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Capitolo IX

LA COLPA

Sommario: 1. Premessa. – 2. La mancanza di volontà del fatto tipico. – 3. L’inosservanza di regole caute-
lari di condotta. – 4. La rimproverabilità dell’inosservanza. – 5. Il grado della colpa. – 6. Il principio
dell’affidamento.

1. Premessa

L’art. 43, comma 3, c.p. definisce il delitto “colposo o contro l’intenzione, quando
l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente, e si verifica a causa di negligenza o impru-
denza o imperizia ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
Si tratta di una forma di responsabilità eccezionale e sussidiaria rispetto a quella
dolosa, necessitando di un’espressa previsione legislativa e presupponendo l’assenza del
dolo (art. 42, comma 2, c.p., secondo il quale “nessuno può essere punito per un fatto previsto
dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto […] colposo espres-
samente preveduti dalla legge”).
La punibilità a titolo di colpa deve quindi essere espressa nei delitti, mentre nelle con-
travvenzioni essa è di regola alternativa al dolo. Al riguardo devono comunque considerarsi
ormai superate quelle interpretazioni restrittive della norma che circoscrivevano la pu-
nibilità a titolo di colpa alle sole ipotesi in cui la fattispecie incriminatrice contenesse un
esplicito riferimento testuale in tal senso, essendo invece sufficiente, secondo la prevalente
dottrina (Marinucci), anche la sola descrizione della fattispecie, qualora questa sia inequi-
vocabilmente riferibile ad un atteggiamento colposo del soggetto agente.
La norma, nel prevedere gli elementi strutturali del delitto colposo, richiama re-
quisiti di natura psicologica (assenza di volontà dell’evento) e requisiti di natura
normativa (violazione di regole cautelari); in base all’art. 43, comma 3, c.p., tale tipo
di illecito si caratterizza pertanto: 1) in negativo, per l’assenza del dolo, sotto forma di
mancanza di volontà dell’evento (rectius: del fatto tipico); 2) in positivo, concretandosi la
condotta tipica nella violazione di regole cautelari doverose, la cui osservanza avrebbe
evitato la verificazione dell’evento dannoso in cui si sostanzia il delitto colposo.
Vi è poi un ulteriore requisito non espressamente previsto dalla disposizione in
esame, che rappresenta il profilo più squisitamente personale e soggettivo della colpa;
esso consiste nella capacità soggettiva dell’agente di osservare la regola cautelare e con-
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seguentemente nella concreta possibilità di pretenderne l’osservanza. Si tratta della c.d.


esigibilità del comportamento doveroso. Anche se la colpa rappresenta una forma
di colpevolezza meno grave del dolo, essa coincide necessariamente con un atteggia-
mento antidoveroso della volontà e consiste nel rimprovero per aver realizzato un fatto
di reato che poteva essere evitato mediante l’osservanza esigibile delle regole cautelari
volte ad evitare la lesione o la messa in pericolo del bene protetto.

Rispetto al dolo, costituito soltanto da coefficienti psicologici reali, la colpa si caratterizza an-
che per una dimensione normativa (non messa in evidenza dalle vecchie teorie naturalistico-
psicologiche), consistendo in un giudizio di rimprovero per la violazione da parte del soggetto
delle regole cautelari inerenti all’attività svolta, quando la loro osservanza era invece doverosa ed
esigibile dall’agente.
Proprio in ragione delle osservazioni che precedono, la dottrina moderna (Mantovani) tende a qua-
lificare come mista l’essenza della colpa, dovendosi la stessa apprezzare sia sul piano oggettivo, cioè
nella violazione delle regole cautelari di condotta, sia su quello soggettivo, ossia in punto di rimprove-
rabilità dell’agente per aver realizzato un fatto di reato che poteva essere evitato mediante l’osservanza
esigibile delle norme prudenziali disattese.
Autorevole dottrina (Fiandaca–Musco), aderendo alla teoria di origine tedesca della c.d. doppia
misura della colpa, giunge a collocare la colpa medesima, sul piano sistematico, sia nel fatto che
nella colpevolezza, osservando come la violazione delle norme a contenuto precauzionale rilevi non
solo in riferimento all’elemento soggettivo del reato, ma prima ancora in ordine alla tipicità, svolgen-
do la stessa un ruolo decisivo nella configurazione delle singole fattispecie colpose; azione tipica sarà
quindi da considerare quella non solo rispondente al modello legale, ma anche in contrasto con la
regola di condotta a contenuto preventivo.

2. La mancanza di volontà del fatto tipico

Come detto sopra, la colpa si caratterizza innanzitutto in negativo come assenza di dolo.
E la natura eccezionale, sussidiaria ed alternativa della responsabilità colposa rispetto a
quella dolosa fa si che il riferimento contenuto all’art. 43, comma 3, c.p. alla sola mancanza
di volontà dell’evento debba ritenersi incompleto: se infatti il dolo è coscienza e volontà del
fatto tipico in tutti i suoi elementi, l’assenza di rappresentazione e volizione di anche uno
solo di essi, sia esso l’evento oppure un altro requisito positivo o negativo (ad es.: assenza di
una scriminante), esclude la ricorrenza di tale atteggiamento psicologico.
Più correttamente, quindi, il primo requisito della colpa deve essere inteso come
mancanza di volontà del fatto tipico, in tutti i suoi elementi costitutivi.

È quindi sulla scorta di questa premessa che devono essere affrontate le ipotesi tradizionalmente
ricondotte entro il concetto di c.d. colpa impropria, espressione con la quale ci si riferisce ai casi
di: 1) eccesso colposo nelle cause di giustificazione, disponendo al riguardo l’art. 55 c.p. che devono
trovare applicazione le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è previsto dalla legge come
delitto colposo (ad es.: Tizio uccide Caio col fucile quando poteva neutralizzarlo con un bastone); 2)
supposizione colposa di una causa di giustificazione inesistente, rispetto alla quale la punibilità non è
esclusa quando il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo. Così, pur avendo voluto l’evento,
risponde di omicidio colposo e non doloso chi uccide precipitosamente il presunto aggressore, nella
convinzione di versare in un’ipotesi, in realtà non sussistente, di legittima difesa (art. 59, comma 4,
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c.p.); 3) l’errore sul fatto determinato da colpa, nei confronti del quale la punibilità non è esclusa
quando il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo (art. 47, comma 1, c.p.).
La caratteristica comune a tutte queste ipotesi è che l’agente vuole l’evento concretamente realizza-
tosi, ma ciononostante risponde della fattispecie colposa.
Pur affermando taluni Autori che in questi casi si assisterebbe alla punizione a titolo di colpa di fattispecie
dolose, la dottrina prevalente (Mantovani), argomentando in base al disposto degli artt. 47, 55 e 59 c.p.,
ravvisa anche nei suddetti casi una vera e propria ipotesi di responsabilità colposa, rimproverandosi al
soggetto non di avere voluto l’evento, ma di aver agito con leggerezza, eccedendo nella causa di giustifi-
cazione, supponendo l’esistenza di una causa di giustificazione in realtà non sussistente o incorrendo in un
errore sul fatto. L’agente, in altre parole, ha voluto l’evento, ma non il fatto tipico previsto dalla norma, in
quanto ha agito sulla base di una falsa rappresentazione della realtà o comunque ha supposto l’esistenza di
una scriminante che non esiste più perché ne sono stati superati i limiti o che non è mai esistita.
L’inquadramento sistematico di queste ipotesi nell’ambito della colpa è possibile e soprattutto giusti-
ficabile solo se si sostituisce alla tradizionale nozione di colpa, quale non volontà dell’evento, quella
più esaustiva di non volontà del fatto tipico.
La colpa è pertanto configurabile sia quando l’evento non è voluto, sia quando è voluto, ma l’agente
non si è rappresentato un qualsiasi altro elemento positivo o negativo del fatto tipico.
La definizione contenuta nell’art. 43, comma 3, c.p. deve pertanto ritenersi incompleta, necessitando
la stessa di essere integrata alla luce del disposto degli artt. 47, 55 e 59 c.p.

Sempre sul piano dell’elemento conoscitivo, per espressa disposizione legislativa, non
vi è incompatibilità tra colpa e previsione dell’evento.
Al riguardo si distingue infatti tra: 1) colpa incosciente, quando l’evento non è
voluto e nemmeno previsto dall’agente; 2) colpa cosciente (o con previsione), quan-
do l’evento, pur non essendo voluto neppure a titolo di dolo eventuale, è stato tuttavia
previsto dall’agente come conseguenza concretamente possibile della propria condotta.
Essa costituisce un’aggravante comune per i delitti colposi (art. 61, comma 1,
n. 3 c.p.).

Sebbene il codice distingua in maniera netta l’ambito del dolo da quello della colpa sulla base dell’al-
ternativa volontà/non volontà del fatto materiale tipico, sul piano applicativo possono sorgere delicati
problemi nel momento in cui si deve distinguere tra colpa cosciente e dolo eventuale (v. Cap.
VIII, par. 4, Parte II).
Al riguardo sono state elaborate diverse teorie, alcune delle quali ormai abbandonate: 1) teorie c.d.
intellettualistiche, che distinguono i due coefficienti psicologici sulla base del diverso contenuto del
momento rappresentativo e in base alle quali il dolo eventuale si differenzia dalla colpa cosciente
poiché nel primo l’autore del reato si rappresenta la possibilità concreta del verificarsi del risultato
lesivo e ciononostante agisce, mentre nella seconda la verificazione dell’evento è avvertita solo come
astratta possibilità, oppure perché nel primo l’evento è previsto come probabile mentre nella secon-
da come possibile; 2) teorie c.d. volitive, che distinguono i due coefficienti psicologici sulla base
dell’atteggiamento interiore dell’agente nei confronti dell’evento, per cui nel dolo eventuale vi è un
quid pluris dato dall’indifferenza nei riguardi del risultato lesivo accessorio (teoria dell’indifferenza),
oppure una sorta di adesione interiore alle conseguenze eventuali della propria condotta (teoria del
consenso ipotetico); 3) teorie della schermatura del pericolo, in base alle quali si ha colpa cosciente o
dolo eventuale a seconda che l’autore abbia o meno adottato misure volte ad evitare l’evento, oppure
a seconda che quest’ultimo sia o meno dominabile dal soggetto agente in base alle sue capacità.
La teoria oggi prevalente, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, identifica invece il criterio
dirimente nell’accettazione del rischio, per cui il dolo eventuale ricorre quando il soggetto agisce
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prevedendo la possibile verificazione di un fatto di reato ed accettando il relativo rischio, la colpa


cosciente invece ricorre quando l’agente pone in essere la condotta causale, nella convinzione che
l’evento lesivo seppur previsto non si verificherà (Fiandaca–Musco; Mantovani).
La differenza fondamentale tra i due atteggiamenti volitivi, e che ne spiega il diverso trattamento san-
zionatorio, sta nel fatto che solo nel dolo eventuale vi è una presa di posizione da parte del soggetto
agente nel senso della lesione o messa in pericolo del bene protetto, mentre nella colpa con previsione
l’autore ha un’intima convinzione che ciò non si verificherà. Ne risulta che mentre il primo soggetto
avrebbe agito anche se avesse avuto la certezza della verificazione dell’evento collaterale, il secondo si
sarebbe in tal caso astenuto dalla condotta.
Anche in giurisprudenza il criterio dell’accettazione del rischio è oggi largamente dominante. Si af-
ferma in particolare che risponde a titolo di dolo il soggetto che, pur non perseguendo direttamente
l’evento, accetta il rischio che esso si verifichi come risultato della sua condotta, agendo anche a costo
di determinarlo; viceversa si ha colpa cosciente quando il reo, pur rappresentandosi il fatto criminoso
come possibile conseguenza del suo comportamento, agisce nella convinzione, giusta o sbagliata che
sia, che esso non si realizzi (Sez. I, Cass. Pen., 11/01/2012, n. 267).
È chiaro però che, al di là delle questioni teoriche, il vero problema che si pone concerne l’accertamento
in concreto della ricorrenza del dolo eventuale o della colpa cosciente, attesa anche la rilevante differenza
in punto di riposta sanzionatoria che l’ordinamento riconnette all’una o all’altra forma di colpevolezza.
Il giudice sarà quindi chiamato, in questi casi, a compiere una rigorosa valutazione di tutti gli elementi
conoscitivi di cui era in possesso l’agente al fine di verificare se sulla base di questi il reo ha potuto
trarre la convinzione del verificarsi o meno dell’evento.

3. L’inosservanza di regole cautelari di condotta

La formula legale della colpa espressa dall’art. 43, comma 3, c.p., col richiamo alla
negligenza, imprudenza ed imperizia ed alla violazione di leggi, regolamenti, ordini e
discipline, delinea il secondo tratto distintivo di tale forma di imputazione soggettiva,
di carattere oggettivo e normativo: l’inosservanza di regole cautelari di condotta,
ovvero di quelle norme dirette a prevenire gli eventi dannosi involontari e perciò a
salvaguardare i beni giuridici, orientando i comportamenti umani in modo non (o co-
munque meno) pericoloso.
Nel descrivere le regole cautelari, il codice penale rimanda alle fonti scritte ed a
quelle non scritte: quando la disposizione menziona la negligenza, imprudenza o im-
perizia allude a regole derivate dall’esperienza comune o dall’esperienza tecnica scien-
tifica; quando invece richiama l’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline si
riferisce a regole positive, contenute in una fonte normativa specifica.
Ed è sulla bipartizione fonti non scritte/fonti scritte che riposa la tradizionale distin-
zione tra colpa generica e colpa specifica.
Per quanto riguarda la colpa generica, emerge con evidenza che le regole di dili-
genza, prudenza e perizia non sono predeterminate dalla legge o da altra fonte giuridi-
ca, ma sono ricavate dall’esperienza della vita sociale; esse sono legate dal legislatore ai
concetti di: 1) negligenza, ovvero difetto di attenzione, trascuratezza, mancata osser-
vanza di determinati protocolli di comportamento od omissione delle cautele doverose
imposte in positivo dalla regola di condotta (ad es.: chiudere il gas); 2) imprudenza,
ovvero insufficiente ponderazione o scarsa considerazione degli interessi altrui, la quale
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si sostanzia generalmente nell’adozione di un comportamento positivo in contrasto


con la regola cautelare che prescrive di non tenere una certa azione o di realizzarla con
determinate modalità (ad es.: non guidare se si è stanchi); 3) imperizia, ovvero inosser-
vanza di regole tecniche, per insufficiente preparazione culturale, per inettitudine perso-
nale, per scarsa dimestichezza o per inadeguata applicazione, la quale si traduce pertanto
in una forma di imprudenza o negligenza qualificata riferita ad attività che richiedono
particolari conoscenze tecniche (ad es.: attività medica).
Per quanto riguarda invece la colpa specifica, essa si sostanzia nella violazione di una
regola prudenziale scritta, la quale può essere contenuta in: 1) una legge, che può essere
anche di tipo penale, purché dotata di natura cautelare, ovvero finalizzata ad evitare la ve-
rificazione di eventi involontari connessi allo svolgimento di attività lecite (ad es.: norme
contravvenzionali in materia di infortuni sul lavoro); 2) regolamenti, i quali contengono
norme a carattere generale predisposte dall’Autorità pubblica per regolare lo svolgimento
di determinate attività (ad es.: regolamento di esecuzione del codice della strada); 3) ordini
e discipline, emanati da Autorità pubbliche o private, che racchiudono norme indirizzate
ad una cerchia specifica di destinatari (ad es.: regolamenti di fabbrica).

È bene precisare che la responsabilità colposa non viene meno nell’ipotesi in cui la regola precau-
zionale violata sia contemplata in un regolamento o in altra fonte scritta eventualmente viziata da
invalidità formale: ciò che rileva è unicamente che la regola di condotta disattesa corrisponda effetti-
vamente ad una norma precauzionale adatta al caso di specie.

Dal punto di vista del contenuto, le regole cautelari possono imporre: 1) obblighi
positivi, consistenti nell’adozione di determinate misure reali o di determinate cautele
personali (ad es.: tenere una certa velocità di guida); 2) obblighi negativi, che posso-
no giungere fino all’imposizione del dovere di astenersi dal compiere una determinata
azione, vuoi perché il compierla comporterebbe un rischio troppo elevato di realizza-
zione dell’evento lesivo (ad es.: un uomo colto da malore non deve guidare), vuoi per-
ché il soggetto agente non risulta sufficientemente esperto per espletare prestazioni che
richiedono particolari cognizioni tecniche (ad es.: medico inesperto o specializzando
che si cimenta in un’operazione chirurgica complessa). In quest’ultimo caso si parla di
colpa per assunzione; 3) obblighi di informativa in ordine alle regole cautelari da
adottare in relazioneall’attività che si intende svolgere (ad es.: l’automobilista che inten-
de compiere un viaggio all’estero dovrà prendere conoscenza delle norme del codice
della strada del paese straniero); 4) l’obbligo di scegliere collaboratori o delegati
idonei all’attività che dovranno svolgere (la cui inosservanza concreta una culpa in eli-
gendo) e l’obbligo di controllare adeguatamente il loro operato al fine di impedire
o contenere gli effetti di condotte pericolose di tali soggetti (la cui inosservanza con-
creta una culpa in vigilando).

Le norme giuridiche a contenuto prudenziale sono a loro volta distinguibili in: a) rigide, se prede-
terminano in modo assoluto la regola di condotta da osservare (ad es.: non passare col rosso), salvo
che la loro osservanza, nel caso concreto, possa comportare il rischio di verificazione degli eventi che
la regola stessa mira ad evitare (si pensi, ad esempio, alle manovre di emergenza nella circolazione
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stradale, come l’impegnare la corsia di sinistra se quella di destra risulta ostruita a causa di un incidente);
b) elastiche, se indicano una regola di condotta il cui contenuto deve essere specificato in relazione alle
circostanze del caso concreto (ad es.: tenere una distanza di sicurezza rapportata allo spazio di frenata).

Come osservato dalla dottrina (Fiandaca–Musco), alla base delle norme precauzionali,
scritte e non, finalizzate a scongiurare i pericoli connessi allo svolgimento delle diverse
attività umane, si trovano regole di esperienza ricavate da giudizi ripetuti nel tempo sulla
pericolosità di determinati comportamenti e sui mezzi più adatti ad evitarne le conseguen-
ze. Da questo punto di vista, le regole di diligenza vigenti nei vari contesti sociali di rife-
rimento rappresentano la generalizzazione di giudizi di prevedibilità ed evitabilità ripetuti
nel tempo. La prevedibilità di un evento tenendo una certa condotta e l’evitabilità dello
stesso adottando determinate cautele costituiscono quindi i criteri per individuare le regole
cautelari e le misure precauzionali da adottare nelle diverse situazioni concrete al fine di
evitare che il pericolo insito in una certa condotta si traduca in danno.
In considerazione della natura oggettiva di tali regole, la prevalente dottrina (Man-
tovani; Palazzo) è concorde nel ritenere che i giudizi di prevedibilità ed evitabilità
debbano essere compiuti (dal legislatore, nel caso di regole scritte, o dal giudice, nel caso
di regole non scritte) facendo riferimento alla miglior scienza ed esperienza nel
settore specifico, rapportata al momento storico in cui la condotta è stata realizzata.

Come è stato osservato da autorevole dottrina (Mantovani), il livello della miglior scienza ed espe-
rienza è l’unico che, soprattutto nel caso di regole non scritte, offre al giudice dei parametri oggettivi
sulla base dei quali individuare, di volta in volta, la norma prudenziale che costituisce la base del
giudizio di colpevolezza. Devono pertanto essere respinte tutte quelle impostazioni minoritarie che,
richiamando livelli inferiori di scienza ed esperienza (come quella dell’uomo normale, dell’uomo co-
scienzioso od avveduto, dell’homo eiusdem condicionis et professionis), finiscono per confondere la misura
oggettiva con quella soggettiva della colpa, ovvero la funzione preventiva della regola cautelare con la
capacità di osservanza di tale regola da parte del soggetto agente.

Sotto il profilo della prevedibilità, trattandosi di regole fissate per prevenire deter-
minate situazioni di pericolo, per l’imputazione oggettiva della sua inosservanza, ai fini
del giudizio di colpevolezza, è necessario che l’evento verificatosi appartenga al tipo di
quelli che la norma violata mirava ad evitare; l’evento deve apparire cioè come una
concretizzazione del rischio che la norma di condotta disattesa tendeva a prevenire.
Ciò significa che, laddove venga accertata la violazione di una regola cautelare, all’agen-
te non potranno essere imputati tutti gli eventi cagionati, ma solo quelli appartenenti
alla specifica tipologia avuta di mira da tale norma.
Al riguardo anche la giurisprudenza è concorde nel ritenere che per poter formalizzare
l’addebito colposo non sia sufficiente la violazione della regola cautelare, dovendo a tal fine
essere accertato che questa sia diretta ad evitare proprio il tipo di evento dannoso verifica-
tosi (Cass. Pen., Sez. IV, 06/02/2007, n. 4675, Cass. Pen., 22/09/2009, n. 36857).
Così l’automobilista che percorre la strada in senso vietato, risponderà a titolo di colpa specifica sol-
tanto nel caso di un eventuale scontro tra veicoli, ma non anche per l’investimento di un bambino
che cammina sul marciapiede, in quanto la norma violata mira unicamente a prevenire gli urti frontali
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tra veicoli. Per l’investimento del bambino l’automobilista potrà semmai rispondere a titolo di colpa
generica, se nel suo comportamento sia ravvisabile la violazione di regole cautelari non scritte.
Il requisito della c.d. concretizzazione del rischio deve essere accertato alla luce di una valutazione
ex post, che implica il riferimento all’evento concreto e alle sue modalità di produzione.
La Suprema Corte ha chiarito che “il criterio della concretizzazione del rischio […] è una valutazione ex
post, che consente di avere conferma, che quel tipo di evento effettivamente verificatosi rientrasse fra quelli che la
regola cautelare mirava a prevenire, tenendo conto che esistono regole cautelari, per così dire “aperte”, nelle quali
la regola è dettata sul presupposto che esistano o possano esistere conseguenze dannose non ancora conosciute,
ed altre “rigide”, che prendano in considerazione solo uno specifico determinato evento” (Cass. Pen., Sez. IV,
06/02/2007, n. 4675).

Sotto il profilo invece dell’evitabilità, sempre in ragione della natura preventiva


della regola cautelare, è necessario, ai fini dell’imputazione oggettiva, che l’evento ca-
gionato fosse effettivamente evitabile mediante l’osservanza della regola cautelare.

L’esempio classico è quello dell’anestesista che prima di un intervento chirurgico somministra per
errore al paziente cocaina anziché novocaina così provocandone la morte, la quale si sarebbe tuttavia
verificata anche nel caso in cui fosse stata correttamente somministrata la novocaina, a causa della
ipersensibilità del paziente ad ogni tipi di narcotico.
Sul versante oggettivo, quindi, per poter formalizzare un addebito a titolo di colpa, il giudice è chia-
mato a verificare, prima di tutto, se l’azione antidoverosa ha materialmente cagionato l’evento, e, in
seconda battuta, se l’osservanza del dovere di diligenza imposto dalla norma (il c.d. comportamento
alternativo lecito) avrebbe impedito, nella situazione concreta, il verificarsi dell’evento (cfr. Cass.
Pen., Sez. IV, 03/05/2010, n. 16761); si tratta, in sostanza, di un giudizio di tipo ipotetico analogo a
quello che caratterizza la causalità omissiva.
Per ovviare alle difficoltà cui si va inevitabilmente incontro nel compiere il giudizio di cui sopra, è
stato proposto (Romano) un diverso metodo d’indagine, che fa leva sul c.d. aumento del rischio:
ai fini della imputazione dell’evento al suo autore, sarebbe sufficiente accertare che l’inosservanza
della regola di condotta, in luogo del comportamento alternativo lecito, ha determinato un rilevante
aumento del rischio di verificazione del fatto lesivo che la norma prudenziale intendeva evitare.

Quanto ai rapporti tra colpa generica e colpa specifica, occorre precisare che
in certi casi il rispetto delle regole cautelari scritte può non esaurire il dovere di dili-
genza e prudenza gravante sull’agente.
Si fa riferimento ai casi in cui la regola cautelare scritta si presenti non esaustiva,
facendo residuare uno spazio di esigenze preventive non coperto dalla disposizione
medesima, le quali dovranno e potranno essere soddisfatte esclusivamente mediante
l’osservanza di una generica misura precauzionale non scritta (ad es.: l’automobilista
proveniente da destra non è esonerato dal rispetto delle ordinarie regole di prudenza
nel momento in cui si accinge ad impegnare l’incrocio stradale).

4. La rimproverabilità dell’inosservanza
Per poter formalizzare un addebito a titolo di colpa, non è sufficiente la violazione
della regola cautelare, ma occorre anche che tale violazione sia imputabile all’agente,
pena altrimenti la costruzione di una forma di responsabilità oggettiva.
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Ciò significa che, una volta accertata la violazione della regola cautelare, occorre verifi-
care se l’adozione della condotta doverosa imposta era esigibile o meno dal soggetto agente
e quindi, in definitiva, se questo sia rimproverabile o meno per tale inosservanza.
Se le regole cautelari sono per definizione finalizzate a prevenire il verificarsi di
eventi pericolosi, che rappresentano la conseguenza prevedibile di determinate condot-
te, è sulla prevedibilità ed evitabilità dell’evento che dovremo concentrare l’attenzione
ai fini del giudizio soggettivo di colpevolezza.
Infatti, da qualunque parte si guardi la colpa, sia sotto il profilo oggettivo che sog-
gettivo, la prevedibilità e l’evitabilità dell’evento svolgono un ruolo fondante, in quanto
sono all’origine delle norme cautelari e devono pertanto essere poste alla base anche
del rimprovero personale.
L’inosservanza della regola di condotta sarà quindi addebitabile e perciò rimprovera-
bile al soggetto agente qualora l’evento risulti dallo stesso prevedibile, quale conseguen-
za lesiva del proprio comportamento, ed evitabile mediante l’osservanza della regola
cautelare e l’adozione del comportamento doveroso.
Per poter correttamente impostare e risolvere la questione inerente l’aspetto sog-
gettivo della colpa, appare opportuno distinguere tra colpa specifica e colpa generica,
atteggiandosi in maniera diversa il requisito della prevedibilità a seconda che la regola
cautelare sia scritta o meno.
Quanto alla colpa generica, il giudizio di rimproverabilità, che, come abbiamo
detto sopra, ruota attorno ai due poli della prevedibilità e dell’evitabilità dell’evento,
non può, per ovvie ragioni, prescindere da un processo di relativizzazione ed astrazione
dall’agente concreto, imponendosi pertanto la necessità di costruire un modello ideale
di agente, che tenga più possibile conto delle caratteristiche personali di colui che ha
agito in concreto, senza però sconfinare in eccessi soggettivistici che rischiano di rende-
re inattuabile l’accertamento della forma di colpevolezza in esame.

Deve quindi esser rifiutato, innanzitutto, il parametro dell’agente concreto, che porterebbe a rico-
noscere rilevanza a tratti caratteriali o a disposizioni emotive come la superficialità, l’avventatezza,
l’ignoranza e quindi alle sole conoscenze possedute e non anche a quelle che colui che agisce avrebbe
dovuto avere in rapporto al tipo di attività svolta, costituendo quindi incentivo all’ignoranza poiché
chi più ignora più è scusato.
Del pari, insoddisfacenti appaiono anche i parametri troppo oggettivizzanti dell’uomo più esperto e
della miglior scienza ed esperienza umana, perché la maggioranza dei soggetti che agiscono in con-
creto non è riconducibile a tale livello di conoscenze; adottando tale modello di agente si finirebbe
quindi per far coincidere la colpa con la mera violazione della regola cautelare, risultando sempre
prevedibile ed evitabile l’evento lesivo realizzatosi e sconfinando in una responsabilità oggettiva.
Nell’intento dichiarato di costruire un modello di agente il più possibile simile a quello che agisce in
concreto, sebbene non in possesso di tutte le caratteristiche da questo possedute, la dottrina prevalente
(Mantovani; Fiandaca–Musco; Palazzo), seguita anche dalla pressoché unanime giurisprudenza, ha
elaborato il parametro dell’homo ejusdem professionis et condicionis.

Quindi, ai fini del giudizio di colpevolezza, la prevedibilità ed evitabilità dell’even-


to va accertata ex ante e va valutata dal punto di vista dell’agente modello e non di
quello che ha in concreto agito.
capitolo IX – LA COLPA 203

Lo standard di diligenza è pertanto ritagliato su di un insieme di qualità personali, che si


presumono esistenti nell’agente concreto in quanto appartenente ad un gruppo sociale pre-
ventivamente individuato, ovvero coloro che svolgono la stessa professione, mestiere o attività
dell’agente reale. Così, chi si mette alla guida di un autoveicolo e non è esperto o non ha la
patente, dovrà comportarsi come un accorto automobilista; il padre di famiglia che sale sul
tetto per sostituire le tegole dovrà comportarsi come un muratore modello e così via.

La costruzione dell’agente modello verrà quindi effettuata in relazione al tipo di attività che deve es-
sere svolta, potendosi enucleare, all’interno di una stessa categoria sociale di appartenenza, una plura-
lità di tipi di agente modello, in relazione, ad esempio, al diverso grado di specializzazione tecnica:
è evidente che la misura della perizia richiesta nell’espletamento dell’attività sanitaria è graduabile a
seconda che il medico appartenga alla cerchia degli specialisti o dei generici.
Costruendosi una figura di agente modello per ogni singola attività, ne discende che ciascun soggetto
concreto potrà essere ricondotto a più agenti modello specifici (automobilista-modello, muratore-
modello, cacciatore-modello, ecc.) in relazione alle diverse attività svolte.
Quella dottrina (Fiandaca–Musco) che aderisce alla teoria della c.d. doppia misura costruisce in
maniera diversa il profilo soggettivo della colpa: mentre in sede di tipicità viene accertata la violazione
del dovere oggettivo di diligenza, modellato sul parametro dell’homo ejusdem professionis et condicionis, il
rimprovero di colpevolezza dipende dall’accertamento dell’attitudine del soggetto che ha in concreto
agito ad uniformare il proprio comportamento alla regola di condotta violata; tale verifica, che ri-
sponde ad esigenze di personalizzazione del giudizio di colpa, deve tener conto del livello individuale
di capacità, esperienza e conoscenza del singolo agente.

La prevedibilità ed evitabilità dell’evento secondo l’agente modello specifico va va-


lutata in concreto, tenendo cioè conto di tutte le circostanze in cui il soggetto “reale”
si è trovato ad agire.

Non sarà così rimproverabile per l’evento cagionato l’automobilista che, colto da improvviso malore,
provoca un incidente mortale, qualora lo stesso fosse ignaro della sua cardiopatia, in quanto sulla con-
creta verificazione del fatto lesivo ha inciso l’improvvisa insorgenza di una situazione eccezionale che
neppure l’agente modello avrebbe potuto prevedere.
Dovranno poi essere valutate le conoscenze casuali di determinate situazione di pericolo posse-
dute dall’agente concreto e non anche da quello modello (si pensi, ad esempio, all’automobilista che
abitando in loco è a conoscenza della particolare pericolosità dell’incrocio o dell’uscita degli scolari
dalla scuola).

Sulla base di quanto finora detto deve ritenersi che, in caso di realizzazione di un fat-
to di reato, nessun addebito a titolo di colpa potrà essere mosso nei confronti dell’agente
per l’evento cagionato se questi, in base alle conoscenze che aveva o che doveva avere in
rapporto all’homo ejusdem professionis et condicionis, non era in grado di prevederlo quale
conseguenza della propria condotta.
Ma quand’è che l’evento può dirsi prevedibile?
La giurisprudenza, al riguardo, è orientata nel ritenere che sia sufficiente anche la
sola possibilità per l’agente di rappresentarsi una generica categoria di danni, quale
conseguenza del proprio agire, non essendo necessario che questi si sia rappresentato
ex ante l’evento dannoso che poi si è concretamente prodotto, in quanto già la consa-
204 Parte seconda – La struttura del reato

pevolezza della potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno
dovrebbe convincerlo ad astenersi o ad adottare più sicure regole di prevenzione.
Quanto al grado di potenziale rappresentazione dell’attitudine della condotta
ad offendere l’interesse tutelato dalla fattispecie incriminatrice, la Corte di Cassazione
è ferma nel sostenere che esso “possa riconnettersi anche alla probabilità o anche solo alla
possibilità (purché fondata su elementi concreti e non solo congetturali) che queste conseguenze
dannose si producano, non potendosi limitare tale rappresentazione alle sole situazioni in cui sus-
sista in tal senso una certezza scientifica” (Cass. Pen., Sez. IV, 01/02/2008, n. 5117).
Ciò detto, si deve osservare che la prevedibilità delle conseguenze dannose della
propria condotta non risulta sufficiente a descrivere il contenuto soggettivo della colpa
in relazione alle condotte pericolose ma legislativamente consentite, prima fra tutte
l’attività medica, in cui l’evento pur se prevedibile è da considerarsi quale rischio so-
cialmente accettato.
È opportuno allora introdurre la distinzione tra colpa comune e colpa professionale
(o speciale).
Si parla di colpa comune con riferimento a tutte quelle attività lecite in cui il
soggetto agente è tenuto ad astenersi dal tenere determinati comportamenti al fine di
evitare che la condotta sia fonte di eventi dannosi, in quanto l’ordinamento giuridico
non è disposto ad accettare che sia corso al riguardo alcun rischio. Il giudizio di colpa,
in questi casi, si basa sulla prevedibilità ed evitabilità dell’evento accertata ex ante ed in
relazione al parametro dell’homo ejusdem professionis et condicionis.
Si parla invece di colpa professionale nel caso di attività intrinsecamente pericolose,
ma giuridicamente autorizzate in quanto indispensabili o comunque socialmente utili, le
quali devono essere esercitate entro i limiti segnati dalle regole cautelari (c.d. leges artis)
scritte o non scritte che prescrivono non l’astensione dall’attività, ma l’esercizio della stessa
in presenza di determinati presupposti o secondo certe modalità.Tali regole, identificandosi
in norme prudenziali, sono per definizione dirette a prevenire il verificarsi non di qualsiasi
evento lesivo che possa derivare dall’esercizio di tali attività, ma solo di quelli che esulano
dal c.d. rischio consentito, ovvero quello insito nella stessa attività autorizzata.

È di tutta evidenza che in questi casi, se si muovesse il giudizio di colpevolezza unicamente con rife-
rimento ai parametri della prevedibilità ed evitabilità in relazione all’agente modello, si finirebbe per
imputare a titolo di colpa ogni evento lesivo che sia conseguenza della condotta tenuta dal suo autore,
perché tendenzialmente sempre prevedibile, considerato il tipo di attività svolta, ed evitabile astenen-
dosi dall’agire, con la conseguenza quindi di porre l’ordinamento in contraddizione con se stesso,
perché da un lato esso consentirebbe o imporrebbe di compiere l’attività, in quanto socialmente utile,
e dall’altro attribuirebbe rilevanza penale ad ogni condotta causale rispetto ad eventi dannosi che, pro-
prio perché prevedibili, avrebbero potuto essere evitati astenendosi dall’agire. Ed è quindi proprio allo
scopo di superare tale contraddizione che le suddette attività vengono sottoposte a specifiche leges artis
scritte o non scritte, fissate dalla miglior scienza ed esperienza del settore, il cui rispetto consente di
salvaguardare l’utilità sociale dell’attività, consentendone l’esercizio, ma minimizzandone il rischio.

Il giudizio di colpa in questi casi presuppone non solo la prevedibilità ed evi-


tabilità dell’evento, ma anche che si sia oltrepassato un certo limite, quello del c.d.
capitolo IX – LA COLPA 205

rischio consentito, oltre il quale l’attività non può più ritenersi autorizzata, divenendo
illecita.

Così, il medico non risponderà della morte del paziente, pur essendo questa prevedibile tenendo
la condotta ed evitabile astenendosi da essa, laddove l’intervento operatorio sia stato effettuato a
regola d’arte ed il decesso sia intervenuto per complicazioni post-operatorie; viceversa, l’esito in-
fausto dell’intervento sarà addebitabile al medico nel caso in cui lo stesso sia derivato da imperizia,
negligenza od imprudenza (ad es.: anestesia eccessiva), versandosi, in questi casi, al di fuori del rischio
consentito, i cui confini sono appunto delimitati dall’osservanza delle leges artis del settore.

A questo punto può essere opportuna una breve disamina delle più importanti que-
stioni che emergono in tema di colpa medica, l’esempio più significativo di colpa
professionale o speciale.

Occorre innanzitutto premettere che molte delle difficoltà che si rinvengono in questo settore deri-
vano principalmente dalla mancanza di apposite disposizioni che disciplinino la materia, specificando
quale sia il tipo di negligenza, imprudenza o imperizia che legittimi l’applicazione di una sanzione
penale.
Per molto tempo si è quindi discusso se il comportamento del medico dovesse essere valutato se-
condo le ordinarie regole di prudenza, diligenza o perizia, o se invece, data la complessità tecnica
dell’attività in questione, dovessero trovare applicazione, anche in sede penale, i disposti dell’art. 1176
c.c. (in tema di diligenza nell’esecuzione dell’obbligazione) e, soprattutto, dell’art. 2236 c.c., in base al
quale il professionista, quando deve risolvere problemi tecnici di speciale difficoltà, deve rispondere
soltanto per gli eventi infausti cagionati a titolo di colpa grave, con esclusione dunque sia della colpa
media che di quella lieve.
In un primo momento la giurisprudenza (Cass. Pen., Sez. IV, 29/03/1963; Cass. Pen., Sez. IV,
21/10/1970) si è orientata per l’applicazione dell’art. 2236 c.c., in considerazione del fatto che l’at-
tività medica, data la sua complessità, importa sempre la risoluzione di problemi tecnici di notevole
difficoltà. Il medico, quindi, risulterebbe responsabile per gli esiti infausti derivanti dalla sua condotta
soltanto nell’ipotesi di colpa grave, ovvero nel caso di macroscopici e grossolani errori, aventi origine
nella carenza di conoscenze generali e basilari inerenti l’attività svolta o derivanti da difetto di abilità
nell’uso degli strumenti della professione.
È evidente che tale modus procedendi creava una notevole disparità di trattamento fra il professionista
ed il normale cittadino, in quanto la colpevolezza del medico veniva valutata con estrema indulgenza
e “comprensione”, tanto che la questione fu rimessa alla Corte costituzionale che, nel dichiararla
manifestamente infondata, ebbe modo di osservare che “la disciplina in tema di responsabilità penale non
prescinde dal criterio stabilito dall’art. 2236 c.c. per l’esercente una professione intellettuale, quando la presta-
zione implichi problemi tecnici di speciale difficoltà, giacché ciò è il riflesso del principio sistematico dettato da
due opposte esigenze: quella di non mortificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie
del cliente (paziente) nell’ipotesi di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o
riprovevoli inerzie del professionista stesso” (Corte cost., sent., 28/11/1973, n. 166). La Consulta specificò
quindi che l’apprezzamento della colpa in termini di gravità risulta ragionevole solo nel caso di errori
tipicamente professionali, ovvero derivanti da difetti di perizia, ma non anche quando sia accertata la
mancanza di prudenza o di diligenza, considerata la rilevanza primaria ed incomprimibile del bene
salute del paziente.
A seguito dell’intervento del Giudice delle leggi, si è assistito col tempo ad una progressiva e sempre
più evidente “fuga” dall’art. 2236 c.c., prescindendosi pertanto, in materia penale, dalla nozione civi-
listica di inadempimento ex artt. 1176 e 2236 c.c.
206 Parte seconda – La struttura del reato

La posizione della giurisprudenza più recente si è assestata nel ritenere che l’ordinamento penale
distingue tra i vari gradi della colpa soltanto ai fini della misura della pena, non ammettendo inoltre
l’art. 43 c.p. alcuna restrizione nell’accertamento dell’elemento psicologico; pertanto la valutazione
giudiziaria della colpa professionale, a differenza di quanto avviene nel giudizio civile in tema di
risarcimento del danno, non può considerarsi limitata alla sola ipotesi di colpa grave (Cass. Pen., Sez.
IV, 21/06/2006, n. 21473).
Sul tema è recentemente intervenuto il legislatore con l’art. 3 d.l. 13 settembre 2012, n. 158,
convertito con modificazione dalla l. 8 novembre 2012, n. 189, il quale prevede che “l’esercente la pro-
fessione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate
dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”. In tali casi, “resta comunque fermo l’obbligo
di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene
debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.
In base a questa inedita disposizione, ferma la responsabilità civile ex art. 2043 c.c., il medico che,
nello svolgimento della propria attività, abbia rispettato le linee guida e le best practices potrà
rispondere dei reati colposi eventualmente commessi - omicidio e lesioni personali in primis - solo
per colpa grave, mentre non sarà punibile se ha agito con colpa lieve. In particolare, la colpa grave
sarà configurabile nell’ipotesi in cui il medico non si sia discostato dalle linee guida e dalle best practices,
quando lo imponeva la peculiare situazione clinica del malato, quando, cioè, la necessità di discostarsi
da linee guida e dalla “buone pratiche” era macroscopica, immediatamente riconoscibile da qualunque
altro sanitario al posto dell’imputato.
In una recente pronuncia la Suprema Corte ha ritenuto che la nuova normativa abbia parzialmente
decriminalizzato le fattispecie colpose in questione, con conseguente applicazione dell’art. 2 c.p.
L’innovazione esclude la rilevanza penale delle condotte connotate da colpa lieve, che si collochino
all’interno dell’area segnata da linee guida o da virtuose pratiche mediche, purché esse siano accredi-
tate dalla comunità scientifica. In sostanza, il giudice di merito dovrà stabilire se esistano linee guida
o pratiche mediche accreditate afferenti all’esecuzione dell’atto chirurgico sottoposto al suo giudizio
e se l’intervento eseguito si sia mosso entro i confini segnati da tali direttive e, in caso affermativo, se
nell’esecuzione dell’atto chirurgico vi sia stata colpa lieve o grave (Cass. Pen., Sez IV, 29/01/2013).
Il Tribunale di Milano, con ordinanza del 21.3.2013, ha sollevato questione di legittimità costituzio-
nale con riferimento alla normativa sopra richiamata (in particolare con riferimento all’art. 3, d.l. n.
158/2012) per violazione degli artt. 3, 24, 25, 27, 28, 32, 33 e 111 Cost. in quanto introdurrebbe “una
norma ad professionem delineando un’area di non punibilità riservata a tutti gli operatori sanitari che commettono
un qualsiasi reato lievemente colposo nel rispetto delle linee guida e delle buone prassi”.

Quanto alla c.d. colpa specifica, si discute se sia necessario ricorrere al parametro
dell’agente modello che informa il giudizio di rimproverabilità nella colpa generica,
oppure se la prevedibilità ed evitabilità dell’evento sia già insita nella stessa violazione
della regola cautelare scritta.
Secondo parte della dottrina (Antolisei), la positività della regola comporta che l’accer-
tamento della violazione della medesima assorba l’indagine concernente il giudizio sulla pre-
vedibilità ed evitabilità dell’evento, che sarebbe stato emesso una volta per tutte dal legislatore
al momento dell’introduzione della norma preventiva. Ai fini dell’accertamento della colpa,
risulterebbe pertanto sufficiente il riscontro dell’avvenuta violazione della norma cautelare,
nella presunzione assoluta che la sua osservanza sarebbe valsa ad impedire l’evento.

È questa la posizione anche di parte della giurisprudenza. Così, ad esempio, è stato affermato che “in
tema di colpa specifica per inosservanza della regola cautelare imposta da legge, regolamento, ordine o disciplina,

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