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Pietro Montani
L’immaginazione
intermediale
Perlustrare, rifigurare,
testimoniare il mondo visibile
Editori Laterza
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a Benedetta, Sebastiano
e Viola Maria
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nell’archivio memoriale come una traccia che può ben essere il-
leggibile, ma non per questo è meno reale) e ciò che lo trascende
(il suo «senso»). Facoltà al tempo stesso ricettiva e costruttiva (Bo-
rutti 2006), l’immaginazione è in grado di garantire un rapporto
costante col mondo reale, facendo lavorare l’interfaccia tra il sen-
sibile e l’intelligibile, tra ciò che è visibile e ciò che non lo è, tra
ciò che i nostri sensi ricevono e ciò che ha un «significato». Ma,
se il rapporto si interrompe – e lo sguardo di quel bambino se-
gnala che l’interruzione è possibile –, sarà solo un supplemento di
immaginazione, un’intermediazione più complessa e paziente a
poterlo restaurare. Non basterà tuttavia che l’immaginazione fac-
cia valere la sua libera costruttività, bisognerà anche che essa ri-
spetti la realtà della traccia (quand’anche archiviata, come una
cancellatura, nella forma della rimozione). È ancora Freud ad aver
sottolineato con forza questo aspetto nel suo magistrale testo sul-
le Costruzioni nell’analisi (1979), nel quale si dice che una costru-
zione immaginaria sottoposta al paziente – per esempio una sto-
ria congetturale sulla sua infanzia – potrà ben essere coerente col
suo quadro patogeno sotto il profilo del senso, ma si dimostrerà
immancabilmente sterile se essa non sarà stata fedele alla realtà
(alla traccia, ancora illeggibile ma attiva, iscritta nell’archivio).
Dove «sterile» significa precisamente questo: che il paziente non
la «metterà al lavoro». Che non sottoporrà quella storia conget-
turale ad alcun attraversamento elaborativo perché l’immagina-
zione, è vero, può fare molte cose, ma può elaborare soltanto le co-
se reali, le tracce iscritte nell’archivio memoriale con cui ha già
sempre contratto un debito. Il debito inevaso che si annuncia nel-
lo sguardo interdetto del bambino di Beslan. Affronterò in modo
più disteso (cfr. infra, cap. 2) il debito delle immagini nei confronti
della realtà, sottolineandone in particolare la natura etica prima
ancora che teoretica. Il reale sfugge a ogni presa diretta delle im-
magini, è vero, ma è proprio in questo suo sottrarsi che esso inci-
de nell’archivio lo spazio residuale – un resto, una ferita, una can-
cellatura – per un’elaborazione differita.
Il terzo punto riguarda il carattere temporale dell’elaborazio-
ne, il suo prolungarsi in un processo tendenzialmente intermina-
bile. Qualcosa che somiglia di più ai toni mutevoli di un discorso
ininterrotto che non all’orchestrazione compositiva di un testo
chiuso e compatto. Insomma, se c’è una «poetica» dell’elabora-
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L’immaginazione intermediale
Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile
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Prologo
Una richiesta di testimonianza.
Nella valle di Elah
C’è un film recente, Nella valle di Elah di Paul Haggis (2007), che
raccoglie mirabilmente tutti i temi toccati in sede introduttiva. Li
raccoglie e li rilancia, com’è giusto aspettarsi da un’opera che fa
lavorare l’esperienza dell’immagine audiovisiva ben oltre la sua
chiusura testuale (la quale coincide, del resto, con l’esplicita se-
gnalazione di un’apertura dell’opera sul mondo reale). Prima di
cominciare la mia riflessione lascerò a questo film il compito di in-
tonarla sul registro più adeguato. E farò lo stesso, più avanti, con
altri film a cui mi capiterà di concedere talvolta uno spazio più
ampio di quello che sarà accordato alla mia proposta teorica.
Nella valle di Elah presenta un doppio inizio. Il primo ha il ca-
rattere del reperto mediale. Il film si apre, infatti, con una sequen-
za indecifrabile: spezzoni di una ripresa, forse effettuata clande-
stinamente con un videotelefono, che il soldato Mike, di stanza in
Iraq, ha fatto pervenire al padre Hank, un veterano della guerra
del Vietnam, come a volergli consegnare il documento di «qual-
cosa di terribile» (sono queste le parole che Mike utilizzerà in una
reticente telefonata col padre), che resta tuttavia incomprensibile
per la pessima qualità tecnica delle riprese e la concitazione lega-
ta alla drammaticità dell’evento (una voce fuori campo intima ri-
petutamente a Mike di tornare sul blindato da cui è evidentemen-
te sceso per fare qualcosa: forse per scattare una foto).
Il secondo inizio, di carattere pienamente narrativo, ci infor-
ma che Mike, rientrato negli USA, risulta irreperibile e che il pa-
dre si è messo alla sua ricerca, preoccupato per le informazioni la-
cunose che ha ottenuto dal comando del campo in cui il ragazzo
avrebbe dovuto trovarsi e per gli altri documenti visivi che gli so-
no pervenuti in uno stato di leggibilità non differente dal primo.
Tra questi, una fotografia in campo lungo in cui si distingue qual-
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Capitolo 1
La realtà delle immagini
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* A riprova del fatto che l’archivio mediale è una memoria non solo in pic-
cola parte elaborata ma anche largamente incognita si può segnalare qui che nel
febbraio 2010 il network americano Abc ha recuperato e diffuso un corpus ine-
dito di fotografie dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle, finora custodito
nelle sedi investigative. Alcune di queste impressionanti immagini sono state
realizzate dagli elicotteri del New York Police Department. La Abc è riuscita a
ottenere questi documenti tramite una richiesta ufficiale al National Institute of
Standards and Technology, in base al cosiddetto Freedom of Information Act.
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* Non diversamente da quanto ho fatto con il film di Haggis, anche qui sa-
crificherò molti aspetti del film, limitandomi a lavorare sulle più evidenti linee
portanti della sua configurazione intermediale. Sul film cfr. Bandirali, D’Ama-
dio (2004), con un’importante conversazione col regista.
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Capitolo 2
Il debito delle immagini
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Una terza possibilità si costruisce sulla critica delle prime due. Es-
sa consiste nel non considerare la sofferenza dell’infelice né come in-
giusta (per indignarsene), né come commovente (per intenerirsi), ben-
sì come sublime. [...] Trattenendo l’emozione che monta in lui per li-
berarsi come indignazione o come intenerimento, rifiutando le ma-
schere della denuncia e del sentimento, questo terzo spettatore affronta
la verità e la guarda in faccia. Cosa vede? L’orrore (ivi, pp. 180-81).
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Capitolo 3
La riflessività delle immagini
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Torna qui in primo piano ciò che ho più volte riferito a un «de-
bito» dell’immagine nei confronti del mondo. Che l’immagine
debba qualcosa al mondo, cioè, non è più un fatto pacifico perché,
piuttosto, questo debito si lega a un’istanza etica che, al modo di
un patto referenziale di cui occorre costruire creativamente le for-
me, innerva la consapevolezza, tipicamente moderna, dell’auto-
nomia costruttiva dell’immagine. Agli albori della modernità fu
precisamente in questo modo che un artista-scienziato come Leo-
nardo concepì il lavoro dell’immagine sull’intelligibilità del mon-
do fisico e delle sue nascoste regolarità (Baratta 2007). Penso ad
esempio ai suoi straordinari disegni dedicati alla ricerca di sche-
mi grafici tali da restituire autentica visibilità al movimento vorti-
coso e caotico delle acque. Una visibilità che tutt’altro che impo-
verire il dato empirico – secondo l’accezione limitativa della pa-
rola «schema» – non fa che rigenerarne l’inesauribile alterità
(com’è attestato dalla stupefacente quantità di definizioni lingui-
stiche che Leonardo correla via via con gli schemi grafici che va
realizzando: «Risaltazione, circolazione, rivoluzione, ravvolta-
mento, raggiramento, sommergimento, surgimento, declinazione,
elevazione, cavamento, consumamento, percussione...»).
Ma è precisamente un elemento autoriflessivo, qui, a garanti-
re la fecondità del rapporto. È proprio per il fatto di richiamare
l’attenzione su se stessa e sulla sua indipendenza dallo statuto di
mera riproduzione, in altri termini, che l’immagine-schema può
far valere la sua capacità di perlustrare attivamente il mondo e di
tenere in riserva potenzialità euristiche inespresse, virtualità che
possono manifestarsi nel corso del tempo. Nulla del genere sa-
rebbe evidentemente possibile se l’immagine fosse schiacciata sul
dato, se essa non riuscisse a comportarsi al tempo stesso come
qualcosa di autonomo e come qualcosa che si riferisce al mondo.
Se non fosse animata da uno sdoppiamento riflessivo e non fosse
capace di valorizzarlo con opportuni accorgimenti formali.
Quest’apertura bipolare che mantiene in una relazione co-
stante – ma anche instabile e felicemente indeterminata – la pre-
stazione costruttiva e la prestazione referenziale dell’immagine è
stata per lungo tempo una inesauribile risorsa creativa dell’arte
moderna, che ha saputo percorrerla con la più grande ricchezza
di invenzioni. Ho già riferito al cinema una peculiare vocazione a
elaborare originalmente questo «spazio intermedio» che è la sede
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Valzer con Bashir di Ari Folman del 2008, si chiuda con un analo-
go, repentino passaggio dalla finzione (radicale: si tratta di un film
di animazione) al documento (in questo caso un breve montaggio
di fotografie e di riprese in bassa definizione). Lo sfondo del film
è il massacro di diverse centinaia di profughi palestinesi rifugiati
nei campi di Sabra e Chatila, avvenuto nel 1982 durante la guer-
ra civile libanese. Dell’eccidio furono responsabili le milizie cri-
stiano-libanesi, ma i campi erano posti sotto il controllo militare
dell’esercito israeliano, che tuttavia non intervenne per impedirlo
o per fermarlo. Un lungo viaggio nella memoria lacunosa del pro-
tagonista (un’autentica Durcharbeitung) lo condurrà, alla fine, a
ricostruire la sua personale responsabilità in quella vicenda. E
sarà solo in quel momento che l’archivio memoriale restaurato e
riorganizzato si dimostrerà aperto all’iscrizione di alcune immagi-
ni documentarie del massacro (le foto e la sequenza di cui ho det-
to), che potranno così concludere il film contaminandone lo sta-
tuto formale.
Se De Palma lavora sull’impersonalità del gioco intermediale,
Folman al contrario lo personalizza al massimo, collocandolo nel
contesto di un’elaborazione del lutto e dell’orrore che investe la
coscienza turbata di un reduce smemorato, ma determinato a cer-
care la verità. Ancora diversa, e tuttavia profondamente conso-
nante, è la posizione assunta nei confronti della guerra nell’ultimo
film di Amos Gitai, Carmel, del 2009, in cui la complessa costru-
zione intermediale del testo audiovisivo è posta al servizio di una
appassionata e dolente riflessione autobiografica, che intreccia i
temi del conflitto arabo-israeliano con quelli della memoria e del-
l’identità, concludendosi, di nuovo, su un corpus fotografico pri-
vato, cui l’autore sembra affidare il compito di mostrare l’impe-
netrabilità del vissuto individuale di una comunità ristretta e la-
cerata e, in ultima analisi, il carattere necessariamente inconcilia-
to e inconclusivo dell’intera configurazione che il film ha saputo
dispiegare. Le sensibili differenze con cui questi tre film affronta-
no ed esplorano il trauma della guerra confermano che l’interme-
dialità è la forma attuale di ogni lavoro di rielaborazione critica
delle immagini. E che il suo gradiente riflessivo, estraneo a ogni
fascinazione del sublime, si dimostra integralmente polarizzato
sul versante dell’autenticazione testimoniale e della creatività de-
bitoria.
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