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• ATTEGGIAMENTO CRITICO:
1. Marx: il mondo capitalista è alienante e va superato attraverso un conflitto sociale profondo.
2. Durkheim: la società, anomica, è incapace di trovare un ordine stabile.
3. Weber: la razionalizzazione implica il dominio di un mondo insensato e meccanizzato.
4. Simmel: mondo moderno = interazioni sociali sempre più mutevoli, instabili e precarie.
In generale la sociologia è sempre stata caratterizzata da uno sguardo critico (non si esprimono mai
giudizi morali o di valore).
• QUANTITÀ / QUALITÀ:
Il denominatore comune di questo atteggiamento critico è la messa in luce della progressiva
sostituzione della quantità alla qualità, il dominio della logica della quantità. In fondo la quantità libera
l’umanità dalla fame, dalla miseria, ma soffoca la qualità.
Marx, Durkheim, Weber, Simmel… vedono nella modernità un mondo soffocato dall’indifferenza
verso i veri bisogni dell’individuo (autorealizzazione, senso della propria esperienza, della propria libertà…).
• MODERNITÀ E SECOLARIZZAZIONE:
Per secolarizzazione si intende un progressivo indebolimento della centralità della religione. Secondo
i sociologi classici, capire la modernità voleva dire fare i conti con la religione, che assume ruoli diversi in
base all’orientamento ideologico dell’autore.
1. Marx: la religione è una falsa concezione che deve essere superata.
2. Durkheim: il vero problema è il venir meno del ruolo tradizionale della religione (coesione sociale).
3. Weber: la modernità razionalizzata finisce per ridurre lo spazio della trascendenza.
• UN VOCABOLARIO CONCETTUALE:
Possiamo ora riassumere brevemente alcuni concetti chiave introdotti dagli autori già citati.
1. MARX parla di
1. modi,
2. tecniche,
3. forze e rapporti di produzione;
4. classi sociali,
5. coscienza di classe,
6. conflitto di classe,
7. stratificazione sociale;
8. ideologia, alienazione.
2. DURKHEIM introduce l’analisi dei concetti di
~ Solidarietà sociale;
~ Coscienza collettiva;
~ Devianza;
~ Rappresentazione individuale e collettiva;
~ sacro/profano;
~ Fatto sociale.
3. WEBER parla di:
~ Azione sociale, senso intenzionato, relazione sociale;
~ Razionalizzazione;
~ Carisma. Legittimazione, potere, burocrazia.
4. SIMMEL introduce la distinzione tra
~ forma/vita;
~ Effetto di reciprocità, interazione sociale, sociazione, differenziazione, cerchia
sociale, individuo blasé.
Infine, dalla presentazione di questi primi autori emergono una serie di distinzioni contrapposte e
ricorrenti. La più importante è quella tra individuo e società; altre, non meno significative, sono quelle tra
ordine e conflitto sociale, amabilità e mutamento sociale, società e comunità, cultura e struttura sociale,
valori e interessi, razionalità e irrazionalità.
La presentazione fatta potrebbe far pensare ad autori che preferiscono mettere l’accento su uno dei
due termini (Comte, Marx e Durkheim su quello di società; Weber e Simmel su quello di individuo),
tralasciando l’altro. In realtà non è cosi, semplicemente perché non è possibile farlo: il mondo moderno,
come abbiamo visto, è una società di individui. Studiarlo scientificamente significa rendere conto di come sia
possibile, di come funzioni e di come cambi una società cosi fatta. Società e individuo sono, cosi come tutti i
termini che compongono le altre distinzioni, gli elementi base di una grammatica generativa della teoria
sociologica moderna.
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Tutti gli elementi si innestano sull’idea di base per cui la società è il risultato delle interazioni concrete tra
individui all’interno di un contesto. Quest’ultimo non è una realtà indipendente e oggettiva, ma il risultato di
un processo di costruzione sociale: la sociologia deve studiare il senso che gli uomini danno alle situazioni in
cui si trovano e alle loro azioni.
Gli studiosi della Scuola di Chicago individuano uno schema che rappresenta la città di Chicago e che
potenzialmente potrebbe rappresentano tutte le grandi città americane. La città ha struttura circolare; man
mano che ci allontaniamo dal centro entriamo nella zona di transizione (dove ci sono problemi sociali legati
alla malavita). Nel terzo cerchio risiedono le abitazioni operaie. Il cerchio più esterno è la zona residenziale,
mentre l’area esterna è l’area dei pendolari.
Park e gli etnografi di Chicago si interessano quindi al fenomeno urbano e ritengono che i processi di
urbanizzazione sono caratterizzati da:
• Crescente presenza di minoranze etniche che tendono ad aggregarsi in quartieri
• La divisione del lavoro che, rendendo più densa e complessa la rete di relazioni del sistema sociale, abbatte
o modifica il vecchio tipo di organizzazione tradizionale fondato sulla parentela, la casta e i legami di
vicinato.
Nell’indagare il fenomeno urbano, gli etnografi di Chicago sviluppano due forme di analisi:
~ La prima, di natura macro, ambisce all’individuazione delle dinamiche strutturali che caratterizzano
i movimenti delle popolazioni nella città e ricorre ampiamente ai principi dell’ecologia urbana
~ La seconda, di natura micro, utilizza il metodo antropologico ed è rivolto all’analisi degli stili di vita
di piccoli gruppi o di aree della città.
MACROANALISI: gli etnografi di Chicago interpretano l’agire e il dislocarsi nel territorio urbano
delle diverse popolazioni alla luce di concetti quali quello di lotta per la vita o conflitto. Gli esiti di tale
conflitto possono generare dominanza di un gruppo sociale su un altro, oppure una progressiva
assimilazione.
Al fine d’illustrare i processi sopra citati, gli studiosi di Chicago introducono il termine di aree
naturali, ossia aree non pianificate e derivanti da processi eletti tra i gruppi umani, zone urbane in cui solo gli
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individui più adatti emergono e si affermano. In tali aree si riscontrano fenomeni di invasione e di
successione. La presenza di aree naturali fa si che il territorio urbano possa essere rappresentato attraverso
modelli spaziali. In quest’ottica, Burgess propone di leggere la crescita urbana attraverso lo schema per
cerchi concentrici, da quello centrale fino alle periferie dei pendolari.
MICROANALISI: oltre all’interesse per gli studi di macro-sociologia, la scuola di Chicago
promuove studi di natura micro, volti all’analisi delle diverse comunità urbane e/o culture urbane. Svolge
questo tipo di indagini concentrando l’attenzione sullo studio del sistema di relazioni ed utilizzando il
metodo antropologico.
potersi riconoscere deve avere un oggetto su cui esercitare la riflessività. Questo oggetto sono i simboli, o
meglio il contenuto di senso che essi contengono e che viene comunicato nell’interazione. Solo facendo
proprio l’atteggiamento dell’altro il sé si fa oggetto della sua riflessione, si fa “oggetto a sé stesso”: il sé
diventa individuale solo nella relazione con gli altri. Dentro l’interazione, il meccanismo di costituzione del sé
è il far proprio l’atteggiamento degli altri, che, una volta assunto al proprio interno, diventa oggetto di
riflessione.
L’insieme del senso del fatto proprio dentro le varie interazioni è, per Mead, il “Me”: esso è quella
parte del sé che si fa oggetto di sé stesso. Il me è il senso sociale che il sé assume al proprio interno,
esercitando così la propria riflessività e costituendo sé stesso. Ecco perché per Mead il sé è un prodotto della
società: noi ci riconosciamo quando facciamo nostro l’atteggiamento che l’altro ha nei nostri confronti dentro
un’interazione sociale simbolicamente connotata.
Mead distingue diversi tipi di interazione:
1. Giochi semplici: ego deve far proprio l’atteggiamento di alter nei suoi confronti e reagire
positivamente a tale assunzione di senso. Esempio → due bambini giocano a lanciarsi la
palla l’un l’altro.
2. Giochi complessi: ego deve far proprio l’atteggiamento di molti alteri, ognuno dei quali ha
il suo specifico atteggiamento nei confronti di ego. A questo punto, ego è spinto a far proprio
l’insieme organizzato del senso che costituisce un gioco complesso, in sostanza le sue regole:
ora non interiorizza più l’atteggiamento di alter, ma la struttura di senso tipica di un Altro
generalizzato, cioè indipendente dal singolo individuo che partecipa all’interazione.
Esempio → una partita di calcio.
Per Mead, la società è un grande gioco: è cioè l’insieme strutturato di un’enorme quantità di
interazioni simboliche riflessivamente assunte dal soggetto nella sua interiorità. Essa è l’Altro generalizzato
più generalizzato che si possa pensare.
Mead è un comportamentista perché la base della possibilità di conoscere il sé rimane l’osservazione
di atti esterni: solo attraverso le interazioni dotate di senso si ricostruisce la soggettività che opera dietro quel
comportamento. Ecco così la differenza con il comportamentismo di Watson e Skinner: il punto di partenza
dell’analisi non è il comportamento di un organismo che risponde agli stimoli di un ambiente, ma
un’interazione tra individui che reagiscono l’uno con l’altro dentro un ambiente. Il concetto fondamentale è
l’intersoggettività che si costruisce dentro l’interazione: il comportamento non è solo ciò che vediamo
dall’esterno, ma soprattutto il complesso processo di costruzione e ricostruzione simbolica di cui è
espressione.
DAL “ME” ALL’ “IO”
Il processo sociale complessivo che caratterizza l’interazione sociale vede la presenza di due flussi:
1. Il primo che dall’esterno produce l’interno e che porta alla costituzione del me (spiegato nel
paragrafo precedente);
2. Il secondo che dall’interno produce l’esterno, e che è il risultato dell’azione autonoma dell’io.
Il sé, per Mead, è allora l’insieme d me e io, laddove il primo è il risultato dell’assunzione interna di
atteggiamenti esterni, il secondo è la connotazione specifica della risposta che l’interno dà alle regole sociali.
L’io è la risposta che l’individuo dà all’atteggiamento che gli altri assumono nei suoi confronti. L’io dà un
senso di libertà, di iniziativa.
In conclusione: l’individuo deve assumere l’atteggiamento degli altri membri di un gruppo per
appartenere ad una comunità, egli deve utilizzare quel mondo sociale esteriore che ha appunto dentro di sé.
Dall’altro lato l’individuo reagisce costantemente agli atteggiamenti sociali e modifica in questo processo
cooperativo la stessa comunità a cui appartiene.
L’essenza della democrazia per Mead è l’assunzione del punto di vista altrui, inteso come la base della
cooperazione reciproca. Si tratta allora di valorizzare e arricchire il processo delle interazioni collettive.
Mead si impegna in un profondo rinnovamento dei modelli educativi in ogni individuo,
dell’ampliamento dell’orizzonte comunitario verso una realtà universalistica.
2● IL FUNZIONALISMO
Alla base del funzionalismo c’è il concetto di funzione. Possiamo pensare a due modi di intendere
tale concetto:
1. In senso biologico: la funzione indica un’attività utile al mantenimento in vita dell’organismo
(funzione respiratoria). Funzione è un concetto astratto e non coincide con un organo
specifico.
2. In senso matematico: il concetto d funzione è ancora più astratto, perché indica il semplice
fatto che esista una relazione tra variabili, come nella formula y=f(x).
In sociologia, Durkheim può essere visto come un precursore del funzionalismo. Egli nel suo concetto
di solidarietà organica pensa all’integrazione sociale come alla cooperazione funzionale tra varie attività
lavorative, all’interno di una società vista come un grande organismo.
Parsons, invece, intende liberare il concetto di funzione da ogni possibile riferimento alla metafora
organicista: la società non deve essere più pensata come un grande corpo e la teoria deve raggiungere un
grado di astrattezza tale da superare ogni metafora.
Il funzionalismo punta così ad assumere la forma di una teoria la cui astrattezza dovrebbe portare a
compimento le aspirazioni dei padri fondatori della sociologia: fornire un modello teorico capace di spiegare
il modo in cui si costituisce, si mantiene e si sviluppa la società.
La società viene vista come un sistema sociale. Con questa espressione si intende un insieme
strutturato di relazioni sociali tra ruoli istituzionalizzati. Struttura è, a sua volta, la forma relativamente
stabile che assumono le relazioni tra le parti del sistema. Sistema, struttura, funzione e processo sono perciò i
concetti base del funzionalismo: si spiega il primo se si è in grado dispiegare come possa persistere la
struttura che lo identifica e come tale struttura mantenga una sua funzionalità attraverso dei processi.
Attorno al problema se esista o meno la possibilità di indicare un fine del funzionalismo e che ne
giudichi la legittimità, possiamo distinguere varie forme di funzionalismo:
1. Durkheim pensa che tale fine esista e che esso sia la sopravvivenza dell’organismo società
(organicismo). Nella prospettiva durkhemiana, abbiamo un criterio per giudicare se qualcosa
non funziona e sulla base di tale criterio è possibile avviare una terapia.
2. Luhmann fa proprio un funzionalismo radicale, per il quale non c’è un fine esterno al
funzionamento del sistema. Non avendo nessun criterio di giudizio del buon funzionamento,
non è possibile nessuna terapia.
3. Parsons assume una posizione intermedia fra i due.
esterno. L’azione è volontaria e libera: implica quindi la messa in campo di una scelta fatta sulla base di un
senso intenzionato che rimanda a valori socialmente condivisi.
Parsons cerca di formulare l’idea di una scienza sociale capace di spiegare sociologicamente il sociale,
indipendentemente dai fatti storici e senza partire dall’individuo moderno, dalle sue passioni o interessi. La
sociologia diviene cos’ una teoria della società formulata dentro la società moderna, ma applicabile a
qualunque gruppo. La teoria deve essere astratta così da essere in grado di vedere ciò che accomuna al di là di
enormi diversità. Da qui la prospettiva parsonsiana della grande teoria.
La tesi di Parsons mira a sviluppare l’approccio dell’antropologia funzionalista. Il clan, la gens
romana e la famiglia sono formazioni sociali diverse che rispondono però a una medesima funzione: ciò che
accomuna le varie società sono i problemi comuni con cui quelle diverse istituzioni danno una risposta.
Parsons è funzionalista perché pensa che la teoria sociologica debba identificare le funzioni fondamentali che
ogni struttura sociale operativizza a modo suo. Ecco perché la teoria di Parsons è struttural-funzionalista:
esistono strutture sociali (la famiglia, lo Stato, a scuola ecc..) che svolgono le loro funzioni in modo da
garantire stabilità al sistema sociale nel suo insieme.
Processi, funzioni, struttura e sistema sono prodotti della teoria attraverso i quali si guarda alla realtà
storica per capire come essa funziona e per vedere se possa darsi una linea di sviluppo da una società all’altra
più evoluta.
Il lavoro di Parsons può essere idealmente distinto in due momenti:
1. Da un lato, la definizione di un modello astratto di sistema sociale, costruito per via teorica;
2. Dall’altro, l’applicazione di questo modello alla ricostruzione dell’evoluzione delle società
storiche, nel tentativo di spiegare come emerga il mondo moderno all’interno di tale
evoluzione.
L’interazione tra questi sistemi deve spiegare come sia possibile l’ordine sociale, cioè la relativa
stabilità di un sistema d’azione. Lo specifico equilibrio che si dà tra struttura e funzione determina il livello di
stabilità e di cambiamento che caratterizza una determinata società.
La risposta al problema della stabilità è data per Parsons dal concetto di ruolo sociale, inteso come
soluzione alla tensione tra l’autonomia degli individui e l’esigenza di stabilità del sistema sociale. Possiamo
dire che il sistema sociale è un insieme integrato di ruoli e funziona perché gli individui hanno interiorizzato
le credenze alla base delle aspettative sociali tipiche dei ruoli che ricoprono.
Il concetto di ruolo ha alcune caratteristiche tipiche:
o In primo luogo, è indipendente dalla persona→ il ruolo di professore di sociologia non
coincide con il professore che lo ricopre;
o Il ruolo è definito dalle aspettative di ruolo: esso si coordina con gli altri ruoli perché
garantisce la messa in atto di quelle specifiche azioni sociali che gli altri ruoli si aspettano;
o Le aspettative di ruolo non sono scontate o naturali: esse sono il risultato di un processo di
istituzionalizzazione, così che gli specifici contenuti normativi si evolvono insieme al ruolo→
le aspettative che definivano il ruolo di professore di sociologia cinquant’anni fa erano
diverse da quelle attuali, perché nel frattempo si sono andati istituzionalizzando nuovi
contenuti.
Il processo di interiorizzazione dei valori è quindi fondamentale. Parsons sviluppa questa idea
rifacendosi a Durkheim e Freud. L’autore, attraverso l’uso di Freud, chiarisce come la coscienza collettiva
venga interiorizzata, fatta propria da ogni individuo attraverso i processi di socializzazione, a partire dalla
prima infanzia. Parsons vede nel Super-Io di Freud la traduzione soggettiva dei valori sociali: man mano che
il bambino impara a comportarsi secondo le regole sociali, sviluppa forme di autocontrollo interiore che gli
consente di accrescere sempre di più la sua adesione alla società.
Da qui l’importanza che hanno per Parsons i processi di socializzazione. Questi ultimi vengono messi
in atto dalle agenzie di socializzazione, cioè da strutture sociali ad essi preposte (famiglia, scuola, chiese).
L’importanza del terzo sistema d’azione, quello culturale, sta nel fatto ce deve garantire la permanenza degli
orientamenti normativi che verranno interiorizzati.
Parsons a questo punto incontra il problema dell’anomia e della devianza, cioè quando non
funzionano i processi di interiorizzazione (stesso problema di Durkheim). Per quanto perfettamente
socializzato, un individuo può sempre trasgredire. Per Durkheim la devianza era inevitabile e aveva una
funzione fondamentale; ogni società ha bisogno di esempi di devianza, per rinnovare gli orientamenti
normativi (viene rinfrescata la memoria riguardo ai valori). Parsons non si allontana da questa visione, e
arriva a dire che la devianza è un fenomeno prevedibile, che bisogna aspettarsi. La soluzione è cercare di
evitarla, aumentando il controllo e la repressione della devianza stessa .
dell’analisi funzionalista. Le quattro funzioni sono il cuore della teoria di Parsons perché risolvono il suo
problema teorico centrale: identificare le funzioni astratte tipiche di ogni società, presente, passata e futura,
così da rendere possibile la comparazione tra società diverse.
Strumentale Consumatorio
A (futuro) (presente) G
Interno
Latenza Integrazione
L I
Si riferisce alla funzione del sistema tesa a procurarsi dall’ambiente le risorse necessarie a renderle
disponibili all’interno.
È la funzione che serve a realizzare gli scopi del sistema sociale e a predisporre i mezzi necessari a
raggiungerli (esterno/presente)
Serve al mantenimento delle credenze condivise al fine della stabilità del sistema (interno/futuro)
• Il senso è allora un modo per ricostruire l’unità dell’esperienza andata persa con l’intervento
della riflessività. All’unità irriflessa del fluire si sostituisce un’unità sensata e riflessiva: l’unità
della nostra esperienza ci appare ora un insieme di progetti. → questo è il modo in cui noi
diamo senso alla nostra vita.
• Una singola azione può avere senso se inserita in un progetto, ma potrebbe averne un altro se
inserita in un diverso progetto. Quindi la stessa azione può avere un senso diverso a seconda
del progetto in cui viene inserita e, in definitiva, può essere interpretata in molti modi.
• L’azione compiuta non necessariamente coincide con l’azione progettata. Schutz pensa si
debba distinguere il senso in due prospettive:
Ex ante, come fine dell’azione
Ex post, come causa dell’azione
Al momento del progetto, il soggetto anticipa l’azione compiuta come fine; ad azione
compiuta può riflettere sulle cause che l’hanno determinata. Possiamo così distinguere il
motivo finale dal motivo casuale dell’azione, che non necessariamente coincidono.
Con questa impostazione, Schutz pensa di poter chiarire il senso in cui un’azione è volontaria: lo è
perché è progettata e ha un fine. Il problema del senso risiede nella tensione ineliminabile tra vivere e
pensare: per Schutz esiste una tensione tra motivi finali e causali. Tutto dipende sempre dallo stretto legame
tra senso e tempo: infatti, se il fine deve essere visto prima, le cause possono essere viste solo dopo.
Al mondo soggettivo si affianca così il mondo ambiente, nel quale posso fare oggetto di sguardo
riflessivo i vissuti, non solo miei ma di chiunque abiti nella maniera della contemporaneità. Con una
fondamentale differenza: mentre io ho l’accesso a tutti i miei vissuti, non posso invece accedere a tutti i
vissuti di alter, ma solo a ciò che adesso entra nel mio sguardo.
Come fanno gli altri a comprendere il mio gesto? Alter comprende il mio progetto d’azione perché
non è solo il mio progetto d’azione, ma è ciò che egli si aspetta da ogni soggetto in quella determinata
situazione e contesto. Ciò significa che esista anche un noi comune, il quale è senso oggettivo, cioè
indipendente dai soggetti. Il senso comune è senso soggettivo sedimentato, ripetuto e divenuto indipendente
da ogni adesso-è-così. Esiste allora una circolarità tra senso soggettivo e senso oggettivo: il primo è il
presupposto dell’altro e viceversa. La comprensione di alter è possibile solo se egli è parte di un noi che la
anticipa, e questo noi è il prodotto di precedenti interazioni tra ego e alter.
In generale, possiamo dire che per Schutz non esiste il senso meramente oggettivo e soggettivo: i due
sono gli estremi di una situazione sempre intermedia. Quello oggettivo è una testimonianza sedimentata dei
vissuti di coscienza che lo hanno costituito; quello soggettivo è una modalità specifica di darsi del primo.
Il mondo ambiente è caratterizzato da un insieme di relazioni che Schutz chiama mondo dei
contemporanei. Nel mondo dei contemporanei, a differenza di quello ambiente, non s’è partecipazione
comune, il flusso delle relazioni non è continuo (sento l’amico via email), tanto più aumenta la distanza tra i
soggetti, tanto più le loro relazioni si fanno anonime e mediate.
Come si forma il senso tipico? Per Schutz si tratta di un processo di ripetizione che sedimenta strati
di senso che diventano tipici. Le tipizzazioni sono un insieme di conoscenze che ha la sua storia specifica.
Esse non hanno vita propria: sono sempre vissute a attualizzate da soggetti che, all’interno delle situazioni
tipiche che caratterizzano la vita quotidiana, hanno però la possibilità di creare nuovo senso. La fonte
primaria del senso è data dalla relazione io-tu. Ogni singola azione può variare da un minimo a un massimo
di tipicità.
Nel mondo dei contemporanei vale soprattutto il criterio della ripetizione dello schema tipico, che
consente di anticipare l’azione altrui in modo tipico. Il vivere sociale è allora l’insieme di relazioni tra
contemporanei tra loro anonimi, regolato da schemi di senso astratti e generalizzati, cioè le tipizzazioni. Esse
però non devono diventare troppo lontane dalla realtà, altrimenti perderebbero la possibilità di essere
schemi di comprensione: devono sempre essere legate al senso soggettivo partendo dal quale sono state
prodotte.
Nella vita quotidiana scelgo la tipizzazione che mi serve sulla base di quella che Schutz chiama
struttura della rilevanza, che dà, a seconda della situazione, peso diverso alle varie tipizzazioni.
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qualcosa con cui sincronizzarmi necessariamente, e il fatto che il mio tempo sia finito influisce sui miei
comportamenti. Il tempo inoltre, mi garantisce un orientamento, e mi tiene legato alla realtà della vita
quotidiana.
L'interazione sociale nella vita quotidiana
Si parte dal dato di fatto che condividiamo la realtà con gli altri. Il prototipo dell'interazione sociale è
il faccia a faccia, mentre tutti gli altri casi sono derivazioni classificabili come forme di rapporto più o meno
remote. A rendere questa situazione il prototipo è il fatto che il qui e l'adesso dei due soggetti si
sovrappongono continuamente durante l'interazione, e da questo naturalmente derivano i comportamenti di
entrambi, e ne vengono condizionati. Il faccia a faccia è l'unico caso in cui si è vicini alla soggettività di
un'altra persona, se ne possono cogliere i dettagli (ovviamente con un margine di fraintendimento) e la piena
e indiscutibile realtà. Si può arrivare ad affermare di poter conoscere la persona che ci sta di fronte meglio di
quanto conosciamo noi stessi: naturalmente io mi conosco meglio di quanto conosco lui, ma questa
conoscenza richiede una riflessione, non è direttamente accessibile. Mentre per quanto riguarda la persona
che si ha di fronte, la conoscenza di "ciò che è" è immediata. Durante l'interazione è difficile applicare
modelli prestabiliti, dato che qualsiasi sia il modello adottato verrà continuamente modificato
dall'interscambio di significati (esempio pregiudizi.
Gli incontri con gli altri individui sono ordinati e regolati dagli schemi di tipizzazione presenti
nella realtà della vita comune. In base a questi schemi trattiamo le persone con cui interagiamo, e nel caso in
cui l'individuo interferisca, modificando il suo comportamento, gli schemi utilizzati saranno modificati di
conseguenza, al fine di integrare il problema. In poche parole, gli schemi di tipizzazione determinano le mie
azioni nei confronti degli altri e, ovviamente, negli incontri diretti sono reciproci e sono in continuo
mutamento (negoziato). Sia il soggetto con cui sto avendo a che fare sia la situazione sono tipizzati.
Le tipizzazioni sono in principio anonime, ma più si avvicinano all'incontro diretto più perdono di
anonimità, e iniziamo ad individualizzare il soggetto con cui interagiamo. E' qui che nasce la differenza tra
individui con cui interagisco in modo diretto e più o meno regolare, e individui solo contemporanei, di cui
possiedo poche informazioni e con cui probabilmente non interagirò più. Il grado di anonimia dipende da
vari fattori, primi fra tutti interesse e intimità. L'anonimia diventa totale con tipizzazioni che non vengono
mai individualizzate, a cui non viene mai dato un volto. Si può dire che il livello di anonimia della
tipizzazione è direttamente proporzionale alla distanza dal mio qui e il mio adesso.
La struttura sociale è la somma fra tutte queste tipizzazioni e modelli e costituisce un elemento
essenziale della realtà della vita quotidiana. E' importante precisare, però, che non sono in relazione solo con
gli individui con cui interagisco o che sono solo miei contemporanei. Sono in relazione anche con i
predecessori e i successori. Fatta eccezione per coloro con cui ho avuto a che fare direttamente, sono legato ai
miei predecessori tramite tipizzazioni particolarmente anonime (bisnonni, padri fondatori) e ovviamente ai
miei successori in modo ancora più anonimo. Queste ultime sono spesso tipizzazioni vuote, che
probabilmente non verranno mai individualizzate, mentre per quanto riguarda i predecessori si può avere
almeno un minimo contenuto anche se mitico. L'anonimia di questi due gruppi non è tuttavia da
sottovalutare dato che potrebbe comunque avere un'influenza decisiva sulla mia vita.
Il linguaggio e la conoscenza nella vita quotidiana
L'espressività umana è in grado di oggettivarsi. Questo significa che chi è di fronte a noi riesce a
percepire il nostro atteggiamento tramite i nostri gesti, il nostro tono di voce o la nostra postura. Tutti questi
dettagli sono accessibili in un incontro diretto, ma non durano nel tempo successivo. Nel momento in cui è
un oggetto a significare qualcosa, come ad esempio uno stato d'animo, esso funge da oggettivazione di quel
comportamento. Dura nel tempo, e può aprire l'accesso ad una realtà anche a chi non ne ha mai preso parte.
In poche parole, la stessa realtà è possibile solo grazie alle oggettivazioni (come già precisato). Siamo
circondati da oggetti che "proclamano" intenzioni soggettive dei nostri simili, e la loro caratteristica è il poter
durare nel tempo.
I segni (o simboli) sono un eccellente esempio di oggettivazione della soggettività umana, cioè
rappresentano significati soggettivi, resi accessibili al mondo comune. I segni sono raggruppati per sistemi:
sistemi di gesticolazioni, movimenti corporei, ecc. I segni e sistemi di segni vanno oltre il limite dello
spazio e del tempo. E' importante notare che i segni possono essere separati dalla soggettività di chi li esegue
(capacità di distacco).
Il linguaggio può essere definito un insieme di segni vocali, il più importante della società umana,
data la sua particolare e unica capacità di staccarsi e trascendere completamente dal qui e adesso. Questo ci
da la possibilità di attualizzare un qualsiasi contesto in qualsiasi momento, parlare di persone che non sono
presenti, che esisteranno o che non sono mai esistite e proiettare noi o i soggetti con cui stiamo interagendo
in scenari lontani dal nostro spazio-tempo. In più, non solo ci da la possibilità di sincronizzarci
perfettamente con il nostro interlocutore, ma ascoltare quello che diciamo mentre lo diciamo rende i nostri
significati soggettivi oggettivi anche per noi stessi, quindi più reali. Il linguaggio mantiene sempre le sue
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radici nella realtà della vita quotidiana, dove ha origine, anche se parliamo di qualcosa che non appartiene a
quella sfera di realtà e ci fornisce degli standard con cui esprimerci, dei modelli da cui non è possibile uscire
se si vuole comunicare. In quanto sistema di segni, inoltre, ha la qualità dell'oggettività. Possiamo usarlo per
oggettivare svariate esperienze e ci da la possibilità di classificarle (tipizzarle) ma questo ne implica
l'anonimizzazione. Questo meccanismo rende tutte le mie esperienze reali sia oggettivamente che
soggettivamente.
Ogni tema che fa da ponte fra due sfere di realtà può essere definito un simbolo, e il modo in cui tale
trascendimento viene compiuto può essere chiamato linguaggio simbolico. Il linguaggio è in grado di portarci
in regioni che normalmente non sarebbero accessibili all'esperienza quotidiana. Ed ecco come tramite il
linguaggio sono state costruite immense rappresentazioni simboliche che spesso sembrano appartenere ad
un altro mondo: religione, filosofia, arte, ecc. Per quanto questi sistemi possano essere distanti dalla realtà
della vita quotidiana è impressionante come abbiano allo stesso tempo un'enorme importanza per
quest'ultima. Viviamo ogni giorno in un mondo di segni e di simboli. Il linguaggio costruisce (e definisce)
zone di significato che sono linguisticamente circoscritte. In alcune lingue, ad esempio, il pronome cambia se
ci si riferisce ad un membro della famiglia o meno. Questi campi semantici si arricchiscono e vanno a
formare un bagaglio sociale di conoscenze che si trasmette di generazione in generazione. Viviamo nel
mondo del senso comune fruendo di specifiche conoscenze accumulate nel corso degli anni soprattutto dai
nostri predecessori. Allo stesso tempo so che gli altri che abitano la mia stessa realtà condividono il mio
bagaglio di conoscenza ereditato e sanno che lo so. Questo bagaglio di conoscenza comune è formato da
informazioni e di conseguenza essendone a conoscenza diventiamo anche coscienti dei nostri limiti. Questo
sistema permette la collocazione degli individui nella società (ricchi, poveri, classi sociali) e
contemporaneamente rende questi concetti impossibili da capire per qualcuno che non condivide la nostra
conoscenza e/o i nostri criteri.
In sostanza, una buona parte del bagaglio sociale di conoscenza consiste in ricette su come affrontare
i problemi della quotidianità e gli schemi di tipizzazioni necessari. L'avere a disposizione queste
informazioni, inoltre, ci permette di metterne in relazione due o più per ordinare le nostre conoscenze e
derivarne una sorta di sotto-tipizzazione. La validità delle mie conoscenze viene messa in dubbio solo quando
nasce un serio problema. Anche se posso momentaneamente dubitare delle mie conoscenze, per esempio
quando la mia attenzione è focalizzata su un'altra realtà, nel momento in cui torno alla vita quotidiana
riacquisisco la sicurezza delle mie conoscenze e agisco di conseguenza. Un carattere importante della realtà
della vita quotidiana è che esistono sempre delle zone di ombra, cose che accadono "alle mie spalle". "La
realtà della vita quotidiana è offuscata dalle penombre dei nostri sogni" In conclusione, la mia conoscenza si
limita a quello a cui io do importanza e i miei atteggiamenti sono dettati dai miei interessi pratici e dalla mia
situazione sociale. Tuttavia, i nostri campi di conoscenza si intersecano con quelli degli altri, rendendo la
nostra conoscenza un campo di interesse per qualcuno e viceversa. Ma le strutture che stabiliscono la
pertinenza delle informazioni, ci vengono consegnate "prefabbricate" dal bagaglio sociale di conoscenze
(chiacchierate fra donne, ad esempio) anche se la cultura comune influisce su queste ultime. La distribuzione
della conoscenza non è socialmente uguale per tutti. Io non conosco tutto ciò che conoscono i miei simili e
viceversa.
La società come realtà oggettiva - L'istituzionalizzazione
• Origini dell’istituzionalizzazione
L’attività umana, sia sociale che non, è consuetudinaria. Ogni azione ripetuta frequentemente viene
inserita in uno schema fisso, questo consente che venga riprodotta ed identificata dal suo autore senza sforzi
particolari e la riduzione delle scelte, con un conseguente sollievo psicologico e migliore utilizzo delle energie.
Ogni uomo, per quanto possa essere solo, vive in compagnia dei suoi procedimenti operativi. I processi di
consuetudinarietà precedono ogni istituzionalizzazione, parte più importante dell’abitualizzazione
dell’attività umana. L’istituzione nasce nel momento in cui si trova una soluzione permanente ad un
problema condiviso. Le istituzioni appaiono inalterabili ed auto-evidenti agli occhi degli uomini, come realtà
oggettiva, dando stabilità al tessuto sociale.
L’istituzione rende accessibili le tipizzazioni degli schemi a tutti i membri del gruppo, facendo si che
questi ultimi siano simili tra loro come attori e nelle azioni compiute individualmente (attore x = azione x).
Le istituzioni garantiscono la solidità di una società e devono sottostare a due condizioni: avere uno sviluppo
storico, del quale sono il prodotto, e fornire uno schema di condotta a coloro che ne fanno parte. In questo
modo possiamo affermare che le istituzioni controllano la condotta umana fissandole modelli prestabiliti da
seguire. Esistono vari gradi di controllo sociale, il primo è l’esistenza stessa dell’istituzione. Il secondo è
l’insieme di meccanismi di sanzioni specificamente stabiliti per sorreggere l’istituzione, necessario solo nel
caso in cui il processo di istituzionalizzazione non raggiunga il pieno successo. Le tipizzazioni si stabilizzano
in una situazione sociale duratura e continuativa e vengono reciprocamente interiorizzate solo se riguardano
il processo di comunicazione tra individui (A e B).
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Le istituzioni hanno una storia che precede la nascita dell'individuo e non è quindi accessibile alla
sua memoria biografica. La volontà dell'uomo appare impotente ad eliminarle. Si può parlare di società
pienamente funzionante solo quando si pone all’individuo in modo analogo alla realtà del mondo naturale.
Così, le formazioni sociali (comprese le istituzioni) possono esser trasmesse alle nuove generazioni, che le
recepiranno come se fossero naturali.
Dal momento che le istituzioni esistono come realtà esterna, l’individuo non può capirle attraverso
l’introspezione. Egli deve ͞uscire͟ e informarsi sul loro conto così come deve fare per sapere qualcosa sulla
natura. Per quanto il mondo istituzionale possa apparire oggettivo, solido e reale, rimane un’oggettività
umanamente prodotta. In altre parole, è un’attività umana sottoposta al processo di oggettivazione. L’uomo
è quindi capace di produrre un mondo che poi gli si presenta come qualcosa di diverso da un prodotto
umano, quasi naturale. La relazione tra uomo e mondo sociale rimane un rapporto dialettico. Il prodotto
agisce sul produttore. La esteriorizzazione e l’oggettivazione sono i primi 2 momenti di un continuo
processo dialettico. Il terzo momento è l’interiorizzazione, il processo con cui l'uomo si riappropria del
mondo sociale oggettivato da lui prodotto attraverso la socializzazione e gli attribuisce una logica. Ognuno di
questi tre momenti corrisponde ad una caratterizzazione del mondo sociale:
La società è un prodotto umano
La società è una realtà oggettiva
L’uomo è un prodotto sociale
Questi tre momenti sono necessari al fine di condurre un’analisi del mondo sociale. Le istituzioni
richiedono una legittimazione, uno strumento attraverso cui queste possano essere spiegate e giustificate, per
poi essere trasmesse alle nuove generazioni. La legittimazione avviene attraverso il linguaggio.
Allo stesso tempo, con lo sviluppo delle istituzioni nasce l’esigenza di un meccanismo di controllo
sociale, dato che è più probabile deviare da programmi stabiliti per noi da altri piuttosto che da noi stessi.
All’interno di una società possono esistere e coesistere diversi processi di abitualizzazione o primitiva
istituzionalizzazione che non siano integrati come fenomeni sociali.
Conoscenza preteorica: conoscenza primaria riguardo all’ordine istituzionale, un insieme di massime
morali, valori, credenze, miti ecc.
Una deviazione dall’ordine istituzionale appare come un distacco, interpretabile come depravazione
morale, malattia mentale o ignoranza. Il corpo di conoscenze interiorizzate come realtà soggettiva, oltre ad
essere tramandate alle generazioni successive, hanno il potere di formare l'individuo e di produrre quindi un
tipo specifico di persona (es. cacciatore). La conoscenza funziona inoltre come una forza in se stessa
incanalante e controllante. Nessuna parte dell’istituzionalizzazione può avvenire senza la conoscenza che è
stata socialmente prodotta e oggettivata in rapporto all’attività.
• Sedimentazione e tradizione
Tra tutte le esperienze umane viene trattenuta solo una piccola parte nella coscienza umana, quelle
trattenute si sedimentano nella memoria. Se questo non avvenisse sarebbe impossibile per un individuo
capire il senso della propria biografia.
Si parla di sedimentazione sociale solo nel caso in cui le esperienze sono state condivise da una
intera collettività e poi trasmesse ad una generazione successiva. Il linguaggio è anche stavolta lo strumento
utilizzato per la trasmissione e la costruzione del bagaglio di conoscenze, rende oggettive e accessibili le
esperienze, ma le anonimizza astraendole dai loro casi biografici.
Le esperienze oggettivate possono essere inserite in corpi di tradizioni (poetica, religione, istruzione
morale, ecc.) Poiché l’origine effettiva delle sedimentazioni potrebbe diventare priva di importanza, essendo
accettata acriticamente senza ricostruire la sua origine, la tradizione potrebbe inventare un’origine del tutto
differente senza con questo minacciare ciò che è stato oggettivato. In altre parole, la ͞grande caccia͟ può
arrivare a essere legittimata come un atto di una divinità e ogni ripetizione umana di esso come
un’imitazione del prototipo mitologico.
La trasmissione del significato di un’istituzione è fondata sul riconoscimento sociale di quest’ultima
come una soluzione permanente ad un problema permanente della collettività. Questo rende necessario un
processo educativo, per imprimere indelebilmente i significati dell’istituzione nell’individuo. I significati
tendono ad essere semplificati e devono essere presenti dei sistemi per mezzo dei quali possano essere
reimpressi e reimparati a memoria, se necessario con mezzi coercitivi (pigrizia e/o stupidità umana). I
significati oggettivati delle istituzioni sono concepiti come conoscenza e quindi trasmessi come tali, alcuni
gruppi vengono designati come trasmettitori, altri come ricevitori della conoscenza tradizionale. Sia il
conoscere che il non conoscere sono riferiti a ciò che viene socialmente definito come realtà. Oggetti fisici e
azioni possono essere utilizzati come sussidi mnemo-tecnici, al fine di riaffermare la conoscenza (es. feticci
ed emblemi militari).
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• I ruoli
I ruoli consentono che le istituzioni possano esistere, continuamente, come reale presenza
nell’esperienza degli individui viventi.
Le origini di ogni ordine istituzionale risiedono nella tipizzazione delle azioni proprie e altrui, questo
implica che anche le forme delle azioni siano tipizzate. Vi sarà cioè il riconoscimento non solo di un individuo
specifico che compie un’azione X, ma anche dell’azione X in quanto eseguibile da ogni individuo di tipo
adeguato. La tipizzazione delle forme di azione richiede che queste abbiano un senso oggettivo, che a sua
volta richiede un’oggettivazione linguistica (tramite vocabolario specifico). Si può percepire tanto se stessi
che gli altri come autori di azioni oggettive (identificazione dell’io con il senso oggettivo dell’azione).
Dopo che l’azione ha avuto luogo, quando l’attore riflette sulla propria azione, un aspetto dell’io si
identifica nell’autore. Cioè diventa possibile percepire l’io come se fosse stato solo parzialmente coinvolto
nell’azione. Le oggettivazioni si accumulano realizzando l’io sociale, che si presenta separato dall’intera
personalità (ruolo). La distanza sopra-citata tra il soggetto e la propria azione può essere ritenuta nella
coscienza e proiettata sulle ripetizioni future delle azioni. In questo modo sia il proprio io che agisce che gli
altri vengono percepiti non come individui unici, ma come tipi, che per definizione sono intercambiabili.
Ovvero, un individuo può assumere diversi ruoli. Possiamo parlare di ruoli quando queste tipizzazioni si
verificano a livello di una cultura di gruppo. Il ruolo in questo caso sostituisce il soggetto agente (individuo).
Per mezzo dei ruoli, linguisticamente oggettivati, le istituzioni sono incorporate nell’esperienza individuale.
Ricoprendo dei ruoli l’individuo partecipa a un mondo sociale e interiorizzandoli egli fa sì che lo
stesso mondo diventi soggettivamente reale per lui. Nel bagaglio comune di conoscenze vi sono norme per lo
svolgimento dei ruoli che sono accessibili a tutti i membri della società, particolarmente ai potenziali
esecutori, ed ogni persona che possa ricoprire il ruolo è tenuta a rispettarle.
I ruoli appaiono non appena si forma un comune bagaglio di conoscenze che contengono
tipizzazioni reciproche della condotta, questo processo precede l’istituzionalizzazione. Ogni condotta
istituzionalizzata implica dei ruoli, e non appena gli attori sono tipizzati come titolati di un ruolo sono
suscettibili a costrizioni. I ruoli, quindi, rappresentano l’ordine istituzionale a due livelli:
L’atto di ricoprire un ruolo rappresenta se stesso
Il ruolo rappresenta un intero nesso istituzionale di condotta
Per esempio, un individuo che giudica non sta agendo per conto proprio, ma in quanto giudice. Allo
stesso tempo, il ruolo del giudice è in relazione con gli altri ruoli, la totalità dei quali comprende l’istituzione
della legge. Le istituzioni sono rappresentate anche in altri modi: tramite le loro oggettivazioni linguistiche,
che le ricreano, oppure possono essere simbolicamente rappresentate da oggetti fisici. E’ importante
precisare che tutte queste rappresentazioni devono necessariamente essere vivificate nella condotta umana,
pena la perdita di realtà oggettiva. Tutti i ruoli rappresentano l’ordine istituzionale, alcuni di essi tuttavia
rappresentano quell’ordine nella sua totalità più di altri. Ovvero rappresentano l’integrazione di tutte le
istituzioni in un mondo significativo e garantiscono questa integrazione nella coscienza e nella condotta dei
membri della società. Storicamente questi ruoli trovano la loro collocazione nelle istituzioni politiche e
religiose.
In virtù dei ruoli che ricopre un individuo viene introdotto in aree specifiche di conoscenza (pratica e
morale). In questo modo, ogni ruolo apre l’accesso ad uno specifico settore del bagaglio totale di conoscenze
della società, strutturato sulla base di ciò che è pertinente a tutti e ciò che è pertinente solo a ruoli specifici.
In altre parole, sorgeranno degli specialisti. Per accumulare le informazioni necessarie a diventarlo, la società
deve permettere agli individui di concentrarsi sulle loro specializzazioni.
Gli specialisti diventano amministratori dei settori culturali che sono socialmente assegnati a loro, e
qualsiasi altro individuo deve sapere a chi rivolgersi in caso di necessità. Sapere a chi rivolgersi (schema di
riferimento, per i sociologi) è parte del bagaglio di conoscenza e di accessibilità generale, mentre la
conoscenza specialistica no.
E’ possibile analizzare la relazione tra i ruoli e la conoscenza da due punti di vista:
1. secondo l’ordine istituzionale, i ruoli rappresentano l’oggettivazione pratica della struttura
della società.
2. Secondo la propria specificità, ciascun ruolo porta con se un annesso di conoscenza
socialmente definito.
Il fenomeno globale a cui si riferiscono entrambe le osservazioni è la dialettica essenziale della
società. La società esiste solo in quanto gli individui ne sono a conoscenza e la coscienza individuale è
socialmente determinata. L’analisi dei ruoli è importante nella sociologia perché rivela le mediazioni tra i
macro-universi di significato oggettivati in una società e i modi in cui questi universi sono oggettivamente
reali per gli individui.
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ETNOMETODOLOGIA
• DEFINIZIONE DEL TERMINE
Il termine “etnometodologia” è stato coniato dal sociologo americano Harold Garfinkel, per
designare una teoria dell’azione sociale ispirata alla fenomenologia e, in particolare, all’opera di Schutz. Il
termine vuole attirare l’attenzione sui ‘metodi’ impiegati dagli attori per creare e sostenere l’atteggiamento
‘naturale’ (nel senso fenomenologia della parola) nei confronti del mondo sociale.
Garfinkel, "seen but unnoticed" dagli attori nel loro atteggiamento naturale. Il caso di Agnes è
particolarmente istruttivo proprio perché la sua condizione le consente di rendersi conto di questo
occultamento sociale delle pratiche costitutive: "La sua capacità, a lei peculiare e incomunicabile, di
osservare i modi mediante i quali la società nasconde ai suoi angoscia e i suoi trionfi consistevano nella
membri le sue attività di organizzazione e così li conduce a vedere i suoi tratti come oggetti determinati e
indipendenti. Per Agnes la persona normalmente sessuata, come la possiamo osservare, consisteva
nell'attività inesorabile, organizzativamente situata, che forniva il modo in cui tali oggetti sorgono”.
Gli esperimenti di rottura. Oltre ad assumere, come nel caso di Agnes, il punto di vista di un
soggetto deviante, l'altra strategia adottata da Garfinkel per rendere visibili le pratiche costitutive consiste
nell'impiegare procedure di violazione delle normali aspettative dei soggetti che fanno divenire
"antropologicamente strana" l'ostinata familiarità della vita quotidiana: metodologicamente la ragione è che
"le operazioni necessarie per produrre [...] un'interazione anomica e disorganizzata dovrebbero dirci
qualcosa su come le strutture sociali sono ordinariamente mantenute" (v. Garfinkel, 1963, p. 187). Non
essendo possibile in questa sede commentare adeguatamente l'intera serie di questi "esperimenti di rottura,
ci limiteremo a un breve accenno ad alcuni di essi diretti specificamente a esplorare in maniera empirica il
principio schütziano della reciprocità delle prospettive. L'esperimento più semplice fu condotto violando le
regole di un gioco - il ticktacktoe (una sorta di filetto) - senza che il soggetto che fungeva segretamente da
sperimentatore offrisse alcuna indicazione che potesse far capire che stava facendo qualcosa di strano. Lo
scopo di Garfinkel era di vedere se la trasgressione delle regole fondamentali del gioco provocava sentimenti
di confusione e anomia tra i soggetti dell'esperimento. I risultati sono interessanti. In primo luogo i
comportamenti discordanti dalle regole fondamentali inducevano immediatamente i soggetti a ricorrere a
tentativi di 'normalizzazione', cioè a tentativi di trattare tali comportamenti come casi di eventi ammessi dal
gioco. Secondo Garfinkel questo tipo di 'aggiustamento' delle regole agli eventi, un aggiustamento necessario
per mantenere un senso del mondo in comune, era reso possibile principalmente dal fatto che ogni regola
porta con sé una speciale clausola aggiuntiva, la clausola dell''eccetera' - vale a dire che nessuna regola o
sistema di regole è completo in se stesso, se non altro nel senso che non specifica le circostanze della propria
applicazione. Il secondo risultato notato da Garfinkel è che la percezione della stranezza di un
comportamento cresceva quando un soggetto continuava a cercare di normalizzare la discrepanza tra
comportamento e regole mantenendo un senso inalterato di queste ultime, cioè precludendosi di cambiare
quadro di riferimento, anche in presenza di casi estremi di violazione. Altri esperimenti concernevano non
più i giochi, ma la vita ordinaria. Uno di questi implicava la rottura dell'idealizzazione della congruenza dei
sistemi di rilevanza mediante l'insistente richiesta rivolta dallo sperimentatore a interlocutori ben conosciuti
di chiarire il senso di espressioni ordinarie. Per esempio: " Venerdì sera mio marito e io stavamo guardando
la televisione. Mio marito disse di essere stanco. Io risposi: - Stanco come? Fisicamente, mentalmente o
soltanto annoiato? - Non so, più che altro fisicamente, credo. - Vuoi dire che ti fanno male i muscoli o le
ossa? - Non lo so. Non essere così tecnica. (Qualche minuto dopo). - In tutti questi vecchi film i letti hanno lo
stesso tipo di testate in ferro battuto, disse mio marito. - Cosa vuoi dire, in tutti i vecchi film, solo in alcuni di
essi o solo in quelli che hai visto? - Ma che ti succede? Sai benissimo quello che voglio dire. - No, vorrei che tu
fossi più specifico. - Piantala! Sai benissimo quello che voglio dire!" (v. Garfinkel, 1967, p. 43). Oppure: "La
vittima salut allegramente con la mano e disse: - Come stai? - Come sto rispetto a cosa? La mia salute, la mia
situazione finanziaria, il mio andamento scolastico, la mia tranquillità psicologica, la... - (Rosso in faccia e
perdendo improvvisamente il controllo). Senti, stavo solo cercando di essere gentile! Francamente, non me
ne frega niente di come stai!" (ibid., p. 44). Come appare da questi esempi, la violazione della reciprocità
delle prospettive non produceva soltanto la rottura di un ordine cognitivo, di un mondo esperito in comune,
ma anche un senso di giustificata ostilità da parte dei soggetti. Essi consideravano l'intelligibilità di ci che
dicevano come qualcosa a cui avevano moralmente diritto, qualcosa la cui sistematica messa in questione era
illegittima e richiedeva delle spiegazioni. In breve, questi esperimenti mostrano che ordine cognitivo e ordine
morale sono strettamente connessi tra loro, che gli attori si ritengono moralmente responsabili dello
svolgimento delle attività necessarie a sostenere le apparenze normali, a rendere le loro azioni sensate e
intelligibili. Come render conto di questo fenomeno? Una spiegazione funzionalista potrebbe sostenere che la
violazione delle procedure che garantiscono l'accountability minaccia la possibilità stessa di una
comprensione reciproca, l'esistenza di un mondo condiviso: gli attori reagiscono moralmente perché sono
impegnati nella difesa di un ordine simbolico che li protegge dal caos cognitivo. Ma la spiegazione offerta da
Garfinkel è alquanto diversa. In realtà, egli osserva, sebbene gli esperimenti di rottura avessero lo scopo di
produrre situazioni prive di senso, inintelligibili, ci non si verificava. Gli attori non erano afferrati neppure
per un momento dal dubbio che i loro interlocutori davvero non capissero. Piuttosto li consideravano come
persone che, per qualche motivo, facevano deliberatamente finta di non capire. Insomma, l'indignazione
morale suscitata dagli esperimenti di rottura non era provocata dalla generica preoccupazione per il
mantenimento di un astratto ordine cognitivo, ma dalla legittima irritazione nei confronti di un particolare
interlocutore che, volontariamente, per qualche sua specifica, anche se misteriosa e forse spiacevole, ragione,
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deviava da un presupposto normale della conversazione. Gli esperimenti di rottura, facendo emergere il
carattere normativo del mantenimento dei presupposti dell'atteggiamento naturale, non
contrapponevano quindi comportamenti intelligibili a comportamenti privi di senso, ma
comportamenti normali a comportamenti devianti (e quindi, come tali, intelligibili), le cui ragioni non erano
chiare ma potevano essere cercate e trovate. Detto in altri termini, qualsiasi cosa gli attori facessero
all'interno dell'atteggiamento naturale non era in grado di distruggere i presupposti dell'atteggiamento
naturale stesso.
• Riflessività e indessicalità
Le pratiche di accountability sono caratterizzate dalla riflessività e dalla indessicalità.
Dire che l'azione è riflessiva significa dire che in ogni momento del suo svolgersi essa costituisce -
cioè mantiene, altera o, comunque, elabora - il senso del contesto in cui si dispiega ed è a sua volta costituita
da esso. Da un lato, la sua realtà e oggettività dipende dal suo essere vista come inserita in un contesto, in un
ordine sociale stabile e oggettivo; dall'altro, il senso che le caratteristiche di un contesto sono oggettive e reali
è un effetto dell'azione.
La tesi dell'indessicalità è strettamente connessa a quella della riflessività: essa si riferisce al fatto
che ogni descrizione è legata al contesto della sua produzione: quindi indica molto di più di quanto esprime
'letteralmente' e il suo significato non può essere pienamente delineato astraendo dai particolari contestuali
della situazione. Garfinkel non intende semplicemente riferirsi al tradizionale problema del referente dei
termini deittici, ma sottolineare che, poiché un enunciato è in primo luogo un'azione, il suo senso non può
essere compreso prescindendo dal tipo di attività, inevitabilmente situata, che esso compie.
Garfinkel afferma ripetutamente che riflessività e indessicalità caratterizzano inevitabilmente e
irrimediabilmente ogni azione e ogni account. Tutte le azioni ricostituiscono riflessivamente le proprie
circostanze; e non esiste nessun enunciato il cui senso possa esser pienamente compreso
transituazionalmente, indipendentemente dal contesto.
• DEFINIZIONI DI DEVIANZA:
L'outsider è stato oggetto di molte speculazioni, teorie e studi scientifici. La ricerca scientifica ha
accettato la premessa posta dal buon senso comune secondo cui c'è qualcosa di inerentemente deviante
(distinto qualitativamente) negli atti che infrangono (o sembrano infrangere) le norme sociali. La scienza ha
anche accettato la supposizione di senso comune secondo la quale l'atto deviante avviene perché certe
caratteristiche della persona che lo commette rendono necessario ed inevitabile il commetterlo. Di solito gli
scienziati non si pongono domande sull'etichetta "deviante" quand'è applicata ad azioni o persone particolari,
ma la considerano come un dato di fatto. Così facendo, accettano i valori del gruppo che emette il giudizio.
È facilmente osservabile che gruppi diversi giudicano cose diverse come devianti. Ci dovrebbe
attirare la nostra attenzione sul fatto che la persona che emette un giudizio di devianza, il processo per cui si
è raggiunto questo giudizio e la situazione in cui è stato emesso, possono essere intimamente coinvolti nel
fenomeno di devianza. Il comune punto di vista sulla devianza e le teorie scientifiche che si fondano su tali
premesse, nella misura in cui presuppongono che gli atti che infrangono delle norme siano intrinsecamente
devianti ed accettino, quindi, le situazioni ed i processi di giudizio, possono trascurare una variabile
importante. Se gli scienziati non tengono conto del carattere variabile del processo del giudizio, rischiano con
tale omissione di limitare i paradigmi teorici che si possono sviluppare ed il tipo di comprensione che è
possibile raggiungere. Il primo problema, quindi, è di costruire una definizione della devianza. Prima di
farlo, prendiamo in considerazione alcune delle definizioni usate oggi dagli scienziati, vedendo che cos'è stato
trascurato se le prendiamo come punto di partenza per lo studio degli outsiders. L'interpretazione più
semplice della devianza è essenzialmente di tipo statistico, in quanto definisce deviante qualunque cosa
troppo diversa dalla media. In questo senso, essere mancino o avere i capelli rossi è deviante, perché la
maggior parte della gente usa di preferenza la destra e ha i capelli castani.
Così descritta, l'interpretazione statistica sembra ingenua, persino banale, ma semplifica il problema,
eliminando molte questioni importanti che di solito emergono nelle discussioni sulla natura della devianza.
Un'interpretazione meno semplice ma molto più comune identifica la devianza come qualcosa di
essenzialmente patologico, che rivela la presenza di una "malattia". Tale interpretazione si basa ovviamente
su una analogia medica. L'organismo umano, quando funziona efficientemente e non è soggetto a nessun
disturbo, è considerato "sano". Quando non funziona efficientemente, è considerato malato. L'organo o la
funzione che è l'oggetto del disturbo è detto patologico; naturalmente, c'è qualche disaccordo su cosa
costituisca un sano stato dell'organismo. Ma c'è molto meno accordo quando analogicamente si usa la
nozione di patologia per descrivere tipi di comportamento che sono considerati devianti. Poiché la gente non
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si trova d'accordo su cosa costituisca un comportamento sano, è difficile trovare una definizione che possa
soddisfare anche un gruppo selezionato e limitato come quello degli psichiatri; è impossibile trovarne una
che venga generalmente accettata come sono accettati i criteri di salute per l'organismo.
Si dà talvolta all'analogia un significato più rigoroso, ritenendo la devianza "prodotto" di una
malattia mentale. Il comportamento di un omosessuale o di un tossicomane è considerato come il sintomo di
una malattia mentale, così come la difficoltà con cui si cicatrizzano le ferite del diabetico è considerata come
un sintomo della sua malattia. Ma la malattia mentale assomiglia alla malattia fisica solo metaforicamente.
La metafora medica limita ci che vediamo così come l'interpretazione statistica. Accetta che un
profano giudichi qualcosa come deviante e, attraverso l'analogia, individua la sua origine nell'individuo, il
che ci impedisce di vedere il giudizio stesso come una componente cruciale del fenomeno.
Alcuni sociologi usano anche un modello di devianza basato essenzialmente sulle nozioni mediche di
salute e malattia. Esaminano una società, o parte di una società, e si chiedono se al suo interno agiscano dei
processi tendenti a ridurne la stabilità, e di conseguenza a diminuirne le "chances" di sopravvivenza.
Definiscono tali processi come devianti o li identificano come sintomi di disgregazione sociale. Discriminano
tra quelle caratteristiche della società che promuovono la stabilità (e sono perciò "funzionali'') e quelle che
rompono la stabilità (e sono perciò "disfunzionali''). Una tale interpretazione ha la grande virtù di indicare in
una società aree problematiche di cui la gente può non aver coscienza.
Ma nella pratica, più di quanto sembra in teoria, è difficile specificare ci che è "funzionale'' e ci che è
"disfunzionale" per una società o un gruppo sociale. La questione di qual è lo scopo, la meta (funzione) di un
gruppo e, di conseguenza, cosa potrà aiutare o impedire il raggiungimento di questa meta, è molto spesso
una questione politica. Fazioni all'interno del gruppo entrano in disaccordo e manovrano per fare prevalere
la loro definizione della funzione di gruppo. La funzione di un gruppo o di un'organizzazione non è iscritta
nella natura dell'organizzazione, ma viene definita in un conflitto politico. Se questo è vero, è altrettanto vero
che devono anche essere considerate come politiche le questioni circa quali regole vadano imposte, quale
comportamento considerato come deviante, e quali persone definite come outsider. L'interpretazione
funzionale della devianza, se si ignora l'aspetto politico del fenomeno, limita la nostra comprensione
Un'altra interpretazione sociologica è più relativistica. Identifica la devianza come la mancanza di
obbedienza alle norme. Una volta descritte le norme che il gruppo impone ai suoi membri, possiamo dire con
buona precisione se una persona le ha infrante o meno e se è, in questo senso, deviante.
Questa interpretazione è quella che più si avvicina a quella di Becker, ma non riesce a dare un peso
sufficiente alle ambiguità che emergono nel decidere quali norme vadano prese come campione cui riferirsi
per "misurare'' un
comportamento e giudicarlo deviante. Una società ha molti gruppi, ognuno con il proprio insieme di
norme, e la gente appartiene simultaneamente a molti gruppi. Una persona può infrangere le norme di un
gruppo proprio nel conformarsi alle norme di un altro gruppo. È, allora, deviante? Sostenitori di questa
definizione possono obiettare che, mentre l'ambiguità può emergere rispetto alle norme particolari di questo
o quel gruppo, ci sono alcune norme che generalmente sono accettate da tutti, e in tal caso la difficoltà non
emerge.
persone abbiano effettivamente commesso un atto deviante o infranto qualche norma, perché il processo
dell'etichettare non è necessariamente infallibile; certe persone possono essere definite devianti mentre in
realtà non hanno infranto nessuna norma. Finché la categoria manca di omogeneità e non include tutti i casi
che ad essa appartengono, non si può pensare seriamente di trovare fattori comuni di personalità o di
situazioni di vita che possano spiegare la presupposta devianza.
Cosa hanno, allora, in comune le persone definite devianti? Condividono perlomeno l'etichetta e
l'esperienza di essere etichettati come outsiders. Mi interesserò più del processo tramite il quale
vengono considerati come outsiders e delle loro reazioni a questo giudizio, che non delle caratteristiche
personali e sociali dei devianti. Molti anni fa, nel suo studio sulle isole Trobriand, Malinowski scoprì
l'utilità di questa interpretazione per capire la natura della devianza. Un atto sarà considerato deviante o
meno, quindi, a seconda della reazione della gente.
Diverso è il grado di reazione di chi definisce un determinato atto come deviante.
Alcuni tipi di variazione non sembrano degni di attenzione.
Innanzitutto, va considerata la variazione nel tempo. Una persona che si ritiene abbia commesso un
determinato atto "deviante" può essere, in un dato momento, considerata con molta più tolleranza di quanto
lo sarebbe in un altro momento. Chiari esempi di queste tendenze sono le varie "campagne" contro questo o
quel tipo di devianza. Periodicamente, funzionari preposti all'applicazione della legge possono decidere di
lanciare un'offensiva contro un tipo particolare di devianza, come il gioco, la tossicodipendenza o
l’omosessualità. Essere in uno di questi "giri" è ovviamente molto più rischioso durante una di queste
"campagne" che in qualunque altro momento.
La misura in cui un atto verrà considerato come deviante dipende anche da due altri importanti
fattori: chi lo commette e chi si sente leso. Le norme tendono ad essere applicate più a certe persone che ad
altre, come dimostrano chiaramente studi sulla delinquenza giovanile. Ragazzi provenienti dai quartieri della
classe media, quando sono arrestati, non vengono coinvolti nel processo giudiziario fino al punto in cui lo
sono i ragazzi dei bassifondi.
Questa differenza permane anche se l'infrazione originale della legge è la stessa nei due casi. Nello
stesso modo, la legge è applicata in maniera differenziata nei confronti dei neri e dei bianchi.
Quindi, la devianza non è una semplice qualità, presente in certi tipi di comportamento ed assente in
altri, ma è piuttosto il prodotto di un processo che implica le reazioni di altre persone ad un determinato
comportamento. Lo stesso comportamento può essere un'infrazione delle norme in un certo momento, e non
in un altro; può essere un'infrazione se è commesso da una certa persona, ma non se commesso da un'altra;
certe norme sono infrante con impunità, e altre no. In breve, che un determinato atto sia deviarne o meno
dipende in parte dalla natura dell'atto stesso (cioè se ha o meno violato qualche norma), e in parte dalla
reazione delle altre persone.