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INDICE
TAVOLE p.97
BIBLIOGRAFIA p.111
5
Grigia è, mio caro amico, ogni teoria,
verde l’albero d’oro della vita.
Goethe, Faust.
6
IL CHIASMA FILOSOFICO
7
contemporaneo. L’incedere claudicante della ricerca artistica
contemporanea rivela numerose affinità con la filosofia che
Merleau-Ponty auspica, tanto da elevare l’opera e l’operare
artistico a vere e proprie esperienze filosofiche. La necessità di
liberare l’operare filosofico dal dogmatismo delle prospettive già
tracciate e da strumenti decisi a priori trova un analogia con
l’operare artistico del XX secolo. Dalla fine del XIX secolo e
durante tutto il secolo successivo, il ruolo e le prospettive
dell’artista, quanto del suo operare, cambiano profondamente :
egli non seguirà più sentieri conosciuti e ben tracciati, ma
esplorerà territori nuovi e sconosciuti, che richiedono
l’invenzione di nuovi mezzi per essere attraversati.
La filosofia stessa per Merleau-Ponty necessita di un profondo
cambiamento, un ripensamento di sé stessa attraverso una
radicale ed incessante interrogazione , tanto dei suoi fini quanto
dei suoi mezzi. La filosofia ha abbandonato l’idea di cercare una
verità assoluta al di fuori del mondo in cui l’essere umano è
iscritto. <<La pittura moderna, come in generale il pensiero
moderno, ci costringe ad ammettere una verità che non somigli
alle cose, che sia senza modello esterno, senza strumenti
d’espressione predestinati, e che nondimeno sia verità>>1. La
filosofia per Merleau-Ponty è movimento, pensiero che lascia una
traccia, un segno negativo, che, come la visione del pittore, si
sedimenta nell’opera e la fa germinare. Il paragone frequente che
il filosofo francese fa con l’arte, in particolare con la pittura, è
estremamente significativo, soprattutto alla luce delle radicali
metamorfosi che l’operare artistico novecentesco ha comportato
in sé stesso, tanto nei mezzi quanto nelle tematiche. Indagare il
metodo che traccia ed indica le prospettive da seguire
sembrerebbe essere prerogativa tanto dell’arte che della
filosofia. L’operare artistico appare come il vero soggetto, ben
prima dell’opera, dell’arte novecentesca, in particolare in quella
della seconda metà del secolo. L’opera d’arte contemporanea si
presenta spesso come la scia di un operare libero da regole
prestabilite o dogmatiche, non caos, ma nuove regole, non più
tratte da un universo oggettivo che circoscrive i compiti e il
lavoro dell’artista, ma colte mediante il suo rapporto senziente e
4 M.Merleau-Ponty, Elogio della filosofia (Parigi 1953), trad.it. SE, Milano, 2008,
p.64.
2004, p.27.
6 Ibidem.
10
stesso della sua ricerca non è costante e sicuro e l’idea di
raggiungere una verità assoluta appare quindi come un
pregiudizio fittizio. La filosofia stessa per Merleau-Ponty <<non
è il rispecchiamento di una verità preliminare, ma, come l’arte, la
realizzazione di una verità>>7. La filosofia, ricollocata nel suo
aspetto operativo verso mete da indagare piuttosto che nel
raggiungimento certo e nella contemplazione di un obbiettivo
prestabilito ed oggettivo, una presunta verità assoluta, aperta ad
una presunta coscienza disincarnata. Una filosofia che è un
operare incessante, un flusso continuo che non si ferma, come
l’artista che nel suo fare insegue per tutta la vita l’opera che non
raggiungerà mai. In questo senso dobbiamo interpretare
l’affinità profonda che il filosofo francese vede tra la filosofia e
l’arte, e con la pittura in particolare. L’esperienza dell’operare
pittorico è affine, per Merleau-Ponty, alla filosofia che auspica,
nel carattere incessante del suo movimento incerto e per la sua
profonda adesione al mondo originario della fede percettiva. Van
Gogh diceva che il miglior quadro da lui eseguito fosse quello che
stava per dipingere, così ,il vero filosofo, vive della sua
incessante ricerca, nell’interrogazione continua e mai veramente
compiuta. La filosofia non ha un movimento rapido e sicuro ma
un passo incerto, un andatura claudicante, <<è inutile infatti
contestare il fatto che la filosofia zoppica>>8. Il claudicare di cui
parla il filosofo francese non è un difetto ma una virtù, acquisita
nell’incedere incerto della ricerca. L’interrogazione per Merleau-
Ponty deve tornare ad essere centrale e radicale nell’operare
filosofico, deve perdere quel carattere di presunta assolutezza
che ha conservato da Platone fino ad Hegel. Merleau-Ponty
interroga radicalmente l’interrogazione stessa, se << la
peculiarità dell’interrogazione filosofica è di volgersi su di essa,
di chiedersi cos’è interrogare cosa è rispondere. Non appena è
posta ,tale domanda alla seconda potenza non potrebbe essere
cancellata. Ormai non ci si potrà comportare come se non ci fosse
Milano, p.138.
12
dialettica sostanziale che non permetteva nessuna interazione
tra loro. Nella filosofia di Merleau-Ponty non esiste il rischio che
verità contradittorie possano collidere o stagnare perché
convivono in un rapporto funzionale tra loro, come il buio più
profondo della notte abbraccia la luce lontana delle stelle. << Ma
se uno non spera, non troverà l’insperabile , perché per lui sarà
introvabile ed inaccessibile.>>10, afferma Eraclito. La possibilità
di trovare l’insperabile apparirebbe inscritta per il filosofo greco
nello sperare stesso, non oltre, ma al suo interno. Un grande
artista, Paul Klee, pensava che il compito dell’arte non fosse
quello di riprodurre ciò che è visibile ma rendere visibile ciò che
non sempre lo è. L’invisibile che dimora tra le trame del visibile
come l’infinito matematico si nasconde tra i confini dei numeri
interi. Le cose che vediamo o i numeri che contiamo, non sono
solo una somma di unità visibili, esistono anche le loro
articolazioni, gli spazi profondi che separano ed uniscono le cose
che vediamo simultaneamente, o un tre ad un quattro.
L’invisibile nel visibile, l’infinito tra le trame di un tempo finito.
Esiste davvero un limite invalicabile che rende statiche polarità
contrarie? Eraclito, che profuma di mistero come il cielo stellato,
parlava di << opposto concorde e dai discordi bellissima armonia
>>11 , ed affermava, come un oracolo, che << il dio è giorno-notte,
inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame: si trasforma
continuamente come fa il fuoco quando si mescola ai profumi e
prende il nome della sensazione piacevole che ognuno di essi ci
dà >>12. Il fuoco, elemento distruttore e purificante allo stesso
tempo, viene eletto da Eraclito ad incarnazione del moto divino.
Il movimento, l’energia, sembrerebbe nascere nel profondo
intrecciarsi dei contrari, presunti nemici, come il gioco è
generato dallo scontro tra giocatori, o la forza magnetica e
l’energia elettrica nascono dall’incontro tra polarità opposte. La
dialettica in Merleau-Ponty è movimento tra poli opposti e tale
opposizione è sempre funzionale e mai sostanziale. Nella linea
12 Op.cit. , p.73.
13
libera tracciata dal pensiero di Merleau-Ponty le polarità
opposte, apparentemente contrarie, si rivelano intrecciate in un
chiasma continuo, in un rapporto ambiguo e osmotico tra loro,
che siano le nozioni di soggetto e oggetto, dell’anima e del corpo,
del visibile e dell’invisibile o del riflesso e dell’irriflesso. << I
filosofi più risoluti vogliono invece sempre i contrari : realizzare
ma distruggendo, sopprimere ma conservando >>13. Il filosofo
francese opera un superamento di ogni filosofia dualistica,
oltrepassando polarità classiche come quelle del soggettivismo e
dell’oggettivismo, della coscienza e della cosa, dell’interiore e
dell’esteriore, del pensiero e della percezione o dell’empirismo e
dell’intellettualismo. << Il nostro secolo si distingue per un
associazione del tutto nuova tra il materialismo e lo
spiritualismo, fra il pessimismo e l’ottimismo, o piuttosto per
l’oltrepassamento di queste antitesi(…)>>14. L’oltrepassamento
che opera Merleau-Ponty è probabilmente un guardare prima
più che un guardare oltre, un saper vedere nel luogo remoto e
selvaggio, pre-riflessivo e pre-oggettivo, dove queste nozioni
non sono ancora state partorite per portarle così alla luce
edificandole nel giorno. Il superamento dell’antinomia tra
polarità contrarie viene effettuato da Merleau-Ponty non tanto
attraverso un sapere analitico ma mediante una fede, la fede
percettiva. La fede percettiva è quell’evidenza, senza bisogno di
alcuna prova , che esistiamo nel mondo, mediante la nostra
esperienza carnale, prima di ogni pensiero o analisi su di esso o
su di noi. Una fede non nel senso di decisione, ma nel senso che è
originaria, anteriore ad ogni tesi sul mondo. << Ma tale fede ha
questo di strano, che se si cerca di articolarla in tesi o enunciato,
se ci si chiede che cos’è noi, che cos’è vedere e che cos’è cosa o
mondo, si entra in un labirinto di difficoltà e contraddizioni >>15.
In questo mondo selvaggio che il filosofo francese interroga
profondamente non esiste ancora una reale separazione tra
soggetto ed oggetto, come tra interiorità ed esteriorità, ma un
20 Ibidem.
19
una certa distanza la fisica ci dice che il tempo del primo è
dilatato rispetto al punto in cui è collocato il secondo;
nell’esperienza che viviamo sarebbe però difficile pensare che
nell’uomo che vedo in lontananza il tempo scorra, per lui, in
modo differente da quello che io percepisco. Il tempo che la fisica
stabilisce sembrerebbe ignorare e dimenticare il tempo reale che
percepiamo, che viviamo con il nostro corpo, creando così un
tempo mitico. <<E’ sorprendente vedere Einstein degradare
come “psicologia” la nostra esperienza del simultaneo, la quale si
effettua grazie alla percezione dell’altro e all’intersecarsi dei
nostri orizzonti percettivi e di quelli degli altri : per lui non c’è
motivo di dare valore ontologico a questa esperienza, in quanto
esso è puro sapere d’anticipazione o di principio e si fa senza
operazioni, senza misure effettive>>23. Può esistere un tempo,
che non sia originariamente il mio tempo, quello che io vivo con
il mio corpo senziente-sensibile? Un tempo oggettivamente dato
potrebbe veramente esistere senza lo sfondo del nostro tempo
primigenio e originario, << l’unico che sia successione, divenire,
durata, insomma l’unico che sia veramente tempo-di cui abbiamo
l’esperienza o la percezione prima di ogni fisica? >> 24 .
L’esperienza che abbiamo del tempo vissuto e l’idea del tempo, il
mondo e la vita che viviamo ed il pensiero sulla vita e sul mondo,
sono temi che ci accostano al campo che Merleau-Ponty indaga,
quel punto da cui germinano tutti i mondi, quel mondo carnale e
originario che precede ogni tesi : il mondo che viviamo
nell’esperienza percettiva. Il filosofo francese, influenzato dalla
fenomenologia di Husserl, assegna alla filosofia il compito
primario di indagare il mondo primordiale che si realizza
nell’esperienza percettiva, un mondo pre-teoretico e pre-
oggettivo, sempre presente prima di ogni riflessione.
<< A partire dal momento in cui l’esperienza, cioè l’apertura al
mondo di fatto, è riconosciuta come il cominciamento della
coscienza, non c’è più modo di distinguere un piano delle verità a
22 Op.cit. , p.257.
26 Op.cit. , p.97.
28 Op.cit. , p.188.
30 Op.cit. , p.15.
31 Op.cit. , p.410.
32 Op.cit. , p.401.
22
l’essenza dall’esistenza. Secondo Merleau-Ponty è necessario che
la filosofia ricollochi il piano delle essenze sul piano
dell’esistenza, perché né l’essere umano, né il mondo, possono
essere compresi veramente senza indagare la loro “fatticità”33.
<< La prima consegna che Husserl impartiva alla fenomenologia
esordiente, di essere cioè una “psicologia descrittiva” o di
“ritornare alle cose stesse” è anzitutto la sconfessione della
scienza(…). La scienza non ha e non avrà mai il medesimo senso
d’essere del mondo percepito, semplicemente perché esso ne è
una determinazione o una spiegazione >>34 . Merleau-Ponty
pensa che il rapporto che esiste tra il mondo vissuto nella nostra
esperienza e le determinazioni scientifiche, che ne sono una
conseguenza, sia simile a quello che c’è tra un paesaggio e la
geografia. Il rapporto che sembra delinearsi tra il mondo dei
concetti e quello dell’esperienza è simile a quello che nella storia
della cartografia occidentale c’è tra la pratica e la teoria.
<< La storia della cartografia occidentale è storia di una
competizione in cui la pratica balza in testa alla teoria, e la teoria
cerca di recuperare>>35 . Non potremmo comprendere l’azzurro
del Mediterraneo sulle cartine geografiche se non avessimo
l’esperienza del mare. Afferma Merleau-Ponty : << l’esperienza
anticipa una filosofia così come la filosofia è un esperienza
delucidata>>36. L’ideologia oggettivistica postulata dalle scienze
viene confutata da Merleau-Ponty, non nell’intento di creare un
pensiero soggettivistico o anti-scientifico bensì nella volontà di
indagare e revisionare ontologicamente le nozioni di soggetto e
di oggetto. Non esiste nel filosofo francese l’idea di una rivincita
ed una prevalsa del soggettivo sull’oggettivo, dell’interiore
sull’esteriore, dell’invisibile sul visibile o dello spirituale sul
materiale. Nella sua filosofia non esiste una netta ed
intransigente separazione tra queste polarità ma un rapporto di
34 Op.cit. , pp.16-17.
41 Ibidem.
24
non di sapere. La fede percettiva è quell’evidenza del nostro
esistere nel mondo, senza prove o analisi, offerta dalla nostra
esperienza carnale. La realtà che vediamo non è mai postulata
vera mediante un analisi empirica o una riflessione intellettuale
che operiamo su di essa, l’esperienza del nostro corpo che
commercia con il mondo è originaria, anteriore ad ogni pensiero
o analisi sul mondo stesso. La necessità del filosofo francese e
della fenomenologia di indagare e attingere a questo mondo
selvaggio e barocco non nasce dalla volontà di ricollocare il
pensiero e l’essere umano in un luogo originario e puro, una
sorta di Eden a cui potremmo aspirare un ritorno. Tutta la
ricerca fenomenologica e merleaupontiana sono imbevute di
profonda razionalità e se la loro riflessione si vuole collocare nel
mondo che viviamo e non nel mondo teoretico e oggettivo è
perché in questo vede un accesso alla verità. Nelle note di lavoro
de Il visibile e l’invisibile il filosofo paragona l’apertura al mondo
che ci offre la percezione al taglio con cui il chirurgo incide il
paziente, l’apertura ottenuta tramite l’operazione ci fa così
vedere un mondo carnale di organi in pieno funzionamento 42.
<< Cercare l’essenza della percezione significa dichiarare che la
percezione è non presunta vera, ma definita per noi come
accesso alla verità >> 43. Se la percezione può essere definita
come accesso alla verità è perché << il segreto del mondo che
noi cerchiamo deve necessariamente essere contenuto nel mio
contatto con esso >>44. Il mondo della percezione come apertura
da cui spiare l’originario, l’essenza dell’essere umano e del
mondo, perché è qui che avviene il contatto e il chiasma tra loro,
è qui il luogo dove non sono ancora separati. La filosofia di
Merleau-Ponty ha l’esigenza di ritornare ad un sapere
primordiale, prima di ogni coscienza ed oggettivazione.
Interrogare questo strato grezzo di sensibile, immergersi
attraverso questo mondo selvaggio che si rivela, sembrerebbe
essere uno dei compiti che tanto la fenomenologia di Husserl che
53 Op.cit. , p.154.
30
la sua matrice, ciò da cui sgorga il nostro essere nel mondo. Il
corpo è lo sfondo latente su cui si proietta lo spettacolo della
visione e questa sua possibilità di dissimularsi è possibile solo
grazie alla sua profonda inerenza al mondo stesso, infatti << le
cose sono un suo annesso o un suo prolungamento, sono
incrostate nella sua carne, fanno parte della sua piena
definizione, e il mondo è fatto della stoffa del mio corpo >>54.
Tra il tessuto di cui è tramato il nostro corpo e gli elementi che
sentiamo, vediamo e tocchiamo nel mondo esiste un rapporto di
profonda intimità, come tra l’acqua fresca che bevendo sentiamo
scomparire all’altezza della trachea e la stessa acqua dentro la
bottiglia da cui abbiamo appena bevuto. Questo legame ambiguo
del corpo con il mondo permette di rivendicare il sentire come
problema centrale della riflessione filosofica, in quanto <<
l’oggetto percepito e il soggetto percipiente devono il loro
spessore al sentire>>55. La missione fondamentale che tanto la
fenomenologia di Husserl quanto la filosofia di Merleau-Ponty
stabiliscono come obbiettivo primario per la riflessione filosofica
è il ritorno dell’essere umano alla realtà dell’immediato e del
mondo vissuto. Il mondo non è ciò che creo tramite le mie
rappresentazioni ideali ma è il mondo stesso che vivo prima di
ogni tematizzazione. Merleau-Ponty vuole ricollocare il pensiero
in quell’ordine pre-teoretico e pre-oggettivo da cui tutte la
oggettivazioni derivano ed in cui trovano giustificazione e senso.
Nel pensiero di Husserl l’oggettività logica nasce dall’oblio
dell’intersoggettività carnale che dimentica sé stessa.
L’intersoggettività carnale, seppur condizione originaria, si
instaura veramente solo con la nascita dell’oggettività logica. Il
pensiero oggettivo ci allontana violentemente dall’esperienza
percettiva perché nasce solo a condizione che questa venga
dimenticata. L’esperienza percettiva che viviamo con il nostro
corpo, con lo spazio, con il tempo o con il mondo, si offusca e
diventa latente, trasferendosi così nel mondo delle idee :
nascono allora l’idea di soggetto, dell’oggetto, del tempo o del
p.19.
56 Ibidem.
32
percezione, <<un mondo vero ed esatto >>57. L’idea stessa di
ragione dovrebbe essere riformulata, accogliendo in sé
l’esperienza dell’irragionevolezza, se è vero che << la più alta
ragione confina con la non-ragione >>58 . Come la ragione pura
confina con la non ragione così il non sapere è l’accesso più
profondo al sapere stesso, non per qualche forma di scetticismo
nei confronti della verità ma per la consapevolezza che la ricerca
della verità trascende e sfugge ad ogni sapere determinato e
mezzo prestabilito. Ancora una volta nozioni tradizionalmente
pensate in antitesi e distanti tra loro non sono divise ma
funzionali ad un movimento che si produce. Merleau-Ponty
rileva come sia la scienza che certa filosofia abbiano contribuito
a creare una dicotomia tra il sapere ed il non sapere, tra
l’interiore e l’esteriore, tra il corpo e l’anima, tra una realtà
materiale ed una realtà spirituale. Il corpo umano viene
analizzato nelle sue condizioni meramente biologiche, visto
come un fascio di meccanismi tra i meccanismi, un oggetto tra gli
oggetti del mondo. Il filosofo francese rifiuta categoricamente
dualismi dogmatici e intransigenti tra polarità
pregiudizievolmente in contraddizione. La divisione netta e
intransigente tra realtà materiale e realtà spirituale, tra corpo e
anima, che tanto certo pensiero che certa scienza hanno
sembrato tracciare, appare come pregiudizievole nel pensiero di
Merleau-Ponty. L’oltrepassamento che opera Merlau-Ponty nella
sua filosofia tra queste polarità non è una conciliazione degli
opposti o un loro superamento, quanto invece un ricercare nel
luogo primordiale dove queste nozioni sono in contatto, dove
vivono ancora in un chiasma che le rende inscindibili. Come
visto, tale reversibilità tra polarità pensate come opposte,
avviene innanzitutto nell’esperienza che abbiamo con il nostro
corpo senziente-sensibile, vedente-visibile, toccante-toccato,
soggetto ed oggetto. << Il nostro secolo ha cancellato la linea di
separazione tra il “corpo” e lo “spirito” e vede la vita umana
come spirituale e corporea da cima a fondo, sempre appoggiata
sul corpo, sempre interessata, sin nei suoi modi più carnali, ai
57 Ibidem.
60 Op.cit.. , p.217.
61 Op.cit.. , p.237.
34
confronti della sua esperienza62. Per Merleau-Ponty ricollocare il
pensiero e l’essere umano sul piano dell’esistenza, del
contingente, vuol dire rivendicare la centralità dell’esperienza
che viviamo, il nostro essere carnali e senzienti piuttosto che
coscienze disincarnate, il nostro essere irrimediabilmente al
centro della nostra esperienza e non marginalmente spettatori.
Vedremo meglio nel secondo capitolo come l’apparente
dicotomia tra l’ interiore e l’esteriore, tra spirituale e materiale,
tra anima e corpo diventi ambigua proprio nell’esperienza
vissuta del corpo proprio. Come potremmo infatti separare nell’
essere umano che ride o che piange ciò che è l’interiore da ciò
che è l’esteriore?
37
si dovrebbe, in tutta chiarezza, restituire il contesto >> 63 .
Tenteremo di esplorare in questo capitolo lo spazio selvaggio
dove quelle nozioni così chiare nella teoria e nella designazione
dei nomi diventano invece ambigue nell’esperienza vissuta, come
il confine tra il giallo ed il verde, tanto localizzabile ed esatto nel
pensiero trasmesso dalla nostra tradizione culturale quanto
profondamente incerto se si guardano le foglie illuminate dal
sole o quelle che vanno scolorendosi. Il chiasma che Merleau-
Ponty scorge nell’esperienza offerta dal nostro corpo vissuto tra i
concetti dogmatici e tradizionali di soggetto ed oggetto, res
cogitans e res extensa, interiore ed esteriore o io e mondo, ci
consente di tracciare un parallelo con quello sconfinamento
violento ed irreversibile tra arte e vita, tra opera ed operare, tra
artista e spettatore, che caratterizza e definisce profondamente
tutto l’operare artistico novecentesco. L’operare artistico
contemporaneo, a partire dalle avanguardie storiche, vuole
distruggere quella barriera tra arte e vita, perché avvenga tra
questi un osmosi radicale che permetta così all’opera di aprirsi al
mondo e al mondo di entrare nell’opera, accettando
inevitabilmente la contingenza insita nella vita e nel mondo.
Tale sconfinamento nel mondo e nella vita contagerà tutto
l’operare artistico contemporaneo e forse potrebbe già essere
individuato nella scelta dei pittori impressionisti di abbandonare
il luogo tradizionalmente adibito al loro lavoro, lo studio,
scegliendo così di dipingere en plen air, all’aperto, registrando
nelle loro opere non più visioni idealizzate ma incalcolabili ed
imprevedibili riflessi di luce solare che colorano diversamente
ogni cosa. La linea , che tradizionalmente in pittura imponeva
confini ai colori e tagliava una forma da uno sfondo scompare nei
quadri impressionisti. Questo chiasma tra arte e vita avvenuto
nell’operare artistico contemporaneo si è tradotto in una grande
vastità ed eterogeneità di mezzi e di poetiche durante tutto il XX
secolo fino ad oggi. In molte di queste, come vedremo, sarà
centrale il ruolo che il corpo assume nella fenomenologia
dell’operare artistico, in particolare attraverso la fisicità
radicalizzata dall’azione rituale dell’artista nella relazione con
l’opera, con lo spazio dell’evento o con lo spettatore.
64 Op.cit. , p.55.
39
sempre >>65. Ricollocare al centro dell’esperienza filosofica la
centralità dell’esperienza vissuta e della percezione vuol dire per
il filosofo francese tentare di comprendere la relazione fra il
corpo e l’esistenza, perché è questo lo spazio dove avviene
l’osmosi tra loro. << Né il corpo né l’esistenza possono essere
considerati come l’elemento originale dell’essere umano, giacchè
entrambi si presuppongono vicendevolmente e il corpo è
l’esistenza cristallizzata o generalizzata, e l’esistenza un
incarnazione perpetua >>66. Il corpo vissuto, Leib, è inseparabile
dal mondo percepito, dalla dimensione spaziale e temporale che
abita. Lo stesso atto percettivo secondo Merleau-Ponty deve
essere radicalmente ripensato, ridefinendo le categorie di
soggetto e oggetto così come di interiore ed esteriore.
<< Non appena si cessa di pensare la percezione come l’azione
del puro oggetto fisico sul corpo umano e il percepito come il
risultato “interiore” di questa azione, sembra che si disgreghi
ogni distinzione del vero e del falso, del sapere metodico e dei
fantasmi, della scienza e dell’immaginazione >> 67 . Nell’atto
percettivo è incarnata un originaria comunione con il mondo,
una consustanzialità carnale che cancella i confini stabili e chiari
tra l’io , l’altro e il mondo. << Come l’uomo naturale , noi ci
poniamo in noi e nelle cose , in noi e nell’altro, nel punto in cui ,
per una specie di chiasma, diveniamo gli altri e diveniamo
mondo >>68 . Per il filosofo francese il rapporto tra soggetto ed
oggetto nell’esperienza percettiva è ambiguo e reversibile come
la relazione toccante-toccata tra due mani che si incontrano in un
contatto. Nella relazione ambigua che viviamo con il nostro
corpo senziente-sensibile, vedente-visibile, è paradossale come
questo sia qualcosa che ci identifica profondamente come noi
stessi ma nello stesso momento viene percepito come qualcosa
che non ci appartiene, che continuamente ci sfugge. Il corpo è per
noi matrice del mondo ma è anche vero che è consustanziale a
66 Op.cit. , p.234.
68 Op.cit. , p.176.
40
quel mondo stesso che partorisce, e che in fondo, noi e il mondo,
siamo della stessa stoffa, del medesimo fango. L’artista
giapponese Kazuo Shiraga, nel 1955, alla prima manifestazione
del gruppo Gutai, presenta Challenging Mud, operazione artistica
in cui si rotola nel fango, volendo mostrare con quest’azione
quell’ambiguità che esiste tra la sua lotta contro la materia ed il
suo stesso essere materia. Il fango, la terra rossa, è l’elemento
con cui nella Genesi viene plasmato e modellato Adamo a nostra
immagine e somiglianza, e nelle sue narici venne soffiato il ruach,
l’alito vitale che gli dona la vita. Il fango ed il soffio, la terra e
l’aria, sono simboli antichissimi del rapporto tra materia e
spirito, anima e corpo. La parola italiana anima viene dal latino
anima, che deriva dal greco anemos, che vuol dire soffio. La
parola greca psykhe viene dal verbo psykho, respirare, soffiare.
L’artista italiano Giuseppe Penone realizza nel 1970 un opera
intitolata Soffio, dove viene evocata quell’antica analogia tra il
respiro e l’anima, tra il fango e la carne. Penone realizza un calco
in negativo del suo corpo, una traccia del suo respiro nella
materia plasmabile, la terracotta, evocando così il corpo
mediante la sua assenza. La terracotta è il materiale con cui da
tempo immemore si costruiscono vasi, contenitori
profondamente connessi con la sostanza che accolgono. La
scultura da un lato ricorda un grande vaso panciuto e dall’altro
mostra la forma dei flussi d’aria del corpo dell’artista impressi
nella terracotta. L’importanza attribuita al processo con cui
l’artista crea l’opera, all’operare, è documentata e testimoniata
attraverso una serie di fotografie e didascalie. L’aria è
quell’elemento invisibile ed impalpabile che incarna quella
continua osmosi tra il nostro corpo ed il mondo, permettendo la
vita. In molte discipline orientali, dove il corpo è la stanza in cui
si educa lo spirito, l’azione del respirare ha un ruolo centrale. Nel
respirare è incarnata quell’osmosi tra noi ed il mondo e non
potremmo mai separare l’essere incarnato e senziente dal
mondo sensibile e materiale che abita, così nell’esperienza
percettiva che viviamo, carnale ed originaria , tale distinzione è
sconosciuta. Merleau-Ponty cerca al di sotto della relazione
classica tra soggetto e oggetto, tra res cogitans e res extensa, tra
io e mondo, e vuole indagare quello spazio selvaggio, prima di
ogni idea, dove questi concetti non sono ancora mai nati. Da
41
questo luogo selvaggio, dalle sue rovine e dal suo oblio , è
partorito ogni sapere. Il tempo con cui contiamo anni, ore o
minuti, il tempo dello scienziato, nasce dall’oblio dell’unico
tempo possibile, il tempo originario che viviamo con il corpo.
Nella critica che Merleau-Ponty muove all’idea di un tempo
oggettivo, un tempo che dimentica il tempo originario che
abitiamo nella percezione, è implicita anche la critica all’idea di
uno spazio assoluto ed oggettivo. << Non si deve dire che il
nostro corpo è nello spazio, né d’altra parte che è nel tempo. Esso
abita lo spazio e il tempo >>69. Per Merleau-Ponty l’essere umano
non è solo inscritto in un mondo che lo circonda ma possiede
anche un suo mondo, quello del suo spazio corporeo e delle sue
percezioni, dove poi quest’ultime ricadono. << Tutt’al più, se si
vuole rendere giustizia alla prospettiva della percezione su sé
stessa , si dirà che ciascuno di noi ha un mondo privato : questi
mondi privati sono “mondi” unicamente per il loro titolare, non
sono il mondo. Il solo mondo, cioè il mondo unico, sarebbe koinos
kosmos, e non è in esso che sboccano le nostre percezioni >> 70.
Lo spazio oggettivo nasce dalle macerie, dalla cenere di quel
fuoco spento che è il nostro spazio primordiale, che misuriamo
naturalmente attraverso la percezione del corpo. << Sotto lo
spazio oggettivo , nel quale in definitiva il corpo prende posto,
l’esperienza rivela una spazialità primordiale di cui la prima non
è se non l’involucro e che si confonde con l’essere stesso del
corpo>>71. Il corpo non è una semplice porzione di spazio ma la
matrice di ogni spazio esistente e per noi non sarebbe possibile
vivere lo spazio o il tempo senza essere in un corpo.
L’espressione l’essere umano incarna una comunione tra un
verbo, l’essere, ed un aggettivo, l’umano. L’essere umano è un
essere vivente, una delle manifestazioni della vita, principio
universale incarnato nel caso particolare in cui esiste, come il
microbo o il filo d’erba, il fiore o l’ape, la farfalla o l’elefante.
Perché non possiamo dire però essere arboreo o essere felino, ma
72 Op.cit. , p.149.
74 Op.cit. , p.174.
76 Op.cit. , p.215.
47
tecnica sull’opera come espressione massima della sua abilità e
caratteristica dell’ operare artistico in genere.
Il Novecento è un secolo in cui sembra sfuggire l’idea di un
controllo umano , razionale e calcolabile sul mondo, ciò si
riflette nella storia, nella società, nella scienza, nella filosofia e
nell’arte. Le due guerre mondiali combattute con armi mai viste
prime, l’inarrestabile sviluppo tecnologico, Freud e l’inconscio, la
teoria della relatività di Einstein, l’energia nucleare, la teoria del
Caos, l’esplorazione del nostro sistema solare, sono solo alcuni
esempi che ci aiutano a capire quanto velocemente nel XX secolo,
come mai prima, avvengano radicali trasformazioni, scoperte ,
destinate a cambiare il tessuto della società umana ed
inevitabilmente la visione stessa dell’uomo sul mondo.
Nell’operare artistico del XX secolo, in particolare dopo la
seconda guerra mondiale, molti artisti abbandonano quell’idea di
controllo sulla propria opera, così l’incalcolabile, il contingente,
traccia e sintomo della vita che sconfina nell’opera, si insinua
nell’operare artistico, nell’evento, o nella relazione che nasce tra
l’opera e lo spettatore. Lo sconfinamento tra arte e vita,
promosso fin dalle avanguardie, influenza tutto l’operare
artistico novecentesco, aprendo così l’opera d’arte al puro
accadere, all’atto che crea o all’evento, in definitiva a
quell’irrimediabile contingenza ed eterogenesi dei fini a cui è
esposta la vita come l’opera d’arte contemporanea.
A partire dalla fine della seconda guerra mondiale alcuni artisti
iniziano ad enfatizzare l’operare artistico ben prima dell’opera,
gli atti con cui si crea, rendendoli vere e proprie azioni rituali
compiute spesso con il loro stesso corpo.
In Giappone e negli Stati Uniti nascono così movimenti artistici
come l’Action Painting e il gruppo Gutai, che privilegiano il gesto,
il movimento, l’interferenza nel loro operare, la perdita del
controllo cosciente e razionale sulla propria opera, in contrasto
con le tradizioni artistiche precedenti. Jackson Pollock è uno dei
primi artisti le cui opere sono tanto conosciute quanto la tecnica
e l’operare che li partorisce : il dripping. L’operare frenetico, il
danzare di Pollock intorno alla tela, fu registrato in un film del
1950 realizzato da Hans Namuth, rimasto nella storia dell’arte al
pari dei quadri del pittore americano. Il corpo, nella tecnica
inventata da Pollock per dipingere le sue tele, assume un ruolo
48
centrale : con il suo movimento attraverso lo spazio ed il tempo
rompe quella barriera tra l’opera e l’operare, tra la tela e la vita,
entrambe irrimediabilmente esposte all’imprevedibilità del puro
accadere. I lavori di Pollock sono le tracce di un evento come
l’universo è traccia di un esplosione che risuona ancora oggi.
Pollock crea quadri dove la distinzione forma-sfondo non è
ancora mai nata perché vengono partoriti da un operare in cui il
controllo e l’incontrollato non sono mai in antitesi, ma in
armonia come gli opposti eraclitei. Il dripping di Pollock
influenza notevolmente la poetica e le azioni del gruppo Gutai,
radicalizzando l’idea della tela come luogo di azione, dove l’atto
che crea, investito di forte ritualità, è più significativo dell’opera
stessa prodotta. Un aspetto interessante dell’interpretazione che
il movimento artistico giapponese fa dell’invenzione del dripping
è sua la inevitabile lettura attraverso codici extraeuropei che
permise a questi artisti di cogliere particolari sfumature
nell’operare artistico del pittore americano. Il dripping di Pollock
negli Stati Uniti e le azioni del gruppo Gutai in Giappone,
contribuirono a ridefinire profondamente il rapporto tra il
processo e il risultato nell’opera d’arte , la relazione tra l’operare
e l’opera stessa. L’Action Painting ed il gruppo Gutai , nati
entrambi negli anni traumatici del dopoguerra, rivelano
profonde affinità nella loro poetica: nell’importanza accordata
all’operare più che al risultato, nella ritualità dell’azione concreta
e centrale che il corpo dell’artista svolge nella realizzazione
dell’opera, nell’accogliere la contingenza partorita dal puro
accadere. I temi del corpo e della materia, dell’azione e della
contingenza in relazione all’opera d’arte, convivono nel cuore
della ricerca artistica dell’Action Painting come del gruppo Gutai
ed influenzeranno tutto lo sviluppo successivo dell’operare
artistico novecentesco. L’opera e l’operare artistico,
profondamente interrogati durante tutto il XX secolo, la via
claudicante e incerta che sembrano tracciare, si scontrano con
tutte quelle convenzioni di una tradizione che, per secoli, è stata
convinta di detenere il senso ed il significato dell’opera d’arte in
maniera assoluta e definitiva. L’idea di una verità assoluta
sull’opera d’arte, la certezza granitica nei mezzi per raggiungerla,
possono essere paragonate a quell’idea di verità oggettiva e
chiara che Merleau-Ponty cerca di distruggere nella sua filosofia.
49
Abbiamo visto nel primo capitolo la profonda affinità, nel moto
claudicante, tra l’operare di Cézanne e la via filosofica che
Merleau-Ponty percorre. << È certo che la vita non spiega l’opera,
ma è altrettanto certo che esse comunicano. La verità è che
quell’opera da fare esigeva quella vita >> 79 , dice Merleau-Ponty a
proposito dell’opera di Cézanne, e questa profonda intuizione del
filosofo francese potrebbe essere applicata a moltissime opere
d’arte del Novecento. L’idea di una verità che vive incarnata
nell’operare incessante, nella continua interrogazione, minaccia
inevitabilmente l’idea di una verità assoluta e stabile, non
mutevole ma statica e stagnante. La verità per Merleau-Ponty
esiste veramente solo nell’operare perpetuo, nell’interrogazione,
invece che nell’idea del raggiungimento dell’opera e di una verità
certa. L’idea di una verità oggettiva, dogmatica e chiara, è morta
tanto nella filosofia come nell’arte. Il pensiero e l’opera d’arte,
seppur pensabili e visibili, conservano nella loro apertura al
mondo, nell’ essere stati espressi, germi di non pensato ed
invisibilità, come gli iceberg, di cui vediamo solo una minima
parte in superficie ed il resto è invisibile ed in profondità. Il
pensiero filosofico e l’opera d’arte sono espressioni esemplari
dell’amicizia e della funzionalità profonda che intrattengono tra
loro il pensato e l’impensato ed il visibile e l’invisibile. Come
abbiamo visto nel primo capitolo Merleau-Ponty opera con la sua
filosofia un superamento di ogni residuo dualistico tra polarità
pensate tradizionalmente come opposte, come interiore ed
esteriore, corpo ed anima, visibile ed invisibile. Fin dal primo
manifesto dell’arte Gutai l’intenzione degli artisti giapponesi è di
coniugare lo spirito umano e la materia, influenzati anche dalle
antiche pratiche zen, elaborano azioni spettacolari che
enfatizzano il momento della creazione, il movimento che crea
ben prima dell’opera che nasce. Nel 1956 Saburo Murakami
presenta Breaking through many papers screens, un azione dove
con un salto attraversa e frantuma la barriera di sei pannelli di
carta a dimensione umana, lavoro che dimostra quanto la
divisione tra l’opera e l’artista nel momento della creazione
fosse ormai effimera ed impalpabile. In un paese come il
Giappone, dove il senso della tradizione è profondamente vissuto
51
controllo, esaurire il proprio percorso nel progetto dell’artista
>>80, nota Achille Bonito Oliva. La materia, il colore, la ritualità
nell’operare, l’azione, la contingenza irrimediabile a cui si espone
l’opera, come la vita, sono temi ricorrenti e centrali di molta
poetica artistica dopo la seconda guerra mondiale. Pollock inizia
a sperimentare la sua nuova tecnica per dipingere tra la fine
dell’estate ed il primo autunno del 1947, anno decisivo anche per
l’affermazione di tutto il movimento dell’Action Painting, termine
coniato dal critico americano Harold Rosenberg ed espressione
che evoca quanto queste operazioni artistiche fossero
strettamente connesse all’azione del corpo, al movimento, al
gesto, con cui gli artisti creavano le loro opere. In Europa nel
1948 Michel Tapiè definisce con il termine informel la pittura che
andava sperimentando, affidata alla materia-colore e
all’automatismo del gesto. Nel 1949, negli Stati Uniti, Pollock
creava con i suoi movimenti, che facevano gocciolare la vernice
sulla tela, il famoso quadro N.01. Shimamoto nel 1950, in
Giappone, con un azione intitolata Works, sparava sulla tela
cilindri colmi di vernice, abbandonando così la sua opera alla
contingenza del puro accadere. Una pittura non più certa del suo
risultato ma aperta irrimediabilmente alla contingenza del suo
operare mediante la gestualità esasperata del corpo dell’artista.
L’operare artistico, come qualsiasi atto di un uomo, è indivisibile
dal corpo che opera, che si muove ed interagisce con lo spazio e
con il tempo, con le cose o con l’altro. Tanto nell’ Action Painting
come nel gruppo Gutai è evidente il ruolo centrale che assume il
corpo dell’artista, i suoi movimenti e le sue azioni durante
l’operare. Uno degli aspetti centrali delle azioni che compiono
questi artisti durante il loro operare è nel carattere rituale dei
gesti che compiono con il loro stesso corpo. I movimenti del
corpo, la sua danza intorno alla tela, sono per Pollock il mezzo
per entrare in contatto profondamente con il suo lavoro, come i
dervisci turchi raggiungevano l’estasi mistica e la divinità
attraverso una danza turbinante, girando su sé stessi come
invasati.
85 Op.cit. , p.27
56
l’opera, ma accettando la vita, il caso, che entrava in essa. La
contingenza, il puro accadere, la vita vissuta, incalcolabile nella
sua eterogenesi, il mondo in ogni sua forma, anche quella
apparentemente più infima, come la polvere 86 , entreranno
nell’operare artistico e nell’opera d’arte a partire dal XX secolo.
La purezza dell’evento e dell’atto, l’inaspettato , l’incalcolabile
che accade, non sono tematiche che entrano nell’operare
artistico solo come sfida ai procedimenti tradizionali del fare
artistico, ma sono anche intrise di un certo esoterismo e
profonda spiritualità, come certi esercizi apparentemente
insensati ed irrazionali del buddhismo zen. Tutta l’opera e le
teorie musicali ed artistiche di John Cage sono profondamente
attraversate e segnate dall’incontro con il buddhismo zen e
dall’esperienza con il contingente, l’incalcolabile che si nasconde
nell’avvenimento, la purezza dell’evento aperto per principio al
mondo. John Cage, nel 1951, entrando in una camera anecoica ad
Harvard, fa un esperienza significativa ed inaspettata con il suo
corpo che influenzerà tutta la sua futura ricerca e che lui stesso
considera una svolta decisiva nelle sue teorie musicali 87 .
Entrando in questa sofisticata stanza per cercare il silenzio
assoluto, Cage si rende conto che alcuni suoni, involontari, non
possono essere eliminati, come quelli della sua circolazione
sanguinea o dell’attività celebrale, intuendo allora che il silenzio
assoluto è un astrazione e che anche il massimo controllo non
può escludere la contingenza che ha luogo nell’evento,
sostanzialmente esposto all’accadere incontrollabile nel mondo.
L’idea di silenzio, come l’idea del vuoto, sembrerebbero essere
illusorie. Le espressioni, ad esempio, “il bicchiere è vuoto” o la
“stanza è vuota”, sono ambigue e non completamente vere,
perché magari anche se non c’è acqua nel bicchiere o persone
nella stanza , non esclude il fatte che queste siano magari piene
d’aria o luce.
87Cfr M.Carboni, La Mosca di Dreyer. L’opera della contingenza nelle arti, Jaca
Book, Milano, 2007, p.142.
57
Se in Duchamp o in Cage è evidente il distacco verso le
operazioni che svolgono , il gioco disinteressato che attuano con
il contingente, il profondo lavoro mentale, in Pollock o nel
gruppo Gutai avviene invece una partecipazione carnale, ma allo
stesso tempo distaccata rispetto al loro lavoro. Compiono azioni
concrete, facendo nascere la contingenza attraverso il loro stesso
corpo in quello spazio che separa l’autore dall’opera e che si
incarna nella tela prodotta. Nell’opera di Pollock è il corpo
stesso, attraverso i suoi movimenti, che produce il puro
accadere, riflettendo questo nella tela che partorisce. L’opera di
Pollock nasce da azioni del suo corpo prima che da pensieri della
sua testa, l’automatismo con cui opera è quello del corpo che
conosce i suoi movimenti senza doverli calcolare prima di
eseguirli. Lo spazio dell’opera, traccia della magica danza
compiuta dall’artista, nasce dal movimento del corpo intorno alla
tela , non dall’osservazione del mondo che ha sede nella testa.
Il gruppo Gutai, guardando a Pollock, vuole nel suo operare
artistico abbandonare lo strumento classico della pittura, il
pennello, tradizionale punto di unione tra il corpo dell’artista e la
sua opera, emblema sia della tradizione pittorica occidentale che
orientale, espressione tradizionale dell’idea del massimo
controllo e rigore che il creatore ha sulla sua opera. L’artista
Kazuo Shiraga scelse il proprio corpo come strumento del suo
lavoro, utilizzando i piedi per dipingere. Altri artisti di Gutai,
come Shimamoto, esasperano e radicalizzano la ritualità
dell’azione che crea, già caratteristica tipica della cultura
tradizionale giapponese, cercando però modi radicali e mai
sperimentati per produrre e ricercare nuovi segni. In questa
ricerca ed enfasi del segno, partorito dal movimento del corpo,
caratteristica anche della nobile tradizione calligrafica
giapponese, il gruppo Gutai vuole però rompere con ogni
tradizione precedente, incarnando questa volontà in quella
concretezza con cui trasformarono le loro azioni in veri e propri
eventi performativi e spettacolari. Il termine giapponese Gutai
viene tradotto con concretezza ed è formato da due caratteri : gu
, che vuol dire strumento e tai che vuol dire corpo o sostanza. Nel
gruppo Gutai viene indagato radicalmente e messo in atto quel
processo inaugurato da Pollock con il dripping; questi artisti
infatti abbandonano la testa ed il controllo razionale nella
58
creazione dell’opera, eleggendo il corpo che non pensa, che
conosce i suoi gesti mediante lo spazio-tempo che gli è familiare,
come mezzo per partorire la contingenza di cui questo si fa
sismografo, rendendo così l’opera un tracciato di queste azioni.
Il tema della contingenza, dell’accadere incalcolabile, di ciò che
non appartiene , si riflette nella relazione tra la coscienza di ciò
che si controlla nel corpo, simboleggiato tradizionalmente dalla
testa come guida e ciò che invece non si sceglie, che avviene
senza controllo cosciente, come l’attività del battito cardiaco.
Nell’iconografia dell’Antico Egitto molte divinità vengono
rappresentate quasi ad immagine e somiglianza dell’uomo, Toth
o Horus non sono per metà uomini e per metà animali, solo la
loro testa non ha le sembianze umane ma di un animale. La
grazia profonda con cui gli Egiziani trattavano nell’ arte gli
animali, in rapporto anche alla rigidità con cui trattavano il corpo
umano, che fosse nelle pitture che ornano tombe o nella
lavorazione dell’oro , incarna il tramite con il divino che
vedevano nella relazione con questi esseri viventi, che fossero
gatti, coccodrilli o falchi. Gli animali rivelano una grazia innata
nella loro esistenza, che non conosce la ragione ma solo
l’intelligenza del corpo che vive. Il rapporto tra la testa e il corpo,
tra il pensiero e l’atto, sembra caratterizzare tanto il pensiero di
Merleau-Ponty quanto l’operare artistico novecentesco. Testa e
corpo, pensiero e movimento, se viste in antitesi , sembrano
riflettere quel dualismo dogmatico e netto tra anima e corpo,
spirito e materia, che Merleau-Ponty rifiuta di accettare. Nel
corpo che viviamo, Leib , si rivela un chiasma profondo, ambiguo,
tra ciò che siamo e ciò che non siamo, tra ciò che consideriamo
nostro e ciò che non ci appartiene, tra il mio corpo e il mondo. Il
corpo, organismo vivo, è sia il braccio che decido di muovere
quanto l’attività spontanea e incontrollabile del mio cuore che
pulsa. Il sangue che scorre nelle nostre vene come linfa o le ossa
che ci strutturano sono ambiguamente percepite come meno
nostre rispetto al riflesso con cui vediamo il nostro volto allo
specchio. Forse perché potremmo perdere litri di sangue o
vivere senza arti, ma senza testa, un uomo e ogni animale non
può che essere morto ; o forse perché la testa è quel luogo
invisibile, accessibile a noi stessi solo per riflesso, per eco, dove
l’essere umano individua più che in ogni altro spazio sé stesso.
59
Sui documenti che controlla con scrupolo il funzionario, nome e
cognome sono associati al nostro volto perché solo quello è
immediatamente riconoscibile. In Fenomenologia della
percezione Merleau-Ponty nota che difficilmente riconosciamo la
nostra mano in fotografia ma spesso il nostro volto , o il modo di
camminare, riconosciamo più facilmente ciò che ci è invisibile 88.
La testa, che possiamo veramente vedere solo nella finzione del
doppio, del riflesso, sembra incarnare noi stessi più di ogni altra
parte del corpo, sembra essere il centro del nostro Io.
Nell’esperienza vissuta tendiamo a identificare le cose con il loro
aspetto visibile : un albero è la metà che si mostra più che le sue
radici invisibili o il mare è la sua superficie increspata prima
dell’abisso che nasconde; nella percezione di noi stessi però,
questo rapporto sembra stranamente invertirsi, ci identifichiamo
infatti nel nostro volto invisibile più che in ogni altra parte del
corpo visibile. Il genere pittorico dell’autoritratto esprime
esemplarmente questa profonda analogia tra il nostro essere e il
riflesso del volto, mai direttamente visibile a noi stessi. La testa
sembrerebbe essere più nostra del tronco che la sorregge e la
radica, sede di attività fondamentali per la vita come la
respirazione o la digestione. Una certa visione del mondo, che
vorrebbe contrapporre la percezione alla riflessione, l’intuito alla
ragione, il corpo all’anima, vede nel corpo umano una sottile
dialettica tra la testa ed il resto del corpo. Il corpo viene
percepito allora come un manichino meccanico che sorregge la
nostra testa cosciente che lo governa, un quid razionale inscritto
o sovrapposto in un animalità istintiva. Merleau-Ponty rifiuta
questa visione duale e scissa dell’essere umano, l’idea di un
interiorità ed un esteriorità, di un anima iscritta nel corpo come
il guidatore nell’auto, il corpo come un automa guidato da un
centro spirituale. Corpo ed anima, interiore ed esteriore, psichico
e somatico, nel pensiero del filosofo francese sono indivisibili,
profondamente intrecciati tra loro in un chiasma ambiguo.
La testa ed il tronco dell’essere umano, sono inscindibili, come
un albero dalle sue radici, sono l’essenza della possibilità di
vivere. Il tronco umano è la sede di attività fisiologiche
incontrollabili, di ciò che non ci appartiene, del battito cardiaco
90 R.M. Rilke, Torso arcaico di Apollo, in Nuove poesie. Requiem (Monaco 1907),
64
celebra tra la materia e lo spirito, tra l’universale e il particolare.
La profonda sensibilità e spiritualità di Klein nasce non solo nelle
radici cristiane, ma anche nell’incontro che l’artista ha con il
pensiero orientale, in particolare attraverso la pratica del judo, in
cui raggiunse il più alto grado e la qualifica di insegnante, attività
che per qualche anno praticherà prima di dedicarsi, anima e
corpo, alla sua ricerca artistica. << Nel judo mi hanno sempre
insegnato che avrei dovuto raggiungere la perfezione tecnica per
potermene infischiare; essere costantemente in grado di
mostrarla a tutti i miei avversari, e così, sebbene conoscessero le
mie mosse, vincere comunque >>95. Così Klein ricorda uno degli
insegnamenti appresi dal judo , prezioso consiglio che si
rifletterà anche nel suo operare artistico. Se certa tradizione
filosofica occidentale separa dogmaticamente il corpo dallo
spirito, in molte discipline e pensieri orientali invece il corpo è il
veicolo essenziale attraverso cui lo spirito conosce ed entra in
contatto ed in armonia con i cicli del cosmo, dalla meditazione
vipassana buddhista alla complessa e sconfinata scienza yogica,
dal tai chi alla cerimonia zen del the. Yoga vuol dire giogo, lo
strumento con cui due buoi venivano uniti per arare i campi,
indicando quanto questa pratica miri ad unire spirito e corpo, il
Tutto con il particolare. La parola zen viene da un verbo
giapponese, zazen, che significa stare seduti. Tutta quella vastità
di esperienze, pensieri e discipline che provengono dall’Oriente
hanno avuto indubbiamente una profonda ed eterogenea
influenza su molti artisti e sull’operare artistico del XX secolo. Il
rapporto ambiguo e funzionale che intrattengono le polarità
tradizionalmente in antitesi nella dialettica di Merleau-Ponty si
riscontra anche nella relazione che vede tra la filosofia
occidentale ed il pensiero orientale. L’Oriente e l’Occidente sono
stati divisi da un confine intellettuale e culturale prima che
geografico, Europa ed Asia sono gli unici continenti che
permettono una crasi : l’Eurasia. In Segni Merleau-Ponty dedica
un breve scritto al rapporto che intrattengo secondo lui la
tradizione filosofica occidentale ed il millenario pensiero
94 Op.cit. , p.61.
95 Op.cit. , p.72.
65
orientale, concentrandosi, a causa della vastità dell’argomento
trattato, a determinati esempi significativi, come la critica di
puerilità che Hegel muove al pensiero orientale, da non
considerare quindi come filosofia. Confutando questa critica
mossa da Hegel Merleau-Ponty afferma : << Quel che abbiamo
appreso sulle relazioni fra la Grecia e l’Oriente, e viceversa tutto
quanto abbiamo scoperto di “occidentale” nel pensiero orientale
( una sofistica, uno scetticismo, elementi di dialettica, di logica),
ci vieta di tracciare una frontiera geografica tra la filosofie e la
non filosofia. La filosofia pura o assoluta, in nome della quale
Hegel esclude l’Oriente, esclude anche buona parte del passato
occidentale. Anzi: applicato rigorosamente questo criterio
risparmierebbe, forse, il solo Hegel >> 96 . Merleau-Ponty
conclude affermando che se è vero che la filosofia occidentale è
come l’adulto e il pensiero orientale come il bambino, il rapporto
non è però quello tra l’ignoranza e il sapere o tra la non filosofia
e la filosofia, ma più sottile e complesso. I temi trattati fino ad ora
: l’enfasi dell’operare artistico, l’atto che si mimetizza con la vita,
l’artista che apre la sua opera al puro accadere nel regno del
possibile, la vita ed il contingente, il corpo come soggetto ed
oggetto del processo artistico, ci accostano a quelle che possono
essere considerate le operazioni più caratterizzanti dell’operare
artistico novecentesco a partire dal secondo dopoguerra, quelle
che genericamente vengono definite “pratiche performative”. Il
termine “pratiche performative” risulta generico sia per
l’estrema eterogeneità delle operazioni svolte che per le diverse
poetiche che muovono gli artisti durante tutta la seconda metà
del novecento fino ad oggi. La storiografia artistica nel cercare di
ordinare il carattere mutevole e differente di queste operazioni
ha operato alcune distinzioni : Fluxus, performance, body art,
happening o arte relazionale. Quello che collega procedimenti e
poetiche così differenti tra loro è il ruolo che assume il corpo e la
vita stessa dell’artista nell’opera d’arte, il suo operare, lo
sconfinamento definitivo ed irreversibile che ha luogo tra arte e
vita, tra finzione e realtà, opera e mondo, e l’inserirsi in quel
territorio di confine tra lo spettatore e l’opera, guardando al di
sotto della tradizionale relazione tra opera come oggetto e
71
LA PITTURA E L’ENIGMA DEL VISIBILE
98 Cfr. Ibidem.
73
percettiva, incarnata nell’intelligenza del corpo, nasce dalle
verità evidenti che essa ci offre, in quel tessuto sensibile e
soggettivo da cui ogni pensiero oggettivo nasce, che abito e
conosco attraverso il corpo senziente-sensibile; così conosciamo
cosa sia il tempo prima di ogni calcolo, lo spazio prima della
misurazione metrica o cosa siano davvero la visione e la luce
prima di ogni teoria che pretenda di spiegarle. La visione è un
esperienza che, come l’opera d’arte, mette in luce un mondo dove
l’essenza delle cose è sempre incarnata, un immediatezza
precategoriale che rivela i limiti dell’analisi logica. Merleau-
Ponty nella sua filosofia vuole apprendere a vedere, proposito
direttamente proporzionale all’oblio con cui si dimentica quel
sapere prefissato che gettiamo sul mondo; interrogare la visione
vuol dire allora ritornare a vedere ancora, perché la visione non
impara se non da sé stessa. << Certamente questo dono si merita
con l’esercizio, e non è in qualche mese, e non è neppure nella
solitudine che un pittore entra in possesso della sua visione. Non
è questo il problema : precoce o tardiva, spontanea o formata al
museo, la sua visione in ogni caso non apprende che vedendo,
non apprende che da se stessa>>99. Merleau-Ponty in tutto il suo
iter filosofico continua ad interrogare instancabilmente la
visione, domanda che però non attende e non trova risposta
definitiva, perché la filosofia è qui concepita non come
risoluzione di un problema dato e certo ma come interrogazione
radicale e costante che va sempre più in là, sempre oltre.
L’interrogazione filosofica e la sua necessaria espressione sono
affini per Merleau-Ponty alla visione del pittore e alla sua attività
incessante, in quell’ essenza che li anima entrambi e che li muove
continuamente. Nell’interrogazione incerta e radicale di
Merleau-Ponty si può scorgere quell’affinità profonda che il
filosofo francese vede tra il pensiero filosofico e la visione del
pittore. L’incedere claudicante affine alla filosofia di Merleau-
Ponty come alla pittura di Cézanne è sintomo di una sincera e
profonda fede, il cui cammino è per sua natura impervio. Fede
nella verità per il filosofo e nella visione per il pittore, invisibile
motore che muove la loro vita come le loro opere. Se la speranza
vuole abbandono, la fede richiede metodo e perseveranza.
120 Ibidem.
123 C.Baudelaire, Per Delacroix (Parigi 1863), trad.it. Liguori ,Napoli, 1996, p.94.
85
pittura il grande mito del primato del disegno sul colore e del
dovere della linea di circoscrivere cose in uno spazio idealizzato.
Baudelaire non comprendeva chi giudicava il quadro solo come
proiezione dell’estensione delle cose, come imitazione del reale,
chi non era in grado di accogliere la dimensione cromatica di un
dipinto. I pregiudizi comuni che credono che la pittura abbia il
compito di rappresentare uno spazio quanto più affine possibile
alla visione empirica, che imiti la solidità delle cose ed in cui il
disegno debba prevalere sul colore, sono idee rinascimentali che
sono rimaste latenti per secoli e che hanno influenzato tutta la
storia della pittura, la sua percezione, i suoi fini come anche i
suoi risultati. I rinascimentali nel voler affermare le loro teorie
pittoriche avevano bisogno di una tradizione che li potesse
legittimare, perché ogni rito nuovo, in questo caso quello della
prospettiva e della possibilità di riflettere esattamente la visione
empirica nella tela, richiede e vuole un nuovo mito. Tale mito
viene individuato dai Rinascimentali nelle idee estetiche del
mondo classico, che verranno però interpretate ed adeguate, non
senza cattiva fede, per accostarle e farle coincidere con le loro
ricerche prospettiche. I teorici del Rinascimento, che
pretendevano di aver trovato la tecnica perfetta per proiettare
esattamente il mondo nelle loro opere, ignorarono
volontariamente la perspectiva naturalis degli antichi che faceva
dipendere le dimensioni apparenti in base all’angolo sotto il
quale vediamo l’oggetto invece che a seconda della distanza,
come avviene invece nella perspectiva artificialis 124. L’errore dei
Rinascimentali , per Merleau-Ponty, non fu quello di idealizzare
lo spazio o la linea ma pensare che le loro scoperte e teorie
potessero concludere definitivamente tutte le indagini della
pittura. Un altro pregiudizio comune che viene tramandato dalla
tradizione rinascimentale è quello che ha visto in pittura una
dialettica profonda tra disegno e colore, in cui il primo ha il
dovere di controllare e contenere il secondo, assumendo così un
primato che sembra affine a quello che nella tradizione filosofica
ha avuto il pensiero sulla percezione. Nelle teorie pittoriche del
Rinascimento il disegno è l’elemento fondante della pittura,
mentre il colore è sempre gregario e marginale e così questa
127 La maggior parte dei filologi accetta come etimologia della parola colore il verbo
latino caelar, nascondere. Isidoro di Siviglia in Etymologiae, (libro XIX, par.17, 1)
collega invece colore al vocabolo latino calor sottolineando così la sua stretta
relazione con il fuoco o con il sole.
132 Ibidem.
89
La visione spontanea di Cézanne è incessante e radicale,
necessaria per far germinare ciò che si proponeva, non un
quadro, ma un pezzo di natura. <<Arriverò allo scopo tanto
cercato e così a lungo perseguito? Studio sempre dal vero e mi
sembra di fare lenti progressi>> 133 . Cézanne con
l’Impressionismo condivide l’idea di una pittura che nasce nel
contatto profondo tra l’artista e gli elementi del mondo, non in
studio, ma immerso nella luce della natura.
Il pregiudizio che separa dogmaticamente disegno e colore è
affine a quella retorica che vede il corpo vissuto e lo statuto della
percezione in antitesi con il pensiero e la conoscenza, come spazi
primitivi da sottomettere alla civiltà dell’intelletto. Il pittore
Bernard ammoniva Cézanne di non abbandonare il disegno
perché così si sarebbe perso nel caos delle sensazioni. Il
pregiudizio comune che giudica la pittura come imitazione del
mondo , che cerca in un quadro il contorno delle cose dipinte ed
il disegno prima di ogni altro elemento, il volume prima del
vuoto, nasce forse da quella visione concepita come l’azione del
tatto, lo stesso modo di concepire il vedere che Cartesio
paragonava al bastone con cui il cieco conosce le cose. <<Il
modello cartesiano della visione è il tatto>>134 scrive Merleau-
Ponty. Le idee rinascimentali su uno spazio esatto ed idealizzato
da proiettare sulla tela, il primato del disegno sul colore ed il
dovere della pittura di rappresentare l’estensione delle cose
vengono accettate facilmente nel pensiero di Cartesio perché
affini alla sua visione. Per Cartesio è infatti scontato che il colore
sia << ornamento, tintura, che tutta la potenza della pittura
poggia su quella del disegno, e quella del disegno che poggia sul
rapporto puntuale fra disegno e spazio in sé, quale lo insegna la
proiezione prospettica >>135. Le indagini moderne della pittura, a
partire soprattutto da Cézanne, mettono radicalmente in dubbio
i dogmi delle scoperte pittoriche rinascimentali, venendo così
accostate da Merleau-Ponty a quelle ricerche della filosofia
Tav. 3.1 William M. Turner, Rain Steam Speed- The Great Western
Railway, 1844.
97
Tav 11.2 John Cage e Merce Cunningham al Black Mountain
College.
98
Tav. 1
99
Tav. 2.1
Tav. 2.2
100
Tav. 3.1
Tav. 3.2
101
Tav. 4
102
Tav. 5
103
Tav. 6.1
Tav. 6.2
Tav. 6.3
104
Tav. 7.1
Tav. 7.2
Tav. 7.3
105
Tav. 8.1
Tav. 8.2
106
Tav. 9.1
Tav. 9.2
Tav. 9.3
107
Tav. 10.1
Tav. 10.2
Tav. 10.3
108
Tav. 11.1
Tav. 11.2
109
Tav. 12.1
Tav. 12.2
110
BIBLIOGRAFIA
Massimo Carboni, Non vedi niente lì. Sentieri tra arti e filosofie del
presente, Castelvecchi , Roma, 1999.
111
Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (Parigi
1945), trad.it. Il Saggiatore, Milano, 1980.
112