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Luca Di Luzio

MERLEAU-PONTY E LE ARTI DEL XX SECOLO


Luca Di Luzio

MERLEAU-PONTY E LE ARTI DEL XX SECOLO

Dipartimento di Arti Visive, Corso di Pittura.

Biennio specialistico

Relatore: prof. Massimo Carboni

Relatore del progetto artistico: prof. Claudio Pieroni

Accademia di Belle arti di Roma

Anno Accademico 2015/16

3
INDICE

IL CHIASMA FILOSOFICO p.7

IL CHIASMA ATTRAVERSO UNA NUOVA FENOMENOLOGIA


DEL CORPO VISSUTO p.37

LA PITTURA E L’ENIGMA DEL VISIBILE p.73

TAVOLE p.97

BIBLIOGRAFIA p.111

5
Grigia è, mio caro amico, ogni teoria,
verde l’albero d’oro della vita.

Goethe, Faust.

6
IL CHIASMA FILOSOFICO

La linea incerta e libera che Merleau-Ponty ha tracciato con la


sua filosofia rivela analogie con quella tracciata dall’operare
artistico contemporaneo. Il filosofo francese ha eletto
l’esperienza e la ricerca artistica, in particolar modo la pittura,
come esempio, campo d’indagine e tema per la sua filosofia.
L’operare filosofico di Merleau-Ponty e l’operare artistico
contemporaneo, come vedremo, sembrano condividere la
volontà di chiarire che il cuore, l’essenza stessa della filosofia
come dell’arte, non risiede tanto nell’oggetto della ricerca o nel
raggiungimento di una verità o di un opera come fine
prestabilito, quanto nell’incedere incerto verso queste mete
impensate ed impercepite. La filosofia che torna ad essere un
problema partorito dall’interrogazione incessante : movimento
mai certo e assoluto, ma claudicante ed insicuro, tanto dei propri
mezzi quanto dei suoi risultati. L’idea di una filosofia che traduce
il mondo, dall’alto di una coscienza disincarnata, in concetti
chiari e delimitati, in prospettive già calcolate, in sistemi assoluti
e stabili, è ormai morta. La morte della filosofia tradizionale, che
coincide con il tramonto dei grandi sistemi metafisici occidentali,
e la morte dell’arte tradizionalmente intesa, a partire
dall’Impressionismo, non sono morti assolute e sterili. La
filosofia e l’arte, nel loro effimero ed umano tracciato, sembrano
seguire la medesima legge che governa ogni cosa nella nostra
dimensione spazio-temporale: nulla si crea, nulla si distrugge,
ma tutto si trasforma. Le profonde metamorfosi dell’operare
artistico contemporaneo, nate dalla crisi del ruolo e delle
funzioni tradizionali dell’artista, approfondiscono ed interrogano
radicalmente cosa sia l’esperienza artistica e l’opera d’arte,
anziché distruggerla. L’interrogazione continua, la via non
costante, che trasforma continuamente i suoi mezzi così come
cambia i suoi fini, sembrerebbe essere il cuore dell’operare
artistico novecentesco. L’insicurezza dei mezzi, il profondo
sperimentalismo, l’incertezza dei risultati o la paradossalità delle
azioni compiute, costituiscono l’essenza dell’operare artistico

7
contemporaneo. L’incedere claudicante della ricerca artistica
contemporanea rivela numerose affinità con la filosofia che
Merleau-Ponty auspica, tanto da elevare l’opera e l’operare
artistico a vere e proprie esperienze filosofiche. La necessità di
liberare l’operare filosofico dal dogmatismo delle prospettive già
tracciate e da strumenti decisi a priori trova un analogia con
l’operare artistico del XX secolo. Dalla fine del XIX secolo e
durante tutto il secolo successivo, il ruolo e le prospettive
dell’artista, quanto del suo operare, cambiano profondamente :
egli non seguirà più sentieri conosciuti e ben tracciati, ma
esplorerà territori nuovi e sconosciuti, che richiedono
l’invenzione di nuovi mezzi per essere attraversati.
La filosofia stessa per Merleau-Ponty necessita di un profondo
cambiamento, un ripensamento di sé stessa attraverso una
radicale ed incessante interrogazione , tanto dei suoi fini quanto
dei suoi mezzi. La filosofia ha abbandonato l’idea di cercare una
verità assoluta al di fuori del mondo in cui l’essere umano è
iscritto. <<La pittura moderna, come in generale il pensiero
moderno, ci costringe ad ammettere una verità che non somigli
alle cose, che sia senza modello esterno, senza strumenti
d’espressione predestinati, e che nondimeno sia verità>>1. La
filosofia per Merleau-Ponty è movimento, pensiero che lascia una
traccia, un segno negativo, che, come la visione del pittore, si
sedimenta nell’opera e la fa germinare. Il paragone frequente che
il filosofo francese fa con l’arte, in particolare con la pittura, è
estremamente significativo, soprattutto alla luce delle radicali
metamorfosi che l’operare artistico novecentesco ha comportato
in sé stesso, tanto nei mezzi quanto nelle tematiche. Indagare il
metodo che traccia ed indica le prospettive da seguire
sembrerebbe essere prerogativa tanto dell’arte che della
filosofia. L’operare artistico appare come il vero soggetto, ben
prima dell’opera, dell’arte novecentesca, in particolare in quella
della seconda metà del secolo. L’opera d’arte contemporanea si
presenta spesso come la scia di un operare libero da regole
prestabilite o dogmatiche, non caos, ma nuove regole, non più
tratte da un universo oggettivo che circoscrive i compiti e il
lavoro dell’artista, ma colte mediante il suo rapporto senziente e

1 M.Merleau-Ponty, Segni (Parigi 1960), trad.it. Il Saggiatore, Milano, 1967, p.84.


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intellettuale con la contingenza, la vita, il mondo o la società . Il
dripping di Jackson Pollock, le azioni performative di Yves Klein,
le operazioni concettuali di Joseph Beuys o i percorsi compiuti da
Richard Long, sono solo alcuni esempi chiari di come l’operare
artistico sembri essere l’essenza dell’opera d’arte
contemporanea, il punto preciso da cui questa germina e si
struttura. L’opera è sempre una creazione in cui è inscritta
l’operazione che l’ha generata, come la visione è unita a colui che
ha visto e che l’ha fatta nascere. <<La creazione vive come
genesi sotto la superficie visibile dell’opera(…)>>2, scrive Paul
Klee. In questo febbrile operare dell’arte, il corpo dell’artista,
come vedremo meglio nel secondo capitolo, sembra essere
spesso il soggetto naturale intorno a cui ruotano queste
operazioni. Il corpo animato, Leib, come soggetto naturale e
originario dell’esperienza umana nel mondo, è un tema
fondamentale in tutto l’iter filosofico di Merleau-Ponty. Il corpo e
la sua vita percettiva sono le prospettive entro cui la filosofia
deve necessariamente ricollocarsi per imparare a vedere il
mondo. La vita percettiva è quel luogo primordiale e originario,
pre-categoriale e pre-logico, dove Merleau-Ponty individua,
esplora ed interroga la profonda reversibilità tra soggetto e
oggetto, attività e passività, interiore ed esteriore, anima e
corpo. Il pensiero che Merleau-Ponty vuole è un movimento
mosso dall’interrogazione incessante e mai lo statico possesso di
un concetto, <<pensare non è possedere oggetti di pensiero: è
circoscrivere, mediante questi ultimi, un campo da pensare, che
dunque non pensiamo ancora>> 3 . La ricerca filosofica per
Merleau-Ponty si esprime fondamentalmente nella forma
dell’interrogazione continua, dove la domanda stessa non è mai
definitiva e chiara. L’arte e la filosofia hanno essenze mutevoli
perché in movimento mediante l’esistenza di coloro che le
trasformano. Il moto del pensiero che distingue il filosofo deve
essere per Merleau-Ponty incessante e profondamente incerto,
claudicante, mai lanciato con certezza ed arroganza verso una
presunta verità assoluta ed oggettiva. Il moto claudicante appare

2 P.Klee, Poesie, trad. it. Abscondita, 2000, Milano, p.171.

3 M.Merleau-Ponty, Op.cit. , p.212.


9
come un valore ed una necessità per coloro che cercano, siano
essi artisti o filosofi, <<l’andamento claudicante del filosofo è la
sua virtù>> 4 , afferma nel 1953 Merleau-Ponty alla lezione
inaugurale del College de France. L’andamento claudicante che
rende virtuoso il filosofo, come l’artista, nasce dal dubbio
incessante e interminabile che muove tutta la sua ricerca sincera.
Il bellissimo saggio scritto dal filosofo francese su Cézanne,
artista preso come modello per la sua filosofia, è intitolato Il
dubbio di Cezanne ed inizia non dall’analisi delle sue opere ma
dal carattere instancabile e profondamente incerto della sua
ricerca pittorica. <<Gli ci volevano cento sedute di lavoro per
una natura morta e centocinquanta sedute di posa per un
ritratto. Quella che noi chiamiamo la sua opera, per lui era
soltanto l’esperimento e l’avvio della sua pittura>>5. L’operare
incessante e instancabile di Cezanne, sedimentato nella sua
pittura, e l’interrogazione continua e profonda del filosofo
francese, tracciata nella sua opera, condividono un movimento
claudicante, mai certo, ma precisamente e profondamente
incerto. Nonostante il suo continuo lavoro, l’incessante e lenta
ricerca, Cezanne non è mai veramente sicuro della sua opera,
tanto da metter in dubbio la sua stessa vocazione, tanto da
pensare che l’innovazione della sua pittura nasca da mancanze o
malattie della sua vista, chiedendosi infine <<se tutta la sua vita
non sia impostata in base a un difetto del suo corpo>>6.
Come la visione di Cezanne che interroga il mondo, germinando
nell’opera, è continua e mai veramente compiuta, così anche il
pensiero del filosofo vive dell’interrogazione incessante, mai
sicura, ma sempre profondamente incerta e claudicante. Il
concetto di verità assoluta e certa coincide per Merleau-Ponty
con la morte e la stasi della filosofia, distrugge il suo fondamento
, la ricerca, arresta il movimento. La filosofia non può seguire in
maniera intransigente mezzi decisi a priori perché l’oggetto

4 M.Merleau-Ponty, Elogio della filosofia (Parigi 1953), trad.it. SE, Milano, 2008,

p.64.

5 M.Merleau-Ponty, Senso e non senso (Parigi 1948), trad.it Il Saggiatore, Milano,

2004, p.27.

6 Ibidem.
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stesso della sua ricerca non è costante e sicuro e l’idea di
raggiungere una verità assoluta appare quindi come un
pregiudizio fittizio. La filosofia stessa per Merleau-Ponty <<non
è il rispecchiamento di una verità preliminare, ma, come l’arte, la
realizzazione di una verità>>7. La filosofia, ricollocata nel suo
aspetto operativo verso mete da indagare piuttosto che nel
raggiungimento certo e nella contemplazione di un obbiettivo
prestabilito ed oggettivo, una presunta verità assoluta, aperta ad
una presunta coscienza disincarnata. Una filosofia che è un
operare incessante, un flusso continuo che non si ferma, come
l’artista che nel suo fare insegue per tutta la vita l’opera che non
raggiungerà mai. In questo senso dobbiamo interpretare
l’affinità profonda che il filosofo francese vede tra la filosofia e
l’arte, e con la pittura in particolare. L’esperienza dell’operare
pittorico è affine, per Merleau-Ponty, alla filosofia che auspica,
nel carattere incessante del suo movimento incerto e per la sua
profonda adesione al mondo originario della fede percettiva. Van
Gogh diceva che il miglior quadro da lui eseguito fosse quello che
stava per dipingere, così ,il vero filosofo, vive della sua
incessante ricerca, nell’interrogazione continua e mai veramente
compiuta. La filosofia non ha un movimento rapido e sicuro ma
un passo incerto, un andatura claudicante, <<è inutile infatti
contestare il fatto che la filosofia zoppica>>8. Il claudicare di cui
parla il filosofo francese non è un difetto ma una virtù, acquisita
nell’incedere incerto della ricerca. L’interrogazione per Merleau-
Ponty deve tornare ad essere centrale e radicale nell’operare
filosofico, deve perdere quel carattere di presunta assolutezza
che ha conservato da Platone fino ad Hegel. Merleau-Ponty
interroga radicalmente l’interrogazione stessa, se << la
peculiarità dell’interrogazione filosofica è di volgersi su di essa,
di chiedersi cos’è interrogare cosa è rispondere. Non appena è
posta ,tale domanda alla seconda potenza non potrebbe essere
cancellata. Ormai non ci si potrà comportare come se non ci fosse

7M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (Parigi 1945), trad.it. Il


Saggiatore, Milano, 1980, p.30.

8 M.Merleau-Ponty, Elogio della filosofia, cit. , p.62.


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stata domanda >>9. Il perno intorno a cui ruota l’interrogazione
e il movimento filosofico di Merleau-Ponty, è al medesimo tempo
il soggetto e l’oggetto della ricerca intrapresa : l’essere umano.
Indagando l’essere umano non lo si può analizzare come il
geologo studia il minerale o il chimico l’elemento, non possiamo
considerarlo come mera cosa tra le cose, ignorare il paradosso
della profonda reversibilità che si innesca tra il soggetto e
l’oggetto dell’indagine intrapresa. Se un filosofo, o qualunque
studioso serio, volesse ricercare sulla natura dell’essere umano,
non potrebbe ignorare il fatto di appartenere anche lui alla
medesima specie, constatare come il rapporto tra il soggetto e
l’oggetto della sua ricerca non sia definitivo ed intransigente
bensì profondamente osmotico. Questa condizione di analisi,
dove soggetto ed oggetto si trovano profondamente intrecciati
tra loro è chiaramente ambigua. L’ambiguità di cui parla
Merleau-Ponty esiste in primis nella condizione che vive l’essere
umano mediante l’esperienza percettiva, nel suo essere
senziente-sensibile o visibile-vedente; questa esperienza di
reversibilità influenzerà tutto lo sviluppo successivo del pensiero
di Merleau-Ponty. Tutta la sua filosofia infatti è scandita da una
profonda ambiguità che vive nel chiasma e nella reversibilità
profonda che avviene tra polarità apparentemente
contradittorie, come soggetto ed oggetto, ragione e non ragione,
visibile ed invisibile o senso e non senso. Il chiasma intravisto da
Merleau-Ponty, la relazione osmotica che intrattengono tra loro
poli apparentemente in antitesi, germina dalla costatazione della
profonda esperienza di reversibilità che viviamo nella vita
percettiva con il nostro corpo senziente-sensibile. L’ambiguità
della relazione tra concetti tradizionalmente in antitesi, il
chiasma incessante che esiste tra loro, la reversibilità, sono temi
fondamentali di tutto l’iter filosofico di Merleau-Ponty. Vivere-
sapere, soggetto-oggetto, io-mondo, corpo-anima, interiore-
esteriore, visibile-invisibile, materiale-spirituale, riflesso ed
irriflesso sono solo alcuni dualismi che certo pensiero credeva
inconciliabili, rendendoli così stagnanti all’interno di una

9 M.Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile (Parigi 1964), trad.it. Bompiani, 1993,

Milano, p.138.

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dialettica sostanziale che non permetteva nessuna interazione
tra loro. Nella filosofia di Merleau-Ponty non esiste il rischio che
verità contradittorie possano collidere o stagnare perché
convivono in un rapporto funzionale tra loro, come il buio più
profondo della notte abbraccia la luce lontana delle stelle. << Ma
se uno non spera, non troverà l’insperabile , perché per lui sarà
introvabile ed inaccessibile.>>10, afferma Eraclito. La possibilità
di trovare l’insperabile apparirebbe inscritta per il filosofo greco
nello sperare stesso, non oltre, ma al suo interno. Un grande
artista, Paul Klee, pensava che il compito dell’arte non fosse
quello di riprodurre ciò che è visibile ma rendere visibile ciò che
non sempre lo è. L’invisibile che dimora tra le trame del visibile
come l’infinito matematico si nasconde tra i confini dei numeri
interi. Le cose che vediamo o i numeri che contiamo, non sono
solo una somma di unità visibili, esistono anche le loro
articolazioni, gli spazi profondi che separano ed uniscono le cose
che vediamo simultaneamente, o un tre ad un quattro.
L’invisibile nel visibile, l’infinito tra le trame di un tempo finito.
Esiste davvero un limite invalicabile che rende statiche polarità
contrarie? Eraclito, che profuma di mistero come il cielo stellato,
parlava di << opposto concorde e dai discordi bellissima armonia
>>11 , ed affermava, come un oracolo, che << il dio è giorno-notte,
inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame: si trasforma
continuamente come fa il fuoco quando si mescola ai profumi e
prende il nome della sensazione piacevole che ognuno di essi ci
dà >>12. Il fuoco, elemento distruttore e purificante allo stesso
tempo, viene eletto da Eraclito ad incarnazione del moto divino.
Il movimento, l’energia, sembrerebbe nascere nel profondo
intrecciarsi dei contrari, presunti nemici, come il gioco è
generato dallo scontro tra giocatori, o la forza magnetica e
l’energia elettrica nascono dall’incontro tra polarità opposte. La
dialettica in Merleau-Ponty è movimento tra poli opposti e tale
opposizione è sempre funzionale e mai sostanziale. Nella linea

10 Eraclito, Frammento 18, in Eraclito e la sua leggenda, Antonio Capizzi,

Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, 1979, Roma, p.76.

11 Cfr. Eraclito, Frammento 8, in Op.cit. , p.72.

12 Op.cit. , p.73.
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libera tracciata dal pensiero di Merleau-Ponty le polarità
opposte, apparentemente contrarie, si rivelano intrecciate in un
chiasma continuo, in un rapporto ambiguo e osmotico tra loro,
che siano le nozioni di soggetto e oggetto, dell’anima e del corpo,
del visibile e dell’invisibile o del riflesso e dell’irriflesso. << I
filosofi più risoluti vogliono invece sempre i contrari : realizzare
ma distruggendo, sopprimere ma conservando >>13. Il filosofo
francese opera un superamento di ogni filosofia dualistica,
oltrepassando polarità classiche come quelle del soggettivismo e
dell’oggettivismo, della coscienza e della cosa, dell’interiore e
dell’esteriore, del pensiero e della percezione o dell’empirismo e
dell’intellettualismo. << Il nostro secolo si distingue per un
associazione del tutto nuova tra il materialismo e lo
spiritualismo, fra il pessimismo e l’ottimismo, o piuttosto per
l’oltrepassamento di queste antitesi(…)>>14. L’oltrepassamento
che opera Merleau-Ponty è probabilmente un guardare prima
più che un guardare oltre, un saper vedere nel luogo remoto e
selvaggio, pre-riflessivo e pre-oggettivo, dove queste nozioni
non sono ancora state partorite per portarle così alla luce
edificandole nel giorno. Il superamento dell’antinomia tra
polarità contrarie viene effettuato da Merleau-Ponty non tanto
attraverso un sapere analitico ma mediante una fede, la fede
percettiva. La fede percettiva è quell’evidenza, senza bisogno di
alcuna prova , che esistiamo nel mondo, mediante la nostra
esperienza carnale, prima di ogni pensiero o analisi su di esso o
su di noi. Una fede non nel senso di decisione, ma nel senso che è
originaria, anteriore ad ogni tesi sul mondo. << Ma tale fede ha
questo di strano, che se si cerca di articolarla in tesi o enunciato,
se ci si chiede che cos’è noi, che cos’è vedere e che cos’è cosa o
mondo, si entra in un labirinto di difficoltà e contraddizioni >>15.
In questo mondo selvaggio che il filosofo francese interroga
profondamente non esiste ancora una reale separazione tra
soggetto ed oggetto, come tra interiorità ed esteriorità, ma un

13 M.Merleau-Ponty, Elogio della filosofia, cit. , p.62.

14 M.Merleau-Ponty, Segni, cit. , p.296.

15 M.Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit. , p.31.


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chiasmo continuo tra questi poli. Merleau Ponty individua nel
mondo dell’esperienza percettiva quello spazio primordiale dove
avviene l’osmosi e l’incontro tra l’anima e il corpo, tra l’interiore
e l’esteriore, tra l’essere senzienti e l’essere sensibili, vedenti e
visibili, tra la coscienza e il mondo. Il superamento della
tradizionale antinomia filosofica tra dimensione soggettiva ed
oggettiva, tra res cogitans e res extensa, pone il rapporto tra l’io e
il mondo non più nei termini di un soggetto pensante
contrapposto all’oggetto-mondo, un pensiero disincarnato che
tende progressivamente ad una verità assoluta. Uno degli aspetti
centrali del pensiero merleaupontiano è la volontà di ricondurre
il soggetto gnoseologico al soggetto percettivo corporeo perché
la filosofia possa tornare a vedere veramente al cuore delle cose,
reimparare a vedere il mondo come se fosse la prima volta,
recuperando così il senso di stupore e mistero nei confronti della
nostra esperienza. L’essere umano è invischiato nella sua
esistenza, interamente compromesso nella sua condizione
carnale che lo apre al mondo, compromissione che non può
essere evitata o ignorata e prospettiva centrale di tutta la
filosofia di Merleau-Ponty. << Il centro della filosofia non è più
un autonoma soggettività trascendentale, situata in nessun luogo
e ovunque, risiede nel cominciamento perpetuo della riflessione,
nel punto in cui una vita individuale si mette a riflette su sé
stessa>>16 . Nel chiasmo tra il nostro essere senzienti-sensibili ed
il mondo percepito Merleau-Ponty vede e misura uno spazio
primordiale, inesplorato tanto dalla scienza che dalla filosofia,
che, nella sua profonda ricerca, sente la necessità di indagare. La
prospettiva dell’essere umano come essere senziente,
naturalmente immerso nel mondo, cambia anche gli strumenti
stessi della filosofia. La percezione è considerata dal filosofo
come accesso alla verità perché è lo spazio selvaggio dove
nozioni come esistenza ed essenza, soggetto ed oggetto, non
sono ancora germinate, rivelandosi quindi come il luogo
privilegiato ed inesplorato dove indagarle. << Se è vero che la
filosofia, non appena si dichiara riflessione o coincidenza,
pregiudica ciò che troverà, è necessario che ancora una volta
essa riprenda tutto, respinga gli strumenti che la riflessione e

16 M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. , p.107.


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l’intuizione si sono date, si installi in un luogo in cui esse non si
distinguano ancora, in esperienze che non siano ancora state
elaborate, che ci offrano contemporaneamente, mescolati, il
soggetto e l’oggetto, l’esistenza e l’essenza, e forniscano quindi
alla filosofia i mezzi per ridefinirli. >>17. Questo chiasma, questo
mondo primordiale che si rivela, è un elemento, secondo
Merleau-Ponty, mostrato magistralmente dalla pittura, in
particolare da quella di Cézanne, che sarà infatti modello e
strumento d’indagine per molte delle sue ricerche filosofiche. Il
problema dell’espressione di un esperienza o un idea è un
problema centrale tanto nella filosofia che nell’arte. Per il filosofo
francese l’espressione è il mezzo attraverso cui un pensiero
diventa veramente nostro, un pensiero al di fuori delle
problematiche della parola e della comunicazione cadrebbe
infatti inevitabilmente nell’incoscienza. Se dovessimo
individuare una prima analogia tra l’operare filosofico di
Merleau-Ponty e il dipingere di Cézanne è nella consapevolezza
che la concezione di un opera, filosofica o artistica che sia, non
possa essere precedente alla sua esecuzione, non possa muoversi
in prospettive già calcolate e prestabilite. << La concezione non
può precedere l’esecuzione. Prima dell’espressione, non c’è
nient’altro che una febbre vaga e solo l’opera fatta e compresa
proverà che vi si doveva trovare qualcosa piuttosto che niente.
>>18. La linea che collega l’esecuzione all’opera non è costante e
chiara ma discontinua ed incerta, come la via incostante che il
filosofo francese attraversa durante tutta la sua ricerca. Merleau-
Ponty vede una profonda relazione osmotica tra percezione ed
intelligenza, tra impercepito ed impensato. Il non pensato che il
filosofo porta alla luce dal pensato è affine allo sguardo con cui il
pittore indaga il mondo sensibile, un vedere l’invisibile nella
visibilità, un percepire l’impercepito. Il pensiero stesso e l’opera
del filosofo non sono mai per Merleau-Ponty completamente
diurne, mai interamente positive nel loro germinare. Come nel
cuore del visibile dimora l’invisibile così all’interno del pensato è
vivo il non-pensato. Vedere non è solo la positività dell’oggetto

17 M.Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit. , p.147.

18 M.Merleau-Ponty, Senso e non senso , cit. , p.37.


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che la nostra visione isola ma anche l’interazione con lo sfondo
negativo su cui tale visione può proiettarsi e fondarsi. Il pensare,
per Merleau-Ponty, non è costituito solo da oggetti di pensiero
ma anche da articolazioni profonde che li strutturano e li
collegano, nello stesso modo in cui la profondità, i riflessi o le
ombre sono la sensibile trama tra le cose del mondo percepito.
Queste articolazioni nelle trame del pensiero stesso non sono
oggetti chiari, indagabili mediante un osservazione analitica,
perché esistono e vivono solo nell’atto del pensare, come la luce,
i livelli o gli orizzonti rinascono veramente solo nella magia e
nello spettacolo della visione.
Nel saggio Il filosofo e la sua ombra , scritto in omaggio per il
centenario della morte di Husserl, il tema centrale che viene
indagato dal filosofo francese è la relazione ambigua tra il
pensato e il non-pensato. L’intero saggio è un confronto con il
pensiero fenomenologico di Edmond Husserl, una riflessione sul
non-pensato che la filosofia dell’autore tedesco evoca e fa
nascere in Merleau-Ponty. Secondo il filosofo francese il
pregiudizio che vuole l’interpretazione di un opera come
qualcosa che cambia o resta letteralmente fedele all’opera stessa
è direttamente proporzionale al pregiudizio che vede nell’opera
e nel pensiero un significato totalmente positivo e diurno, uno
spazio luminoso che delimita già i confini percorribili. Come un
visibile che esclude l’in-visibile facendolo scivolare nel suo
contrario. Si potrebbe porre un parallelo tra la relazione che
viene posta tra il pensato e il non pensato e quella tra il visibile e
l’in-visibile, notando come nella dialettica di Merleau-Ponty non
esista mai un antitesi sostanziale tra queste polarità come non
esiste tra anima e corpo o tra soggetto ed oggetto. Il non pensato
è incarnato nel pensato stesso, come l’invisibile nel visibile, o
l’anima nel corpo. Una seconda analogia che potremmo notare
tra il visibile e l’invisibile ed il pensato e il non pensato risiede
nel rapporto che intrattiene con questi elementi tanto il pittore
che il filosofo. La visione del pittore, indagando il mondo,
esplorando la visibilità, vede l’invisibile, così l’interrogazione del
filosofo verso il pensato partorisce il non-pensato. Il pittore fa
germinare l’invisibile dalla sua visione come il filosofo tramite il
suo pensiero genera il non-pensato. Queste attività, incarnate nel
vedere e nel pensare, sono viste come un compito da svolgere,
17
sia per alcuni filosofi che per alcuni artisti. Compito arduo e
senza certezza, privato della sicurezza nel raggiungimento di un
obbiettivo, incessante e profondo ricominciamento dell’opera,
visione e pensiero mutevoli e perpetuamente erranti. L’irriflesso
di cui parla Merleau-Ponty non è al margine della riflessione ma
risiede e vive nel cuore del pensato stesso. Il filosofo francese,
citando Heidegger, ricorda che tanto è più grande l’opera
filosofica maggiore sarà il non pensato che ci viene incontro. La
relazione che sembra delinearsi così tra il pensato e il non-
pensato non è quella della riflessione come alone luminoso che si
staglia su uno sfondo buio di non-pensato, il non-pensato è
presentato come la scia del pensato stesso. Ogni pensato produce
un non-pensato come il fuoco partorisce la luce, più grande è la
fiamma che arde e maggiore è l’illuminazione. Il non pensato
verso cui tende Merleau-Ponty mediante la sua interrogazione
incessante è da ricercarsi nell’esperienza del mondo percettivo
vissuta con il nostro corpo. Merleau-Ponty durante il suo iter
filosofico pone come problema centrale l’interrogazione del
mondo pre-oggettivo, pre-categoriale e pre-riflessivo
dell’esperienza percettiva. Questo mondo selvaggio che il filosofo
francese esplora, mondo inter-carnale dove la distinzione
soggetto-oggetto svanisce, seppur originario, si presenta
realmente solo a partire dall’instaurarsi dell’oggettività logica. Il
nostro essere nel mondo, seppur condizione originaria, sembra
avere la tendenza ad essere dimenticata, a farsi latente prima e
scontata poi. Come tutti i luoghi inesplorati, come quelli che nelle
mappe antiche avevano mostri marini, anche il mondo
primordiale, quello precedente alla nascita di ogni coscienza e di
ogni idea, il mondo che Merleau-Ponty decide di interrogare,
sembra essere vittima del senso comune e del pregiudizio, sia da
parte della scienza che della filosofia. Nell’introduzione di
Fenomenologia della percezione Merleau-Ponty critica
fortemente i pregiudizi tradizionali dell’empirismo e
dell’intellettualismo, sentendo << l’esigenza di una descrizione
pura che escluda sia il procedimento dell’analisi riflessiva che
quello della spiegazione scientifica>>19. Nell’analisi riflessiva il
mondo rivelato dalla percezione sembrerebbe niente più che un

19 M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. , p.17.


18
incerto balbettare, un pensiero confuso che necessita dell’azione
unificante dell’intelletto. La volontà del filosofo di ricondurre il
soggetto gnoseologico al soggetto corporeo senziente-sensibile
non vuole creare una frattura tra pensiero e visione o tra
percezione e intelligenza, ma evidenziarne invece la loro
profonda relazione.
Al procedimento scientifico, invece, Merleau-Ponty rimprovera
di non considerare il problema della percezione perché
considerato un sapere di principio, senza bisogno di prove, da
ricondursi ad una problematica interiormente soggettiva.
<< Tutto l’universo della scienza è costruito sul mondo vissuto e
se vogliamo pensare la scienza stessa con rigore , valutarne
esattamente il senso e la portata, dobbiamo anzitutto risvegliare
questa esperienza del mondo di cui essa è l’espressione
seconda.>>20. In Segni il filosofo francese racconta di un incontro
tra due menti geniali , Henri Bergson ed Albert Einsten, avvenuto
alla Societé de Philosophie, a Parigi, nell’aprile del 1922. Il tema
attorno a cui si sviluppa il dibattito tra il filosofo ed il fisico è
sulla reale natura del tempo, sul rapporto che intercorre tra un
tempo vissuto e percepito nel corpo proprio ed un tempo
oggettivamente dato dai calcoli del fisico. Per Merleau-Ponty
molteplici sono i tempi, uno per ogni osservatore. La
simultaneità della nostra percezione ci fa però vedere altri
osservatori, << il cui campo sconfina nel nostro, ne immaginiamo
altri ancora il cui tempo sconfina in quello dei precedenti, e così
arriviamo a estendere la nostra idea del simultaneo a eventi
lontani l’uno dall’altro quanto si vuole, a eventi che implicano
osservatori diversi. Così ,c’è un tempo unico per tutti , un solo
tempo universale >>21 . Einsten pur riconoscendo che il tempo
percepito, il tempo di cui abbiamo esperienza, sia alla base
dell’idea del tempo unico, credeva però che il tempo vissuto non
avesse autorità al di fuori della nostra visione e che non era
possibile << estendere al mondo intero la nostra nozione
intuitiva del simultaneo >>22. Considerando due uomini posti ad

20 Ibidem.

21 M.Merleau-Ponty, Segni, cit. , p.256.

19
una certa distanza la fisica ci dice che il tempo del primo è
dilatato rispetto al punto in cui è collocato il secondo;
nell’esperienza che viviamo sarebbe però difficile pensare che
nell’uomo che vedo in lontananza il tempo scorra, per lui, in
modo differente da quello che io percepisco. Il tempo che la fisica
stabilisce sembrerebbe ignorare e dimenticare il tempo reale che
percepiamo, che viviamo con il nostro corpo, creando così un
tempo mitico. <<E’ sorprendente vedere Einstein degradare
come “psicologia” la nostra esperienza del simultaneo, la quale si
effettua grazie alla percezione dell’altro e all’intersecarsi dei
nostri orizzonti percettivi e di quelli degli altri : per lui non c’è
motivo di dare valore ontologico a questa esperienza, in quanto
esso è puro sapere d’anticipazione o di principio e si fa senza
operazioni, senza misure effettive>>23. Può esistere un tempo,
che non sia originariamente il mio tempo, quello che io vivo con
il mio corpo senziente-sensibile? Un tempo oggettivamente dato
potrebbe veramente esistere senza lo sfondo del nostro tempo
primigenio e originario, << l’unico che sia successione, divenire,
durata, insomma l’unico che sia veramente tempo-di cui abbiamo
l’esperienza o la percezione prima di ogni fisica? >> 24 .
L’esperienza che abbiamo del tempo vissuto e l’idea del tempo, il
mondo e la vita che viviamo ed il pensiero sulla vita e sul mondo,
sono temi che ci accostano al campo che Merleau-Ponty indaga,
quel punto da cui germinano tutti i mondi, quel mondo carnale e
originario che precede ogni tesi : il mondo che viviamo
nell’esperienza percettiva. Il filosofo francese, influenzato dalla
fenomenologia di Husserl, assegna alla filosofia il compito
primario di indagare il mondo primordiale che si realizza
nell’esperienza percettiva, un mondo pre-teoretico e pre-
oggettivo, sempre presente prima di ogni riflessione.
<< A partire dal momento in cui l’esperienza, cioè l’apertura al
mondo di fatto, è riconosciuta come il cominciamento della
coscienza, non c’è più modo di distinguere un piano delle verità a

22 Op.cit. , p.257.

23 M.Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit. , p.44.

24 M.Merleau-Ponty, Segni, cit. , p.256.


20
priori dalle verità di fatto, ciò che il mondo deve essere è ciò che
esso è effettivamente>>25. Possiamo separare il commercio che
viviamo con il mondo, attraverso il nostro corpo, dalla ricerca
sulla natura profonda delle cose e del nostro essere? Posso
veramente dividere il mio essere, umano, dal mio essere nel
mondo? Ciò che vivo in me dal mio corpo senziente-sensibile,
l’interiore dall’esteriore, l’immateriale dal materiale?
Merleau-Ponty rimprovera alla scienza di dimenticare il mondo
che percepiamo, un mondo originario, lo stesso da cui germina
ogni scienza ed ogni filosofia, infatti << per secoli la scienza e la
filosofia sono state sorrette dalla fede originaria della
percezione>>26. Nella dialettica che sembra delinearsi tra verità
scientifica e filosofica, l’aspetto interessante ai fini di questo
lavoro è il modo pregiudizievole con cui la scienza esclude dalla
metodologia della sua analisi il mondo percepito, rendendolo
così solo un mondo barbaro nei confronti della sua nobile
civiltà. <<Dovremo mostrare come l’idealizzazione fisica
oltrepassi e dimentichi la fede percettiva >>27. Il tema sollevato ci
conduce al cuore di uno dei problemi dell’indagine
fenomenologica inaugurata da Edmond Husserl, che influenzerà
molto il pensiero di Merleau-Ponty, il tema della Lebenswelt :
mondo della vita in cui siamo naturalmente inscritti prima di
ogni riflessione sul mondo o su di noi. Per il filosofo francese la
Lebenswelt e la filosofia non sono in nessun modo in contrasto,
<< fra la Lebenswelt come Essere Universale e la filosofia come
prodotto estremo del mondo non c’è rivalità o antinomia : è la
filosofia che disvela la Lebenswelt >> 28. Merleau-Ponty afferma
che i fenomeni che indaga la fenomenologia non sono stati di
coscienza o fatti psichici e che il campo fenomenico non è un
mondo oscuro ed interiore 29. La fenomenologia vuole imparare

25 M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. , p.299.

26 Op.cit. , p.97.

27 M.Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit. , p.44.

28 Op.cit. , p.188.

29 Cfr. M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. , p.101.


21
a tornare a vedere al cuore delle cose per esplicitare quel sapere
primordiale sul mondo, privilegiando il soggetto percettivo-
corporeo perché è lì che cerca l’accesso alla verità.
<< La fenomenologia è lo studio delle essenze, e per essa tutti i
problemi consistono nel definire delle essenze, per esempio
l’essenza della percezione o quella della coscienza>> 30 . Le
essenze di cui parla il filosofo francese non sono puri oggetti di
pensiero, analiticamente e logicamente indagabili; l’essenza non
può essere separata dall’esistenza in cui è inscritta, come il
colore è inscindibile dalla sua sostanza o il significato dell’opera
d’arte dalla forma contingente in cui si presenta. << Un colore
non è mai semplicemente un colore, ma il colore di un certo
oggetto, e l’azzurro di un tappeto non sarebbe il medesimo
azzurro se non fosse un azzurro lanoso >>. 31
Su quanto afferma Merleau-Ponty riguardo l’esperienza
dell’azzurro lanoso, l’impossibilità cioè di scindere sostanza e
colore, è interessante sottolineare come numerosi studi sulla
percezione del colore in diverse culture dimostrino che in tutto il
mondo antico come in molti popoli non occidentali il concetto di
colore è inseparabile dalla sua sostanza.
<< I maori hanno 3000 nomi di colori, non perché ne
percepiscono molti, ma viceversa perché non li identificano
quando appartengono a oggetti di struttura diversa >>32. Tra i
popoli delle steppe asiatiche non si conosce la differenza tra un
giallo ed un verde ma si enumerano decine di nomi per
distinguere la texture dei loro amati cavalli. Se dovessimo
stabilire cosa è il bianco, o un altro colore, ci troveremmo in
grande difficoltà perché dovremmo coniugare un concetto
astratto con un esperienza concreta. Dove si nasconde il bianco
più vero? Nella neve, nel marmo, nell’increspatura delle onde o
nel foglio dove scrivo? L’essenza di un colore è inscindibile dalla
sua esistenza concreta e nell’esperienza percettiva che viviamo
con il colore è evidente come sia un astrazione separare

30 Op.cit. , p.15.

31 Op.cit. , p.410.

32 Op.cit. , p.401.
22
l’essenza dall’esistenza. Secondo Merleau-Ponty è necessario che
la filosofia ricollochi il piano delle essenze sul piano
dell’esistenza, perché né l’essere umano, né il mondo, possono
essere compresi veramente senza indagare la loro “fatticità”33.
<< La prima consegna che Husserl impartiva alla fenomenologia
esordiente, di essere cioè una “psicologia descrittiva” o di
“ritornare alle cose stesse” è anzitutto la sconfessione della
scienza(…). La scienza non ha e non avrà mai il medesimo senso
d’essere del mondo percepito, semplicemente perché esso ne è
una determinazione o una spiegazione >>34 . Merleau-Ponty
pensa che il rapporto che esiste tra il mondo vissuto nella nostra
esperienza e le determinazioni scientifiche, che ne sono una
conseguenza, sia simile a quello che c’è tra un paesaggio e la
geografia. Il rapporto che sembra delinearsi tra il mondo dei
concetti e quello dell’esperienza è simile a quello che nella storia
della cartografia occidentale c’è tra la pratica e la teoria.
<< La storia della cartografia occidentale è storia di una
competizione in cui la pratica balza in testa alla teoria, e la teoria
cerca di recuperare>>35 . Non potremmo comprendere l’azzurro
del Mediterraneo sulle cartine geografiche se non avessimo
l’esperienza del mare. Afferma Merleau-Ponty : << l’esperienza
anticipa una filosofia così come la filosofia è un esperienza
delucidata>>36. L’ideologia oggettivistica postulata dalle scienze
viene confutata da Merleau-Ponty, non nell’intento di creare un
pensiero soggettivistico o anti-scientifico bensì nella volontà di
indagare e revisionare ontologicamente le nozioni di soggetto e
di oggetto. Non esiste nel filosofo francese l’idea di una rivincita
ed una prevalsa del soggettivo sull’oggettivo, dell’interiore
sull’esteriore, dell’invisibile sul visibile o dello spirituale sul
materiale. Nella sua filosofia non esiste una netta ed
intransigente separazione tra queste polarità ma un rapporto di

33 Cfr. Op.cit. , p.15.

34 Op.cit. , pp.16-17.

35A.W.Crosby. La misura della realtà (Cambridge 1997), trad.it. Dedalo, Bari,


1998, p.110.

36 M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. , p.109.


23
profonda reversibilità e funzionalità. Un oggetto percepito ed il
soggetto che percepisce sono nozioni inseparabili, tra loro esiste
infatti un rapporto di correlazione necessaria da cui non è
possibile scinderli. Non potrebbe esistere un visibile capace di
escludere il vedente o una percezione che non implichi anche il
percepito, così non esiste pensiero senza essere pensante. Il
superamento che Merleau-Ponty opera tra le nozioni di soggetto
ed oggetto è direttamente proporzionale all’oltrepassamento
della distinzione tra esistenza ed essenza 37. La fenomenologia è
strettamente connessa al suo metodo e non esiste indagine
fenomenologica senza metodo fenomenologico 38.
Merleau-Ponty nella sua ripresa personale della fenomenologia
husserliana riprende prima di tutto il rigore del metodo che
l’analisi fenomenologica presuppone 39.
Il metodo fenomenologico indaga come sia possibile ritornare a
vedere al cuore delle cose, alla loro essenza, come recuperare
quel senso di stupore e mistero di fronte al mondo, dimenticando
quella presunta familiarità con le cose che il nostro sapere
prestabilito ci offre. L’indagine fenomenologica inaugurata da
Husserl non cerca l’esattezza della conclusione ma la verità nel
metodo, non è né un materialismo e neanche una filosofia dello
spirito, << la sua peculiare operazione consiste nel rivelare lo
stato pre-teoretico in cui le due idealizzazioni trovano il loro
diritto relativo e vengono superate >> 40 . L’atteggiamento
naturale è secondo Husserl il vero inizio della riflessione
fenomenologica, qui abita infatti l’enigma di una tesi originaria
che precede ogni tesi, un Urdoxa, fede che << oppone
all’originarietà della coscienza teoretica l’originarietà della
nostra esistenza>>41. Merleau-Ponty parla di fede percettiva e

37 Cfr, P.Nepi, Merleau-Ponty. Tra il visibile e l’invisibile, Edizioni Studium,

Roma, 1984, p.23.

38 Cfr. M,Merleau-Ponty, Op.cit. , p.16.

39 Cfr. P.Nepi, Op.cit.

40 M.Merleau-Ponty, Segni, cit. , p.217.

41 Ibidem.
24
non di sapere. La fede percettiva è quell’evidenza del nostro
esistere nel mondo, senza prove o analisi, offerta dalla nostra
esperienza carnale. La realtà che vediamo non è mai postulata
vera mediante un analisi empirica o una riflessione intellettuale
che operiamo su di essa, l’esperienza del nostro corpo che
commercia con il mondo è originaria, anteriore ad ogni pensiero
o analisi sul mondo stesso. La necessità del filosofo francese e
della fenomenologia di indagare e attingere a questo mondo
selvaggio e barocco non nasce dalla volontà di ricollocare il
pensiero e l’essere umano in un luogo originario e puro, una
sorta di Eden a cui potremmo aspirare un ritorno. Tutta la
ricerca fenomenologica e merleaupontiana sono imbevute di
profonda razionalità e se la loro riflessione si vuole collocare nel
mondo che viviamo e non nel mondo teoretico e oggettivo è
perché in questo vede un accesso alla verità. Nelle note di lavoro
de Il visibile e l’invisibile il filosofo paragona l’apertura al mondo
che ci offre la percezione al taglio con cui il chirurgo incide il
paziente, l’apertura ottenuta tramite l’operazione ci fa così
vedere un mondo carnale di organi in pieno funzionamento 42.
<< Cercare l’essenza della percezione significa dichiarare che la
percezione è non presunta vera, ma definita per noi come
accesso alla verità >> 43. Se la percezione può essere definita
come accesso alla verità è perché << il segreto del mondo che
noi cerchiamo deve necessariamente essere contenuto nel mio
contatto con esso >>44. Il mondo della percezione come apertura
da cui spiare l’originario, l’essenza dell’essere umano e del
mondo, perché è qui che avviene il contatto e il chiasma tra loro,
è qui il luogo dove non sono ancora separati. La filosofia di
Merleau-Ponty ha l’esigenza di ritornare ad un sapere
primordiale, prima di ogni coscienza ed oggettivazione.
Interrogare questo strato grezzo di sensibile, immergersi
attraverso questo mondo selvaggio che si rivela, sembrerebbe
essere uno dei compiti che tanto la fenomenologia di Husserl che

42 Cfr. M.Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit. , p.232.

43 M.Merleau Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. , p.26.

44 M.Merleau ponty, Il visibile e l’invisibile, cit. , p.57.


25
l’indagine di Merleau-Ponty si sono posti come compiti
fondamentali. Questa volontà di ricollocare il pensiero in un
ordine pre-teoretico e pre-oggettivo nasce dall’esigenza di
riscoprire l’essere umano nel mondo della vita, mondo in cui è
naturalmente inscritto prima di ogni riflessione possibile.
L’essere umano, prima di essere pensante, è un essere senziente
e sensibile. Merleau-Ponty vede nell’esperienza carnale il nostro
vero veicolo verso il mondo e verso l’altro. Il filosofo francese
vede un chiasmo silenzioso tra l’essere senziente, mediante
l’esperienza del corpo, e l’oggetto sensibile, percepito nel mondo.
Non esiste un oggetto in sé, astratto e separato dalla percezione
che ce lo fa conoscere, svincolato dalla prospettiva dell’essere
senziente e situato che lo percepisce. Secondo Merleau-Ponty il
soggetto percepisce attraverso il suo corpo come un vetro
colorato trasforma l’oggetto illuminato, senza rifiutare l’accesso
alle cose in sé stesse, senza metterle fuori di lui, mostrando così
la profonda ambiguità che caratterizza l’esperienza percettiva, il
chiasma tra il mio essere corporeo ed il mondo. Il corpo è lo
schermo chiaro attraverso cui percepiamo il mondo ma conserva
l’ambigua qualità di rendersi latente, come una superficie tanto
trasparente che sembra scomparire per svelare ciò che ha
dietro; quando però questa superficie diventa opaca, allora la
sua sostanza è maggiormente visibile, si rivela come filtro, così
nel corpo che si ammala si ha la coscienza, dimenticata
normalmente, di quanto la nostra carne sia lo schermo tra noi e il
mondo. Soggetto ed oggetto si articolano e si innestano l’uno
nell’altro come nel rapporto che il mio corpo senziente ha con se
stesso, il suo sentirsi e vedersi è ambiguo, è un vedersi vedente-
visibile, un sentirsi toccato-toccante. Nel contesto di questa
riabilitazione ontologica del sensibile dovremmo inquadrare il
grande interesse filosofico che Merleau-Ponty riserva per
l’esperienza artistica ed in particolare per la pittura. Se per
Merleau-Ponty le scienze e la filosofia hanno dimenticato quel
mondo prestorico e pre-teoretico che la percezione risveglia in
noi, la pittura invece non ha mai smesso di attingervi e di
ricercarvi. Solo un grossolano fraintendimento potrebbe indurci
a pensare che l’attenzione del filosofo francese alle ricerche della
pittura moderna sia nato dalla volontà di dettare normative
estetiche o giudizi storici e stilistici. Le opere d’arte saranno per
26
Merleau-Ponty, durante tutta la sua ricerca filosofica, uno
stimolo ed una conferma alle sue profondissime indagini
metafisiche ed ontologiche. La scelta di elevare l’operare
pittorico ad esperienza filosofica, nasce tanto da una necessità
che da una scelta. La necessità che indirizza la ricerca di
Merleau-Ponty verso il lavoro silenzioso del pittore nasce
probabilmente dalla cecità e dall’arroganza, tanto
dell’intellettualismo che dell’empirismo, verso il mondo
originario e pre-oggettivo della percezione. Lo scienziato e il
filosofo sembrano essere ciechi e indifferenti al mondo che
viviamo mediante la nostra percezione mentre il pittore,
spontaneamente, restituisce questo mondo primordiale
attraverso il suo lavoro che fa nascere lo spettacolo della visione
sulla tela. L’operare pittorico e l’opera che ne deriva rendono
manifesto, per Merleau-Ponty, in maniera esemplare, quel
chiasma tra vedente e visibile, tra soggetto e oggetto, che
caratterizza la nostra esperienza corporea e il nostro essere nel
mondo. << In linea di principio la pittura si rimette all’apparato
della percezione, considerato come un mezzo naturale e dato di
comunicazione tra gli uomini >>45. Il lavoro di Cézanne, la sua
sensibilità alle falde grezze della percezione, ci restituisce quella
che Merleau-Ponty definisce la carne del mondo, il luogo remoto
dove la reversibilità tra gli elementi rende ambigua e superflua la
distinzione tra soggetto e oggetto, tra anima e corpo o tra
pensiero e visione. << Non serve a nulla contrapporre qui le
distinzioni fra anima e corpo, o fra pensiero e visione, perché
Cézanne ritorna appunto all’esperienza primordiale donde tali
nozioni sono tratte e che ce le presenta inseparabili >>46.
La pittura sembra darci non solo una visione di elementi ma
anche lo sguardo che questi sembrano restituirci, rivela lo spazio
primordiale dove le nozioni di vedente e visibile, soggetto e
oggetto, si intrecciano in un chiasma nel quale sono inscindibili.
Secondo Merleau-Ponty , il vedere, più di ogni altro senso, ha il
privilegio di mostrarci questo Essere selvaggio, quel chiasmo
profondo che si crea nell’esperienza vissuta tra l’essere vedenti e

45 M.Merleau-Ponty, Segni, cit. , p.73.

46 M.Merleau-Ponty, Senso e non senso, cit. , p.34.


27
l’essere visibili, tra soggetto e oggetto, tra attività e passività.
Questo Essere selvaggio che si rivela nel mondo percepito non è
pensato dal filosofo francese come un oggetto in relazione al
nostro pensiero come soggetto. Nella sua prospettiva ontologica
Merleau-Ponty opera un superamento delle dualità tradizionali
di oggetto e soggetto, nel tentativo di fondare un concetto di
Essere che riprenda contemporaneamente sia la soggettività che
l’oggettività. L’Essere che Merleau-Ponty descrive ha un
carattere ambiguo perché è nello stesso momento l’essere del
soggetto che percepisce, l’essere dell’oggetto percepito, e l’essere
della relazione osmotica che nasce tra questi due elementi. La
necessità del filosofo francese di immergersi nel mondo
originario della percezione non rispecchia in nessun modo la
volontà di ritornare ad un mondo innocente e puro, ma nasce
dalla volontà di chiarire e illuminare il nostro sapere
primordiale del reale, da cui ogni sapere sgorga. La nostra vita , è
, prima di ogni idea o discorso su di essa, ciò che viviamo, così
anche il mondo. << Cercare l’essenza del mondo non è cercare
ciò che esso è in idea, una volta che l’abbiamo ridotto a tema di
discorso, ma cercare ciò che di fatto è per noi prima di ogni
tematizzazione >>47. La modalità che ho di essere nel mondo
mediante l’esperienza carnale che vivo nel mio corpo è
primigenia ed irriducibile, così tutte le scienze e la filosofia
nascono da questo humus. Merleau-Ponty si interroga se questa
Urdoxa in cui sfocia l’atteggiamento naturale, questa tesi
anteriore ad ogni tesi, Welthesis, lasci intatti i nostri strumenti di
analisi ed in che modo cambino i concetti tradizionali e portanti
della nostra filosofia. Se solo attraverso il mio essere corporeo
posso essere nel mondo, se ogni cosa nasce da una percezione
del mio corpo e se il soggetto percettivo-corporeo è considerato
come luogo di accesso alla verità, allora è chiaro come fosse
necessaria una profonda riabilitazione ontologica del sensibile
nell’indagine filosofica di Merleau-Ponty. Questa riabilitazione
ontologica del sensibile non vuole però creare un opposizione ed
una frattura tra percezione ed intelligenza. Percezione ed
intelligenza, nel mondo che Merleau-Ponty indaga
filosoficamente e che Cézanne dipinge non sono ancora nozioni

47 M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. , p.25.


28
separate. La percezione di cui parla Merleau-Ponty è sinestesia,
simultaneità dei vari sensi che trova distinzione solo nella
successiva analisi scientifica del corpo anatomico non
nell’esperienza che viviamo. Cézanne diceva che la pittura
doveva far sentire perfino l’odore delle cose dipinte 48. Se la
percezione per il pittore è la modalità naturale di esperire il
mondo e partorire l’opera, per Merleau-Ponty invece è il mezzo
privilegiato per scorgere e descrivere l’originario, la coscienza e
il mondo naturale al loro stato nascente, come se fossero
osservati con stupore per la prima volta. << Il sapere assoluto del
filosofo è la percezione. “Supponiamo” si dice alla prima
conferenza di Oxford che invece di volerci sollevare al di sopra
della nostra percezione delle cose, noi ci sprofondiamo in essa
per approfondirla e allargarla…, avremo una filosofia alla quale
non è possibile opporne altre, perché essa non avrà lasciato nulla
dietro di sé che delle altre dottrine possano raccattare : essa
avrebbe afferrato tutto >>49. Il ritorno all’esperienza originaria
del mondo vissuto, la fede percettiva come primo atto filosofico,
rispecchiano probabilmente la volontà del filosofo francese di
indagare tanto i limiti che i diritti del mondo oggettivo. Secondo
Merleau-Ponty << il concetto scientifico è il mezzo per fissare e
oggettivare i fenomeni >>50. Un dato oggettivo è un dato
soggettivamente condiviso nell’evidenza dell’esperienza, <<
poiché la cosa pienamente oggettiva è fondata sull’esperienza
degli altri, quest’ultima sull’esperienza del corpo, che, è in un
certo qualmodo una cosa >>51. Sappiamo che il cielo è azzurro o
che il sole è luminoso mediante la percezione che abbiamo con il
nostro corpo senziente ma solamente nella possibilità della
comprensione e della comunicazione con l’altro della nostra
esperienza possiamo davvero determinarlo come un dato
oggettivo. Se la filosofia vuole imparare a vedere il cuore delle
cose, la loro essenza nell’esistenza del mondo , allora questo

48 Cfr. M.Merleau Ponty, Senso e non senso, cit. , p.34.

49 M.Merleau-Ponty, Elogio della filosofia, cit. , pp.22 – 23.

50 M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. , p.97.

51 M.Merleau-Ponty, Segni, cit. , p.230.


29
vedere è sempre mediato dalla fatticità e dalla contingenza
originaria del nostro corpo. La filosofia non può pensare di
eludere la contingenza, tanto corporea quanto storica, ma deve
immergersi in essa, fare di questa compromissione un momento
fondante del suo operare. La prima critica che Merleau-Ponty
muove all’ideologia oggettivistica è che il nostro corpo, quello
con cui viviamo, non può essere considerato come un oggetto tra
gli oggetti, non può essere visto come un tavolo, un albero o una
nuvola. Non possiamo davvero vedere il nostro corpo dal di
fuori, non possiamo dividere il nostro essere visibili dal nostro
essere vedenti. Non possiamo oggettivare e visualizzare
realmente il nostro corpo vissuto, quello che Merleau-Ponty
definisce il corpo fenomenico, perché non possiamo risalire oltre
al nostro unico e naturale punto di vista : il nostro stesso corpo.
Il corpo che vivo non ha la proprietà di sparire dal mio sguardo
come se fosse un oggetto qualsiasi. << Il corpo non più come
oggetto del mondo ma come mezzo della nostra comunicazione
con esso, continuamente presente, anch’esso, prima di ogni
pensiero determinante >>52. Il corpo è il soggetto naturale e il
perno della nostra esperienza con il mondo. Se dovessimo far
coincidere il binomio forma-sfondo con il binomio io-mondo, si
potrebbe pensare al nostro corpo come forma e al mondo come
sfondo; visione però impossibile, mitica, che vuole vedere questo
rapporto come se fosse visto dal di fuori della nostra esperienza
carnale. Il nostro corpo non è la forma che si staglia sullo sfondo
del mondo, il nostro corpo è in verità lo sfondo buio da cui nasce
ogni visione ed ogni mondo. Grazie all’oscurità del cielo notturno
possiamo ammirare la luce lontana delle stelle, così il nostro
spazio corporeo in relazione al mondo è l’oscurità necessaria
alla chiarezza dello spettacolo. << Lo spazio corporeo può
distinguersi dallo spazio esterno e avviluppare le sue parti
anziché dispiegarle, perché esso è l’oscurità necessaria alla
chiarezza dello spettacolo, (…) la zona di non essere di fronte al
quale possono apparire degli esseri precisi, delle figure, dei punti
>>53. Il corpo che viviamo non è ciò che ci unisce al mondo ma è

52 M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. , p.144.

53 Op.cit. , p.154.
30
la sua matrice, ciò da cui sgorga il nostro essere nel mondo. Il
corpo è lo sfondo latente su cui si proietta lo spettacolo della
visione e questa sua possibilità di dissimularsi è possibile solo
grazie alla sua profonda inerenza al mondo stesso, infatti << le
cose sono un suo annesso o un suo prolungamento, sono
incrostate nella sua carne, fanno parte della sua piena
definizione, e il mondo è fatto della stoffa del mio corpo >>54.
Tra il tessuto di cui è tramato il nostro corpo e gli elementi che
sentiamo, vediamo e tocchiamo nel mondo esiste un rapporto di
profonda intimità, come tra l’acqua fresca che bevendo sentiamo
scomparire all’altezza della trachea e la stessa acqua dentro la
bottiglia da cui abbiamo appena bevuto. Questo legame ambiguo
del corpo con il mondo permette di rivendicare il sentire come
problema centrale della riflessione filosofica, in quanto <<
l’oggetto percepito e il soggetto percipiente devono il loro
spessore al sentire>>55. La missione fondamentale che tanto la
fenomenologia di Husserl quanto la filosofia di Merleau-Ponty
stabiliscono come obbiettivo primario per la riflessione filosofica
è il ritorno dell’essere umano alla realtà dell’immediato e del
mondo vissuto. Il mondo non è ciò che creo tramite le mie
rappresentazioni ideali ma è il mondo stesso che vivo prima di
ogni tematizzazione. Merleau-Ponty vuole ricollocare il pensiero
in quell’ordine pre-teoretico e pre-oggettivo da cui tutte la
oggettivazioni derivano ed in cui trovano giustificazione e senso.
Nel pensiero di Husserl l’oggettività logica nasce dall’oblio
dell’intersoggettività carnale che dimentica sé stessa.
L’intersoggettività carnale, seppur condizione originaria, si
instaura veramente solo con la nascita dell’oggettività logica. Il
pensiero oggettivo ci allontana violentemente dall’esperienza
percettiva perché nasce solo a condizione che questa venga
dimenticata. L’esperienza percettiva che viviamo con il nostro
corpo, con lo spazio, con il tempo o con il mondo, si offusca e
diventa latente, trasferendosi così nel mondo delle idee :
nascono allora l’idea di soggetto, dell’oggetto, del tempo o del

54 M.Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito (Parigi 1964), trad.it. SE, Milano, 1989,

p.19.

55 M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. , p.96.


31
mondo. Le idee cadono allora nel pregiudizio che le vuole
lontane dalla percezione, distinte. Il punctum da cui questa
metamorfosi nasce è sempre il soggetto naturale della nostra
esperienza, la nostra unica apertura possibile al mondo : il
nostro corpo. Il sentire, inseparabile dal mio corpo vissuto, << è
quella comunicazione con il mondo che ce lo rende presente
come luogo familiare della nostra vita >>56. Il sentire è quel luogo
incoerente ed instabile partorito dall’incontro tra un soggetto
senziente e il mondo sensibile, spazio che Merleau-Ponty vuole
esplorare nelle sue profonde analisi sul soggetto e sull’oggetto
perché è qui che nasce il chiasma tra loro, il luogo dove è
possibile la loro reversibilità. Il sentire è quel punto di contatto
tra il senziente e il sensibile, tra il soggetto e l’oggetto, tra il mio
essere senziente e l’intero universo sensibile, è comunione. La
filosofia deve recuperare quello stupore ingenuo, il senso del
mistero di fronte allo spettacolo del mondo se vuole tornare a
vederlo. Il sentire non ha una logica, una coerenza come la
ragione , non raggiunge forse la sua esattezza ma non per questo
è meno vera. Gli artisti navigano attraverso il mare del sentire
che è l’essere senzienti al sensibile. Le parole sono monete che
spendiamo per comunicare con l’altro ma la sensibilità è l’oro
con cui commerciamo con l’universo intero. La ragione e la
coscienza teoretica sembrano essere tanto radicate nella nostra
idea di conoscenza che si dimentica e non si vede più il luogo da
cui queste germinano : la percezione stessa. Non descriviamo più
il mondo come veramente è , partendo dall’evidenza della nostra
percezione, bensì lo costruiamo partendo idealmente dai nostri
pregiudizi e idee su di esso. Dimentichiamo l’esperienza centrale
e originaria del nostro corpo vissuto, non legame o tramite con il
mondo, ma perno e fondamento del mondo stesso. Tendiamo a
considerare, come fa il pensiero scientifico, il nostro corpo come
oggetto tra gli oggetti e non come l’unico punto di vista che
abbiamo, l’unica finestra da cui possiamo avere accesso sul
mondo. Nel pensiero di Merleau-Ponty si pone il problema di
fondamentale portata filosofica nel riconoscere l’arroganza e la
presunzione della ragione nei confronti del mondo rivelato dalla

56 Ibidem.
32
percezione, <<un mondo vero ed esatto >>57. L’idea stessa di
ragione dovrebbe essere riformulata, accogliendo in sé
l’esperienza dell’irragionevolezza, se è vero che << la più alta
ragione confina con la non-ragione >>58 . Come la ragione pura
confina con la non ragione così il non sapere è l’accesso più
profondo al sapere stesso, non per qualche forma di scetticismo
nei confronti della verità ma per la consapevolezza che la ricerca
della verità trascende e sfugge ad ogni sapere determinato e
mezzo prestabilito. Ancora una volta nozioni tradizionalmente
pensate in antitesi e distanti tra loro non sono divise ma
funzionali ad un movimento che si produce. Merleau-Ponty
rileva come sia la scienza che certa filosofia abbiano contribuito
a creare una dicotomia tra il sapere ed il non sapere, tra
l’interiore e l’esteriore, tra il corpo e l’anima, tra una realtà
materiale ed una realtà spirituale. Il corpo umano viene
analizzato nelle sue condizioni meramente biologiche, visto
come un fascio di meccanismi tra i meccanismi, un oggetto tra gli
oggetti del mondo. Il filosofo francese rifiuta categoricamente
dualismi dogmatici e intransigenti tra polarità
pregiudizievolmente in contraddizione. La divisione netta e
intransigente tra realtà materiale e realtà spirituale, tra corpo e
anima, che tanto certo pensiero che certa scienza hanno
sembrato tracciare, appare come pregiudizievole nel pensiero di
Merleau-Ponty. L’oltrepassamento che opera Merlau-Ponty nella
sua filosofia tra queste polarità non è una conciliazione degli
opposti o un loro superamento, quanto invece un ricercare nel
luogo primordiale dove queste nozioni sono in contatto, dove
vivono ancora in un chiasma che le rende inscindibili. Come
visto, tale reversibilità tra polarità pensate come opposte,
avviene innanzitutto nell’esperienza che abbiamo con il nostro
corpo senziente-sensibile, vedente-visibile, toccante-toccato,
soggetto ed oggetto. << Il nostro secolo ha cancellato la linea di
separazione tra il “corpo” e lo “spirito” e vede la vita umana
come spirituale e corporea da cima a fondo, sempre appoggiata
sul corpo, sempre interessata, sin nei suoi modi più carnali, ai

57 Ibidem.

58 M.Merleau-Ponty, Senso e non senso , cit. , p.22.


33
rapporti fra le persone.(…)Il nostro secolo ha rinnovato e
approfondito la nozione della carne, cioè del corpo animato >>59.
Husserl distingue due nozioni differenti di corpo : Leib, che
corrisponde al corpo animato , il corpo che viviamo nell’
esperienza corporea, e Korper , il corpo anatomico che seziona il
medico. Secondo Husserl è l’anima ad essere radicata nella
materia corporea e mai il contrario. Il filosofo tedesco vede la
Natura come un mondo chiuso che non ha bisogno di ulteriori
realtà per fondarsi ed esistere. Al contrario, il mondo dello
spirito non potrebbe essere se non incarnato, infatti << uno
spirito reale può ,per essenza, essere connesso solo con la
materialità, come spirito reale di un corpo >> 60. Possiamo
concepire una materia senza spirito ma non uno spirito senza
materia, come possiamo esperire un corpo senza vita, ma non
una vita senza un corpo. Se è vero che l’anima abita il corpo è
anche vero che il corpo abita nel mondo, nasce così una
profonda ambiguità del nostro corpo, sentito da una parte come
il soggetto del nostro essere nel mondo ma nello stesso tempo
parte del medesimo tessuto e profondamente aperto a tutte le
cose. << La natura e il corpo, e anche l’anima, con esso
intrecciata, si costituiscono in rapporto reciproco l’uno con
l’altra, in un sol tratto >>61. Il tema dell’incarnazione pone
ancora al centro della sua meditazione i temi del sensibile e del
corpo senziente, dell’oggetto e del soggetto. Il nostro corpo non
può più essere considerato come un meccanismo in cui è
inscritto all’interno un centro spirituale che ne governa le azioni
: psichico e fisiologico, materiale e spirituale si rivelano intessuti
insieme nella medesima trama. Dimenticando l’esperienza
originaria del mondo vissuto nell’esperienza percettiva, il corpo
vivente viene trasformato dal pensiero dello scienziato in un
esteriorità senza interiorità e contemporaneamente la sua
soggettività in un interiorità senza esteriorità. L’essere umano
sarebbe in questa prospettiva uno spettatore impassibile nei

59 M.Merleau-Ponty, Segni, cit. , p.297.

60 Op.cit.. , p.217.

61 Op.cit.. , p.237.
34
confronti della sua esperienza62. Per Merleau-Ponty ricollocare il
pensiero e l’essere umano sul piano dell’esistenza, del
contingente, vuol dire rivendicare la centralità dell’esperienza
che viviamo, il nostro essere carnali e senzienti piuttosto che
coscienze disincarnate, il nostro essere irrimediabilmente al
centro della nostra esperienza e non marginalmente spettatori.
Vedremo meglio nel secondo capitolo come l’apparente
dicotomia tra l’ interiore e l’esteriore, tra spirituale e materiale,
tra anima e corpo diventi ambigua proprio nell’esperienza
vissuta del corpo proprio. Come potremmo infatti separare nell’
essere umano che ride o che piange ciò che è l’interiore da ciò
che è l’esteriore?

62 Cfr. M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. , p.99.


35
IL CHIASMA ATTRAVERSO UNA NUOVA
FENOMENOLOGIA DEL CORPO VISSUTO

Un antica meditazione, forse dei popoli erranti delle sconfinate


steppe mongole, vuole che contemplando il cielo stellato si scelga
una volta nella vita una ed una sola stella, tra le innumerevoli, da
ricercare ogni volta che si alza lo sguardo al firmamento
immenso e misterioso. Le stelle sono tutte diverse, per la luce
che portano, per il tempo che bruciano o per il posto che
occupano nell’oscurità dello spazio profondo, come gli esseri
umani, con il corpo che arde di vita, abitano un luogo preciso nel
verde mondo. Potremmo mai dividere le stelle, che bruciano ed
inondano di luce l’universo, dal cielo buio ed immenso in cui
sono immerse? Si può pensare un cielo senza stelle ma sarebbe
impossibile pensare le stelle senza il cielo, così potremmo
immaginare il mondo senza gli esseri umani ma non gli esseri
umani senza il mondo. Merleau-Ponty nel suo iter filosofico
esplora un territorio di confine, il nostro corpo, spazio profondo
tra l’essere e il mondo. Il corpo non può essere considerato
semplicemente come lo spazio in cui confinano una presunta
interiorità ed un esteriorità, un io ed un mondo, ma viene
definito dal filosofo francese come matrice che genera ogni
mondo esistente, la fonte da cui sgorga l’altro, l’io, o il mondo.
Non è possibile dividere il nostro corpo animato, sensibile al suo
ambiente, dal mondo percepito dove esiste. Merleau-Ponty vede
nella relazione primordiale ed inscindibile tra corpo animato e
mondo percepito, realizzata esemplarmente nel mondo
dell’esperienza percettiva, lo spazio dove avviene il chiasma tra
loro, dove si rivela la loro profonda consustanzialità carnale. In
questa zona di frontiera dove Merleau-Ponty ricerca le nozioni
tradizionali di “soggettivo” ed “oggettivo” perdono il loro
significato chiaro, diventando spazi ambigui e reversibili. <<
“Oggettivo” e “soggettivo” sono riconosciuti come due ordini
costruiti affrettatamente all’interno di un esperienza totale di cui

37
si dovrebbe, in tutta chiarezza, restituire il contesto >> 63 .
Tenteremo di esplorare in questo capitolo lo spazio selvaggio
dove quelle nozioni così chiare nella teoria e nella designazione
dei nomi diventano invece ambigue nell’esperienza vissuta, come
il confine tra il giallo ed il verde, tanto localizzabile ed esatto nel
pensiero trasmesso dalla nostra tradizione culturale quanto
profondamente incerto se si guardano le foglie illuminate dal
sole o quelle che vanno scolorendosi. Il chiasma che Merleau-
Ponty scorge nell’esperienza offerta dal nostro corpo vissuto tra i
concetti dogmatici e tradizionali di soggetto ed oggetto, res
cogitans e res extensa, interiore ed esteriore o io e mondo, ci
consente di tracciare un parallelo con quello sconfinamento
violento ed irreversibile tra arte e vita, tra opera ed operare, tra
artista e spettatore, che caratterizza e definisce profondamente
tutto l’operare artistico novecentesco. L’operare artistico
contemporaneo, a partire dalle avanguardie storiche, vuole
distruggere quella barriera tra arte e vita, perché avvenga tra
questi un osmosi radicale che permetta così all’opera di aprirsi al
mondo e al mondo di entrare nell’opera, accettando
inevitabilmente la contingenza insita nella vita e nel mondo.
Tale sconfinamento nel mondo e nella vita contagerà tutto
l’operare artistico contemporaneo e forse potrebbe già essere
individuato nella scelta dei pittori impressionisti di abbandonare
il luogo tradizionalmente adibito al loro lavoro, lo studio,
scegliendo così di dipingere en plen air, all’aperto, registrando
nelle loro opere non più visioni idealizzate ma incalcolabili ed
imprevedibili riflessi di luce solare che colorano diversamente
ogni cosa. La linea , che tradizionalmente in pittura imponeva
confini ai colori e tagliava una forma da uno sfondo scompare nei
quadri impressionisti. Questo chiasma tra arte e vita avvenuto
nell’operare artistico contemporaneo si è tradotto in una grande
vastità ed eterogeneità di mezzi e di poetiche durante tutto il XX
secolo fino ad oggi. In molte di queste, come vedremo, sarà
centrale il ruolo che il corpo assume nella fenomenologia
dell’operare artistico, in particolare attraverso la fisicità
radicalizzata dall’azione rituale dell’artista nella relazione con
l’opera, con lo spazio dell’evento o con lo spettatore.

63 M.Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile , cit. , p.46.


38
Nell’esperienza del corpo vissuto Merleau-Ponty incontra il
chiasma, l’osmosi tra soggetto e oggetto, la carne del mondo, non
attraverso calcoli o deduzioni logiche ma nell’evidenza che gli
offre la fede originaria dell’esperienza percettiva. Anche molto
operare artistico novecentesco vedrà in una nuova
fenomenologia dell’esperienza vissuta con il corpo, nella sua
relazione con l’opera, con l’ambiente, con lo spettatore, con
l’artista, il perno intorno a cui far ruotare quello sconfinamento
inevitabile tra arte e vita che stava mettendo in atto. Non si può
comprendere tanta arte contemporanea senza indagare la
relazione ambigua tra l’opera, l’operare, l’ambiente e relazione
con lo spettatore, così nel pensiero del filosofo francese non è
possibile indagare separatamente l’essere umano, il mondo e la
loro profonda reversibilità. Il corpo , con il suo mondo della
percezione, è il luogo dove Merleau-Ponty vede l’osmosi, il
chiasma, tra soggetto ed oggetto, tra me e l’altro, tra l’essere e il
mondo. Tra percezione e riflessione, come Cézanne, Merleau-
Ponty non vede antitesi, ma profonda affinità. << La riflessione
conserva tutto della fede percettiva : la convinzione che c’è
qualcosa, che c’è il mondo, l’idea della verità, l’idea vera data>>64.
Nell’esperienza percettiva che viviamo con il nostro corpo
Merleau-Ponty scorge quello spazio pre-categoriale e pre-logico
in cui si rivela la consustanzialità tra l’interiore e l’esteriore, tra il
tessuto di cui è tramato il mio corpo e la stoffa del mondo, luogo
dove la filosofia da lui auspicata dovrebbe ricollocarsi e
ricercare. Solo sullo sfondo dell’oblio, della perdita di contatto
con il mondo dell’esperienza percettiva, nasce l’idea di un
pensiero oggettivo, quello del senso comune e della scienza. Le
idee di tempo e spazio germinano dalle macerie di quel sapere
pre-logico e pre-categoriale , da quella fede primordiale che
viviamo nella nostra esperienza corporea prima di ogni idea su
noi o sul mondo. << L’esperienza dei fenomeni non consiste
dunque, come l’intuizione bergsoniana, nell’esperire una realtà
ignorata, verso la quale non vi è passaggio metodico, ma
nell’esplicitare o nel riportare alla luce la vita prescientifica della
coscienza, la quale è la sola a dare il loro senso completo alle
operazioni della scienza a alla quale queste operazioni rinviano

64 Op.cit. , p.55.
39
sempre >>65. Ricollocare al centro dell’esperienza filosofica la
centralità dell’esperienza vissuta e della percezione vuol dire per
il filosofo francese tentare di comprendere la relazione fra il
corpo e l’esistenza, perché è questo lo spazio dove avviene
l’osmosi tra loro. << Né il corpo né l’esistenza possono essere
considerati come l’elemento originale dell’essere umano, giacchè
entrambi si presuppongono vicendevolmente e il corpo è
l’esistenza cristallizzata o generalizzata, e l’esistenza un
incarnazione perpetua >>66. Il corpo vissuto, Leib, è inseparabile
dal mondo percepito, dalla dimensione spaziale e temporale che
abita. Lo stesso atto percettivo secondo Merleau-Ponty deve
essere radicalmente ripensato, ridefinendo le categorie di
soggetto e oggetto così come di interiore ed esteriore.
<< Non appena si cessa di pensare la percezione come l’azione
del puro oggetto fisico sul corpo umano e il percepito come il
risultato “interiore” di questa azione, sembra che si disgreghi
ogni distinzione del vero e del falso, del sapere metodico e dei
fantasmi, della scienza e dell’immaginazione >> 67 . Nell’atto
percettivo è incarnata un originaria comunione con il mondo,
una consustanzialità carnale che cancella i confini stabili e chiari
tra l’io , l’altro e il mondo. << Come l’uomo naturale , noi ci
poniamo in noi e nelle cose , in noi e nell’altro, nel punto in cui ,
per una specie di chiasma, diveniamo gli altri e diveniamo
mondo >>68 . Per il filosofo francese il rapporto tra soggetto ed
oggetto nell’esperienza percettiva è ambiguo e reversibile come
la relazione toccante-toccata tra due mani che si incontrano in un
contatto. Nella relazione ambigua che viviamo con il nostro
corpo senziente-sensibile, vedente-visibile, è paradossale come
questo sia qualcosa che ci identifica profondamente come noi
stessi ma nello stesso momento viene percepito come qualcosa
che non ci appartiene, che continuamente ci sfugge. Il corpo è per
noi matrice del mondo ma è anche vero che è consustanziale a

65 M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. , p.103.

66 Op.cit. , p.234.

67 M.Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile , cit. , p.52.

68 Op.cit. , p.176.
40
quel mondo stesso che partorisce, e che in fondo, noi e il mondo,
siamo della stessa stoffa, del medesimo fango. L’artista
giapponese Kazuo Shiraga, nel 1955, alla prima manifestazione
del gruppo Gutai, presenta Challenging Mud, operazione artistica
in cui si rotola nel fango, volendo mostrare con quest’azione
quell’ambiguità che esiste tra la sua lotta contro la materia ed il
suo stesso essere materia. Il fango, la terra rossa, è l’elemento
con cui nella Genesi viene plasmato e modellato Adamo a nostra
immagine e somiglianza, e nelle sue narici venne soffiato il ruach,
l’alito vitale che gli dona la vita. Il fango ed il soffio, la terra e
l’aria, sono simboli antichissimi del rapporto tra materia e
spirito, anima e corpo. La parola italiana anima viene dal latino
anima, che deriva dal greco anemos, che vuol dire soffio. La
parola greca psykhe viene dal verbo psykho, respirare, soffiare.
L’artista italiano Giuseppe Penone realizza nel 1970 un opera
intitolata Soffio, dove viene evocata quell’antica analogia tra il
respiro e l’anima, tra il fango e la carne. Penone realizza un calco
in negativo del suo corpo, una traccia del suo respiro nella
materia plasmabile, la terracotta, evocando così il corpo
mediante la sua assenza. La terracotta è il materiale con cui da
tempo immemore si costruiscono vasi, contenitori
profondamente connessi con la sostanza che accolgono. La
scultura da un lato ricorda un grande vaso panciuto e dall’altro
mostra la forma dei flussi d’aria del corpo dell’artista impressi
nella terracotta. L’importanza attribuita al processo con cui
l’artista crea l’opera, all’operare, è documentata e testimoniata
attraverso una serie di fotografie e didascalie. L’aria è
quell’elemento invisibile ed impalpabile che incarna quella
continua osmosi tra il nostro corpo ed il mondo, permettendo la
vita. In molte discipline orientali, dove il corpo è la stanza in cui
si educa lo spirito, l’azione del respirare ha un ruolo centrale. Nel
respirare è incarnata quell’osmosi tra noi ed il mondo e non
potremmo mai separare l’essere incarnato e senziente dal
mondo sensibile e materiale che abita, così nell’esperienza
percettiva che viviamo, carnale ed originaria , tale distinzione è
sconosciuta. Merleau-Ponty cerca al di sotto della relazione
classica tra soggetto e oggetto, tra res cogitans e res extensa, tra
io e mondo, e vuole indagare quello spazio selvaggio, prima di
ogni idea, dove questi concetti non sono ancora mai nati. Da
41
questo luogo selvaggio, dalle sue rovine e dal suo oblio , è
partorito ogni sapere. Il tempo con cui contiamo anni, ore o
minuti, il tempo dello scienziato, nasce dall’oblio dell’unico
tempo possibile, il tempo originario che viviamo con il corpo.
Nella critica che Merleau-Ponty muove all’idea di un tempo
oggettivo, un tempo che dimentica il tempo originario che
abitiamo nella percezione, è implicita anche la critica all’idea di
uno spazio assoluto ed oggettivo. << Non si deve dire che il
nostro corpo è nello spazio, né d’altra parte che è nel tempo. Esso
abita lo spazio e il tempo >>69. Per Merleau-Ponty l’essere umano
non è solo inscritto in un mondo che lo circonda ma possiede
anche un suo mondo, quello del suo spazio corporeo e delle sue
percezioni, dove poi quest’ultime ricadono. << Tutt’al più, se si
vuole rendere giustizia alla prospettiva della percezione su sé
stessa , si dirà che ciascuno di noi ha un mondo privato : questi
mondi privati sono “mondi” unicamente per il loro titolare, non
sono il mondo. Il solo mondo, cioè il mondo unico, sarebbe koinos
kosmos, e non è in esso che sboccano le nostre percezioni >> 70.
Lo spazio oggettivo nasce dalle macerie, dalla cenere di quel
fuoco spento che è il nostro spazio primordiale, che misuriamo
naturalmente attraverso la percezione del corpo. << Sotto lo
spazio oggettivo , nel quale in definitiva il corpo prende posto,
l’esperienza rivela una spazialità primordiale di cui la prima non
è se non l’involucro e che si confonde con l’essere stesso del
corpo>>71. Il corpo non è una semplice porzione di spazio ma la
matrice di ogni spazio esistente e per noi non sarebbe possibile
vivere lo spazio o il tempo senza essere in un corpo.
L’espressione l’essere umano incarna una comunione tra un
verbo, l’essere, ed un aggettivo, l’umano. L’essere umano è un
essere vivente, una delle manifestazioni della vita, principio
universale incarnato nel caso particolare in cui esiste, come il
microbo o il filo d’erba, il fiore o l’ape, la farfalla o l’elefante.
Perché non possiamo dire però essere arboreo o essere felino, ma

69 M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione , cit. , p.194.

70 M.Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile , cit. , p.37.

71 M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione , cit. , p.212.


42
dobbiamo dire albero o gatto ? Forse perché l’essere umano è
l’unica condizione in cui possiamo veramente esperire l’essere,
in quanto nostra e vissuta, e non potremmo mai veramente
sapere cosa significhi essere leonino, pur conoscendo del leone
tutte le sue cellule, sezionandolo, o studiandone il
comportamento nel suo ambiente. Come non si può pensare
l’essere leonino senza il leone così non possiamo scindere
l’essenza dell’essere umano dalla sua esistenza nel mondo, dalla
vita che scorre attraverso il suo corpo. L’essere umano è un
mistero profondo : è l’unica specie che vive un cambiamento
tanto mutevole e veloce nel suo itinere.
Il mondo della natura, della vita primordiale, non cambia così
velocemente e un coccodrillo che nuota oggi non è poi così
diverso da quello che nuotò sessanta milioni di anni fa, mutevole
e incessante è invece lo sguardo che l’essere umano getta sul
mondo, generando metamorfosi che modificano profondamente
l’ambiente ed il mondo dove abita. Il verbo percepire viene dal
latino per-capere e significa “cogliere passando per ” e secondo il
filosofo francese l’essere coscienza è l’inerire alla cosa, al mondo,
all’altro, tramite il corpo. << Essere una coscienza o piuttosto
essere un esperienza, significa comunicare interiormente con il
mondo, con il corpo e con gli altri, essere con essi anziché
accanto a essi >>72. L’inalienabile compromissione umana e
carnale con il mondo e con l’altro, la centralità dell’esistenza
vissuta, sono temi centrali in tutta la filosofia di Merleau-Ponty.
Da questo terreno nascono i dubbi del filosofo francese che lo
portano a interrogare radicalmente la filosofia stessa ed il
sapere. << La filosofia non è scienza, giacchè la scienza crede di
poter sorvolare il proprio oggetto, considera acquisita la
correlazione del sapere e dell’essere, mentre la filosofia è
l’insieme delle domande in cui colui che interroga è anch’esso
chiamato in causa dalla domanda>>73. Le critiche che Merleau-
Ponty muove all’analisi scientifica, come a quella riflessiva è di
ignorare, dimenticare, il mondo originario del sapere percettivo,
terra oscura da cui ogni sapere germina, << è a partire della

72 Op.cit. , p.149.

73 M.Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile , cit. , p.53.


43
percezione e dalle sue varianti , descritte come si presentano che
tenteremo di comprendere in che modo abbia potuto costituirsi
“universo del sapere” >>74. La percezione esterna e la percezione
del nostro corpo sono strettamente connesse perché parte di un
medesimo atto, <<ogni percezione esterna è immediatamente
sinonimo di una percezione del mio corpo allo stesso modo in cui
ogni percezione del mio corpo si esplicita nel linguaggio della
percezione esterna >>75. La percezione non esiste come evento
nel mondo ma come ricostituzione in ogni momento del mondo
stesso, una genesi costante che partorisce perpetuamente il
mondo. Il chiasma, la reversibilità, che Merleau-Ponty vede
nell’esperienza percettiva tra polarità considerate
tradizionalmente in antitesi, come soggetto ed oggetto o l’io ed il
mondo, ci permetterà di tracciare un analogia con quello
sconfinamento irreversibile che l’operare artistico novecentesco
traccia nel suo iter tra le nozioni tradizionali e dogmatiche di
arte e vita, opera ed operare, o spettatore ed opera d’arte.
L’opera d’arte contemporanea infatti, fin dalle prime
avanguardie, è caratterizzata dallo sconfinamento radicale tra
arte e vita, insinuandosi sempre più nell’atto, nell’evento, in ciò
che accade, prima che nell’opera come oggetto. Il luogo da cui
nell’arte novecentesca parte questo sconfinamento è spesso il
corpo, percepito però non più come luogo che registra
razionalmente il mondo mediante il totale controllo della tecnica
sull’opera ma come punctum, matrice, che genera opere non più
calcolabili e prevedibili, ma aperte al mondo, quindi alla
contingenza del puro accadere. Il corpo dell’artista si apre a
nuove fenomenologie nel suo operare ai fini della creazione
dell’opera. Merleau-Ponty, volendo indagare il mondo grezzo
della percezione, volendo ricollocarsi in un universo pre-
riflessivo e pre-logico, non può che partire da una riabilitazione
del mondo sensibile che viviamo con il nostro corpo, non
paragonabile per il filosofo ad un oggetto fisico ma piuttosto ad
un opera d’arte, dove non si può separare l’espressione
dall’espresso e dove il senso è accessibile solo per contatto

74 Op.cit. , p.174.

75 M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. , p.281.


44
diretto. << Il corpo non può essere paragonato all’oggetto fisico,
ma piuttosto all’opera d’arte. In un quadro o in un brano
musicale , l’idea non può non comunicarsi se non attraverso il
dispiegarsi dei colori e dei suoni>>76. L’affermazione del filosofo
francese è profondamente significativa, soprattutto alla luce del
ruolo centrale che assumerà il corpo umano nelle ricerche
artistiche della seconda metà del XX secolo, dove non sarà più
solamente l’oggetto di opere d’arte, ma anche il soggetto di molto
operare artistico. << L’uomo non sarà più artista, egli è diventato
opera d’arte: la potenza artistica di tutta la natura, per la
suprema e tranquilla gioia dell’Uno primigenio, si rivela ora nel
brivido dell’ebbrezza >> 77 profetizzava Friedrich Nietzsche.
A partire dall’ebbrezza, dalla mania che lo possiede mentre
danza freneticamente, Jackson Pollock sembra inaugurare quel
processo che porterà l’artista a rompere definitivamente la
barriera che separa l’operare dall’opera d’arte stessa. Il tema del
corpo umano e della sua rappresentazione è un tema universale
dell’arte, veicolo con cui potremmo collegare opere lontanissime
per luoghi e per tempi, dai profili ritratti nella pittura egizia a
Giacometti, da Michelangelo alla scultura greca e romana.
Durante il Novecento il corpo resta uno dei soggetti dell’operare
artistico, cambia però radicalmente il modo in cui viene
percepito ed il suo ruolo nell’opera d’arte. La rappresentazione
del corpo nell’arte contemporanea è estremamente eterogenea,
tanto nei mezzi quanto nelle poetiche. Il corpo rappresentato
fino al XIX secolo nella tradizione artistica occidentale, in pittura
e scultura , era spesso un corpo idealizzato, che fosse il corpo
mitologico di Giove o la figura di Cristo, quello dei santi nelle
agiografie o i ritratti di aristocratici, ricchi mercanti, papi o
grandi generali. La ricerca pittorica e scultorea spesso non
cercava la verosimiglianza nei soggetti che rappresentava bensì
voleva trasmetterne una visione idealizzata che potesse così
incarnarsi nella materia trattata, ben più duratura delle vite
umane. Durante il XX secolo l’operare artistico sembra rivelare

76 Op.cit. , p.215.

F.Nietzsche, La nascita della tragedia, Genealogia della morale, trad.it Orsa


77

Maggiore, Torriana (Foligno), 1993, p.30.


45
quell’ambiguità dell’esperienza corporea di cui parla Merleau-
Ponty e così il corpo umano non sarà più trattato solo come
l’oggetto passivo di rappresentazioni visive come quadri e
sculture ma diventerà anche soggetto attivo e centrale dell’
eterogeneo operare artistico novecentesco : dalle azioni di
Hermann Nitsch alla poetica del gruppo Gutai, dai video di Bruce
Naumann al dripping di Pollock, dalle performance di Gina Pane
alle azioni che Allan Kaprow fa eseguire ai partecipanti dei suoi
happening. Il corpo, in particolare quello dell’artista stesso,
diventerà nell’operare artistico novecentesco un mezzo
espressivo autonomo e fondamentale, al pari di quelli più
tradizionali come pittura e scultura. In Fenomenologia della
percezione Merleau-Ponty afferma che << il corpo è
eminentemente uno spazio espressivo >> 78 . Le azioni che
l’artista svolge con il suo corpo, o fa svolgere ad altri, la relazione
viva con il pubblico, sono il cuore della poetica di molti artisti
contemporanei. L’enfasi, l’aura dell’opera d’arte
tradizionalmente intesa, sembra evaporare durante il corso del
Novecento per incarnarsi nell’azione che crea invece che
nell’oggetto creato. Il corpo, soggetto e matrice della vita umana,
diventerà in maniera eterogenea il soggetto di molte operazioni
artistiche, contribuendo così a cancellare la tradizionale
distinzione tra arte e vita come tra opera ed operare. Il corpo
viene eletto a soggetto di tanto operare artistico contemporaneo
anche per la sua estrema versatilità, per il suo prestarsi
facilmente alle svariate tecniche che si andavano sperimentando,
dal disegno alla fotografia, dalla scultura al video, dalla pittura
alle performance. Tradizionalmente l’opera d’arte è sempre stata
il soggetto, la forma, mentre l’operare, l’azione dell’artista e la
sua vita, lo sfondo, sui cui questa era proiettata; durante il
Novecento però il rapporto sembra invertirsi : l’operare artistico
diventa infatti il vero soggetto e l’opera una scia evanescente ed
effimera di queste operazioni. Il corpo è il soggetto operante
nella poetica di molti artisti della seconda metà del XX secolo,
probabilmente sintomo di quello sconfinamento irreversibile tra
arte e vita che le avanguardie artistiche avevano inaugurato.
Potremmo rintracciare un analogia tra gli sviluppi dell’operare

78 M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione , cit. , pp.201-202.


46
artistico contemporaneo e la filosofia che Merleau-Ponty vuole :
nell’incessante interrogazione, nell’operare senza conoscere
veramente il fine, nella morte dell’idea di un opera o di una
verità certa, nell’incertezza dei mezzi come dei risultati con cui
operare per raggiungerla. La profonda interrogazione dei mezzi
utilizzati, la crisi dell’oggettività come dogma, l’invisibilità del
fine, la contingenza nel risultato, sono temi che l’operare
artistico contemporaneo e la filosofia di Merleau-Ponty
sembrano condividere. L’operare artistico contemporaneo vuole
approfondire il significato e l’interrogazione riguardo all’opera
d’arte stessa, ridefinendo così di conseguenza anche i suoi mezzi
come le sue prospettive, come la filosofia auspicata da Merleau-
Ponty vuole rimettere in discussione tanto i mezzi quanto
dimenticare l’idea di fini prestabiliti. Nella grande vastità ed
eterogeneità delle operazioni artistiche novecentesche che
hanno come tema il corpo umano possiamo operare una prima
distinzione generale tra le opere in cui il corpo umano è l’oggetto
delle opere eseguite e le operazioni artistiche in cui il corpo
diventa il soggetto attivo dell’opera svolta. Pensiamo, ad esempio
, alle sculture di Giacometti e al movimento del corpo, alla danza
magica, con cui Jackson Pollock creava le sue opere. Il tentativo
di questo studio non sarà certo quello di cartografare l’immenso
spazio delle operazioni artistiche del XX secolo che ruotano
intorno al tema del corpo o che ne fanno un mezzo espressivo
autonomo, ma cercare alcuni punti che ci permettano di tracciare
linee precise che li colleghino , come quelle delle costellazioni,
tra lavori e poetiche profondamente diverse. Il corpo dell’artista
è da sempre fondamentale nell’operare artistico, con la sua
profonda osservazione del mondo che si riflette nella grazia dei
suoi gesti che creano, che scolpisca il marmo o dipinga quadri. Il
disegno, palestra dove grandi artisti si sono da sempre esercitati,
è un esercizio del corpo e dello spirito, una disciplina del
movimento e della misurazione dello spazio , della mano che
comunica con l’occhio che sfiora il mondo e che attraverso lo
strumento con cui opera, estensione della mano, misura le cose
e ne restituisce il loro sguardo sul foglio. Il disegno, la pittura, la
scultura, tradizionalmente intese, nascevano da un operare
dell’artista che considerava il massimo controllo razionale della

47
tecnica sull’opera come espressione massima della sua abilità e
caratteristica dell’ operare artistico in genere.
Il Novecento è un secolo in cui sembra sfuggire l’idea di un
controllo umano , razionale e calcolabile sul mondo, ciò si
riflette nella storia, nella società, nella scienza, nella filosofia e
nell’arte. Le due guerre mondiali combattute con armi mai viste
prime, l’inarrestabile sviluppo tecnologico, Freud e l’inconscio, la
teoria della relatività di Einstein, l’energia nucleare, la teoria del
Caos, l’esplorazione del nostro sistema solare, sono solo alcuni
esempi che ci aiutano a capire quanto velocemente nel XX secolo,
come mai prima, avvengano radicali trasformazioni, scoperte ,
destinate a cambiare il tessuto della società umana ed
inevitabilmente la visione stessa dell’uomo sul mondo.
Nell’operare artistico del XX secolo, in particolare dopo la
seconda guerra mondiale, molti artisti abbandonano quell’idea di
controllo sulla propria opera, così l’incalcolabile, il contingente,
traccia e sintomo della vita che sconfina nell’opera, si insinua
nell’operare artistico, nell’evento, o nella relazione che nasce tra
l’opera e lo spettatore. Lo sconfinamento tra arte e vita,
promosso fin dalle avanguardie, influenza tutto l’operare
artistico novecentesco, aprendo così l’opera d’arte al puro
accadere, all’atto che crea o all’evento, in definitiva a
quell’irrimediabile contingenza ed eterogenesi dei fini a cui è
esposta la vita come l’opera d’arte contemporanea.
A partire dalla fine della seconda guerra mondiale alcuni artisti
iniziano ad enfatizzare l’operare artistico ben prima dell’opera,
gli atti con cui si crea, rendendoli vere e proprie azioni rituali
compiute spesso con il loro stesso corpo.
In Giappone e negli Stati Uniti nascono così movimenti artistici
come l’Action Painting e il gruppo Gutai, che privilegiano il gesto,
il movimento, l’interferenza nel loro operare, la perdita del
controllo cosciente e razionale sulla propria opera, in contrasto
con le tradizioni artistiche precedenti. Jackson Pollock è uno dei
primi artisti le cui opere sono tanto conosciute quanto la tecnica
e l’operare che li partorisce : il dripping. L’operare frenetico, il
danzare di Pollock intorno alla tela, fu registrato in un film del
1950 realizzato da Hans Namuth, rimasto nella storia dell’arte al
pari dei quadri del pittore americano. Il corpo, nella tecnica
inventata da Pollock per dipingere le sue tele, assume un ruolo
48
centrale : con il suo movimento attraverso lo spazio ed il tempo
rompe quella barriera tra l’opera e l’operare, tra la tela e la vita,
entrambe irrimediabilmente esposte all’imprevedibilità del puro
accadere. I lavori di Pollock sono le tracce di un evento come
l’universo è traccia di un esplosione che risuona ancora oggi.
Pollock crea quadri dove la distinzione forma-sfondo non è
ancora mai nata perché vengono partoriti da un operare in cui il
controllo e l’incontrollato non sono mai in antitesi, ma in
armonia come gli opposti eraclitei. Il dripping di Pollock
influenza notevolmente la poetica e le azioni del gruppo Gutai,
radicalizzando l’idea della tela come luogo di azione, dove l’atto
che crea, investito di forte ritualità, è più significativo dell’opera
stessa prodotta. Un aspetto interessante dell’interpretazione che
il movimento artistico giapponese fa dell’invenzione del dripping
è sua la inevitabile lettura attraverso codici extraeuropei che
permise a questi artisti di cogliere particolari sfumature
nell’operare artistico del pittore americano. Il dripping di Pollock
negli Stati Uniti e le azioni del gruppo Gutai in Giappone,
contribuirono a ridefinire profondamente il rapporto tra il
processo e il risultato nell’opera d’arte , la relazione tra l’operare
e l’opera stessa. L’Action Painting ed il gruppo Gutai , nati
entrambi negli anni traumatici del dopoguerra, rivelano
profonde affinità nella loro poetica: nell’importanza accordata
all’operare più che al risultato, nella ritualità dell’azione concreta
e centrale che il corpo dell’artista svolge nella realizzazione
dell’opera, nell’accogliere la contingenza partorita dal puro
accadere. I temi del corpo e della materia, dell’azione e della
contingenza in relazione all’opera d’arte, convivono nel cuore
della ricerca artistica dell’Action Painting come del gruppo Gutai
ed influenzeranno tutto lo sviluppo successivo dell’operare
artistico novecentesco. L’opera e l’operare artistico,
profondamente interrogati durante tutto il XX secolo, la via
claudicante e incerta che sembrano tracciare, si scontrano con
tutte quelle convenzioni di una tradizione che, per secoli, è stata
convinta di detenere il senso ed il significato dell’opera d’arte in
maniera assoluta e definitiva. L’idea di una verità assoluta
sull’opera d’arte, la certezza granitica nei mezzi per raggiungerla,
possono essere paragonate a quell’idea di verità oggettiva e
chiara che Merleau-Ponty cerca di distruggere nella sua filosofia.
49
Abbiamo visto nel primo capitolo la profonda affinità, nel moto
claudicante, tra l’operare di Cézanne e la via filosofica che
Merleau-Ponty percorre. << È certo che la vita non spiega l’opera,
ma è altrettanto certo che esse comunicano. La verità è che
quell’opera da fare esigeva quella vita >> 79 , dice Merleau-Ponty a
proposito dell’opera di Cézanne, e questa profonda intuizione del
filosofo francese potrebbe essere applicata a moltissime opere
d’arte del Novecento. L’idea di una verità che vive incarnata
nell’operare incessante, nella continua interrogazione, minaccia
inevitabilmente l’idea di una verità assoluta e stabile, non
mutevole ma statica e stagnante. La verità per Merleau-Ponty
esiste veramente solo nell’operare perpetuo, nell’interrogazione,
invece che nell’idea del raggiungimento dell’opera e di una verità
certa. L’idea di una verità oggettiva, dogmatica e chiara, è morta
tanto nella filosofia come nell’arte. Il pensiero e l’opera d’arte,
seppur pensabili e visibili, conservano nella loro apertura al
mondo, nell’ essere stati espressi, germi di non pensato ed
invisibilità, come gli iceberg, di cui vediamo solo una minima
parte in superficie ed il resto è invisibile ed in profondità. Il
pensiero filosofico e l’opera d’arte sono espressioni esemplari
dell’amicizia e della funzionalità profonda che intrattengono tra
loro il pensato e l’impensato ed il visibile e l’invisibile. Come
abbiamo visto nel primo capitolo Merleau-Ponty opera con la sua
filosofia un superamento di ogni residuo dualistico tra polarità
pensate tradizionalmente come opposte, come interiore ed
esteriore, corpo ed anima, visibile ed invisibile. Fin dal primo
manifesto dell’arte Gutai l’intenzione degli artisti giapponesi è di
coniugare lo spirito umano e la materia, influenzati anche dalle
antiche pratiche zen, elaborano azioni spettacolari che
enfatizzano il momento della creazione, il movimento che crea
ben prima dell’opera che nasce. Nel 1956 Saburo Murakami
presenta Breaking through many papers screens, un azione dove
con un salto attraversa e frantuma la barriera di sei pannelli di
carta a dimensione umana, lavoro che dimostra quanto la
divisione tra l’opera e l’artista nel momento della creazione
fosse ormai effimera ed impalpabile. In un paese come il
Giappone, dove il senso della tradizione è profondamente vissuto

79 M.Merleau-Ponty, Senso e non senso, cit. , p.39.


50
e radicato nella società, il linguaggio artistico del gruppo Gutai è
stato indubbiamente un atto di sfida e di rottura rispetto ai
canoni tradizionali , tanto dell’arte orientale che di quella
occidentale. La verità che l’artista del XX secolo cerca nella sua
opera, nella sua esistenza, è spesso in contrasto con quell’
autorità di certe convenzioni incarnate in un idea distorta e
statica della tradizione. L’operare artistico novecentesco ha
rappresentato spesso una sfida, una volontà di rottura con
l’autorità, che fosse quella delle Accademie o dei movimenti
artistici intransigenti, politica o economica. L’operare artistico
novecentesco sembra voler chiarire che l’epoca degli uomini per
l’arte è ormai al tramonto e sembra voler inaugurare, anche con
picchi utopistici, l’era dell’arte per gli uomini. Ciò che era
tradizionalmente al centro, l’opera, viene emarginata nella
cornice, per far spazio all’operare, all’artista, alla relazione con
altri esseri vivi ed alla misteriosa imprevedibilità mescolata ad
ordine che scandisce il mondo come la vita, riflettendosi poi
nell’opera d’arte stessa. In luoghi molto distanti tra loro, come
Stati Uniti, Giappone ed Europa , in un epoca lontana
dall’immediatezza della comunicazione che conosciamo oggi, si
sviluppano nell’immediato dopoguerra movimenti artistici che
sembrano condividere la volontà di rompere drasticamente, in
un furore autodistruttivo, con la storia dell’arte
convenzionalmente intesa, abbandonando così : l’idea di
rappresentazione, il rapporto forma-sfondo, il dualismo tra
l’opera e l’operare. Un altro degli aspetti che collega questi
movimenti artistici, intenzionati a rompere con l’arte
tradizionale, è la loro volontà di privilegiare l’interferenza,
l’imprevisto, la contingenza partorita dal puro accadere, in
evidente contrasto con le convenzioni precedenti che
enfatizzavano invece il massimo controllo della ragione
sull’operare. Non si possono analizzare questi profondi
cambiamenti artistici senza considerare il contesto delle
profonde metamorfosi della società e del mondo avvenute
durante il XX secolo. << Come la ragione non riesce più a
dominare i processi di trasformazione del mondo, così l’arte non
può, con l’ausilio delle tecniche tradizionali, tutte giocate sul

51
controllo, esaurire il proprio percorso nel progetto dell’artista
>>80, nota Achille Bonito Oliva. La materia, il colore, la ritualità
nell’operare, l’azione, la contingenza irrimediabile a cui si espone
l’opera, come la vita, sono temi ricorrenti e centrali di molta
poetica artistica dopo la seconda guerra mondiale. Pollock inizia
a sperimentare la sua nuova tecnica per dipingere tra la fine
dell’estate ed il primo autunno del 1947, anno decisivo anche per
l’affermazione di tutto il movimento dell’Action Painting, termine
coniato dal critico americano Harold Rosenberg ed espressione
che evoca quanto queste operazioni artistiche fossero
strettamente connesse all’azione del corpo, al movimento, al
gesto, con cui gli artisti creavano le loro opere. In Europa nel
1948 Michel Tapiè definisce con il termine informel la pittura che
andava sperimentando, affidata alla materia-colore e
all’automatismo del gesto. Nel 1949, negli Stati Uniti, Pollock
creava con i suoi movimenti, che facevano gocciolare la vernice
sulla tela, il famoso quadro N.01. Shimamoto nel 1950, in
Giappone, con un azione intitolata Works, sparava sulla tela
cilindri colmi di vernice, abbandonando così la sua opera alla
contingenza del puro accadere. Una pittura non più certa del suo
risultato ma aperta irrimediabilmente alla contingenza del suo
operare mediante la gestualità esasperata del corpo dell’artista.
L’operare artistico, come qualsiasi atto di un uomo, è indivisibile
dal corpo che opera, che si muove ed interagisce con lo spazio e
con il tempo, con le cose o con l’altro. Tanto nell’ Action Painting
come nel gruppo Gutai è evidente il ruolo centrale che assume il
corpo dell’artista, i suoi movimenti e le sue azioni durante
l’operare. Uno degli aspetti centrali delle azioni che compiono
questi artisti durante il loro operare è nel carattere rituale dei
gesti che compiono con il loro stesso corpo. I movimenti del
corpo, la sua danza intorno alla tela, sono per Pollock il mezzo
per entrare in contatto profondamente con il suo lavoro, come i
dervisci turchi raggiungevano l’estasi mistica e la divinità
attraverso una danza turbinante, girando su sé stessi come
invasati.

80A.Bonito Oliva, Shozo Shimamoto. Samurai , acrobata dello sguardo 1950-


2008, Skira Editore, Torino, 2008, p.19.
52
L’enfasi che Pollock dà al momento della creazione, il rito che
compie, è stato influenzato anche dalle antiche pratiche magiche
dei nativi nordamericani della costa occidentale, in particolare i
Navajo, che il pittore statunitense ben conosceva. Pollock, con la
tecnica del dripping, rivoluziona profondamente il modo di
pensare la pittura così come il modo di dipingere. Il primo
aspetto rivoluzionario dell’opera dell’artista statunitense è nella
sua scelta consapevole di enfatizzare l’aspetto operativo del suo
lavoro, di pensare e vivere il suo dipingere come una vera e
propria azione rituale, un vero e proprio abbandono alla manìa
che lo possiede durante il suo frenetico operare.
La consapevolezza e la volontà di Pollock di far comprendere
l’importanza e la novità del suo modo di lavorare sulla tela sono
confermate dalla scelta di portare il suo processo artistico fuori
dal suo atelier, come dimostrano la proiezione di un filmato sul
suo processo pittorico nel 1951 al MOMA di New York o le
fotografie pubblicate nel 1950 sulla rivista Life. L’approccio
rivoluzionario che Pollock ha con il processo pittorico lo porta ad
abbandonare sia l’orientamento convenzionale della tela,
verticale, sia il suo tradizionale supporto, il cavalletto. Pollock,
come gli uomini-medicina dei Navajo nelle loro pitture di sabbia,
sceglie come supporto per le sue creazioni la terra, danzando
intorno alla tela di grandi dimensioni che è distesa
orizzontalmente e senza telaio. << Preferisco fissare le tele, così
senza intelaiatura sul muro o posarle a terra : ho bisogno di una
superficie dura. Sul pavimento mi sento più a mio agio : mi sento
più vicino, più una parte del quadro, perché posso camminarci
intorno, lavorarci dai quattro lati ed essere letteralmente dentro
il quadro. E’ un po’ il metodo usato da certi indiani del West che
dipingono con la sabbia >>81. L’artista americano abbandonando
il tradizionale controllo che il pittore aveva sul suo lavoro,
scegliendo non più la ragione dell’occhio che vede e misura, ma
l’ebbrezza del corpo che danza e conosce lo spazio, mette in
discussione tutte le convenzioni della tradizione pittorica
precedente. Il dipingere con il supporto posto orizzontalmente, a
terra, anziché in verticale, ricorda non solo le pitture di sabbia

81J.Pollock , cit. in Ambiente/Arte Dal Futurismo alla Body Art, G. Celant,

Edizioni La Biennale di Venezia, Venezia, 1977, p.74.


53
dei Navajo, ma evoca anche la tradizionale e millenaria arte della
calligrafia cinese e giapponese, dove il gesto che crea, la
perfezione del movimento, sono momenti importanti più
dell’opera stessa. Sembra importante sottolineare la vicinanza
del processo pittorico di Pollock alla calligrafia cinese e
giapponese, oltre che per la centralità attribuita al gesto e per il
tradizionale orientamento orizzontale del supporto, anche per
l’influenza che l’operare artistico di Pollock avrà sul gruppo
giapponese Gutai. L’operare di Pollock intorno alla tela, non di
fronte, coincide con un coinvolgimento carnale dell’artista
nell’opera, un voler rompere quella barriera invisibile tra il
creatore ed il creato, tra l’opera e l’artista operante, sintomo di
quello sconfinamento sempre più radicale che stava avvenendo
tra arte e vita. Questa barriera tra l’opera e l’operare che Pollock
infrange con la sua danza rituale gli permette di connettersi
profondamente, come uno sciamano con il mondo degli spiriti,
ad un livello inconscio, con la sua opera. << Quando sono nel mio
quadro, non sono cosciente di quello che faccio. Solo dopo una
specie di “presa di coscienza” vedo ciò che ho fatto(…)un quadro
ha vita propria. Tento di lasciarla emergere. Solo quando perdo il
contatto col quadro il risultato è caotico. Altrimenti c’è armonia
totale, un rapporto naturale di dare e avere e il quadro riesce
>>82. Questa profonda osmosi che avviene durante l’operare di
Pollock , tra soggetto e oggetto, tra l’artista e l’opera, si riflette
anche nelle tele prodotte dall’artista americano: lo spazio che
Pollock partorisce con il movimento del suo corpo è infatti uno
spazio all over, dove non esiste centro né gerarchia tra le parti
del quadro, dove la distinzione forma-sfondo non è ancora mai
nata. << L’opera d’arte diventa così un universo dotato di un
ordine particolarissimo, che è possibile cogliere a partire da
qualsiasi prospettiva >>83. In Pollock non esiste dialettica tra il
controllato e l’incontrollato ma amicizia e funzionalità profonda
tra questi poli, come se la grazia del movimento e del gesto puro

82 J.Pollock, cit. in Arte dal 1900 Modernismo Antimodernismo Postmodernismo

(Londra 2004), di H.Foster, R.Krauss, Y.Bois, B.H.D.Buchloh , trad.it Zanichelli ,


2006, Bologna, p.350.

83 M.Schapiro, cit. in Ibidem.


54
ed incosciente che crea l’opera potesse nascere solo
nell’abbandono e nell’inconsapevole. L’operare artistico
contemporaneo elegge il non sapere come paradigma costitutivo
del suo fare, distruggendo sempre più l’autorialità dell’artista
sull’opera. Questo superamento del controllo razionale
sull’opera, questo volontario abbandono al puro accadere
partorito dal movimento attraverso lo spazio-tempo, non è da
leggersi come un ritorno ad un incontaminata condizione che
vuole una presunta innocenza precedente alla misurazione del
mondo e del ragionamento, ma un voler andar oltre i confini già
tracciati dal calcolo, una consapevolezza del mistero di ciò che
non è scelto ma che semplicemente avviene.
<< La riduzione della complessità tecnica sposta l’artista verso il
ruolo di “spettatore”, di chi assiste alla nascita dell’opera
astenendosi da qualsiasi partecipazione attiva e cosciente, in
maniera che l’opera prenda la mano all’artista >>84. Pollock più
di altri artisti dell’Action Painting, come Willem De Kooning o
Robert Motherwell, sospende parte della sua autorialità nel suo
operare attraverso il dripping, non toccando mai la tela con il
pennello e facendo gocciolare il colore dall’alto, in modo che il
suo impatto con la superficie non sia mai esattamente
calcolabile. Con il suo operare frenetico e rituale intorno
all’opera Pollock entra in sintonia nel lavoro, disintegrando quel
tradizionale continuum fisico tra l’artista, la sua mano, il pennello
e la tela, facendo entrare tra questi poli l’imprevedibilità del puro
accadere, incarnato nell’incoscienza dei movimenti del suo
corpo e nella libera caduta del colore attraverso il vuoto dello
spazio che divide lo strumento con cui dipinge dal supporto che
usa. Il confine, l’invisibile linea che divideva la creazione
dall’opera stessa sembra scomparire e non sembra più così
facilmente localizzabile. << Le tecniche automatiche sono gli
irriducibili tramiti, gli scandagli che vanno a pescare proprio nel
torbido. Il frottage, il dripping, grattare e sgocciolare
costituiscono la materializzazione di tale necessità tecnica,
l’azzeramento di ogni complessità a favore di movimenti
elementari che privilegiano l’autonomia della mano rispetto
all’occhio, l’indipendenza dell’opera rispetto alla vigile

84 A.Bonito Oliva, Op.cit. , p.29


55
accortezza dell’artista >>85. Tutta l’arte fino alle avanguardie ha
sempre fatto dell’osservazione analitica, della misurazione dello
spazio, dell’idealizzazione delle forme, aspetti fondanti del suo
fare, operazioni che condividono l’idea di un controllo razionale
e cosciente sul proprio lavoro. Nel XX secolo sembra adombrarsi
quella fede razionale nel mondo e nell’uomo che poteva
controllare ogni cosa, così nell’operare artistico di questo secolo
si riflette tale incertezza. L’opera d’arte contemporanea accoglie
la contingenza, l’incertezza del risultato anche come
conseguenza della necessità degli artisti di aprire l’operare e
l’opera alla vita e al mondo, all’inevitabilità del puro accadere e
all’accettazione della necessità del caso. Marcel Duchamp,
patrono dell’operare artistico novecentesco, affronta spesso
nella sua opera una partita con il caso, o meglio gioca
ironicamente con l’accadere, con la pura contingenza. Duchamp
abbraccia la contingenza nel suo lavoro perché comprende e
cerca quella che lui chiama la bellezza dell’indifferenza,
dell’accadere, interrogando profondamente l’opera d’arte e
mettendo in discussione con il suo lavoro tanto i mezzi
prestabiliti dell’arte quanto l’operare artistico stesso. La prima
opera in cui Duchamp utilizza il caso come elemento centrale del
suo lavoro è Erratum musicale , interessante da ricordare
soprattutto per la grande influenza che avrà l’artista francese
sulle teorie artistiche di John Cage. L’utilizzo del caso come
fattore decisivo nell’operare artistico di Duchamp distrugge
l’idea tradizionale dell’abilità dell’artista e del suo controllo
sull’opera. Tre rammendi-tipo viene realizzata dall’artista
francese lasciando cadere da un metro di altezza tre fili lunghi un
metro, fissandoli poi per ottenere forme con cui creare delle
possibili unità di misura. In uno dei capolavori più complessi e
studiati dell’artista francese, il Grande Vetro, alcuni elementi che
lo compongono sono nati dall’utilizzo del caso come fattore
decisivo per creare l’opera, come nelle deformazioni registrate
nei tre Pistoni a corrente d’aria o nei Nove Spari, nati dalle tracce
di nove fiammiferi sparati con un cannone giocattolo. Durante un
trasporto negli Stati Uniti si incrinò il Grande Vetro e Duchamp
decise di accettare l’accaduto, l’imprevisto, non riparando

85 Op.cit. , p.27
56
l’opera, ma accettando la vita, il caso, che entrava in essa. La
contingenza, il puro accadere, la vita vissuta, incalcolabile nella
sua eterogenesi, il mondo in ogni sua forma, anche quella
apparentemente più infima, come la polvere 86 , entreranno
nell’operare artistico e nell’opera d’arte a partire dal XX secolo.
La purezza dell’evento e dell’atto, l’inaspettato , l’incalcolabile
che accade, non sono tematiche che entrano nell’operare
artistico solo come sfida ai procedimenti tradizionali del fare
artistico, ma sono anche intrise di un certo esoterismo e
profonda spiritualità, come certi esercizi apparentemente
insensati ed irrazionali del buddhismo zen. Tutta l’opera e le
teorie musicali ed artistiche di John Cage sono profondamente
attraversate e segnate dall’incontro con il buddhismo zen e
dall’esperienza con il contingente, l’incalcolabile che si nasconde
nell’avvenimento, la purezza dell’evento aperto per principio al
mondo. John Cage, nel 1951, entrando in una camera anecoica ad
Harvard, fa un esperienza significativa ed inaspettata con il suo
corpo che influenzerà tutta la sua futura ricerca e che lui stesso
considera una svolta decisiva nelle sue teorie musicali 87 .
Entrando in questa sofisticata stanza per cercare il silenzio
assoluto, Cage si rende conto che alcuni suoni, involontari, non
possono essere eliminati, come quelli della sua circolazione
sanguinea o dell’attività celebrale, intuendo allora che il silenzio
assoluto è un astrazione e che anche il massimo controllo non
può escludere la contingenza che ha luogo nell’evento,
sostanzialmente esposto all’accadere incontrollabile nel mondo.
L’idea di silenzio, come l’idea del vuoto, sembrerebbero essere
illusorie. Le espressioni, ad esempio, “il bicchiere è vuoto” o la
“stanza è vuota”, sono ambigue e non completamente vere,
perché magari anche se non c’è acqua nel bicchiere o persone
nella stanza , non esclude il fatte che queste siano magari piene
d’aria o luce.

86Allevamento di polvere , del 1920, è un opera di Marcel Duchamp e Man Ray,


una fotografia di un particolare della polvere fatta accumulare volontariamente
e casualmente sul Grande Vetro di Duchamp. Inoltre con questa polvere che si è
depositata per mesi vengono realizzati i Setacci del Grande Vetro.

87Cfr M.Carboni, La Mosca di Dreyer. L’opera della contingenza nelle arti, Jaca
Book, Milano, 2007, p.142.
57
Se in Duchamp o in Cage è evidente il distacco verso le
operazioni che svolgono , il gioco disinteressato che attuano con
il contingente, il profondo lavoro mentale, in Pollock o nel
gruppo Gutai avviene invece una partecipazione carnale, ma allo
stesso tempo distaccata rispetto al loro lavoro. Compiono azioni
concrete, facendo nascere la contingenza attraverso il loro stesso
corpo in quello spazio che separa l’autore dall’opera e che si
incarna nella tela prodotta. Nell’opera di Pollock è il corpo
stesso, attraverso i suoi movimenti, che produce il puro
accadere, riflettendo questo nella tela che partorisce. L’opera di
Pollock nasce da azioni del suo corpo prima che da pensieri della
sua testa, l’automatismo con cui opera è quello del corpo che
conosce i suoi movimenti senza doverli calcolare prima di
eseguirli. Lo spazio dell’opera, traccia della magica danza
compiuta dall’artista, nasce dal movimento del corpo intorno alla
tela , non dall’osservazione del mondo che ha sede nella testa.
Il gruppo Gutai, guardando a Pollock, vuole nel suo operare
artistico abbandonare lo strumento classico della pittura, il
pennello, tradizionale punto di unione tra il corpo dell’artista e la
sua opera, emblema sia della tradizione pittorica occidentale che
orientale, espressione tradizionale dell’idea del massimo
controllo e rigore che il creatore ha sulla sua opera. L’artista
Kazuo Shiraga scelse il proprio corpo come strumento del suo
lavoro, utilizzando i piedi per dipingere. Altri artisti di Gutai,
come Shimamoto, esasperano e radicalizzano la ritualità
dell’azione che crea, già caratteristica tipica della cultura
tradizionale giapponese, cercando però modi radicali e mai
sperimentati per produrre e ricercare nuovi segni. In questa
ricerca ed enfasi del segno, partorito dal movimento del corpo,
caratteristica anche della nobile tradizione calligrafica
giapponese, il gruppo Gutai vuole però rompere con ogni
tradizione precedente, incarnando questa volontà in quella
concretezza con cui trasformarono le loro azioni in veri e propri
eventi performativi e spettacolari. Il termine giapponese Gutai
viene tradotto con concretezza ed è formato da due caratteri : gu
, che vuol dire strumento e tai che vuol dire corpo o sostanza. Nel
gruppo Gutai viene indagato radicalmente e messo in atto quel
processo inaugurato da Pollock con il dripping; questi artisti
infatti abbandonano la testa ed il controllo razionale nella
58
creazione dell’opera, eleggendo il corpo che non pensa, che
conosce i suoi gesti mediante lo spazio-tempo che gli è familiare,
come mezzo per partorire la contingenza di cui questo si fa
sismografo, rendendo così l’opera un tracciato di queste azioni.
Il tema della contingenza, dell’accadere incalcolabile, di ciò che
non appartiene , si riflette nella relazione tra la coscienza di ciò
che si controlla nel corpo, simboleggiato tradizionalmente dalla
testa come guida e ciò che invece non si sceglie, che avviene
senza controllo cosciente, come l’attività del battito cardiaco.
Nell’iconografia dell’Antico Egitto molte divinità vengono
rappresentate quasi ad immagine e somiglianza dell’uomo, Toth
o Horus non sono per metà uomini e per metà animali, solo la
loro testa non ha le sembianze umane ma di un animale. La
grazia profonda con cui gli Egiziani trattavano nell’ arte gli
animali, in rapporto anche alla rigidità con cui trattavano il corpo
umano, che fosse nelle pitture che ornano tombe o nella
lavorazione dell’oro , incarna il tramite con il divino che
vedevano nella relazione con questi esseri viventi, che fossero
gatti, coccodrilli o falchi. Gli animali rivelano una grazia innata
nella loro esistenza, che non conosce la ragione ma solo
l’intelligenza del corpo che vive. Il rapporto tra la testa e il corpo,
tra il pensiero e l’atto, sembra caratterizzare tanto il pensiero di
Merleau-Ponty quanto l’operare artistico novecentesco. Testa e
corpo, pensiero e movimento, se viste in antitesi , sembrano
riflettere quel dualismo dogmatico e netto tra anima e corpo,
spirito e materia, che Merleau-Ponty rifiuta di accettare. Nel
corpo che viviamo, Leib , si rivela un chiasma profondo, ambiguo,
tra ciò che siamo e ciò che non siamo, tra ciò che consideriamo
nostro e ciò che non ci appartiene, tra il mio corpo e il mondo. Il
corpo, organismo vivo, è sia il braccio che decido di muovere
quanto l’attività spontanea e incontrollabile del mio cuore che
pulsa. Il sangue che scorre nelle nostre vene come linfa o le ossa
che ci strutturano sono ambiguamente percepite come meno
nostre rispetto al riflesso con cui vediamo il nostro volto allo
specchio. Forse perché potremmo perdere litri di sangue o
vivere senza arti, ma senza testa, un uomo e ogni animale non
può che essere morto ; o forse perché la testa è quel luogo
invisibile, accessibile a noi stessi solo per riflesso, per eco, dove
l’essere umano individua più che in ogni altro spazio sé stesso.
59
Sui documenti che controlla con scrupolo il funzionario, nome e
cognome sono associati al nostro volto perché solo quello è
immediatamente riconoscibile. In Fenomenologia della
percezione Merleau-Ponty nota che difficilmente riconosciamo la
nostra mano in fotografia ma spesso il nostro volto , o il modo di
camminare, riconosciamo più facilmente ciò che ci è invisibile 88.
La testa, che possiamo veramente vedere solo nella finzione del
doppio, del riflesso, sembra incarnare noi stessi più di ogni altra
parte del corpo, sembra essere il centro del nostro Io.
Nell’esperienza vissuta tendiamo a identificare le cose con il loro
aspetto visibile : un albero è la metà che si mostra più che le sue
radici invisibili o il mare è la sua superficie increspata prima
dell’abisso che nasconde; nella percezione di noi stessi però,
questo rapporto sembra stranamente invertirsi, ci identifichiamo
infatti nel nostro volto invisibile più che in ogni altra parte del
corpo visibile. Il genere pittorico dell’autoritratto esprime
esemplarmente questa profonda analogia tra il nostro essere e il
riflesso del volto, mai direttamente visibile a noi stessi. La testa
sembrerebbe essere più nostra del tronco che la sorregge e la
radica, sede di attività fondamentali per la vita come la
respirazione o la digestione. Una certa visione del mondo, che
vorrebbe contrapporre la percezione alla riflessione, l’intuito alla
ragione, il corpo all’anima, vede nel corpo umano una sottile
dialettica tra la testa ed il resto del corpo. Il corpo viene
percepito allora come un manichino meccanico che sorregge la
nostra testa cosciente che lo governa, un quid razionale inscritto
o sovrapposto in un animalità istintiva. Merleau-Ponty rifiuta
questa visione duale e scissa dell’essere umano, l’idea di un
interiorità ed un esteriorità, di un anima iscritta nel corpo come
il guidatore nell’auto, il corpo come un automa guidato da un
centro spirituale. Corpo ed anima, interiore ed esteriore, psichico
e somatico, nel pensiero del filosofo francese sono indivisibili,
profondamente intrecciati tra loro in un chiasma ambiguo.
La testa ed il tronco dell’essere umano, sono inscindibili, come
un albero dalle sue radici, sono l’essenza della possibilità di
vivere. Il tronco umano è la sede di attività fisiologiche
incontrollabili, di ciò che non ci appartiene, del battito cardiaco

88 Cfr. M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. , p.212.


60
che pompa sangue, dei polmoni che contengono l’aria presa in
prestito dal mondo, è il simbolo della vita primordiale che
conosce solo sé stessa. La testa, nella nostra tradizione, ha
spesso assunto il simbolo di questa guida psichica che
controllerebbe il nostro corpo, simbolo dell’umana ragione che
trionfa sull’animalità dell’istinto. Questa dialettica tra testa e
carne, tra psichico e fisico, tra interiore ed esteriore, tra caos ed
ordine, tra il controllato e l’incontrollato, tra spirito e materia, si
riflette anche nella rappresentazione e nell’uso del corpo
dell’operare artistico novecentesco. Emblema della nostra carne
incosciente che senza la nostra volontà ed il nostro controllo,
esiste e vive, è il tronco umano, sede del cuore.
Il tronco umano, acefalo, incompleto, forse suggestione di eterne
statue classiche, ora mutilate, sfiorò profondamente la sensibilità
di alcuni grandi artisti contemporanei.
Il classico però che la sensibilità artistica contemporanea cerca
non è più quello tradizionalmente inteso, << (…) alla vecchia
maniera, ma anzi la pura bellezza del torso arcaico che balza
dalla terra dove aveva atteso secoli lo sguardo che lo
riconoscesse >> 89. Rainer Maria Rilke cantò nei versi di una sua
poesia, Torso arcaico di Apollo, dei resti di un antica scultura
della divinità pagana.

<<Non conoscemmo il suo capo inaudito


e le iridi che vi maturavano. Ma il torso
tuttavia arde come un candelabro
dove il suo sguardo, solo indietro volto,

resta e splende. Altrimenti non potrebbe abbagliarti


la curva del suo petto e lungo il volgere
lieve dei lombi scorrere un sorriso
fino a quel centro dove l’uomo genera.

E questa pietra sfigurata e tozza


vedresti sotto il diafano architrave delle spalle
e non scintillerebbe come pelle di belva,

89 S.Settis, Futuro del “classico”, Einaudi , Torino, 2004, p.34.


61
e non eromperebbe da ogni orlo come un astro :
perché là non c’è punto che non veda
te, la tua vita. Tu devi mutarla >> 90

Rilke conobbe all’inizio del novecento Auguste Rodin, rimanendo


profondamente affascinato dal suo lavoro tanto da diventarne
assistente per un periodo. Il grande scultore francese scelse
come soggetto per alcune sue sculture il tronco umano, senza
testa, braccia o gambe. La condizione del frammento,
l’incompleto, di cui il torso umano sembrerebbe esserne
l’emblema, affascina profondamente la sensibilità non solo di
grandi artisti ma anche di filosofi moderni. << Questa ricerca di
un nuovo ideale stato di grazia dell’arte e della civiltà prediligeva
il frammento sull’intero, in sintonia con le inclinazioni (che
cominciano con Nietzche) a esplorare i frammenti dei
Presocratici almeno quanto il corpus di Platone o quello di
Aristotele; e perciò promuoveva una scrittura per aforismi, tanto
più efficaci quanto simili a un torso, quanto più bisognosi di
integrazione da parte del lettore >>91.
Grandi artisti che operavano con la scultura e la materia come
Rodin, Costantin Brancusi e Alberto Giacometti scelsero per
alcune delle loro opere il tema del torso acefalo e senza arti,
come ad esempio in Torse de jeune homme , scultura in legno del
1923 di Brancusi, o in Torse del 1925 di Giacometti. La classicità
che l’opera di questi grandi artisti del novecento evoca ha << in
sé non solo il centro, ma i margini, persino le deviazioni dell’arte
antica >>92, un classico che contiene in sé l’anticlassico. Il
frammento, la traccia incompleta, il tronco senza testa, braccia o
gambe, sembrano essere caratteri costitutivi della sensibilità
moderna. Un artista che durante il novecento, celebra il tronco
umano, simbolo della carne e dell’incontrollato, della vita che
non ci appartiene, è Yves Klein. Artista, mago, con un innata
fiducia nell’universo, Klein pur vivendo poco, illuminerà

90 R.M. Rilke, Torso arcaico di Apollo, in Nuove poesie. Requiem (Monaco 1907),

trad.it. Einaudi, 1992, Torino, p.194.

91 S.Settis, Op.cit. , p.34.

92 S.Settis, Op.cit. , p.37.


62
profondamente il mondo dell’arte, come quelle stelle che pur
bruciando velocemente inondano di molta luce l’universo. Yves
Klein opera, a partire dalla sua illuminazione blu dei
Monochromes, con tutti gli elementi classici del mondo naturale :
il fuoco, l’aria, l’acqua, la terra, giocandoci ed illuminandoli. Il 9
marzo 1960 alla Galerie Internationale d’art contamporain, a
Parigi, Yves Klein crea le Anthropometries, attraverso un azione
da lui diretta, un evento, che può essere considerato come una
delle prime performance nell’arte. Il carattere operativo, il rito,
che Klein opera con distacco, come un sacerdote di qualche
antica religione ormai ignota, con l’eleganza di un direttore
d’orchestra, è un elemento centrale della sua poetica, inscindibile
dalla sua opera. Alla presenza di un pubblico e di un orchestra,
vestito in smoking, Klein dirige e coordina i suoi strumenti: le
modelle nude e la loro carne. L’evento è accompagnato da una
Monotone Symphony, suonata dall’orchestra e composta da una
sola nota per venti minuti. Le modelle, tinte parti del loro corpo
con il blu di Klein, lasciavano una traccia imprimendo la loro
carne sulla tela, sempre secondo le indicazioni che impartiva
l’operatore, l’artista. La regione corporea di cui Klein vuole una
traccia primordiale nella sua opera non è una parte qualunque,
ma quella che lui considera l’essenza della nostra carne: il tronco
e parte delle cosce. Klein argomenta così le motivazioni che lo
hanno portato a celebrare nella sua opera questa parte del corpo
: << (…) Allo scopo di non rompere, richiudendomi nelle sfere
troppo spirituali della creazione artistica, con quel buonsenso
necessario alla nostra condizione incarnata e specializzato
nell’atmosfera dello studio dalla presenza della carne, ho preso
quindi delle modelle nude. La forma del corpo, le sue linee, i suoi
colori tra la vita e la morte non m’interessano; solo il suo clima
affettivo puro è valido.
La carne…!!!!
Di tanto in tanto , ho comunque osservato la modella…
…Ben presto mi sono accorto che era il blocco stesso del corpo,
cioè il tronco e anche una parte delle cosce, ad affascinarmi. Le
mani, le braccia, la testa, le gambe non avevano importanza.
Soltanto il corpo vive, onnipotente, e non pensa. La testa, le
braccia, le mani sono delle articolazioni intellettuali intorno alla
carne che è il corpo!
63
Il cuore batte senza che ci pensiamo; non possiamo arrestarlo da
soli. La digestione avviene senza il nostro intervento intellettuale
o emozionale; respiriamo senza rendercene conto. Certo tutto il
corpo è costituito di carne, ma la massa essenziale sono il tronco
e le cosce. Lì si trova l’universo reale nascosto dall’universo della
percezione >>93. Nelle Anthropometries di Klein coincidono due
temi : quello della rappresentazione del corpo come oggetto ed il
suo essere soggetto attivo dell’operare artistico. Il tema della
carne in Klein è pervaso da una profondissima spiritualità
cristiana che fa dell’incarnazione del Verbo fondamento centrale
del suo credo. Il tronco umano è la parte del corpo dove ha sede
il cuore, che come dice l’artista francese, vive onnipotente e non
pensa. Nell’Antico Egitto il cuore era l’unico organo che veniva
lasciato nei corpi mummificati, perché fosse pesato in confronto
ad una piuma nella psicostasia del tribunale di Osiride. Questa
dialettica che abbiamo visto tra la testa e il tronco si riflette in
quel dualismo comune che vede l’antitesi fra la testa ed il cuore,
fra due vie parallele, il pensare ed il sentire. Anticamente, tra i
monaci erranti dello Zen esisteva una tradizione : un monaco che
chiedeva ospitalità in un convento poteva riceverla solo a
condizione di vincere dialetticamente una complicata disputa
filosofica con un altro monaco. Nel caso in cui il monaco che
chiedeva ospitalità vincesse aveva diritto ad una ciotola di riso
ed un letto per una notte; solo una ciotola di riso, solo una notte
di ospitalità, perché si ricordasse che era quello che poteva
conquistare con la via della mente , perché ricordasse sempre di
seguire la via del cuore, vera sede dell’intelligenza. Yves Klein
nella sua opera continua, instancabile nell’indagine, non ha
scelto la testa, ma prima il tronco, la carne, il cuore che palpita, la
vita, ciò che è incontrollabile perché non ci appartiene. << Amo
in me tutto ciò che non mi appartiene, cioè la mia vita, e detesto
tutto ciò che mi appartiene : la mia educazione, la mia eredità
psicologica, la mia ottica acquisita, tradizionale, i miei vizi, i miei
difetti, le mie qualità, le mie manie; in poche parole, tutto ciò che
mi conduce alla mia morte fisica, sentimentale ed emozionale
>>94. Tutta l’opera di Klein è scandita dal matrimonio che l’artista

93 Y.Klein, cit. in Verso l’immateriale dell’arte, O barra O , 2009, Milano, p.70.

64
celebra tra la materia e lo spirito, tra l’universale e il particolare.
La profonda sensibilità e spiritualità di Klein nasce non solo nelle
radici cristiane, ma anche nell’incontro che l’artista ha con il
pensiero orientale, in particolare attraverso la pratica del judo, in
cui raggiunse il più alto grado e la qualifica di insegnante, attività
che per qualche anno praticherà prima di dedicarsi, anima e
corpo, alla sua ricerca artistica. << Nel judo mi hanno sempre
insegnato che avrei dovuto raggiungere la perfezione tecnica per
potermene infischiare; essere costantemente in grado di
mostrarla a tutti i miei avversari, e così, sebbene conoscessero le
mie mosse, vincere comunque >>95. Così Klein ricorda uno degli
insegnamenti appresi dal judo , prezioso consiglio che si
rifletterà anche nel suo operare artistico. Se certa tradizione
filosofica occidentale separa dogmaticamente il corpo dallo
spirito, in molte discipline e pensieri orientali invece il corpo è il
veicolo essenziale attraverso cui lo spirito conosce ed entra in
contatto ed in armonia con i cicli del cosmo, dalla meditazione
vipassana buddhista alla complessa e sconfinata scienza yogica,
dal tai chi alla cerimonia zen del the. Yoga vuol dire giogo, lo
strumento con cui due buoi venivano uniti per arare i campi,
indicando quanto questa pratica miri ad unire spirito e corpo, il
Tutto con il particolare. La parola zen viene da un verbo
giapponese, zazen, che significa stare seduti. Tutta quella vastità
di esperienze, pensieri e discipline che provengono dall’Oriente
hanno avuto indubbiamente una profonda ed eterogenea
influenza su molti artisti e sull’operare artistico del XX secolo. Il
rapporto ambiguo e funzionale che intrattengono le polarità
tradizionalmente in antitesi nella dialettica di Merleau-Ponty si
riscontra anche nella relazione che vede tra la filosofia
occidentale ed il pensiero orientale. L’Oriente e l’Occidente sono
stati divisi da un confine intellettuale e culturale prima che
geografico, Europa ed Asia sono gli unici continenti che
permettono una crasi : l’Eurasia. In Segni Merleau-Ponty dedica
un breve scritto al rapporto che intrattengo secondo lui la
tradizione filosofica occidentale ed il millenario pensiero

94 Op.cit. , p.61.

95 Op.cit. , p.72.
65
orientale, concentrandosi, a causa della vastità dell’argomento
trattato, a determinati esempi significativi, come la critica di
puerilità che Hegel muove al pensiero orientale, da non
considerare quindi come filosofia. Confutando questa critica
mossa da Hegel Merleau-Ponty afferma : << Quel che abbiamo
appreso sulle relazioni fra la Grecia e l’Oriente, e viceversa tutto
quanto abbiamo scoperto di “occidentale” nel pensiero orientale
( una sofistica, uno scetticismo, elementi di dialettica, di logica),
ci vieta di tracciare una frontiera geografica tra la filosofie e la
non filosofia. La filosofia pura o assoluta, in nome della quale
Hegel esclude l’Oriente, esclude anche buona parte del passato
occidentale. Anzi: applicato rigorosamente questo criterio
risparmierebbe, forse, il solo Hegel >> 96 . Merleau-Ponty
conclude affermando che se è vero che la filosofia occidentale è
come l’adulto e il pensiero orientale come il bambino, il rapporto
non è però quello tra l’ignoranza e il sapere o tra la non filosofia
e la filosofia, ma più sottile e complesso. I temi trattati fino ad ora
: l’enfasi dell’operare artistico, l’atto che si mimetizza con la vita,
l’artista che apre la sua opera al puro accadere nel regno del
possibile, la vita ed il contingente, il corpo come soggetto ed
oggetto del processo artistico, ci accostano a quelle che possono
essere considerate le operazioni più caratterizzanti dell’operare
artistico novecentesco a partire dal secondo dopoguerra, quelle
che genericamente vengono definite “pratiche performative”. Il
termine “pratiche performative” risulta generico sia per
l’estrema eterogeneità delle operazioni svolte che per le diverse
poetiche che muovono gli artisti durante tutta la seconda metà
del novecento fino ad oggi. La storiografia artistica nel cercare di
ordinare il carattere mutevole e differente di queste operazioni
ha operato alcune distinzioni : Fluxus, performance, body art,
happening o arte relazionale. Quello che collega procedimenti e
poetiche così differenti tra loro è il ruolo che assume il corpo e la
vita stessa dell’artista nell’opera d’arte, il suo operare, lo
sconfinamento definitivo ed irreversibile che ha luogo tra arte e
vita, tra finzione e realtà, opera e mondo, e l’inserirsi in quel
territorio di confine tra lo spettatore e l’opera, guardando al di
sotto della tradizionale relazione tra opera come oggetto e

96 M.Merleau-Ponty, Segni, cit. , p.185.


66
pubblico come soggetto. Nello spazio tra l’opera d’arte e il
pubblico si instaurano molte operazioni artistiche del secondo
Novecento. Lo spettatore non sarà più così solo un soggetto
passivo esposto all’aura e alla contemplazione dell’opera d’arte
che irradia la sua bellezza ed il suo significato, ma diventerà,
nella sua partecipazione e nella sua relazione con l’evento, anche
soggetto attivo di numerose operazioni artistiche. Nella seconda
metà del XX secolo affiora così la coscienza che l’arte vive non
solo nell’operare e nell’opera dell’artista ma anche nell’occhio di
chi guarda, nella relazione che si stabilisce con lo spettatore,
perché non esiste un opera d’arte senza un essere umano che
possa vederla, sentirla, viverla, come non esiste probabilmente
un suono senza qualcuno che lo ascolti. Non possiamo davvero
vedere un opera in maniera oggettiva, assoluta, statica, non
possiamo evitare di considerare il nostro sguardo; così un opera
è mutevole nel tempo perché lo è la nostra natura, ed un quadro
o una scultura che vediamo oggi non sarà la stessa che vedremo
tra dieci anni perché noi cambiamo nel tempo e guarderemo
diversamente l’opera. Nell’operare artistico contemporaneo,
soprattutto a partire dalla fine delle seconda guerra mondiale,
sembra che l’antitesi classica tra spettatore ed opera non sia più
così certa e dogmatica come prima. Molti artisti vedono al di
sotto della dialettica tradizionale tra opera e spettatore lo spazio
dove operare e mettere in discussione l’irreversibilità di tale
antitesi. Come Merleau-Ponty scorge nel momento della
percezione il luogo dove le nozioni di soggetto e oggetto
diventano ambigue, così molte operazioni artistiche a partire
dagli anni Cinquanta vedono nell’evento, nell’atto che ha luogo
nel mondo, lo spazio dove lo sconfinamento tra opera e fruitore
ha luogo. Il Black Mountain College in North Carolina, fondato
nello stesso anno in cui in Europa veniva chiuso il Bauhaus, è
stato un luogo fertile per la nascita e lo scambio di nuove idee
artistiche, qui infatti si sono incontrati ed hanno collaborato in
maniera interdisciplinare artisti importanti del XX secolo come
John Cage, Merce Cunningham e Robert Rauschemberg.
Nell’agosto del 1952, nel refettorio del Black Mountain College,
ha luogo un evento interdisciplinare , fondato su un sistema di
relazioni casuali tra musica, danza, teatro ed arte, ideato da Cage
e a cui collaborarono Cunningham, Rauschenberg, Olson, Tudor
67
e Richards, dando vita a quella che viene considerata la prima
anticipazione di un happening. Rauschenberg partecipa a
quest’evento collettivo con i suoi White Paintings, monocromi
bianchi appesi sopra il pubblico, Cunningham improvvisa passi
di danza lungo le diagonali in cui è divisa la sala, mentre Cage
legge, sopra una scala a pioli, il testo di una conferenza su
Meister Ekhart, mistico medioevale tedesco. Nell’evento ideato
da Cage non solo si sovverte la tradizionale specificità delle arti e
la loro tradizionale gerarchia ma si cerca quella che può essere
definita come un opera d’arte totale, un osmosi, uno
sconfinamento radicale tra le varie arti. Il secondo aspetto
fondamentale dell’operazione artistica architettata da John Cage,
che influenzerà numerose operazioni artistiche successive, è
nell’aver ideato un evento che lasciasse spazio al puro accadere
mediato però da limiti temporali stabiliti precedentemente
dall’autore. Il tema dell’incontrollato, della contingenza, è
connesso a quello dell’autorialità periferica dell’artista nei
confronti della sua opera , al distacco che ha verso il suo operare
e che si traduce in artisti come Pollock, nel gruppo Gutai, o in
Klein nella scelta cosciente di abbandonare il tradizionale
medium, il pennello. La cornice dell’opera, a partire da Cage, non
è più costituita solo da limiti spaziali come quelli della tela
distesa che confina l’operare frenetico di Pollock, ma anche da
limiti temporali, cornice dove viene relegata l’autorialità
dell’artista che può stabilire la durata dell’evento, del rito che ha
luogo. Nel 1959 alla Reuben Gallery di New York viene
presentato 18 happenings in six parts dell’artista statunitense
Allan Kaprow. L’ambiente della galleria, dove è diffusa la musica
di dischi ed il suono di giocattoli e poesie, è diviso in tre sale,
utilizzando fogli di plastica dove sono dipinte parole ed attaccati
diversi oggetti, mentre sui muri sono proiettate pellicole
cinematografiche e diapositive. Il pubblico presente è esortato a
svolgere diverse operazioni, seguendo istruzioni su cosa fare,
come ad esempio quando applaudire o quando spostarsi. Allan
Kaprow, influenzato dalle operazioni musicali di John Cage,
teorizza una nuova forma d’arte in cui il puro accadere e la
partecipazione attiva del pubblico diventano elementi centrali
dell’operare artistico e tali operazioni vengono definite appunto
happenings, dall’inglese to happen, accadere. Gli happenings
68
teorizzati da Kaprow sono eventi, operazioni, architetture
dell’artista, in cui lascia al pubblico la libertà di compiere l’atto,
dando così senso e forma all’opera da lui ideata. Le teorie
artistiche di Kaprow sono state fortemente influenzate dalle
teorie artistiche di John Cage in quanto implicano l’accettazione
incondizionata di quanto accade all’interno di una cornice
temporale e spaziale prefissata. 18 happenings in six parts del
1959 è la prima opera in cui le teorie di Kaprow trovano forma
concreta e compiuta ed una delle prime esperienze artistiche
dove il concetto di opera d’arte si insinua nell’interazione
sensibile tra opera e pubblico, nell’osmosi tra le intenzioni
dell’artista e gli atti degli spettatori. Il chiasma , che confonde e
cancella i confini che dividono, ci accompagna durante tutto il
nostro itinerario tra il pensiero di Merleau-Ponty e l’operare
artistico novecentesco. Lo sconfinamento, l’osmosi, tra l’operare
dell’artista e l’opera, tra la vita e l’arte, che caratterizza tutto il
secolo, si trasmette anche nel rapporto tra fruitore ed opera, nel
momento dell’evento, nell’incontro tra soggetto e oggetto, nella
loro relazione che mette al mondo l’opera stessa. Molte
operazioni artistiche della seconda metà del Novecento mutano
radicalmente la relazione tra l’opera e lo spettatore, indagando
ed installandosi nello spazio dove questi si incontrano. A partire
dagli anni Sessanta molti artisti fecero del loro stesso corpo il
mezzo espressivo principale delle loro poetiche, utilizzando la
loro fisicità con ritualità magiche e sciamaniche o come
strumento per denunciare pubblicamente problematiche sociali,
politiche o economiche. L’artista Marina Abravomić indaga
attraverso le azioni rituali che compie con il suo corpo quel
territorio selvaggio tra l’interiore e l’esteriore, tra lo spirito e la
carne, partorendo opere che nascono dall’incontro, nel regno del
puro accadere, tra l’artista ed il pubblico. La relazione osmotica
tra artista e pubblico che l’artista serba vuole ed esplora viene
messa in atto radicalmente in un azione performativa del 1974
che ha avuto luogo a Napoli : Rhythm 0 . L’artista si offre
passivamente al pubblico , dando la possibilità a quest’ultimo di
interagire con il suo corpo attraverso oltre settanta strumenti
che erano posizionati su un tavolo. L’azione, dove regna
l’incontrollabile, viene ideata dalla Abramović all’interno di una
precisa cornice temporale, in questo caso sei ore, come nelle
69
strategie e nelle teorie di Cage. Se nelle prime ore il pubblico
appare titubante nell’intervenire, a metà della durata prevista
dell’evento ecco che alcuni partecipanti cominciano a tagliuzzare
i vestiti dell’artista con lamette che erano a disposizione, quindi a
tagliarle la pelle per succhiarle il sangue, fino a metterle poi in
mano una pistola carica, anche questa tra gli oggetti a
disposizione, con il dito posato sul grilletto. Il puro accadere
assume in questa azione di Marina Abramović un carattere
violentemente incontrollabile che contrasta con l’abbandono
rituale e privo di volontà dell’artista. In quest’opera appare
evidente quanto sarebbe vano voler cercare confini tra l’opera,
l’artista, l’evento ed il pubblico che agisce. L’utilizzo rituale del
corpo da parte di Marina Abramović vorrebbe rimuovere le
barriere che separano lo spirito dal corpo, così le sofferenze che
infligge alla sua carne sono da considerarsi come esercizi
spirituali, operazioni che indagano la relazione tra il corpo e lo
spirito. Il corpo nelle azioni di Marina Abramović è uno spazio
osmotico, dove lo spirito incontra la carne attraverso rituali e
mezzi extra-artistici che richiamano arcaiche pratiche di alcune
religioni orientali o africane. I rituali magici che l’artista compie
sembrano evocare quella continua osmosi tra esteriore ed
interiore, sovvertendo quell’idea tradizionale in cui solo le cause
esterne provocano effetti interiori nell’individuo, mostrando
come la disciplina nell’educare mente e corpo influenzi e
modifichi la percezione stessa di agenti esterni, come ad esempio
in pratiche religiose e riti, da cui l’artista attinge, dove la
sopportazione del dolore fisico coincide con l’esplorazione delle
possibilità dello spirito. Nell’itinerario percorso potremmo
notare come il corpo umano, sia nella filosofia di Merleau-Ponty
che nella fenomenologia operativa con cui gli artisti del XX secolo
ne esplorano le molteplici possibilità, sia diventato ormai uno
spazio ambiguo, non più così sicuro e razionale nel registrare il
mondo, ma luogo dove il controllo e l’incontrollato, l’artista e la
vita, l’operare e l’opera, il soggetto e l’oggetto , l’io e il mondo,
convivono in un chiasma profondo che ne rende ormai
difficilmente localizzabili i confini. L’opera d’arte nel Novecento
si apre irrimediabilmente al mondo e alla vita, rompendo
violentemente quella linea che la confinava nei mezzi, nelle
possibilità o nei fini; così la frattura, la cavità che permette
70
l’osmosi tra l’operare e l’opera, tra l’arte e la vita, è spesso
colmata con il corpo stesso dell’artista che attraverso le sue
azioni, esposte inevitabilmente e volontariamente alla nuda
contingenza dell’accadere, accetta nell’opera l’incalcolabile e
l’imprevedibile nascosto nelle pieghe del mondo, come della vita.

71
LA PITTURA E L’ENIGMA DEL VISIBILE

Che cosa vuol dire vedere?


Ogni risposta verbale o teorica che tentiamo è profondamente
vaga ed incerta, come le parole per provare a descrivere cosa sia
un bianco o un rosso, così per interrogare davvero la visione è
necessario ritornare all’atto stesso, all’esperienza sensibile e
concreta del vedere. <<È vero che il mondo è ciò che vediamo, ed
è altresì vero che nondimeno dobbiamo imparare a vederlo.
Anzitutto nel senso che, mediante il sapere, dobbiamo eguagliare
tale visione, prenderne possesso, dire che cos’è noi e cos’è
vedere, e dunque comportarci come se non ne sapessimo nulla,
come se in proposito avessimo tutto da imparare.>>97. Il filosofo
deve non sapere, guardare al mondo come se assistesse per la
prima volta allo spettacolo del visibile, come colui che non sa
nulla e che domanda ad una visione che conosce ogni cosa,
perché l’interrogazione stessa è l’unica modalità che ha la
filosofia per accordarsi alla visione spontanea ed originaria che
ci offre la percezione98. La visione che Merleau-Ponty interroga
così profondamente e di cui sente l’eco in tutte le indagini della
pittura, è quella visione originaria che, come la vita, non si
sceglie, che noi non facciamo né decidiamo, ma che si fa in noi,
che nasce spontaneamente nell’intreccio carnale e inscindibile
tra il tessuto umano e quello del mondo. Merleau-Ponty nella sua
costante e radicale interrogazione opera una profonda
riabilitazione ontologica del sensibile, eleggendo a temi
d’indagine della sua ricerca il corpo vissuto e l’esistenza
concreta. La prospettiva in cui Merleau-Ponty riabilita
ontologicamente l’esperienza concreta e vissuta dell’essere
umano è funzionale alla filosofia che vuole , intesa non più come
rappresentazione del mondo da parte di una presunta coscienza
pura e disincarnata che gli sarebbe di fronte ma come
presentazione autentica del nostro essere nel mondo. La fede

97 M.Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit. , p.32.

98 Cfr. Ibidem.
73
percettiva, incarnata nell’intelligenza del corpo, nasce dalle
verità evidenti che essa ci offre, in quel tessuto sensibile e
soggettivo da cui ogni pensiero oggettivo nasce, che abito e
conosco attraverso il corpo senziente-sensibile; così conosciamo
cosa sia il tempo prima di ogni calcolo, lo spazio prima della
misurazione metrica o cosa siano davvero la visione e la luce
prima di ogni teoria che pretenda di spiegarle. La visione è un
esperienza che, come l’opera d’arte, mette in luce un mondo dove
l’essenza delle cose è sempre incarnata, un immediatezza
precategoriale che rivela i limiti dell’analisi logica. Merleau-
Ponty nella sua filosofia vuole apprendere a vedere, proposito
direttamente proporzionale all’oblio con cui si dimentica quel
sapere prefissato che gettiamo sul mondo; interrogare la visione
vuol dire allora ritornare a vedere ancora, perché la visione non
impara se non da sé stessa. << Certamente questo dono si merita
con l’esercizio, e non è in qualche mese, e non è neppure nella
solitudine che un pittore entra in possesso della sua visione. Non
è questo il problema : precoce o tardiva, spontanea o formata al
museo, la sua visione in ogni caso non apprende che vedendo,
non apprende che da se stessa>>99. Merleau-Ponty in tutto il suo
iter filosofico continua ad interrogare instancabilmente la
visione, domanda che però non attende e non trova risposta
definitiva, perché la filosofia è qui concepita non come
risoluzione di un problema dato e certo ma come interrogazione
radicale e costante che va sempre più in là, sempre oltre.
L’interrogazione filosofica e la sua necessaria espressione sono
affini per Merleau-Ponty alla visione del pittore e alla sua attività
incessante, in quell’ essenza che li anima entrambi e che li muove
continuamente. Nell’interrogazione incerta e radicale di
Merleau-Ponty si può scorgere quell’affinità profonda che il
filosofo francese vede tra il pensiero filosofico e la visione del
pittore. L’incedere claudicante affine alla filosofia di Merleau-
Ponty come alla pittura di Cézanne è sintomo di una sincera e
profonda fede, il cui cammino è per sua natura impervio. Fede
nella verità per il filosofo e nella visione per il pittore, invisibile
motore che muove la loro vita come le loro opere. Se la speranza
vuole abbandono, la fede richiede metodo e perseveranza.

99 M.Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. , p.22.


74
L’opera del grande pittore come quella del grande filosofo hanno
in comune il fatto di non essere mai veramente concluse, mai
certe del risultato raggiunto, sempre in continuo movimento
verso invisibili ed incerti risultati. Cézanne non ha mai pensato
che la sua pittura potesse un giorno considerarsi conclusa, non
hai mai pensato di dipingere l’ultimo quadro per poi smettere,
semplicemente non poteva; aveva promesso a sé stesso che
sarebbe morto dipingendo, che solo l’inevitabile avrebbe potuto
farlo smettere di tornare ogni volta a vedere il mondo per
dipingere, e dipingere per ritornare a vedere. La fede che
Cézanne ripone nella sua visione spontanea, più vera per lui di
ogni teoria che gli offrono, dona alle cose che dipinge una verità
originaria, come se le stesse vedendo sorgere all’alba del visibile,
germinare nel mondo, in lui, per la prima volta. Le opere di
Cézanne ci restituiscono un mondo primordiale, visto con lo
sguardo di un essere straniero che si affaccia vergine allo
spettacolo del visibile, che con stupore e meraviglia domanda
cosa sia la luce, lo spazio, le ombre, la forma, il colore, la
trasparenza, i riflessi. Visione davvero instancabile, continua e
incerta, che interroga e mette esemplarmente in mostra l’enigma
della visibilità stessa. Un vedere che interroga le cose, la luce, lo
spazio, come colui che non sa nulla, un vuoto che permette alla
visione di nascere in lui, di assistervi come se fosse la prima
volta che vi si affaccia. << Noi percepiamo le cose, ci intendiamo
su di esse, siamo ancorati ad esse e solo su queste fondamenta di
“natura” costruiamo delle scienze. Cézanne ha voluto dipingere
questo mondo primordiale, ed ecco perché i suoi quadri dànno
l’impressione della natura alla sua origine, mentre le fotografie
dei medesimi paesaggi suggeriscono i lavori degli uomini, le loro
comodità e la loro presenza imminente>>100. Questo spazio
alieno, precategoriale, preliminare ad ogni riflessione, che la
pittura di Cézanne magistralmente mette in mostra, è dove la
filosofia e la scienza dovrebbero ricollocarsi per Merleau-Ponty,
terreno da cui sono germinate. La naturale apertura al mondo
che ci offre l’esperienza percettiva ed il pensiero, non sono mai
in antitesi per il filosofo francese ma sempre strettamente
connessi e funzionali, come le radici per i rami dell’albero che

100 M.Merleau-Ponty, Senso e non senso, cit. , p.32.


75
guardano al sole. Merleau-Ponty vuole interrogare ed indagare il
soggetto percettivo corporeo perché cerca di illuminare l’origine
invisibile del pensiero stesso, quella fenditura carnale e profonda
da cui sgorga ogni scienza ed ogni filosofia. La filosofia di
Merleau-Ponty, influenzata dalla fenomenologia di Husserl,
auspica di tornare a vedere al cuore delle cose, sospendendo
necessariamente quel sapere logico e prefissato che gettiamo sul
mondo, privilegiando invece lo spessore sensibile ed originario
che è offerto dalla nostra esperienza percettiva, nella prospettiva
filosofica non di spiegare il mondo ma di tornare a descriverlo .
<< Sono le cose stesse, dal fondo del loro silenzio, che essa vuole
condurre all’espressione. Se il filosofo interroga e dunque finge
di ignorare il mondo e la visione del mondo che sono operanti e
che si fanno continuamente in lui, è proprio per farli parlare,
poiché ci crede e attende da essi tutta la futura scienza>>101.
Nell’indagine fenomenologica di Merleau-Ponty viene operata
una riduzione dal soggetto gnoseologico al soggetto percettivo-
corporeo, operazione necessaria per riapprendere a vedere
autenticamente il mondo. Un ritornare a vedere il mondo che
non è lo sguardo incontaminato di chi vuole rifugiarsi in una
presunta condizione di purezza ormai perduta, ma condizione
che prende davvero coscienza di sé solo attraverso quel pensiero
oggettivo che la dimentica. <<È secondo la struttura e il senso
intrinseci che il mondo sensibile è “più vecchio” dell’universo del
pensiero, poiché il primo è visibile e relativamente continuo,
mentre il secondo, invisibile e lacunoso, a prima vista non
costituisce un tutto e non ha la sua verità se non a condizione di
appoggiarsi sulle strutture canoniche dell’altro>>102. Il compito
inesauribile di ritornare a vedere al cuore delle cose implica una
fenomenologia del vedere che privilegia il soggetto percettivo
corporeo perché capace di cogliere relazioni con il campo
fenomenico non registrabili razionalmente. Questa visione
spontanea ed originaria, offerta dalla fede percettiva, è
interrogata dalla fenomenologia ma restituita esemplarmente,
nel regno del visibile, dalla pittura, dalla visione del pittore che

101 M.Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit. , p.32.

102 Op.cit. , p.39.


76
mediante il suo gesto , il movimento del suo corpo, la trasmette
sulla tela. <<È prestando il suo corpo al mondo che il pittore
cambia il mondo in pittura. Per comprendere queste
transustanziazioni , occorre ritrovare il corpo operante e in atto,
che non è un pezzo di spazio, un fascio di funzioni, che è un
intreccio di visione e di movimento>> 103 . Il pittore non
rappresenta le cose, bensì le presenta, lascia che parlino dal
fondo del loro incomunicabile mutismo. Lo strumento attraverso
cui il pittore concede la parola alle cose è il suo stesso corpo, che
presta al mondo perché la sua visione possa divenire opera. Il
dialogo che il pittore ha con il mondo, la sua presentazione
magistrale dell’enigma della visibilità, nasce in quel commercio
naturale ed intreccio carnale tra soggetto ed oggetto, tra
sensibile e senziente, tra vedente e visibile. Il pittore conosce e
sperimenta nel suo lavoro quel nucleo di passività che batte nel
cuore della visione stessa, visione che lui non fa ma che nasce
naturalmente in lui. Tale passività che il pittore sperimenta non è
che l’altro lato, l’invisibile, della nostra potenza visiva, l’essere
vedenti. L’operazione con cui il grande pittore trasforma la sua
visione in pittura è una transustanziazione che avviene solo
mediante l’offerta, il prestito, del suo corpo al tessuto del mondo,
presentandoci così quella che Merleau-Ponty chiama la chair du
monde. Il visibile, nato nel contatto predestinato tra l’occhio e la
luce, accende nel pittore una scintilla che anima il suo corpo e
guida spontaneamente la sua mano in movimenti che creano
l’opera, risposte spontanee allo stimolo originario dato dalla
visione. Tale reversibilità profonda tra soggetto e oggetto, tra io
e mondo, tra visibile e vedente, che il pittore sperimenta nella
sua visione è tanto radicale che alcuni artisti non sentivano più
di guardare le cose che dipingevano ma sentivano che erano le
cose stesse a spiarli silenziosamente. Il tema dell’esperienza
percettiva e del corpo vissuto è centrale nella filosofia di
Merleau-Ponty, che vuole tornare a descrivere il mondo
partendo non da concetti ma da quell’ esperienza originaria e
primordiale che ci offre la nostra naturale fessura sul mondo, il
nostro essere corporeo, luogo dove avviene il chiasma, la
reversibilità profonda tra la trama carnale dell’essere umano e

103 M.Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. , p.17.


77
l’ordito del mondo. L’esperienza sensibile, concreta, mediante il
corpo con il mondo e con l’altro, è sempre stata marginale nella
ricerca metafisica di una verità filosofica, spazio inesplorato e
selvaggio che il fenomenologo francese vuole interrogare e
chiarire nel suo iter filosofico. La soggettività per il filosofo
francese è sempre una soggettività incarnata, dove le categorie
tradizionali della filosofia occidentale, come immanente e
trascendente o anima e corpo, convivono in un ambigua e
radicale osmosi; anche le nozioni oggettive di spazio e tempo
vengono riconsiderate partendo dall’esperienza concreta che ne
abbiamo con il corpo vissuto, dove si percepisce che non siamo
inscritti in una dimensione spazio-temporale quanto piuttosto
l’abitiamo. Il tema del sensibile e del corpo vissuto, spazio
selvaggio quasi escluso dalla tradizionale indagine filosofica,
viene riabilitato ed interrogato ontologicamente da Merleau-
Ponty, cancellando così quel confine sottile tra percezione e
pensiero, tra ragione e non-ragione e tra non-filosofia e filosofia.
<<Bisogna riuscire a fare della filosofia una percezione, come
della storia della filosofia una percezione della storia. Tutto si
riduce a ciò : elaborare una teoria della percezione e della
comprensione che dimostri che comprendere è cogliere per
coesistenza, lateralmente, come stile , e con ciò raggiungere di
colpo le lontananze di questo stile e di questo apparato
culturale>>104. La profonda affinità intravista da Merleau-Ponty
tra il pensiero filosofico e la percezione permette di
comprendere perché il filosofo francese abbia eletto come
modello per il suo pensiero filosofico la pittura e l’operare
pittorico. L’operare del pittore ed il pensare del filosofo rivelano
profonde affinità, nell’incessante ed instancabile interrogazione
come nella coscienza di dover svolgere un lavoro radicale, mai
statico, ma sempre in movimento, mai certo dei suoi fini come
dei suoi mezzi. La filosofia di Merleau-Ponty e la pittura di
Cézanne sono affini nell’incedere incerto, nel fare del dubbio
quello che ne diceva Cartesio : dubium sapientiae initium .
L’interrogazione nella filosofia di Merleau-Ponty è radicale e mai
certa dei suoi risultati, come la pittura per Cézanne. Per tutta la
vita il filosofo francese ha indagato profondamente i temi del

104 M.Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit. , p.204.


78
visibile e della pittura, fin da Struttura del comportamento
(1942) e Fenomenologia della percezione (1945); ma nonostante
avesse interrogato fin dalle prime opere queste tematiche torna
a scriverne nel 1960 come se fosse la prima volta che ne discute,
in L’occhio e lo spirito, l’ultima opera completa a cui lavora,
saggio richiesto come contributo per il primo numero di Art de
France. In quest’ultimo saggio, scritto nella luce delle stesse
campagne dove Cézanne aveva dipinto, il filosofo ritorna ancora
ad interrogare profondamente l’enigma della visione, indagando
così radicalmente nello stesso tempo anche la storia della
pittura, quale celebrazione ed esemplare messa in atto della
visione stessa. La visione originaria e spontanea offerta dal
soggetto percettivo-corporeo è lo spazio che interroga ed indaga
radicalmente Merleau-Ponty in tutto il suo iter filosofico, visione
davvero incarnata nel linguaggio della pittura. <<Si potrebbe
cercare negli stessi quadri una filosofia figurata della visione e
quasi la sua iconografia>>105. Merleau-Ponty in L’occhio e lo
spirito ritorna ad interrogare la visione e la pittura con occhi
nuovi, come se le conclusioni raggiunte in anni ed in opere
precedenti dovessero essere dimenticate perché potessero
nascere nuove idee, come un bicchiere pieno che deve essere
svuotato per contenere ancora; il filosofo francese guarda così
al mondo come fa un pittore, che nonostante abbia visto
innumerevoli volte i soggetti che dipinge, un volto, un paesaggio,
una bottiglia o un colore, tornerà sempre a guardarli ed
interrogarli di nuovo come se fosse la prima volta che li vede ,
per dipingerli ancora. Cézanne pensa in pittura, in una visione
che è pensiero, che non è mai identica a sé stessa, che sgorga in
lui come l’acqua più pura dalle sorgenti di montagna.
La visione che Merleau-Ponty indaga ed interroga non è il
pensiero della visione ma l’esperienza stessa , corporea e
sensibile, che risveglia in noi ciò che l’analisi riflessiva dimentica
e crede scontato, perché <<il pensiero oggettivo ignora il
soggetto della percezione>>106. La relazione che Merleau-Ponty
vede tra il pensiero oggettivo ed il pensiero soggettivo potrebbe

105 M.Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. , p.26.

106 M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. , p.283.


79
essere descritta con la stessa metafora con cui Cartesio
immaginava la filosofia, come un albero. Il pensiero soggettivo è
le radici, ben salde nella terra buia, che permettono al tronco, ai
rami e alle foglie, al pensiero oggettivo in tutte le sue forme, di
strutturarsi e crescere. La visione che il filosofo interroga è la
visione spontanea ed originaria che nasce nel contatto carnale
tra l’essere umano e il mondo, fede primordiale che non si
sceglie, che precede ogni analisi e da cui nascono ogni scienza ed
ogni filosofia. << Non si tratta più di parlare dello spazio e della
luce, bensì di far parlare lo spazio e la luce esistenti.
Interrogazione senza fine, poiché la visione, a cui essa è rivolta, è
anch’essa interrogazione. Tutte le ricerche che credevamo
concluse si riaprono. Che cosa sono la profondità, la luce,
? Che cosa sono-non per uno spirito che si isoli dal
corpo, ma per quello spirito che, come disse Cartesio, è diffuso
per tutto il corpo? E che cosa sono, infine, non solamente per lo
spirito, ma per se stesse, dal momento che ci attraversano, ci
inglobano? >>107. Le profonde domande che muovono il pensiero
del filosofo francese riecheggiano naturalmente in tutta la storia
della pittura, che durante ogni epoca ha cercato ed interrogato
luce, colori, trasparenze, profondità, tutti quei fantasmi
impalpabili, invisibili ai profani, che strutturano la grammatica
stessa del visibile, elementi che il pittore vede ed interroga nel
suo lavoro silenzioso, portandoli alla luce nella visione che si
traduce in gesto. La scelta di Merleau-Ponty di eleggere la pittura
come campo d’indagine per la sua filosofia non è assolutamente
dettata da preferenze estetiche ma strumentale e connessa alle
sue profonde ricerche ontologiche. I temi della visione e della
pittura sono funzionali alle sue indagini sul rapporto tra l’uomo e
l’essere e tra mondo e spirito, dove questi elementi non sono mai
dialetticamente separati e divisi, ma sempre ambiguamente
connessi e funzionali, come l’invisibile che vive nella possibilità
stessa della visione , o come l’essenza dell’opera d’arte che
silenziosa splende nell’inscindibile forma in cui è incarnata. << In
ogni caso , giacchè qui si tratta solo di avere una prima veduta
delle nostre certezze naturali, non c’ è dubbio che esse riposano ,
in ciò che concerne lo spirito e la verità, sul primo sostrato del

107 M.Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. , p.43.


80
mondo sensibile, e che la nostra certezza di essere nella verità fa
tutt’uno con l’essere nel mondo>>108. L’attività del pittore che
Merleau-Ponty elegge come modello per il pensiero, come
simbolo della filosofia ancora da farsi , è incarnata in quel quid
misterioso ed incessante che anima il pittore nella sua visione
come nella sua opera. L’anima della filosofia che Merleau-Ponty
vuole vive in quel cammino incessante ed incerto che la fede
nella verità muove, come la visione spontanea del pittore che
interroga il mondo non una volta, ma per tutta la vita, in modo
incerto e claudicante. << Qual è dunque la scienza segreta che il
pittore possiede o che cerca? Questa dimensione secondo la
quale Van Gogh vuole andare “più lontano”? Questo fondamento
della pittura, e forse di tutta la cultura?>>109. Lavoro che non
termina mai, interrogazione continua, come il pittore che nella
sua attività incessante ritorna ogni volta a guardare il mondo per
trovarvi le cifre segrete della visibilità perché <<la visione del
pittore è una nascita prolungata>> 110. Per Merleau-Ponty la
pittura, nella sua magistrale celebrazione del mistero della
visibilità, conserva come nessun altra arte un carattere
profondamente metafisico ed <<ogni teoria della pittura è una
metafisica>>111. La metafisica per Merleau-Ponty non è pensata
come una conferma o una ricerca di idee trascendenti nella
realtà empirica, ma concepita come <<un interrogazione tale da
non concepire una risposta che l’annulli, ma solo azioni risolute
che la portino più in là>>112 , non oltre il visibile, ma nel visibile
stesso. Una metafisica concepita non più come concatenazione
logica di concetti che spiega il reale ma come qualcosa che
risiede nel contatto stesso dell’essere umano, corpo ed anima,
con il mondo. <<Ormai quel che c’è di metafisico nell’uomo non
può più essere riferito a un aldilà del suo essere empirico-a Dio o

108 M.Merleau Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit. , p.39.

109 M.Merleau Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. , p.16.

110 Op.cit. , p.26.

111 Op.cit. , p.32.

112 M.Merleau Ponty, Senso e non senso, cit. , p.119.


81
alla Coscienza-, ma l’uomo è metafisico nel suo essere medesimo,
nei suoi amori, nei suoi odi, nella sua storia individuale o
collettiva, e la metafisica non è più, come diceva Cartesio, l’affare
di qualche ora al mese ; è presente , come pensava Pascal, nel
minimo moto del cuore>>113. In L’occhio e lo spirito il filosofo
chiarisce i motivi che lo portano a considerare come tutta la
storia moderna della pittura , nel << suo sforzo per liberarsi
dall’illusionismo e per acquisire dimensioni sue proprie, ha un
significato metafisico>> 114 . Merleau-Ponty interrogando
l’essenza metafisica della pittura, non solo nei suoi sviluppi
moderni ma in tutta la sua millenaria storia, approfondisce
l’enigma della visione stessa, i suoi fini e la sua storia. Per il
filosofo francese nessun altra attività, come la pittura, di ogni
tempo e di ogni luogo, celebra tanto esemplarmente l’enigma
della visibilità, descrivendo non tanto le cose visibili quanto
indicando quei codici silenziosi, invisibili ai più, che strutturano
e rendono possibile la visibilità stessa. <<L’occhio è ciò che è
stato toccato da un certo impatto con il mondo, e lo restituisce al
visibile attraverso i segni tracciati dalla mano. Da Lascaux ai
giorni nostri, in qualsiasi civiltà nasca, di qualsiasi credenza, di
qualsiasi motivazione, di qualsiasi cerimonia si circondi, pura o
impura, figurativa o no, la pittura, anche quando sembra
destinata ad altri scopi, non celebra mai altro enigma che quello
della visibilità >>115. La pittura riporta alla luce il mistero della
visione con tutti quei fantasmi che porta con sé, facendo
germinare, indicando sapientemente, quell’invisibilità profonda
su cui riposa il visibile stesso, come la musica nel silenzio. La
pittura sembrerebbe davvero incarnare quella verità di cui
parlava Eraclito, profonda e oscura, che non parla, non tace, ma
indica. Alberto Giacometti pensava che l’arte fosse solo un mezzo
per vedere. Il filosofo tedesco Ludwig Wittegenstein nel suo
ultimo libro, dedicato all’osservazione dei colori, ragiona sul
significato del verbo vedere, constatandone l’ambiguità e

113 Op.cit. , p.46.

114 M.Merleau Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. , p.45.

115 Op.cit. , p.23.


82
l’enigma che porta con sé. << E come può darsi che sia insensato
dire: esistono uomini che vedono, se non è insensato il dire che
esistono uomini che sono ciechi? Ma il senso della proposizione:
esistono uomini che vedono, vale a dire, il suo impiego possibile,
non è, in ogni caso, immediatamente chiaro>>116. Vedere non è
semplicemente il contrario di essere ciechi, come la vita non è
comprensibile solo come antitesi della morte. L’enigma della
visione appartiene non alla ragione del pensiero ma alla
primordiale intelligenza del corpo. Se la risposta della domanda
cosa vuol dire vedere riposa silenziosa nell’atto stesso, la
domanda cosa vediamo è invece solo apparentemente banale e
scontata. Se un aquila volteggia nobile e solitaria nel cielo è
perché vola non solo grazie alle sue grandi ali ma anche in virtù
delle correnti d’aria invisibili che sfrutta per planare, così , il
visibile, non è fatto solo di forme piene e solide ma anche di
elementi vuoti ed impalpabili che lo strutturano. Gli stessi
elementi impalpabili che Matisse, ispirato dalla tradizione
pittorica orientale, si proponeva di disegnare, guardando non
alla solidità delle cose ma al vuoto impalpabile che le separa. Il
visibile sembrerebbe avere le sue radici nell’invisibile, rivelando
ancora una volta quell’ambiguo chiasma tra polarità
tradizionalmente contrarie che caratterizza tutta la filosofia di
Merleau-Ponty. << L’essenza propria del visibile è di avere un
doppio invisibile in senso stretto, che il visibile manifesta sotto
forma di una certa assenza117>>. Vedere non è solo vedere cose,
cogliere con l’intelletto forme che coincidono con concetti
prefissati : una sedia, l’albero, la montagna, il cielo o la casa. <<La
maggior parte delle persone vede molto più spesso attraverso
l’intelletto che non attraverso gli occhi. Al posto di spazi colorati,
costoro individuano dei concetti. Una forma cubica, biancastra,
tutta in altezza, forata di riflessi di vetri, è immediatamente, per
loro, una casa: la Casa! Idea complessa, accordo di qualità
astratte . Se costoro si spostano, il movimento delle file di
finestre e la traslazione delle superfici che altera continuamente

116L.Wittgenstein, Osservazioni sui colori, (Cambridge 1977), trad.it. Einaudi ,


Torino, 2000, p.107.

117 M.Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. , pp.58-59.


83
la sensazione, non vengono da loro afferrati-poiché il concetto
non muta. Percepiscono più secondo un lessico che attraverso la
rètina, e avvicinano così male gli oggetti, conoscono in modo così
vago i piaceri e le sofferenze del vedere, che hanno inventato il
bel panorama. Ignorano il resto>>118. Sembrerebbe esserci una
gerarchia latente nel pensiero che si fa visione e che giudica le
cose, che attribuisce, per eredità culturale o sensibilità propria,
caratteri primari e caratteri secondari alle cose che vede. Nella
visione dell’intelletto i caratteri primari sono spesso identificati
con le cose-concetti , nello stesso modo in cui guardando un
quadro alcuni cercano quelle linee che restituiscono l’apparente
somiglianza alle cose, ben prima della luce o dei colori, o in una
poesia si cerca il significato prima di ascoltarne la musica. <<Il
quadro è giudicato in base allo stesso spirito con cui si giudica la
realtà.(…)Tuttavia, credo che il metodo più sicuro per giudicare
un quadro , sia quello di non riconoscervi , in principio, nulla, e di
fare successivamente tutta la serie d’induzioni imposte da una
presenza simultanea di macchie di colore su una superficie
circoscritta, al fine di raggiungere, di metafora in metafora, di
supposizione in supposizione, la comprensione del soggetto, e
talvolta solo la consapevolezza del piacere, consapevolezza che
non sempre si ha inizialmente.>> 119. L’approccio che il poeta
Paul Valéry ha con la pittura è affine alla visione del pittore, un
vedere che inizialmente non vuole cercare nulla ma solo
ascoltare in silenzio la luce frantumata, i colori, che fanno
nascere l’immagine in lui come i suoni articolati e designati
fanno nascere il senso delle parole. Valéry legge la poesia come
guarda un quadro, dove prima di riconoscervi qualcosa lascia
vivere liberamente tutte quelle categorie che sguardi superficiali
credono secondarie, come il colore in pittura, così una poesia
<<dovrà essere considerata, dapprima, in quanto sonorità pura
e, perciò, venir letta e riletta come una specie di musica. Il senso
e le intenzioni saranno introdotti nella dizione solo dopo aver
còlto perfettamente il sistema dei suoni che, pena la sua

P.Valéry, Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci, (Parigi 1894), trad.it


118

Abscondita , Milano, 2002, p.25.

119 Op.cit. , pp.48-49.


84
scomparsa, è offerto dal poema.>>120. Vedere non è solo vedere
cose, solidi, ma è anche vivere e abitare impalpabili elementi che
strutturano la grammatica stessa del visibile : la luce , le ombre, i
colori, la profondità, i riflessi. Sembrerebbero rari gli individui
capaci di inebriarsi della visione , di goderne senza che il
pensiero contamini la purezza dell’atto, capaci di vedere le cose
come se fossero suoni armoniosi da ascoltare e non parole a cui
attribuire un significato. Se il letterato come il filosofo non ha il
privilegio di astenersi dal giudicare le cose, il pittore invece << è
l’unico ad aver diritto di guardare tutte le cose senza alcun
obbligo di valutarle.>>121. I poeti, più di ogni altro letterato, sono
quelli che hanno sentito forse più sinceramente la profonda
corrispondenza tra visione e pensiero, tra suono e colore e tra
linea e parola.
<<A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu : vocali,
Dirò un giorno le vostre origini latenti >>122, così il veggente
Arthur Rimbaud iniziava uno dei suoi sonetti più conosciuti ,
Vocali. Si racconta che da giovane Rimbaud, passeggiando tra le
stanze del Louvre quando accompagnava il suo amico pittore
Jean-Luis Forain, sognasse già una pittura il cui compito non
fosse più quello di replicare oggetti ma di liberare la linea ed il
colore per far sorgere in noi nuove e profonde impressioni
estetiche. Il poeta francese Charles Baudelaire era molto
sensibile al colore e non comprendeva <<quella classe di spiriti
grossi e materiali (il cui numero è infinitamente grande), i quali
non apprezzano gli oggetti se non per il loro contorno, o, peggio
ancora, per le loro tre dimensioni : larghezza, lunghezza e
profondità, proprio come i selvaggi e i contadini. (…) Secondo
costoro, il colore non sogna, non pensa né parla>>123. Il colore
sarà un elemento protagonista nelle indagini di molta pittura
novecentesca, elemento che aiuterà a mettere in dubbio in

120 Ibidem.

121 M.Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. , p.16.

122A.Rimbaud, Le più belle poesie di Arthur Rimbaud, Crocetti , Milano, 1995,


p.31.

123 C.Baudelaire, Per Delacroix (Parigi 1863), trad.it. Liguori ,Napoli, 1996, p.94.
85
pittura il grande mito del primato del disegno sul colore e del
dovere della linea di circoscrivere cose in uno spazio idealizzato.
Baudelaire non comprendeva chi giudicava il quadro solo come
proiezione dell’estensione delle cose, come imitazione del reale,
chi non era in grado di accogliere la dimensione cromatica di un
dipinto. I pregiudizi comuni che credono che la pittura abbia il
compito di rappresentare uno spazio quanto più affine possibile
alla visione empirica, che imiti la solidità delle cose ed in cui il
disegno debba prevalere sul colore, sono idee rinascimentali che
sono rimaste latenti per secoli e che hanno influenzato tutta la
storia della pittura, la sua percezione, i suoi fini come anche i
suoi risultati. I rinascimentali nel voler affermare le loro teorie
pittoriche avevano bisogno di una tradizione che li potesse
legittimare, perché ogni rito nuovo, in questo caso quello della
prospettiva e della possibilità di riflettere esattamente la visione
empirica nella tela, richiede e vuole un nuovo mito. Tale mito
viene individuato dai Rinascimentali nelle idee estetiche del
mondo classico, che verranno però interpretate ed adeguate, non
senza cattiva fede, per accostarle e farle coincidere con le loro
ricerche prospettiche. I teorici del Rinascimento, che
pretendevano di aver trovato la tecnica perfetta per proiettare
esattamente il mondo nelle loro opere, ignorarono
volontariamente la perspectiva naturalis degli antichi che faceva
dipendere le dimensioni apparenti in base all’angolo sotto il
quale vediamo l’oggetto invece che a seconda della distanza,
come avviene invece nella perspectiva artificialis 124. L’errore dei
Rinascimentali , per Merleau-Ponty, non fu quello di idealizzare
lo spazio o la linea ma pensare che le loro scoperte e teorie
potessero concludere definitivamente tutte le indagini della
pittura. Un altro pregiudizio comune che viene tramandato dalla
tradizione rinascimentale è quello che ha visto in pittura una
dialettica profonda tra disegno e colore, in cui il primo ha il
dovere di controllare e contenere il secondo, assumendo così un
primato che sembra affine a quello che nella tradizione filosofica
ha avuto il pensiero sulla percezione. Nelle teorie pittoriche del
Rinascimento il disegno è l’elemento fondante della pittura,
mentre il colore è sempre gregario e marginale e così questa

124 Cfr. M.Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. , p.36.


86
retorica sarà tramandata ed accettata per secoli. A partire dal
Novecento la profondità, che la pittura non ha mai smesso di
indagare, non verrà più pensata come proiezione matematica di
uno spazio idealizzato, ma creata attraverso le possibilità del
colore di generare abissi. Nella pittura del Novecento la linea non
sarà più contrapposta dialetticamente al colore ma
profondamente affine e connessa, come la percezione ed il
pensiero nella filosofia di Merleau-Ponty. Grandi pittori del
Novecento, come Matisse e Klee, che sentirono ed indagarono
per tutta la vita la dimensione cromatica, amandola
profondamente, non sentirono mai dialettica con la linea,
continuando a ricercarla continuamente nelle loro opere,
liberandola dal dovere di circoscrivere colori o cose. La
profondità pittorica che la pittura novecentesca indaga
attraverso il colore ha indubbiamente quello spessore metafisico
di cui parla Merleau-Ponty, una profondità infatti che non
assomiglia a quella percepita nella visione empirica, ma che <<
viene da non si sa dove a posarsi , a germogliare sul
rapporto>>125. Questa profondità misteriosa ed incalcolabile è
quella che hanno cercato per tutta la vita grandi pittori come
Cézanne o Klee nelle loro opere, profondità che non ci permette
di guardare un quadro come qualcosa che è semplicemente lì,
come un oggetto qualsiasi appeso alla parete in cui lo sguardo si
ferma sulla sua superficie, ma come fessura, porta, in cui si
naufraga e si sprofonda verso indefiniti abissi. Quando Merleau-
Ponty è costretto a trovare parole adatte ad evocare la
profondità che vede nei dipinti , le trova paragonandola a quel
grido inarticolato della luce che vide Ermete Trismegisto. La
ricerca di questa nuova profondità sarà per alcuni artisti del
Novecento il fine verso cui far tendere le loro indagini pittoriche,
attraverso nuove ricerche sul colore, sulla linea e sullo spazio,
non meno vere e complesse di quelle che studiavano e cercavano
i pittori rinascimentali. Paul Klee, artista molto amato e citato da
Merleau-Ponty dichiarava in una conferenza : <<Quanto a noi il
nostro cuore batte per condurci verso le profondità…Quelle
stranezze diventeranno…realtà…Perché invece di limitarsi alla
riproduzione più o mena intensa del visibile, esse vi annettono

125 Op.cit. , p.49.


87
anche il versante dell’invisibile, percepito occultamente>>126.
Durante il Novecento pochi pittori come Mark Rothko sono stati
in grado di esplorare e presentarci magistralmente quella
profondità abissale che la dimensione cromatica crea. La
profondità che sentiamo navigando con lo sguardo in un opera di
Rothko è come quell’incalcolabile ed invisibile profondità che
cogliamo passando sul mare, tra la superficie increspata dalle
onde e gli abissi che nasconde. I lavori del pittore americano
sono porte, accessi verso dimensioni incalcolabili ed indefinite,
profondità abissali ed inumane. I colori nella pittura di Rothko
assumono una dimensione propria, viva.
Nella vibrazione luminosa che irradiano le sue opere non
riusciamo a vedere quel colore-involucro che certa tradizione ci
tramanda, presente perfino in un interpretazione etimologica
della parola stessa che farebbe derivare il termine latino color
dal verbo caelar, celare127; il colore infatti nelle opere di Rothko
non nasconde nulla, anzi, crea lo spazio pittorico stesso e fa
germinare la profondità sulla tela, come la luce fa nascere in noi
il visibile. Una certa ideologia ha visto nel colore un elemento
secondario, marginale e gregario rispetto al disegno, alla nobile
linea che ha il dovere di contenerlo e controllarlo, di tracciare
cose. Il disegno in questa dialettica sembra avere la funzione
positiva di dare un contorno alle cose. <<Una volta, ad esempio,
si aveva una concezione prosaica delle linea, come attributo
positivo e proprietà dell’oggetto in sé. Il contorno della mela o il
confine fra il campo coltivato e la prateria, quali esistono nel
mondo, sono linee punteggiate, su cui la matita o il pennello non
avrebbe che da passare. Ma questo tipo di linea è stato
contestato da tutta la pittura moderna, e probabilmente da tutta
la pittura(…)>>128. Nella sua visione spontanea con cui interroga
il mondo, Cézanne oltrepassa ogni distinzione tra linea e colore ,

126 P.Klee, cit. in Op.cit. , p.59.

127 La maggior parte dei filologi accetta come etimologia della parola colore il verbo
latino caelar, nascondere. Isidoro di Siviglia in Etymologiae, (libro XIX, par.17, 1)
collega invece colore al vocabolo latino calor sottolineando così la sua stretta
relazione con il fuoco o con il sole.

128 M.Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. , p.51.


88
perché nell’esperienza concreta che vive nella sua visione tale
antitesi non è mai nata; Cézanne non sente di dover scegliere tra
linea e colore perché tra loro non vede differenza ma profonda
affinità e funzionalità. <<Il disegno e il colore non sono più
distinti; nella misura in cui si dipinge, si disegna; più il colore
s’armonizza e più il disegno si precisa…Quando il colore
raggiunge la sua ricchezza, la forma è alla sua pienezza>>.129 Il
pittore francese guarda al mondo non per fare un quadro ma per
dipingere quello che lui definiva un pezzo di natura e non
vedendo in essa alcuna dialettica tra linea e colore, perché
inesistente nell’esperienza originaria che gli offre la sua visione ,
non sente neanche la distinzione tra sensi e pensiero o tra
vedere e pensare. Cézanne conosceva bene la tradizione, i grandi
maestri e le loro teorie sulla pittura, ma sceglie come strada da
seguire soltanto quella che gli indica la natura, sua unica
maestra. << Tutto ci proviene da essa, per essa noi esistiamo;
dimentichiamo tutto il resto>> 130 scrive il pittore francese.
Quando il pittore Emile Bernard gli ricordava le prescrizioni
sulla composizione o sul contorno tramandate dai grandi
maestri, lui rispondeva : << loro facevano il quadro e noi
tentiamo un pezzo di natura>>131.
Il pittore francese nel suo proposito di ricongiungere arte e
natura sembra sanare anche quella frattura apparentemente
inconciliabile tra pensiero e visione e tra sensi ed intelligenza,
riconciliamento auspicato anche nel pensiero filosofico di
Merleau Ponty. <<Cézanne cerca sempre di sfuggire alle
alternative già bell’e fatte che gli si propongono- fra sensi e
intelligenza, fra pittore che vede e pittore che pensa, fra natura e
composizione, fra primitivismo e tradizione>> 132 . Cézanne,
influenzato dalla lezione impressionista, pensa la pittura non
come visione idealizzata ma come interrogazione profonda della
tremolante apparenza delle cose da restituire sulla tela.

129 P.Cézanne, cit. in Senso e non senso , cit. , pp.33-34.

130 M.Merleau Ponty,. Senso e non senso , cit. , pp.30-31.

131 P.Cézanne, cit. in Ibidem.

132 Ibidem.
89
La visione spontanea di Cézanne è incessante e radicale,
necessaria per far germinare ciò che si proponeva, non un
quadro, ma un pezzo di natura. <<Arriverò allo scopo tanto
cercato e così a lungo perseguito? Studio sempre dal vero e mi
sembra di fare lenti progressi>> 133 . Cézanne con
l’Impressionismo condivide l’idea di una pittura che nasce nel
contatto profondo tra l’artista e gli elementi del mondo, non in
studio, ma immerso nella luce della natura.
Il pregiudizio che separa dogmaticamente disegno e colore è
affine a quella retorica che vede il corpo vissuto e lo statuto della
percezione in antitesi con il pensiero e la conoscenza, come spazi
primitivi da sottomettere alla civiltà dell’intelletto. Il pittore
Bernard ammoniva Cézanne di non abbandonare il disegno
perché così si sarebbe perso nel caos delle sensazioni. Il
pregiudizio comune che giudica la pittura come imitazione del
mondo , che cerca in un quadro il contorno delle cose dipinte ed
il disegno prima di ogni altro elemento, il volume prima del
vuoto, nasce forse da quella visione concepita come l’azione del
tatto, lo stesso modo di concepire il vedere che Cartesio
paragonava al bastone con cui il cieco conosce le cose. <<Il
modello cartesiano della visione è il tatto>>134 scrive Merleau-
Ponty. Le idee rinascimentali su uno spazio esatto ed idealizzato
da proiettare sulla tela, il primato del disegno sul colore ed il
dovere della pittura di rappresentare l’estensione delle cose
vengono accettate facilmente nel pensiero di Cartesio perché
affini alla sua visione. Per Cartesio è infatti scontato che il colore
sia << ornamento, tintura, che tutta la potenza della pittura
poggia su quella del disegno, e quella del disegno che poggia sul
rapporto puntuale fra disegno e spazio in sé, quale lo insegna la
proiezione prospettica >>135. Le indagini moderne della pittura, a
partire soprattutto da Cézanne, mettono radicalmente in dubbio
i dogmi delle scoperte pittoriche rinascimentali, venendo così
accostate da Merleau-Ponty a quelle ricerche della filosofia

133 P.Cézanne, cit. in Op.cit. , p.27.

134 Op.cit. , p.29.

135 Op.cit. , p.33.


90
contemporanea che contestano l’idea di uno spazio e una verità
oggettiva e conclusa. Merleau-Ponty mette profondamente in
dubbio l’idea che la visione possa essere paragonata al tatto
perché vedere è avere a distanza e pensa che l’idea di una pittura
che assomigli all’estensione delle cose deriva da questo
pregiudizio cartesiano, messo in dubbio tanto dalle indagini
moderne della pittura che dalla filosofia. <<La pittura risveglia,
porta alla sua ultima potenza un delirio che è la visione stessa,
perché vedere è avere a distanza, e la pittura estende questo
bizzarro possesso a tutti gli aspetti dell’Essere, che debbono in
qualche maniera farsi visibili per entrare in essa>> 136 .
Attraverso l’esperienza del corpo vissuto si rivela quel rapporto
riflessivo ed ambiguo tra il nostro essere sensibili e senzienti,
dove però i tipi di reversibilità esistenti tra vedente-visibile e
toccante-toccato non sono assolutamente dello stesso tipo.
Husserl in Ideen II coglie alcune differenze sostanziali tra il
dominio tattile ed il dominio visivo : <<Io vedo me stesso, vedo il
mio corpo, ma ciò non avviene nello stesso modo di quando mi
tocco. Quello che chiamo corpo proprio visto non è una cosa che
è vista e che vede, mentre il mio corpo proprio, quando lo tocco,
è qualcosa che tocca ed è toccato>>137. Il dominio tattile è diffuso
in tutto il nostro corpo e basta che qualcosa lo sfiori per
innescare la scintilla, il chiasma tra le parti, la reversibilità tra
senziente e sensibile, così come toccando qualunque parte del
mio corpo riconosco l’ambiguità di essere toccato-toccante. Il
dominio visivo è differente, circoscritto solo a quelle piccole
sfere umide incastonate nei vuoti del cranio, predestinate al
commercio involontario con la luce, al mondo, per aprirci verso
tutto ciò che non siamo. Tali finestre sul mondo sono invisibili a
noi stessi a causa della struttura stessa del corpo umano e
possiamo così vederci vedenti solo mediante l’artificio del
riflesso, dello specchio, che genera quel fantasma che non si
riesce a guardare come una cosa tra le cose ma che si sente come
qualcosa che è naturalmente dalla propria parte,
irrimediabilmente familiare. Specchiarsi, e vedere nel proprio

136 Op.cit. , p.23.

137 E.Husserl, cit. in Op.cit. , p.63.


91
volto quel piccolo e profondo punto nero, al centro dell’iride, che
tutto assorbe, come i buchi neri al centro delle galassie, non
assomiglia in nessun modo all’esperienza con cui conosco il mio
volto attraverso il tatto della mano. La profondità che indago
guardando dentro il mio occhio non è poi così diversa da quella
che sento e vedo in un quadro. La pittura ci fa attingere a quel
mondo primordiale e concreto che viviamo nell’esperienza della
visione, dove si sente l’intreccio , il chiasma, tra il visibile e
l’essere vedenti. Il pittore nell’indagare con la sua visione la
genesi delle cose, la loro tremolante esistenza sulla soglia del
visibile, vuole lasciare che siano esse stesse a parlare, che si
presentino attraverso il suo corpo, generando così quel chiasma
originario dove non è la sua visione che visita le cose quanto
essa stessa che si presenta in lui, che lo visita.
Un quadro, anche il più preciso nelle apparenze, non assomiglia
in nessun modo a ciò che presenta, perché ha una sua esistenza
solo sulla soglia del visibile che indica silenziosamente, non avrà
mai quei presunti valori tattili che il critico americano Bernard
Berenson sentiva nelle opere rinascimentali. <<Quando il
giovane Berenson parlava, a proposito della pittura italiana,
d’una evocazione dei valori tattili, non poteva fare errore più
grosso : la pittura non evoca niente, e soprattutto il tattile. Essa
fa tutt’altra cosa, quasi l’inverso : dona esistenza visibile a ciò che
la visione profana crede invisibile, essa fa in modo che noi non
abbiamo bisogno del “senso muscolare” per avere la
voluminosità del mondo>> 138 . L’elemento meno tattile che
probabilmente Merleau-Ponty vede nella pittura e che gli fa
contestare questa visione, è la profondità, incalcolabile se non
attraverso la visione stessa, impalpabile, il cui possesso sul
mondo è per principio un avere a distanza. La pittura non imita
in nessun modo l’estensione delle cose ma restituisce i codici
stessi della grammatica del visibile in modo che la visione possa
farsi naturalmente in noi davanti a un quadro. La pittura è un
linguaggio la cui grammatica silenziosa è presa dal tessuto
impalpabile del visibile. Come la grammatica o il suono delle
parole non ha nessuna aderenza con le cose che significano così
nessun immagine pittorica assomiglia alle cose che ci presenta.

138 Op.cit. , p.23.


92
<<Per quanto vividamente un taglio dolce “ci rappresenti”
foreste, città, uomini, guerre e tempeste, esso non vi assomiglia:
non è che un po’ d’inchiostro sulla carta. A malapena trattiene,
delle cose, la loro figura, una figura appiattita su un unico piano,
deformata, e che deve essere deformata–il quadrato in losanga, il
cerchio in ovale- per rappresentare l’oggetto. Essa ne è
“l’immagine” solo a condizione di “ non rassomigliarli” >>139. Un
soggetto di un quadro, per esempio una mela in Cézanne, non è
l’illusione di una mela reale, ma ci mostra esemplarmente la
visione vissuta, la relazione profonda e carnale tra l’osservatore
e l’oggetto osservato, il chiasma ambiguo in cui sono indivisibili.
Se la grammatica delle parole è fatta di codici con significati già
assegnati che rimandano a qualcosa che ci è stato insegnato,
quella del visibile è fatta di luce, ombre, riflessi ,colori, evocando
un mondo primordiale ed originario che l’occhio conosce nel suo
segreto commercio con il mondo, risvegliando nel corpo del
pittore quei gesti che faranno nascere la sua opera. << Qualità,
luce, colore, profondità, che sono laggiù davanti a noi, sono là
perché risveglino un eco nel nostro corpo, perché esso li
accolga>> 140 . La pittura indica silenziosamente le strutture
stesse della visione, gli elementi impalpabili e fondanti della sua
misteriosa grammatica : luce, ombre, trasparenze, colori, riflessi,
profondità, che nella visione del pittore vengono tradotti e
convertiti in gesti, in segni. La pittura è una celebrazione del
visibile, che non è solo un vedere cose ma percepire anche i vuoti
che le collegano : la luce , i colori, i riflessi, tutti elementi che
strutturano e fondano la visione stessa e lo spazio che
percepiamo. <<Luce, chiarore, ombra, riflessi, colore, tutti questi
oggetti della ricerca non sono affatto esseri reali . Essi non
hanno, come i fantasmi, che un esistenza visiva. Essi inoltre non
sono che sulla soglia della visione profana, essi non sono
comunemente visti. Lo sguardo del pittore domanda loro come si
comportano per far si che ci sia all’improvviso qualcosa e proprio
quella cosa, per comporre questo talismano del mondo, per farci

139 Op.cit. , pp.30-31.

140 Op.cit. , p.20.


93
vedere il visibile>> 141. Vedere ed interrogare l’invisibile nella
visione perché possa nascere il visibile nell’opera.
Il pittore interroga così questi elementi impalpabili, invisibili ai
molti nella visione profana, ma fondanti della visibilità stessa,
per poi farli risorgere ed esistere sulla tela attraverso i
movimenti del suo corpo. Il pregiudizio comune che crede che la
pittura imiti le cose è profondamente ingenuo perché non coglie
che sulla tela bidimensionale non ci sono che linee, colori, luce,
che creano una terza dimensione che non è tangibile ma che si
vede. Il carattere metafisico della pittura vive anche nella sua
naturale attitudine a trascendere il suo stesso supporto fisico, la
bidimensionalità della tela, per portare lo sguardo verso
metafisiche profondità. << Questo essere a due dimensioni, che
me ne fa vedere una terza, è un essere aperto, come dicevano gli
uomini del Rinascimento , una finestra…Ma in fin dei conti
questa finestra si apre solo su partes extra partes, sull’altezza e
sulla larghezza, viste però da un'altra angolatura, sull’assoluta
positività dell’Essere>>142. La profondità che la grande pittura ha
sempre cercato, tanto nelle teorie prospettiche dei
Rinascimentali quanto nelle teorie della visione di artisti come
Klee o Rothko, ha affinità con quella metafisica che Merleau-
Ponty scorge nella vita stessa dell’essere umano. Un quadro ha
per definizione una larghezza ed un altezza che possiamo
empiricamente misurare, ma la profondità che un pittore fa
germinare sulla tela non è misurabile con nessun altro
strumento che non sia lo sguardo stesso che le rivolgo e che vi
naufraga; così la vita di un essere umano, come un quadro, si
estende in due dimensioni misurabili empiricamente, il tempo e
lo spazio, rivelandone però un altra, la profondità, che non è
semplicemente una terza dimensione derivata dalle altre.
La filosofia e la pittura fanno nascere profondità incalcolabili ed
impalpabili, l’una nel pensiero e l’altra nella tela. La storia della
pittura viene presentata da Merleau-Ponty come interrogazione
incessante del visibile, movimento che non conosce mai stasi ,
che non troverà mai una conclusione definitiva neanche se

141 Op.cit. , p.25.

142 Op.cit. , p.35.


94
durasse milioni di anni. << L’idea di una pittura universale, di
una totalizzazione della pittura, di una pittura totalmente
realizzata, è un idea senza senso>>143. L’interrogazione profonda
che il pittore rivolge silenziosamente al visibile è costante e
radicale e non importa che dipinga ritratti e paesaggi o forme e
colori, perché dipinge in quanto vede e le cifre segrete della
visibilità si sono naturalmente inscritte in lui, così
spontaneamente si rifletteranno nei gesti che creano.
Merleau-Ponty nelle sue profonde analisi sulla pittura non ha
mai sentito la dialettica tra figurazione ed astrazione, tra un
modello di pittura idealmente aderente alla realtà ed uno che se
ne separa, perché il grande tema della pittura per il filosofo è
sempre l’enigma della visibilità stessa, come chiasma tra
visibilità ed invisibilità, solidità e vuoto, forme e colori, visibile e
vedente. << Poiché profondità, colore, forma, linea, movimento,
contorno, fisionomia, sono rami dell’Essere, e poiché ciascuno di
essi può trarre seco tutto il cespuglio, non esistono in pittura
“problemi” distinti, né strade realmente opposte , né “soluzioni”
parziali, né progressi per accumulazione, né scelte
irrevocabili>> 144 . La pittura sembra esistere in perenne
movimento, perché rinasce ogni volta che il pittore vede il
mondo per dipingere, come la filosofia quando il filosofo torna ad
interrogare il pensiero e le sue radici. Un pittore non potrà mai
credere che la sua esperienza sia meno importante di qualsiasi
teoria estetica, che altri possano mai indicarli cosa vedere, che
una sua opera sia per lui meno importante di tutte le parole e i
pensieri sulla pittura, perché sa che apprende a vedere solo
vedendo ed impara a dipingere solamente dipingendo. Si dice
che all’archeologo Heinrich Schliemann ridessero in faccia
quando diceva del suo proposito di trovare Troia, ma lui credeva
nell’incredibile e con perseveranza giunse a quello che cercava.
Probabilmente alcuni risero di Leonardo quando sognava il volo.
Risero delle ultime opere di Rembrandt o di William Mallord
Turner. Risero degli Impressionisti e dei loro colori. Risero delle
visioni di Vincent Van Gogh e forse della sua miseria. Risero della

143 Op.cit. , p.62.

144 Op.cit. , p.61.


95
pittura di Cézanne, che un critico definì da bottinaio ubriaco.
Risero, tutti i loro contemporanei che non videro e non
compresero. Non videro e non compresero i loro dipinti. Non
videro e non compresero, in questi uomini solitari per natura,
come certi animali che non conoscono i doveri del branco o del
gregge, la fede profonda e incerta che muoveva la loro vita come
la loro opera. Fede claudicante nella loro visione e nei loro
propositi , a metà tra quella del mistico e del rivoluzionario, che
non conosce autorità che non sia la verità stessa che sentivano
viva nei loro atti, nella loro pittura. Fede che commuoverà
profondamente uomini di generazioni successive, magari
distanti secoli, che vedranno quello che altri non avevano potuto
vedere. Lo scrittore Emile Zola , che fu un caro amico di Cézanne
in gioventù, descrisse in una sua opera letteraria, in cui l’artista
si riconobbe, un pittore talentuoso ma incapace di realizzarsi, il
cui fallimento trova sollievo solo nel suicidio. Ma il fallimento è
una sconfitta solo per chi anela alla vittoria, al traguardo, dove si
può ritirare il premio e sentirsi realizzati. Alcuni giocano per
vincere, forse perché hanno paura di perdere, altri solo per
giocare e cercano il metodo prima dell’approvazione nel
risultato. Cézanne sa forse che il fallimento è necessario nella sua
tremolante fede che lo spinge continuamente, oltre le glorie e le
miserie dell’esistenza umana, ad imparare a vedere il mondo
ancora per tornare a dipingerlo. Cézanne più che il giudizio o
l’approvazione di una qualunque autorità, dell’Accademia o della
critica, dei suoi amici intellettuali o dei colleghi pittori, sentì di
dover seguire la verità che nasceva naturalmente in lui nella
visione , quella fede originaria che viveva ogni volta che tornava
a vedere il mondo per tradurlo in pittura. La pittura e la filosofia
secondo Merleau-Ponty condividono questo senso profondo
della ricerca e dell’interrogazione, questo movimento mai
costante né progressivo, claudicante, mai certo e veramente
realizzato, nella vita di un solo uomo come nella loro intera
storia. La tradizione millenaria in cui la pittura e la filosofia
sembrano inscritte non si rivela statica, come il busto di marmo
che invecchia nelle polverose stanze di un museo, ma mutevole,
come la fiamma che arde e non è mai uguale a sé stessa, non è la
pietra immortale che non cambia ma l’albero perenne che cresce
rigoglioso nell’oblio del seme che era.
96
TAVOLE

Tav. 1 Paul Cézanne, Mont Sainte-Victoire, 1895.

Tav. 2.1 Paul Cézanne, Mont Sainte-Victoire , c. 1887.

Tav. 2.2 Paul Cézanne, Autoritratto, 1880-81.

Tav. 3.1 William M. Turner, Rain Steam Speed- The Great Western
Railway, 1844.

Tav. 3.2 Claude Monet, Le gare Saint-Lazare, 1877.

Tav. 4 Paul Klee, Strada principale e strade secondarie, 1929.

Tav. 5 Mark Rothko, Untitled (Blue, Yellow, Green on Red), 1954.

Tav. 6.1 6.2 Il dripping di Jackson Pollock nel film di Hans


Namuth.

Tav. 6.3 Jackson Pollock, Number 1 A , 1948.

Tav. 7.1 7.2 7.3 Kazuo Shiraga, Challenging Mud, 1955.

Tav. 8.1 8.2 Suburo Murakami, Breaking through many papers


screens , 1956.

Tav. 9.1 9.2 9.3 Yves Klein, Anthropometries, 1960.

Tav. 10.1 10.2 10.3 Giuseppe Penone, Alpi Marittime. La mia


altezza, la lunghezza delle mie braccia, il mio spessore in un
ruscello, 1968.

Tav. 11.1 Marcel Duchamp e Man Ray, Allevamento di polvere,


1920.

97
Tav 11.2 John Cage e Merce Cunningham al Black Mountain
College.

Tav.12.1 Allan Kaprow, 18 Happenings in 6 Parts , 1959.

Tav. 12.2 Marina Abramović, Rhythm 0, 1974.

98
Tav. 1

99
Tav. 2.1

Tav. 2.2

100
Tav. 3.1

Tav. 3.2

101
Tav. 4

102
Tav. 5

103
Tav. 6.1

Tav. 6.2

Tav. 6.3

104
Tav. 7.1

Tav. 7.2

Tav. 7.3

105
Tav. 8.1

Tav. 8.2

106
Tav. 9.1

Tav. 9.2

Tav. 9.3

107
Tav. 10.1

Tav. 10.2

Tav. 10.3

108
Tav. 11.1

Tav. 11.2

109
Tav. 12.1

Tav. 12.2

110
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