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QOHELET

O LA GIOIA COME FATICA


E DONO DI DIO A CHI LO TEME
A. Niccacci

A padre Emmanuele Nazareno Testa, O.F.M., un Maestro dello SBF,


nel suo 80˚ compleanno con riconoscenza e affetto

Negli ultimi anni gli studi sul libro di Qohelet sono diventati davvero
numerosi1. Per il suo carattere speciale, il libro è stato definito di volta
in volta scettico, pessimista, ironico, postmoderno, e il suo autore, critico
della sapienza tradizionale ottimistica, “predicatore di gioia”2, filosofo del-

1. Una bibliografia degli anni 1988-1998, a cura di B. Perregaux Allison, si trova in M.


Rose, Rien de nouveau. Nouvelles approches du livre de Qohéleth, Freiburg - Göttingen
1999, 557-612 (elenco per autore) e 613-629 (per versetti). La curatrice continua la biblio-
grafia di R.G. Lehmann in D. Michel, Untersuchungen zur Eigenart des Buches Qohelet,
Berlin - New York 1989, 291-322. Si vedano anche le rassegne di L. Schwienhorst-Schön-
berger, “Kohelet: Stand und Perspektiven der Forschung”, in: Id. (ed.), Das Buch Kohelet.
Studien zur Struktur, Geschichte, Rezeption und Theologie, Berlin - New York 1997, 5-38,
e anche “Neuere Veröffentlichungen zum Buch Koheleth (1998-2003)”, ThLZ 128 (2003)
1123-1138; di I.J.J. Spangenberg, “A Century of Wrestling with Qohelet. The Research
History of the Book Illustrated with a Discussion on Qoh 4,17-5,6”, in: A. Schoors (ed.),
Qohelet in the Context of Wisdom, Leuven 1998, 61-91; e di I. Kottsieper, “Alttestamentli-
che Weisheit: Proverbia und Kohelet (II)”, TR 67 (2002) 201-237 (su Qohelet, pp. 226-237).
— Nel seguito dellʼarticolo i commentari verranno indicati con il solo nome dellʼautore: A.
Barucq, Ecclésiaste, Paris 1968; F. Delitzsch, The Book of Ecclesiastes, in: C.F. Keil - F.
Delitzsch, Commentary on the Old Testament in Ten Volumes, vol. VI: Proverbs, Ecclesia-
stes, Song of Songs, Grand Rapids 1980; M.V. Fox, A Time to Tear down and a Time to
Build up. A Rereading of Ecclesiastes, Grand Rapids 1999; R. Gordis, Koheleth – The Man
and His World, New York 5711–1951; T. Krüger, Kohelet (Prediger), Neukirchen-Vluyn
2000; A. Lauha, Kohelet, Neukirchen-Vluyn 1978; N. Lohfink, Qoheleth. A Continental
Commentary, Minneapolis 2003 (edizione rivista del suo commentario tedesco); R.E.
Murphy, Ecclesiastes, Dallas (Tex.) 1992; P. Sacchi, Ecclesiaste, Roma 1971; C.L. Seow,
Ecclesiastes. A New Translation with Introduction and Commentary, New York etc. 1997;
J. Vílchez Líndez, Sapienciales III: Eclesiastes o Qohelet, Estella (Navarra) 1994. Verranno
citate con i nomi degli autori anche le grammatiche di ebraico biblico di Gesenius-Kautzsch-
Cowley e di Joüon-Muraoka.
2. R.N. Whybray, “Qoheleth, Preacher of Joy”, JSOT 23 (1982) 87-98, merita una segnala-
zione speciale perché per primo ha rilevato questo aspetto e, tutto sommato, lʼha illlustrato
meglio di altri che lʼhanno ripreso e per lo più contraddetto. Su nuovi metodi letterari uti-
lizzati per interpretare Qohelet, di tipo “reader-response and rhetorical approaches”, si può
consultare G.D. Salyer, Vain Rhetoric. Private Insight and Public Debate in Ecclesiastes,
Sheffield 2001.

LA 52 (2002) 29-102
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lʼassurdo, esistenzialista, peripatetico, saggio tra giudaismo ed ellenismo,


sottoposto a influssi ellenistici o vicino-orientali antichi3. Queste diverse
interpretazioni suppongono per lo più lʼunità del libro, mentre nel passato
si ipotizzava una serie di redattori diversi, o di citazioni implicite, discusse
dallʼautore, o dispute tra sostenitori di posizioni opposte4.
Ritengo che, dopo il titolo (1,1)5, il libro di Qohelet comprenda:
— una cornice, con esordio 1,2-11 (non cʼè storia, non cʼè ricordo) //
epilogo 12,8-14 (il tutto dellʼuomo)6;

3. Gli influssi greci su Qohelet sono stati presentati in epoca recente da R. Braun, Kohelet
und die frühhellenistische Popularphilosophie, Berlin - New York 1973. Tra i commentatori,
il più convinto assertore di questi influssi sembra essere Lohfink. Buoni paralleli egiziani
sono stati segnalati da S. Fischer, Die Aufforderung zur Lebensfreude im Buch Kohelet und
seine Rezeption der ägyptischen Harfnerlieder, Frankfurt am Main 1999, il quale rimpro-
vera, credo giustamente, a Braun di aver trascurato i legami di Qohelet con la letteratura
sapienziale biblica, di aver esaminato detti singoli, avulsi dal contesto del libro, e di aver
liquidato troppo velocemente i motivi che esso ha in comune con le letterature vicino-orien-
tali antiche, soprattutto quella egiziana (p. 203). Si veda anche, dello stesso autore, “Qohelet
and ʻHereticʼ Harpersʼ Songs”, JSOT 98 (2002) 105-121. Le somiglianze con la letteratura
mesopotamica sono state illustrate da J.Y.-S. Pahk, Il canto della gioia in Dio. Lʼitinerario
sapienziale espresso dallʼunità letteraria in Qohelet 8,16-9,10 e il parallelo di Gilgames
Me. iii, Napoli 1996; Id., “Qohelet e le tradizioni sapienziali del Vicino Oriente Antico”, in:
G. Bellia - A. Passaro (edd.), Il libro del Qohelet. Tradizione, redazione, teologia, Milano
2001, 117-143; C. Uehlinger, “Qohelet im Horizont mesopotamischer, levantinischer und
ägyptischer Weisheitsliteratur der persischen und hellenistischen Zeit“, in: Schwienhorst-
Schönberger (ed.), Das Buch Kohelet, 155-247. Da parte sua O. Kaiser, “Carpe diem und
Memento mori bei Ben Sira”, in: M. Dietrich - O. Loretz - T.E. Balke (edd.), Dubsar anta-
men: Festschrift für Willem H.Ph. Römer. Studien zur Altorientalistik. Zur Vollendung seines
70. Lebensjahres, Münster 1998, 185-203, mostra che si tratta di motivi letterari attestati in
ogni tempo, dal secondo millennio a.C. al secondo d.C. (!).
4. Sui vari modelli adottati per interpretare le tensioni e contraddizioni in Qohelet si posso-
no consultare Schwienhorst-Schönberger, “Kohelet: Stand und Perspektiven der Forschung”,
14-20, e F.J. Backhaus, “Widersprüche und Spannungen im Buch Qohelet. Zu einem neu-
eren Versuch, Spannungen und Widersprüche literarkritisch zu lösen”, in: Schwienhorst-
Schönberger (ed.), Das Buch Kohelet, 123-154. Rose, Rien de nouveau, si distingue per
aver riproposto la teoria di redazioni successive, o riletture, del testo originale di “Qohéleth
le Sage”, composto in epoca persiana, da parte di un “Disciple” e di un “Théologien-
Rédacteur”, uno successivo allʼaltro in epoca ellenistica. Su una posizione analoga si colloca
L. Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato. Studi sul Qohelet, Bologna 2001, 313-356.
5. Qohelet si presenta come “figlio di David, re di Gerusalemme” (1,1; cf. 1,12). Quanto
allo stile, questa “finzione regale” ricorda le autobiografie accadiche; cf. T. Longman III,
Fictional Akkadian Autobiography: A Generic and Comparative Study, Winona Lake (In-
diana) 1991; Seow, 119. H.-P. Müller, “Travestien und geistige Landschaften. Zum Hinter-
grund einiger Motive bei Kohelet und im Hohenlied”, ZAW 109 (1997) 557-574, segnala
anche paralleli ammoniti, moabiti, egizi e greci.
6. Riguardo alla cornice direi che la sequenza inversa ʻnome dellʼautore (1,1) + suo motto
(1,2) // motto (12,8) + nome (12,9-11)ʼ mostra che 12,8 non è legato a 1,2 mediante un
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— il corpo, con due parti maggiori parallele: (I) 1,12-7,14 // (II) 7,15-
11,6, e una suddivisione centrale: 11,7-12,7, comprendente 11,7-9 // 11,10-
12,77.
Senza entrare nei dettagli, dirò che i criteri che ho seguito per delimita-
re le diverse suddivisioni sono il genere letterario (“confessioni”, in prima
persona, e “istruzione”, con invito o ammonizione e motivazione, secondo
la tradizione sapienziale)8 e le espressioni guida (come “ho visto… ho vi-
sto ancora”) considerate insieme ai termini caratteristici e agli argomenti
trattati. Lo stile di Qohelet è personalissimo, ripetitivo, quasi ossessivo, e
lʼesposizione gira e rigira su se stessa. E forse volutamente, per coinvolgere
il lettore/ascoltatore nel vortice dellʼesperienza modello del saggio, guidata
dalla fede, alla ricerca di un punto fermo che consenta di trarre frutto dalla
fatica dellʼuomo sulla terra alle prese con lʼopera e con il mistero di Dio. Due
poli del ragionamento sono le dichiarazioni di “vanità” e le proclamazioni o
inviti alla gioia. Lʼepilogo (12,8) ripete il motto dellʼinizio (1,2) ma lo colle-
ga a delle affermazioni che condensano la suddivisione centrale (11,7-12,7),
la quale presenta il succo dellʼinsegnamento di Qohelet. Lʼepilogo comunica
poi una valutazione sullʼautore come uno che fu saggio non solo per sé ma
insegnò al popolo e con molta cura formulò “pregevoli parole” (12,9-10).
Afferma quindi che “le parole dei saggi” in generale sono “come pungoli

parallelismo chiastico, e perciò non chiude a inclusione lo svolgimento 1,1-12,8, ma appunto


apre lʼepilogo 12,8-14, parallelo allʼesordio 1,1-11. Comunemente invece i commentatori
ritengono che lʼepilogo sia 12,9-14, diviso in due parti (12,9-11 e 12-14), e che vada attri-
buito ad autori differenti dallʼautore del libro (cf. infra, note 94 e 99).
7. Tralascio le suddivisioni ulteriori delle parti, che sono più discutibili; ne dirò qualcosa nel
corso dellʼesposizione nel § 2. Per rendersi conto della difficoltà di suddividere il testo si
può consultare la lunga difesa che N. Lohfink fa della propria struttura: “Das Koheletbuch:
Strukturen und Struktur”, in: Schwienhorst-Schönberger (ed.), Das Buch Kohelet, 39-121.
Io stesso ho modificato leggermente la composizione del libro delineata in La casa della
Sapienza. Voci e volti della sapienza biblica, Cinisello Balsamo (MI) 1994, 85-106 (“Qoelet
o la sapienza degli opposti”), e nelle recensioni a V. DʼAlario, Il libro del Qohelet. Struttura
letteraria e retorica, Bologna 1992, in LA 43 (1993) 551-558, e al commentario di Fox in
LA 50 (2000) 512-526, spec. 525-526.
8. “Confessions” è la designazione usata anche da Barucq, 29. Allʼinterno dei due generi
dominanti, confessioni e istruzioni, Qohelet utilizza anche detti proverbiali secondo la tra-
dizione dei saggi più antichi. La migliore trattazione che conosco sullʼargomento è S. De
Jong, “A Book of Labour: The Structuring Principles and the Main Theme of the Book of
Qohelet”, JSOT 54 (1992) 107-116. Secondo De Jong, i due generi principali di Qohelet
sono le “observations” (corrispondente al mio “confessioni”) e le “instructions” e tutto il
libro è strutturato dallʼalternanza di essi (a parte a 1,1 introduzione, 1,2 // 12,8 motto e 12,9-
14 epilogo). Lʼargomento principale delle “observations” è la fatica umana, quello delle
“instructions” è cosa è bene fare per una persona nelle varie circostanze della vita.
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e come chiodi ben piantati… / sono state date dallʼunico Pastore” (12,11)9.
Termina con quello che possiamo chiamare il succo del succo (12,12-14).
Da un lato, mette in guardia il giovane discepolo/lettore che possa essere
preso dal desiderio di continuare la tradizione dei saggi: scrivere molti libri
può essere impresa senza fine e faticosa; dallʼaltro, condensa il tutto in una
lapidaria istruzione di cinque membri (12,13) conclusa da una motivazione
di quattro (12,14). Per questo motivo, alla fine di tutto, il motto non suona più
allʼorecchio del lettore come suonava allʼinizio10.
Una conseguenza di questa lettura è che non vedo argomenti validi per
ritenere, con la quasi totalità degli interpreti, che lʼepilogo non sia dellʼauto-
re ma vada attribuito a uno o due redattori o discepoli: da un lato le idee mi
sembrano perfettamente in linea con il resto del libro; dallʼaltro lʼuso della
terza persona è attestato in altre opere didattiche e non obbliga a supporre
una diversità di autore (cf. infra, nota 94).
Dicevo dei due poli del ragionamento di Qohelet: le dichiarazioni di
“vanità” e le proclamazioni o inviti alla gioia. Sulla corretta valutazione di
questi due poli si gioca lʼinterpretazione del libro. È opinione generale che
Qohelet sia vissuto in un periodo di crisi politica, sociale e anche di fede, e
per questo motivo sia critico della cosiddetta sapienza tradizionale; per di più
in un periodo sottoposto a forte influsso da parte della filosofia e concezione
di vita ellenistica. Direi che lʼopinione su questi punti dipende da come si
interpretano le affermazioni negative, riassunte nella dichiarazione di lRbRh
“vanità”, e da quale funzione si attribuisce ad esse nellʼinsieme del libro.
È chiaro a tutti che le contraddizioni costituiscono il problema maggiore
di Qohelet. In genere gli interpreti contemporanei valorizzano le affermazio-
ni negative fino al punto di intendere lRbRh come “assurdo”11. Di conseguenza
si pone il problema di come intendere le affermazioni e gli inviti alla gioia.
Alcuni li intendono semplicemente come un carpe diem che consente di
dimenticare la realtà e di godere a dispetto di essa12, oppure come unʼironia

9. Senza discutere altri problemi di questo difficile versetto, direi che “lʼunico pastore
(dDjRa hRoOr)” designa Dio. Varie opinioni al riguardo sono discusse, tra gli altri, in Delitzsch,
432-435, e Murphy, 125.
10. Cf. infra, § 2.4. Sul problema letterario di Qohelet (cf. note 1 e 7) si consulterà anche
DʼAlario, Il libro del Qohelet, e più recentemente, della stessa autrice, “Struttura e teologia
del libro di Qohelet”, in: Bellia - Passaro (edd.), Il libro del Qohelet, 256-275.
11. Cf. recentemente V. DʼAlario, “Lʼassurdità del male nella teodicea del Qohelet”, in: R.
Fabris (ed.), Initium sapientiae. Scritti in onore di Franco Festorazzi nel suo 70˚ complean-
no, Bologna 2000, 179-197.
12. Riguardo a questa posizione dice bene Whybray, “Qoheleth, Preacher of Joy”, 92:
“Qoheleth not only did not deny the existence of these «vanities»: he emphasized them so
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più o meno benevola, che il lettore è chiamato a riconoscere13. Quelli che


attribuiscono allʼautore, e non a un glossatore posteriore, la prospettiva del
“timore di Dio”, vedono in esso un “narcotico” per dimenticare, o lʼunica
guida che conduce a godere le gioie che Dio concede nella vita14. Anche chi
si propone esplicitamente di tenere insieme entrambi i poli contrapposti, in
realtà non sembra darne unʼinterpretazione soddisfacente15.
Sia consentita qui una parola sul sistema verbale di Qohelet. Analizzerò
la sequenza delle forme verbali secondo la teoria del sistema verbale ebraico
da me proposta16. Ritengo infatti che, per quanto il libro venga datato per lo
più in epoca tarda (V, o anche III sec. a.C.), la lingua non si discosti dal siste-
ma verbale della lingua classica. Ad esempio, la sequenza 1,16-18 che ana-
lizzerò più avanti (§ 1.1) inizia in 1,12, dove lʼautore comincia a raccontarsi.
Come al solito, il racconto orale del passato inizia con x-qatal (1,12) o con
qatal allʼinizio di frase (cf. 1,14). Dato che il testo ha un andamento poetico
e quindi procede per lo più per segmenti paralleli17, la continuazione avvi-
ene ancora con qatal per presentare unʼinformazione parallela e sullo stesso
livello della precedente (ad es. 2,4-8). Per cui se nel corso (non allʼinizio!) di
una unità sintattico-semantica non si trova qatal ma x-qatal, questʼultimo è di

strongly that he has been supposed to be a teacher of unrelieved pessimism. But in spite of
them, and even from them he was able, as we have seen, to provide answers and to make
recommendations which in some sense transcend the evils which the Creator has inscrutably
allowed to exist in the world”.
13. Così propone W.H.U. Anderson, “A Critique of the Standard Interpretations of the Joy
Statements in Qoheleth”, JNSL 27 (2001) 57 - 75, dopo aver passato in rassegna le principali
interpretazioni delle affermazioni di gioia di Qohelet: glosse di un pio editore, indicazione
del carpe diem, messaggio essenziale del libro. Su una linea analoga si colloca R. Vignolo,
“La poetica ironica di Qohelet. Contributo allo sviluppo di un orientamento critico”, Teo-
logia 25 (2000) 217-240.
14. Rappresentanti di queste due posizioni sono, rispettivamente, A. Schoors, “Lʼambiguità
della gioia in Qohelet”, in: Bellia - Passaro (edd.), Il libro del Qohelet, 276-292 (cf. già
Lauha, 169), e Lohfink, ad es. pp. 2-3. Un punto di vista contrario alla concezione della
gioia come “narcotico” presenta A.A. Fischer, Skepsis oder Furcht Gottes? Studien zur
Komposition und Theologie des Buches Kohelet, Berlin - New York 1997, 74-86.
15. È il caso in particolare di Fox; cf. la mia recensione in LA 50 (2000), spec. 516.
16. Cf. Sintassi del verbo ebraico nella prosa biblica classica, Jerusalem 1986; The Syntax
of the Verb in Classical Hebrew Prose, Sheffield 1990 (edizione corretta e aumentata); Sin-
taxis del Hebreo bíblico, Estella (Navarra) 2002 (edizione corretta e aggiornata); e in Let-
tura sintattica della prosa ebraico-biblica. Principi e applicazioni, Jerusalem 1991 (sintesi
della teoria e applicazione pratica a Gs 1-6; Gdc 1-4.6-8; 2 Sam 5-7 // 1 Cr 11-17).
17. Ho presentato le peculiarità della poesia in “Analysing Biblical Hebrew Poetry”, JSOT
74 (1997) 77-93, e in “Biblical Hebrew Verbal System in Poetry”, di prossima pubblicazio-
ne. Sul procedimento a segmenti paralleli, o stichi, tipico della poesia, si veda il primo dei
due articoli appena citati, pp. 78-80.
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livello secondario. In 1,16, ad esempio, hDa∂r yI;bIl◊w è un costrutto secondario di


tipo x-qatal legato probabilmente al wayyiqtol che segue in 1,17: “Dopo che
il mio cuore aveva visto… io posi…”.
In 2,7 invece i due x-qatal (yIl hÎyDh tˆyAb_y´nVb…w e yIl hÎyDh hE;b√rAh NaøxÎw r∂qDb h‰nVqIm MÅ…g)
sono legati al qatal di livello principale che precede e lo specificano, non lo
continuano come forme coordinate: “Comprai (yItyˆn∂q) serve e serve: / inoltre
(servi/e) nati in casa ebbi, / anche possesso di armenti e pecore in quantità
ebbi”. Il motivo di questa valutazione è che la forma verbale che continua il
quatal sul medesimo livello linguistico è un altro qatal (per indicare unʼinfor-
mazione parallela, autonoma) o un wayyiqtol (per indicare unʼinformazione
continuativa, coordinata). È significativo che la forma coordinata di qatal non
sia weqatal, come nellʼebraico mishnico, ma appunto wayyiqtol, mentre we-
qatal indica un commento (abitudine, stato, descrizione) di una forma verbale
di livello principale18.

1. Il mondo ideale di Qohelet

Prima di iniziare lʼanalisi dei passi sulla gioia (§ 2), esaminerò una serie di
argomenti generali allo scopo di comprendere, per quanto possibile, il mon-

18. Cf. infra, nota 26. Studi recenti sulla lingua di Qohelet sono: B. Isaksson, Studies in
the Language of Qoheleth. With Special Emphasis on the Verbal System, Uppsala 1987;
D.C. Fredericks, Qoheletʼs Language. Re-Evaluating Its Nature and Date, New York 1988;
A. Schoors, The Preacher Sought to Find Pleasing Words: A Study of the Language of
Qoheleth, Leuven 1992. Schoors condivide lʼopinione, purtroppo diffusa, secondo la quale
il fatto che Qohelet presenti solo tre casi di wayyiqtol è un segno di lingua tarda (p. 86),
mentre in realtà è conseguenza del modo di procedere a segmenti paralleli tipico della poe-
sia, come segnalato sopra (nota 17). Del resto non credo neppure che sia in sé giustificata
lʼopinione secondo la quale le cosiddette forme inverse, wayyiqtol e weqatal, diminuiscano
nellʼebraico di epoca tarda: il confronto dei testi paralleli 2 Sam // 1 Cr non lo conferma. Si
possono consultare al riguardo il mio saggio Lettura sintattica della prosa ebraico-biblica,
§§ 21-23, e la mia recensione a Z. Zevit, The Anterior Construction in Classical Hebrew,
Atlanta 1998, in LA 49 (1999) 507-525, spec. 521-522. Accenno infine a una disputa circa
la lingua di Qohelet (se sia di epoca tarda o se invece le sue peculiarità siano da ritenere
colloquialismi del dialetto del Nord o anche del Sud) condotta da diversi esperti in annate
recenti della rivista Hebrew Studies: 31 (1990) 144-154, recensione di Fredericks, Qoheletʼs
Language, da parte di A. Hurvitz; 37 (1996) 7-20, D.C. Fredericks, “A North Israelite Dia-
lect in the Hebrew Bible? Questions of Methodology” (discute soprattutto G.A. Rendsburg,
Diglossia in Ancient Hebrew, New Haven 1990); 38 (1997) 7-20, I. Young, “Evidence of
Diversity in Pre-Exilic Judahite Hebrew”. Questa disputa è succeduta a quella sui legami
della lingua di Qohelet con lʼebraico mishnico e con lʼaramaico, da un lato, e sugli influssi
fenici, dallʼaltro, condotta in particolare da M. Dahood e da R. Gordis; cf. F. Bianchi “The
Language of Qohelet: A Bibliographical Survey”, ZAW 105 (1993) 210-223, e C.-L. Seow,
“Linguistic Evidence and the Dating of Qohelet”, JBL 115 (1996) 643-666.
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do ideale di Qohelet: il modo come egli ha impostato la sua ricerca della


sapienza in 1,16-18 (§ 1.1); la composizione di 3,10-15, in cui si collocano
due proclamazioni di gioia (§ 1.2); la creazione e la provvidenza, cioè come
il fare dellʼuomo si esercita e si incontra e scontra con il fare di Dio (§ 1.3);
la vita sulla terra e nellʼoltretomba, un argomento molto controverso in
Qohelet, strettamente legato a quello della gioia (§ 1.4).

1.1. Impostazione della ricerca

Qo 1,16-18 mostra che il saggio, che già ricercava la sapienza, ad un certo


punto decide nel suo cuore di estendere la sua esperienza e allora impegna il
suo cuore a conoscere non solo la sapienza ma anche la follia e la stoltezza:
(16) rOmaEl yI;bIl_MIo yˆnSa yI;t√rA;bî;d Parlai io con il mio cuore dicendo:
hDmVkDj yI;tVpAswøh◊w yI;tVlå;d◊gIh h´…nIh yˆnSa Io, ecco ho ingrandito e anche aumenterò la sapienza
yÅnDpVl hÎyDh_rRvSa_lD;k lAo più di chiunque è stato prima di me (re)
MIDlDv…wr◊y_lAo su Gerusalemme!
hE;b√rAh hDa∂r yI;bIl◊w Dopo che il mio cuore aveva visto in abbondanza
tAo∂dÎw hDmVkDj sapienza e conoscenza,
(17) hDmVkDj tAoådDl yI;bIl hÎnV;tRaÎw io posi il mio cuore a conoscere sapienza
t…wlVkIc◊w twølElwøh tAoåd◊w e a conoscere follia e stoltezza
Aj…wr NwøyVoår a…wh h‰z_MÅ…gRv yI;tVoådÎy Ho imparato che anche questo è rincorrere vento,
(18) sAoD;k_b∂r hDmVkDj bOrV;b yI;k poiché nella molta sapienza cʼè molta pena
tAoå;d PyIswøy◊w e se uno vorrà19 aggiungere conoscenza,
bwøaVkAm PyIswøy aggiungerà dolore.

“Dopo che il mio cuore aveva visto (hDa∂r yI;bIl◊w) in abbondanza / sapienza e
conoscenza, / io posi il mio cuore a conoscere sapienza / e a conoscere follia
e stoltezza” (1,16-17a). Questo senso si accorda con ciò che precede: “Parlai
io con il mio cuore dicendo: / Io, ecco ho ingrandito e anche aumenterò la sa-
pienza / più di chiunque è stato prima di me (re) su Gerusalemme!” (1,16).
Ma subito Qohelet aggiunge: “Ho imparato che anche questo è rincorrere
vento, / poiché nella molta sapienza cʼè molta pena / e se uno vorrà aggiun-
gere conoscenza, / aggiungerà dolore” (1,17b-18). Che senso ha questa mo-
tivazione? Credo che abbia ragione Delitzsch:
“The wise man gains an insight into the thousand-fold woes of the natural world, and of
the world of human beings, and this reflects itself in him without his being able to change

19.PyIswøy◊w è un weyiqtol di protasi; cf. Gesenius-Kautzsch-Cowley, § 108e-f; Joüon-


Muraoka, § 167a.
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it; hence the more numerous the observed forms of evil, suffering, and discord, so much
greater the sadness (…) which the inutility of knowledge occasions” (p. 232).

Cioè, lʼeccessiva ricerca dei perché dellʼesistenza è causa di fatica e di


dolore per il fatto che mette a nudo, da un lato lʼimpossibilità dellʼuomo di
comprenderli, dallʼaltro la sua incapacità di correggere le situazioni di ingiu-
stizia e di dolore.
Lʼidea di evitare il troppo anche nel campo della sapienza/ricerca richia-
ma 12,12: “Fare libri in quantità non ha fine / e lo studio in quantità è stan-
chezza della carne”. Si capisce anche 7,16-18:
(16) hE;b√rAh qyî;dAx yIhV;t_lAa Non essere giusto troppo
rEtwøy MA;kAjVtI;t_lAa◊w e non comportarti da saggio oltremodo:
MEmwøÚvI;t hD;mDl perché vorresti rovinarti?
(17) hE;b√rAh oAv√rI;t_lAa Non essere malvagio troppo
lDkDs yIhV;t_lAa◊w e non essere stolto (troppo):
ÔKR;tIo aølV;b t…wmDt hD;mDl perché vorresti morire prima del tuo tempo?
(18) h‰zD;b zOjTaR;t rRvSa bwøf È bene che tu tenga lʼuno (ʻquestoʼ)
ÔK®dÎy_tRa jÅ…nA;t_lAa h‰ΩzIm_MÅg◊w e anche dallʼaltro non ritirare la tua mano,
MD;lU;k_tRa aEx´y MyIhølTa aér◊y_yI;k poiché il timorato di Dio uscirà (bene) con tutti (e
due)20.

Secondo Delitzsch il senso è:


“he who fears God will set himself free from all, will acquit himself of the one as well as
of the other, will perform both, and thus preserve the golden via media” (p. 326).

Dato che questa via media può essere malintesa, direi piuttosto che il
senso è: Non porsi un numero eccessivo di domande sul perché/senso della
vita (= sapienza che produce fatica) né permettersi unʼeccessiva trascura-
taggine sul perché/senso (= stoltezza che può provocare la morte anzitempo;
cf. infra, § 2.5)21.

20. Così anche Seow: “for the one who fears God goes forth with both of them” (pp. 252;
255-256); diversamente Gordis: “for he who reverences God will do his duty by both”
(p. 169; 267-268), il quale ritiene che il verbo axy abbia il senso di fare il proprio dovere
come nel linguaggio della Mishnah.
21. L. Mazzinghi, “Qohelet tra giudaismo ed ellenismo. Unʼindagine a partire da Qo 7,15-
18”, in: Bellia - Passaro (edd.), Il libro del Qohelet, 90-116, passa in rassegna le varie opi-
nioni circa quel passo ritenuto imbarazzante (si veda anche, dello stesso autore, Ho cercato
e ho esplorato, 77-90). La sua traduzione di 7,18 “Chi teme Dio sfuggirà a entrambe le
cose” (p. 105) si muove nella direzione giusta, ma la sua interpretazione riprende la con-
vinzione purtroppo diffusa che “con il libro di Giobbe era stato messo in crisi il rapporto
tradizionale giustizia-successo” e aggiunge che “il Qohelet va oltre, affermando che lʼos-
servanza della Legge non basta, e neppure la sapienza” (p. 107). Ora, da un lato la Legge
non è nellʼorizzonte del libro (per cui non credo si possa dire che in Qohelet la Legge-Torah
QOHELET 37

Si delinea quindi un percorso dalla ricerca pura e semplice della sapien-


za, secondo la tradizione dei saggi, a una ricerca in qualche modo illimitata,
indicata con il binomio “sapienza e stoltezza”. Questʼultima espressione
potrebbe essere infatti un merismo per indicare la totalità dellʼesperienza.
Ma per interpretarla correttamente dobbiamo chiederci cosa intenda Qohelet
per stoltezza o follia. Presumibilmente lʼopposto di quello che intende per
sapienza. Se per sapienza egli intende fare esperienza della realtà allo scopo
di comprenderne il senso alla luce dellʼinsegnamento tradizionale e della
fede di Israele, stoltezza sarà non porsi questo impegno ma semplicemente
godere di ciò che la vita offre senza riflettere e senza far riferimento a quei
valori. Diversamente si dovrebbe dire, come fa qualche autore, che Qohelet
è a/immorale22.
Questo percorso verso unʼesperienza illimitata viene esplicitato in 2,1-8,
che presenta prima una specie di programma:
(1) Dissi io nel mio cuore:
Su vieni, voglio farti sperimentare la gioia (hDjVmIcVb)23

viene rivista in modo critico, come fa T. Krüger, “Die Rezeption der Tora im Buch Kohe-
let”, in: Schwienhorst-Schönberger [ed.], Das Buch Kohelet, 303-325; cf. infra, nota 45);
dallʼaltro i limiti della sapienza erano chiari anche prima di Qohelet (basta leggere G. von
Rad, La sapienza in Israele, Torino 1975, cap. VI “I limiti della sapienza”). Inoltre è giusto
che il timore di Dio è la chiave per una corretta scelta etica tra eccessiva saggezza e ec-
cessiva stoltezza; non vedo però come il concetto del timore di Dio di Qohelet sia diverso
da quello della cosiddetta “sapienza tradizionale di Israele” (p. 111): anche per questa “il
temere Dio… non consiste… nellʼosservanza della Legge” (p. 112)! In realtà Qohelet, come
anche Giobbe, è parte dellʼunica tradizione sapienziale di Israele; lʼindividualità degli scritti
dipende, oltre che dalla personalità degli autori, dalle diverse epoche e condizioni in cui
essi operarono e dallʼuditorio a cui si rivolgevano; non ultimo, dal preciso campo di inve-
stigazione di ognuno: lʼattività umana sulla terra per Qohelet, la sofferenza del giusto per
Giobbe. Per entrambi il problema è, in fondo, il rapporto Dio-uomo, Creatore-creatura. Mi
permetto di rimandare al mio saggio complessivo La casa della sapienza, in particolare
allʼultimo capitolo “Unità e diversità. La proposta religiosa della sapienza”, pp. 177-182;
si veda anche infra, § 2.8.
22. Molto opportunamente R.N. Whybray, “Qoheleth the Immoralist? (Qoh 7:16-17)”, in:
J.G. Gammie - W. Brueggemann - W.L. Humphreys - J.M. Ward, Israelite Wisdom. Theolo-
gical and Literary Essays in Honor of Samuel Terrien, Missoula (Montana) 1978, 191-204,
precisa che “Qoheleth is neither recommending immorality nor teaching the golden mean”,
neppure in 7,16-17 (cf. infra, nota 91).
23. Secondo Fox, 113-115, hDjVmIc in Qohelet significa piacere, non gioia: “¬im˙ah never
means happiness in Qohelet. Indeed, the pleasures called ¬im˙ah never even seem to pro-
duce happiness in him” (p. 115). Credo che questo giudizio faccia torto al saggio. Da un
lato, nel passo in esame hDjVmIc è parallelo a bwøf “bene”, che designa ogni tipo di valore
nella vita umana (cf. infra); dallʼaltro, credo che le cose che Qohelet nomina (cibo, vino,
giardini, concubine ecc.) procurano non soltanto piacere ma vera gioia. Il fatto che dica che
sono “vanità” significa che hanno termine, ma ciò non toglie che diano gioia, vera gioia
38 A. NICCACCI

perché tu goda il bene (bwøfVb hEa√r…w)!24


Ed ecco anche questo è vanità.
(2) Del riso poi dissi: Folle!,
e della gioia:
Cosa produce questa?25 (2,1-2).

Forse il saggio intende godere di tutto quello che la sua vita ad altissimo
livello gli offre (2,3-8) senza porsi le domande sul senso, ma nota subito,
anticipando la conclusione, la vanità di questo modo di godere. Lo stesso del
resto afferma più avanti della sapienza, che talvolta non porta stabile giova-
mento (cf. 2,21.26).
I versetti successivi (2,3-8) dettagliano il percorso dellʼesperienza attra-
verso una serie di forme verbali qatal che elencano i vari beni di cui il “re”
Qohelet si è potuto concedere il godimento. Nella prospettiva del testo essi
rappresentano il massimo che essere umano possa mai permettersi. Ciò che
segue (2,9-23) elenca una serie di valutazioni negative (con sei affermazioni
di “vanità”: vv. 11.15.17.19.21.23, che specificano quella del v. 1) introdotte
da undici forme verbali weqatal (vv. 9[bis].11.12.13.14.15[bis].17.18.20)26.

che è insieme frutto del lavoro dellʼuomo e sua “parte” che Dio gli concede (cf. § 2.8). Pur-
troppo lʼinterpretazione di Fox viene ripresa da Schoors, “Lʼambiguità della gioia in Qohelet”,
278-279, e anche da H. Simian-Yofre, “Conoscere la sapienza. Qohelet e Genesi 2-3”, ibid.,
314-336. Questʼultimo autore, dopo una (per conto mio un poʼ) disinvolta lettura di Gen 2-3
come “un mito di maturazione”, scrive che Qo 8,15 (un altro passo in cui compare hDjVmIc, cf.
infra, § 2.5) presenta, tra lʼaltro, “la lode di una meschina gioia che viene dal mangiare e dal
bere” (p. 322). Analogamente interpreta altri passi (8,16-17; 7,23-29). Ma poi, inaspettata-
mente, scopre in 9,9 “il trionfo della contemplazione”, intendendo il verbo har appunto come
“contemplare” invece di “godere” (cf. infra, nota 24), e questo avverrebbe nella relazione
uomo-donna come per Adamo nel giardino. Ma, per quanto la cosa possa apparire suggestiva,
francamente non vedo come lʼinvito “contempla la vita con la donna che ami” (9,9) possa ave-
re esito positivo se realmente Qohelet ha una visione del tutto negativa della realtà. Ritengo
invece che le proclamazioni e gli inviti alla gioia in Qohelet nascano da una visione della realtà
umana che evidenzia sempre un aspetto positivo accanto a uno negativo (cf. § 2.8)
24. La forma verbale hEa√r…w, o “imperativo indiretto” (Joüon-Muraoka, § 116), esprime fi-
nalità; letteralmente: “e vedi…”, nel senso di: “affinché tu veda…”, e quindi: “affinché tu
goda il bene”. Il verbo har con la preposizione bet significa infatti “godere” (cf. 11,4), ma
lʼespressione compare con lo stesso senso anche senza preposizione (3,13: bwøf hDa∂r◊w; cf.
2,24; 9,9; 11,7).
25. “Folle! // cosa produce?”: dal parallelismo si comprende che “folle” (lDlwøhVm; cf. 7,7)
significa che non produce nulla di utile, che non porta vero giovamento. Il motivo è che
anche la gioia ha fine; per cui “anche questo è vanità” (2,1).
26. Come detto allʼinizio, quando si riferisce al passato weqatal indica abitudine, ripetizione,
descrizione; indica cioè un aspetto dellʼazione/informazione (o livello secondario della co-
municazione), non semplicemente il passato come qatal e wayyiqtol (cf. Syntax of the Verb,
§ 157), anche se gli studiosi regolarmente ignorano questo fatto. Perciò: “così diventavo
grande e aggiungevo (= diventavo grande sempre di più)…” (2,9); “ma poi mi volgevo io…”
QOHELET 39

Tra le due suddivisioni 2,1-8 e 2,9-23 si notano importanti richiami di


vocabolario che sottolineano il legame tra di esse:
2,1 hDjVmIcVb hDkV;sÅnSa aÎ…n_hDkVl 2,9 yI;l h∂dVmDo yItDmVkDj PAa
Su vieni, voglio farti sperimentare la gioia tuttavia la mia sapienza mi assistette
2,3 hDmVkDjA;b gEhOn yI;bIl◊w 2,10 hDjVmIc_lD;kIm yI;bIl_tRa yI;tVoÅnDm_aøl
mentre il mio cuore guidava (la carne) con non trattenni il mio cuore da alcuna
la sapienza gioia,
yIlDmSo_lD;kIm AjEmDc yI;bIl_yI;k
ma il mio cuore gioì di tutta la mia
fatica
t…wlVkIsV;b zOjTaRl◊w 2,12 hDmVkDj twøa√rIl
(Riflettei…) di tenere la stoltezza (Allora mi volgevo) a vedere
la sapienza
Cf. 1,17 hDmVkDj tAoådDl t…wlVkIs◊w twølElwøh◊w
(Posi il mio cuore…) a conoscere sapienza e la follia e la stoltezza
t…wlVkIc◊w twølElwøh tAoåd◊w
e a conoscere27 follia e stoltezza

(2,11); “allora mi volgevo…” (2,12); “infatti vedevo…” (2,13); “ma anche sapevo io…”
(2,14); “e dicevo io… e parlavo io…” (2,15); “e perciò odiavo…” (2,17); “e perciò odiavo
io…” (2,18); “e mi rivolgevo io…” (2,20). Altre forme di weqatal di prima persona, con la
medesima funzione di commentare varie fasi dellʼesperienza del saggio, si trovano in 3,22;
4,1.4.7 (per 4,1 e 4,7 cf. infra, nota 114); 8,15.17; 9,16. Riguardo alla forma weqatal, da lui
detta “w + SC”, Isaksson, Studies in the Language of Qoheleth, ha una posizione abbastanza
complessa, difficile da classificare. Da un lato è contrario allʼidea del “waw conversivo”, e
quindi, immagino, anche alla designazione weqatal (p. 31); di conseguenza rifiuta la cosiddetta
“teoria frequentativa” (pp. 56-58) e traduce i weqatal dei passi autobiografici di Qohelet con
il “present perfect” come i semplici qatal (“I have built… I have devoted myself… I have
made…”, p. 57). Dallʼaltro lato, conclude la sua analisi affermando: “This means that the
author speaks out of his present situation… My conclusion is that the choice of conjunctive
SC and wSC forms in the autobiographical thread is due to a special kind of narrative that
constitutes this thread. The narrative of this thread is of the résumé type…” (p. 190). Fran-
camente non credo che weqatal e semplice qatal siano equivalenti in nessun tipo di testo. Sui
casi difficili di weqatal, spesso corretti o semplicemente ignorati, si può consultare la mia
recensione di W. Gross - H. Irsigler - T. Seidl (edd.), Text, Methode und Grammatik. Wolf-
gang Richter zum 65. Geburtstag, St. Ottilien 1991, in LA 44 (1994) 667-692, § 6. Quanto a
Schoors, The Preacher Sought to Find Pleasing Words, da un lato egli ritiene giustamente,
contro M. Dahood e C.F. Whitley, che weqatal sia ben attestato in Qohelet (p. 88), dallʼaltro
afferma che “in 9,14-15 the sequence abw – bbsw – hnbw – axmw – flmw – should at least have
had bsyw, Nbyw and flmyw according to classical grammar, and possibly even all of these verbs
could have been imperfect consecutive” (p. 86). Credo invece che wayyiqtol compare dove
lʼautore vuole che compaia, e così pure weqatal, ciascuno secondo la sua precisa funzione.
Quello che fa difficoltà a Schoors, e non solo a lui, è lʼuso di weqatal in rapporto al passato,
in cui esso indica, come detto sopra, un livello secondario della comunicazione (abitudine,
ripetizione, descrizione), mentre non fa problema lʼuso per indicare il futuro, in cui weqatal
indica il livello principale della comunicazione (cf. Syntax of the Verb, § 156).
27. Come suggerisce Delitzsch, 231, tAoåd◊w equivale a tAoådDl dello stico precedente. Così
anche Gordis, 202; diversamente Seow, 124-125.
40 A. NICCACCI

Il proposito di tenere insieme saggezza e stoltezza viene enunciato in


modo programmatico allʼinizio (2,3; cf. 1,17) e ripetuto nella parte descritti-
va del processo di ricerca (2,12). Lo scopo di tenere insieme i due estremi è,
nel primo caso, “fino a che vedessi / qual è il bene per i figli dellʼuomo / che
essi facciano sotto il cielo / nei pochi giorni della loro vita” (2,3); nel secon-
do, il misterioso “poiché, cosʼè lʼuomo che possa venire dopo il re, / quello
che già (da tempo) hanno fatto (= eletto)?” (2,12b)28.
La proposta iniziale, “Dissi io nel mio cuore: / Su vieni, voglio farti
sperimentare la gioia / perché tu goda il bene!” (2,1), parallela a “Riflettei
nel mio cuore / di attirare con il vino la mia carne, / mentre il mio cuore (la)
guidava con la sapienza, / e di tenere la stoltezza” (2,3), viene rovesciata alla
fine: “E mi rivolgevo io per far perdere ogni speranza al mio cuore / circa
tutta la fatica / che avevo faticato sotto il sole” (2,20). Scopo dellʼinvito a
sperimentare i piaceri della vita è vedere “qual è il bene per i figli dellʼuomo”
(2,3); motivo dellʼinvito a desistere è “perché cʼè un uomo / la cui fatica è
nella sapienza e nella conoscenza e nellʼabilità, / e a un uomo che non ha
faticato in essa (= la sua fatica) / dovrà darla come sua parte” (2,21).

28. Versetto oscuro, interpretato diversamente. Una difficoltà per accettare la traduzione
data sopra è la presenza di tEa che di solito regge lʼoggetto diretto, qui invece lʼapposizione
di un complemento. Delitzsch, 245, rimanda a Zc 12,10, dove rRvSa tEa specifica il com-
plemento indiretto yAlEa: …wr∂q∂;d_rRvSa tEa yAlEa …wfyI;bIh◊w “e guarderanno a me, cioè a colui che
avranno trafitto” (cf. Vulgata: “et aspicient ad me quem confixerunt”). Un altro esempio
simile è Ez 23,22, dove il secondo tEa regge unʼapposizione dellʼoggetto diretto introdotto
dal primo tEa: MRhEm JKEvVpÅn hDoVqÎn_rRvSa tEa / JKˆyAlDo JKˆyAbShAaVm_tRa ryIoEm yˆn◊nIh “Ecco io susciterò i
tuoi amanti contro di te, / quelli di cui si è disgustata la tua anima”. Altrove in Qohelet il
sintagma rRvSa tEa + verbo finito introduce anche la proposizione soggettiva (4,3) oltre che
quella oggettiva (5,3; 7,13). La traduzione data sopra suppone che lʼespressione “il re… che
già (da tempo) hanno fatto (eletto)” alluda a Salomone. Il senso sarebbe: Salomone, da un
lato, in quanto re aveva a disposizione tutti i mezzi immaginabili per fare unʼesperienza in
qualche modo illimitata, esemplare per tutti; dʼaltro lato, siccome era stato eletto da molto
tempo (allusione probabile ai suoi 40 anni di regno), la sua esperienza durò a lungo. Il
senso sembra dunque: “cosʼè lʼuomo (= un uomo qualsiasi) che possa venire dopo il re (=
me, Salomone/Qohelet)” e perciò che possa continuare la sua/mia ricerca? In altre parole,
nessun uomo potrà mai continuare lʼesperienza di Qohelet né farne una più attendibile della
sua, unʼidea che è in accordo con lʼinterpretazione di 2,25 (infra, nota 65). Per vie diverse,
Gordis arriva a unʼinterpretazione abbastanza simile: “Koheleth, in his assumed role of
Solomon, wishes to assure the reader that he has experienced the ultimate in both wisdom
and pleasure and that there is no need for any one else to repeat the experiment” (Gordis,
211). Osserverei soltanto che il saggio non intende dire che non cʼè bisogno che un altro
ripeta la sua esperienza, ma piuttosto che nessuno sarà in grado di ripeterla a quel livello.
Anche K.A.D. Smelik, “A Re-Interpretation of Ecclesiastes 2,12b”, in: Schoors (ed.), Qohe-
let in the Context of Wisdom, 385-389, pur analizzando diversamente, arriva a unʼinterpre-
tazione simile: “Qohelethʼs search for wisdom and folly is unique and cannot be surpassed.
Whoever undertakes a similar quest after him, will never outdo Qoheleth. His conclusions
regarding the value of human life are final, unto this very day” (p. 389).
QOHELET 41

Il percorso del saggio può essere riassunto come segue: sperimentare tut-
ti i beni e le situazioni della vita alla luce della fede/tradizione di Israele per
comprenderne lʼutilità (= sapienza), e addirittura godere di ogni cosa senza
porsi tale domanda (= stoltezza); tutto questo al fine di scoprire cosa è bene
per lʼuomo nella sua fatica sulla terra; in ambedue i casi comunque la conclu-
sione è “tutto è vanità”, nel senso che niente dura, tutto passa, mentre ciò che
resta, ad esempio la ricchezza e il risultato della fatica di una vita, passerà a
un altro che non ci ha lavorato e che forse non ne sarà degno.
Mi sembra che questo percorso faccia emergere una dinamica che strut-
tura alla base il pensiero di Qohelet e caratterizza il suo modo di procedere
lungo tutto il libro; una dinamica in tre momenti: esperienza del saggio,
negativa, dato di fede, positivo, soluzione con la proclamazione della gioia
o con lʼinvito a godere i beni che Dio dà insieme con la vita. Esaminando i
passi sulla gioia, cercherò di delineare come dal contrasto tra il primo mo-
mento e il secondo scaturisce il terzo, cioè il messaggio che il saggio propone
allʼuomo sulla terra (§ 2). Lʼopera di Qohelet è, possiamo dire, unʼappassio-
nata ricerca di ciò che è “bene”, una ricerca di senso, con la coscienza però
che il senso ultimo lʼuomo non potrà mai raggiungerlo; potrà raggiungere
solo il bene/senso che è alla sua portata e che Dio nella sua bontà gli concede
di godere.
Il termine che più caratterizza la ricerca di Qohelet è lRbRh, anzi MyIlDbSh lEbSh
“vanità delle vanità”29. “Vanità” nel senso di finitudine; ad esempio “lʼado-

29. Non mi sembra giustificato intendere lRbRh nel senso di “assurdo” come fa, ad es. Fox,
anche in “The Innerstructure of Qoheletʼs Thought”, in: Schoors (ed.), Qohelet in the Con-
text of Wisdom, 225-238; si veda la mia recensione del commentario di Fox in LA 50 (2000)
519. N. Lohfink, “Ist Kohelets lbh-Aussage erkenntnistheoretisch gemeint?”, in: Schoors
(ed.), Qohelet in the Context of Wisdom, 41-59, ha ragione di sostenere, contro D. Michel,
Untersuchungen zur Eigenart des Buches Qohelet, Berlin - New York 1989, 40-51, che le
affermazioni di “vanità” non si riferiscono alla conoscenza dellʼuomo in quanto tale ma
piuttosto alle azioni, cose, situazioni, eventi della sua vita. Dʼaltra parte però, pur negando
che le affermazioni di “vanità” riflettano uno scetticismo circa la teoria della conoscenza,
lo stesso Lohfink professa unʼopinione simile: “In der Tat lehrt Kohelet einen erkenntnis-
theoretischen Skeptizismus, wenn man dieses Wort in diesem Zusammenhang vielleicht
auch etwas abgeschwächt gebrauchen muß” (ibid., 59). Uno scetticismo di fondo, nel modo
come il problema della conoscenza umana viene trattato, scopre anche A. Schellenberg,
Erkenntnis als Problem. Qohelet und die alttestamentliche Diskussion um das menschliche
Erkennen, Freiburg - Göttingen 2002, sia in Qohelet che in Giobbe (cf. ad es. p. 215). Come
risulterà dal seguito della presente esposizione, Qohelet non è affatto scettico, nel senso che
non nega che lʼuomo possa conoscere; afferma soltanto che, essendo egli una creatura e non
il Creatore, ha una conoscenza limitata della realtà creata e della provvidenza che la governa
(§ 1.3). Due autori in particolare respingono lʼidea di lRbRh “assurdo”: D.C. Fredericks, Co-
ping with Transience. Ecclesiastes on Brevity in Life, Sheffield 1993, e T. Zimmer, Zwischen
Tod und Lebensglück. Eine Untersuchung zur Anthropologie Kohelets, Berlin - New York
42 A. NICCACCI

lescenza e i capelli neri sono lRbRh” (11,10). Ci sono cose nella vita che sono
buone ma sono anche lRbRh perché hanno fine, non durano in eterno, come
invece dura lʼopera di Dio. Anche la sapienza è lRbRh dato che muoiono sia
il saggio che lo stolto (2,16). In 7,12 si dice che “la sapienza farà vivere i
suoi possessori”, ma ciò dovrebbe significare che li fa vivere tutto il tempo
concesso da Dio e non li fa morire anzi tempo (7,17). Il problema della fede
o non fede nellʼaldilà non dovrebbe entrare in questo ragionamento. Quella
di Qohelet è una riflessione che prende molto seriamente la vita sulla terra.
Non necessariamente esclude la vita oltre la morte, ma questa resta al di fuori
dellʼesperienza e quindi della riflessione del saggio, appunto perché la rifles-
sione si esercita su ciò che è oggetto di esperienza (cf. § 1.4)30.
Cosa dire allora di 11,8, in cui si legge che lʼuomo “in tutti (i suoi anni)
sia nella gioia / e ricordi i giorni delle tenebre, / che (cioè) saranno in quan-
tità: / tutto ciò che verrà è vanità”? Commenta Delitzsch:
“For Koheleth, the future is not less veiled in the dark night of Hades, as it was for Hor-
ace, i.4.16s.: «Jam te premet nox fabulaeque Manes / Et domus exilis Plutonia.» Also,
for Koheleth as for Horace, iv.7.16, man at last becomes pulvis et umbra, and that which
thus awaits him is he∑ve∑l. Tyler is right, that «the shadowy and unsubstantial condition of
the dead and the darkness of Sheol» is thus referred to” (p. 399).

Io non direi che Qohelet propugna dello sheol unʼidea di questo genere,
ma certo la forte espressione di 11,8 richiede una spiegazione; e anche il
problema della fede o no nella vita oltre la morte va affrontato (§ 1.4). Forse,
oltre che finitudine, lRbRh implica anche oscurità e ignoranza da parte dellʼuo-
mo. Si dice più volte che quello che viene dopo, sia dopo la vita che dopo la
morte, lʼuomo non lo conosce. Appare sempre più chiaro che la riflessione di
Qohelet è legata alla vita sulla terra e si limita ad essa. Ciò di cui non parla,
non si può dire di per sé che lo neghi. È una riflessione tutta concentrata sulla

1999, 25-32. Fredericks propone il significato di “transience”, transitorietà, che però non
implica alcuna mancanza di senso o assurdità, e ne fa la chiave di lettura dellʼintero libro.
Così interpretato Qohelet appare “a more coherent, even though more conventional, Hebrew
sage”; diversamente egli sarebbe “a self-contradicting, incoherent thinker who concludes
that life is both meaningless, yet an enjoyable gift of God” (p. 32).
30. Quello che Fischer, Die Aufforderung zur Lebensfreude, 48, afferma riguardo a 3,19-21
si muove su questa linea interpretativa e vale per tutto il libro di Qohelet: “Kohelet bleibt
seiner auf die Empirik begrenzten Diskussion treu und bringt kein Jenseitsargument ein”.
Mi sembra invece discutibile la considerazione che Fischer fa poche righe dopo: “Kohelet
weist eine auf jenseitige Vergeltung abzielende Lösung des Tun-Ergehen-Zusammenhanges
ab und kommt zur Aufforderung zur Lebensfreude” (ibid.). Se Qohelet non parla dellʼaldilà,
perché dire che nega la ricompensa oltre la morte? Egli dice semplicemente che nessuno
può controllare direttamente (cf. infra, nota 73).
QOHELET 43

tremenda responsabilità dellʼuomo sulla terra di fronte alla creazione e al


governo divino della storia.
Notiamo ancora che il termine lRbRh e le affermazioni di “vanità” si ac-
compagnano spesso a unʼaltra espressione caratteristica, che compare in due
forme equivalenti: Aj…wr t…wo√r “andare dietro a vento” (1,14; 2,11.17.26; 4,4.6;
6,9) e Aj…wr NwøyVoår “rincorrere vento” (1,17; 4,16)31, e anche insieme a hD;bår hDo∂r
“male grande” (2,21) e a o∂r yIlFj “malattia cattiva” (6,2). Da ciò che andia-
mo dicendo si comprende che questo linguaggio non ha nulla di ontologico
né lRbRh ha valore di “assurdo”, contrariamente a quanto spesso si ritiene. Il
saggio non dà un giudizio sulla natura della creazione, che è opera di Dio
e perciò ha tutto il suo rispetto; dà un giudizio sullʼopera dellʼuomo nella
creazione e sulla creazione, sulle difficoltà e sui limiti che lʼuomo incontra
nella sua esperienza. È un punto importante su cui torneremo più volte nel
corso dellʼesposizione.

1.2. Composizione di Qo 3,10-15

Fra i passi in cui compare lʼaffermazione che non cʼè bene se non godere
e/o lʼinvito a farlo, richiama lʼattenzione 3,10-15. Il brano presenta una
composizione in due parti parallele:

31. Non cʼè accordo su come intendere la coppia t…wo√r / NwøyVoår, dato che la loro radice può
essere oor “rompere”, come intendono la Vulgata (adflictio spiritus), il Targum, la versione
siriaca e alcuni interpreti giudaici, tra cui Rashi (cf. A.J. Rosenberg, The Five Megilloth,
vol. 2: Lamentations, Ecclesiastes, New York 1992, 10-11); ma può essere anche hor con
le sue varianti: I “pascere”, II “essere compagno, associarsi”, III (aramaismo) “avere pia-
cere, desiderio, scegliere” (cf. Delitzsch, 227-228; Gordis, 200-201; Seow, 121-122); anzi,
secondo P. van Hecke, “Polysemy or Homonymy in the Root(s) r„h in Biblical Hebrew. A
Cognitive-Linguistic Approach”, ZAH 14 (2001) 50-67, queste varianti potrebbero essere
riconducibili a unʼunica radice hor avente il senso fondamentale di “to walk after”. La
traduzione data sopra deriva dalla radice hor II mentre quella della LXX sembra derivare
da hor III: proai÷resiß pneu/matoß, che dovrebbe significare “desiderio di vento”, dato che
altrove proai÷resiß indica una tendenza del cuore, sia buona (Gdc 5,2) che cattiva (Ger 8,5;
14,14), e il verbo proaire÷w traduce lʼebraico rjb “scegliere (Dt 7,6; 10,15; Is 7,15; Pro
1,29; in 21,25 ouj… proairouvntai traduce …wnSaEm “rifiutarono”) e anche qvj “affezionarsi”
(Gen 34,8; Dt 7,7, dove si alterna con rjb). Curiosamente il senso di hor I compare nella
prima delle tre aggiunte della LXX a Pro 9,12: “(9,12A) Celui qui sʼappuie sur des men-
songes, celui-là fera paître les vents (poimanei√ aÓne÷mouß), / cet homme-là poursuivra des
oiseaux en plein vol (diw¿xetai o¡rnea peto/mena)”: D.-M. DʼHamonville - É. Dumouchet
(edd.), La Bible dʼAlexandrie, 17: Les Proverbes. Traduction du texte grec de la Septante.
Introduction et notes, Paris 2000, 214. A detta degli editori, le espressioni “pascolare i venti”
e “inseguire uccelli in volo” erano proverbiali nel mondo greco per indicare cose impossibili
(ibid., 103-104; 215).
44 A. NICCACCI

– 3,10-13:
a) wø;b twønSoAl M∂dDaDh y´nVbIl MyIhølTa NAtÎn rRvSa NÎy◊nIoDh_tRa yItyIa∂r 3,10
Vidi32 lʼoccupazione che Dio ha dato ai figli dellʼuomo per occuparsi di essa.
b) wø;tIoVb hRpÎy hDcDo lO;kAh_tRa 3,11
Tutto egli ha fatto bello a suo tempo;
c) MD;bIlV;b NAtÎn MDlOoDh_tRa MÅ…g
pure lʼoscurità33 ha posto nei loro cuori,
MyIhølTaDh hDcDo_rRvSa hRcSoA;mAh_tRa M∂dDaDh aDxVmˆy_aøl rRvSa yIlV;bIm
di modo che lʼuomo non comprenda (ʻtroviʼ) lʼopera che Dio ha fatto
Pwøs_dAo◊w vaørEm
dallʼinizio alla fine.
b') wyÎ¥yAjV;b bwøf twøcSoAl◊w AjwømVcIl_MIa yI;k MD;b bwøf NyEa yI;k yI;tVoådÎy 3,12
Ho imparato che non cʼè bene tra di essi se non essere nella gioia e fare il bene
nella propria vita34.

32. Il verbo yItyIa∂r “vidi” viene ripreso e continuato da yItyIa∂r dwøo◊w “e ancora vidi” in 3,16.
Lʼuno e lʼaltro introducono una constatazione, un dato di esperienza (cf. infra, § 2.2), mentre
i due yI;tVoådÎy “ho imparato” in 3,12 e 3,14 comunicano acquisizioni, riflessioni o conseguenze
derivate dalle cose osservate.
33. Il problema è come intendere MDlOoDh. Rashi intese: “the wisdom of the world”, mentre
Ibn Ezra nota che il termine significa sempre “eternità” nella Bibbia (cf. Rosenberg,
The Five Megilloth, 34-35, e M. Gómez Aranda [ed.], El comentario de Abraham Ibn
Ezra al libro del Eclesiastés. Introducción, traducción y edición crítica, Madrid 1994,
52-53). Forse però il termine è legato alla radice Mlo “essere nascosto”, in ugaritico
çlm “to grow dark”, “to cover over” (cf. M. Dahood, “Canaanite-Phoenician Influence
in Qoheleth”, Bib 33 [1952] 191-221, spec. 206), pace Sacchi, 142-143, il quale rifiuta
questo senso e propone invece “una certa visione dʼinsieme”. Il senso “essere nascosto”
compare anche in Qo 12,14: “Infatti ogni opera Dio condurrà in giudizio, / (giudizio)
su tutto quello che è nascosto (MDlVo‰n_lD;k lAo), / sia buono che cattivo”; cf. Sir 11,4:
wlop Mdam Mlonw / ´yy ycom twalp yk “poiché sono meravigliose le opere del Signore / e
nascosta al mortale la sua attività”. Per L. Mazzinghi, “Il mistero del tempo: sul termine
„öläm in Qo 3,11”, in: Fabris (ed.), Initium sapientiae, 147-161, MDlOo indica qui “uno
spazio di «tempo» dalla durata indefinita… diverso da „ët, con il quale del resto è posto
in rapporto antitetico” (p. 157); ma alla fine lui stesso non esclude un gioco di parole tra
“tempo” e “mistero” (nel senso di “essere nascosto”) e traduce “il mistero del tempo”
(p. 160). Si veda anche, dello stesso autore, Ho cercato e ho esplorato, 217-227.
34. Si noti il passaggio dal plurale (MD;b) al singolare (wyÎ¥yAjV;b); letteralmente “Ho imparato
che non cʼè bene tra di essi (cf. 2,24: M∂dDaD;b bwøf_NyEa ʻnon cʼè bene nellʼuomo/tra gli uomi-
niʼ, cf. nota 59) / se non essere nella gioia / e fare il bene (ciascuno) nella sua vita”. Forse
i due verbi “essere nella gioia / e fare il bene” sono endiadi: “godere del bene che fanno,
mentre fanno il bene” (cf. 3,22; 8,15). Il termine bwøf non ha qui senso morale (bene etico,
come ha in 7,20 dove è collegato a “non peccare”) ma indica piuttosto ogni cosa che dà
gioia nella vita. Equivale perciò a ciò che segue: “e goda (ʻvedaʼ) il bene in tutta la sua
fatica” (3,13). Lʼespressione “fare il bene” si oppone a “fare il male”, nel senso di fare
qualcosa di nocivo (cf. 2 Sam 12,18: si temeva che David facesse qualcosa di sconsiderato
alla notizia della morte del suo bambino nato da Betsabea) e perciò lʼespressione non è
necessariamente un grecismo, come spesso si ritiene, anche se equivale a eu™ pra¿ttein
“fare bene” (cf. Gordis, 222).
QOHELET 45

wølDmSo_lDkV;b bwøf hDa∂r◊w hDtDv◊w lAkaø¥yRv M∂dDaDh_lD;k MÅg◊w 3,13


E anche (ho imparato che) ogni uomo che mangi e beva e goda (ʻvedaʼ) il bene
in tutta la sua fatica,
a') ayIh MyIhølTa tA;tAm
dono di Dio è questo.

– 3,14-15:
a) MyIhølTaDh hRcSoÅy rRvSa_lD;k yI;k yI;tVoådÎy 3,14
Ho imparato che tutto quello che Dio farà,
b) oOr◊gIl NyEa …w…nR;mIm…w PyIswøhVl NyEa wyDlDo MDlwøoVl h‰yVhˆy a…wh
ciò sarà in eterno: ad esso non cʼè da aggiungere e da esso non cʼè da togliere;
c) wyÎnDpV;lIm …wa√rˆ¥yRv hDcDo MyIhølTaDh◊w
e Dio ha agito (così) affinché abbiano timore di fronte a lui.
bʼ) hÎyDh rDbV;k twøyVhIl rRvSaÅw a…wh rDbV;k hÎyDhRÚv_hAm 3,15
Quello che fu già è e quello che sarà già fu35,
aʼ) P∂;d√rˆn_tRa vé;qAb◊y MyIhølTaDh◊w
poiché Dio ricercherà quello che è passato (ʻinseguitoʼ)36.

35. Questo stico collega il presente (a…wh rDbV;k) e il futuro (twøyVhIl rRvSaÅw) al passato (hÎyDhRÚv_hAm
// hÎyDh rDbV;k): ciò che avviene e ciò che avverrà sono uguali a ciò che è avvenuto. Questo
ripetersi degli eventi è frutto del sovrano governo di Dio, come specifica lo stico successivo.
Scrive Delitzsch, 264: “The government of God is not to be changed, and does not change;
His creative as well as His moral ordering of the world produces with the same laws the
same phenomena”. Resta comunque il fatto che lʼuomo non conosce in anticipo né può
prevedere i tempi del governo divino (cf. § 2.6). Riguardo alla tessitura grammaticale dello
stico, Delitzsch, 264, traduce hÎyDhRÚv_hAm come “That which is now” e a…wh rDbV;k come “hath
been long ago”, rovesciando i riferimenti temporali: presente-passato invece di passato-pre-
sente. Così fanno anche Isaksson, Studies in the Language of Qoheleth, 82, e A. Schoors,
“Words Typical of Qohelet”, in: Schoors (ed.), Qohelet in the Context of Wisdom, 17-39,
spec. 22-23. Si noti però che, in conformità alla regola dellʼebraico biblico (cf. il mio saggio
“Sullo stato sintattico del verbo häyâ”, LA 40 [1990] 9-23), quando vuole indicare il passato
Qohelet usa il qatal (hÎyDh rDbV;k), mentre per indicare il presente non usa una voce del verbo
hyh ma il pronome personale (a…wh rDbV;k).
36. Fraseologia simile in Sir 5,3 (in un contesto di ammonizione contro la falsa sicurezza):
Mypdrn vqbm ´yy yk / wjk lkwy ym rmat la “Non dire: Chi potrà vincerlo (forse per ʻvin-
cermiʼ, lett. ʻchi potrà contro la sua/mia forzaʼ)?, / poiché il Signore cerca gli inseguiti”.
Il senso sembra: “God is seeking the circle of things gone by”, per cui P∂;d√rˆn indicherebbe
“what is driven away, i.e. the past, events that vanish” (Gordis, 224); oppure: Dio ricerca
sempre le stesse cose, nel senso che “His government remains always, and brings thus al-
ways up again that which hath been” (Delizsch, 264). Dalla storia dellʼinterpretazione che
si legge in R.B. Salters, “A Note on the Exegesis of Ecclesiastes 3 15b”, ZAW 88 (1976)
419-422, risulta, tra lʼaltro, che mentre Rashi fa propria lʼinterpretazione tradizionale (Dio
cerca il perseguitato per punire il persecutore; così già la LXX: kai« oJ qeo\ß zhth/sei to\n
diwko/menon “Dio cercherà il perseguitato”), Ibn Ezra se ne distacca (come già la Vulgata:
“et Deus instaurat quod abiit”) e offre una spiegazione complessa, veramente degna di nota:
“La obra de Dios sigue un único procedimiento. Lo que ha sido ya es significa: aquí está,
hay como él. Lo que será ya fue es lo mismo. Lo perseguido es el tiempo presente [y] lo
nombra con la palabra a…wh (es) [porque] está entre el pasado y el futuro; quiere decir que
46 A. NICCACCI

Lʼopera di Dio è indicata al passato in 3,10-13, al futuro in 3,14-15. Nel


primo caso dovrebbe indicare lʼopera della creazione in sé, nel secondo
lʼopera del governo della storia umana, o provvidenza. Tutto ciò che Dio
ha creato è bello/buono a suo tempo: ogni cosa è stata fatta per uno scopo e
realizza a suo modo il piano divino. La conoscenza di questo piano tuttavia
supera le capacità dellʼuomo.
Ciò che è detto della creazione vale per la provvidenza, o governo divino
degli eventi. Ciò che Dio farà è ciò che ha già fatto e fa ora; questo dovrebbe
significare la frase “avverrà in eterno”. Non nellʼeternità di Dio ma in quella
del mondo umano, nella sua stabilità e regolarità lungo tutto il corso della
storia. Per Qohelet infatti il concetto di eternità viene esemplificato nelle ge-
nerazioni che vanno e vengono37, nel percorso del sole che tramonta e risorge
ogni giorno dallo stesso luogo, nel circuito del vento che gira e rigira nelle
varie direzioni, nei fiumi che vanno al mare senza mai riempirlo e ne riesco-
no, e nelle parole/eventi che sono in continuo movimento senza che lʼuomo
riesca mai ad esaurirle/i (1,4-8). In questo senso il saggio conclude: “Quello
che fu è ciò che sarà / e quello che fu fatto è ciò che sarà fatto, / e non cʼè
niente di nuovo sotto il sole” (1,9).
Questʼultima frase dovrebbe suggerire non un sentimento di noia,
fatica, inutilità di tutto, ma piuttosto uno di fiducia: fiducia in Dio che è
fedele a se stesso, che non governa a caso o secondo lʼistinto del momen-
to, come potrebbe fare un uomo, ma è fedele al piano che ha stabilito38.

Dios pide que el tiempo sea perseguido. El tiempo persigue al tiempo y no acaba porque
el tiempo que pasó se vuelve presente y lo que [va a] ser vuelve al pasado y vuelve al
primer tiempo…”: Gómez Aranda (ed.), El comentario de Abraham Ibn Ezra al libro del
Eclesiastés, 54-55. Il senso generale di 3,15 sembra dunque: “Dio cercherà quello che è
inseguito/fuggito” per ripeterlo. È il tornare incessante del tempo e degli eventi.
37. “Generazioni” (rwø;d) umane, non eventi naturali come intendono alcuni; cf. Fredericks,
Coping with Transience, 25, nota 1, con bibliografia.
38. L. Wilson, “Artfull Ambiguity in Ecclesiastes 1,1-11: A Wisdom Technique?”, in:
Schoors (ed.), Qohelet in the Context of Wisdom, 357-365, cerca di dimostrare che 1,4-8 è
un passo volutamente ambiguo, che permette sia lʼinterpretazione positiva di R.N. Whybray,
il quale vi vede “regular cyclical processes”, sia quella negativa di R.E. Murphy secondo
cui quei versetti “epitomize the fruitless nature of human activity”. Io ritengo piuttosto che
non si tratti dellʼopera dellʼuomo ma piuttosto di Dio: della stabilità della creazione (cf. 1,4:
“la terra in eterno sta”) e della regolarità della provvidenza che assicura lʼordine del mondo
(sole, vento, fiumi, parole) nel passare delle generazioni (rwø;d, 1,4). Come afferma giusta-
mente R.N. Whybray, “Qoheleth as a Theologian”, in Schoors (ed.), Qohelet in the Context
of Wisdom, 239-265, “1,3-11, then, is not a comment on the futility of life… Vv. 4-11 are
principally concerned with the processes of nature rather than having man as their centre
of interest” (p. 249). Non vedo però il bisogno di affermare che rwø;d non significhi, come
dʼabitudine, “successive periods in the history of mankind”, o “generazioni”, ma piuttosto
“time past and present” (ibid., 248-249).
QOHELET 47

La concezione di un Dio a-morale è del tutto estranea a Qohelet, come


quella di un Dio lontano, impersonale. Il fatto che il piano divino rimanga
nascosto allʼuomo non significa che non esista o che sia cattivo: Qohelet
non si permetterebbe mai un giudizio del genere, anche se alcuni inter-
preti glielo attribuiscono.
In questa concezione si comprende la frase misteriosa: “poiché Dio
cercherà ciò che è inseguito/passato” (3,15). Nel corso degli eventi della
storia del mondo Dio farà accadere di nuovo quello che ha fatto accadere
nel passato e quello che sta facendo accadere ora. In questo senso appunto
“non cʼè niente di nuovo sotto il sole” (1,9)39.
Da parte dellʼuomo questo comporta che “non cʼè vantaggio” (NwørVtˆy /
rEtwøy o rEtOy / rAtwøm) per lui in tutta la sua fatica (1,3; 2,11.13; 3,9.19; 5,15;
6,11; 7,11.12; 10,10.11), e “non cʼè ricordo” di nessuno del passato, né
del saggio né dello stolto (1,11; 2,16; 9,5.15). Il motivo di questo senso di
frustrazione sembra essere il fatto che niente di quello che lʼuomo fa dura,
lʼuomo stesso passa, viene presto dimenticato, deve lasciare ad altri il frutto
della sua fatica (2,18-21) e niente porterà con sé al momento della morte
(5,14).
Possiamo affermare perciò che il limite dellʼuomo si misura di fronte
allʼ“eternità”: di fronte a quel MDlwøoVl “in eterno” che compete allʼopera di
Dio (3,14), mentre tutto quello che lʼuomo fa è lRbRh (cf. 1,1)40.

39. “Niente di nuovo sotto il sole” è un detto di solito frainteso (cf. nota 38), anche come
dichiarazione di impossibilità che accada qualsiasi cosa di nuovo nel mondo o, in base alla
supposta data di Qohelet, come critica della società ellenistica o dellʼattesa escatologica del
tempo; cf. Krüger, 119-120. Ha ragione Vílchez Líndez, 169: “En este contexto el horizonte
ideal del hombre es el de lo permanentemente estable, inmutable, como Dios”. Direi però
che il motivo di questo ideale non è che nellʼantichità “la categoría del cambio se identifica
con la de imperfección y, al contrario, la de la inmutabilidad con la de la perfección” (ibid.),
bensì che lʼordine che Qohelet delinea è quello di Dio.
40. La visione negativa della realtà di Qohelet non è mai assoluta (per cui non intitolerei la
pericope 2,13-2,26 “le assurdità della vita” come fa Sacchi, 130) ma deriva dalla coscienza
del limite umano di fronte allʼopera di Dio, come rileva ripetutamente Fischer, Die Auffor-
derung zur Lebensfreude. Direi però che la concezione del tempo adatto è unʼindicazione
positiva circa la stabilità e fedeltà del governo di Dio, non negativa come sostiene invece
Fischer: “Außerdem würde die Kenntnis der rechten Zeit keinen Vorteil bringen, da alles
«in der Zeit» geschieht und damit lRbRh ist und keinen Gewinn bringt” (p. 43). Mi pare che
il termine tEo non abbia mai connotazione negativa in Qohelet; ad esempio, per lui è male
morire prima del tempo fissato (cf. 7,17 ÔKR;tIo aølV;b), mentre è bene banchettare nel tempo
adatto (10,17 tEoD;b), non al mattino (10,16). Dʼaltra parte lʼopera della creazione è detta lRbRh
non in sé, dato che in sé essa è “in eterno”, ma quando viene considerata dal punto di vista
dellʼuomo e dei suoi limiti (cf. § 1.3).
48 A. NICCACCI

1.3. La creazione e la provvidenza

Il binomio “ha fatto (nel passato) // farà (nel futuro)” (3,11.14; § 1.2) sug-
gerisce lʼutilità di esaminare questa terminologia. La radice hvo “fare”,
come verbo e come sostantivo, è la più frequente in Qohelet (43x il verbo,
21x il sostantivo hRcSoAm “opera”), che è proprio un libro del fare. Siccome in
alcuni casi il verbo viene usato al passivo: hDcSoÅn “è stato fatto” (11x) o hRcDo´y
“verrà fatto” (1,9), si pone il problema se il soggetto sia Dio oppure lʼuo-
mo. È anche questo un mezzo per decifrare il mondo ideale del saggio.
Quando il sostantivo hRcSoAm, per lo più al singolare ma talvolta anche
al plurale, compare insieme al verbo hDcSoÅn, si riferisce a Dio in 1,13-14
(…wcSoÅ…nRv MyIcSoA;mAh_lD;k_tRa “[vidi] tutte le cose che sono state fatte”) a motivo di
1,15: “ciò che è storto non potrà mai diventare diritto…” (cf. 7,13, in cui Dio
viene esplicitamente nominato); così anche in 2,17, dato che “lʼopera che è
stata fatta sotto il sole” è la causa per cui Qohelet odia la vita; in 8,14: i giusti
vengono trattati come i malvagi (evidentemente da Dio); in 8,17: “vedevo
tutta lʼopera di Dio, / che (cioè) lʼuomo non potrà mai comprendere (ʻtrova-
reʼ) / lʼopera che è stata fatta sotto il sole”; lo stesso in 9,3 e in 9,6, perché
lʼopera viene specificata, rispettivamente, come “un caso unico è per tutti”, e
“(i morti) non hanno più una parte in eterno / in tutto quello che è stato fatto
sotto il sole”. Lʼopera si riferisce invece allʼuomo in 4,3 a motivo del legame
con 4,4, (“invidia di uno verso lʼaltro”); in 8,16 perché lʼespressione “sonno
con i suoi occhi non vede” dovrebbe indicare lʼattività dellʼuomo che si eser-
cita sullʼopera di Dio nominata in 8,17 sia in modo esplicito che implicito
(cf. sopra). Infine in 8,9 “lʼopera che è stata fatta sotto il sole” indica quella
dellʼuomo, in quanto subito dopo si nomina una forma di violenza tra esseri
umani; ma forse lʼespressione include anche lʼopera di Dio, cioè la sua prov-
videnza, in quanto Qohelet lamenta la mancanza di un giudizio immediato
sui malvagi, naturalmente da parte di Dio (8,11).
Ci sono poi dei casi in cui si allude esplicitamente allʼopera di Dio solo
con il verbo o con il sostantivo: “Tutto egli ha fatto bello a suo tempo” (3,11;
Dio è soggetto anche in 3,10); “tutto quello che Dio farà… / Dio ha agito
(così) affinché (gli uomini) abbiano timore di fronte a lui” (3,14); “Sia questa
che quello (= la sventura e il bene) ha fatto Dio” (7,14); “Dio ha fatto lʼessere
umano retto” (7,29); “non conoscerai mai lʼopera di Dio che farà il tutto”
(11,5), cioè il suo governo del mondo, la sua provvidenza, espressione paral-
lela a “poiché tu non sai quale [seme] riuscirà” quando semini (11,6).
Stando così le cose, sorprende che Qohelet usi una terminologia molto
dura nei confronti dellʼopera di Dio sia della creazione (al passato) che della
provvidenza (al futuro):
QOHELET 49

– Vidi tutte le cose che sono state fatte sotto il sole,


ed ecco, il tutto è vanità e andare dietro a vento (Aj…wr t…wo√r…w lRbRh) (1,14);
– E perciò odiavo la vita
perché era male per me (yAlDo oår) lʼopera
che è stata fatta sotto il sole,
poiché il tutto è vanità e andare dietro a vento (2,17);
– Cʼè una vanità che è stata fatta (hDcSoÅn rRvSa lRbRh_v‰y) sulla terra,
(cioè) che ci sono giusti
a cui tocca secondo lʼopera dei malvagi;
e ci sono malvagi
a cui tocca secondo lʼopera dei giusti.
Dissi che anche questo è vanità (8,14);
– Questo è male in tutto quello che è stato fatto (hDcSoÅn_rRvSa lOkV;b o∂r h‰z) sotto il sole,
che (cioè) cʼè un caso unico è per tutti;
e (di conseguenza) anche il cuore dei figli dellʼuomo è pieno di male
e la pazzia è nel loro cuore durante la loro vita;
e dopo di ciò (vanno) ai morti (9,3).

Cosa provoca una terminologia così dura? Dal suo esame della realtà
Qohelet conclude che lʼuomo non può raddrizzare ciò che ai suoi occhi è
storto (1,15); cʼè un destino unico per tutti (2,14-15), non cʼè ricordo del sag-
gio, il quale muore come lo stolto (2,16) e deve lasciare ad altri il frutto della
propria fatica (2,17-19); il principio della retribuzione (chi fa il bene avrà il
bene e viceversa) non sempre funziona (8,14); cʼè un destino unico per tutti:
gli uomini vivono con il cuore pieno di sofferenza, poi devono morire e così
non hanno più le gioie della vita e non vengono più ricordati (“non hanno
alcuna ricompensa / poiché il loro ricordo è stato dimenticato”) (9,3-5)41.
E ancora: come si conciliano quelle espressioni così dure sullʼopera
divina della creazione e della provvidenza con lʼaffermazione che “Dio ha
fatto tutto bello a suo tempo” (3,11)? Direi che la riflessione sui tempi (3,1-
8) è il tentativo più alto di delineare in termini umani il piano di Dio, la sua
provvidenza che guida le sorti dellʼumanità42. Lʼespressione “Dio ha fatto

41. Per avere un quadro completo delle cose che affliggono la riflessione del saggio e la vita
umana in generale bisognerebbe esaminare tutti i passi che vengono conclusi con lʼespres-
sione “è vanità e andare dietro a vento” (o simile), e anche i passi in cui si dice che lʼuomo
non potrà “trovare” lʼopera di Dio (3,11; 8,17) né “conoscerla” (11,5), che Dio agisce in
modo tale che lʼuomo non “trovi” il suo futuro” (7,14; cf. 3,22) né il passato (7,24).
42. Nei codici e nelle varie edizioni del testo questo brano famoso viene scritto in colonne
(così anche Gs 12,9-24 e Est 9,7-9, che sono liste), in modo tale che le 28 occorrenze di
tEo “tempo” si corrispondono. Sono elencate 28 attività, 14 positive (a) e 14 negative (b), 6
nellʼordine a-b e 8 nellʼordine b-a. Si pone il problema: opere di chi? dellʼuomo o di Dio?
Opere dellʼuomo, si intende abitualmente, ma almeno la prima coppia nascere-morire non
dipende dallʼuomo in via normale. E comunque nella mente di Qohelet il tEo “tempo” è
50 A. NICCACCI

tutto bello a suo tempo (wø;tIoV;b)” completa e qualifica quella con cui si apre il
catalogo dei tempi: “Per il tutto cʼè un momento / e un tempo (tEo◊w) per ogni
affare sotto il cielo” (3,1)43. Si tratta comunque del “bello” di Dio, non del-
lʼuomo, il quale non ha accesso al piano della creazione e della provvidenza,
non sa prevedere i tempi e quindi non comprende fino in fondo il senso delle
vicende umane44.
Da un lato, quelle espressioni dure sono formulazione della frustrazione
umana; dallʼaltro, dire che “Dio ha fatto tutto bello a suo tempo” significa
che lʼuomo deve fidarsi di lui, il quale è fedele e non capriccioso, pienamen-
te responsabile della sua creazione45. Se vogliamo comprendere il mondo

sempre saldamente nelle mani di Dio. Questo è il punto essenziale e perciò mi pare fuori
luogo interpretare la lista dei tempi come espressione di determinismo, pessimismo o mo-
notonia dellʼesistenza umana (cf. infra, § 2.2).
43. M. Gilbert, “Il concetto di tempo (to) in Qohelet e Ben Sira”, in: Bellia - Passaro
(edd.), Il libro del Qohelet, 69-89, discute le varie opinioni su come intendere il concetto
di “tempo” e illustra anche le somiglianze con Ben Sira. Per parte mia non accentuerei le
differenze affermando che lʼatteggiamento di Ben Sira è “radicalmente diverso da quello del
Qohelet, che riflette senza che Dio sia per lui vicino” (p. 89). Benché sia nascosto, Dio è
continuamente presente nella sua creazione e accompagna lʼuomo nella sua attività (cf. Qo
8,15 // 5,19; infra, § 2.5).
44. Si confronti il magnifico testo di Sir 39,12-35; cf. J. Marböck, “Kohelet und Sirach. Eine
vielschichtige Beziehung”, in: Schwienhorst-Schönberger (ed.), Das Buch Kohelet, 275-301,
spec. 286-291, e il mio saggio Siracide o Ecclesiastico. Scuola di vita per il popolo di Dio,
Cinisello Balsamo (Milano) 2000, 32.
45. P. Sacchi, “Il problema del tempo in Qohelet”, PSV 36 (1997) 73-83, è un articolo
istruttivo e stimolante, per quanto leggendolo mi sono venute alla mente alcune riserve.
Ad esempio, non mi pare che la concezione del tempo di Qohelet sia paragonabile a quella
dei filosofi greci (pp. 74-75). In realtà Qohelet si muove sulla linea del libro di Giobbe, ad
esempio quando Dio interroga il protagonista sui tempi giusti delle costellazioni (wø;tIoV;b, Gb
38,32), o sul tempo in cui partoriscono le capre (t®dRl tEo, 39,1-2), e anche sulla linea di Pro-
verbi, come quando il maestro loda “la parola a suo tempo (wø;tIoV;b)” (Pro 15,23). Né direi che
Qohelet “esula completamente dalla sua stessa tradizione” per il fatto che la sua religiosità
“non si fonda mai sul Dio che si rivelò al Sinai e sulla tradizione del suo popolo, che egli
conobbe certamente” (p. 75). Infatti tutto il movimento dei saggi, fino a Ben Sira e Baruc,
non si rifà per nulla al Dio del Sinai ma al Dio della creazione: questa è infatti la prospettiva
teologica caratteristica della sapienza biblica. Dʼaltra parte, quando Qohelet dichiara di ri-
cercare e riflettere “per mezzo della sapienza (hDmVkDjA;b)” (1,13) non intende affatto, non meno
degli altri saggi prima di lui, che “la sapienza” sia “una facoltà umana, quello che in una
lingua moderna si chiama «ragione»” (nota 2, pp. 75-76). Non penso neppure che, secondo
unʼinterpretazione condivisa anche da altri autori, per Qohelet “nella natura ci sono leggi
immutabili, cicliche” e che “il processo conoscitivo non può mai concludersi, perché lʼuomo
non può vivere oltre la morte per continuare le sue esperienze (1,8; 3,22)” (p. 78). No, le leg-
gi della natura non sono cicliche: immutabili sì, perché Dio è fedele a se stesso nel governo
del mondo; inoltre lʼuomo non solo non può percepire ciò che è oltre la morte, ma neppure
ciò di cui fa esperienza con i sensi; infatti non può e non potrà mai capire pienamente lʼope-
ra di Dio, il senso ultimo della creazione, che è la sapienza del Dio creatore: convinzione,
QOHELET 51

ideale di Qohelet, dobbiamo abituarci a convivere con le verità contrapposte,


anche con le contraddizioni: da una parte lʼesperienza negativa, dallʼaltra la
fede positiva. Poiché proprio dallo sforzo di tenere insieme le verità contrap-
poste dellʼesistenza umana nasce la soluzione che Qohelet propone (vedi in
particolare § 2.4).

1.4. Vita sulla terra e nellʼoltretomba

È opportuno accennare a questo argomento per il fatto che in 9,7-10 esso


è connesso con lʼinvito alla gioia46. La riflessione parte dalla constatazio-
ne che giusti e stolti hanno lo stesso destino sulla terra (9,1-3). Da ciò il
saggio trae una riflessione amara: “il cuore dei figli dellʼuomo è pieno
di male / e la pazzia è nel loro cuore durante la loro vita; / e dopo di ciò
(vanno) ai morti” (9,3). Si può discutere se i termini o∂r // twølElwøh “male //
pazzia” siano da intendere nel senso di cose moralmente deplorevoli o nel
senso che sembra più congeniale alla riflessione di Qohelet. Seguendo il
suo ragionamento risulta infatti che, senza escludere evidentemente il ri-
svolto morale, il “male” è anzitutto provare una pena esistenziale di fronte
agli inesplicabili misteri della vita, e “pazzia” è godere delle cose in modo
sconsiderato, senza interrogarsi sul senso della realtà47.
Qohelet afferma poi che è meglio per i figli dellʼuomo essere “scelti” per
essere insieme ai vivi48 piuttosto che andare dai morti, “poiché va meglio a
un cane vivo che al leone morto, / poiché i vivi sanno che moriranno / men-

anche questa, che egli condivide con tutti i saggi di Israele. Ciò non significa però che lʼuomo
non possa comprendere: Qohelet non è scettico, come non lo sono i saggi di Israele; ha piutto-
sto un senso profondo dei limiti dellʼuomo di fronte al Creatore provvidente che ha creato ed
è presente nel mondo. Questo senso del limite crea, certo, disagio, ma alla fine, se ben gestito
con il timore di Dio, permette di godere dei veri beni della vita (cf. infra, § 2.8).
46. Sulla prospettiva della sapienza in generale mi sia permesso di citare miei articoli di
anni fa: “Sulla vita futura nei Proverbi”, ED 34 (1981) 381-391; “La foi eschatologique
dʼIsraël à la lumière de quelques conceptions égyptiennes”, LA 33 (1983) 7-14; “La teologia
sapienziale nel quadro dellʼAntico Testamento. A proposito di alcuni studi recenti”, LA 34
(1984) 7-24.
47. Il significato moralmente neutro è preferibile anche per il fatto che Qohelet parla di
“figli dellʼuomo” (9,3) in generale, non specificamente di peccatori, anche se in questo caso
non nomina lʼaspetto positivo accanto alla pazzia (ricordiamo che il suo programma è tenere
insieme sapienza e pazzia/stoltezza, cf. § 1.1).
48. Il testo consonantico (ketiv) ha: Myˆ¥yAjAh_lD;k lRa rEjD;bˆy rRvSa yIm “chiunque sia scelto per
(essere con) tutti i viventi”, ma i Masoreti registrano una lettura diversa (qere): rA;bUj◊y “sia
unito (a tutti i viventi)”; cf. LXX o§ß koinwnei√ pro\ß pa¿ntaß tou\ß zw◊ntaß “colui che ha
parte con tutti i viventi”.
52 A. NICCACCI

tre i morti non sanno nulla / e non hanno alcuna ricompensa / poiché il loro
ricordo è stato dimenticato” (9,4-5). Il senso dovrebbe essere: il fatto che i
vivi sanno che moriranno li sprona ad approfittare del tempo concesso per
godere delle cose che Dio dà, secondo la proposta usuale di Qohelet. I morti
invece non sanno nulla: di che cosa? Forse: i morti, come tutti gli uomini,
non sanno nulla del futuro e inoltre non hanno più la possibilità di godere dei
beni della vita, e persino il loro ricordo è stato dimenticato. Il che significa
che i morti non hanno più neppure il bene che consiste nellʼessere presenti
presso le generazioni future attraverso la memoria. Di tutti infatti si perde
il ricordo, dei giusti come dei malvagi, persino di un benemerito della città
(9,1549; cf. 4,16).
Il confronto tra morti e vivi prosegue: “Sia il loro amore che il loro odio
/ e anche la loro invidia è già perita, / e non hanno più una parte in eterno / in
tutto quello che è stato fatto sotto il sole” (9,6). Il senso è: lʼamore e lʼodio,
cioè quello che si desidera o si detesta, cose che sfuggono al vivente stesso
perché sono nelle mani di Dio come le opere dei giusti e dei saggi (9,1: “né
amore né odio lʼuomo conosce”), dopo morte sono definitivamente perduti;
tutto quanto i morti hanno amato o odiato (= tutta la loro attività) è finito. In
altre parole, i morti non hanno più alcuna possibilità di avere la loro “parte”,
cioè di godere del frutto del loro lavoro, cosa che invece i vivi hanno (se Dio
vuole!).
A questo proposito alcuni dettagli richiamano lʼattenzione. Leggiamo
anzitutto alcuni accenni a un giudizio divino50:
– Il giusto e il malvagio giudicherà (fOÚpVvˆy) Dio,
poiché cʼè un tempo per ogni affare
e (giudizio) su ogni opera là (3,17; cf. § 2.2);
– (5) Chi osserva il comando non conoscerà (oåd´y aøl) niente di cattivo (o∂r rDb∂;d),
e tempo e giudizio (fDÚpVvIm…w tEo◊w = un giudizio a suo tempo) un cuore saggio conoscerà
(oåd´y),

49. A motivo della serie di weqatal che vi si trovano, 9,14-15 può riferirsi a un caso futuro
o descrivere dei casi passati. In effetti uno dei problemi che si incontrano con weqatal è che
esso si trova utilizzato sia in riferimento al futuro, nel qual caso si rende con il tempo futuro
e indica unʼinformazione singola, sia in riferimento al passato, nel qual caso si rende con
lʼimperfetto e indica unʼinformazione ripetuta o descrittiva. Poiché in 9,15 compare un qatal
negato, la seconda possibilità è da preferire. Perciò: “(9,14) Una città piccola, nella quale
erano pochi uomini, / se veniva (aDb…w) contro di loro un grande re e la assediava (bAbDs◊w) / e
costruiva (hÎnDb…w) contro di essa grandi fortificazioni, / (15) se si trovava (aDxDm…w) in essa un
uomo povero saggio, / salvava (fA;lIm…w) lui la città con la sua sapienza, / ma nessuno alla fine
ricordò (rAkÎz aøl) quellʼuomo povero”. Su questo passo difficile e anche su 4,16 cf. Gordis,
235-236 (4,16) e 301-302 (9,15).
50. I testi relativi sono stati esaminati recentemente da M. Maussion, Le mal, le bien et le
jugement de Dieu dans le livre di Qohélet, Fribourg - Göttingen 2003, 151-173.
QOHELET 53

(6) poiché (yI;k) per ogni affare cʼè un tempo e un giudizio,


poiché (yI;k) la cattiveria dellʼuomo (M∂dDaDh tAo∂r) è molta su di lui (= lʼuomo dal cuore sag-
gio),
(7) poiché (yI;k) egli non conosce (AoédOy …w…n‰nyEa) cosa avverrà,
poiché (yI;k) come avverrà chi glielo annuncerà (wøl dyˆ…gÅy yIm)? (8,5-7)51;
– Sii nella gioia, o giovane nella tua adolescenza…
E sappi che su tutto questo
Dio ti condurrà in giudizio (11,9; cf. § 2.7);
– Infatti ogni opera Dio
condurrà in giudizio,
(giudizio) su tutto quello che è nascosto
sia buono che cattivo (12,14; cf. supra, nota 33).

Ci sono poi affermazioni contrastanti riguardo allo “spirito” dellʼuomo:


– (19) Poiché un caso sono i figli dellʼuomo
e un caso la bestia,
e un caso unico li attende (ʻè per essiʼ);
come muore lʼuno così muore lʼaltro
e un unico spirito (dDjRa Aj…wr◊w) è per tutti
e vantaggio dellʼuomo sulla bestia non cʼè,
poiché tutto è vanità.
(20) Il tutto va a un luogo unico;
il tutto venne dalla polvere
e il tutto ritorna alla polvere.

51. Questi difficili versetti sono tra loro collegati: o∂r rDb∂;d del primo stico richiama M∂dDaDh tAo∂r
del quarto, oåd´y aøl del primo stico contrasta oåd´y del secondo, oédOy …w…n‰nyEa del quinto e wøl dyˆ…gÅy yIm
del sesto. Il problema maggiore è come intendere i quattro yI;k. Il senso della traduzione data so-
pra è il seguente: Chi osserva il comando del re (di questi infatti si parla nei versetti precedenti,
8,2-4, pace Maussion, Le mal, le bien et le jugement de Dieu dans le livre di Qohélet, 60.164-
166) non sperimenterà niente di cattivo (il che significa che cʼè giustizia per chi è leale);
anzi il saggio sa (per la fede ricevuta) che esiste un tempo per il giudizio di ogni atto; questa
convinzione sostiene il saggio quando è pesante per lui la vista del male che si fa nel mondo,
e tuttavia egli non conosce i tempi né i modi del giudizio (che restano sotto il controllo di
Dio). Unʼidea in parte simile compare in 5,7: “Qualora oppressione del povero / e privazione
di diritto e di giustizia / tu veda nello stato, / non ti meravigliare della cosa, / poiché uno che è
alto più di un alto veglia / e lʼAltissimo (MyIhOb◊g…w) (veglia) su ambedue”. Per lʼinterpretazione di
MyIhOb◊…g come plurale maiestatis, riferito cioè a Dio, si veda Delitzsch, 292-293, il quale giusta-
mente confronta un caso analogo di plurale: ÔKyRa√rwø;b “il tuo Creatore” (cf. infra, nota 118). Pace
Delitzsch, lʼinterpretazione che Dio sia al di sopra degli amministratori (dellʼimpero persiano,
come intendono alcuni) non contrasta con il contesto, almeno dal punto di vista di Qohelet e
della sapienza biblica in generale, per la quale il re e il suo governo, chiunque essi siano, sono
i tutori dellʼordine voluto da Dio (cf. von Rad, La sapienza in Israele, cap. V “Significato
delle regole per un comportamento sociale giusto”, 75-93; A. Niccacci, “Sfondo sapienziale
dellʼetica dei codici domestici neotestamentari”, in: L. Padovese [ed.], Atti del Simposio di
Tarso su S. Paolo Apostolo, Roma 1994, 45-72, spec. 50-51).
54 A. NICCACCI

(21) Chi sa, riguardo allo spirito dei figli dellʼuomo (M∂dDaDh y´nV;b Aj…wr),
se esso sale in alto,
e riguardo allo spirito della bestia (hDmEhV;bAh Aj…wr◊w),
se esso scende in basso alla terra? (3,19-21)52;
– Affinché la polvere (rDpDoRh bOvÎy◊w) ritorni alla terra comʼera (prima),
lo spirito invece ritorni (b…wvD;t Aj…wrDh◊w) a Dio che lʼha dato (12,7)53.

Riguardo al giudizio di Dio, il saggio crede fermamente che esso avverrà


sia per i giusti che per i malvagi; il tempo e il modo gli sfuggono, ma egli sa
che tutto è fissato dal Creatore e Signore della storia54. Noi lettori vorremmo
sapere se il giudizio è immaginato avvenire durante o dopo la vita sulla terra.
Qohelet non dà una risposta su questo; dice soltanto che il giudizio avverrà
nel futuro, per il motivo appunto che nessuno conosce i tempi di Dio durante
la vita sulla terra, meno ancora quelli dopo la morte. Per Qohelet lʼunico
ambito di cui si può avere conoscenza, pur nei limiti che si sperimentano, è
quello sulla terra. Un altro motivo, più generale, della mancata risposta circa

52. La traduzione “se esso sale… se esso scende” suppone che il h di hDlOoDh e di t®d®rO¥yAh
sia la particella interrogativa, mentre i Masoreti lo hanno vocalizzato come articolo (cf.
Delitzsch, 270-271; contrario Gordis, 228). Come articolo intese Ibn Ezra, il quale spiega:
“¿ quién es el que conoce entre los hombres la diferencia que existe entre el espíritu del
hombre y el espíritu del animal? Quiere decir que se da uno entre mil” (Gómez Aranda
[ed.], El comentario de Abraham Ibn Ezra, 59), in accordo con lʼesegesi giudaica tra-
dizionale (cf. Rosenberg, The Five Megilloth, 42). Ma è piuttosto chiaro che il contesto
richiede la particella interrogativa. Non se ne può concludere però che Qohelet neghi o
dubiti della differenza tra lʼuomo e la bestia, e che perciò questo passo contraddica 12,7
(cf. infra, nota 56). Il passo significa semplicemente che il dato della fede non è control-
labile dallʼuomo. Unʼespressione simile, in forma esplicita di fede, si trova in Pro 15,
24: hDÚfDm lwøaVÚvIm r…ws NAoAmVl lyI;kVcAmVl hDlVoAmVl Myˆ¥yAj jårOa “Un sentiero di vita verso lʼalto è per il
prudente, / al fine di allontanarsi dallo sheol in basso”.
53. Il weyiqtol bOvÎy◊w (12,7a) ha valore volitivo e indica scopo: “affinché (la polvere) ritorni”.
In questo weyiqtol si differenzia da weqatal che indica invece una conseguenza non voliti-
va: “e così…”, “e perciò…”; cf. Syntax of the Verb, §§ 61-65. Si noti il cambio di ordine
delle parole nei due stichi di 12,7, da verbo finito-soggetto (rDpDoRh bOvÎy◊w) a soggetto-verbo
finito (b…wvD;t Aj…wrDh◊w) che segnala una transizione temporale dal primo piano allo sfondo
per contrapporre la seconda affermazione alla prima: “affinché la polvere ritorni alla
terra… / lo spirito invece ritorni a Dio…”. In genere però i commentatori non fanno
alcuna distinzione tra le forme weqatal e weyiqtol che compaiono nel brano a partire da
12,3. Unʼidea simile a 12,7 si legge in Sal 104,29, Gb 34,14-15 e soprattutto in Sir 40,11:
Mwrm la Mwrm rvaw / bwvy Xra la Xram lk “tutto quello che è dalla terra, alla terra tornerà,
/ e quello che è dallʼalto, allʼalto”.
54. A.A. Fischer, “Kohelet und die frühe Apokalyptik. Eine Auslegung von Koh 3,16-21”,
in: Schoors (ed.), Qohelet in the Context of Wisdom, 339-356, ritiene che la fede nel giudizio
sia da attribuire al secondo epiloghista del libro di Qohelet e che perciò sia improbabile
lʼopinione di quelli che vedono nel passo indicato una polemica contro un contemporaneo
gruppo apocalittico. Invece Maussion, Le mal, le bien et le jugement de Dieu dans le livre
di Qohélet, 160-161, attribuisce tutto a Qohelet e ne mostra la coerenza.
QOHELET 55

i tempi del giudizio è che nella visione della Bibbia ebraica la sfera mondana
non è nettamente distinta da quella ultramondana, anche per quanto riguarda
la vita e la morte. A ciò si aggiunge il dato che la fede di Israele, non solo
nella sua componente sapienziale ma anche in quella “yahvistica” o della
storia della salvezza, presenta una concezione sommaria e poco sviluppata
dellʼaldilà55.
Un altro problema riguarda lo “spirito”, cioè il respiro che Dio soffiò nel
naso di Adamo dopo averlo modellato con la polvere della terra, per cui egli
divenne un essere vivente (Gen 2,7). Come interpretare le formulazioni, che
suonano contraddittorie, di 3,19-21 e di 12,7? Direi che, qui come altrove,
Qohelet presenta risposte doppie contrastanti (cf. § 1.3), in questo caso la ri-
sposta positiva della fede (12,7) e quella negativa dellʼesperienza (3,19-21):
negativa almeno nel senso che lʼuomo non ha la possibilità di controllare
direttamente il dato della fede56.
Tutto il ragionamento si sviluppa così nellʼambito della realtà presente, che
è straordinariamente rilevante, per il fatto che è opera di Dio, ma anche fonda-
mentalmente incomprensibile, ugualmente perché è opera di Dio. Non credo si

55. Il motivo essenziale della mancata riflessione sullʼaldilà è lʼopposizione polemica al-
lʼambiente vicino-orientale antico che concepiva la risurrezione come una partecipazione
del defunto alla sorte del dio che muore e risorge (Baal in ambiente cananeo, Osiride in
ambiente egiziano). La riflessione si concentrò invece sul rapporto con Dio in questa vita,
in particolare nello splendore del culto del Tempio. La vita oltre la morte restò piuttosto in
ombra ma non si può dire che fu negata. Non mancano infatti, sia nella corrente yahvistica
che in quella sapienziale, accenni alla convinzione che il rapporto con Dio Signore della
vita e della morte non poteva finire con la morte, anche se mancavano categorie per con-
cepirlo e linguaggio adatto per esprimerlo. Dʼaltra parte, in Egitto la fede sicura nella vita
oltre la morte non escludeva, anzi conviveva, con espressioni di lamento sui defunti e sulla
loro condizione. Ho discusso questi problemi in due saggi già citati, “Sulla vita futura nei
Proverbi” e “La foi eschatologique dʼIsraël”. Nel secondo (pp. 13-14) ho sintetizzato un
studio sui passi interessati di Proverbi che poi è stato pubblicato: V. Cottini, La vita futura
nel libro dei Proverbi, Jerusalem 1984. Il problema della mancanza di categorie adatte per
concepire ed esprimere la vita oltre la morte viene trattato in U. Kellermann, “Überwin-
dung des Todesgeschicks in der alttestamentlichen Frömmigkeit vor und neben dem Auf-
erstehungsglauben”, ZThK 73 (1976) 259-282, un articolo che non ho citato nei due saggi
nominati sopra: “Die dreifache Bildvariation [in Sal 73,23-26] für die gleiche Hoffnung
der postmortalen Jahwegemeinschaft zeigt, wie dem Beter deren Ende nach seinem Sterben
undenkbar erscheint. Dabei fehlen ihm noch Vorstellungen und Sprache, das Abstraktum der
postmortalem Jahwegemeinschaft konkret zu machen…” (p. 277).
56. Diversamente, Lohfink ritiene che il punto di vista di 3,21 sia “no doubt polemical”
rispetto alla fede espressa in 12,7 (p. 141), mentre per Murphy, 37, Qohelet risponde a
unʼimprecisata opinione contemporanea che affermava una certa differenza tra uomo e ani-
male quanto al destino finale. Dʼaltra parte per Krüger, 356, il fatto che la “polvere” torni
alla terra e lo “spirito” torni a Dio comporta che la morte segna la fine definitiva dellʼuomo;
per altri significa invece che egli inizia la sua esistenza ombratile nello sheol. Ora però il
fatto stesso che Qohelet ponga il problema se lo spirito dellʼuomo va in alto e quello della
56 A. NICCACCI

possa dire che Qohelet sia un materialista che nega quello che noi chiamiamo
la vita futura, né un “filosofo empirico” o un saggio “immanentista” critico
della tradizione israelitica57. Semplicemente egli si limita alla vita sulla terra,
perché questo è lʼunico oggetto possibile della sua riflessione. Oltre non va.
Non nega quello che è oltre; dice che nessuno sa e perciò la riflessione non ne
può trarre nulla di valido per lʼuomo. Questo credo si possa dire: saldamente
fondato comʼè in Dio che tutto può e tutto sa, lʼuomo deve essere aperto, pronto
a “guardare/osservare” (7,14) tutto ciò che Dio voglia fargli sperimentare (cf.
§ 2.4). Convinto sempre che Dio ha fatto una cosa e il suo opposto, il bene e il
male, uno di fronte allʼaltro, e che “tutto è bello a suo tempo” (3,11).
È notevole infine che a questa riflessione sui morti e sui vivi si agganci
un invito a godere (9,9-10; cf. § 2.6). Il legame non è casuale, dato che alla
fine viene richiamata la riflessione di partenza: infatti lʼespressione “poiché
non cʼè opera né calcolo né conoscenza nello sheol dove tu stai per andare”
(9,10b) si richiama a “e dopo di ciò (vanno) verso i morti” (9,3).

2. Proclamazioni e inviti alla gioia

Ciò che maggiormente continua a richiamare lʼattenzione degli studiosi


sono forse i passi sul godere in Qohelet. Colpisce il fatto che un saggio
che suona così pessimista abbia ben sette inviti alla gioia (2,24-26; 3,12-13;
5,17-19; 7,13-14; 8,15; 9,7-10; 11,7-12,7). In realtà non sono tutti inviti in
senso proprio: sono tali i passi con appello diretto e forme verbali voliti-

bestia va in basso vuol dire che il tornare a Dio non significa la fine di tutto, altrimenti
quel problema non avrebbe senso. Come non avrebbe senso ciò che precede: “come muore
lʼuno così muore lʼaltro / e un unico spirito è per tutti / e vantaggio dellʼuomo sulla bestia
non cʼè” (3,19). Alla luce di 12,7 (lo spirito ritorna a Dio) si deve dire che, almeno per la
fede, lʼuomo non muore come la bestia, che non ha un unico spirito con essa e perciò ha un
vantaggio. E comunque non sottoscriverei quello che afferma Lohfink, 15-16, che cioè lʼidea
di immortalità fu introdotta in Israele dalla Grecia (Platone) e che Qohelet reagisce contro
certe attese escatologiche che erano sorte a seguito di questa introduzione (cf. al riguardo
supra, nota 54), attese che mettevano in discussione la serietà della morte.
57. Cf. D. Michel, “Unter der Sonne. Zur Immanenz bei Qohelet”, in: Schoors (ed.), Qohelet
in the Context of Wisdom, 93-111. Unʼinterpretazione diversa della formula “sotto il sole” è
stata data sopra, §§ 1.2-1.3. Drastico M.A. Shields, “Ecclesiastes and the End of Wisdom”,
TynBul 50 (1999) 117-139: “it is clear that the wisdom of Qohelet has gone astray… and is
ultimately incompatible with the message of the remainder of the canon” (p. 139)” (!). Per
parte mia non vedo alcun motivo valido per ritenere che Qohelet sia critico della sapienza
tradizionale, dato che le sue idee di base (onnipotenza di Dio creatore, limiti della creatura,
dovere di ricercare la sapienza come compito primario dellʼesistenza, ruolo del timore di
Dio in questa ricerca, vantaggi della sapienza ecc.) sono comuni al movimento sapienziale
in sé (cf. supra, nota 21).
QOHELET 57

ve (imperativo, yiqtol iussivo), e cioè 7,13-14; 9,7-10; 11,7-12,7; gli altri


sono riflessioni o proclamazioni di gioia dato che utilizzano forme verbali
indicative58.
I passi saranno studiati nel contesto e interpretati di conseguenza. È con-
sigliabile infatti non prendere frasi singole, staccate dal contesto. Bisognerà
anche evitare di interpretare frettolosamente affermazioni, sia positive che
negative, come enunciati di fede dogmatica. Il libro di Qohelet è anzitutto il
risultato di una riflessione coscientemente contenuta entro i limiti della capa-
cità umana, anche se lʼautore si presenta come il massimo saggio di Israele,
sempre e comunque alla luce della fede.

2.1. Qo 2,24-26 (1˚ passo)

La prima proclamazione di gioia arriva piuttosto improvvisa in 2,24 senza


una propria introduzione grammaticale, cioè senza alcuna particella, con-
giunzione o simile che la governi:
2,24 hDtDv◊w lAkaø¥yRv M∂dDaD;b bwøf_NyEa Non cʼè meglio per lʼuomo che egli mangi e beva59
wølDmSoA;b bwøf wøvVpÅn_tRa hDa√rRh◊w e faccia godere alla sua anima il bene nella sua fatica.
yˆnDa yItyIa∂r hOz_MÅ…g Anche questo ho visto io:
ayIh MyIhølTaDh dÅ¥yIm yI;k che dalla mano di Dio viene ciò.

In base al contesto, la proclamazione di 2,24 è retta dal yI;k del versetto


precedente. Infatti lʼespressione di 2,20, yˆnSa yItwø;bAs◊w “e mi rivolgevo io”, regge
una sequenza di tre yI;k “poiché, infatti” (2,21.22.23) che motivano il proposi-

58. Alcuni studi recenti sullʼargomento sono: Whybray, “Qoheleth, Preacher of Joy”; N.
Lohfink, “Freu dich, Jüngling – doch nicht, weil du jung bist: Zum Formproblem im Schluss-
gedicht Kohelets (Koh 11,9-12,8)”, BibInt 3 (1995) 158-189; Fischer, Die Aufforderung zur
Lebensfreude, e “Qohelet and ʻHereticʼ Harpersʼ Songs”; Pahk, Il canto della gioia in Dio;
Anderson, “A Critique of the Standard Interpretations of the Joy Statements in Qoheleth”.
59. M∂dDaD;b bwøf_NyEa, letteralmente: “non cʼè bene nellʼuomo/tra gli uomini”, con bet della
persona, come in MD;b bwøf NyEa “non cʼè bene in/tra essi” (3,12), cioè “i figli dellʼuomo” (3,10).
Lʼespressione si trova anche con lamed della persona: M∂dDaDl bwøf_NyEa “non cʼè bene per lʼuo-
mo” (8,15). Nonostante una lieve differenza (cf. Delitzsch, 251-252.351: “There is nothing
better among men”, 2,24; “there is nothing better for a man”, 8,15), le due preposizioni
sono equivalenti (pace Schoors, “Lʼambiguità della gioia in Qohelet”, 277). Lʼazione che è,
o che non è, bene/meglio viene espressa in 2,24 con Rv + yiqtol (continuato da due weqatal).
Il parallelismo con M∂dDaDh jAmVcˆy rRvSaEm bwøf NyEa “non cʼè meglio che lʼuomo si rallegri” (3,22)
suggerisce che anche qui dovrebbe esserci un NIm: forse la mem finale di M∂dDaDl è scritta una
volta per due, oppure si dirà, con Delitzsch, 251-252, che la mem finale è caduta. In due
passi paralleli si trova una costruzione equivalente: “non cʼè bene” MIa yI;k + lamed e infinito
“se non che, più che” (3,22; 8,15).
58 A. NICCACCI

to di “far perdere ogni speranza al mio cuore60 / circa tutta la fatica / che ave-
vo faticato sotto il sole”, un proposito negativo che rovescia quello positivo
che ha messo in moto “la grande impresa” del saggio descritta in 1,12-2,1061,
e cioè: “Dissi io nel mio cuore: / Su vieni, voglio farti sperimentare la gioia /
perché tu goda il bene!” (2,1; cf. § 1.1).
Le tre considerazioni, ognuna introdotta da yI;k, che Qohelet enuncia allo
scopo di scoraggiare il proprio cuore così da interrompere la (o piuttosto,
porre un limite alla) ricerca, sono: poiché il saggio dovrà dare il frutto della
sua fatica a un altro che non vi ha faticato (2,21); per cui il saggio si chiede
quale sia il vantaggio dellʼuomo in tutta la sua fatica (2,22), dato che la sua
vita è stata tutta unʼoccupazione dolorosa (2,23). La terza considerazione si
conclude con il motto “anche questo è nientʼaltro che vanità” (2,23)62, come
la prima: “anche questo è vanità e male grande” (2,21).
Il fatto che la proclamazione di gioia faccia seguito alla terza motivazio-
ne di non senso senza unʼintroduzione propria e quindi in semplice coordi-
nazione, produce un forte contrasto: “Anche questo è nientʼaltro che vanità
≠ Non cʼè meglio per lʼuomo che egli mangi e beva / e faccia godere alla sua
anima il bene nella sua fatica” (2,23b ≠ 2,24).
È come se il saggio dicesse al suo proprio cuore: Non possiamo tirare
la corda oltre misura dato che tutta la vita dellʼuomo sulla terra è dolore e
fatica; alla fine lʼunico bene è godere. Non si tratta però di un godere pagano,
di un carpe diem, dato che il saggio osserva: “Anche questo ho visto io: /
che dalla mano di Dio viene ciò” (2,24). È perciò un godere che viene dalla
mano di Dio, suo dono, non strappato con violenza o con inganno a un dio
invidioso approfittando dellʼoccasione o della buona stella63. In che senso
questo avvenga sarà spiegato in 5,17-19 (cf. § 2.3).

60. yI;bIl_tRa vEaÅyVl: dalla radice vay, solo qui al piel “far perdere la speranza”; negli al-
tri 5 casi la radice appare al nifal vDawøn “essere senza speranza, desistere” (1 Sam 27,1;
Is 57,10; Ger 2,25; 18,12; Gb 6,26). In Sir 47,23 la radice viene detta di Salomone:
vawym hmlv bkvyw “Poi Salomone si addormentò deluso”. Si veda al riguardo il mio arti-
colo “La Lode dei Padri. Ben Sira tra passato e futuro”, in Fabris (ed.), Initium sapientiae,
199-225, spec. 212. Altre coincidenze tra Qohelet e Salomone vengono segnalate nelle
note 61 e 107.
61. La descrizione si ispira chiaramente alle opere di Salomone: costruzioni (1 Re 7,1-12;
9,15-22 = 2 Cr 8,3-6), luoghi di divertimento (1 Re 9,19; 1 Cr 27,27; cf. Ct 6,2.11-12) e
harem (1 Re 11,1-8); cf., ad es., Delitzsch, 235-237. Su 1,12-2,10 e sui versetti precedenti
si può consultare il mio saggio La casa della Sapienza, 86-91.
62. 2,23b: a…wh lRbRh h‰z_MÅ…g, letteralmente: “anche questo, vanità è esso”; cioè h‰z è casus
pendens (cf. nota 69).
63. Non parlerei perciò di “vanità ontologica della fatica”, né direi che lʼuomo deve “con-
tentarsi di ogni gioia che la vita possa offrirgli” (Sacchi, 134). Da un lato, non vedo nulla di
QOHELET 59

Ciò che segue è piuttosto misterioso sia per il senso che per il collega-
mento logico. Nonostante lʼopinione prevalente, io manterrei il suffisso di
prima persona di yˆ…nR;mIm e tradurrei: “Infatti chi potrebbe affrettarsi a man-
giare64 fuori di me?65 / Poiché allʼuomo che è buono davanti a lui / (Dio)
ha dato sapienza e conoscenza e gioia, / mentre al peccatore ha dato lʼoc-
cupazione di adunare e di raccogliere / (ma solo) per dare al buono davanti
a Dio” (2,26). Si potrebbe intendere: Godere della propria fatica è dono di
Dio (2,24); e chi potrebbe attestarlo meglio di me? Infatti Dio ha concesso
a un giusto come me sapienza e ogni gioia, a differenza del peccatore a cui
ha concesso di accumulare ma solo perché il frutto del suo lavoro passi a

ontologico nella riflessione di Qohelet; dallʼaltro è Dio, piuttosto che “la vita”, che concede
di godere. Per Qohelet il risultato della fatica è incerto, in quanto dipende da Dio e non dal-
lʼuomo; è sempre limitato nel tempo, come la vita umana, per cui non è saggio prolungare
lo sforzo oltre il limite giusto, quello cioè che lascia il tempo necessario per godere di ciò
che Dio concede giorno per giorno.
64. 2,25: yˆ…nR;mIm X…wj v…wjÎy yIm…w lAkaøy yIm yI;k. Un problema di 2,25 è il senso della radice vwj.
Secondo L. Koehler - W. Baumgartner, Hebräisches und aramäisches Lexikon zum Alten
Testament, vol. I, Leiden 1967, 287-288, sono attestate due radici vwj: I “affrettarsi”, II (rite-
nuto della lingua tardiva) “provare una sensazione”. Ora la sensazione può essere felice, nel
qual caso il senso del verbo è “godere”, come qui, dove esso è collegato a “mangiare”: “e
chi potrebbe mangiare e chi potrebbe godere?”; ma la sensazione può anche essere dolorosa,
come in Gb 20,2: yAÚpIoVc “miei pensieri” // yIv…wj “mia preoccupazione”. Unʼaltra possibilità
si presenta sulla base di Ab 1,8, in cui compaiono insieme gli stessi due verbi: lwøkTaRl vDj
“(come unʼaquila) veloce a mangiare”. Alla luce di questo testo, Qo 2,25a potrebbe essere
analizzato come unʼendiadi: v…wjÎy yIm…w lAkaøy yIm “chi mangerà e chi si affretterà?”, cioè: chi si
affretterà a mangiare? chi correrà veloce (e sicuro) a mangiare? Così infatti intende Rashi
(citato nella nota 65).
65. Lʼavverbio X…wj si costruisce di solito con lamed: “fuori di” (un luogo, uno spazio);
con NIm solo qui e Ne 13,8 (un poʼ diverso in 2 Re 4,3). Delitzsch, 252, come molti in-
terpreti, legge un suffisso di terza persona, invece che di prima, riferito a Dio: “we have
to read wnmm Xwj, after the LXX (which Jerome follows in his Comm.) and the Syr.”;
e traduce: “For who can eat, and who can have enjoyment, without [= except from]
Him?”. Conservando invece il suffisso di prima persona si ha, secondo lʼinterpretazione
di Rashi: “Who is fit to eat what I toiled for, and who will hasten to swallow it, except
me? [ydolbm holwbl rhmy ymw]” (Rosenberg, The Five Megilloth, 27-28). Murphy, 24, e
Maussion, Le mal, le bien et le jugement de Dieu dans le livre de Qohélet, 123, sono tra i
pochi interpreti che conservano il pronome di prima persona, traducendo, rispettivamente,
“For who can eat or rejoice, if not I?”, e “Car qui mange et qui se réjouit hors de moi?”.
Murphy annota giustamente: “This verse is to be understood in the light of the king fiction…
It reinforces the recommendation made about accepting the pleasures of life. The man who
surpassed all before him in Jerusalem can speak with authority about pleasures” (p. 26).
Da parte, sua Maussion interpreta il v. 26 non come glossa ma nel contesto e conclude: “Il
convient alors se réjouir dans lʼinstant des joies simples que Dieu donne; cependant, cette
relation de dépendance de lʼhomme par rapport à son Créateur nʼest pas vécue comme un
enfermement par Qohélet, mais comme la source dʼune reconnaissance gratifiante envers
Dieu dispensateur de tout bien” (p. 129).
60 A. NICCACCI

chi è giusto davanti a lui66. Il suffisso di prima persona suggerisce allora di


identificare Qohelet stesso con il giusto davanti a Dio. Dʼaltra parte egli, in
quanto “figlio di David, re di Gerusalemme”, o Salomone redivivo, ha la
capacità massima di raccogliere ogni genere di beni e di goderne (cf. § 1.1).
La sua esperienza è dunque massimamente esemplare sia per vastità che per
autenticità, in quanto è lʼesperienza di un re non solo ricchissimo ma anche
giusto e saggio davanti a Dio. Questo suggerisce, tra lʼaltro, che la “finzio-
ne regale”, per cui Qohelet si presenta come Salomone, è funzionale: ha
lo scopo di avanzare la propria esperienza come sommamente esemplare,
ineguagliabile, e quindi da prendere estremamente sul serio.

2.2. Qo 3,12-13 + 22 (2˚ passo)

Dopo il catalogo dei tempi (3,1-8; cf. § 1.3) risuona la domanda angoscian-
te del saggio: “Qual è lʼutilità di colui che fa / in quello che egli fatica?”
(3,9). Seguono, in risposta, due constatazioni introdotte rispettivamente da
yItyIa∂r (3,10) e da yItyIa∂r dwøo◊w (3,16).
La prima constatazione (3,10-15, con due parti parallele, 3,10-13 //
3,14-15, cf. supra, § 1.2) riguarda il compito affidato da Dio allʼuomo: “Vidi
lʼoccupazione / che Dio ha dato ai figli dellʼuomo / per occuparsi di essa”
(3,10). In che cosa consista tale occupazione si comprende da ciò che segue:
“Tutto egli ha fatto bello a suo tempo” (3,11). Si tratta dunque dellʼopera
della creazione e dei tempi che Dio ha stabilito per il suo governo del mondo
nella fase sia positiva che negativa secondo il catalogo di 3,1-8: “un tempo
per partorire/nascere e un tempo per morire…”.
Lʼinizio di 3,11, citato sopra, fa sorgere un sentimento positivo di fidu-
cia, molto diverso dalla dura formulazione di 1,13: “Ponevo il mio cuore /
a ricercare e a investigare con la sapienza / su tutto quello che è stato fatto
sotto il cielo: / ciò è unʼoccupazione dura (o∂r NÅy◊nIo) / che Dio ha dato ai figli
dellʼuomo / per occuparsi di essa”67. Ma ciò che segue precisa che la cono-

66. Un pensiero analogo si trova in Pro 13,22b: aEfwøj lyEj qyî;dA…xAl N…wpDx◊w “ed è conservata [da
Dio] per il giusto la ricchezza del peccatore”; e Sal 39,7: MDpVsOa_yIm oåd´y_aøl◊w rO;bVxˆy “(lʼuomo)
ammucchi pure (ricchezze), non saprà chi è colui che le raccoglierà”. Lo sforzo di Sacchi,
135-137, di interpretare Qo 2,26 in base al contesto è apprezzabile ma sembra non tener
conto di questo topos della sapienza israelitica.
67. 1,13b: wø;b twønSoAl M∂dDaDh y´nVbIl MyIhølTa NAtÎn o∂r NÅy◊nIo a…wh. Si noti il legame lessicale del sostan-
tivo NÎy◊nIo e del verbo hno. Il sostantivo compare 8 volte in Qohelet (cf. 2,23.26; 3,10; 4,8;
5,2.13; 8,16), mai altrove; è legato al verbo hno (qal) + bet “occuparsi di” (cf. 5,19 hifil
“tenere occupato”; 10,19 “rispondere a, soddisfare”).
QOHELET 61

scenza del tempo adatto è riservata a Dio e lʼuomo non vi potrà mai arrivare.
A motivo di unʼ“oscurità” che Dio gli ha posto nel cuore come segno del
limite della creatura umana, lʼuomo non riuscirà mai a comprendere il senso
ultimo, completo della creazione (3,11b; cf. supra, § 1.2). E la parte parallela
precisa che Dio ha agito così affinché lʼuomo abbia il suo timore (3,14): lo
riconosca cioè come il Creatore e Signore e lo rispetti.
In questo contesto è inserita la proclamazione di gioia: “Ho imparato che
non cʼè bene tra di essi / se non essere nella gioia / e fare il bene nella pro-
pria vita” (3,12). Unica via di uscita dalla situazione di disagio che lʼuomo
prova di fronte allʼincomprensibile opera di Dio, anzi positivamente lʼunico
bene per lui è godere le gioie della vita. Ma Qohelet aggiunge subito una
specificazione decisiva: “E anche (ho imparato che) ogni uomo che mangi
e beva / e goda il bene in tutta la sua fatica, / dono di Dio è questo” (3,13).
Come in 2,24 (“dalla mano di Dio viene ciò”), lʼidea è che il fatto stesso che
uno possa godere il frutto della propria fatica è un dono di Dio, dato che tale
godimento non è affatto scontato (cf. 5,17-19; 6,2-6).
Dal parallelismo con 3,14-15, la proclamazione di gioia di 3,12-13 trova
appoggio e fondamento solido nel modo costante con cui Dio governa il
mondo: “Ho imparato che tutto quello che Dio farà, / ciò sarà in eterno: / ad
esso non cʼè da aggiungere / e da esso non cʼè da togliere” (3,14). Abbiamo
già osservato infatti che lʼelenco dei tempi in 3,1-8 è un tentativo di cataloga-
re in termini umani il governo provvidente di Dio sulla storia umana (§ 1.3).
Le vicende sia positive che negative hanno origine da Dio, né potrebbe esse-
re diversamente dato che la fede non ammette un principio del male separato
dal principio del bene. Lʼuomo può elencare i fenomeni, catalogarli in modo
antitetico, uno positivo di fronte al negativo corrispondente, perché sa che
Dio è integro nella sua condotta, non si lascia corrompere: ripaga il male con
il male e il bene con il bene, anche se allʼuomo appare diversamente; e perciò
il suo modo di governare il mondo è costante, fedele: appunto, “ad esso non
cʼè da aggiungere / e da esso non cʼè da togliere” (3,14)68.

68. A. Vonach, “Gottes Souveränität anerkennen. Zum Verständnis der «Kanonformel» in


Koh 3,14”, in: Schoors (ed.), Qohelet in the Context of Wisdom, 391-397, mostra bene che la
formula “niente da aggiungere e niente da togliere” non si riferisce al problema della “cano-
nicità” di Qohelet ma è piuttosto unʼaffermazione di fede. Proclama la perfezione dellʼopera
di Dio e la sovranità del Creatore, il quale offre allʼuomo che ha il suo timore la possibi-
lità di una libera risposta nella vita quotidiana. In effetti lʼespressione “non cʼè niente da
aggiungere/togliere” si dice sia dellʼagire di Dio che della sua Parola, allo scopo sempre di
proclamarne la perfezione; cf. Dt 4,2; 13,1; Pro 30,6; Sir 18,6 greco (oujk e¶stin e˙lattw◊sai
oujde« prosqei√nai, leggermente diverso dalla LXX di Qo 3,14: oujk e¶stin prosqei√nai kai« aÓpΔ
aujtouv oujk e¶stin aÓfelei√n); 42,21; 43,27. Una posizione per certi versi estrema sullʼargo-
mento della canonicità è sostenuta da N. Lohfink, “Les épilogues du livre de Qohélet et les
débuts du canon”, in: R. Meynet - P. Bovati, Ouvrir les écritures. Mélanges offerts à Paul
62 A. NICCACCI

Diversamente dalla prima (3,10-15), la seconda constatazione è forte-


mente negativa: “E ancora vidi sotto il sole: / il luogo del giudizio, là cʼè
la malvagità, / e il luogo della giustizia, là cʼè la malvagità” (3,16)69, cioè
lʼingiustizia è presente persino nel tribunale. Veramente la fede assicura che
Dio ristabilirà la giustizia a suo tempo: “Dissi io nel mio cuore: / Il giusto e il
malvagio giudicherà Dio, / poiché cʼè un tempo per ogni affare (XRpEj_lDkVl tEo)
/ e (un giudizio) su ogni opera là (MDv hRcSoA;mAh_lD;k lAo◊w)” (3,17).
Questa traduzione richiede un piccolo commento. Il problema maggiore,
a parte il cambio di preposizione da Vl a lAo negli stichi (c-d)70, riguarda lʼinter-
pretazione di MDv alla fine di 3,1771. Dal punto di vista letterario direi che, da
un lato MDv richiama i due hD;mDv “là” di 3,16, e dallʼaltro 3,17 è parallelo a 8,6 e
a 12,14 (cf. supra, § 1.4), come mostra lo schema seguente:
Qo 3,16 / 8,6 / 12,14 cf. 3,17
– (3,16) (Vidi…) il luogo del GIUDIZIO (fDÚpVvI;mAh), (a) oDv∂rDh_tRa◊w qyî;dA…xAh_tRa
là (hD;mDv) cʼè la malvagità, (b) MyIhølTaDh fOÚpVvˆy
e il luogo della giustizia, Il giusto e il malvagio
là (hD;mDv) cʼè la malvagità . GIUDICHERÀ (fOÚpVvˆy) Dio,
– (8,6) fDÚpVvIm…w tEo v´y XRpEj_lDkVl (c) XRpEj_lDkVl tEo_yI;k
per ogni affare cʼè un TEMPO e GIUDIZIO. poiché cʼè un TEMPO per ogni affare
– (12,14) fDÚpVvImVb aIbÎy MyIhølTaDh hRcSoAm_lD;k_tRa yI;k (d) MDv hRcSoA;mAh_lD;k lAo◊w
Infatti ogni opera Dio condurrà in GIUDIZIO, e (un GIUDIZIO) su ogni opera là.
o∂r_MIa◊w bwøf_MIa MDlVo‰n_lD;k lAo
(GIUDIZIO) su tutto quello che è nascosto,
sia buono che cattivo.

Beauchamp à lʼoccasion de ses soixante-dix ans, Paris 1995, 77-96, il quale non solo ritiene
che 12,9-14 non faccia parte del libro originale, ma lo interpreta essenzialmente alla luce
del problema di stabilire un elenco dei libri di testo per la scuola del Tempio.
69. Troviamo due volte la medesima costruzione, con fDÚpVvI;mAh MwøqVm / q®dR…xAh MwøqVm…w “il luogo
del giudizio / il luogo della giustizia” che è casus pendens (detto anche elemento in extra-
posizione o topicalizzato) e funge da “protasi”(cioè da proposizione circostanziale posta
prima di quella principale), e oAv®rDh hD;mDv “là cʼera la malvagità” (elemento ripetuto con
piccola variazione vocalica) che è lʼ“apodosi” (o proposizione principale). Delitzsch, 265,
dichiara possibile questa analisi ma preferisce, nonostante gli accenti masoretici, analizzare
fDÚpVvI;mAh MwøqVm come oggetto del verbo “vidi”. Questa espressione è invece accusativo avver-
biale o di luogo per Seow, 166 (“in the place of justice”), e per Vílchez Líndez, 246 (“en el
lugar del derecho”), mentre per Murphy, 30, è un anacoluto (il che è un modo, credo, non
esatto di indicare il casus pendens; ma poi traduce anche lui “in the place for judgment”).
70. Per alcuni, come Delitzsch, 266, le due preposizioni sono equivalenti. Preferisco riferire
la preposizione lAo allʼidea espressa da “giudicherà Dio” (3,17c; cf. Qo 12,14 e Ger 2,35 per
la costruzione fpv + lAo della cosa su cui avviene il giudizio), e lʼespressione con lamed
(XRpEj_lDkVl) a “il giusto e il malvagio” (3,17b).
71. La LXX collega MDv al versetto seguente: e˙kei√ ei•pa e˙gw¿ “là ho detto io… (3,18), mentre
la Vulgata lo intende come avverbio di tempo: “et tempus omni rei tunc erit”.
QOHELET 63

Ritengo perciò che MDv di 3,17 abbia valore locale, “là”, e si riferisca al
luogo del giudizio presso Dio, cioè al tribunale celeste, in contrasto con i
due “là” di 3,16 che sono connessi con il luogo dellʼingiustizia, il tribunale
terreno72.
Ma il saggio non nasconde la sua dura riflessione al riguardo: Dio tiene
per sé i tempi del giudizio perché gli uomini comprendano che in sé essi
sono come gli animali (3,18); difatti un destino unico, la morte, attende sia
gli uni che gli altri (3,19-20), e nessun uomo potrà mai accertare quello che
la fede insegna: “riguardo allo spirito dei figli dellʼuomo, / se esso sale in
alto / e riguardo allo spirito della bestia, / se esso scende in basso alla terra”
(3,21)73.

72. Così Delitzsch, 266: “But if Mv is understood adverbially, it certainly has a local mean-
ing connected with it: there, viz., with God, apud Deum”; e anche Fischer, Die Aufforderung
zur Lebensfreude, 47. Una proposta differente, con semplice cambio di vocalizzazione (MEv
“nome” invece di MDv “là”), è stata avanzata da B. Chiesa, “Qohelet 3,17: osservazioni
sul testo”, RSLR 10 (1974) 245-250: “perché (cʼè) un tempo per ogni cosa/attività / e su
ogni azione un nome”, oppure “e per ogni azione (cʼè) un nome”. Lʼautore collega questa
lezione con 6,10: “ciò che è, già è stato chiamato il suo nome (wømVv)”. Egli ritiene giusta-
mente che lʼinterpretazione di MDv come designazione dellʼoltretomba sia esclusa. In effetti
lʼinterpretazione escatologica fu sostenuta da Ibn Ezra: “El significado de MDv (allí) es una
alegoría del mundo futuro” (Gómez Aranda [ed.], El comentario de Abraham Ibn Ezra al
libro del Eclesiastés, 56), mentre Rashi interpretò MDv in senso temporale come la Vulgata
(cf. supra, nota 71): “and for every deed that man did, they will judge him there when the
time of the visitation arrives; there at that time [toh wtwab Mv], a time [Nmz] is given for
every deed, to be judged for it” (Rosenberg, The Five Megilloth, 39; ebraico a p. 38). Si
noti che lʼinterpretazione che ho proposto sopra non implica il giudizio escatologico ma
piuttosto il giudizio che Dio fa delle azioni di tutti gli uomini sulla terra (cf. supra, § 1.4).
Così sembra intendere anche Maussion, Le mal, le bien et le jugement de Dieu dans le livre
de Qohélet, ad es. p. 173.
73. La tensione tra il dato positivo di fede (Dio giudicherà il giusto e il malvagio, 3,17) e
il dato negativo dellʼesperienza (Dio tiene per sé i tempi del giudizio; cʼè un destino unico
per tutti) è costitutiva nella dinamica del ragionamento di Qohelet. Non credo che si renda
giustizia al testo dicendo che 3,17 è citazione di unʼopinione di contenuto tradizionale
come fa, ad esempio, Fischer, Die Aufforderung zur Lebensfreude, 46. Fischer, da un lato,
giustamente riconosce che Qohelet non critica la sapienza antica di Israele, rappresentata da
Proverbi, ma piuttosto la “traditionelle Weisheit” che si esprime, ad esempio, nei discorsi
degli amici di Giobbe (ibid., 26-27); dallʼaltro, però, nel corso dellʼesposizione parla sem-
pre e solo di “traditionelle Weisheit”, criticata da Qohelet, per cui si ha lʼimpressione che
quella sia, in fondo, la sapienza israelitica tout court (cf. ad es., p. 107). Fischer inoltre non
si libera dalla concezione del cosiddetto “Tun-Ergehen-Zusammenhang”, cara agli esegeti
di lingua tedesca (cf. ad es., pp. 26-27; 46-47). Per parte mia direi che il legame tra atto
e conseguenza è sicuro per la sapienza di Israele di ogni tempo e non viene mai messo in
discussione, dato che Dio è giusto e non capriccioso. Quel legame non è però in nessun caso
automatico, neppure per lʼ“ottimistico” libro dei Proverbi, e quindi può non corrispondere
alle attese dellʼuomo, poiché Dio resta libero di modificarlo momentaneamente per un suo
scopo, sempre comunque per il bene ultimo dellʼuomo, anche se questi non lo comprende.
64 A. NICCACCI

Giunge qui una nuova proclamazione di gioia, che riprende e specifica


quella di 3,1274:
3,22 bwøf NyEa yI;k yItyIa∂r◊w Perciò vedevo75 che non cʼè bene
wyDcSoAmV;b M∂dDaDh jAmVcˆy rRvSaEm più che lʼuomo si rallegri delle sue opere76,
wøqVlRj a…wh_yI;k poiché questa è la sua parte;
twøa√rIl …w…nRayIb◊y yIm yI;k poiché chi lo porterà a vedere
wy∂rSjAa h‰yVhˆ¥yRv hRmV;b quello che sarà dopo di lui?

Non credo che si debba attribuire valenza dogmatica alle riflessioni di


3,18-21, come se Qohelet negasse ogni differenza tra uomo e animale e an-
che la vita dopo la morte. Credo piuttosto che quelle riflessioni esplicitino, in
modo certo impietoso, la mancanza di conoscenza da parte dellʼuomo circa
il futuro, compresa la sua condizione dopo la morte. Qohelet afferma che
le poche conoscenze che lʼuomo può acquisire con il suo lavoro/esperienza
sono limitate al presente e alla vita sulla terra (cf. § 1.4).
Come mostra lo schema che segue, le due proclamazioni (C1 = gioia
come dono di Dio, e C2 = gioia come parte dellʼuomo) compaiono allʼinterno
di uno svolgimento unitario in due parti, che comprende unʼosservazione di
partenza (A1 = positiva circa lʼopera di Dio, A2 = negativa circa lʼesperienza
umana) e una riflessione sullo scopo dellʼagire di Dio (B1 = perché non lo
conoscano / per mostrare che sono come bestie, B2 = perché lo temano)77.

In Giobbe lo scopo di Dio è liberare lʼuomo dallʼ“orgoglio” (Gb 33,17; cf. infra, § 2.8); in
Qohelet lo scopo è che lʼuomo non comprenda lʼopera di Dio e tema il suo Creatore (cf.
infra e § 2.4). Per questo non ritengo accettabile lʼopinione comune che vede in Giobbe e
in Qohelet delle composizioni critiche della sapienza antica. Sono semplicemente compo-
sizioni diverse, da Proverbi come anche da Siracide, per il fatto che trattano argomenti e
si rivolgono a un pubblico diverso, più maturo, e trattano argomenti specifici. Ma ciò non
significa che non ne condividano la posizione di base (cf. supra, nota 21).
74. Considero 3,22 insieme a 3,12-13 perché appartengono a una sezione unitaria (vedi
infra). Invece Whybray, “Qoheleth, the Preacher of Joy”, tratta a parte 3,22 come terzo
passo sulla gioia, mentre tralascia 7,13-14. Anche Fischer, Die Aufforderung zur Lebens-
freude, 49-50, tratta a parte 3,22 come terzo passo sulla gioia (egli lo definisce “dritte
Aufforderung zur Lebensfreude”, per quanto di per sé il testo sia una proclamazione, non
un invito). Fischer non conta 7,13-14, che per me è il terzo passo (§ 2.4), ma lo commenta
brevemente allʼinterno della sezione 6,10-8,17, dove compare 8,15 che per lui è il quinto
passo (il quarto è 5,17-19).
75. Per la funzione di weqatal in riferimento allʼasse del passato cf. supra, nota 26.
76. Cf. 2,24 (supra, nota 59).
77. Conclude giustamente Fischer, Die Aufforderung zur Lebensfreude, 44: “Aus diesen
Darlegungen ergeben sich die zwei Grundpfeiler der Lehre Kohelets: Lebensgenuß (3,12,
13) und Gottesfurcht (3,14b)”. Particolarmente importante lʼaffermazione che il timore di
Dio non è un elemento estraneo a Qohelet, aggiunto posteriormente, come ritengono vari
autori, ma costitutivo del suo pensiero (cf. infra, § 2.4).
QOHELET 65

Nella prima parte la proclamazione si trova nel mezzo dello svolgimento,


nella seconda parte si trova alla fine. Ecco lo schema:
A1) Occupazione umana – tutto Dio ha fatto bello a suo tempo (3,10-11a)
B1) Dio ha posto oscurità nel cuore degli uomini perché non conoscano (3,11b)
C1) Non cʼè bene se non godere = dono di Dio (3,12-13)
A1) Tutto è in eterno, non cʼè da togliere/aggiungere (3,14a)
B2) Dio ha agito così perché lo temano (3,14b)
A1) ciò che fu = è = sarà (3,15)

A2) Giustizia e ingiustizia (3,16)
A1) Dio farà giustizia a suo tempo (3,17)
B1) (Dio agisce così) per provare che gli uomini sono bestie (3,18-22)
C2) Non cʼè bene più che godere = sua parte (3,22).

2.3. Qo 5,17-19 (3˚ passo)

Cerchiamo di comprendere la composizione di 5,12-19 in cui è inserito il


terzo passo sulla gioia:
A) vRmDÚvAh tAjA;t yItyIa∂r hDlwøj hDo∂r v´y (12) Cʼè un male terribile che ho visto sotto il sole:
B) wøtDo∂rVl wyDlDoVbIl r…wmDv rRvOo ricchezza conservata per il suo padrone per il suo male;
o∂r NÅy◊nIoV;b a…whAh rRvOoDh dAbDa◊w (13) se quella ricchezza si perderà per un affare cattivo,
hDm…waVm wødÎyV;b NyEa◊w NE;b dyIlwøh◊w egli genererà un figlio che non avrà in mano nulla;
wø;mIa NRfR;bIm aDxÎy rRvSaA;k (14) come è uscito dal ventre della sua madre,
aD;bRvV;k tRkRlDl b…wvÎy MwørDo nudo di nuovo se ne andrà come è venuto
wølDmSoAb aDÚcˆy_aøl hDm…waVm…w e nulla prenderà della sua fatica
wødÎyV;b JKElO¥yRv che possa portare via nella sua mano.
A1) hDlwøj hDo∂r hOz_MÅg◊w (15) E anche questo è un male terribile:
B1) JKEl´y NE;k aD;bRv tA;mUo_lD;k esattamente come uno è venuto, così se ne andrà;
Aj…wrDl lOmSoÅ¥yRv wøl NwørVtˆ¥y_hAm…w e quale vantaggio avrà colui che faticherà per il vento?
lEkaøy JKRvOjA;b wyDmÎy_lD;k MÅ…g (16) Anche se per tutti i suoi giorni mangerà nel buio
PRx∂qÎw wøyVlDj◊w hE;b√rAh sAoDk◊w e si darà molta pena, (ecco viene) la sua malattia e ira!
A2) yˆnDa yItyIa∂r_rRvSa h´…nIh (17) Ecco quello che ho visto io:
twø;tVvIl◊w_lwøkRaRl hRpÎy_rRvSa bwøf è buono il fatto che è bello che (uno) mangi e beva78
B2) hDbwøf twøa√rIl◊w e goda il benessere

78. La singolare costruzione hRpÎy_rRvSa


bwøf ha un parallelo in Os 12,9: “E Efraim disse: / Ma
sono diventato ricco, ho trovato abbondanza per me; / tutti i miei sforzi non troveranno per
(o: contro di) me / malvagità che è peccato (aVfEj_rRvSa NOwDo)”. Delitzsch, 301-302, propone
unʼanalisi in parte diversa di Qo 5,17: modificando gli accenti masoretici unisce bwøf a ciò
che precede, per cui il secondo rRvSa risulta parallelo al primo: “Behold then what I have
seen as good, what as beautiful (is this): that one eat and drink”. Questa analisi è stata
66 A. NICCACCI

vRmRÚvAh_tAjA;t lOmSoÅ¥yRv wølDmSo_lDkV;b in tutta la sua fatica che faticherà sotto il sole
wD¥yAj_yEm◊y rAÚpVsIm nei pochi giorni della sua vita
MyIhølTaDh wøl_NAtÎn_rRvSa che il Signore gli ha dato,
wøqVlRj a…wh_yI;k poiché questa è la sua parte.
wøl_NAtÎn rRvSa M∂dDaDh_lD;k MÅ…g (18) Pure ogni uomo a cui Dio
MyIsDk◊n…w rRvOo MyIhølTaDh abbia dato ricchezza e tesori
…w…nR;mIm lOkTaRl wøfyIlVvIh◊w e gli conceda di mangiarne,
wølDmSoA;b AjOmVcIl◊w wøqVlRj_tRa taEcDl◊w di prendere la sua parte e di gioire della sua fatica:
ayIh MyIhølTa tA;tAm hOz dono di Dio è questo!
wyÎ¥yAj yEm◊y_tRa rO;k◊zˆy hE;b√rAh aøl yI;k (19) Infatti non ricorderà molto i giorni della sua vita,
h‰nSoAm MyIhølTaDh yI;k poiché il Signore (lo) tiene occupato
wø;bIl tAjVmIcV;b con la gioia del suo cuore79.

adottata da esegeti recenti, tra cui Murphy, 47, e Rose, Rien de nouveau, 371. Questʼultimo
autore nega che lʼespressione hRpÎy_rRvSa bwøf sia una specie di endiadi (nel senso di “the su-
preme good”), come ritengono alcuni. Né Murphy né Rose accettano che lʼespressione sia
un grecismo sul modello di kalo\ß kaÓgaqo/ß (cf. Braun, Kohelet und die frühhellenistische
Popularphilosophie, 54-55). In effetti non cʼè bisogno di ricorrere alla grecità per spiegare
la coppia bwøf / hRpÎy (cf. 1 Sam 16,12; 25,3; Ct 4,10; Est 2,7, detta però di persone); dʼaltra
parte il costrutto ebraico non sembra avere un corrispondente esatto nel greco, mentre lo ha
in Os 12,9 (cf. supra). Tornando a Qo 5,17, lʼanalisi suggerita dagli accenti masoretici è la
seguente: i due rRvSa rendono sostantive le proposizioni che reggono, e cioè rispettivamente
yˆnDa yItyIa∂r “quello che ho visto io” e lwøkRaRl hRpÎy “il fatto che è bello che (uno) mangi…”; a
loro volta, le due proposizioni sostantive fungono da soggetto, rispettivamente di h´…nIh e di
bwøf che fungono da predicato. Si hanno così due affermazioni, la seconda delle quali spe-
cifica la prima. Il senso è che la bellezza del mangiare, bere e godere il frutto della propria
fatica è uno dei “beni”, cioè dei valori positivi, che il saggio scopre nella vita (cf. § 2.4).
Una costruzione analoga, con verbo finito invece di lamed + infinito, si trova in 5,4, in cui
rRvSa regge uno yiqtol negato: rO;dIt_aøl rRvSa bwøf “bene/meglio che tu non faccia voti”, e in
7,18, in cui regge uno yiqtol positivo: h‰zD;b zOjTaR;t rRvSa bwøf “è bene che tu tenga questo”. In
ambedue i casi rRvSa + verbo finito fungono da soggetto di bwøf: “È buono il fatto che…”.
79. Oppure: “(gli) risponde con la gioia del suo cuore” (cf. nota 67). A motivo dellʼassenza
del pronome personale suffisso in h‰nSoAm, Delitzsch, 304, preferisce intendere: “God answers
to the joy of his heart, i.e. He assents to it, or… He corresponds to it”. Similmente Gordis,
246, il quale rifiuta la traduzione “God occupies him with the joy of his heart” con la moti-
vazione: “Koheleth regards joy not as a narcotic but as the fulfillment of the will of God”.
Ora è giustissimo che la gioia per Qohelet non è un narcotico, poiché la vita non è affatto
un male ma un bene positivo anche se limitato (cf. § 1.1, nota 14); ciò non toglie però che
attraverso la gioia Dio ricompensi la fatica dellʼuomo facendogli appunto godere il frutto
del suo lavoro. In questo senso la gioia “lo accompagnerà (…w…n‰wVlˆy) nella sua fatica / nei giorni
della sua vita che il Signore gli ha dato / sotto il sole” (8,15). Giustamente poi Gordis, ibid.,
giudica “far-fetched” la traduzione di h‰nSoAm come “reveals himself”, traduzione risalente a L.
Levy e ripresa da alcuni autori contemporanei, per ultima da Maussion, Le mal, le bien et
le jugement de Dieu dans le livre de Qohélet, 137-140. È da notare, comunque, che le varie
interpretazioni di h‰nSoAm hanno in comune il fatto che Dio ne risulta tuttʼaltro che lontano.
Come nota giustamente Maussion, “comment un Dieu qui sait donner à lʼhomme tout ce
quʼil lui faut pour être heureux, et de surcroît lʼincite à lʼêtre, pourrait-il rester lointain et
inaccessible?” (ibid., 140).
QOHELET 67

La considerazione positiva di 5,17 (A2): “è buono il fatto che è bello”,


contrasta la duplice considerazione negativa di 5,12 (A) e 5,15 (A1): “Cʼè
un male terribile che ho visto sotto il sole… / E anche questo è un male ter-
ribile”. Dopo queste enunciazioni generali segue la descrizione di due casi
penosi:
– B) La ricchezza di un uomo viene conservata (da Dio, si intende) ma
solo per la sua disgrazia, in quanto improvvisamente svanisce per un qualche
incidente crudele: ricordiamo la storia emblematica di Giobbe. A quel punto,
se quellʼuomo genererà un figlio, questi si troverà senza nulla; oppure, dato
che il soggetto è ambiguo: quellʼuomo non avrà nulla da dargli in eredità
(hDlSjÅn, cf. 7,11). La riflessione collegata, che cioè “come è uscito dal ventre
della madre, / nudo (MwørDo) di nuovo se ne andrà come è venuto”, non suona
pacificata come quella di Giobbe (Gb 1,21: “Nudo [MOrDo] sono uscito dal
ventre di mia madre / e nudo tornerò là. / Il Signore ha dato e il Signore ha
preso; / sia benedetto il nome del Signore!”) ma del tutto amara, dato che alla
fine quellʼuomo “nulla prenderà della sua fatica / che possa portare via nella
sua mano” (5,14).
– B1) Una frase simile a 5,14 risuona in 5,15: “esattamente come uno
è venuto, così se ne andrà”. Si tratta però di un uomo e di un caso diverso
dal precedente. Non si dice infatti che quellʼuomo abbia perso la sua ric-
chezza accumulata durante la vita; eppure anche il suo caso è penoso, in
quanto anchʼegli se ne andrà nudo come è venuto, anche se per tutta la vita
non faccia altro che faticare o, come dice il testo: “anche se per tutti i suoi
giorni mangerà nel buio” (5,16), cioè, sembra, la sera tardi, dopo una gior-
nata tutta dedita al lavoro, non “a suo tempo”, cioè a tempo debito, come
le persone perbene (10,17), e al contrario dei buontemponi che banchettano
“di mattina” (10,16). Si pone allora la domanda: “e quale vantaggio avrà
colui che faticherà per il vento?” (5,15); cioè, alla fine tutta la sua fatica è
vana come andare dietro a vento (secondo la formula frequente in Qohelet;
cf. § 1.1).
– B2) La proclamazione della gioia viene in risposta ai due casi penosi
appena delineati. Essa infatti presenta al positivo motivi che essi presen-
tano al negativo: “goda il benessere / in tutta la sua fatica che faticherà
(lOmSoÅ¥yRv wølDmSo_lDkV;b) sotto il sole” (5,17) e “(Dio) gli conceda di mangiarne, di
prendere la sua parte (wøqVlRj) e di gioire della sua fatica (wølDmSoA;b)” (5,18), in
risposta a: “nulla prenderà della sua fatica (wølDmSoAb) / che possa portare via
nella sua mano” (5,14), e “quale vantaggio avrà lui che faticherà (lOmSoÅ¥yRv)
per il vento?” (5,15). Il “vantaggio” che lʼuomo può ricavare dalla sua fatica
è godere dei beni della vita, beni che non sono soltanto il frutto della sua
fatica ma anche e soprattutto dono di Dio, in quanto sia i beni stessi che la
68 A. NICCACCI

possibilità di goderne vengono da lui. Sono nello stesso tempo “parte” (qRlEj)
dellʼuomo (5,17) e “dono di Dio (MyIhølTa tA;tAm)” (5,18)80.
Questa proclamazione della gioia si chiude con una considerazione che
suona dura, al punto che sembra vanificare la proclamazione stessa (5,19). In
realtà però il senso è che ricordare i giorni della propria vita, che sono pochi
(5,17; cf. 2,3; 6,12), recherebbe afflizione allʼuomo; da questo pensiero Dio
lo libera tenendolo occupato con la gioia che gli concede giorno per giorno.
Quella frase dunque non vanifica la proclamazione della gioia ma riflette
il procedimento abituale di Qohelet. Mentre elenca le pene della vita, egli
evidenzia ciò che vale realmente in quanto è ricompensa di Dio alla fatica
umana. Lo fa però senza mai dimenticare che tutto ha termine, che la vita è
fragile e va incontro alla morte.

2.4. Qo 7,13-14 (4˚ passo)

È il primo invito alla gioia, con imperativi, dato che finora abbiamo trovato
proclamazioni di gioia, con forme verbali indicative. Lʼinvito è preparato
da una serie di considerazioni su ciò che è bene per lʼuomo nella sua vita
sulla terra. La riflessione inizia in 6,10 con unʼaffermazione: “Quello che
fu, / già è stato pronunciato il suo nome / ed è noto cosa è un uomo; /
perciò egli non potrà mai disputare / con Colui che è più potente di lui”
(6,10). Ritorna una riflessione tipica di Qohelet, secondo cui tutto ciò che
è accaduto (come anche ciò che accade e ciò che accadrà, cf. 1,9; 3,15)
non è lasciato al caso ma fa parte di un piano di Dio ben determinato che
si dispiega lungo la storia dellʼumanità ripetendosi senza sosta (cf. § 1.2).
Di fronte a questa realtà si comprende che lʼuomo “non potrà mai disputare
con Colui che è più potente di lui”. Non potrà mai comprendere il piano
di Dio nella sua completezza, per quanto sia suo compito investigarlo allo

80. È molto diverso “il carpe diem dellʼempio” che si legge in Sap 2,6-9: “(6) Venite, dunque,
e godiamo dei beni presenti, / e usiamo delle creature con passione, come si fa in gioventù. /
(7) Saziamoci di vino prezioso e di profumi, / e non ci sfugga alcun fiore di primavera. / (8)
Coroniamoci di boccioli di rose, prima che appassiscano, / non vi sia prato che si salvi dalla
nostra dissolutezza. / (9) Dappertutto abbandoniamo i segni del nostro godimento, / poiché
tale è la nostra parte e tale la nostra eredità (o¢ti au¢th hJ meri«ß hJmw◊n kai« oJ klhvroß ou∞toß)”:
G. Scarpat, Libro della Sapienza. Testo, traduzione, introduzione e commento, Brescia 1989,
169. Chiaramente meri÷ß e klhvroß traducono la coppia qRlEj e hDlSjÅn che compare soprattutto nel
linguaggio del Deuteronomio (Dt 10,9; 12,12; 14,27.29; 18,1). Il termine hDlSjÅn compare in Qo
7,11, dove però viene tradotto dalla LXX klhrodosi÷a. Gli empi affermano che godere è loro
parte e loro eredità, ma non pensano affatto che sia dono di Dio! Come nota Scarpat, “i termini
rimandano ai testi sacri, volutamente richiamati e derisi dagli empi rinnegati” (ibid., 184).
QOHELET 69

scopo di trovare la via buona, veramente vantaggiosa, da percorrere in ac-


cordo con ciò che il Creatore gli concede momento per momento.
Di fronte alle “parole/cose in quantità che moltiplicano la vanità” il sag-
gio si chiede: “qual è il vantaggio per lʼuomo?” (6,11). Questa riflessione
richiama il detto iniziale: “nella molta sapienza cʼè molta pena / e se uno
vorrà aggiungere conoscenza, aggiungerà dolore” (1,18). Il che, come ab-
biamo detto sopra (§ 1.1), vuole inculcare non pessimismo né rassegnazione
ma una sana moderazione anche nellʼesperienza del saggio: non è bene porsi
domande senza fine, dato che lʼopera di Dio non sarà mai completamente
comprensibile allʼuomo, per cui la moderazione nella ricerca assicura tempo
e attenzione di spirito per discernere ciò che davvero ha valore per lʼuomo
nella sua vita, sempre alla luce dellʼagire di Dio.
La domanda sul “vantaggio per lʼuomo” (6,11) viene riformulata subito
dopo: “Infatti chi sa / cosa è bene (bwøf) per lʼuomo nella vita, / nei brevi gior-
ni della sua vita di vanità, / affinché egli li trascorra (ʻfacciaʼ) come unʼom-
bra (lE…xA;k MEcSoÅy◊w)?” (6,12). Tale formulazione aggiunge almeno un elemento
nuovo: lE…xA;k MEcSoÅy◊w. Essendo un weyiqtol, la forma verbale ha valore volitivo,
indica cioè lo scopo collegato a ciò che precede: “cosa è bene… / affinché
egli trascorra (i pochi anni della sua vita) come unʼombra”81.
A prima vista lʼimmagine “come unʼombra” suggerisce lʼidea di unʼesi-
stenza evanescente, inconsistente, insignificante (così, ad es., in 1 Cr 29,15).
Ma il senso di lEx che troviamo più avanti suggerisce unʼinterpretazione
diversa: “Buona è la sapienza con lʼeredità / e un vantaggio per quelli che
vedono il sole, / poiché vera ombra (lExV;b) è la sapienza / e vera ombra (lExV;b)
è lʼargento82, / ma il vantaggio della conoscenza / (è che) la sapienza farà
vivere i suoi padroni” (7,11-12).
Anche altrove nella Bibbia “ombra” non evoca unʼidea negativa, di de-
bolezza o vuoto, ma al contrario positiva, di rifugio e conforto nella vita sotto
il sole impietoso dʼOriente, come nel caso di Giona che, preso da angoscia

81. Sul valore volitivo di weyiqtol cf. supra, nota 53.


82. Nei due casi di lExV;b è presente il cosiddetto bet essentiae che introduce il predicato e che
possiamo rendere con “in quanto, come” (cf. Gesenius-Kautzsch-Cowley, §119i; Joüon-Mu-
raoka, § 133c). Esso ha perciò valore rafforzativo: PRsD;kAh lExV;b hDmVkDjAh lExV;b “come ombra è la
sapienza, come ombra è lʼargento”, e quindi, in ambedue i casi, “vera ombra è…”. Unʼespres-
sione analoga è attestata in ugaritico nel mito del palazzo di Baal (KTU 1.4 II 26-27, cf. G.
Del Olmo Lete, Mitos y leyendas de Canaan, Madrid 1981, 196), quando Baal e la sorella-
moglie Anat si recano da Ashera moglie di El per pregarla di intercedere presso il dio supre-
mo affinché permetta la costruzione di un palazzo per Baal, il dio giovane. I due portarono
regali ad Ashera, la quale “appena vide lʼombra dellʼargento (Ωl ksp)” si rallegrò e si dispose
ad ascoltare la richiesta dei due visitatori. Per le diverse opinioni su Qo 7,11-12 si possono
consultare Delitzsch, 320-321; Gordis, 263-264; e più recentemente Seow, 249-250.
70 A. NICCACCI

mortale, si sedette allʼombra della pianta che Dio stesso gli aveva provvedu-
to e se ne rallegrò molto (Gio 4,6), o come nel Sal 121,5 in cui si legge: “il
Signore è il tuo custode, / il Signore è la tua ombra (ÔKV;lIx)”.
In Qo 6,12 il senso è allora: chi sa cosa è bene per lʼuomo perché egli
possa trascorrere la sua vita al riparo da tutto ciò che viene detto “vanità /
e andare dietro a vento” (cf. supra, § 1.1, nota 31), o “faticare per il vento”
(5,15). Così si comprende meglio la funzione finale del weyiqtol, normal-
mente ignorata dagli interpreti, che traducono invece con una proposizione
relativa come se si trattasse di un weqatal (non volitivo): “che egli trascorre
come unʼombra”83.
Il senso positivo di “trascorrere (la vita) come lʼombra (= come al-
lʼombra, al riparo)” sembra confermato da unʼespressione simile in 8,13:
“Poiché io so pure / che i timorati di Dio avranno il bene / per il fatto che lo
temeranno, / mentre bene non avrà il malvagio / e non prolungherà i giorni
come lʼombra (lE…xA;k MyImÎy JKyîrSaÅy_aøl◊w), / per il fatto che non teme il Signore”
(8,12b-13)84.
La domanda “qual è il vantaggio? // chi sa cosa è bene?” (6,11-12) rice-
ve sei risposte, ognuna introdotta da bwøf, in un caso da hDbwøf, al femminile
(7,1.2.3.5.8.11)85. Le prime cinque risposte elencano i “beni” della vita me-
diante la formula ʻmeglio x di yʼ, cioè con bwøf e la preposizione NIm, mentre
la sesta usa una formula diversa, ʻbuona x con yʼ, cioè con hDbwøf + la prepo-
sizione MIo. Identificare in modo preciso i beni che vengono proposti non è
facile, anche perché talvolta sono nominati diversi soggetti che dovrebbero
avere un qualche denominatore comune.
La prima risposta suona (7,1): “Meglio un nome di un olio buono”,
con gioco di parole e assonanza in ebraico: bwøf NRmRÚvIm MEv bwøf. Lʼinnamorata

83. Ad es. Lohfink, 89: “… which one carries out like a shadow”.
84. M. Sneed, “A Note on Qoh 8,12b-13”, Bib 84 (2003) 412-416, rappresenta un lodevole
tentativo di spiegare il passo nel contesto della pericope e del libro senza ricorrere allʼipotesi
di una citazione implicita. Egli però non vede il senso positivo dellʼespressione “come lʼom-
bra” e inoltre stabilisce una distinzione impropria fra timore di Dio, da un lato, e giustizia
e sapienza, dallʼaltro: “God-fearing, then, according to Qohelet, is a superior alternative to
the traditional notions of righteousness and wisdom” (p. 415), distinzione che egli ritiene
di aver dimostrato nel suo articolo “(Dis)closure in Qohelet: Qohelet Deconstructed”, JSOT
27 (2002) 115-126.
85. Unʼanalisi dettagliata della pericope 7,1-14, staccata però da 6,10-12 che sarebbe una
“unità di transizione”, si trova in F. Bianchi, “«Un fantasma al banchetto della sapienza»?
Qohelet e il libro dei Proverbi a confronto”, in: Bellia - Passaro (edd.), Il libro del Qohelet,
40-68. Giustamente lʼautore dà una risposta negativa alla domanda provocatoria del titolo.
Non condivido però lʼidea che Qohelet intenda reagire contro la teologizzazione della sa-
pienza presente in Pro 1-9 e contro lʼottimismo della sapienza più antica (cf. supra, § 1.1,
nota 21).
QOHELET 71

del Cantico dei cantici usa una fraseologia simile nei confronti del suo
innamorato:
MyIbwøf ÔKy‰nDmVv AjyérVl Quanto al profumo, i tuoi oli sono buoni,
ÔKRmVv qår…w;t NRmRv olio di Turak è il tuo nome (Ct 1,3).

Inebriata dal desiderio, la ragazza proclama che il nome stesso di lui è


come un profumo della migliore marca. Da parte sua, Qohelet afferma che
un buon nome è migliore del migliore dei profumi, perché il buon nome dura
e costituisce la memoria della persona (per quanto il saggio lamenti che il
ricordo dura poco: 9,5.15; cf. § 1.4).
Al buon nome viene associato un soggetto quantomeno inatteso: “e il
giorno della morte (è meglio) del giorno di quando uno è generato” (Qo 7,1).
Lʼaffermazione sulla preferenza da accordare al giorno della morte rispetto
al giorno della nascita viene seguito da una serie di segno analogo. Ne risulta
una lista di affermazioni che è necessario interpretare: meglio andare in una
casa dove si fa lutto che in una in cui si banchetta (7,2); meglio la preoccupa-
zione per qualche problema del riso spensierato (7,3); meglio il rimprovero
del saggio del canto frivolo degli stolti (7,5); meglio la fine di una cosa del
suo principio, anche perché il portare a termine unʼimpresa richiede pazienza
e calma (7,8).
Alcune di queste affermazioni suonano paradossali e il saggio le spiega.
Una delle sue preoccupazioni maggiori è inculcare la serietà della vita, la
riflessione ed evitare la superficialità del comportamento, il darsi alla pazza
gioia. E infatti il comune denominatore dei vari argomenti è ciò che è bene,
anzi meglio, per lʼuomo sulla terra. Si comprende così che il buon nome sia
detto preferibile al miglior profumo, cioè che lasciare un buon ricordo dopo
una vita utile agli altri sia meglio di vivere in continua festa. Si comprende
anche lʼassociazione del buon nome con il giorno della morte. La morte
rappresenta la fine della “vanità” della vita, della fatica stressante, mentre
la nascita ne costituisce lʼinizio (7,1); partecipare al lutto è unʼoccasione
per riflettere su quella che “è la fine di ogni uomo / e il vivo la porrà nel
suo cuore” (7,2), e così è unʼopportunità per diventare saggio (7,4); in altre
parole, la tristezza del volto di fronte alla morte porta, alla fine, la gioia
del cuore, perché invita a scegliere i veri valori della vita (7,3); parimenti
è più utile il rimprovero del saggio del riso degli stolti, il quale può essere
accompagnato da regali allo scopo di far commettere unʼingiustizia contro
lʼinnocente (7,7).
A differenza delle precedenti lʼultima affermazione: meglio la fine di
una cosa del suo principio (7,8), sembra ovvia; ma il saggio collega ad essa
due piccole ammonizioni che mettono in guardia, la prima dallʼimpazienza
72 A. NICCACCI

e dallʼira: “Non essere veloce nel tuo spirito ad adirarti, / poiché lʼira nel
seno degli stolti albergherà” (7,9), la seconda, dallʼinutile lode del passato,
dallʼessere un laudator temporis acti: “Non dire: Comʼè stato / che i giorni
precedenti / furono migliori di questi?, / poiché non è con sapienza che hai
posto questa domanda” (7,10). Dire meglio la fine di una cosa del suo prin-
cipio è perciò un invito a guardare in avanti piuttosto che indietro e a vivere
con pazienza e mitezza.
Come indicato sopra, la sesta affermazione di valore è diversa dalle altre
in quanto non segue, almeno allʼinizio, uno schema che esclude: “meglio
x di y”, ma piuttosto uno che include: “buono x con y”. Essa rappresenta
così il culmine della riflessione: “Buona è la sapienza con lʼeredità86 / e un
vantaggio per quelli che vedono il sole, / poiché vera ombra è la sapienza
/ e vera ombra è lʼargento, / ma il vantaggio della conoscenza / (è che) la
sapienza farà vivere i suoi padroni” (7,11-12; cf. supra). In fondo, dunque,
Qohelet stabilisce anche qui un confronto: buona la sapienza con lʼeredità,
ma comunque migliore la sapienza.
Che la sapienza sia “buona”, cioè che sia un bene reale nella vita e porti
vantaggio vero allʼuomo, è insegnamento tradizionale che Qohelet condivide
e riafferma più volte: “La sapienza darà forza al saggio (MDkDjRl zOoD;t hDmVkDjAh) /
più di dieci uomini forti (MyIfyI;lAv) / che siano stati nella città” (7,19); “Chi è
come il saggio / e chi conosce lʼinterpretazione delle cose?” (8,1).
Sapienza con eredità è “un vantaggio (rEtOy◊w) per quelli che vedono il sole”
(7,11), cioè che godono il sole secondo il senso positivo del verbo har (con o
senza la preposizione bet) frequente in Qohelet87; ma forse anche che soffrono
nella loro fatica sotto il sole impietoso dʼOriente. In questo modo si apprezza
meglio il contrasto con “ombra” che segue: “nellʼombra”, o “vera ombra”,
cioè riparo, rifugio sicuro nelle difficoltà sono sia la sapienza che il denaro.
“Ma il vantaggio (NwørVtˆy◊w) della conoscenza / (è che) la sapienza farà vi-
vere (h‰¥yAjV;t) i suoi padroni” (7,12), cioè quelli che la possiedono, la coltivano
(cf. lʼaffermazione riguardante il malvagio in 8,13, supra). Il verbo hyj al
piel significa ridare la vita o conservare in vita. Tale ambiguità di senso è
frequente, ad es. in Sal 119,25 (cf. 71,20), a proposito di cui gli autori di-

86. Il termine “eredità” (hDlSjÅn) non si riferisce qui alla Terra promessa ai Padri. Del resto
non si parla mai di Israele popolo eletto, della liberazione dallʼEgitto, del dono della Legge
e della storia della salvezza né in Qohelet né in alcuno dei saggi fino a Ben Sira (III-II sec.
a.C.). Il nostro passo si riferisce allʼeredità familiare: quella di cui si legge altrove che il
padre che abbia perso i beni accumulati durante la vita non potrà dare nulla a suo figlio
(5,13; cf. § 2.3).
87. Cf. 11,7: “Dolce è la luce / ed è bene per gli occhi vedere il sole (vRmDÚvAh_tRa twøa√rIl)”,
e supra, nota 24.
QOHELET 73

scutono se si affermi la vita dopo la morte o semplicemente il mantenere in


vita fino al termine stabilito da Dio e non “morire anzitempo” (Qo 7,17). In
Pro 3,18 si afferma che la sapienza è “lʼalbero della vita (Myˆ¥yAj_XEo) per quelli
che lʼabbracciano, / e quelli che la tengono sono beati”. Considerato lʼinsie-
me della visione di Qohelet non mi sembra che egli affermi che la sapienza
conceda vita eterna; penso che affermi più semplicemente che essa concede
una vita serena e feconda per tutto il tempo che Dio dona a ciascuno, mentre
della stoltezza si dice che fa morire anzitempo (Qo 7,17). Non mi sembra
neppure che Qohelet neghi la vita oltre la morte; piuttosto, la sua riflessione
si concentra, come al solito (§ 1.4), sulla vita sulla terra, sul modo di viverla
con frutto alla luce di Dio.
Lʼinvito vero e proprio alla gioia si trova in 7,14:
bwøfVb h´yTh hDbwøf MwøyV;b Nel giorno del benessere sii nel bene
hEa√r hDo∂r MwøyVb…w e nel giorno della sventura osserva.
MyIhølTaDh hDcDo h‰z_tA;mUoVl h‰z_tRa MÅ…g Sia questa che quello ha fatto Dio
M∂dDaDh aDxVmˆy aø;lRv tårVbî;d_lAo allo scopo che lʼuomo non comprenda (ʻtroviʼ)
hDm…waVm wy∂rSjAa niente dopo di sé (= del suo futuro).

Notiamo che qui gli inviti sono due: uno per il tempo della gioia, lʼaltro
per il tempo del dolore. Lʼinvito a godere non è dato cioè in modo assoluto,
come ad es. in 9,7-10 (§ 2.6), ma legato al tempo adatto. È una particolarità
di questo passo che non compare altrove in Qohelet.
Un simile invito a vivere in accordo con i tempi e le occasioni si legge
in Sir 14:
(11) Figlio mio, se hai la possibilità, servi la tua anima (Kvpn twErv),
e se hai la possibilità, faʼ il bene a te stesso (Kl byfyh),
e per quanto puoi, diventa grasso
(greco: e presenta al Signore le offerte in modo degno).
(12) Ricordati che nello sheol non cʼè godimento
(manca nel greco)
e la morte non tarderà
e il decreto degli inferi non ti è stato rivelato…
(14) Non privarti di un giorno felice (Mwy tbwfm)…
(17) Ogni carne invecchierà come un abito,
infatti la legge è da sempre: Certo si morirà!

Questa somiglianza di Siracide, un saggio considerato ottimista, con Qohe-


let sorprenderà chi ritiene questʼultimo un saggio pessimista88. Effettivamente

88. In ciò che segue riprendo in parte quello che ho scritto nel mio saggio Siracide o
Ecclesiastico, 33-34. Da parte sua, M. Gilbert, “Qohelet et Ben Sira”, in: Schoors (ed.),
74 A. NICCACCI

Ben Sira è il saggio della gioia, gioia che è godimento delle opere di Dio viven-
do alla luce del suo sguardo, in rendimento di grazie a lui e in piena armonia
con il creato e con la società. Ciò che Siracide, non diversamente da Qohelet,
vuol far comprendere è la straordinaria ricchezza, bellezza e bontà della vita: di
questa vita nel mondo, dono di Dio, con tutto ciò che essa comporta, famiglia,
onore nella società, lunga vita, prosperità, benevolenza del Signore.
Per comprendere la portata di questa concezione dobbiamo liberarci del-
la nostra mentalità un poʼ dualista, che distingue nettamente lo spirituale dal
materiale, questa vita da quella futura, lʼanima dal corpo e così via. In buona
parte questa mentalità ci deriva dalla filosofia greca piuttosto che dallʼAT.
LʼAT non conosce distinzioni nette; ciò che è materiale non è negativo ma è
dono di Dio come ciò che è spirituale; e la benevolenza di Dio si manifesta
concretamente nei beni della vita. Ecco da dove proviene il grande valore
della vita sulla terra; per questo motivo la morte, soprattutto quando avviene
anzi tempo, è ritenuta una sciagura da Siracide come da Qohelet.
Non possiamo chiamare materialistica questa concezione della vita e
della morte, tutta centrata comʼè in Dio. Né dovremmo concludere frettolo-
samente che neghi la dimensione escatologica. Come abbiamo già mostrato
(§ 1.4), è soprattutto una questione di linguaggio. Il problema deriva dalla vi-
sione globale dellʼessere umano e della vita, a cui abbiamo accennato sopra, e
anche dallʼoggettiva difficoltà di riflettere su uno stadio dellʼesistenza, quello
ultra mondano, che sorpassava lʼesperienza del pio e del saggio di Israele. Per
lʼisraelita la vita era vita e basta; le specificazioni “terrena” e “ultraterrena”
non si distinguevano nettamente; la vita sulla terra era già vita con Dio, quasi
unʼanticipazione della vita beata; così come la malattia era come unʼanticipa-
zione della morte (cf. i Salmi detti di lamentazione, ad es. 18,6; 88,4; 116,3).
Anche da questo punto di vista, non possiamo ritenere Qohelet tout court
un epicureo o un nichilista a motivo del suo invito ripetuto a godere la vita
prima che venga la vecchiaia e la morte. La somiglianza con Ben Sira non
consente di ritenerlo a cuor leggero. Anche per lui, come per Qohelet, la
gioia è una componente essenziale, quasi un sinonimo della vita, al punto che
è preferibile la morte a una vita amara (Sir 30,17).

Qohelet in the Context of Wisdom, 161-179, ha inteso mostrare che Qohelet non ha influi-
to su Ben Sira negli inviti a godere le gioie della vita, in particolare in Sir 14,11-19. Ho
qualche riserva sulla sua conclusione che lʼinvito di Qohelet derivi “de lʼobservation des
absurdités de lʼexistence et de la société” mentre in Ben Sira “ne porte pas sur le monde
et lʼexistence humaine un regard critique et désabusé. Son message positif en tout cas nʼen
est pas la conséquence comme chez Qohelet” (p. 176). Il motivo è che in ognuno dei passi
sulla gioia di Qohelet le riflessioni negative non compaiono da sole ma sono accompagnate
da riflessioni positive (cf. § 2.8).
QOHELET 75

“Sia questa che quello ha fatto Dio” (Qo 7,14b): lʼidea che Dio ha creato
sia il bene che il male, uno di fronte allʼaltro, si ritrova Sir 33,14-1589:
bwf [or jkwn] (14) Di fronte al male cʼè il bene,
twm Myyj jkwnw di fronte alla morte la vita;
ovr bwf vya jkwn così di fronte al pio il peccatore
[Kv]j rwah jkwnw e di fronte alla luce [le te]nebre. (manca nel greco)
la hcom lk la fbh (15) Considera perciò tutta lʼopera dellʼAltissimo:
(greco: E così ho considerato tutte le opere dellʼAltissimo)
[hz] tmwol hz Mynv Mynv Mlwk tutte sono a due a due, lʼuna di fronte allʼaltra.

Cʼè dunque un tempo per la gioia e un tempo per il dolore; bisogna


accogliere il primo e godere, come Qohelet ha già proclamato nei tre passi
esaminati in precedenza. Ma cosa bisogna fare nel tempo del dolore? Questo
non è detto altrove. Il testo dice solo hEa√r “vedi!”, un verbo che assume
sensi differenti nei vari contesti: dal semplice “vedere” al guardare con
soddisfazione qualcosa di bello e quindi “godere” (cf. supra, nota 24). Qui
lʼoggetto del vedere non è nominato ma nel versetto precedente si legge:
MyIhølTaDh hEcSoAm_tRa hEa√r “osserva lʼopera di Dio!”, con la motivazione: “poiché
chi potrà mai raddrizzare / quello che egli ha fatto storto?” (7,13).
Questo passo richiama una frase programmatica dellʼinizio (1,14-15):
7,13 1,14-15
MyIhølTaDh hEcSoAm_tRa hEa√r vRmDÚvAh tAjA;t …wcSoÅ…nRv MyIcSoA;mAh_lD;k_tRa yItyIa∂r
Osserva lʼopera di Dio, (14) Vidi tutte le cose che sono state fatte sotto il sole,
Né;qAtVl lAk…wy yIm yI;k Aj…wr t…wo√r…w lRbRh lO;kAh h´…nIh◊w
poiché chi potrà raddrizzare ed ecco, il tutto è vanità e andare dietro a vento.
wøt◊…wIo rRvSa tEa NOqVtIl lAk…wy_aøl tÎ…wUoVm
quello che egli ha fatto storto? (15) Ciò che è storto non potrà mai diventare diritto.

89. Si veda, ad esempio, lʼanalisi di Marböck, “Kohelet und Sirach”, 279-281. Maussion,
Le mal, le bien et le jugement de Dieu dans le livre de Qohélet, imposta giustamente la sua
ricerca delineando i due poli del ragionamento di Qohelet: il bene e il male. Afferma, ancora
giustamente, che nella sua riflessione sui mali dellʼuomo il saggio non giudica mai lʼagire di
Dio, anzi lo considera bello (pp. 69-70). Ho però qualche riserva circa la sua conclusione:
“Dieu nʼest donc pas, pour Qohélet, le créateur du mal, pas plus quʼil nʼen est le donateur.
Ce constat entre alors en opposition avec la pensée de Job ou du Deutéro-Isaïe, pour qui Dieu
est le créateur de toute chose (la lumière / les ténèbres, Is 45,7), et donc lʼauteur du bien mais
aussi du mal (Jb 2,10; 42,11)” (p. 70). Maussion non si domanda da dove venga allora il male,
né sembra tener conto dellʼaffermazione di 7,14 che Dio ha fatto sia il bene che il male nella
sua analisi del passo (pp. 51-53). Bene e male non si riferiscono al comportamento dellʼuomo,
del quale egli è responsabile, ma agli eventi della vita, di cui Dio controlla i “tempi” (3,1-8;
cf. § 1.3). Di essi Qohelet afferma che “tutto (Dio) ha fatto bello a suo tempo” (3,11), anche
quello che allʼuomo sembra storto e cattivo. Perciò dire che Dio è allʼorigine sia del bene
che del male non significa che Dio sia immorale, ma semplicemente che è lʼunico Creatore e
Signore della storia. Anche in questo Qohelet è perfettamente in linea con il resto dellʼAT.
76 A. NICCACCI

In 7,13 Qohelet invita il lettore a ripetere la sua esperienza. Si notano in-


fatti importanti elementi comuni con 1,14-15: “vedi/osserva lʼopera di Dio //
vidi tutte le cose che sono state fatte (da Dio) sotto il sole”; e nessuno “potrà
mai raddrizzare (√Nqt al piel) ciò che (Dio) ha fatto storto (√two al piel) // ciò
che è storto (√two al pual, con agente implicito Dio) non potrà mai diventare
diritto (√Nqt al qal)”. Tuttavia la conclusione che il saggio trae nei due passi è
molto diversa: in 1,14 “il tutto è vanità e andare dietro a vento”; in 7,14: “Nel
giorno del benessere sii nel bene / e nel giorno della sventura osserva”.
Non è necessario vedere in questo una contraddizione o diversità di au-
tore. È piuttosto il solito pensiero ambivalente di Qohelet, qui come in altri
passi. In 1,14 lʼimpegno di riflettere sullʼopera di Dio è visto come una fatica
per il fatto che lʼuomo non è in grado di correggere quello che è storto; in
7,14 questa incapacità non è eliminata, né potrebbe esserlo perché fa parte
della realtà umana, ma viene in qualche modo assorbita: lʼuomo è invitato a
convivere con essa in un modo non rassegnato ma positivo.
La soluzione proposta è in accordo con il catalogo dei tempi (3,1-8): cʼè
un tempo per il bene e cʼè un tempo per il male nel governo divino del mon-
do e perciò quello che è o appare storto non deve diventare diritto, perché
cʼè un tempo e uno scopo sia per lʼuno che per lʼaltro. Il saggio invita ad
accogliere i tempi di Dio90: godere quando egli manda la gioia, “osservare”
quando manda il dolore.
“Vedere/osservare” in questo contesto indica dunque una riflessione
silenziosa sullʼopera di Dio, più esattamente sulla parte “storta” di essa, ri-
nunciando a volerla raddrizzare, anzi accettandola così comʼè, convinti che
anchʼessa ha uno scopo nel piano divino. Quello che viene raccomandato
è appunto lo sforzo di comprendere lo scopo di Dio nel mandare il “giorno
della sventura”.
Quale sarà secondo Qohelet il messaggio che Dio manda nel “giorno della
sventura”? Possiamo farcene unʼidea raccogliendo i vari scopi che vengono
nominati quando si parla dellʼopera di Dio nei confronti dellʼuomo, in partico-
lare quando si dice che lʼuomo non è in grado di comprenderla completamente.
Un passo importante al riguardo è 3,11-14, che abbiamo già esaminato (§ 2.2),
il quale presenta una sequenza logica simile a quella di 7,13-14:
A) [Lʼopera della creazione è perfetta, anche se lʼuomo non la comprende:]
Tutto egli ha fatto bello a suo tempo; / pure lʼoscurità ha posto nei loro cuori,

90. Il tema del tempo adatto fu cara ai saggi di Israele fino a Gesù; cf. E. Bosetti - A. Nic-
cacci, “Lʼindemoniato e il festaiolo. Lc 7,34-35 (Mt 11,18-19) sullo sfondo della tradizione
sapienziale biblico-giudaica”, in: F. Manns - E. Alliata (edd.), Early Christianity in Context.
Monuments and Documents, Jerusalem 1993, 381-394.
QOHELET 77

di modo che lʼuomo non comprenda (ʻtroviʼ) / lʼopera che Dio ha fatto
dallʼinizio alla fine (3,11);
B) [Proclamazione della gioia, frutto del lavoro umano e dono di Dio: 3,12-13]
C) [Il governo divino del mondo è costante e perfetto:]
ad esso non cʼè da aggiungere / e da esso non cʼè da togliere, / e Dio ha agito (così)
perché abbiano timore di fronte a lui (wyÎnDpV;lIm …wa√rˆ¥yRv hDcDo MyIhølTaDh◊w) (3,14).

Similmente in 7,13-14, A) lʼinvito a osservare/contemplare lʼopera di


Dio avviene nella convinzione che nessuno potrà mai raddrizzare ciò che
è storto, che anzi tutto deve essere come è, perché la creazione è frutto del
piano di Dio; B) lʼinvito alla gioia che lʼaccompagna tiene conto del fatto
che lʼopera di Dio comprende sia la gioia che il dolore: godi nel tempo
della gioia, osserva/rifletti nel tempo del dolore; C) infatti lʼuno e lʼaltro
Dio ha fatto affinché – possiamo aggiungere sulla base di 3,14 – tu abbia
il suo timore.
Questo legame con il timore di Dio è importante per comprendere la
mente di Qohelet, per quanto la radice ary non sia molto frequente nel libro
(9x). Il timore di Dio è la guida dellʼuomo nella sua esperienza sulla terra;
gli permette di intraprendere ogni tipo di esperienza mantenendo lʼequilibrio
necessario tra saggezza e stoltezza.
Consideriamo ancora 7,16-18: “Non essere giusto troppo / e non com-
portarti da saggio oltremodo: / perché vorresti rovinarti? / Non essere mal-
vagio troppo / e non essere stolto (troppo): / perché vorresti morire prima
del tuo tempo? / È bene che tu tenga lʼuno / e anche dallʼaltro non ritirare la
tua mano, / poiché il timorato di Dio uscirà (bene) con tutti (e due)”. In base
allʼinterpretazione data sopra (§ 1.1), il timore di Dio permette al saggio di
mantenere il giusto equilibrio tra la sapienza e la stoltezza91: tra la sapienza
che lo spinge a ricercare il senso della realtà – senza però arrivare allʼestremo
di autodistruggersi sotto il peso della frustrazione che quellʼimpegno com-
porta se non è bilanciato con la capacità di godere delle gioie che la vita,
cioè Dio, concede – e la stoltezza che lo spinge a godere di tutto senza porsi
domande di senso92. In effetti solo il timorato di Dio potrà vivere in pienez-

91. Il ruolo del timore di Dio nel quadro della proposta di Qohelet viene bene espresso da
Whybray, “Qoheleth the Immoralist? (Qoh 7:16-17)”, 208: “The supporters of the golden
mean theory are obliged, unless they regard vs. 18b [= 7,18b] as a gloss, to hold that
Qohelethʼs concept of the fear of God is entirely different from its meaning elsewhere in
the OT: that for him it expresses the entirely immoral doctrine of the golden mean applied
in the ethical sphere—the demoralization of righteousness”.
92. Ha ragione L. Schwienhorst-Schönberger, “Via media: Koh 7,15-18 und die griechisch-
hellenistische Philosophie”, in: Schoors (ed.), Qohelet in the Context of Wisdom, 181-203,
che sapienza e stoltezza non sono da intendere in senso specificamente etico e che Qohelet
78 A. NICCACCI

za la sua vita grazie a questa capacità di adattarsi ai tempi di Dio; appunto:


“Nel giorno del benessere sii nel bene / e nel giorno della sventura osserva!”
(7,14). Possiamo dire che questo costituisce lʼ“ombra”, cioè il riparo che
Dio stesso concede allʼuomo nella sua fatica sotto il sole. In questo senso si
comprende 8,12-13, come indicato sopra (§ 2.4): “(12) Poiché io so pure che
i timorati di Dio avranno il bene, / per il fatto che lo temeranno, / (13) mentre
bene non avrà il malvagio e non prolungherà i giorni come lʼombra, / per il
fatto che non teme il Signore”.
Possiamo aggiungere che nella quantità di sogni e di vane parole di cui
rischia di essere piena (o piuttosto vuota!) la vita umana, lʼunica cosa che
conta è temere il Signore, come si legge in 5,6: “Poiché nei molti sogni ci
sono vanità / e molte parole93. / Piuttosto, Dio temi!”. Questa idea ritorna in
forma lapidaria alla fine del libro (12,13-14)94:

non inculca immoralità. Non penso però che questo comporti una differenza rispetto alla
sapienza più antica, tanto meno che la contrapposizione sapienza-stoltezza abbia a che fare
con la Torah. Il parallelo con lʼEtica Nicomachea di Aristotele non mi sembra perciò neces-
sario per capire la logica del testo. Condivido, e persino renderei più decisa, la conclusione
di J.L. Crenshaw, “Qohelethʼs Understanding of Intellectual Activity”, in: Schoors, Qohelet
in the Context of Wisdom, 205-224: “Perhaps Qoheleth was epistemologically less revolu-
tionary than some critics have imagined” (p. 224).
93. Analizzo il waw di MyIlDbShÅw come waw di apodosi, tale cioè che introduce la proposi-
zione principale. Simile Delitzsch, 287: “For in many dreams and words there are also
many vanities”, il quale però inverte lʼordine di MyîrDb√d…w MyIlDbShÅw (cf. pp. 290-291). È anche
possibile tradurre come Gordis, 154: “With all the dreams, follies and idle chatter, this re-
mains—fear God”, intendendo cioè che la preposizione bet regga anche la coppia che segue
(MyîrDb√d…w MyIlDbShÅw) e che la proposizione principale sia quella introdotta da yI;k nella seconda
parte del versetto (yI;k asseverativo: Gordis, ibid., 239).
94. Gilbert, “Qohelet et Ben Sira”, in: Schoors, Qohelet in the Context of Wisdom, 162-171,
critica giustamente lʼopinione di G.T. Sheppard e N. Lohfink che Qo 12,13-14 alluda al
Siracide. Da parte sua, E. Puech, “Qohelet a Qumran”, in: Bellia - Passaro (edd.), Il libro
del Qohelet, 144-170, segnala la somiglianza di 12,13-14 con 1 Re 2,2-3 e anche il paral-
lelismo con Qo 1,1-2 e si chiede se quei versetti finali “non possano appartenere, in forma
di inclusione, al libro stesso nella sua prima forma redazionale e, di conseguenza, che siano
anteriori a Ben Sira” (p. 160). Dʼaltra parte, dare informazioni sul saggio che è allʼorigine di
un insegnamento è un elemento costante dei componimenti didattici vicino-orientali antichi,
e questo avviene usando la terza persona esattamente come in Qo 12,8-10. Si veda al riguar-
do la mia recensione di M.L. Barré (ed.), Wisdom, You Are My Sister. Studies in Honor of
Roland E. Murphy, O.Carm., on the Occasion of His Eightieth Birthday, Washington 1997,
in LA 48 (1998) 577-586, spec. 583, e quella di Fox in LA 50 (2000) 523. Infine, dato che
la conclusione di Qohelet non contraddice affatto il resto del libro, come cerco di mostrare
nel testo qui sopra, non vedo alcun motivo per ipotizzare uno o più “epiloghisti”, nonostante
lʼopinione comune degli interpreti. La trattazione migliore del problema mi sembra quella
di A.G. Shead, “Reading Ecclesiastes ʻEpilogicallyʼ”, TynBul 48 (1997) 67-91. Dopo aver
confrontato lʼepilogo, lessico e idee, con il resto del libro, lʼautore conclude che lʼepilogo,
insieme alla cornice del libro (1,1 + 1,2 // 12,8 + 12,9-14), condensa lʼessenza delle parole
QOHELET 79

rDb∂;d Pwøs (13) Fine della cosa,


oDmVvˆn lO;kAh il tutto è stato sentito:
a∂r◊y MyIhølTaDh_tRa Dio temi
rwømVv wyDtOwVxIm_tRa◊w e i suoi comandamenti custodisci95,
M∂dDaDh_lD;k h‰z_yI;k poiché questo è il tutto dellʼuomo96.
(14) Infatti ogni opera / Dio condurrà in giudizio, / (giudizio) su tutto quello che è nascosto, /
sia buono che cattivo.

Molti autori sono delusi di questa conclusione di Qohelet, un libro che suo-
na pessimistico, persino distruttivo nei confronti della sapienza tradizionale,

di Qohelet, fornendo così una guida per la lettura. Shead sottolinea in particolare la connes-
sione, sia nellʼepilogo che nel resto del libro, dellʼelemento lRbRh “vanità” con lʼelemento
ary “temere”, cioè “the dynamic which exists between 12:8-12 (the pain of the search for
wisdom is not resolved by understanding life under the sun, since this is something we fail
to do [= elemento ʻvanitàʼ] and 12:13-14 (the wise way to live is in obedient fear of the one
who knows and judges all [= elemento ʻtemereʼ])” (p. 91).
95. Nonostante le somiglianze con il linguaggio del Deuteronomio (cf. ad es. Dt 4,6-8), non
è necessario né consigliabile intendere “i comandamenti” di Dio come la Legge di Mosè
(si veda al riguardo la discussione di Krüger, 372-375). In effetti lʼespressione rmv + hÎwVxIm
“osservare + comando” compare abbastanza di frequente nelle istruzioni sapienziali. Spesso
il comando di cui si parla non è di Dio ma del maestro (Pro 2,1), o del padre (6,20) o non
è specificato. In Qo 8,5 hÎwVxIm rEmwøv “chi osserva il comando” si riferisce probabilmente al
comando del capo (cf. supra, nota 51). In Pro 19,16 non si specifica di quale comando si
tratti, mentre in Gb 23,12 la hÎwVxIm è quella di Dio. Questa varietà di riferimenti riflette una
caratteristica della mentalità sapienziale. Per i saggi non cʼè differenza sostanziale tra un
comando che viene da un agente umano e uno che viene da Dio. Infatti essi credono ferma-
mente che Dio comunica il suo volere in vario modo: attraverso lʼeducazione dei genitori,
dei maestri, e attraverso lʼesperienza personale delle opere della creazione. La Legge non
è mai nominata esplicitamente, né è necessaria per intendere il mondo ideale dei saggi di
Israele che si basa sulla “rivelazione della creazione” piuttosto che su quella del Sinai (cf.
supra, nota 45). Dʼaltra parte il timore di Dio compare, anzi è fondamentale per i saggi,
senza che questo comporti alcun riferimento alla Legge di Mosè (cf. infra, § 2.8). È vano
perciò e fuorviante rifarsi alla Legge-Torah (cf. ad es. la “Tora-Frömmigkeit”, o “Gesetzes-
frömmigkei” di Zimmer, Zwischen Tod und Lebensglück, 206.212) e chiamare in causa un
epiloghista “ortodosso” (cf. nota 94).
96. Nella recensione al commentario di Fox in LA 40 (2000) 525, ho sostenuto che qui
M∂dDaDh_lD;k non significa, come al solito, “ogni uomo” ma “il tutto dellʼuomo”. A conferma
si può osservare, primo, che in ogni costruzione di questo tipo lD;k è un sostantivo in stato
costrutto (nomen regens); secondo, Qohelet presenta molti esempi dellʼuso assoluto di lO;kAh
nel senso di “il tutto” (fuori di Qohelet, cf. Es 29,24; Lv 1,9.13; 8,27, ecc.): “per il tutto
cʼè un momento” (Qo 3,1); “il tutto è vanità” (1,2.14; 2,11.17, ecc.); “il tutto va verso un
luogo unico; / il tutto venne dalla polvere / e il tutto ritorna alla polvere” (3,20); “il tutto
ho visto” (7,15), “il tutto sta davanti” agli uomini (9,1); Dio “ha fatto il tutto bello a suo
tempo” (3,11), e anche lo farà: “come non conoscerai mai lʼopera di Dio / che farà il tutto
(11,5). Unʼanalisi diversa si trova in Gordis, 345, anche se il senso che ne deriva è in fondo
equivalente. Viene in mente Sir 43,27: lkh awh rbd Xqw Pswn al hlak dwo “Altre (parole)
come queste non aggiungeremo, / e termine della cosa è: (Dio) è il tutto (to\ pa◊n e˙stin
aujto/ß)”.
80 A. NICCACCI

o postmoderno, come si dice in linguaggio corrente97. In realtà, se ben inter-


pretata, la conclusione di Qohelet è tuttʼaltro che in contraddizione con il resto
del libro, che pure contiene espressioni molto dure. Anzi, il legame che stiamo
delineando tra il doppio invito di 7,13-14 e il timore di Dio permette di cogliere
la coerenza del pensiero di Qohelet. In effetti la vita sulla terra mette lʼuomo di
fronte a verità contrapposte: da un lato il dato spesso negativo dellʼesperienza
(incapacità umana di capire fino in fondo la realtà, di controllare il futuro, di
prevedere i tempi adatti, di correggere lʼingiustizia, ecc.), dallʼaltro il dato ras-
sicurante della fede e dellʼantica sapienza di Israele. È il timore di Dio, cioè la
capacità di riconoscere lui come Creatore e Signore provvidente che non solo ha
creato ma anche governa il mondo e la storia, che permette di vivere in pienezza,
sapendo godere della gioia quando Dio la concede e riflettendo per capire il suo
scopo quando manda il dolore. Applicando il linguaggio di 7,18, “il timorato di
Dio uscirà (bene) con tutti (e due)”, si direbbe: il timorato saprà fare buon uso
sia della gioia che del dolore, ambedue messaggio di Dio per la sua vita.
Lʼespressione “il timore del Signore è inizio della sapienza”, che
compare in forme leggermente diverse soprattutto in due passi (Pro 1,7:
tAo∂;d tyIvaér hÎwh◊y tAa√rˆy; Sal 111,10: hÎwh◊y tAa√rˆy hDmVkDj tyIvaér), viene considerata,
e a ragione, il motto del movimento sapienziale. La traduzione migliore di
tyIvaér è “inizio”, non “parte migliore” né “compendio” come preferiscono
alcuni esegeti. Afferma giustamente von Rad98:
“La formula significherà quindi che il timore di Dio conduce alla sapienza.
Esso dispone ad acquistarla e la insegna”.
È bene ribadire il fatto che Qohelet non nega questo principio; esso anzi
costituisce il criterio che guida la sua esperienza e la base su cui poggia la
sua proposta (cf. § 2.8)99.

97. Cf. ad es. W.H.U. Anderson, “Historical Criticism and the Value of Qoheletʼs Pessimis-
tic Theology for Postmodern Christianity through a Canonical Approach”, OTE 13 (2000)
143-155; Sneed, “(Dis)closure in Qohelet”; H. Madsen, “Dekonstruktion im Kohelet-Buch
— Anregungen zu einem interdisziplinären Dialog”, BZ 47 (2003) 281-286. Una buona
sintesi della teologia di Qohelet si trova in Whybray, “Qoheleth as a Theologian”.
98. Von Rad, La sapienza in Israele, 68.
99. A distanza di oltre venti anni mi ritrovo a trattare un problema analogo. La conclusione
di Qohelet, che tutto condensa nel timore di Dio (e nellʼosservanza dei comandamenti; cf.
supra, nota 95), incorre nella stessa sorte di Gb 28,28, un passo che la quasi totalità degli
interpreti ritiene incompatibile con lo scritto originario e quindi glossa di un pio redattore. Si
può vedere il mio saggio “Giobbe 28”, LA 31 (1981) 29-58, spec. 47-53 (si veda anche infra,
§ 2.8). Da parte sua Maussion, Le mal, le bien et le jugement de Dieu dans le livre di Qohélet,
172-173, dopo aver accordato il dovuto rilievo al tema del giudizio divino in Qohelet, segue
la tendenza praticamente unanime degli interpreti: attribuisce 12,13-14 a un epiloghista e vi
scopre, rispetto al resto del libro, delle differenze che francamente non vedo.
QOHELET 81

2.5. Qo 8,15 (5˚ passo)


Una nuova proclamazione di gioia viene dopo la descrizione di una si-
tuazione di disagio al constatare che il principio della retribuzione (chi fa il
bene avrà il bene, chi fa il male il male) non è sempre rispettato: “Cʼè una
vanità (lRbRh_v‰y) che è stata fatta sulla terra, / (cioè) che ci sono giusti / a cui
tocca secondo lʼopera dei malvagi; / e ci sono malvagi / a cui tocca secondo
lʼopera dei giusti. / Dissi che anche questo è vanità” (8,14). Tale situazione è
simile a quella delineata in 5,12 (§ 2.3): ricchezza perduta, nulla si porta via
con sé; e anche la proclamazione di gioia è simile:
8,15 5,17.19
hDjVmIÚcAh_tRa yˆnSa yI;tVjA;bIv◊w yˆnDa yItyIa∂r_rRvSa h´…nIh (17)
Perciò lodavo io la gioia, Ecco quello che ho visto io:
vRmRÚvAh tAjA;t M∂dDaDl bwøf_NyEa rRvSa hRpÎy_rRvSa bwøf
per il fatto che non cʼè bene per lʼuomo è buono il fatto che è bello
sotto il sole
AjwømVcIl◊w twø;tVvIl◊w lwøkTaRl_MIa yI;k hDbwøf twøa√rIl◊w twø;tVvIl◊w_lwøkRaRl
se non mangiare e bere e gioire, che (uno) mangi e beva e goda il benessere
vRmRÚvAh_tAjA;t lOmSoÅ¥yRv wølDmSo_lDkV;b
in tutta la sua fatica che faticherà sotto il sole
MyIhølTaDh wøl_NAtÎn_rRvSa wD¥yAj_yEm◊y rAÚpVsIm
nei pochi giorni della sua vita che il Signore
gli ha dato,
wølDmSoAb …w…n‰wVlˆy a…wh◊w …wøqVlRj a…wh_yI;k
poiché questo lo accompagnerà poiché questa è la sua parte…
nella sua fatica
vRmDÚvAh tAjA;t MyIhølTaDh wøl_NAtÎn_rRvSa wyÎ¥yAj yEm◊y wø;bIl tAjVmIcV;b h‰nSoAm MyIhølTaDh yI;k (19)
nei giorni della sua vita poiché il Signore (lo) tiene occupato
che il Signore gli ha dato sotto il sole. (o: [gli] risponde) con la gioia del suo cuore.

A parte i termini comuni “mangiare, bere, godere/gioia” e “sotto il


sole… nella sua fatica”, si nota anche lʼequivalenza delle frasi che spe-
cificano il “bene”: accompagnerà lʼuomo, Dio lo tiene occupato con esso.
Ambedue queste frasi specificano il fatto che Dio concede la gioia per ac-
compagnare e dare sollievo allʼuomo nella sua dura fatica sulla terra (cf.
7,13-14; § 2.4)100.

100. Murphy, 86, afferma che giustamente che Qohelet mostra “an appreciation of the lim-
ited, day-to-day pleasure (hjmc) that can be oneʼs «accompaniment» in a God-given life
span. The conclusion is in line with 2:24-25; 3:12-13; 5:17-19”. Ora però egli ritiene che i
passi appena citati facciano parte delle “many resigned conclusions found in the work…”
(p. 26), il che mi sembra proprio fuori luogo.
82 A. NICCACCI

2.6. Qo 9,7-10 (6˚ passo)

È il secondo invito alla gioia dopo 7,13-14 (§ 2.4). Viene a conclusione di


un complesso ragionamento che inizia in 8,16. Tento di delinearne il filo
logico:
A) 8,16-17 [Lʼuomo non potrà mai comprendere lʼopera di Dio]
B) 9,1 I giusti e i saggi e le loro opere sono nella mano di Dio;
né amore né odio lʼuomo conosce; / tutto sta davanti a loro.
C) 9,2 [Anzi il giusto è come il malvagio]
cʼè un caso unico per il giusto e per il malvagio…
9,3 cʼè un caso unico per tutti…
e (di conseguenza) anche il cuore dei figli dellʼuomo è pieno di male
e la pazzia è nel loro cuore durante la loro vita
e dopo di ciò (vanno) ai morti.
Cʼ) 9,4 [Meglio comunque i vivi che i morti]
Infatti chiunque sia scelto per (essere con) tutti i viventi,
cʼè speranza (per lui),
poiché va meglio a un cane vivo che al leone morto;
9,5 poiché i vivi sanno che moriranno / mentre i morti non sanno nulla
e non hanno alcuna ricompensa
poiché il loro ricordo è stato dimenticato.
Bʼ) 9,6 Sia il loro amore che il loro odio / e anche la loro invidia è già perita,
e non hanno più una parte in eterno
in tutto quello che è stato fatto sotto il sole.
Aʼ) 9,7-10 [Invito alla gioia].

A) A conclusione del suo lungo processo di riflessione, Qohelet riaffer-


ma che nessun uomo, nonostante il suo sforzo incessante giorno e notte, sarà
mai in grado di comprendere pienamente lʼopera di Dio. E aggiunge con una
punta polemica: “anche qualora il saggio dica di conoscerla, / non potrà mai
comprenderla” (8,17); ma questo, sia detto per inciso, non giustifica affatto
lʼopinione comune che Qohelet rifiuti la sapienza tradizionale101.
B) Non solo, ma le opere dei giusti e saggi sono nelle mani di Dio; “tutto
sta davanti a loro” e perciò essi possono scegliere liberamente, e tuttavia non
conoscono “né amore né odio”, cioè ambedue sfuggono al loro controllo (cf.
§ 1.4). Il fatto di enunciare queste due affermazioni che suonano contraddit-

101. Una buona presentazione del rapporto di Qohelet con la sapienza antica e la fede di
Israele si trova in Murphy, lvi-lxix; si veda anche Fischer, Skepsis oder Furcht Gottes?,
238-250. Sulle varie opinioni in proposito si può consultare Bianchi, “«Un fantasma al
banchetto della sapienza»?”, in: Bellia - Passaro (edd.), Il libro del Qohelet, 40-68, spec.
40-48.
QOHELET 83

torie una accanto allʼaltra (entrambe valide, ma come conciliarle?) sembra il


tentativo di tenere insieme i due poli umanamente inconciliabili dellʼesisten-
za: lʼonnipotenza divina e la libertà umana. Agli occhi del saggio, questo fa
emergere ancora una volta i limiti dellʼuomo.
C) A ciò si aggiunge un fatto ancora più sconcertante, già enunciato in
2,14-15 e 3,19: la morte è la sorte comune che attende sia il giusto che il
malvagio, con la conseguenza che, tardando il giudizio (8,11), gli uomini si
sentono sicuri e fanno il male e poi vanno alla dimora dei morti.
Cʼ) La riflessione continua paragonando i vivi e i morti. Al riguardo
Qohelet si muove in due direzioni contrapposte. Da un lato, la durezza del-
lʼimpegno che Dio ha assegnato allʼuomo sulla terra gli fa preferire la morte
alla vita (cf. 4,2; 7,1); dallʼaltro, sceglie la vita per i vantaggi che offre: “i
vivi sanno che moriranno” e perciò sono stimolati a vivere in pienezza il
tempo loro concesso (cf. § 1.4), “mentre i morti non sanno nulla”, almeno
dal punto di vista dellʼuomo che riflette, dato che riguardo al futuro in genere
e alla vita dopo la morte in particolare lʼignoranza umana è totale: nessuno
sa se lo spirito umano andrà in alto, a differenza di quello animale (3,21);
nessuno conosce il suo futuro (3,22; 6,12; 7,14; 8,7; 10,14; 11,2) né “il suo
tempo” (9,12) né ciò che Dio farà (11,5); nessuno ha potere sul giorno della
morte (8,8). Lʼunica cosa che lʼuomo sa è che i morti non hanno più parte ai
beni della vita sulla terra: “non hanno alcuna ricompensa (rDkDc) / perché il
loro ricordo è stato dimenticato” (9,5)102.
Bʼ) Qohelet conclude la sua riflessione sui morti aggiungendo che essi
“non hanno più una parte (qRlEj) in eterno / in tutto quello che è stato fatto
sotto il sole” (9,6). Comprendiamo così cosa intenda con la frase precedente,
che i morti non hanno alcun vantaggio: da un lato, il loro ricordo svanisce
presto dalla mente dei vivi (cf. 1,11; 2,16; 9,15), dallʼaltro, essi non potranno
più godere dei beni che sono la “parte” dei viventi. Prima di questa rifles-
sione Qohelet afferma che “sia il loro amore che il loro odio / e anche la
loro invidia è già perita”. Così estende a tutti i morti, sia giusti che malvagi,

102. Il punto è che i morti, non essendo più “sotto il sole” a contatto con lʼopera di Dio della
creazione, non hanno più la possibilità di scoprire, attraverso lʼesperienza, ciò che è bene né
di godere della “parte” che Dio concede allʼuomo (cf. § 1.3). Tale concezione non è diversa
da quella di Sal 6,6; 30,10; 88,11-13; 115,17-18; Is 38,18-19. È differente solo il punto di
riferimento: in Qohelet, come nella sapienza antica, è lʼopera della creazione, nei Salmi e
nel resto della Bibbia è lʼopera della salvezza. In ogni caso è in primo piano la straordina-
ria preziosità della vita sulla terra a contatto con lʼopera di Dio, sia essa la creazione o la
storia della salvezza, mentre la riflessione sul dopo la vita sulla terra resta in ombra per il
mancato sviluppo di una base ideale che permettesse di concepirla e anche di un linguaggio
che consentisse di esprimerla. Sullʼargomento cf. supra, note 46 e 55.
84 A. NICCACCI

quello che in (B) ha detto dei giusti e saggi, aggiungendo che “la loro invidia
(MDtDa◊nIq) è già perita”, cioè che nulla resta di tutto lo sforzo che i malvagi han-
no fatto durante la loro vita per sopraffare il prossimo (cf. 4,4).
Aʼ) In questo contesto giunge il secondo invito alla gioia, più ampio del
precedente (7,13-14) e simile a quello successivo (11,7-12,1). Esso presenta
tre unità, che dal punto di vista del genere letterario sono istruzioni con invi-
to (imperativo o iussivo = a) + motivazione (yI;k = b). La seconda unità è più
ampia in quanto amplifica lʼinvito (c). Schematicamente abbiamo:
1a) ÔKRmVjAl hDjVmIcV;b lOkTa JKEl (9,7) Vaʼ, mangia con gioia il tuo pane
ÔK‰ny´y bwøf_bRlVb hEtSv…w e bevi con cuore allegro il tuo vino,
1b) ÔKyRcSoAm_tRa MyIhølTaDh hDx∂r rDbVk yI;k poiché Dio ha già gradito le tue opere!
2a) MyˆnDbVl ÔKy®dÎgVb …wyVhˆy tEo_lDkV;b (9,8) In ogni tempo le tue vesti siano bianche
rDsVj‰y_lAa ÔKVvaør_lAo NRmRv◊w e olio non manchi sulla tua testa!
D;tVbAhDa_rRvSa hDÚvIa_MIo Myˆ¥yAj hEa√r (9,9) Godi la vita con la donna che ami
2c) ÔKRlVbRh y´¥yAj yEm◊y_lD;k per tutti i giorni della tua vita di vanità
vRmRÚvAh tAjA;t ÔKVl_NAtÎn rRvSa che (Dio) ti ha dato sotto il sole,
ÔKRlVbRh yEm◊y lO;k per tutti i giorni della tua vanità,
2b) Myˆ¥yAjA;b ÔKVqVlRj a…wh yI;k poiché questo è la tua parte nella vita
lEmDo hD;tAa_rRvSa ÔKVlDmSoAb…w e nella tua fatica che tu fatichi
vRmDÚvAh tAjA;t sotto il sole.
3a) twøcSoAl ÔK√dÎy aDxVmI;t rRvSa lO;k (9,10) Tutto quello che la tua mano potrà fare
hEcSo ÔKSjOkV;b con la tua forza, fallo,
3b) Nwø;bVvRj◊w hRcSoAm NyEa yI;k poiché non cʼè opera né calcolo
hDmVkDj◊w tAoåd◊w né conoscenza né sapienza
hD;mDv JKElOh hD;tAa rRvSa lwøaVvI;b nello sheol dove tu stai per andare.

Lʼinvito (1) a mangiare e a bere (cf. 8,15) è seguito dallʼinvito (2)


che raccomanda di indossare “in ogni tempo” vesti bianche e ungere il
capo con olio e di godere insieme alla donna della propria vita. Si capisce
che le vesti bianche sono segno di festa (anche se non sono nominate
altrove nellʼAT), come pure lʼolio profumato sul capo (cf. Sal 133,2),
usuale soprattutto nei banchetti (cf. Sal 23,5). Anche il vino che rallegra
il cuore e il profumo che fa brillare il volto sono elementi della festa (Sal
104,15; cf. 45,9; Pro 27,9; Is 61,3); infatti non ci si profuma in tempo di
lutto (2 Sam 14,2)103.
Almeno in apparenza, la presentazione positiva della donna come partner
della gioia (9,9) contrasta con 7,26-29:

103. Il linguaggio di Qo 9,7-9 è usuale nelle letterature del Vicino Oriente Antico per indica-
re la festa. Basti citare un articolo di sintesi: J.Y.-S. Pahk, “Qohelet e le tradizioni sapienziali
del Vicino Oriente Antico”, in: Bellia - Passaro (edd.), Il libro del Qohelet, 117-143.
QOHELET 85

(26) Stavo trovando io (yˆnSa aRxwøm…w) amara più della morte


/ la donna che (rRvSa hDÚvIaDh) è trappole104
/ e il cui cuore è reti / e lacci le sue mani.
Il buono davanti a Dio si salverà da lei / mentre il peccatore verrà preso in lei.
(27) Vedi questo che ho trovato (yItaDxDm h‰z), / disse la Qohelet105,
(ponendo) una cosa su unʼaltra per trovare un calcolo (Nwø;bVvRj).
(28) Quanto a quello che (rRvSa) ancora la mia anima ha cercato
ma non ho trovato (yItaDxDm aøl◊w):
un uomo tra mille ho trovato (yItaDxDm),
ma una donna fra tutti questi (= mille) non ho trovato (yItaDxDm aøl).
(29) Soltanto vedi questo che ho trovato (yItaDxDm h‰z):
che (rRvSa)106 Dio ha fatto lʼessere umano retto,
/ ma essi hanno cercato molti artifici (twønObVÚvIj).

Dobbiamo fermarci un momento su questo testo difficile. Sembra trattarsi


di una riflessione sullʼessere umano alla luce di Gen 2-3: essere umano che è
insieme unità (M∂daD hD ) e distinzione (M∂daD “uomo” e hDv
Ú aI “donna”). Utilizzando
il verbo “trovare”, sia al positivo che al negativo, il saggio presenta due espe-
rienze personali: prima un dato che ha trovato/acquisito valutando una serie
di casi (vv. 26-27), poi un dato che non è riuscito ad acquisire (vv. 27-28). La
prima esperienza riguarda la donna e lʼuomo (vv. 26-27), la seconda, in ordine

104. Non è necessario supporre che rRvSa abbia il valore di “se”, come sostiene J.Y.S. Pahk,
“The Significance of rva in Qoh 7,26: «More Bitter than Death is the Woman, if She Is a Sna-
re»”, in: Schoors (ed.), Qohelet in the Context of Wisdom, 373-383. Infatti lʼarticolo di hDÚvIaDh,
specificato dal relativo rRvSa, indica già una restrizione: non ogni donna ma “la donna che è
trappole…”. Per cui non sembra appropriata una traduzione del tipo: “And I found woman
more bitter than death…” (Delitzsch, 331; così anche Gordis, 170); meno ancora: “I find that
womankind is stronger than death. Because: She is a ring of siege towers…” (Lohfink, 101-
102, il quale collega questo passo con Ct 8,6). Pahk, ibid., nomina lʼinterpretazione restrittiva
sul tipo di quella da me proposta, ma per parte sua ritiene che Qohelet citi un detto della sa-
pienza tradizionale che poi respinge. A parte il fatto che lʼargomento delle citazioni implicite
rischia di essere aleatorio, direi che, da un lato la traduzione che ho dato sopra si accorda
bene con lʼargomentazione di Qohelet; dallʼaltro, non credo sia giusto attribuire una visione
antifemminile alla sapienza tradizionale e neppure a Qohelet né a Ben Sira (vedi infra).
105. In 7,27 il TM legge tRlRhOq h∂rVmDa, che regolarmente viene corretto in tRlRhwø;qAh rAmDa come
in 12,8. Ma tale correzione rischia di essere troppo semplice: come i Masoreti non si sareb-
bero accorti dello sbaglio? Dal momento che si parla di donne, non si potrebbe pensare che
Qohelet sfrutti per lʼoccasione il suo nome/appellativo che ha desinenza femminile? Non
potrebbe cioè trattarsi di una nuova finzione letteraria, accanto a quella regale (cf. § 2.1),
per cui lʼautore riveste panni differenti per messaggi differenti? Tentativi di interpretare
questo cambio di genere si trovano già nei commentatori giudaici tradizionali (cf. Delitzsch,
333-334; Rosenberg, The Five Megilloth, 97).
106. Diversamente da Pahk, “The Significance of rva in Qoh 7,26”, 375, non penso che i
tre rva (vv. 26.28.29) siano paragonabili: non hanno la medesima funzione, come appare
dalla traduzione data sopra.
86 A. NICCACCI

inverso, lʼuomo e la donna (v. 27), e infine lʼessere umano in sé, uomo e donna
(v. 28). Il senso della prima esperienza è chiaro: la prostituta è peggiore della
morte e solo chi è buono davanti a Dio potrà evitarla; la seconda invece è miste-
riosa, in quanto il saggio non specifica come ha trovato un uomo su mille, men-
tre allo stesso modo non ha trovato una donna su mille107. Comunque si intenda
questo elemento, il punto principale è espresso nella conclusione, che utilizza
ancora il verbo “trovare” al positivo: “Soltanto vedi questo che ho trovato: / Dio
ha fatto lʼessere umano retto, / ma essi hanno cercato molti artifici (twønbO v ÚV jI )”108.
Lʼuomo e la donna, cioè, hanno utilizzato in modo negativo le capacità che
hanno ricevuto da Dio. Ma mentre gli “artifici” della prostituta sono specificati
(“è trappole / e il suo cuore è reti”: 7,26), quelli dellʼuomo non lo sono. Uomo e
donna, suggerisce comunque un gioco di parole nel testo, invece di comportarsi
come il saggio che “ha trovato (conoscenza/sapienza) / (ponendo) una cosa su
unʼaltra per trovare un calcolo (Nwøb; v
V jR )” (7,27), hanno cercato “artifici (twønbO vÚV jI )”
(7,29) contrari al volere di Dio. Qo 7,26-29 è dunque una riflessione sulla de-
generazione dellʼessere umano. Usciti retti dalla mano di Dio, uomo e donna si
sono corrotti utilizzando in modo negativo le risorse che hanno ricevuto; resta
comunque aperta per entrambi la possibilità di comportarsi da persone sagge.
È chiaro perciò che le cose negative non sono dette della donna in sé
ma appunto di quella “che è trappole / e il cui cuore è reti / e lacci le sue

107. Il come può essere dedotto da ciò che segue: “Dio ha fatto lʼessere umano retto” (v. 29),
e quindi: “un uomo tra mille ho trovato (retto), / ma una donna fra tutti questi (= mille) non ho
trovato (retta)”, e così intendono vari interpreti. Ma si può anche intendere in base a ciò che
precede: “un uomo tra mille ho trovato (buono, che potrà evitare il pericolo della prostituta),
/ ma una donna fra tutti questi (= mille) non ho trovato (buona, che potrà evitare il pericolo
dellʼuomo malvagio)”. Credo che ambedue le soluzioni siano possibili; del resto non sono
molto diverse e ambedue vengono riassunte nella frase conclusiva (v. 29). È antifemminile
questo passo? A parte il fatto che una percentuale di uno su mille non è confortante neppure
per lʼuomo, pesano su questʼaffermazione sia il ricordo delle donne straniere (settecento mogli
+ trecento concubine = mille!) che pervertirono il cuore di Salomone-Qohelet (1 Re 11; cf.
G.M. Schwab, “Woman as the Object of Qoheletʼs Search”, AUSS 39 [2001] 73-84), sia il
racconto della Genesi sul peccato originale. Questo racconto è richiamato esplicitamente in
Sir 25,23/24: “Dalla donna viene lʼinizio del peccato / e a causa di lei siamo morti tutti”, e
ispira a Ben Sira una serie di affermazioni contrapposte (cf. Sir 25,12-26,18), dalle quali alla
fine emerge, nonostante tutto, un apprezzamento molto alto della donna (cf. il mio saggio
Siracide o Ecclesiastico, 38-39). Mi sembra infine che la soluzione proposta da V.P. Long,
“One Man among Thousand, but not a Woman among Them All: A Note on the Use of mäßäΣ
in Ecclesiastes vii 28”, in: K.-D. Schunck - M. Augustin (edd.), “Lasset uns Brücken bauen...”
Collected Communications to the XVth Congress of the International Organization for the
Study of the Old Testament, Cambridge 1995, Frankfurt am Main 1998, 101-109, che cioè
7,28b “could be taken as an aside, mentioned by Qohelet to emphasize how little in fact his
search for understanding has yielded” (p. 108), non risolva il problema.
108. In 2 Cr 26,15 lʼespressione bEvwøj tRbRvSjAm twønObVÚvIj “artifici, opera di artificieri” designa
delle macchine militari.
QOHELET 87

mani”, cioè della “prostituta” (hÎnwøz, Pro 6,26; 7,10; 23,27; Sir 9,3.6), detta
anche “straniera” (cioè estranea alle tradizioni di Israele, hÎ¥yîrVkÎn, Pro 2,16;
5,20; 6,24; 7,5; 27,13), quella che per i saggi costituisce uno dei pericoli
maggiori nella vita dellʼuomo, in particolare del giovane, accanto alle cattive
compagnie e allʼalcool. Non per niente Pro 5,15-19 con un linguaggio molto
seducente invita il giovane a godere della propria moglie per evitare le insi-
die della “straniera” (5,3-6 // 5,20); cf. in particolare 5,18-19:
(18) JK…wrDb ÔK√rwøqVm_yIh◊y Sia la tua fonte benedetta
ÔK®r…wo◊n tRvEaEm jAmVc…w e abbi gioia dalla moglie della tua gioventù!
(19) NEj_tAlSoÅy◊w MyIbDhSa tRl‰¥yAa Cerva amabile e gazzella graziosa,
tEo_lDkVb ÔK¨…wår◊y Dhy®;då;d i suoi seni ti inebrino in ogni tempo;
dyImDt h‰…gVvI;t ;hDtDbShAaV;b del suo amore possa tu ubriacarti sempre!

In Qo 9,8 richiama lʼattenzione lʼespressione “in ogni tempo” (tEo_lDkV;b,


come in Pro 5,19!) che specifica lʼinvito a indossare vesti bianche e profumare
il capo. Se infatti ricordiamo il catalogo dei tempi (Qo 3,1-8) e lʼossessione,
direi quasi, dei saggi per il tempo adatto, viene da chiedersi: come può Qohelet
invitare qui a fare festa “in ogni tempo”? Osserviamo però che subito dopo,
in 9,9, lʼinvito a godere insieme alla propria donna viene specificato mediante
unʼespressione molto ampia109: “per tutti i giorni della tua vita di vanità / che
(Dio) ti ha dato sotto il sole, / nei giorni della tua vanità”. Alla luce della consta-
tazione che la vita è normalmente faticosa e stressante, lʼespressione “in ogni
tempo” viene perciò ridimensionata: in ogni tempo possibile, sfruttando ogni
occasione che si presenta nella costante fatica che accompagna lʼesistenza.
Che Qohelet non inviti qui a darsi al godimento sfrenato lo conferma anche
lʼinvito (3), che raccomanda di “fare” tutto quello che risulta possibile (9,10):
un “fare” da intendere nel senso pregnante con cui viene usato nel libro, cioè
come fare esperienza delle cose per comprendere i valori della vita alla luce
di Dio (cf. § 1.3).
Le motivazioni degli inviti (1) e (2) sono tra loro collegate: (1b) “poiché
Dio ha già gradito le tue opere” (9,7), cioè se riesci a mangiare e bere, è Dio
che te lo concede, dato che potrebbe rovinare lʼopera delle tue mani (5,5);
(2b) “poiché questo è la tua parte nella vita” (9,9), cioè il fatto di poter fare
festa e godere con la tua donna è il frutto della tua fatica e insieme dono di
Dio (cf. 3,12-13 // 3,22, § 2.2).
La motivazione dellʼinvito (3) nomina quattro termini, uniti due a due:
“opera e calcolo” (Nwøb
; vV jR w◊ hRcoS mA ) e “conoscenza e sapienza” (hDmkV jD w◊ tAodå w◊ ) (9,10).

109. Gli autori spesso eliminano uno stico per dittografia sulla base di alcuni manoscritti,
alcune versioni e il Targum; cf. Seow, 302.
88 A. NICCACCI

Mentre la seconda coppia è piuttosto usuale (1,16.18; 2,21.26; 7,12), la prima ri-
chiede una spiegazione. Direi che “opera” designa lʼesperienza, lʼattività umana
che si esercita sulla creazione opera di Dio (cf. § 1.3), e “calcolo” indica il porre “una
cosa su unʼaltra”, appunto “per trovare un calcolo (Nwøb; v V jR )” (7,27), cioè annotare e
classificare le varie esperienze per giungere a una conclusione basata su di esse.
Le due coppie designano perciò lʼopera dellʼuomo sulla terra come è stata fatta e
descritta da Qohelet (cf. § 1.1). La motivazione si adatta dunque bene allʼinvito (3)
a fare tutte le esperienze possibili finché dura la vita (9,10), poiché dopo la morte
non sarà più possibile godere i beni che Dio concede sulla terra (cf. § 1.4).

2.7. Qo 11,7-12,7 (7˚ passo)


È il terzo e ultimo invito alla gioia, complesso almeno quanto quello di 9,7-
10. Viene preceduto da un lungo brano che si compone di tre suddivisioni
(9,11-10,4; 10,5-19; 10,20-11,6) nelle quali non si trovano né proclamazioni
né inviti alla gioia. Nella prima suddivisione (9,11-10,4) continua la rifles-
sione del brano precedente (8,16-9,10). Qohelet riflette sulle ambiguità della
realtà: il successo non è assicurato nella vita per nessuna delle categorie no-
minate (i veloci, gli eroi, i saggi, i prudenti e i sapienti), ma per ognuno cʼè
“un tempo e un destino (oÅgRpÎw tEo = un destino a suo tempo)” (9,11); e “mai
lʼuomo conoscerà il suo tempo (wø;tIo); / come i pesci che vengono presi nella
rete cattiva / e come gli uccelli che vengono presi nella trappola, / così i figli
dellʼuomo vengono catturati in un tempo cattivo (hDo∂r tEoVl), / quando cadrà
su di essi allʼimprovviso” (9,12). Ritorna cioè la dura riflessione che lʼuomo
sa che il suo tempo è fissato ma non ne conosce il quando.
Al solito, questa riflessione che suona devastante viene seguita da unʼal-
tra che proclama fiducia. Lʼespressione “anche questo ho visto (che è) sa-
pienza sotto il sole / ed essa è grande per me” (9,13) introduce il caso di una
città assediata che può essere salvata da “un uomo povero saggio”, anche se
poi di lui si perde memoria (9,14-15; cf. § 1.4). Seguono altre considerazioni
sui vantaggi della sapienza (9,16-18a; 10,2-4), ma non mancano considera-
zioni che ne mostrano i limiti: le parole del saggio non vengono ascoltate
(9,16b-17) e basta poca stoltezza per rovinare tutto (9,18b; 10,1).
La seconda suddivisione (10,5-19) riflette su una serie di mali,
disordini e ambiguità dellʼesistenza che provengono “dal capo”, lette-
ralmente “da davanti al capo” (fyI;lAÚvAh y´nVpI;lIm)110, cioè probabilmente da

110. La formulazione di 10,5 è singolare: “Cʼè un male che ho visto sotto il sole, / come
un errore che proviene dal capo”. Invece di “come un errore” (hÎgÎgVvI;k) potrebbe intendersi
“proprio un errore”, con kaf asseverativo attestato in ugaritico e anche in ebraico (“kaph
veritatis” secondo Gesenius-Kautzsch-Cowley, § 118x); così Gordis, 309.
QOHELET 89

Dio111: stolti e servi esaltati, ricchi e ministri umiliati (10,5-8); vantaggi della
sapienza che dà abilità, non disgiunti però dallʼignoranza sul futuro (10,9-15);
sfortuna della nazione governata da un re giovane e ministri stolti, fortuna
della nazione governata da un re nobile e ministri assennati (10,16-19).
La terza suddivisione (10,20-11,6) contiene istruzioni e detti che ri-
guardano il comportamento saggio in diverse occasioni: verso il re (10,20),
sulla carità o commercio (11,1)112, sulla prudenza nelle attività (11,1-6).
Comprende anche una suggestiva formulazione dellʼignoranza umana del-
lʼopera di Dio: “Come tu non conosci quale sia la via del vento / e neppure
(la via/formazione del)le ossa nel seno della donna incinta, / così non cono-
scerai mai lʼopera di Dio / che farà il tutto” (11,5).
Dal punto di vista grammaticale il passo sulla gioia appare collegato a
ciò che precede, dato che inizia con un waw:
11,6 → 11,7-8
Al mattino semina il tuo seme
e alla sera non dare riposo alla tua mano,
poiché tu non sai quale riuscirà,
se questo o quello,
e se ambedue sono ugualmente buoni (MyIbwøf) → (7) E dolce è la luce ed è bene (bwøf◊w)
per gli occhi vedere il sole,
(8) poiché anche se lʼuomo vivrà anni
in quantità,
in tutti sia nella gioia
e ricordi i giorni delle tenebre,
che saranno in quantità:
tutto ciò che verrà è vanità.

111. La possibilità che fyI;lAv designi Dio (come in Dn 5,21) viene considerata da Delitzsch,
376, il quale però interpreta il testo nel senso che lʼerrore proviene dal governatore uma-
no, anche se poi può essere visto come proveniente da Dio. Per lo più i commentatori
intendono il termine in senso di capo politico. Per parte mia, ho creduto di vedere un
riferimento a Dio anche in 5,7, dove si parla di un “Altissimo (MyIhOb◊g)” che veglia sopra gli
“alti (A;hObÎ…g lAoEm A;hObÎg)” poteri dellʼamministrazione statale (cf. supra, nota 51). È tipico della
sapienza biblica vedere una stretta relazione tra il re o i capi umani e Dio, nel senso che i
primi amministrano il potere a nome e per incarico del secondo. Il movimento stesso dei
saggi è sorto probabilmente per dare giustificazione ideologico-religiosa alla monarchia. Sui
passi di Proverbi sul re e sui paralleli egiziani si possono consultare i miei saggi “Proverbi
23,26-24,22”, LA 48 (1998) 49-104, spec. 79.98-99, e “Proverbi 22,17-23,11 tra Egitto,
Mesopotamia e Canaan”, in: S. Graziani (ed.), Studi sul Vicino Oriente Antico dedicati alla
memoria di Luigi Cagni, Napoli 2000, 1859-1891, spec. 1874-1877.
112. Secondo due modi diversi di interpretare lʼinvito “spedisci/manda il tuo pane sulla
superficie delle acque…”. Per M.M. Homan, “Beer Production by Throwing Bread into
Water: A New Interpretation of Qoh. xi 1-2”, VT 52 (2002) 275-278, il testo raccomanda la
produzione di birra, gettando appunto il pane nellʼacqua.
90 A. NICCACCI

Come in 2,24 (§ 2.1), il passo sulla gioia è grammaticalmente legato a ciò


che precede. Il waw di 11,7 introduce però un argomento nuovo, collegato
comunque a 11,6 per quanto riguarda la ricerca di ciò che è buono nella vita,
come suggerisce la connessione lessicale MyIbwøf / bwøf◊w. Si tratta di una breve
proclamazione di gioia (11,7) a cui viene agganciato un invito alla gioia, pri-
ma indiretto (in terza persona: “sia nella gioia / e ricordi”), poi diretto (con
appello diretto e in seconda persona: 11,9-12,1). Così i due generi letterari,
proclamazione e invito, che finora sono comparsi separati (proclamazione in
2,24-26; 3,12-13.21-22; 5,17-19; 8,15; invito in 7,13-14; 9,7-10) vengono
collegati lʼuno allʼaltro.
Dal punto di vista sintattico, il fatto che jDmVcˆy sia seguito da rO;k◊zˆy◊w, che è
una forma verbale volitiva, suggerisce che anche jDmVcˆy sia volitivo113, per cui
si tradurrà appunto: “sia nella gioia / e ricordi”. Ma allora il modo come la
proclamazione (con costrutto indicativo) e lʼinvito (con forme verbali voliti-
ve, imperativo o iussivo) sono collegati è singolare, dato che di solito la for-
ma volitiva, con cui si enuncia lʼinvito (positivo) o la proibizione (negativa),
precede quella indicativa, la quale viene introdotta da yI;k e ne rappresenta la
motivazione (cf. ad es. 9,7-9: “Vaʼ, mangia… / e bevi… / poiché Dio ha già
gradito…”). Qui invece avviene il contrario, per cui i commentatori avver-
tono il problema di come tradurre il primo yI;k di 11,8. Con lʼacutezza che lo
distingue, Delitzsch rifiuta lʼinterpretazione di yI;k asseverativo, nel senso di
“sì, certo”, e commenta:
“If it had been said: man must enjoy himself as long as he lives, for the light is sweet,
etc., then the joy would have its reason in the opportunity given for it. Instead of this, the
occasion given for joy has its reason in this, that a man ought to rejoice, viz., according to
Godʼs arrangement and ordinance: the light is sweet, and it is pleasant for the eyes to see
the sun; for it ought thus to be, that a man, however long he may live, should continue to
enjoy his fair life, especially in view of the night which awaits him” (p. 398).

La luce del sole è dunque cosa buona perché è volere di Dio che lʼuomo
ne goda. È volere di Dio anche che lʼuomo, per contrasto, “ricordi i giorni
delle tenebre, / che saranno in quantità: / tutto ciò che verrà è vanità” (11,8;
cf. § 1.1).
Mentre lʼespressione “sia nella gioia” (radice jmc) è comune in Qohelet,
quella successiva “e ricordi i giorni delle tenebre (JKRvOjAh yEm◊y_tRa rO;k◊zˆy◊w)” è uni-
ca; dal parallelismo antitetico con “nei giorni della tua gioventù” (11,9), si
comprende che essa allude alla vecchiaia. Lʼespressione comunque suona
contraddittoria rispetto a 5,19: “Infatti non ricorderà molto (rO;k◊zˆy hE;b√rAh aøl)

113. Cf. il mio articolo “A Neglected Point of Hebrew Syntax: Yiqtol and Position in the
Sentence”, LA 37 [1987] 7-19, § 1.3.2.
QOHELET 91

i giorni della sua vita, / poiché il Signore lo tiene occupato con la gioia del
suo cuore”. Ma la contraddizione è solo apparente. Infatti in 5,19 si dice che
Dio, per sua grazia, libera lʼuomo dal penoso ricordo della brevità della vita,
mentre in 11,8 questo stesso ricordo viene presentato come uno stimolo a
sfruttare al meglio il tempo concesso per godere.
Lʼinvito diretto alla gioia comprende due unità parallele:
11,9 // 11,10-12,1-2.6
a) (9) ÔKyRt…wdVlÅyV;b r…wjD;b jAmVc a) (10) ÔKR;bI;lIm sAoA;k rEsDh◊w
Sii nella gioia, o giovane, E rimuovi la preoccupazione dal tuo cuore
nella tua adolescenza
ÔKV;bIl ÔKVbyIfyˆw ÔK®rDcV;bIm hDo∂r rEbSoAh◊w
e il tuo cuore ti renda felice e allontana la tristezza dalla tua carne,
ÔKRtwør…wjVb yEmyI;b lRbDh t…wrSjAÚvAh◊w t…wdVlÅ¥yAh_yI;k
nei giorni della tua gioventù, poiché lʼadolescenza e i capelli neri sono vanità!
ÔKV;bIl yEk√rådV;b JKE;lAh◊w
e cammina nelle vie del tuo cuore
ÔKy‰nyEo yEa√rAmVb…w
e nelle visioni dei tuoi occhi!
b) hR;lEa_lD;k_lAo yI;k o∂d◊w b) (1) ÔKyRa√rwø;b_tRa rOk◊z…w
E sappi che su tutto questo E ricorda il tuo Creatore
ÔKyRtOr…wjV;b yEmyI;b
nei giorni della tua gioventù,
fDÚpVvI;mA;b MyIhølTaDh ÔKSayIb◊y hDo∂rDh yEm◊y …waøbÎy_aøl rRvSa dAo
Dio ti condurrà in giudizio! prima che vengano i giorni tristi
rAmaø;t rRvSa MyˆnDv …woyˆ…gIh◊w
e giungano anni in cui dirai:
XRpEj MRhDb yIl_NyEa
Non ne provo alcun piacere.
(2) rwøaDh◊w vRmRÚvAh JKAvVjRt_aøl rRvSa dAo
Prima che si oscuri il sole e la luce
(…) MyIbDkwø;kAh◊w AjérÎ¥yAh◊w
e la luna e le stelle…
(6) (…) PRsR;kAh lRbRj qEj∂r´y_aøl rRvSa dAo
Prima che si allontani la corda di argento…

Richiama lʼattenzione anzitutto il fatto che gli inviti (che in questo


brano sono sette: sei diretti, allʼimperativo, e uno indiretto, allo iussivo:
“ti renda felice”) siano rivolti al “giovane” (r…wjD;b), non più allʼ“uomo” in
generale (M∂dDaDh) come in 11,8 e in tutti gli altri casi nel libro. È la prima
volta che il destinatario dellʼinsegnamento viene chiamato così. È natu-
rale riferire al giovane anche lʼappellativo yˆnV;b “figlio mio” di 12,12; del
resto lʼammonizione, “faʼ attenzione! / Fare libri in quantità non ha fine
92 A. NICCACCI

/ e lo studio in quantità è stanchezza della carne” (12,12), si comprende


bene rivolta a un giovane. Leggendo il libro, egli potrebbe venir preso
dallʼentusiasmo di gettarsi nella logorante impresa di seguire le orme di
Qohelet, il quale non solo fu saggio per se stesso ma anche “ponderando
e ricercando114, / formulò detti in quantità… / cercò di trovare pregevoli
parole / e uno scritto con rettitudine, parole di verità115” (12,9-10).
Ricordiamo che yˆnV;b “figlio mio” è lʼappellativo usuale con cui il libro
dei Proverbi apre le istruzioni (soprattutto in Pro 1-9), mentre Qohelet lo usa
solo in questo caso (12,12). Ora secondo la tradizione ebraica, da giovane
Salomone scrisse il Cantico dei cantici, da uomo maturo Proverbi e da vec-
chio Qohelet. E in effetti le devastanti riflessioni di questʼultimo si direbbero
rivolte allʼuomo vecchio, o almeno maturo, che si immagina meglio equipag-
giato del giovane a reggerne lʼurto. Ma il saggio non dimentica il giovane;
anzi, giunto al termine e al culmine della sua opera, si rivolge direttamente a

114. Rendo così, con il gerundio, la funzione dei due weqatal che precedono il qatal:
hE;b√rAh MyIlDvVm Né;qI;t ré;qIj◊w N´ΩzIa◊w, letteralmente: “mentre/poiché ponderava e ricercava, formulò
molti detti” (cf. supra, note 26 e 49). Secondo la regola, quando si riferisce al passato,
weqatal è forma verbale descrittiva, indica abitudine, ripetizione, continuità. In questo
caso è legata al qatal successivo come precisazione (sfondo) dellʼinformazione princi-
pale (Né;qI;t, qatal di primo piano). Una sequenza analoga si trova nella prima parte di 12,9:
MDoDh_tRa tAoå;d_dA;mIl dwøo MDkDj tRlRhOq hÎyDhRv rEtOy◊w “E oltre che Qohelet fu un saggio, / insegnò
anche conoscenza al popolo”, dove la specificazione è espressa mediante un qatal (hÎyDhRv,
sfondo) che, a differenza del weqatal, comunica una precisazione unica, puntuale rispetto
allʼinformazione principale che segue (dA;mIl, primo piano). Unʼaltra sequenza analoga, però
con wayyiqtol al posto di qatal nella seconda proposizione (principale), si trova in 4,1, ri-
petuta in 4,7: hRa√rRaÎw yˆnSa yI;tVbAv◊w “continuando io (letteralmente: ʻmentre/poiché tornavo ioʼ)
vidi”. La struttura sintattica di queste sequenze è proposizione circostanziale/subordinata +
proposizione principale, o protasi + apodosi, che è la struttura dello “schema sintattico a due
membri”, o “proposizione duplice” (cf. Syntax of the Verb, cap. VIII nelle varie edizioni).
In questo costrutto, la seconda proposizione, quella principale, quando si riferisce allʼasse
del passato, può essere espressa sia con qatal (come in 12,9) che con wayyiqtol (come in
4,7); cf. ibid., §§ 113-114.
115. 12,10 tRmTa yérVbî;d rRvOy b…wtDk◊w: il participio b…wtDk◊w viene in genere rivocalizzato come
infinito assoluto di continuazione: “cercò… e scrisse”, ma il TM è comprensibile comʼè.
La soluzione migliore sembra quella della LXX che lʼha interpretato come un participio
sostantivato: e˙zh/thsen ΔEkklhsiasth\ß touv euJrei√n lo/gouß qelh/matoß kai« gegramme÷non
eujqu/thtoß “Qohelet cercò di trovare di trovare parole piacevoli e uno scritto di rettitudi-
ne”. Invece Delitzsch preferisce intenderlo come participio neutro (senza concordanza),
accompagnato da un accusativo di modo, riferito a un secondo oggetto posposto: “Koheleth
strove to find words of pleasantness, and, written in sincerity, words of truth” (p. 432).
Curiosamente, Ibn Ezra intende il costrutto sul modello di rDvÎ¥yAh rRpEs_lAo hDb…wtVk h´…nIh “Ecco
(questo lamento) sta scritto nel Libro del Giusto” (2 Sam 1,18) e ipotizza che lʼespressione
designi unʼaltra opera dellʼautore perduta: “Y lo escrito correctamente (rRvOy) se interpreta
como «[lo escrito] en el Libro del Justo (rDvÎ¥yAh)»…, pero no lo tenemos” (Gómez Aranda
[ed.], El comentario de Abraham Ibn Ezra al libro del Eclesiastés, 189).
QOHELET 93

lui, convinto certo che egli si trova nelle condizioni ideali per sperimentare e
apprezzare al meglio il suo impegnativo programma di vita116.
Alcuni inviti rivolti al giovane, soprattutto “cammina nelle vie del tuo
cuore / e nelle visioni dei tuoi occhi” (11,9), suonarono spinti agli orecchi
dei rabbini, alcuni dei quali vollero escludere dal canone il libro di Qohelet
perché contraddiceva la Legge di Mosè, specificamente in questo caso Nm
15,39, che prescriveva agli Israeliti di fare dei fiocchi alle estremità del ve-
stito (tIxyIx), “e così – dice il Signore – ricorderete tutti i comandamenti del
Signore e li eseguirete e non andrete vagando dietro al vostro cuore e dietro
ai vostri occhi (MRky´nyEo yérSjAa◊w MRkVbAbVl yérSjAa …wrUtDt_aøl◊w), dietro ai quali voi com-
mettete prostituzione”. Si legge che però il libro di Qohelet non fu escluso
grazie a ciò che segue: “E sappi che su tutto questo / Dio ti condurrà in giu-
dizio”117. In realtà ritroviamo qui ancora un elemento tipico della ricerca di
Qohelet, il quale vuole tenere insieme sia la saggezza che la stoltezza in un
equilibrio che è assicurato dal timore di Dio (§ 1.1; cf. 7,13-14, § 2.4).
Secondo il suo modo usuale di procedere, Qohelet invita il giovane per due
volte a tenere insieme i due poli del suo insegnamento: a) lʼinvito a godere e b)
il ricordo di Dio creatore e giudice, il che poi non è altro che il timore di Dio. La
prima volta con le parole: a) “sii nella gioia… / e il tuo cuore ti renda felice…
/ e cammina nelle vie del tuo cuore”, e b) “e sappi che su tutto questo / Dio ti
condurrà in giudizio”; la seconda volta con: a) “E rimuovi la preoccupazione…
/ e allontana la tristezza…”, e b) “e ricorda il tuo Creatore…”118. Alla luce di

116. Diversamente, per Lohfink, “Freu dich, Jüngling”, lʼinvito di 11,9 non si accorda con il
messaggio di Qohelet, anche perché altrove il saggio non si rivolge mai al giovane. Per lui,
“Was in 11,9 anhebt, ist nicht seine eigene Stimme [di Qohelet]. Er singt zwar selbst. Aber
er nimmt eine fremde Stimme auf” (p. 184). Lohfink afferma anche che lʼinvito a godere
la gioventù perché presto viene la vecchiaia (“freut euch der Jugend, denn bald kommt das
Alter”, p. 183) sia una distorsione del pensiero di Qohelet derivata dalla cultura ellenistica
che ammetteva una deificazione della gioventù. Osserverei però che il testo dice esattamente
“prima che vengano i giorni tristi (hDo∂rDh yEm◊y …waøbÎy_aøl rRvSa dAo)” della vecchia (12,2), non
“poiché…”. Se, come credo, il punto è anche qui vivere secondo il “tempo” concesso da
Dio (cf. 3,1-8), quel giudizio va rivisto.
117. Cf. Rosenberg, The Five Megilloth, 152. Si vedano anche i testi giudaici riportati nel
mio saggio La casa della Sapienza, 27.90.135. Per unʼesegesi di 11,9 contraria allʼopinione
di quelli che lo attribuiscono a un pio glossatore o epiloghista si veda Maussion, Le mal, le
bien et le jugement de Dieu dans le livre di Qohélet, 167-170.
118. A.J.O. van der Wal, “Qohelet 12,1a: A Relatively Unique Statement in Israelʼs Wisdom
Tradition”, in: Schoors (ed.), Qohelet in the Context of Wisdom, 413-418, difende giustamente
la lezione del TM ÔKyRa√rwø;b_tRa “il tuo Creatore” in 12,1 (cf. LXX: kai« mnh/sqhti touv kti÷santo/ß
se; Volgata: “memento creatoris tui”) contro alcune proposte di cambiarla (p. 417), compresa
quella di A. Rofé, “La formulazione sapienziale «Non dire…» e lʼangelo di Qo 5,5”, in: Bellia
- Passaro (edd.), Il libro del Qohelet, 217-226, spec. 226, nota 20. In effetti, benché il termine
in sé sia unico, la fede in Dio creatore è la base della sapienza biblica.
94 A. NICCACCI

questo modo di procedere, che tiene insieme, uno di fronte allʼaltro, i due aspetti
contrastanti dellʼesperienza (sapienza e stoltezza, ricerca di senso e godimento,
ecc.), è preferibile tradurre “e sappi / e ricorda” piuttosto che “ma sappi / ma
ricorda”. La differenza è piccola, ma è questione di mentalità e di stile.

2.8. Valutazione

La prima impressione che si prova leggendo questi testi è che le procla-


mazioni (con forme verbali indicative) come anche gli inviti alla gioia
(con forme verbali volitive) giungono a conclusione di riflessioni negative
di Qohelet. Questo è lʼaspetto che gli interpreti sottolineano e spesso ne
traggono conclusioni che rischiano di essere parziali. In effetti questa im-
pressione va controllata.
In tre casi le riflessioni negative iniziano con la domanda “cosa viene al-
lʼuomo? (2,22 = 1˚ passo) / qual è lʼutilità di colui che fa? (3,9 = 2˚ passo) / qual
è il vantaggio… cosa è bene per lʼuomo? (6,11-12 = 4˚ passo)”; in due casi con
la negazione esplicita “cʼè un male terribile (5,12.15 = 3˚ passo) / cʼè una vanità
(8,14 = 5˚ passo; cf. 10,5 = 7˚ passo)”; e in due casi con la formula che introduce
il risultato della ricerca: “Quando posi il mio cuore… vedevo (8,16-17 = 6˚
passo) / di nuovo vidi… anche questo ho visto (9,11.13 = 7˚ passo)”.
È importante notare che le riflessioni e/o esperienze di segno negativo
non compaiono mai da sole; sono sempre accompagnate da riflessioni e/o
esperienze di segno positivo. Il fatto che vengano enunciate in coppia sugge-
risce che non sono assolute né le prime né le seconde. Il male non è assoluto
perché di fronte ad esso compare il bene; il bene non è assoluto perché è in
ogni caso limitato, ha fine. Qohelet pessimista? No. Qohelet ottimista? No.
Qohelet che valuta ogni aspetto dellʼesperienza? Sì.
Non è esatto dire perciò che le proclamazioni o inviti alla gioia vengano
al termine di riflessioni negative soltanto; vengono dopo la constatazione
che lʼesperienza è ambivalente, nel senso che dà sempre risposte doppie: una
positiva e una negativa.
Per una valutazione completa della proposta del saggio occorre notare
il ruolo di Dio e quello dellʼuomo nelle vicende del mondo (cf. § 1.3). La
vita sulla terra è un incontro dellʼuomo con Dio, dellʼattività dellʼuomo con
quella di Dio; e questʼultima comprende la creazione e la provvidenza, cioè
la guida divina degli eventi. Compito dellʼuomo è investigare lʼopera di Dio
facendo esperienza di essa. Il fare esperienza (come il “mangiare” nel rac-
conto di Gen 3) produce conoscenza e potere. Lʼuomo si rende conto però
che non riesce a comprendere lʼopera di Dio dallʼinizio alla fine.
QOHELET 95

Il mistero di Dio è il vero problema di Qohelet. Chi si lascia guidare dal


timore di Dio impara dallʼesperienza che Dio segue delle regole ben precise
nel governo del mondo; regole immutabili, a cui non cʼè nulla da aggiungere
né da togliere. Comprende che da Dio provengono il bene e il male, il premio
e il castigo, la vita e la morte, dato che non esiste altro principio accanto a lui;
e perciò sia la realtà positiva che quella negativa è buona a suo tempo, dato
che il Dio giusto e retto fa accadere entrambe nella vita, ma nessun uomo,
neppure il saggio, può prevedere i tempi adatti (3,1-11).
La vita dellʼuomo sulla terra produce fatica e frustrazione. Lʼesperienza
contraddice o non consente di provare ciò che la fede e la sapienza tradizio-
nale di Israele affermano. Ad esempio, per quanto riguarda la retribuzione
del giusto e del malvagio, uno fatica, accumula beni ma non gli è concesso
di goderne (8,14); lʼingiustizia è presente nel luogo stesso dove dovrebbe
regnare il diritto, il tribunale (3,16); unʼunica sorte, la morte, attende giusti
e malvagi (9,2); il successo non è assicurato per chi lo merita (9,11); talvolta
il mondo va al rovescio di come dovrebbe andare (10,5-8), e chi potrà rad-
drizzare ciò che è storto? (1,15; 7,13). Quanto alla distinzione tra uomini e
bestie, chi sa se lo spirito umano va in alto e quello animale in basso? (3,21);
nessuno conosce cosa avverrà dopo la morte (7,14).
Nel dichiarare lo scopo dellʼagire spesso indecifrabile di Dio Qohelet
utilizza talvolta parole dure: affinché lʼuomo comprenda che in se stesso è
come lʼanimale, cioè creatura mortale come tutte le altre (3,18-20); affinché
non comprenda il suo futuro dopo la morte (7,14); affinché non comprenda
tutta lʼopera di Dio (3,11), neppure il sapiente (8,17); affinché abbia il timore
di Dio (3,14).
Emerge comunque il legame del pensiero di Qohelet con il timore di Dio
che per i saggi israeliti è “principio della sapienza”. Lʼagire di Dio ha lo sco-
po di mostrare allʼuomo che è una creatura, che non è in grado di compren-
dere la creazione né di manipolarla a suo piacimento, e perciò deve temere
Dio che lʼha fatta e la governa, riconoscerlo, sottomettersi a lui e comportarsi
di conseguenza.
Questa idea non è lontana da ciò che si legge nel libro di Giobbe, in
particolare negli interventi di un personaggio spesso frainteso come Elihu
(Gb 32-37)119. Elihu ha un ruolo importante nella conversione di Giobbe:
conversione dalla pretesa di esigere da Dio una risposta al suo problema, alla

119. In La casa della Sapienza, 68-84 ho presentato una lettura popolare di questo impor-
tante complesso di capitoli che, lungi dallʼessere interpolazione tardiva, costituisce una
svolta nella trama del libro in quanto prepara la risoluzione del dramma che è rappresentata
dalla teofania.
96 A. NICCACCI

cordiale sottomissione a lui senza bisogno di alcuna risposta. Con la saggezza


che gli viene non dallʼetà ma dallo spirito del Signore (32,7-9), il giovane
interlocutore mostra che lʼatteggiamento della creatura verso il Creatore non
può essere quello di Giobbe, il quale sa di essere giusto e perciò pretende
di mettere Dio sotto accusa. Infatti, argomenta Elihu, lʼordine che regola
gli uomini e il mondo sfugge totalmente al controllo della creatura. Il Dio
trascendente, benché sia luce suprema (37,21), è tenebra assoluta per lʼuomo
(37,19b), il quale non può giungere a lui (37,23a), né vederlo (33,14b; 37,21),
né disputare con lui (33,13a; 37,19), né rispondergli (33,13b; 37,23b). Eppure
Dio parla allʼuomo, sia attraverso la sofferenza che attraverso le opere della
creazione. Lʼatteggiamento corretto può essere perciò solo quello del “timo-
re di Dio”, lʼunico che pone lʼuomo nella condizione di capire il messaggio
divino. Infatti il “timore di Dio”, cioè il riconoscimento che egli è il Creatore
sovrano e che la creatura è in tutto dipendente da lui, dà allʼuomo la possi-
bilità di comprendere le cose nella loro giusta realtà e se stesso nel quadro
dellʼordine cosmico120.
Ciò non significa affatto che lʼuomo debba abdicare alla sua dignità; al
contrario solo in questa visione di fede egli può trovare il suo posto come re
della creazione per volontà del Creatore, affinché viva in essa in modo ordi-
nato e lo lodi incessantemente. Il motivo dellʼagire di Dio non è dunque né
la crudeltà: umiliare lʼuomo, né la gelosia: impedire che egli si appropri di
prerogative divine. È piuttosto, secondo il libro di Giobbe, liberare lʼuomo
dal suo peccato più grande, la hÎw´…g, cioè lʼ“orgoglio”, che è poi la ridicola
pretesa, la hybris della creatura che vuole prendere il posto del Creatore (Gb
33,17). Questo è il peccato dellʼuomo.
Vale la pena ribadire che il timore di Dio in Qohelet non è diverso da
quello di Proverbi e di Giobbe, anche se il nome divino usato è MyIhølTa, non
hÎwh◊y, che non compare mai in Qohelet. Ma non cʼè motivo per dubitare che
sia lo stesso Dio, cioè il Dio dei saggi, creatore e Signore provvidente.
Abbiamo accennato sopra che nella tradizione dei saggi il “timore del
Signore” è lʼinizio della sapienza, nel senso che “dispone ad acquistarla e la
insegna” (§ 2.4). Mette cioè lʼuomo nella giusta disposizione per riconoscere
il mondo come opera di Dio, che lo ha creato e lo governa secondo un piano
ben preciso che è la sua sapienza, e per acquistare conoscenza facendo espe-
rienza del mondo, quasi estraendo dalle creature la sapienza di Dio che è in

120. Del tutto fuorviante mi sembra perciò lʼaffermazione di R. Braun, Kohelet und die
frühhellenistische Popularphilosophie, Berlin - New York 1973, 127: “Demnach ist festzu-
stellen, daß für die Griechen wie für Kohelet religiöse Betätigung nur aus Furcht vor einem
negativen Eingreifen der Gottheit geschieht”.
QOHELET 97

esse, o “mangiandole” secondo il linguaggio di Gen 3. È questo il principio


biblico della conoscenza, molto diverso da quello dei filosofi, un principio
secondo cui il conoscere è unʼinterazione tra “lʼautorivelarsi della creazione”
e la ricerca dellʼuomo121.
Questa concezione non è esclusiva della sapienza “ottimistica”; è carat-
teristica della sapienza tout court, anche di Giobbe:
(25) Quando (Dio) stabilì per il vento un peso / e lʼacqua ponderò con la misura,
(26) quando stabilì per la pioggia una legge / e una via per il fulmine dei tuoni,
(27) allora la vide [= la sapienza] e la enumerò, / la stabilì e anche la scrutò
(28) e disse allʼuomo: / Ecco, il timore del Signore è sapienza /
e allontanarsi dal male, intelligenza! (Gb 28,25-28).

A Gb 28 (e a Pro 8) fa eco Sir 1122:


(1) Ogni sapienza è da presso il Signore / ed è con lui per sempre.
(2) La sabbia del mare, le gocce della pioggia / e i giorni del mondo, chi potrà contarli?
(3) Lʼaltezza del cielo, lʼestensione della terra, / lʼabisso e la sapienza, chi potrà esplorarle?
(4) Prima fra tutte le cose fu creata la sapienza / e la saggia prudenza è da sempre.
(6) La radice della sapienza a chi è stata rivelata / e i suoi segreti chi li ha conosciuti?
(8) Uno solo è saggio, molto terribile, / seduto sul suo trono.
(9) Il Signore stesso la creò, / la vide e la contò, / e la versò su tutte le sue opere,
(10) con ogni carne secondo il suo dono, / e lʼha concessa a quelli che lo amano (Sir 1,1-10).

Non cʼè alcuna dissonanza tra questi testi, diversi per autore e per tempo
di composizione ma uniti nella medesima prospettiva di fondo. Per tutti, il
timore di Dio è la chiave che dà accesso a una conoscenza del mondo che è
insieme frutto di rivelazione divina e di ricerca umana123.
Tornando a Qohelet, notiamo che i dati fortemente negativi, le espressio-
ni dure, devastanti, non sono lʼultima parola del saggio. Infatti il suo sforzo si

121. Von Rad, La sapienza in Israele, illustra questo argomento in un magnifico capitolo,
il cap. IX, intitolato appunto “lʼautorivelarsi della creazione”. Sul “problema dei rapporti
tra la sapienza immanente al mondo e lʼuomo” egli scrive: “Questo mistero dellʼordine del
mondo [che è la sapienza] non si limita a interpellare lʼuomo, lo ama!” (p. 153).
122. Per lʼinterpretazione di Gb 28, la sua funzione nellʼinsieme del libro e in rapporto a Pro
8 e Sir 1, e per una visione complessiva della sapienza biblica, mi permetto di rimandare
ai miei saggi “Giobbe 28”; “La teologia sapienziale nel quadro dellʼAntico Testamento”; e
La casa della sapienza, 53-84; 137-182. Si possono consultare anche tre miei contributi in
versione elettronica (dicembre 2003): “An Overview of the Wisdom Books and Theology”,
“The Meaning of the Book of Job”, e “An Alternative Way to Redemption – Nature and
Man in Wisdom Literature” in http://198.62.75.1/www1/ofm/sbf/SBFessay.html.
123. Una visione molto diversa presenta T. Frydrych, Living under the Sun. Examination of
Proverbs and Qohelet, Leiden - Boston - Köln 2002, il quale crede di scoprire una serie di
contrapposizioni tra Qohelet, pessimista, e “the proverbial sages” più antichi, ottimisti.
98 A. NICCACCI

indirizza costantemente a ricercare ciò che è bene per lʼuomo nella sua espe-
rienza faticosa e stressante; più esattamente, a riconoscere ciò che Dio gli
concede come unʼ“ombra” che dà conforto e sostegno nella sua vita “sotto il
sole”. Mediante una serie di affermazioni paradossali, 7,1-12 mostra come il
saggio vada ben oltre le apparenze fino al cuore della realtà. Non proclama la
gioia del carpe diem, spensierata o rassegnata che sia, ma mostra lʼutilità di
varie situazioni, anche dure, della vita, come la riflessione di fronte al lutto e
alla morte, la serietà e lʼimpegno che sanno accettare anche il rimprovero del
saggio, la calma e la pazienza per portare a termine unʼattività, lʼutilità della
ricchezza che però non è assoluta ma subordinata a quella della sapienza, la
quale sola permette di giungere alla pienezza della vita.
In questo contesto si comprendono correttamente le asserzioni e gli inviti
alla gioia. Nellʼambiguità, stress, fatica incessante dellʼuomo nella sua vita
sotto il sole, Dio va incontro alla sua creatura, gli offre riparo e conforto; così
lʼuomo “non ricorderà molto i giorni della sua vita (che sono brevi e pieni di
fatica), / poiché il Signore (lo) tiene occupato (o: [gli] risponde) con la gioia
del suo cuore” (5,19), e la gioia “lo accompagnerà nella sua fatica / nei giorni
della sua vita che il Signore gli ha dato / sotto il sole” (8,15). In effetti una co-
stante delle dichiarazioni e degli inviti alla gioia è il riferimento a Dio: poter
mangiare e bere viene dalla mano di Dio (2,24 = 1˚ passo); godere è dono di
Dio (3,13 = 2˚ passo); è bello godere nella vita che Dio ha dato (5,17-18 = 3˚
passo); sia il bene da godere che il male in cui bisogna riflettere sono opera
di Dio (7,13-14 = 4˚ passo); la gioia è una compagna della vita data da Dio
(8,15 = 5˚ passo); mangiare e bere nella gioia significa che Dio ha gradito le
opere dellʼuomo (9,7 = 6˚ passo); il giovane deve godere e ricordarsi del suo
Creatore (11,19-12,1 = 7˚ passo).
Godere quando Dio concede la gioia e riflettere quando manda il dolore
(7,14) per comprendere il suo messaggio è possibile a colui che ha il timore
di Dio. Solo il timorato è in grado di vivere in armonia con i tempi di Dio,
sia con il tempo del bene che con quello del male124. Solo lui è in grado
di investigare il senso della realtà senza giungere al punto in cui questo

124. Non posso perciò condividere unʼidea ricorrente di Sacchi, secondo cui in Qohelet
bisogna distinguere il “bene-per-lʼuomo” dal “bene-per-Dio”. Egli scrive: “Secondo una ter-
minologia moderna, si può dire che per Qohelet non esiste il problema che cosa sia il bene,
cioè il bene-per-Dio. Questo non riguarda lʼuomo. Il problema di Qohelet è molto concreto,
egli vuol sapere che cosa è il bene-per-lʼuomo, senza nessuna costruzione intellettualistica”
(p. 39). Qohelet cerca il bene per lʼuomo alla luce della fede. Non si sognerebbe mai di
cercare il bene fuori di Dio, come non si sognerebbe di dichiarare “assurda” lʼopera della
creazione e il governo divino del mondo, nonostante lʼincapacità umana di comprendere
fino in fondo (cf. nota 29).
QOHELET 99

sforzo, che è faticoso e stressante, gli distrugga la vita (7,16-18; 12,12);


dʼaltra parte, solo lui è in grado di godere dei beni della vita conservando
la saggezza e la misura e senza dimenticare che di tutto Dio gli chiederà
conto (11,9)125.
Un aspetto da sottolineare è che il godere è insieme dono di Dio e opera
dellʼuomo: nel linguaggio di Qohelet, è la “sua parte”, la ricompensa della
sua fatica. Onnipotenza e bontà di Dio, da un lato, sottomissione e dignità
dellʼuomo, dallʼaltro, sono i poli della riflessione di Qohelet come anche
degli altri saggi israeliti. Ne consegue un ordine, unʼarmonia che riscatta
ogni fatica e ogni stress. Per cui la conclusione del libro (12,13-14), dopo
tutte le dure espressioni che vi compaiono, non è stonata né sdolcinata né ac-
comodante. È vera e piena conclusione, succo nutriente che sostiene la dura
esistenza dellʼuomo credente sulla terra.
Se queste conclusioni sono giuste, varie opinioni correnti su Qohelet
dovranno essere profondamente riviste. Si dovrà convenire, ad esempio, che
lo scetticismo non si applica a Qohelet, perché secondo lui non è che lʼuomo
non possa conoscere, ma piuttosto che non può conoscere completamente,
fino in fondo: non può conoscere il senso ultimo della realtà, i tempi del
governo del mondo, il futuro, ecc. Il saggio infatti riflette, dolorosamente
anche, sui limiti dellʼuomo, ma non nega le sue capacità; anzi, i limiti sono
per il timorato di Dio uno stimolo ad accogliere il positivo che Dio concede
nella vita e a non voler rovinarsi lʼesistenza volendo oltrepassare le colonne
dʼErcole!
Scopo di Qohelet è portare lʼuomo a riconoscere, accettare e convivere
con i propri limiti attraverso unʼanalisi rigorosa delle contraddizioni dellʼesi-
stenza, contraddizioni che derivano dal fatto che esperienza e fede appaiono
spesso in contrasto lʼuna con lʼaltra. Questa constatazione non è nuova né
esclusiva di Qohelet: si pensi ai testi sul problema della prosperità dei malva-

125. Maussion, Le mal, le bien et le jugement de Dieu dans le livre di Qohélet, presenta una
lettura del libro di Qohelet basata sul rapporto dinamico che lega male, bene e giudizio di
Dio. In linea generale, questa impostazione interpretativa non è molto diversa dalla mia che
comprende: dato negativo, dato positivo e invito alla gioia reso possibile dal timore di Dio;
timore di Dio che consente non solo di convivere con i dati negativi dellʼesperienza ma an-
che di godere positivamente delle gioie che Dio concede. Dice bene Maussion: “En résumé,
le livre de Qohélet, loin dʼêtre pessimiste, laisse au contraire percevoir une perspective très
positive, puisquʼil offre une éthique de vie raisonnable et pratique: car sʼil est nécessaire de
savoir accueillir la joie donnée par Dieu lorsquʼelle se présente, il est toujours indispensable
de la mettre en pratique dans un agir quotidien sensé et juste. La présence incontournable du
mal, au lieu de susciter le découragement, doit inciter lʼhomme à réfléchir et à le dépasser.
Au demeurant, lʼéthique de Qohélet se résume admirablement dans ces trois mots: «ainsi,
crains Dieu» (Qo 5,6)” (p. 177).
100 A. NICCACCI

gi, ad es. Sal 37,2-3; Pro 23,17; 24,1.19; Mal 3,13-18126. Nuovo è il fatto che
quella constatazione è diventata un argomento primario del libro di Qohelet.
Il modo in cui le contraddizioni si configurano (dato di esperienza contro
dato di fede) esclude ogni interpretazione di Qohelet come critico della sa-
pienza o della fede tradizionale, come pessimista, materialista, immorale,
scettico, ironico, e cose del genere127.
Stando così le cose, si comprende che non vedo alcun motivo per invo-
care un pio glossatore e/o uno o due epiloghisti. Le contraddizioni, dato ne-
gativo contro dato positivo, fanno parte del modo di ragionare e di esporre di
Qohelet, e prima ancora della sua esperienza di saggio impegnato allʼinterno
di una comunità credente: ne sono costitutive. Diversamente non è possibile
intenderlo per quello che è e vuole comunicare, ma lo si riduce, appunto, a un
nichilista, a uno scettico, a un critico, o a un ironico più o meno amaro128.
Quella di Qohelet è, al contrario, una riflessione ed esposizione estrema-
mente seria, che certo non fa sconti ma che mira a creare più che a distrugge-
re. A creare fiducia, nonostante tutto, nella fedeltà del Creatore provvidente,
il quale dà allʼuomo che ha il suo timore modo e tempo per discernere ciò
che è davvero bene per lui nella sua dura fatica sotto il sole e per godere del
frutto del proprio lavoro come sua parte e insieme come dono dallʼalto. È

126. Al riguardo si possono consultare i miei saggi “Proverbi 23,12-25”, LA 47 (1997)


33-56, spec. 49-50; “Proverbi 23,26-24,22”, LA 48 (1998) 49-104, spec. 76.90-91.97-98; e
“Poetic Syntax and Interpretation of Malachi”, LA 51 (2001) 55-107, spec. 97-99.
127. L. Mazzinghi, “«Gioisci, giovane, nella tua giovinezza!». Il libro del Qohelet e la gioia
del vivere”, PSV 45 (2002) 41-54, vede bene la gioia come parte dellʼuomo e dono di Dio.
Tuttavia non direi, per quello che le espressioni evocano, che la gioia è “la parte che spetta
allʼuomo” (p. 50), né tradurrei “goditi la vita”, “passarsela bene” (pp. 51-52). Non direi
neppure che “il progetto del Qohelet non è certamente esaltante; la gioia di cui egli parla è
senzʼaltro molto limitata e per noi fin troppo concreta”. Come afferma E. Bons, “Das Buch
Kohelet in jüdischer und christlicher Interpretation”, in: Schwienhorst-Schönberger (ed.),
Das Buch Kohelet, 327-361, “Ein Gefühl der Überlegenheit gegenüber Kohelet ist… nicht
angebracht” (p. 355).
128. Non credo che lʼumorismo sia in grado di consentire un passaggio tranquillo dalle af-
fermazioni di assurdità a quelle di gioia come propone E. Levin, “The Humor in Qohelet”,
ZAW 109 (1997) 71-83. Curiosamente unʼinterpretazione abbastanza simile alla mia si legge
in F. Kutschera, “Kohelet: Leben im Angesicht des Todes”, in: Schwienhorst-Schönberger
(ed.), Das Buch Kohelet, 363-376, un filosofo che si definisce un “profano” (“Laie”) e che
confessa di non conoscere lʼebraico. Diversamente da quelli che vedono in Qohelet un
annunciatore della nullità della vita (come D. Michel e A. Lauha) o un annunciatore della
gioia (come N. Lohfink e L. Schwienhorst-Schönberger), Kutschera ritiene che entrambi
gli aspetti vadano tenuti insieme e siano necessari per lʼinterpretazione (p. 363); per cui:
“Das Buch verbreitet keinen Pessimismus oder düsteren Fatalismus, sondern endet mit einer
Aufforderung zu tatkräftigen Handeln und zum Lebensgenuß (11,4ff). Die Freude ist zwar
der bescheidene und flüchtige Anteil des Menschen am Glanz der Wirklichkeit, aber in ihr
erreicht uns doch für einen kurzen Moment ein Strahl ewigen Lichts” (p. 374).
QOHELET 101

una riflessione che, in caso, mira a distruggere la pretesa dellʼuomo di essere


lui il creatore, di voler raddrizzare ciò che è storto, di vivere secondo una
stoltezza estrema, cioè come se Dio non esistesse, godendo della vita senza
considerare il Creatore, facendo ingiustizia e violenza contro il prossimo; o
allʼopposto, di vivere secondo una sapienza estrema, prolungando lo sforzo
di comprendere la realtà fino a un punto che supera le possibilità della crea-
tura, volendo in qualche modo oltrepassare il limite che Dio gli ha posto non
per invidia ma perché corrisponde alla sua natura: questo sarebbe uno sforzo
che, paradossalmente, toglierebbe allʼuomo tempo e possibilità di accogliere
le gioie che Dio gli dà, quando glie le dà e di goderne con gratitudine.
La via indicata da Qohelet è singolare in quanto muove dai misteri della
vita, originati dal fatto che la sapienza di Dio, pur presente nel mondo resta
nascosta, pur accessibile allʼuomo timorato resta anche inaccessibile a mo-
tivo dei suoi limiti di creatura. Qohelet propone dunque di tenere insieme
i poli opposti: da un lato i dati positivi della fede e della conoscenza che
lʼuomo timorato può raggiungere, e dallʼaltro i dati negativi che lʼesperienza
della vita gli presenta. Il suo messaggio è che il timore di Dio consente di
trovare una buona uscita dalle contraddizioni, anzi un modo significativo di
convivere con esse, godendo delle gioie che il Signore concede come frutto
della propria fatica e riflettendo sul messaggio che egli comunica quando
manda la sofferenza.
Gli interpreti che privilegiano il polo negativo della riflessione fanno
torto a Qohelet. Ritenendo che egli sia critico della sapienza tradizionale e
della fede di Israele, intendono lRbRh come “assurdo” e a queste affermazioni
legano le proclamazioni e gli inviti alla gioia, come se il saggio proclamasse
un carpe diem spensierato, unʼaurea mediocritas o un ne quid nimis del buon
senso e della saggezza umana senza riferimento alla fede.
Unʼultima considerazione sui paralleli proposti per Qohelet129. Ho detto
allʼinizio che i passi non devono essere staccati dal loro contesto. Direi, alla

129. Trattando dei paralleli, spec. vicino-orientali antichi, S. Burkes, Death in Qoheleth
and Egyptian Biographies of the Late Period, Atlanta 1999, afferma giustamente che “a
parallel and an influence are two different creatures. The tendency, however, is to make a
leap from one to the other as if they were interchangeable” (p. 106). Lʼesposizione forse più
completa ed equilibrata sui paralleli extrabiblici di Qohelet è quella di Uehlinger, “Qohelet
im Horizont mesopotamischer, levantinischer und ägyptischer Weisheitsliteratur”. Lʼautore
sostiene che bisogna andare oltre il dualismo giudaismo-ellenismo e considerare un “terzo
orizzonte”: “eine ägypto-orientalische Koinè mit hellenistischer Koloration” (p. 206), una
filosofia legata allʼambiente aristocratico dei banchetti che si caratterizza per lʼinvito a go-
dere le gioie della vita come antidoto alla morte. Uehlinger ritiene che Qohelet rispecchi lo
stesso ambiente (“Sitz im Leben”) e che per questo, oltre che per il contenuto, si differenzi
dal libro dei Proverbi, che sarebbe invece legato allʼambiente della scuola. Per parte mia,
102 A. NICCACCI

fine dellʼesame, che i paralleli di ogni tipo che sono stati segnalati, sia elleni-
stici che vicino-orientali antichi, anche se molto simili, forse non presentano
unʼanaloga contrapposizione positivo-negativo risolta nel timore di Dio, dal-
la quale emergono le affermazioni e gli inviti di Qohelet, e perciò possono
essere, in fondo, molto diversi. E comunque ogni testo, sia dei paralleli che
di Qohelet, va prima interpretato nel proprio contesto e mondo ideale perché
il confronto sia significativo.

Alviero Niccacci, ofm


Studium Biblicum Franciscanum, Jerusalem

non credo che lʼambiente di Qohelet sia quello conviviale aristocratico. Da un lato, ho
cercato di mostrare che la finzione regale (“Königstravestie”) ha lo scopo di presentare
lʼesperienza di Qohelet come sommamente esemplare (§ 2.1); dallʼaltro, le proclamazioni
e gli inviti alla gioia sono legati a una serie così diversa di situazioni e di esperienze che
non mi sembrano collocabili nellʼambiente conviviale (pace Uehlinger, p. 234). Inoltre è
vero che è caratteristica di Qohelet, rispetto ai paralleli, lʼaffermazione ripetuta che la gioia
è dono di Dio; ma se la gioia è, come afferma Uehlinger, un “antidoto” alla morte (p. 234),
il fatto che venga dalla mano di Dio o che lʼuomo se la prenda da sé cambia poco: resta
comunque un rimedio a un dato assolutamente negativo (anche se non proprio un “narco-
tico”, cf. § 1.1, nota 14). Ciò che caratterizza Qohelet è piuttosto il fatto che la gioia è non
solo dono di Dio ma è anche “parte” dellʼuomo, frutto della sua fatica, per cui la vita è un
“bene” in sé anche se limitato nel tempo. È la dinamica positivo-negativo guidata dal timore
di Dio la vera caratteristica di Qohelet. E questo lo pone sulla linea di Proverbi e di Siracide
non meno che su quella di Giobbe, come ho cercato di mostrare sopra.

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