita varietà di logiche,
da quelle affermative, a quelle erotetiche, ecc.
Tutte queste logiche hanno uno status analogo a quello delle
geometrie non euclidee. Dicendo che esse hanno status analogo,
intendiamo dire che si fissano gli assiomi di ciascuna di esse, poi si
deducono via via i vari teoremi. In quale logica ci si trova
attualmente, dipende da quali postulati si sono scelti. Proprio come
avviene per una geometria (euclidea o non-euclidea) si può sempre
stabilire in quale di esse si sta lavorando, lo stesso vale per le
logiche.
L’indagine comparativa di queste disparate logiche ha richiesto la
loro formalizzazione: ciò ha ricondotto all’ottica formalistica
radicale, perlomeno da un punto di vista metodologico.
5.6 L’intuizionismo
Nessun indirizzo di ricerca ha più la pretesa di
rappresentare la sola matematica vera.
Arend Heyting
L’intuizionismo (o costruttivismo) rappresenta un’altra corrente di
pensiero che rigetta formalismo e logicismo.
È stata fondata da Luitzen Egbertus Jan Brouwer. Brouwer espone
le sue vedute soprattutto in Zur Begründung der intuitionistischen
Mathematik (Per la fondazione della matematica intuizionistica), nei
Mathematischen Annalen tra il 1925 e il 1927. Per Brouwer la
questione era quella del ruolo del linguaggio nella matematica; per
questo egli criticava Hilbert e Russell, in quanto sostenitori della
falsa credenza in una portata decisiva del linguaggio nelle teorie
matematiche. Essi facevano questo, come conseguenza della loro
infondata fiducia nella logica classica. Per Brouwer viceversa il
linguaggio non ha alcun ruolo nella matematica, che risulta invece da
un atto mentale indipendente da ogni linguaggio. Quindi per questo
non era assolutamente necessario sottoporre, come volevano i
formalisti, la lingua matematica stessa ad un trattamento linguistico.
Arend Heyting
Andrey N. Kolmogorov nel 1925 pubblicò un articolo (On the
principle of the excluded middle) in logica intuizionistica, in cui
provava che sotto una certa interpretazione, tutte le affermazioni in
logica classica possono essere formulate anche in logica
intuizionistica. Arend Heyting (1898-1980) pubblica nel 1930 Die
Formalen Regeln der intuitionistischen Logik e Die Formalen
Regeln der intuitionistischen Mathematik I, II.
L. Brouwer fu il fondatore della “scuola intuizionistica”, una delle
principali scuole di filosofia della matematica del XIX secolo, le cui
tesi essenziali sono:
1) l’impossibilità di dedurre tutta la matematica dalla logica pura;
2) la riduzione della logica a un metodo, che si sviluppa con la
matematica senza trascenderla.
Sostanzialmente la base di tale atteggiamento è la seguente. Né la
logica né l’assiomatizzazione possono dare conto adeguato della
matematica. Ciò in quanto ne trascurano i contenuti ossia
precisamente quelle dottrine che i formalisti, da un canto, essiccano
in sistemi formali, mentre i logicisti svuotano in reti tautologiche. Gli
intuizionisti sostengono invece che la conoscenza matematica si
ottiene mediante intuizioni dirette, direttamente giustificate,
contestualmente a quelle porzioni della logica che si rivelano via via
necessarie.
L’intuizionismo ha avuto un’influenza salutare nel rivalutare
l’aspetto creativo della matematica. Non è riuscito però a convertire
la comunità matematica, perché la ricostruzione intuizionistica di
varie parti della matematica si è rivelata insoddisfacente.
Attualmente ha una diffusione piuttosto ristretta; comunque presso
la comunità dei matematici si registra una viva simpatia per i
procedimenti costruttivi; inoltre è attualmente presente una logica
non-aristotelica che è ora debitamente formalizzata e catalogata.
131
Gödel 1931.
132
Tarski 1946.
133
Cohen 1963, Cohen 1964, Cohen 1966.
1) regola di scambio definizionale: se A e B sono equivalenti per
definizione, allora è possibile inferire A da B, e viceversa;
2) modus ponens: da A e A→B si può inferire B.
Tali regole sono dette primitive perché combinandole in vario
modo si possono ottenere (infinite) regole di inferenza valide. Del
resto, ad ogni schema tautologico di forma condizionale corrisponde
una regola di inferenza valida.
Fatto questo, la macchina può essere “messa in moto”. E produrrà
teoremi a profusione.
Questo fatto, probabilmente, per la sua grande familiarità e per la
continua sollecitazione con cui era sottoposto ai matematici, ha
generato l’idea che la matematica altro non fosse che una fabbrica di
ovvietà: dati i postulati e le regole di deduzione, ogni teorema è già
implicito nella costruzione. Si tratterà solo di portarlo a galla. È
questa una concezione della matematica che ha fatto in passato dei
proseliti anche fra chi si interessava professionalmente alla filosofia
della matematica, oltre ad essere ancora oggi una concezione molto
diffusa nel grande pubblico.
5.7.7 Indipendenza degli assiomi e quinto postulato euclideo
134
Saccheri 1733.
non gli pareva altrettanto elegante. Egli decise perciò di cercare di
dimostrarlo, e tentò la dimostrazione per assurdo: cioè, postulando
che quanto affermato fosse falso, sperava di dimostrare che anche
qualcuno degli altri quattro fosse negato. Purtroppo la morte gli
impedì, non solo di verificare che la sua dimostrazione era errata, ma
anche il grande successo che gli arrise. Cinquant’anni dopo, J. H.
Lambert ripeté ancora l’operazione quasi riuscita a Saccheri. Infine,
correva l’anno 1823, Jànos Bolyai e Nikolai Lobachevsky
inventarono le geometrie non euclidee.
Si arriva così alla idea di una geometria minimale (detta anche
assoluta), ossia costituita (poniamo) dai primi quattro postulati di
Euclide. Ne parla diffusamente Hofstadter 135. Questa si può anche
definire geometria assoluta, ed è stata effettivamente definita così. I
quattro (primi) teoremi di Euclide sono così enunciabili 136:
1) se si congiungono due punti qualsiasi, si ottiene un segmento di
retta;
2) ogni segmento di retta può essere prolungato indefinitamente da
entrambe le parti;
3) dato un segmento qualsiasi, si può costruire su di esso una
circonferenza che abbia il semento stesso come raggio e come
centro un estremo del segmento;
4) ogni angolo retto è congruente ad ogni altro angolo retto.
Generazioni e generazioni di geometri hanno tentato, per secoli, di
dimostrare il quinto postulato. Troviamo nell’elenco nomi di
geometri greci, arabi, italiani, francesi. Anche Euclide stesso utilizzò
il suo quinto postulato solamente dopo molte (circa ventotto)
dimostrazioni in cui si servì solamente dei primi quattro postulati.
Del quinto postulato si hanno varie versioni; da quella di Euclide:
135
Hofstadter 1979.
136
Mangione in Geymonat 1971, vol. III, dice a pag. 186, a proposito della
distinzione tra assiomi e postulati, facendo riferimento alla distinzione
ancora attiva nella logica antica, non più nella moderna: “i postulati invece
sono proposizioni primitive la cui validità è sì assunta come evidente, ma la
cui validità è per così dire limitata al campo specifico della scienza che li
assume”.
Se si tracciano due rette e le si interseca con una terza, in modo tale
che da una parte la somma degli angoli interni sia inferiore a due
angoli retti, allora le due rette si incontreranno necessariamente da
quella parte
al postulato delle parallele:
Data una qualsiasi retta ed un punto esterno, esiste una ed una sola
retta passante per quel punto e parallela alla retta data.
Una domanda sorge spontanea: quante sono le geometrie non
euclidee?
La risposta è perlomeno imbarazzante. Sono quante se ne possono
pensare. C’è stato un periodo in cui i matematici non facevano altro
che produrre geometrie non euclidee. Storicamente, per costruire una
geometria non-euclidea basta negare il quinto postulato di Euclide e
sostituirlo con un altro.
Ricapitoliamo quanto siamo venuti dicendo: consideriamo il
gruppo di assiomi da A1 ad A4.
A1: da qualunque punto si può condurre una retta a qualunque
altro punto;
A2: ogni segmento finito è indefinitamente prolungabile;
A3: con un centro qualunque ed una distanza si può descrivere un
cerchio;
A4: tutti gli angoli retti sono uguali tra loro.
Da questi assiomi non è deducibile nessuna delle affermazioni
seguenti:
E5: esiste una sola retta parallela passante per un punto esterno ad
una retta data (Euclide);
R5: non esiste nessuna retta parallela passante per un punto esterno
ad una retta data (Riemann);
L5: esiste più di una retta parallela passante per un punto esterno
ad una retta data (Lobachevsky).
Poiché E5, R5 e L5 sono mutuamente contraddittori, dobbiamo
sceglierne uno. Avremo, così, o la geometria euclidea, o qualche
geometria non-euclidea: se scegliamo R5, avremo la geometria di
Riemann137, con L5 quella di Lobachevsky. Ognuno di questi
assiomi, E5, R5 e L5, è indecidibile rispetto agli altri quattro assiomi.
Allora, poiché, per il teorema di Gödel, questo problema di
indecidibilità si ripresenterà, qualunque sia il “quinto” postulato che
abbiamo accettato ed introdotto, avremo un’altra diramazione, e così
via138.
Quindi, riassumendo:
137
Dagli assiomi A1-A4 è possibile dimostrare (ed Euclide effettivamente
l’ha fatto) che esiste almeno una retta parallela passante per un punto
esterno ad una retta data; quindi, è possibile dimostrare la contraddittorietà
di R5+A1-A4. Per formulare in modo non contraddittorio la geometria di
Riemann è necessario modificare anche A2.
138
La nozione di “indecidibilità” è affetta da una difficoltà dovuta a una
confusione terminologica. Ci sembra utile, per evitare fraintendimenti,
affrontarla a vantaggio dei non esperti. Un sistema assiomatizzato si dice
“indecidibile” quando almeno una sua formula ben formata è “indecidibile”.
Una formula ben formata, all’interno di un sistema assiomatizzato, è detta
“indecidibile” in due sensi diversi, che non vanno assolutamente confusi.
(1) Una fbf A è “indecidibile” quando non esiste un algoritmo che, in un
numero finito di passi, determini se A è derivabile o meno dagli assiomi. (2)
Una fbf A è “indecidibile” quando né A né ¬A deriva dagli assiomi (ossia,
quando A è indipendente dagli assiomi). Si dice “completo” un sistema
assiomatizzato in cui, data una qualsiasi fbf A valida, A è derivabile dagli
assiomi. Nel caso dell’aritmetica di Peano, poiché A oppure ¬A è valida
nell’interpretazione standard (si osservi che implicitamente si assume la
correttezza del principio del terzo escluso), l’aritmetica di Peano è completa
se e solo se A oppure ¬A deriva dagli assiomi; altrimenti è “incompleta” (o
anche “indecidibile”, come spesso si usa dire, nel senso 2). Si dice
“decidibile” un sistema formale in cui, data una qualsiasi fbf A, si può
dimostrare che A deriva dagli assiomi oppure che A è refutabile, tramite un
algoritmo che termina in un numero finito di passi; altrimenti è
“indecidibile” (nel senso 1). Consideriamo due sistemi assiomatizzati, come
il calcolo dei predicati del primo ordine (che chiamiamo PC - Predicate
Calculus) e l’aritmetica di Peano (PA). PC è completo ma indecidibile nel
senso 1. PA è incompleto e quindi indecidibile nel senso 2. L’indecidibilità
(sia nel senso 1 sia nel senso 2) implica la non computabilità dei teoremi.
Tuttavia, solo l’indecidibilità nel senso 2 implica l’incompletezza. Infatti,
1) non esiste un unico sistema formale (ossia: chiaro, per quanto è
possibile) che possa render conto di tutti i risultati matematici
finora raggiunti;
2) ognuno dei vari sistemi formali può trovare utilmente
applicazione in un dato ambito di fenomeni fisici, biologici, …;
3) è del tutto vano sperare di trovare un principio unificatore,
un’unica struttura formale che renda conto simultaneamente di
tutti i risultati matematici (e a maggior ragione di quelli a
venire).
5.9 Conclusioni
Dio esiste di certo, perché l’aritmetica è
coerente; però esiste anche il diavolo, perché la
coerenza dell’aritmetica è indimostrabile!
André Weil
Per terminare le nostre considerazioni, vorremmo richiamare la
vostra attenzione sulla consistenza tra quello che abbiamo sinora
sostenuto e la logica matematica recente (dell’ultimo secolo, grosso
modo). Innanzitutto, in ambito logico, si ha una pluralità di logiche:
logica classica, intuizionista, modale, paraconsistente, quantistica,
fuzzy, logiche polivalenti. Ognuna di queste logiche è basata su
presupposti diversi, spesso è stata pensata per risolvere determinati
problemi, in determinati ambiti di lavoro. Pertanto si può dire: non
esiste una logica vera, ma ciascuna logica è corretta nel proprio
campo. Ciò significa che le diverse logiche non sono in contrasto tra
loro, ma operano in ambiti (circoscritti) diversi. Si può dire pertanto
che esse si riferiscono ad ambiti diversi, o forse che circoscrivono
ambiti diversi.
Analoga è anche la situazione in matematica. Qui, un ruolo da
gigante è stato svolto dai teoremi di incompletezza di Gödel. Questi
ha dimostrato che ogni sistema formale sintatticamente coerente la
cui semantica ricopra l’Aritmetica Elementare non può di per sé
dimostrare la propria coerenza, né formalizzare la soluzione di
problemi pur enunciabili in esso. Ognuno di questi sistemi contiene
in sé almeno una proposizione indecidibile, cioè di cui non si può
stabilire formalmente (ossia all’interno del sistema) se sia vera o
falsa. Pertanto o essa, o la sua negazione, potranno essere ammesse
tra i postulati di un nuovo sistema ottenuto a partire dai postulati di
quello “vecchio”. Anche tutti i nuovi sistemi, tuttavia, saranno
soggetti alle stesse restrizioni “di Gödel” quanto all’indecidibilità:
ciò in quanto anch’essi conterranno al loro interno proposizioni
indecidibili. Anch’essi quindi genereranno nuovi sistemi,
reciprocamente incompatibili (a seconda che la proposizione
accettata come nuovo postulato sia quella indecidibile, oppure la sua
negazione), ma in sé pienamente coerenti.
È chiaro quindi che tali sistemi saranno in generale applicabili ad
ambiti diversi: non occorre necessariamente, in proposito, pensare
soltanto alle scienze cosiddette naturali, ma anche a quelle
economiche, alla sociologia, a tutte le “scienze umane”, …
Si otterranno, così, diverse teorie che potranno essere utilizzate in
ambiti (o domini) diversi: la formalizzazione delle teorie, necessaria
per ottenere una maggiore chiarezza, significa la loro circoscrizione.
In generale, è pertanto vano sperare che un giorno si riesca ad
assiomatizzare o a formalizzare l’intero complesso delle conoscenze
matematiche. Come per rappresentare in piano la superficie della
Terra non è sufficiente un’unica carta geografica, ma è necessario un
intero atlante, in cui ogni pagina descriva solo una piccola parte del
tutto, così l’intero quadro delle conoscenze matematiche può essere
rappresentato da un intero atlante di infiniti sistemi formali, o di
teorie assiomatiche, irriducibili l’uno all’altro e ciascuno descrivente
soltanto una piccola parte del tutto.
La matematica ci si presenta dunque come ben diversa dal
tradizionale intreccio di tautologie che viene solitamente concepita e
con cui viene presentata. I teoremi di Gödel, mostrando
l’incompletezza di ogni sistema formale, aprono la possibilità a
sistemi matematici alternativi. Pensiamo all’analisi non standard di
Abraham Robinson, oppure alle geometrie non euclidee: la non
dimostrabilità del quinto postulato di Euclide ha permesso di
sviluppare geometrie alternative, che hanno trovato applicazione
nella fisica moderna.
Concludiamo sintetizzando un po’ brutalmente quello che siamo
venuti dicendo, ma speriamo che risulti chiaro perché lo affermiamo:
l’incompletezza essenziale dei sistemi formali è sostanzialmente un
elemento a favore della teoria circoscrizionista della scienza.
Bibliografia