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NOTE DI COPERTINA

«Con la mano sulla maniglia appoggiò l'orecchio alla porta. Nessun suono.
Con cautela picchiò con il medio sul legno.
Anche questa volta non sentì nulla. Aprì la porta più esterna prima di ripetere il gesto.
Inutilmente. Nessuno disse "Avanti" né "Non voglio essere disturbata". Nessuno disse niente di niente. Con fare cauto ed esitante, e con la
possibilità di richiudere la porta in un baleno qualora Birgitte Volter fosse profondamente concentrata su qualcosa di molto importante,
socchiuse la porta...
Il primo ministro Birgitte Volter era seduta sulla sua poltroncina girevole con il busto riverso sulla scrivania. In piedi sulla soglia, a una distanza
di sei metri e mezzo, Wenche Andersen lo vedeva comunque nitidamente: il sangue che aveva formato una pozza grande, stagnante sopra la
bozza di legge da sottoporre al Parlamento sulla collaborazione al trattato di Schengen. Era così visibile che Wenche Anderson non si avvicinò
neppure al corpo senza vita».
ANNE HOLT, nata nel 1958. Avvocato, giornalista e dal 1996 al 1997 ministro della Giustizia norvegese, è una delle più importanti scrittrici di
gialli scandinavi.
Le sue due serie gialle, quella incentrata sui detective Johanne Vik e Yngvar Stubo, nonché quella con protagonista l'ispettore capo di polizia
Hanne Wilhelmsen hanno venduto milioni di copie in tutto il mondo. Della prima serie Stile Libero ha già pubblicato Quello che ti meriti, Non
deve accadere, La porta chiusa; della seconda, La dea cieca, La vendetta e L'unico figlio.

Dello stesso autore nel catalogo Einaudi


Quello che ti meriti
Non deve accadere
La porta chiusa
La dea cieca
La vendetta
L'unico figlio
Anne Holt
Berit Reiss-Andersen

Nella tana dei lupi


Traduzione di Margherita Podestà
Einaudi

© 1997 Anne Holt, Berit Reiss-Andersen.


Pùblished by Arrangement with Salomonsson Literary Agènt.
Published in 1997 by W. Cappelens Forlag, Oslo
© 2012 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
www.einaudi.it
Isbn 978-88-06-20989-6
Nella tana dei lupi ai nostri amici dottor Felicità, allevatore di pecore, e Arnold, cavaliere della
Parola rotonda

Non serve a nulla essere uno quando ti trovi nelle fauci del leone.
GUNNAR REISS-ANDERSEN

Venerdì 4 aprile 1997


Ore 18.4 ufficio del primo ministro.

Seduta davanti all'ufficio del primo ministro, la donna non faceva che fissare a turno la doppia porta e il
proprio telefono mentre si sentiva assalire da un'inquietudine crescente.
Indossava un tailleur blu. Una giacca corta dalle linee sobrie e dal taglio classico, con gonna abbinata e
un foulard dai colori un po' troppo sgargianti. Nonostante stesse per concludersi una lunga giornata di
lavoro, i capelli, acconciati in una pettinatura elegante, seppur leggermente démodé, erano perfettamente
a posto. Il taglio la faceva sembrare più vecchia della sua età. Pareva quasi che il suo desiderio fosse
proprio quello, come se un'acconciatura che la moda aveva abbandonato all'inizio degli anni Ottanta
(taglio sfumato sui lati e chioma voluminosa) le conferisse una dignità che i quarantanni suonati non le
davano. Aveva parecchie cose da sbrigare ma, fatto insolito per lei, non riusciva a concludere niente.
Rimase seduta a lungo nella stessa posizione.
L'unico dettaglio in grado di svelare la sensazione crescente che ci fosse qualcosa che non andava erano
le dita. Erano lunghe, curate, con le unghie laccate di rosso scuro e due anelli d'oro a ogni mano. Se le
portava continuamente alle tempie come per aggiustare qualche capello invisibile che non si comportava
come doveva. Infine le abbattè sul sottomano della scrivania con un suono sordo, simile a una serie di
spari esplosi con un silenziatore, si alzò di colpo e si diresse verso la finestra che dava a occidente.
Fuori stava cominciando a imbrunire. Aprile si delineava lunatico e bizzoso proprio come molto tempo
prima BJornstjerne Bjornson lo aveva ritratto in una sua poesia.
Quindici piani sotto di lei vedeva la gente che, tremando di freddo, si affrettava lungo Akersgata; alcuni
si muovevano bruscamente, formando piccoli cerchi mentre aspettavano un autobus che forse non sarebbe
mai arrivato.
Nell'ufficio del ministro della Cultura, che si trovava nell'edificio noto con il nome di R5, le luci erano
ancora accese. Nonostante la distanza, la donna dal tailleur blu vide la segretaria che dall'anticamera
entrava nello studio del suo capo con una pila di carte. Ridendo rivolta alla donna più anziana, il ministro
buttò all'indietro i capelli biondi. Era troppo giovane per rivestire quell'incarico.
Per giunta non era neanche abbastanza alta: un abito lungo da cerimonia non poteva stare bene a una
donna che raggiungeva a malapena il metro e sessanta. Come se non bastasse, si era appena accesa una
sigaretta prima di appoggiare un posacenere su una pila di documenti.
«Non dovrebbe fumare in quell'ufficio, - pensò la donna in blu. - Li dentro sono appese delle vere e
proprie opere d'arte.
Non fa di certo bene ai dipinti. No, assolutamente no».
Riconoscente si aggrappò a quel senso d'irritazione. Per un attimo represse l'inquietudine che stava per
trasformarsi in una paura sconosciuta e preoccupante.
Erano passate due ore da quando il primo ministro Birgitte Volter in modo molto deciso, quasi sgarbato,
le aveva notificato di non volere essere disturbata, cascasse il mondo. Aveva detto proprio così:
«Cascasse il mondo».
Grò Harlem Brundtland non avrebbe mai pronunciato quell'espressione. Avrebbe invece detto «in nessun
caso», forse si sarebbe addirittura limitata a comunicare che non voleva essere disturbata. Anche se tutti i
sedici piani del palazzo fossero stati avvolti dalle fiamme, Grò Harlem Brundtland avrebbe preteso di
essere lasciata in pace quando lo aveva esplicitamente richiesto. Ma Grò si era dimessa dal suo incarico
il 25 ottobre dell'anno prima e adesso erano subentrati tempi nuovi, abitudini nuove, un linguaggio nuovo,
e Wenche Andersen teneva per sé quello che pensava. Lei svolgeva il suo lavoro come sempre: in modo
efficiente e discreto.
Da poco più di un'ora il giudice della Corte Suprema Benjamin Grinde aveva lasciato l'ufficio del primo
ministro.
Indossava un abito italiano grigio carbone e aveva annuìto a mo' di saluto mentre usciva dalla doppia
porta prima di richiudersela alle spalle. Abbozzando un sorriso e con il portadocumenti in pelle rosso
borgogna sotto il braccio, si era complimentato con lei per il suo tailleur nuovo prima di dileguarsi giù
per le scale che conducevano al quattordicesimo piano, dove si trovava l'ascensore. Di riflesso Wenche
Andersen si era alzata per recarsi da Birgitte Volter con una tazza di caffè quando, per fortuna e all'ultimo
momento, le era venuta in mente la richiesta esplicita e decisa del primo ministro di essere lasciata in
pace.
Adesso però si stava facendo davvero tardi.
I sottosegretari e i consiglieri politici se n'erano andati.
Lo stesso valeva per il resto del personale dell'ufficio.
Quel venerdì sera Wenche Andersen sedeva da sola al quindicesimo piano dell'edificio più alto del
quartiere in cui si trovavano i diversi ministeri senza sapere cosa fare.
Dall'ufficio del primo ministro non giungeva nessun rumore, regnava un silenzio assoluto. Forse non era
poi così strano: in fondo le porte erano doppie.

Ore 19.02, Odins gaie 3.

C'era qualcosa che non andava assolutamente nel contenuto di quel bicchiere a tulipano, di cristallo, che
lui teneva davanti a sé per vedere il riflesso della luce sul liquido rosso. Si sforzò di concedersi del
tempo: lasciò che il vino parlasse da sé, provò a rilassarsi e a goderselo come meritava di solito un
Bordeaux importante. L'annata 1983 avrebbe dovuto essere invitante e gradevole: quel vino invece si era
mostrato deludente fin dall'inizio.
Spiacevolmente sorpreso, contrasse le labbra disgustato mentre sentiva che il retrogusto non era affatto
all'altezza della cifra che aveva sborsato per quella bottiglia. Appoggiato bruscamente il bicchiere,
afferrò il telecomando del televisore. Il telegiornale era già cominciato. Era un'edizione del tutto priva
d'interesse e le immagini gli sfilavano vuote davanti agli occhi. L'unica cosa che gli rimase impressa fu
l'abbigliamento totalmente privo di gusto del conduttore: le giacche gialle non si addicevano a un uomo.
Aveva dovuto farlo. Non c'erano alternative. Adesso che tutto era finito, non provava niente. Si era
aspettato una specie di liberazione, la possibilità di respirare finalmente dopo tutti quegli anni.
Avrebbe desiderato tanto sentirsi sollevato. Invece fu assalito da un senso di solitudine a lui sconosciuta.
Di colpo i mobili che lo circondavano gli parvero estranei. La credenza di rovere, massiccia e antica, su
cui era solito arrampicarsi da piccolo e che adesso troneggiava in tutto il suo splendore nel soggiorno
con i suoi rilievi raffiguranti foglie e grappoli d'uva e con la collezione esclusiva di miniature netsuke
giapponesi che facevano bella mostra di sé dietro le ante di vetro molato, sembrava soltanto cupa e
minacciosa.
Sul tavolino, tra lui e il televisore, giaceva un oggetto.
Perché lo tenesse li, non lo capiva. Perché l'avesse preso, era altrettanto inconcepibile.
Scrollatosi di dosso quei pensieri, fece scomparire il giornalista televisivo con una semplice pressione
del dito.
Il giorno dopo era il suo compleanno. Avrebbe compiuto cinquant'anni. Si sentì molto più vecchio della
sua età quando con movimenti rigidi si alzò dal divano Chesterfield per andare in cucina. Avrebbe potuto
preparare il pàté quella sera stessa. Andava preparato quella sera stessa: dopo essere rimasto in
frigorifero per ventiquattr'ore, il pàté sarebbe stato perfetto.
Per un attimo valutò l'ipotesi di aprire un'altra bottiglia di quell'infelice Bordeaux, ma accantonata l'idea
si accontentò di un cognac che versò abbondantemente in un altro bicchiere. Il cognac del cuoco.
Non provava alcun sollievo neanche stando in cucina., Ore 19.35, ufficio del primo ministro.
La pettinatura non era più perfetta come prima. Una ciocca indurita e decolorata le cadde sugli occhi.
Afferrata la borsetta, l'aprì per estrarre un fazzoletto stirato di fresco. Se lo portò prima alla bocca per
poi passarlo sulla fronte.
Adesso sarebbe entrata. Poteva essere successo qualcosa.
Birgitte Volter aveva staccato il telefono, costringendola a bussare. Forse aveva avuto un malore. Anche
se Wenche Andersen aveva molto da obiettare sullo stile alquanto brusco e insolito di Birgitte Volter,
doveva riconoscere che il primo ministro normalmente era molto gentile.
Invece quell'ultima settimana era stata pressoché secca e quasi sgarbata, stizzosa e facilmente irritabile.
Era malata?
Adesso sarebbe entrata nell'ufficio. Adesso.
Invece di disturbare il primo ministro, si diresse verso la toilette. Rimase a lungo davanti allo specchio.
Il suo aspetto era inappuntabile. Si lavò a lungo, molto a lungo le mani, poi prese un tubetto di crema
dall'armadietto sotto il lavandino. Non era necessario, le mani le divennero tutte appiccicose, ma in quel
modo poteva far passare del tempo. Si massaggiò le dita con cura strofinandole tra di loro mentre sentiva
l'epidermide assorbire la crema. Senza volerlo, guardò nuovamente l'orologio. Emise un profondo
respiro. Erano passati soltanto quattro minuti e mezzo: le piccole lancette d'oro erano rimaste
praticamente immobili.
Sconsolata e in preda all'ansia ritornò al suo posto.
Perfino il suono della porta del bagno che le si richiudeva alle spalle sembrava pauroso.
Adesso doveva entrare. Dopo essersi alzata per metà, Wenche Andersen esitò un attimo prima di
risedersi. Il messaggio era stato chiarissimo. Birgitte Volter non doveva essere disturbata. «Cascasse il
mondo». Ma il primo ministro non aveva neanche detto che Wenche Andersen poteva andare a casa, e
sarebbe stato inaudito lasciare l'ufficio prima di averne avuta l'autorizzazione. Adesso sarebbe entrata.
Doveva.
Con la mano sulla maniglia appoggiò l'orecchio alla porta.
Nessun suono. Con cautela picchiò con il medio sul legno.
Anche questa volta non sentì nulla. Aprì la porta più esterna prima di ripetere il gesto. Inutilmente.
Nessuno disse «Avanti» né «Non voglio essere disturbata». Nessuno disse niente di niente e Wenche
Andersen non sudava più soltanto sul labbro superiore. Con fare cauto ed esitante, e con la possibilità di
richiudere la porta in un baleno qualora Birgitte Volter fosse concentratissima su qualcosa di molto
importante, socchiuse la porta. Purtroppo da quella posizione e con un'apertura di appena dieci
centimetri, era in grado di vedere soltanto l'estremità più lontana del gruppo di poltroncine con il tavolo
rotondo.
Di colpo, presa da una risolutezza che non conosceva da parecchie ore, Wenche Andersen spalancò la
porta.
- Mi scusi, - esordì ad alta voce. - Mi scusi se la disturbo, ma...
Non avrebbe avuto più senso aggiungere altro.
Il primo ministro Birgitte Volter era seduta sulla sua poltroncina girevole con il busto riverso sulla
scrivania.
Ricordava l'immagine di una studentessa che, giunta la sera, dopo aver trascorso l'intera giornata in una
lussuosa sala di lettura a prepararsi in vista degli esami semestrali, ora volesse soltanto schiacciare
un'pisolino, riposarsi un po'. In piedi sulla soglia, a una distanza di sei metri e mezzo, Wenche Andersen
lo vedeva comunque nitidamente: il sangue che aveva formato una pozza grande, stagnante sopra la bozza
di legge da sottoporre al Parlamento sulla collaborazione al trattato di Schengen.
Era così visibile che Wenche Anderson non si avvicinò neppure al corpo senza vita di Birgitte Volter per
vedere se fosse possibile aiutarla, andare magari a prenderle un bicchier d'acqua o porgerle un fazzoletto
per togliere tutto quello sporco.
Invece, richiuse le due porte che davano nell'ufficio del primo ministro, questa volta con movimenti
decisi, si diresse verso la propria scrivania e afferrò il telefono che aveva una linea diretta con la polizia
di Oslo e precisamente con la centrale operativa. Bastò un solo squillo perché una voce maschile
rispondesse all'altro capo.
- Dovete venire immediatamente, - disse Wenche Andersen, la cui voce tremava appena. - Il primo
ministro è morto. Le hanno sparato. Birgitte Volter è stata uccisa.
Dovete venire.
Poi, riagganciata la cornetta, afferrò un altro telefono che era collegato ai servizi di sicurezza.
- È l'ufficio del primo ministro, - esordì, adesso con voce più calma. - Bloccate l'edificio. Nessuno deve
entrare né uscire. Soltanto la polizia. Ricordatevi il garage.
Senza aspettare risposta, interruppe la comunicazione e compose un numero formato da quattro cifre.
- È l'ufficio del primo ministro, - ripetè. - Il primo ministro è morto. Attivate il piano di emergenza.
Wenche Andersen continuò a svolgere il suo dovere cosi come lo compiva sempre: in modo sistematico e
senza errori. L'unico dettaglio che avrebbe potuto smascherare come quel venerdì sera fosse
assolutamente fuori dal co mune, erano le due piccole macchie violacee che continuavano a espandersi
sulle sue guance.
In compenso le coprirono il viso in poco tempo.

Ore 19.50, redazione del giornale «Kveldsavisen» («Ka»).

Quando i genitori di Liten Lettvik avevano deciso di battezzare con il nome di Lise Anette la loro
biondissima creatura, la pargoletta aveva già una sorella nata un anno prima di lei che, incapace di
pronunciare tutto quel po' po' di nome, l'aveva contratto per necessità in Liten, cioè «piccola». Nessuno
di loro avrebbe mai immaginato che quarantacinque anni dopo la «Piccola» Liten avrebbe raggiunto un
peso di novantadue chili e avrebbe fumato venti cigarilli al giorno. E neanche che avrebbe bevuto
quotidianamente whisky, una quantità al limite di quanto un fegato ormai allo stremo era in grado di
tollerare.
Tutto il suo essere, con quei capelli grigi e ispidi che le ricadevano sul viso e che portavano l'impronta
di quasi trent'anni trascorsi come giornalista, per non parlare della sua ostinazione nel seguire il diritto
acquisito negli anni Settanta di non portare il reggiseno, invogliavano allo sberleffo, ma nessuno
scherzava con Liten Lettvik.
Perlomeno non in sua presenza.
- Cosa diavolo ci farà dal primo ministro un giudice della Corte Suprema di venerdì pomeriggio a tarda
ora, - mormorava tra sé sollevandosi i seni, che, dopo essersi distesi verso le ascelle, trovarono un
solido appoggio sulle anche ben imbottite.
- Cosa hai detto?
Il giovane in piedi davanti a lei era il suo galoppino. Era scheletrico, alto uno e novantasei e aveva
ancora i brufoli.
Liten Lettvik disprezzava quelli come Knut Fagerborg: i giovincelli che lavorano come sostituti al
giornale per sei mesi. I giornalisti più pericolosi del mondo. Liten Lettvik lo sapeva. Una volta era stata
una di loro, e anche se era passato molto tempo e in quegli anni le condizioni di lavoro per gli addetti
della stampa norvegese erano cambiate, lo aveva riconosciuto subito. Ma Knut era utile. Come tutti gli
altri, provava per lei un'ammirazione incondizionata.
Credeva che lo avrebbe appoggiato per prolungargli l'assunzione di altri sei mesi. Come si sbagliava.
Nel frattempo lo poteva usare.
- Strano, - borbottò nuovamente, più rivolta a se stessa che in risposta a Knut Fagerborg. - Nel
pomeriggio ho telefonato alla Corte Suprema per parlare con Grinde. È così maledettamente difficile
avere notizie su quello che stanno combinando nella sua commissione d'inchiesta.
Una pollastrella dell'anticamera del giudice ha risposto cinguettante che Grinde era dal primo ministro.
Che diavolo ci faceva lì?
Dopo aver sollevato le braccia sopra la testa, si stirò.
In quel momento Knut riconobbe la fragranza di Poison: non molto tempo prima gli avevano dovuto
somministrare al pronto soccorso degli antistaminici dopo la notte passata con una tipa che aveva lo
stesso gusto in fatto di profumi.
- Cosa vuoi? - gli chiese lei di colpo, come se si fosse accorta di lui soltanto allora.
- No, niente, è che c'è qualcosa che bolle in pentola.
Prima la radio della polizia sembrava impazzita, mentre adesso regna un silenzio di tomba. Mai vista una
cosa simile.
Il ventenne Knut Fagerborg non poteva avere vissuto più di tanto, ma Liten era d'accordo con lui: la
faccenda puzzava.
- Hai sentito in giro qualcosa? - gli domandò.
- No, ma...
- Gente!
Un uomo sulla quarantina che indossava una giacca grigia di tweed entrò nella redazione strascicando i
piedi.
- Sta succedendo qualcosa nel palazzo del primo ministro.
Un mucchio di macchine e un gran movimento, stanno delimitando tutta l'area circostante con il nastro
segnaletico. Il primo ministro aspetta qualche pezzo grosso dall'estero?
- Di sera? Di venerdì sera?
A Liten Lettvik faceva male il ginocchio sinistro.
Le era capitata la stessa cosa due ore prima che la piattaforma petrolifera Kielland si capovolgesse. Il
ginocchio le aveva fatto un male cane anche la vigilia dell'assassinio di Palme. Per non parlare di come
si era recata zoppicando al pronto soccorso la sera dopo lo scoppio della guerra del Golfo, stupita che il
dolore fosse sopravvenuto troppo tardi, fino a quando aveva scoperto che quella notte stessa era morto re
Olav.
- Vai a fare un giro di perlustrazione.
Knut si defilò immediatamente.
- A proposito, chi conosce qualcuno che ha avuto un bambino nel '65?
Liten Lettvik si strofinò il ginocchio dolorante e ansimò, la pancia incastrata contro il bordo del tavolo.
- Io sono nata nel '65, - esclamò una collega tutta in tiro e dal tailleur lillà, che di ritorno dall'archivio
faceva il suo ingresso nella redazione con due fascicoli.
- Non serve, - rispose Liten Lettvik. - Tu sei ancora viva.
Ore 20.15, ufficio del primo ministro.

Billy T. avvertiva qualcosa che interpretò come un attacco di nostalgia e che gli premeva con tale
insistenza su un punto del diaframma da costringerlo a una serie di inspirazioni profonde per schiarirsi la
mente.
L'ufficio del primo ministro norvegese poteva definirsi arredato con gusto, se non fosse stato che
l'interessata giaceva priva di vita e con la testa riversa sulle carte che aveva davanti a sé: un'offesa da
considerarsi letteralmente mortale nei confronti dell'architetto d'interni che aveva scelto con molta cura
una scrivania grande e curva. Le linee ondulate e morbide del tavolo si rincorrevano in diversi punti
della stanza, tra l'altro in una libreria indubbiamente decorativa, ma che in mancanza di linee rette
sembrava del tutto inutilizzabile. Del resto non conteneva molti libri. L'ufficio era rettangolare: a
un'estremità c'erano un tavolo e delle sedie riservati alle riunioni, all'altra si trovava la scrivania con
davanti due poltrone destinate agli ospiti. In quella stanza non c'era nulla che potesse definirsi lussuoso.
Il quadro appeso alla parete dietro la scrivania era grande, ma non particolarmente bello, e Billy T. non
fu subito in grado di riconoscerne l'autore. Il primo pensiero che lo colpì mentre si guardava intorno, era
che aveva visto in altre parti della Norvegia uffici molto più esclusivi. Quella era una stanza
socialdemocratica fino all'osso, un ufficio sobrio da primo ministro che i visitatori norvegesi avrebbero
apprezzato annuendo, ma che probabilmente i capi di stato stranieri avrebbero trovato persino troppo
poco sfarzoso.
A ogni estremità c'era una porta, quella da cui era appena entrato Billy T. e l'altra che conduceva in una
stanza dove il primo ministro poteva riposare e che era dotata di una doccia e di un gabinetto.
Il medico era pallido e aveva macchie di sangue sulla giacca grigia. Stava litigando con i guanti in latex
per riuscire a sfilarseli e nella sua voce tesa Billy T. intuì una punta di solennità.
- Presumo che il primo ministro sia morto tra le due e le tre ore fa, ma si tratta soltanto di una ipotesi
provvisoria.
Molto provvisoria. Parto dal presupposto che la temperatura di questa stanza sia rimasta costante,
perlomeno fino al nostro arrivo.
Finalmente, dopo aver ceduto, i guanti si congedarono dalle dita del medico con un risucchio, prima di
essere infilati nella tasca della giacca di tweed. Il medico si fece forza.
- Le hanno sparato alla testa.
- Questo lo vedo anch'io, - borbottò Billy T.
Il capo della sezione Omicidi gli lanciò un'occhiata ammonitrice.
Billy T., che aveva colto il segnale, si girò verso i tre della Scientifica indaffarati a svolgere i loro
compiti come tante altre volte: scattavano foto, prendevano misure, spennellavano la polverina per la
rilevazione delle impronte digitali, muovendosi per la stanza con una grazia che avrebbe stupito chiunque
non avesse mai visto quel genere di operazioni. Fingevano di averci fatto il callo, dando l'impressione
che si trattasse unicamente di una procedura di routine. Eppure c'era in quell'ufficio un non so che di
sacro: mancava totalmente il solito umorismo macabro.
L'atmosfera era così tesa che la temperatura aveva cominciato a salire come per sottolineare la gravità
del momento.
Non c'era spazio per frivolezze di nessun genere davanti alla morte di un primo ministro.
Come gli accadeva sempre quando si trovava di fronte a un cadavere, Billy T. fu colpito dal pensiero che
non esiste niente di più nudo e spoglio della morte. Vedere quella donna che fino a tre ore prima aveva
governato la nazione, quella donna che di fatto lui non aveva mai visto, ma che tuttavia aveva osservato
tutti i giorni alla Tv, sui quotidiani, che aveva sentito alla radio: vedere Birgitte Volter, l'incarnazione di
un personaggio pubblico, giacere morta riversa sulla sua scrivania, era peggio, più imbarazzante, lo
martoriava ancora di più che vederla senza vestiti. Billy T. si girò per andare alla finestra.
Il ministero delle Finanze si ergeva sulla sinistra, in fondo alla strada. Sembrava che l'edificio si fosse
rattrappito in preda a una rabbia veemente per i recenti e costosi lavori di ristrutturazione apportati al
palazzo accanto che ospitava la Corte Suprema. Ancora più in là, in direzione sudovest, Billy T. scorgeva
il tetto del Parlamento, che appariva alquanto dimesso dal penultimo piano del palazzo del governo, con
il suo pennone esile, inerme, in cima alla cupola. Il potere esecutivo, quello giudiziario e quello
legislativo su una linea non perfettamente retta.
«Più Akersgata, la via delle principali testate norvegesi, che sembra collegare il tutto come una specie
d'imbastitura», pensò Billy T. girandosi nuovamente verso la stanza.
- L'arma?
Lo domandò a un giovane collega che si era ritirato per un istante verso la porta: stava bevendo
dell'acqua da un bicchiere di plastica che con cura restituì a una donna poliziotto in uniforme che faceva
da piantone nell'anticamera.
Rispose scuotendo la testa.
- No.
- No.
- Non ancora. Nessun'arma.
Si asciugò la bocca con la manica della giacca.
- La troveremo, - proseguì. - Dobbiamo continuare le ricerche.
Bagni, corridoi, passaggi. Quest'edificio è mastodontico.
Probabilmente non è qui dentro. Mi riferivo all'arma.
- E questo mastodonte oltretutto è affollato anche di venerdì sera, - commentò il capo della Omicidi con
un certo stupore. - Stanno cominciando a riunirsi tutti in mensa, di sotto. Finora almeno sessanta, settanta
persone.
Billy T. imprecò sottovoce.
- In questo palazzo ci devono essere minimo quattrocento merdosissimi corridoi. Posso avere l'ardire di
richiedere dei rinforzi?
Pronunciò le ultime parole con un sorriso forzato mentre si passava la mano sul cranio rasato a zero.
- Ma certo, - rispose il capo della Omicidi. - Dobbiamo trovare l'arma, certo.
- Quante ovvietà, - mormorò Billy T. con un tono di voce così basso che nessuno potè sentirlo.
Voleva andarsene, tanto li non c'era bisogno di lui. Sapeva che i giorni, le settimane, si, forse i mesi a
venire sarebbero stati un vero e proprio inferno. Lo stato d'emergenza sarebbe durato a lungo. Niente più
festività, né ferie.
Niente più tempo da dedicare ai figli. Quattro maschi che almeno nei fine settimana avevano tutti i diritti
di reclamare la sua presenza. Comunque, in quel momento e in quell'ufficio rettangolare, da cui si godeva
uno splendido panorama su Oslo illuminata a sera e dove una donna assassinata giaceva sulla scrivania,
non avevano bisogno di lui.
Fu assalito nuovamente dal senso di solitudine. Ecco di cosa si trattava: solitudine e nostalgia. Di lei, la
sua partner e la sua unica amica e confidente. Avrebbe dovuto essere li: insieme erano invulnerabili, da
solo sentiva che i suoi due metri e due e il crocefisso capovolto che portava all'orecchio non servivano a
niente. Per l'ultima volta distolse lo sguardo dalla pozza di sangue che si trovava sotto la testa malridotta
della donna.
Si girò portandosi una mano al petto.
Hanne Wilhelmsen era negli Stati Uniti e non sarebbe tornata prima di Natale.
- Merda, Billy T., - gli sussurrò il poliziotto che aveva bevuto l'acqua. - Mi sento male. Non mi è mai
successo prima. Sulla scena di un crimine. Non da quando ero allievo poliziotto.
Billy T. non gli rispose, ma si limitò a guardarlo per una frazione di secondo prima di contrarre la bocca
in una smorfia velocissima che con un po' di buona volontà poteva essere interpretata come un sorriso.
Anche lui si sentiva uno straccio.

Ore 20.30, redazione del giornale «KA».

- Deve essere qualcosa di molto grosso, - ansimò Knut Fagerborg buttando in un angolo il giubbotto di
jeans imbottito. - Pieno di gente, pieno d'auto, posti di blocco ovunque, e comunque tutto silenziosissimo!
Hanno tutti un'aria così seria!
Si lasciò cadere su una poltroncina da ufficio che era troppo bassa per lui, le gambe gli andavano in tutte
le direzioni, sembrava un ragno.
A Liten Lettvik il ginocchio sinistro faceva un male cane.
Dopo essersi alzata, con cautela appoggiò il piede per terra mentre con altrettanta delicatezza caricava la
gamba con il suo peso corporeo.
- Voglio vedere di persona, - dichiarò prima di estrarre un pacchetto di piccoli sigari.
Se ne accese uno con cura, lentamente, mentre Knut Fagerborg le saltellava a fianco, impaziente per la
voglia di precederla e di percorrere di corsa i pochi metri che li separavano dal palazzo del governo.
- Credo che tu abbia ragione, - gli disse con un sorriso. - Si tratta senza dubbio di qualcosa di molto
grosso.
Zoppicando lasciò la redazione centrale.

Ore 20.34, Skaugum Gàrd, Asker.

L'auto governativa nera si fermò morbidamente davanti al Podere del re ad Asker, a una mezz'ora di
strada dalla capitale.
Un uomo alto e slanciato in abito scuro aprì la portiera posteriore destra prima ancora che la macchina
fosse perfettamente ferma, poi scese. Si strinse per bene il cappotto intorno alla vita prima di dirigersi a
grandi falcate verso la porta d'ingresso. A metà strada vacillò leggermente, solo per un attimo, poi,
appoggiato un piede di lato, riprese l'equilibrio.
Un uomo in livrea aprì la porta prima di condurlo in una stanza che somigliava a una biblioteca. Con tono
di voce sommesso fu chiesto al ministro degli Esteri di aspettare.
L'uomo che lo aveva accolto sollevò con sorpresa le sopracciglia quando l'ospite inatteso rifiutò la mano
tesa che voleva appendere il cappotto al suo legittimo posto.
Poi, il dinoccolato ministro degli Esteri sedette su una sedia barocca e scomoda con la netta sensazione
che fosse troppo piccola per lui. Si strinse ancora di più il cappotto intorno al corpo, anche se non aveva
freddo.
Il re era sulla soglia. Era vestito normalmente, con un paio di pantaloni grigi e la camicia aperta sul
collo. Il suo volto era ancora più preoccupato del solito e lo sguardo guizzava inquieto; dietro le
palpebre pesanti era visibile soltanto la parte inferiore dell'iride. Non sorrise e il ministro degli Esteri
scattò in piedi mentre gli porgeva la mano.
- Purtroppo ho una notizia davvero spiacevole da comunicarle, Vostra Maestà, - esordì piano prima di
tossire con la mano sinistra stretta sulla bocca.
La regina, che aveva raggiunto il consorte, si fermò a un paio di metri all'interno della stanza: in mano
teneva un bicchiere che conteneva qualcosa con alcuni cubetti di ghiaccio che tintinnarono allegramente
al suo ingresso, come un invito a trascorrere una serata piacevole. Indossava un paio di jeans adatti a una
donna di una certa età e un maglione coloratissimo a disegni che raffiguravano delle mucche rosse e nere.
L'espressione formale del suo viso non riusciva comunque a nascondere una certa curiosità di fronte a
quella visita inaspettata.
Il ministro degli Esteri si sentiva a disagio. La coppia reale sembrava godersi una rara serata di pace e
tranquillità.
D'altro canto: erano tante le persone che oltre a loro avrebbero avuto la serata rovinata.
Dopo aver salutato la regina con un cenno della testa, guardò nuovamente il re negli occhi prima di
proseguire:
- Il primo ministro Volter è morto, Vostra Maestà. È stata uccisa con un colpo d'arma da fuoco questa
sera stessa.
I due sovrani si scambiarono un'occhiata. Il re si strofinò lentamente la radice del naso. Si fece silenzio.
Durò a lungo.
- Credo che il ministro degli Esteri si debba accomodare, - disse alla fine il re indicando la sedia da cui
l'uomo alto e scuro si era appena alzato. - Si sieda e ci fornisca ulteriori informazioni. Magari le faccio
portare via il cappotto.
Il ministro abbassò lo sguardo sul cappotto con l'espressione di chi non sa neanche di indossarlo. Con
movimenti impacciati se lo tolse, ma sarebbe stato troppo audace consegnarlo al re, così lo appese sullo
schienale della sedia prima di risedersi.
La regina gli sfiorò la spalla con la mano nel momento in cui lo superò per accomodarsi su una sedia a
qualche metro di distanza: un gesto di conforto da parte di una donna a cui non era sfuggito che dietro gli
occhiali molto spessi del ministro si potevano intuire le lacrime.
- Vuole un drink? - gli chiese a bassa voce. Scuotendo a malapena la testa l'interpellato si schiarì a lungo
la voce e con forza. - No, non credo. Sarà una notte molto lunga.

Ore 20.50, Ole Brumms veì 212.

- Le mie più sentite condoglianze, - disse il vescovo di Oslo cercando di catturare lo sguardo dell'uomo
che si trovava davanti a lui.
Non gli riuscì. Roy Hansen era stato il compagno di Birgitte Volter per trentaquattro anni, di cui trentatre
in qualità di marito. Quando si erano sposati giovanissimi, avevano entrambi diciotto anni e, nonostante
alcune fasi turbolente della loro vita di coppia, erano stati capaci di affrontarle e rimanere uniti quando
tutti coloro che li circondavano tentavano di dimostrare che in un ambiente urbano e trafelato era
impossibile contare su un matrimonio in grado di reggere per tutta una vita.
Birgitte non era soltanto una parte importante della sua esistenza: sotto molti aspetti lei era la sua vita,
condizione che lui aveva considerato come naturale nel momento in cui avevano scelto di puntare tutto
sulla carriera della moglie. Adesso, seduto sul divano, fissava un punto inesistente.
Il segretario del Partito laburista era in piedi sulla porta della veranda, a disagio per la presenza del
vescovo. Aveva persino protestato per la sua convocazione.
«Sono io quella che li conosce, - aveva detto la donna. - Santo cielo, Birgitte non faceva neanche parte
della Chiesa protestante!»
Ma il protocollo era stato fissato e il protocollo andava seguito. Soprattutto ora, quando ogni cosa era
capovolta e assurda, e bisognava affrontare una situazione che nessuno avrebbe creduto possibile. Erano
stati ripescati e rispolverati i manuali elaborati per la gestione di quel genere di crisi. Di colpo si erano
trasformati in qualcosa di nuovo e di diverso, non erano più solo dei testi che giacevano chiusi in un
cassetto nel caso in cui si fosse realizzato l'irrealizzabile.
- Le sarei grato se volesse andarsene, - sussurrò l'uomo seduto sul divano.
Per un attimo il vescovo assunse un'espressione incredula, poi, ripresosi subito, riacquistò la dignità che
si confaceva alla sua carica.
- Questo è un momento molto duro, - sussurrò parlando con la erre tipica della zona orientale del paese. -
Provo il più grande rispetto per il tuo desiderio di stare solo.
C'è forse qualcun altro? La famiglia, magari.
Roy Hansen continuò a fissare qualcosa che gli altri non erano in grado di vedere. Non singhiozzava, il
suo respiro era leggero e regolare, ma dagli occhi di un azzurro pallido scendevano copiose e silenziose
le lacrime, un piccolo ruscello che da tempo aveva rinunciato ad asciugare.
- Tu rimani, - disse, senza guardare il segretario di partito.
- Allora mi ritiro, - annunciò il vescovo, che esitava ancora ad alzarsi. - Pregherò per te e la tua famiglia.
E mi raccomando, telefonami subito se ci fosse qualcosa che io o altri possiamo fare per te.
Non si decideva ad alzarsi. In piedi sulla porta, il segretario di partito aveva voglia di aprirla per
affrettare l'uscita del religioso, ma c'era qualcosa in tutta quella situazione che la costringeva a rimanere
perfettamente immobile e in silenzio. Passarono i minuti e l'unica cosa che si sentiva era il ticchettio di un
orologio da tavolo con la cassa in rovere che di colpo battè nove rintocchi: colpi pesanti, tesi, esitanti,
come se non desiderasse il proseguimento di quella sera.
- Bene, - disse il vescovo con un profondo respiro. - Allora vado.
Quando ebbe finalmente lasciato la stanza, il segretario di partito gli chiuse la porta alle spalle e ritornò
nel soggiorno.
Roy Hansen la guardò per la prima volta, un'occhiata disperata che scomparve in una smorfia nel
momento in cui scoppiò a piangere per davvero. Il segretario di partito si sedette accanto a lui e l'uomo le
appoggiò la testa in grembo cercando a fatica di respirare.
- Qualcuno deve parlare con Per, - singhiozzò. - Io non ce la faccio.

Ore 21.03, Odins gaie 3.

Il fegato era di prima qualità. Lo tenne sotto il naso mentre con la lingua sfiorava appena il pezzo di carne
chiara. Il macellaio di Torshov era l'unico di cui si fidava veramente quando si trattava di fegato di
vitello e, anche se il negozio si trovava fuori mano, ne valeva assolutamente la pena.
I tartufi li aveva comprati in Francia tre giorni prima. Di solito si accontentava di quelli in scatola, ma
quando aveva la possibilità - cosa che succedeva relativamente spesso - non c'era niente di paragonabile
alla variante fresca.
Din-don.
Doveva far aggiustare il campanello. Lo squillo era disarmonico e atonale e lo faceva sobbalzare ogni
volta che qualcuno suonava.
Guardò velocemente l'orologio da polso. Non aspettava nessuno. Era venerdì. La festa era il giorno dopo.
Mentre andava verso la porta d'ingresso, si fermò di colpo rimanendo immobile per una frazione di
secondo.
Poi ritornò deciso al tavolino del soggiorno in rovere per prendere l'oggetto che aveva lasciato. Senza
riflettere, aprì una delle ante della credenza decorate da grappoli d'uva in rilievo per nasconderlo dietro
la biancheria di lino, sotto una tovaglia che la sua trisavola aveva tessuto nel 1840. Richiusa l'anta, si
passò le mani sui pantaloni di flanella prima di andare a vedere chi aveva suonato.
- Benjamin Grinde?
A porgli la domanda era stata una donna sulla quarantina che aveva tre strisce sulle spalle della divisa.
Sembrava a suo agio in quell'uniforme, le stava a pennello e metteva discretamente in mostra il seno
prosperoso che si intravedeva sotto la giacca abbottonata. Al contempo non pareva affatto felice di dover
compiere l'incarico che le era toccato. Senza guardarlo negli occhi, prese a fissare un punto dieci
centimetri sopra la testa del padrone di casa.
Accanto a lei c'era un uomo, leggermente più giovane, con gli occhiali e una barba folta e ben curata.
- Sì, - rispose Benjamin Grinde, che si scostò di lato mentre spalancava completamente la porta a mo' di
invito.
I due poliziotti si scambiarono un'occhiata veloce, poi scelsero di seguire il giudice della Corte Suprema,
che li aveva preceduti in soggiorno.
- Suppongo che mi vogliate comunicare di cosa si tratta, - esordì mentre indicava loro il divano.
Lui si accomodò in una poltrona ampia e profonda. I poliziotti rimasero in piedi. L'uomo, fermo dietro lo
schienale del divano, si mise a giocherellare timidamente con una cucitura del rivestimento in pelle senza
alzare lo sguardo.
- Vorremmo che ci seguisse in Centrale, - disse la donna schiarendosi la voce. Si sentiva palesemente
sempre più a disagio. - Noi, o meglio, il politiadjutant vorrebbe che venisse per un... un colloquio, ecco.
- Un colloquio?
- Un interrogatorio.
Fu il poliziotto con la barba a pronunciare quelle parole.
Dopo essersi raddrizzato, proseguì:
- Desideriamo interrogarla.
- Interrogarmi? Su cosa?
- Lo saprà quando saremo lì. In Centrale, intendo dire.
Il giudice della Corte Suprema Benjamin Grinde guardò prima la donna, poi l'uomo. Quindi scoppiò a
ridere.
Una risata pacata, piacevole. Sembrava che la situazione lo divertisse immensamente.
- Immagino capiate che io conosco bene le regole, - ridacchiò. - Dal punto di vista strettamente formale
non sono affatto tenuto a seguirvi. Ovviamente sono a disposizione, ma prima voglio sapere di cosa si
tratta.
Dopo essersi alzato e come per sottolineare che sapeva il fatto suo, li lasciò scomparendo in cucina.
Ritornò subito dopo portando un bicchiere di cognac che sollevò elegantemente verso di loro come se
avesse già dato inizio ai festeggiamenti per il suo compleanno.
- Voi non bevete in servizio, presumo, - sorrise prima di riaccomodarsi tranquillo in poltrona e dopo
aver afferrato un giornale che si trovava per terra accanto a lui.
La donna poliziotto starnutì.
- Salute, - borbottò Benjamin Grinde mentre era alle prese con il quotidiano d'economia, le cui pagine
rosate si abbinavano stranamente ai mobili.
- Credo che lei ci debba seguire, - disse la donna poliziotto raschiandosi la gola, ma con tono più deciso.
- Abbiamo un mandato d'arresto.
- Un mandato d'arresto? Per cosa, se posso chiedere?
Il giornale era finito nuovamente sul pavimento. Grinde sedeva con il busto proteso in avanti.
- Insomma, - riprese la donna, che, dopo essersi spostata davanti al divano, si sedette. - Non sarebbe
meglio se ci seguisse e basta? Lo ha detto lei stesso di sapere come funzionano le cose e si scatenerebbe
un putiferio se fossimo costretti ad arrestarla. I giornali, per esempio. È molto meglio se viene
semplicemente con noi.
- Mi faccia, vedere il mandato d'arresto.
La voce era fredda, dura e non ammetteva repliche.
Il poliziotto più giovane si mise a litigare con la cerniera lampo della giacca e alla fine riuscì a estrarre
dalla tasca interna un foglietto blu. Esitante lanciò uno sguardo alla collega più anziana per sapere cosa
fare. Lei annuì debolmente e il documento venne consegnato a Benjamin Grinde, che lo aprì e, dopo
esserselo appoggiato su un ginocchio, lo stirò più volte con la mano.
Nell'eccesso di zelo avevano usato tutti i suoi titoli:
«Dottore in legge, dottore in medicina, giudice della Corte Suprema Benjamin Grinde. Imputato di
violazione dell'articolo 233, vedi comma 232 del Codice di procedura penale per...»
Mentre leggeva il capo d'imputazione, non si limitò a sbiancare, ma la pelle leggermente abbronzata gli si
ingrigi e inumidì, come per un colpo di bacchetta magica.
- E morta? - sussurrò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. - Birgitte è morta?
I due poliziotti si guardarono velocemente, consci di pensare esattamente la stessa cosa: o l'uomo non era
affatto al corrente di quello che era successo o a tutti i suoi titoli prestigiosi avrebbero dovuto aggiungere
quello di «miglior attore».
- Si, è morta.
Era stata la donna a rispondere, e per un attimo temette che Benjamin Grinde fosse sul punto di svenire. Il
pallore del suo volto era impressionante e, se non fosse stato per il fatto che sembrava in ottima forma,
ebbe paura che gli cedesse il cuore.
- Come?
Benjamin Grinde si era alzato in piedi, ma pareva che si fosse afflosciato. Le spalle erano curve, come in
una bottiglia.
Aveva appoggiato brutalmente il bicchiere sul tavolino davanti a sé e il liquido dorato ondeggiava
scintillante alla luce del lampadario a prismi appeso al soffitto.
- Non possiamo dirglielo. Lei questo lo sa, - rispose la donna, la cui voce aveva un'inflessione più
morbida, cosa che irritò a tal punto il collega da spingerlo a interromperla con tono brusco:
- Adesso vuole seguirci?
Senza rispondere Benjamin Grinde ripiegò il foglio blu con cura e precisione prima di infilarlo senza
esitare in una tasca.
- Certo, - mormorò. - Non è necessario procedere a nessun arresto.
Davanti alla palazzina antica e onorabile del quartiere residenziale di Frogner erano parcheggiate cinque
volanti.
Mentre saliva sul sedile posteriore di una delle auto, vide due poliziotti sparire nel portone.
Avrebbero piantonato l'appartamento, pensò. Forse aspettavano un mandato di perquisizione. Poi si mise
la cintura di sicurezza.
Si accorse che gli tremavano le mani, un tremito molto forte.

Ore 21.30, Kìrkeveien 129.

Il telefono squillava in continuazione. Alla fine aveva staccato la spina. Era venerdì sera e voleva essere
libera da impegni. Libera per davvero. Insomma. Di giorno faceva continuamente la spola tra l'ufficio e il
Parlamento e ci mancava solo che le rovinassero anche il venerdì sera così intensamente agognato. Le
figlie erano fuori, tutte e due, e quasi adulte com'erano le vedeva a malapena. In quel momento le andava
bene così. Era stanca, non si sentiva molto bene e volutamente aveva cacciato il cercapersone dentro il
guardaroba, anche se a dire il vero avrebbe dovuto essere sempre reperibile. Una mezz'ora prima aveva
sentito che le era arrivato qualcosa via fax in camera da letto, ma non aveva nessuna voglia di andare a
leggerlo.
Invece si preparò un Campari con un po' di acqua tonica e molti cubetti di ghiaccio e, dopo aver
appoggiato le gambe sul tavolo, decise di vedere se trasmettevano qualche poliziesco sulla marea di
emittenti che non aveva mai il tempo di ispezionare.
I canali di stato della Nrk erano i più affidabili.
Cominciò la sigla del telegiornale. Alle nove e mezzo?
Doveva trattarsi dell'ultima edizione. Così presto? Si alzò per andare a prendere un quotidiano.
Poi si accorse del testo che era apparso in verticale sullo schermo, lungo il margine destro. «Edizione
straordinaria».
Rimase in piedi con il bicchiere di Campari in mano. L'uomo dai capelli biondi e radi aveva gli occhi
stanchi e sembrava reprimere il pianto. Si schiarì la voce, poi cominciò.
Birgitte Volter, il primo ministro, era morta a soli cinquantun anni. Era stata uccisa con un colpo d'arma
da fuoco nel suo ufficio al palazzo del governo nel tardo pomeriggio.
Il bicchiere finì per terra. Dal suono capì che non era andato in frantumi, ma la moquette chiara, a pelo
raso, non sarebbe più stata come prima. Non la degnò di uno sguardo, invece si lasciò cadere lentamente
sul divano.
- Morta, - mormorò. - Birgitte? Morta... uccisa???
«Ci colleghiamo ora con il palazzo del governo».
Un uomo giovane e trafelato che sembrava molto piccolo in un giaccone troppo grande fissava la
macchina da presa con gli occhi sbarrati.
«Si, mi trovo davanti al palazzo del governo e abbiamo appena avuto la conferma che Birgitte Volter è...»
Era evidente che aveva qualche problema a trovare le parole adatte alle circostanze, non era neanche
riuscito a cambiarsi d'abito e a indossarne uno scuro, come quello che aveva il suo collega in studio.
Balbettò tossendo legger mente.
«... deceduta. Per quanto siamo in grado di sapere, è stata uccisa con un colpo d'arma da fuoco alla testa e
si è trattato di una morte istantanea».
Non sapeva più cosa dire. Deglutiva e basta. Il cameraman era incerto se continuare a riprenderlo, così le
immagini ondeggiavano tra il reporter, illuminato da una lampada molto potente, e quanto stava
accadendo sullo sfondo, dove la polizia aveva il suo bel da fare per impedire che curiosi e giornalisti
superassero i nastri rossi e bianchi.
Birgitte era morta. Le voci del telegiornale si fecero lontane.
Fu presa dalle vertigini. Con la testa tra le ginocchia si allungò a raccogliere un cubetto di ghiaccio che
era finito sul tappeto. Era pieno di pelucchi, ma lei se lo appoggiò sulla fronte. La mente le si schiarì un
poco.
L'uomo in studio stava facendo uno sforzo eroico per salvare il collega più giovane e molto più inesperto.
«Sai se ci sono stati degli arresti?»
«No, non c'è nulla che ce lo possa far pensare».
«E riguardo all'arma, si sa qualcosa di più sul tipo?»
«No, l'unica cosa che ci hanno detto è che Birgitte Volter è morta e che le hanno sparato».
«Cosa sta succedendo adesso dentro il palazzo?»
E continuarono così - all'infinito, fu l'impressione del ministro della Salute Ruth-Dorthe Nordgarden, che
comunque non era in grado di seguire un granché. Dopo un po' l'immagine passò al Parlamento, dove
alcuni capigruppo dai volti cupi entravano trafelati mentre la macchina da presa li filmava.
Il telefono!
Infilò la spina e passarono soltanto una manciata di secondi prima che si mettesse a squillare.
Dopo aver riagganciato, l'unico pensiero che le venne in mente, fu:
«Adesso perderò il lavoro?»
Si diresse verso il guardaroba in camera da letto per ripescare il cercapersone mentre sceglieva qualcosa
di adatto da indossare. Doveva essere nero. D'altro canto: era bianchissima per via dell'inverno e il nero
non era certo la tinta che le avrebbe donato di più. Sapeva di essere bella, lo sapeva bene, abbastanza da
non scegliere un vestito nero in aprile.
Sarebbe bastato qualcosa di marrone. Di scuro.
Lo choc le era passato lasciando il posto a un'irritazione crescente.
Quello era proprio il momento meno adatto per morire.
Per lei era molto, molto inopportuno.
Il vestito marrone di velluto poteva bastare.

Sabato 5 aprile 1997


Ore 00.50, davanti a Odìns gaie 3.

In effetti il redattore si era infuriato quando se n'era andata, ma la cosa non la riguardava, come sempre.
Non voleva svelare cosa aveva in mente, era una sua pista. Il suo caso. Ammesso che ce ne fosse uno.
- Something in thè way he moves, telh me na-na-na-na-nana-na-na, - canticchiava piano, tutta soddisfatta.
L'appartamento era avvolto nelle tenebre. Poteva anche significare che Benjamin Grinde stava dormendo,
ma d'altro lato praticamente nessuno in tutto il Regno di Norvegia era a letto in quel momento: era
venerdì e l'assassinio del primo ministro Birgitte Volter era esploso con l'effetto di una bomba atomica
sulle case norvegesi.
Sia la Nrk che TV2 trasmettevano a ogni ora edizioni speciali, anche se a dire il vero avevano ben poco
da raccontare.
Si trattava perlopiù di riempitivi e di commenti insignificanti, oltre a necrologi che davano l'impressione
di essere alquanto raffazzonati dal momento che erano passati soltanto sei mesi da quando Birgitte Volter
aveva assunto la sua carica: per questo il materiale nelle redazioni non era pronto. Nell'arco del mattino
seguente sarebbero sicuramente migliorati.
Le finestre buie potevano anche significare che il giudice della Corte Suprema Grinde non era in casa.
Forse era a una festa, o piuttosto a «un party», come si diceva da quelle parti di Oslo. Ma poteva voler
dire anche qualcos'altro.
Dopo aver guardato in entrambe le direzioni, attraversò la strada. Le macchine erano parcheggiate
vicinissime l'una all'altra lungo il marciapiede e c'era a malapena una fessura per passare tra una Volvo e
una Bmw che quasi sembravano baciarsi con i paraurti. Con il fiatone fu costretta alla fine a voltarsi per
vedere se c'era uno spazio più grande in un altro punto.
C'era qualcosa che non quadrava con la serratura del portone in Odins gate 3. Anzi, c'era qualcosa che
non andava con il portone: non era del tutto chiuso, pareva che fosse stato scardinato. Perfetto. Avrebbe
evitato di suonare al citofono. Con cautela l'aprì, era di legno massiccio, scivolò dentro.
Nell'atrio inaspettatamente grande, si sentiva odore di intonaco e di detersivi, una bicicletta era
incatenata alla ringhiera che arrivava alla porta della cantina. Le scale erano ben tenute e curate, con
pareti gialle e battiscopa verdi. I vetri ancora originali e multicolori delle finestre che si trovavano a ogni
pianerottolo erano perfettamente conservati.
A metà della seconda rampa di scale si fermò.
Voci. Voci che sussurravano. Una risatina.
In modo sorprendentemente veloce si appiattì contro la parete, benedicendo il destino che proprio quella
sera l'aveva attrezzata con scarpe silenziose della Ecco. Riprese a salire, ma tenendosi il più possibile
aderente al muro.
Sulla scala sedevano due uomini. Due poliziotti in divisa.
Si trovavano proprio davanti all'appartamento di Benjamin Grinde.
Aveva ragione.
Con la stessa cautela con cui era salita, scese furtivamente le scale. Appena uscita dal portone, estrasse
un cellulare dal cappotto ampio e abbondante. Tastò il codice di un numero tra quelli più preziosi che
facevano parte della sua collezione: il numero dell'ispettore capo Konrad Storskog, un arrivista sui
trentacinque anni, di un'antipatia morbosa.
Lei era l'unica a sapere che, ventiduenne, Storskog aveva distrutto completamente la macchina dei
genitori per colpa di un tasso alcolemico che non era mai stato misurato, ma che doveva sfiorare il tre.
Lei sedeva al volante dell'auto dietro la sua, era notte, era buio e per strada non c'era nessun altro.
Era riuscita ad avvertire i genitori, che con abilità degna di nota avevano messo in piedi una storia per
cui la fedina del giovane poliziotto fresco di nomina era rimasta immacolata.
Liten Lettvik si era impressa tutto quanto nella memoria con l'intento di servirsene a tempo debito: mai si
era pentita della decisione presa tredici anni prima di non ottemperare al proprio dovere di cittadina.
- Storskog, - rispose bruscamente una voce, anch'essa da un cellulare.
- Buonasera, Konrad, vecchio mio, - ridacchiò Liten Lettvik. - Molto da fare questa notte?
Si fece silenzio.
- Pronto? Mi senti?
Non c'erano disturbi sulla linea, quindi lei sapeva che Storskog la stava ascoltando.
- Konrad, Konrad, - continuò indulgente. - Adesso non fare il difficile.
- Cosa vuoi?
- Soltanto che tu risponda a una piccolissima domanda.
- Quale? Sono molto impegnato.
- Il giudice della Corte Suprema Benjamin Grinde è li da voi? Adesso, intendo dire.
Silenzio.
- Non lo so, - rispose di colpo l'interpellato dopo una lunga pausa.
- Stronzate. Certo che lo sai. Mi basta un sì o un no, Konrad. Solo si o no.
- Perché dovrebbe essere qui?
- Se non è da voi, si tratta di omissione di atti d'ufficio.
Sorridendo tra sé, continuò:
- Dal momento che lui dovrebbe essere l'ultima persona ad averla vista ancora viva. Mi riferisco alla
Volter. Era nel suo ufficio questo pomeriggio tardi. Ovvio che dovete aver parlato con quel tipo! Non
puoi soltanto rispondere si o no, Konrad, così torni a occuparti di tutte le tue importanti faccende?
Si fece di nuovo silenzio.
- Questa conversazione non ha mai avuto luogo, - disse alla fine il poliziotto con durezza.
Poi troncò la comunicazione.
Liten Lettvik aveva avuto la conferma che le serviva.
- Somethìng in thè way he moves... - prese a canticchiare soddisfatta mentre si avviava verso la
Frognerveien per fermare un taxi.
La situazione cominciava a farsi urgente.

Ore 00.57, centrale di polizìa, Oslo.

Anche se Billy T. notava raramente quel genere di cose, dovette ammettere che Benjamin Grinde era
bello. La sua figura era atletica, ma non grossa. Aveva le spalle larghe e i fianchi stretti, ma senza
esagerazioni. L'abbigliamento denotava gran gusto; persino le calze, che apparivano ogni volta che
accavallava le gambe, si abbinavano alla cravatta, il cui nodo si era allentato soltanto un po'.
L'aureola di capelli scuri era tagliata cortissima, cosa che dava alla sommità della testa pressoché calva
un effetto che pareva voluto: trasmetteva un segnale di potenza e di grandi quantitativi di testosterone. Gli
occhi erano di colore castano scuro e la bocca ben disegnata. I denti erano sorprendentemente bianchi e
giovanili, per un uomo di cinquantanni.
- Domani è il suo compleanno? - domandò Billy T. sfogliando le carte.
Un giovane allievo poliziotto aveva già annotato le generalità mentre Billy T. era impegnato a sbrigare
una faccenda privata. Molto privata. Aveva trasmesso via fax due pagine scritte a mano ad Hanne
Wilhelmsen. Poi si era fatto una doccia. Entrambe le cose gli erano servite.
- Si, - confermò Benjamin Grinde prima di guardare l'orologio che teneva al polso. - O per meglio dire
oggi.
A essere precisi.
Atteggiò la bocca a un pallido sorriso.
- Cinquant'anni, - commentò Billy T. - Faremo in modo di sbrigarcela il più presto possibile in modo da
non rovinare i festeggiamenti.
Per la prima volta Benjamin Grinde parve stupito. Fino a quel momento il suo viso era rimasto quasi
inespressivo: stanco e perlopiù apatico.
- Sbrigarcela? Le faccio notare che qualche ora fa sono stato incriminato e adesso mi dice che
liquideremo il tutto in poco tempo?
Alzando lo sguardo dalla macchina per scrivere, Billy T. osservò il giudice della Corte Suprema che gli
sedeva di fronte. Dopo aver appoggiato il palmo delle mani sulla scrivania, inclinò la testa.
- Senta, - disse con un sospiro. - Io non sono stupido.
Come non lo è assolutamente lei. Tutti e due sappiamo che chi ha ucciso Birgitte Volter non sorride
amabilmente alla sua segretaria prima di tornarsene buono buono a casa e mettersi ai fornelli per
preparare...
Sfogliò a casaccio tra le carte.
-... il pàté. Non era quello che stava facendo?
-Si...
Adesso Benjamin Grinde sembrava genuinamente sorpreso.
Nessuno dei due poliziotti era entrato in cucina.
- Lei sarebbe un assassino troppo scontato. Impossibile che il colpevole sia lei.
Billy T. rise mentre si strofinava il lobo dell'orecchio con tale forza che il crocifisso capovolto prese a
danzare.
- Io leggo i gialli, sa. Non è mai la persona più scontata.
Mai. E poi non se ne torna a casa. A essere sinceri, Grinde, quel mandato d'arresto con tanto di capo
d'imputazione è stato una grande idiozia. Ha fatto bene a requisirlo.
Lo butti via. Lo bruci. Un gesto di panico tipico di questi stronzi òìpolitiadjutant. Scusi il francese...
Giratosi verso la macchina per scrivere, si mise a battere tre, quattro frasi prima di infilare un foglio
nuovo. Poi si voltò nuovamente verso Benjamin Grinde. Per un attimo parve indugiare prima di
appoggiare un paio di gambe molto lunghe con tanto di stivali numero quarantasette sulla scrivania.
- Perché era lì?
- Nell'ufficio, da Birgitte?
- Birgitte? La conosceva? Intendo dire, personalmente?
Le gambe caddero per terra con un tonfo. Billy T. si protese sulla scrivania.
- Birgitte Volter e io ci conosciamo dall'infanzia, - spiegò Benjamin Grinde fissando il poliziotto. - Ha un
anno più di me e quando si è giovani questo crea una certa distanza, ma a Nesodden l'ambiente non era
molto grande.
Ci conoscevamo, ai tempi.
- Ai tempi? E adesso, siete ancora amici?
Benjamin Grinde cambiò posizione accavallando la gamba sinistra sulla destra.
- No, non direi affatto. Nel corso degli anni ci è capitato di incontrarci sporadicamente. In modo naturale,
se posso esprimermi così, dal momento che i nostri genitori sono stati vicini di casa ancora per un pezzo
dopo che noi ci eravamo trasferiti. No, amici non lo siamo. Eravamo, voglio dire.
- Però lei la chiama per nome?
Grinde sorrise debolmente.
- Quando si è stati amici durante l'infanzia e l'adolescenza, sarebbe alquanto strano usare il cognome.
Anche se si sono persi i contatti. Questo non vale anche per lei?
- Suppongo di si.
- Immagino che voglia sapere perché ero là. Lo può vedere sicuramente dall'agenda di Birgitte. O forse lo
può confermare la segreteria. Volevo parlarle della possibilità di stanziare più risorse per una
commissione che presiedo. Una commissione istituita dal governo.
- La commissione Grinde, certo, - disse Billy T. rimettendo le gambe sul tavolo.
Benjamin Grinde osservò la punta degli stivali della figura enorme seduta dall'altra parte della scrivania
chiedendosi se quel comportamento volesse essere la dimostrazione di potere di un poliziotto che aveva
finalmente sotto i tacchi uno dei giudici più autorevoli della Norvegia.
Billy T. sorrise. I suoi occhi erano intensi, dello stesso color ghiaccio di un husky. Il giudice abbassò
invece lo sguardo sulle proprie ginocchia.
- Non consideri questi piedi come un segno di mancanza di rispetto, - spiegò Billy T. sventolando le
punte degli stivali rinforzate in acciaio. - Non è così semplice avere le gambe troppo lunghe. Guardi.
Sotto la scrivania non c'è spazio!
Glielo mostrò gesticolando prima di appoggiare nuovamente i tacchi sul tavolo.
- Senta, se voleva parlare di questo... stanziamento di risorse?
Grinde annuì appena.
- Perché non ne ha parlato con il ministro della Salute?
Non sarebbe stato più naturale?
Il giudice rialzò lo sguardo.
- In effetti. Ma io sapevo che Birgitte era particolarmente interessata alla questione. Inoltre... era
un'occasione per incontrarla. Non ci parlavamo da molti, molti anni. Volevo congratularmi con lei. Per il
suo nuovo incarico, intendo dire.
- Perché ha bisogno di altri soldi?
-Soldi?
- Si, perché doveva parlare con la Volter per ottenere altri finanziamenti per questo suo comitato?
- Commissione.
- Fa lo stesso. Perché?
- Sembra che il lavoro sia molto più gravoso di quanto avessimo previsto nel momento in cui venne
istituita la commissione. Abbiamo ritenuto corretto ascoltare in dettaglio cinquecento genitori che persero
i loro neonati nel 1965. Si tratta di un compito molto complesso. Inoltre dobbiamo... vanno compiute
alcune ricerche all'estero.
Dopo essersi guardato intorno, posò gli occhi sulla finestra.
La luce di una volante martellava bluastra e intermittente sul vetro. Di colpo scomparve.
- Per quanto tempo è rimasto nell'ufficio?
Il giudice si mise a riflettere mentre fissava l'orologio da polso come se fosse in grado di fornirgli la
risposta.
- Difficile a dirsi. Presumo una mezz'ora circa. Sono arrivato alle cinque meno un quarto. Però... sono
rimasto con lei esattamente tre quarti d'ora. Cinque e mezzo. Mi sono congedato a quell'ora. Lo so perché
mi sono chiesto se sarei riuscito a prendere un determinato tram o se invece dovevo ripiegare su un taxi.
Tre quarti d'ora.
- Ah.
Billy T. si alzò all'improvviso. In piedi sembrava una torre che sovrastava il giudice, molto più basso di
lui.
- Caffè? Té? Coca-Cola? Fuma?
- Berrei volentieri un caffè, grazie. No, non fumo.
Il detective Billy T. si avviò verso la porta per aprirla.
Parlò a bassa voce con una persona che doveva trovarsi proprio lì fuori. Poi, dopo averla richiusa, andò
a sedersi, questa volta sul davanzale interno della finestra. Il giudice avvertiva una crescente irritazione.
Nessun problema se quell'uomo aveva la testa completamente rasata e indossava un paio di jeans che
avevano visto da un bel pezzo tempi migliori. Poteva anche accettare gli stivali con le punte rinforzate, i
piedi erano così grandi che probabilmente era difficile trovare delle calzature adeguate. Il crocifisso
capovolto era invece una vera e propria provocazione, soprattutto coi tempi che correvano, con l'estrema
destra e i satanisti che compivano crimini seri e offensivi quasi tutti i giorni. E poi doveva pur essere
possibile starsene tranquillamente seduti nel corso di un interrogatorio.
- Chiedo scusa se secondo lei sembro un nazista di merda, - commentò Billy T.
Quell'uomo sapeva leggere nel pensiero?
- Ho lavorato per molto tempo alla Narcotici, - aggiunse il poliziotto. - È come se non fossi riuscito a
togliermi l'abitudine di avere l'aspetto di un teppista. Di norma è piuttosto efficace e serve a entrare in
contatto con quei personaggi. Mi riferisco ai criminali. Ma niente di più.
Bussarono alla porta. Senza attendere risposta, una giovane donna con indosso un vestito di velluto rosso
a coste leggermente logoro e un paio di scarpe comode entrò con il caffè.
- Sei un angelo, - sorrise Billy T. - Grazie!
Il caffè era ustionante e molto forte, impossibile berlo senza fare rumore. Il calore aveva rammollito il
contenitore di carta ed era difficile tenerlo in mano.
- È successo qualcosa di particolare durante il vostro incontro? - domandò Billy T.
Il giudice parve esitare e, dopo essersi versato involontariamente qualche goccia di caffè sui pantaloni,
prese a passarsi la mano sulla coscia con movenze dure, arrabbiate.
- No, - rispose senza guardare il poliziotto. - Non direi.
- La sua segretaria dice che negli ultimi giorni la Volter sembrava fuori di sé. Ha notato qualcosa di
analogo?
- Non conosco più Birgitte Volter come prima. Con me è stata molto corretta, mi pare. No, non posso dire
che ci sia stato qualcosa in particolare che mi abbia colpito.
Benjamin Grinde viveva di e per la ricerca della giustizia e della verità. Era abituato a parlare con
sincerità.
Non aveva l'abitudine di mentire. Fu sopraffatto da una sensazione di disagio, gli venne la nausea. Con
precauzione appoggiò il caffè sulla scrivania prima di guardare il poliziotto dritto negli occhi.
- Niente nel suo comportamento mi ha indotto a pensare che ci fosse qualcosa che non andava, - disse con
voce decisa.
La cosa peggiore fu che il poliziotto sembrò penetrarlo da cima a fondo con lo sguardo, mettendo a nudo
la bugia che gli si era arrotolata in un punto dietro lo sterno, simile a un serpente velenoso.
- Non c'era nulla che sembrasse anomalo, - ripetè prima di spostare nuovamente gli occhi sulla finestra.
La luce blu era tornata: continuava a martellare il vetro buio e opaco.

Ore 02.23 (ora norvegese), Berkeley, California.

Caro Billy T.!


Non ci posso credere. Stavo preparando la cena quando mi è arrivato il tuo fax. Incredibile! Ho
telefonato subito a Cecilie.
Non è mai rientrata così in fretta dall'Università. L'omicidio ha avuto grande risonanza anche qui e ce ne
stiamo sedute appiccicate alla Tv anche se in fondo non dicono niente, continuano a ripetere all'infinito le
stesse cose. Non ho mai sentito così tanta nostalgia di casa!
State molto attenti a non rinchiudervi dentro nessuna teoria.
Dovremo pur aver imparato qualcosa dagli svedesi, che sono rimasti palesemente incastrati a seguire una
pista «evidente» dopo l'altra. In base a quali teorie vi state muovendo al momento?
Terrorismo?
Estrema destra? Da quanto ho capito, negli ultimi tempi si è riscontrata una certa attività in quegli
ambienti. Mi raccomando, tieni presente gli aspetti più scontati: squilibrati, familiari, amanti respinti (sei
molto ferrato in materia...) Come vi state organizzando? Ho mille domande da farti a cui sicuramente non
hai la possibilità di rispondere, ma per favore: fatti sentire e ti prometto che ti scriverò ancora.
Si tratta soltanto di una reazione istintiva da parte mia, te la mando con la speranza che tu riesca a
leggerla prima di andare a dormire. Anche se ci sarà molto poco tempo per il sonno da qui in avanti.
D'ora in poi userò il fax che hai a casa, non so se i colleghi possano irritarsi del fatto che un ispettore
capo in esilio si immischi in faccende che in fondo non lo riguardano.
Cecilie ti saluta tantissimo. La conosci! E preoccupata, soprattutto per te! Penso ancora di più alla
Norvegia, alla mia Norvegia.
Quello che è successo è follia pura. Scrivi!
Tua Hanne

Ore 02.49, redazione del giornale «KA».

- Non se ne parla neanche, Liten. Non lo possiamo fare.


Chino sul desk il redattore stava osservando la bozza della prima pagina. Era cambiata radicalmente
rispetto all'edizione straordinaria in circolazione già da mezzanotte.
Davanti a lui c'era una foto molto grande di Benjamin Grinde, accompagnata da un titolo drammatico a
caratteri cubitali: arrestato giudice della corte suprema, e un sottotitolo: L'ultimo che ha visto la Volter in
vita.
- Non abbiamo la copertura legale per pubblicare una cosa simile, - ribadì il redattore mentre si strizzava
il naso prima di mettersi a posto gli occhiali. - Non si può. Ci faranno causa. Per milioni di corone.
Liten Lettvik non aveva nessun problema a esternare la sua più totale costernazione. In piedi a gambe
divaricate, continuava ad allargare le braccia senza sosta mentre scuoteva la testa alzando grottescamente
gli occhi al cielo.
- Insomma!
Il ruggito fu così potente che per una frazione di secondo il ronzio costante che avvolgeva la redazione
cessò. Quando si scoprì da dove proveniva quell'esplosione, tutti ripresero a sbrigare le proprie
faccende. Liten Lettvik aveva un debole per il melodramma, anche quando era fuori luogo.
- Ho due fonti, - sibilò a denti stretti. - Due fonti!
- Vieni con me, - le disse il redattore mentre alzava e abbassava le mani in un movimento che
probabilmente voleva tranquillizzarla, ma che Liten Lettvik interpretò invece come troppo compiacente.
Raggiunto l'imponente ufficio del redattore, i due si lasciarono cadere ognuno nella rispettiva
poltroncina.
- Quali fonti hai? - le chiese guardandola.
- Non te lo dico.
- Bene, e allora niente articolo.
Afferrato il telefono, fece segno con gli occhi in direzione della porta indicandole che poteva andare. Per
un attimo Liten Lettvik parve esitare, ma poi si avviò a passi pesanti lungo il corridoio per precipitarsi
nel buco che aveva per ufficio. La stanza era un caos totale fatto di libri, giornali, documenti ufficiali,
involucri di panini, torsoli di mela sparsi ovunque. Si mise a trafficare tra le pile di fogli che coprivano
la scrivania per estrarre una cartellina che, incredibile ma vero, sapeva esattamente dov'era, nascosta tra
una scatola d'asporto per pizza contenente due fette ormai datate di salame piccante e una copia del
quotidiano «Arbeiderbladet».
- Il diavolo in persona dovrebbe lavorare per vendere i giornali, - borbottò mentre prendeva un cigarillo.
Il fascicolo riguardante Benjamin Grinde era abbastanza ricco. Ci stava lavorando ormai da parecchie
settimane.
Conteneva ogni cosa apparsa sulla sua commissione, fin dalla prima intervista con Frode Fredriksen,
l'avvocato che aveva messo in moto tutto quanto. Ripescò un articolo ritagliato dal quotidiano
«Aftenposten».
NON C'È PIU' NULLA CHE NON CONOSCA PER QUANTO CONCERNE LA NATURA UMANA
L'avvocato Fredriksen festeggia venticinque anni di carriera con l'assoluzione nel caso Brevik.
Non ha di certo fatto economia, Frode Fredriksen. Il suo studio è l'emblema di quasi tutto quello per cui i
suoi assistiti, persone perlopiù disagiate, avrebbero potuto uccidere. Un quadro gigantesco di Frans
Widerberg ricopre tutta una parete e lancia i suoi strali rosso-arancione sulla lucida scrivania di mogano,
da cui sorride tutta la famiglia riunita in una cornice d'argento: due figli adulti e fortunati, uno per parte, e
una moglie che potrebbe essere scambiata facilmente per una modella. Cosa che di fatto non è: Frode
Fredriksen è sposato con la nota psicoioga, nonché opinionista, Beate Frivoli. Ieri il cliente dell'avvocato
Fredriksen, Karsten Brevik, è stato assolto dall'accusa di triplice omicidio, una sconfitta pesante per
l'accusa. Oggi Frode Fredriksen festeggia i suoi venticinque anni di carriera come avvocato.
Come ci si sente quando sì vive baciati dalla fortuna e al contempo sì è dedicata tutta la propria vita a
difesa dei perdenti?
Prima di tutto è molto eccitante.
Inoltre non vorrei definirli perdenti. Non mi piace questa parola. Alcuni sono soltanto più sfortunati di
altri, la vincita che la lotteria della vita ha assegnato loro non è grande come quella che è toccata a noi. E
poi mi da molto.
Moltissimo. Non passa giorno senza che io impari qualcosa. Da venticinque anni ho il piacere di
incontrare tantissime persone che si trovano nelle situazioni più terribili.
Non c'è più nulla che non conosca per quanto riguarda la natura umana.
Non è logorante lavorare con stupratori e assassini?
No, non direi. Con questo tipo di assistiti ci si trova di fronte a una sfida concreta: l'assoluzione o una
pena più mite. Dove invece è avvenuta un'ingiustizia, ma non è possibile attribuire la colpa, è molto più
pesante. Adesso sto assistendo, per esempio, una coppia di genitori che trent'anni fa ha perso un neonato.
È successo nel 1965, l'anno in cui mia moglie e io abbiamo avuto il nostro primo figlio. Il decesso
sembra sia stato inspiegabile quanto assurdo, il che ha torturato la famiglia per tutti questi anni. Ora
intendo chiedere, a nome dei genitori, un risarcimento per quello che in termini giuridici si chiama
«danno da torto». Casi di questo genere sono difficili. Difficilissimi!
L'intervista era molto più lunga, ma non riuscì a trovare l'altro ritaglio. Poco importava. La data, scritta
frettolosamente a mano in alto a sinistra, era 21 settembre 1996.
L'intervista aveva scatenato una valanga di richiestedi assistenza a quell'avvocato dandy seduto dietro
una scrivania di teak. Poco tempo dopo, in rappresentanza di centodiciannove genitori, l'avvocato aveva
sottoposto un'istanza di risarcimento al Parlamento. Secondo i richiedenti, i loro piccoli erano morti in
modo inspiegabile e assurdo. Tutti i casi avevano in comune il fatto di non essere imputabili a nessun
trattamento sbagliato.
La maggior parte dei referti medici facevano riferimento a un «improvviso arresto cardiaco». In seguito
si era scatenato un putiferio infinito. I partiti dell'opposizione, che comunque sembravano incapaci di
competere con Grò Harlem Brundtland (nessuno sapeva ancora che il primo ministro laburista stava
valutando l'ipotesi di ritirarsi), avevano costretto il governo a istituire una commissione d'inchiesta il 10
novembre 1996. Era stata un'azione inevitabile, dal momento che era stato sufficiente eseguire qualche
ricerca presso l'Istituto nazionale di statistica norvegese per appurare che nel 1965 erano morti molti più
bambini al di sotto di un anno che in tutti gli anni precedenti e successivi. Benjamin Grinde era perfetto
per presiedere la commissione, sia per la sua posizione di supergiurista sia per i suoi studi in medicina,
che rappresentavano la ciliegina sulla torta di una carriera assolutamente fuori dal comune. L'opposizione
che sedeva in Parlamento era ancora impegnata ad assaporare il successo ottenuto grazie alle
dichiarazioni contenute nel dossier d'inchiesta stilato da un altro giudice della Corte Suprema riguardante
l'operato dei servizi segreti norvegesi e risalente a sei mesi prima. Visto che la sua tesi di dottorato si
intitolava Silenzio e reticenze: la tutela dei diritti del paziente nel corso delle indagini nazionali sulla
salute dei cittadini, Benjamin Grinde rappresentava una scelta obbligata, tenuto anche conto della
richiesta di assoluta integrità implicita nel mandato.
Liten Lettvik era stanca.
A dire il vero, e dopo averci riflettuto sopra, non capiva perché poche ore dopo l'assassinio del primo
ministro si ritrovasse seduta a leggere vecchi ritagli di giornale su un caso riguardante il sistema sanitario
norvegese di cui nessuno parlava più da tempo e di cui non si conoscevano gli esiti. Forse il motivo era
che ci aveva lavorato troppo e troppo a lungo. Nelle ultime settimane non aveva prodotto nulla di nulla
ed era unicamente in virtù della sua posizione di veterana rispetto agli altri giornalisti se era riuscita a
farla franca. Il caso riguardante la morte dei neonati le interessava. Forse la stava rendendo cieca.
Adesso non aveva tempo da dedicare alla questione: doveva concentrarsi sull'omicidio.
Benjamin Grinde. Era Benjamin Grinde a destare il suo interesse. Il solo pensiero le provocava una fitta
al ginocchio. Era impossibile non rimanere affascinati dalla coincidenza.
Per settimane aveva insistito per scoprire di cosa si occupasse quella commissione Grinde senza ottenere
altro che dati e informazioni scontati e generici. Poi all'improv: viso saltava fuori che il presidente della
commissione forse era stato l'ultimo a vedere vivo il primo ministro.
- Adesso vedi di darti una mossa e di metterti a lavorare, Liten.
Era il redattore, che come sempre lanciò uno sguardo carico di ribrezzo alla stanzetta prima di girare i
tacchi e ripetere:
- Datti da fare. Ce ne sono abbastanza di cose, no?

Ore 04.00, sala riunioni, palazzo del governo.

Tutti avvertirono lo stesso disagio nel momento in cui superarono l'atrio che portava all'ufficio del primo
ministro al piano di sotto. Anche se non c'erano più poliziotti, o perlomeno non erano visibili, e anche se
l'unico elemento anomalo era una porta chiusa che di solito rimaneva aperta, sapevano che là dentro,
dietro la parete che tutti loro si sforzavano di non guardare, Birgitte Volter era stata uccisa con un colpo
d'arma da fuoco dodici ore prima.
I membri del governo erano insolitamente taciturni, si sentivano a malapena la voce cantilenante e la erre
moscia del ministro per il Commercio.
- È terribile. Non trovo le parole.
Era seduta all'enorme tavolo ovale, dietro microfoni piccoli e moderni accesi. Uno di essi era rivolto
verso di lei in modo insolente e sfacciato: lo coprì con la mano mentre si chinava per parlare all'orecchio
del ministro della Difesa.
Fu inutile. Erano seduti al capo del tavolo, come si conveniva in base all'età e al loro grado di anzianità
in qualità di ministri, e il suono si propagò per tutta la stanza.
Il ministro degli Esteri entrò per ultimo. Gli altri avevano già preso posto. Era insolitamente pallido e il
ministro della Cultura avrebbe giurato che nell'arco di una notte i suoi capelli si fossero fatti più
brizzolati, tanto che cercò di lanciargli un'occhiata d'incoraggiamento.
Invano: lui non guardava nessuno di loro. Per un attimo rimase in piedi davanti al posto riservato al
primo ministro, il punto più alto dell'ovale, ma si decise rapidamente e, dopo aver tirato indietro la sedia
maestosa e rivestita in pelle, si sedette alla sua sinistra: al posto riservato al ministro degli Esteri.
- Vi ringrazio per essere venuti tutti, - esordì guardando i colleghi con gli occhi socchiusi.
Il ministro dell'Agricoltura era l'unico a essere vestito normalmente, indossava un paio di jeans e una
camicia di flanella. Si trovava nella sua baita per pescare quando un'auto blu era arrivata a prenderlo e
non gli aveva dato il tempo di passare da casa per mettersi qualcosa di più adeguato. Adesso stava
armeggiando impacciato con una confezione di tabacco, ma non aveva il coraggio di preparare una presa
e infilarsela sotto il labbro, anche se il desiderio era enorme. Sarebbe stato irrispettoso. Mise la
scatoletta nel taschino della camicia.
- E un giorno terribile per tutti noi, - pronunciò il ministro degli Esteri dopo essersi schiarito la voce. -
Per quanto riguarda il caso in sé... intendo il caso di cui si occupa la polizia, so in realtà molto poco. Non
è stata trovata nessun'arma. Non è stato arrestato nessuno. Ovviamente la polizia sta lavorando con ogni
forza, e con l'aiuto dei servizi di sicurezza. Non ho certo bisogno di spiegarvi perché sono stati coinvolti
nelle indagini.
A tentoni afferrò il bicchiere di acqua minerale che aveva davanti e ne bevve tutto il contenuto. Nessuno
colse l'occasione per porre domande, anche se sicuramente premevano numerose sulle pareti
insonorizzate della stanza.
L'unico rumore era quello prodotto dal ministro per il Petrolio e l'energia che tirava su con il naso.
- Innanzitutto è urgente orientarvi su quanto accadrà.
Concretamente e sotto il profilo costituzionale. Alle nove avrò un incontro formale con il re e in seguito
si terrà un consiglio dei ministri straordinario. Più tardi vi verrà comunicato a che ora.
Il ministro degli Esteri continuava a stringere il bicchiere vuoto fissandolo come se nutrisse la speranza
che si sarebbe riempito da solo e in continuazione. Poi, riluttante, lo appoggiò sul tavolo prima di girarsi
verso il segretario generale, seduto di fronte al posto vuoto riservato al primo ministro.
- Puoi procedere a una breve relazione informativa?
Il segretario generale presso l'ufficio del primo ministro era una donna anziana che con grande caparbietà
si ribellava al fatto che tra due mesi avrebbe compiuto settant'anni.
Più volte nel corso della notte si era scoperta a riflettere su un pensiero disgustosamente egocentrico:
l'accaduto avrebbe potuto probabilmente - nel migliore dei casi - posporre la sua esistenza da pensionata
di almeno un anno.
- Otto B. Halvorsen, - esordì dopo essersi infilata sul viso sottile e ossuto un paio di occhiali da presbite,
- morì il 23 maggio 1923. Insieme a Peder Ludvig Kolstad è stato l'unico il cui decesso sia avvenuto
mentre era primo ministro.
Abbiamo quindi una procedura a cui attenerci. Non vedo il motivo per cui dovremmo affrontare questo
caso in modo diverso.
«Questo caso»... Il ministro delle Finanze Tryggve Storstein avverti una profonda irritazione, al limite
dell'ira.
Quello non era un «caso». Si trattava invece del terribile fatto che Birgitte Volter era morta.
In fondo Tryggve Storstein era un uomo piuttosto bello.
Aveva tratti regolari che rendevano la vita difficile a ogni caricaturista, capelli scuri e corti che non
davano nessun segno di diradarsi, nonostante si avvicinasse ai cinquant'anni, e un paio di occhi
preoccupati e tagliati all'ingiù che gli davano un'espressione triste, persino quando sorrideva.
Il naso era diritto e nordeuropeo mentre la bocca sapeva assumere una sfumatura di dissimulata sensualità
quando parlava. Ma Tryggve Storstein faceva del suo meglio per svilire quell'aspetto, sebbene
vantaggioso a priori. Forse perché era cresciuto a Storsteinnes, nella contea di Troms, nella Norvegia
settentrionale, o forse perché in effetti era quasi nato dentro il partito, comunque stava di fatto che
possedeva la strana tendenza che i maligni politici del Partito conservatore attribuivano a ogni ex
militante dell'Auf, l'organizzazione giovanile del Partito laburista: era grezzo.
I vestiti gli stavano anche bene su quel corpo ben allenato, ma non erano mai perfetti. Non denotavano
mai un vero gusto. Gli abiti scuri erano troppo scuri e gli altri li comprava in una catena di negozi di
abbigliamento. In quel momento portava una giacca di tweed marrone sintetico, pantaloni neri e scarpe
marroni. Per via dell'agitazione, continuava a premere il pulsante della penna che teneva in mano. Tic-
tac. Tic-tac.
- Otto B. Halvorsen morì dopo una breve degenza in ospedale, - continuò il segretario generale mentre
lanciava un'occhiata irritata in direzione di Storstein da sopra le lenti. - Quindi si ebbe il tempo
necessario per prepararsi.
Probabilmente questo tornò utile quando Peder Kolstad morì nel marzo 1932 per un'embolia. Venne
seguita la stessa procedura. Comunque: il ministro degli Esteri assume ad interim la funzione di primo
ministro fino alle dimissioni del governo. Questo avviene non appena ne è pronto uno nuovo. Fino ad
allora quello attuale funge da governo di transizione.
Per un attimo fece la boccuccia: adesso sembrava un topo con gli occhiali.
- Ciò significa che devono essere sbrigati gli affari correnti.
Ho elaborato una nota...
Con un gesto richiamò una donna che era appena entrata nella stanza: se ne stava in piedi vicino alla
porta, accanto al tavolino su cui erano schierate le tazze per il caffè. Pareva terribilmente a disagio. Su
segnale del suo superiore si mise a distribuire a ciascun ministro un documento formato da tre fogli
pinzati insieme. Il segretario generale riprese:
-... che precisa quali vadano considerati come «affari correnti». A grandi linee si tratta di questioni che
non vincolano in alcun modo il nuovo governo. I giudici, per esempio...
Alzando gli occhi dal documento, cercò con lo sguardo il ministro della Giustizia, che invece stava
fissando le piccole lampade alogene del soffitto: in quel momento parevano pianeti di un universo
sconosciuto.
-... per esempio, non devono essere nominati. Bene, è tutto scritto qui. Saremo a vostra disposizione per
eventuali domande ventiquattr'ore al giorno.
Dopo aver battuto la mano sui fogli, il segretario generale guardò il ministro degli Esteri con un sorriso
tirato.
- Grazie, - borbottò lui prima di tossire.
Stava covando l'influenza: avvertiva un cerchio appiccicaticcio e doloroso alla testa.
- Ho parlato con il presidente del Parlamento. Ci sarà una seduta straordinaria oggi alle dodici. Presumo
che il nuovo governo sarà pronto nell'arco di una settimana. Ma siamo in attesa dei funerali.
Si fece silenzio. Totale. Il ministro dell'Agricoltura portò involontariamente la mano al taschino della
camicia, ma lasciò dov'era la confezione di tabacco. Il ministro del Commercio si passò le dita tra i
capelli: una volta tanto lo chignon non era perfetto, ma alcune ciocche le cadevano sull'orecchio sinistro.
Tryggve Storstein ruppe il silenzio.
- Terremo una riunione del partito a livello nazionale domani pomeriggio, - disse piano. - Ad interim
sarò io il nuovo segretario. Verrete immediatamente informati su quello che succederà all'interno del
partito nei prossimi giorni.
Il ministro della Salute Ruth-Dorthe Nordgarden alzò lo sguardo. Dopo essersi passata le dita tra i
capelli biondi per spostarli dietro l'orecchio, lanciò un'occhiata al ministro delle Finanze. Analogamente
a Tryggve Storstein era vicesegretario del partito. Avevano ricevuto l'incarico come premio di
consolazione dopo le drammatiche vicende avvenute cinque anni prima, quando Grò Harlem Brundtland
aveva deciso di colpo e per motivi personali di ritirarsi dalla carica di segretario del Partito laburista.
Aveva vinto Birgitte Volter. Fino a un'ora prima della decisione finale, la scelta fra i tre candidati era
aperta. Era stata la Lo, la confederazione norvegese dei sindacati dei lavoratori, a chiudere la partita.
Birgitte Volter proveniva da quell'ambiente, con cui aveva giudiziosamente mantenuto i contatti.
Pur essendo entrambi vicesegretari di partito, erano molto diversi: Tryggve Storstein aveva accettato la
sconfitta di cinque anni prima con contegno e serenità d'animo.
Inoltre godeva di un ampio rispetto generale, anche se al contempo la maggior parte degli aderenti aveva
qualcosa da ridire su di lui. Ruth-Dorthe Nordgarden invece aveva amici giurati e acritici, e acerrimi
nemici. Fino a quando i primi fossero stati in numero sufficiente, se la sarebbe cavata bene. Il ministro
delle Finanze non apparteneva a quel gruppo. La sfiducia era reciproca.
- Una cosa dobbiamo tenere bene a mente, - aggiunse Tryggve Storstein scartabellando i fogli che aveva
davanti a sé. - Che non è certo... vista l'attuale situazione parlamentare e la voglia di governare che hanno
mostrato i partiti di centro negli ultimi sei mesi... non è scontato che il Partito laburista guiderà il paese
tra una settimana.
Adesso ne hanno la possibilità, se sono disposti a prendersela.
Gli amici del centro.
Nessuno aveva avuto il tempo di pensare a questo aspetto.
Tutti si guardarono.
- Ma niente affatto, - borbottò il ministro per l'Infanzia e la famiglia: nonostante la giovane età era una
donna già con una lunga carriera parlamentare alle spalle. - Scommetto la testa che non ci proveranno.
Aspetteranno fino all'autunno.
All'improvviso si portò una mano alla bocca.
Non era proprio la giornata adatta per scommettere la propria testa su qualcosa.

Ore 08.00, centrale di polizia, Oslo.

- Qui troppi cuochi guastano la cucina, - borbottò Billy T. - Ne uscirà un pasticcio.


La donna seduta accanto a lui annuì debolmente. Ci dovevano essere almeno cinquanta persone riunite
nella sala che fungeva da auditorio della polizia e che si trovava al terzo piano. Era facile identificare gli
uomini dei servizi di sicurezza: sedevano per proprio conto dando l'impressione di possedere
informazioni incommensurabilmente grandi e riservate. Inoltre per la maggior parte erano riposati, al
contrario dei poliziotti della centrale: molti di loro lavoravano da quasi ventiquattr'ore. Un debole
sentore di sudore stantio permeava la stanza.
- Servizi di sicurezza, servizi di sicurezza, servizi di sicurezza, - continuò Billy T. - Il caos è assicurato.
Tireranno fuori gli scenari peggiori. Terrorismo, minacce dal Medio Oriente. Quando probabilmente
abbiamo soltanto a che fare con un pazzo. Merda, Tone-Marit, non dobbiamo creare un caso Palme
norvegese. Se non scopriamo cosa è successo nel giro di un paio di settimane, siamo fregati.
Puoi scommetterci.
- Adesso sei stanco, Billy T., - disse Tone-Marit. - E ovvio che vengano coinvolti anche i servizi di
sicurezza.
Sono loro che sanno valutare i rischi, la vulnerabilità e le minacce alla sicurezza.
- Si, io sono stanchissimo, ma in quanto alla loro capacità di analisi dei rischi, non ne possono avere un
granché.
Il primo ministro è già morto, ergo...
Ridacchiò mentre cercava di trovare inutilmente posto per le gambe tra le file di sedie. Alla fine fu
costretto a chiedere all'uomo davanti a lui di spostarsi.
- Ergo sono nel pieno di un paradosso alla Comma 22.
O hanno ragione loro sul fatto che l'omicidio ha una matrice politica o terroristica, e in questo caso non
hanno lavorato bene. O ho ragione io e quindi i servizi di sicurezza qui non hanno niente da spartire.
Siamo noi che in questo caso sappiamo il nostro mestiere.
- Adesso datti una calmata, - replicò Tone-Marit a bassa voce. - Non ti è mai andata giù che abbiamo
dubitato del tuo nulla osta sicurezza.
- Soltanto perché mi piacciono le donne, - sibilò Billy T.
- Ti porti a letto tutte quelle che si offrono, - lo corresse Tone-Marit. - E anche qualcun'altra. Ma questo
non c'entra.
Lo sai benissimo. Un tempo facevi parte di un partito della sinistra radicale. Inoltre non hai nessuna base
per dichiarare che si tratta dell'opera di uno squilibrato. Non abbiamo nessun presupposto per trarre
nessuna conclusione. Nessuna. Lo dovresti sapere.
- Io non ho mai fatto parte della sinistra radicale. Mai!
Ero un radicale! Tutta un'altra cosa. Io sono radicale, cazzo. E questo non significa certo che non ci si
possa fidare di me!
Il capo dei servizi di sicurezza e quello della polizia avevano preso posto dietro un tavolo che si trovava
in capo alla stanza e, con il viso rivolto verso i presenti, sembravano due docenti di fronte a una classe
che non sapevano esattamente come gestire. Il capo della polizia, che occupava quell'incarico da soli tre
mesi e che prima era il responsabile della Omicidi, aveva il volto segnato dalla stanchezza e spuntoni di
barba grigia che continuava a grattare. La camicia dell'uniforme aveva l'orlo del colletto sudicio e la
cravatta pendeva storta. Il capo dei servizi di sicurezza non portava la divisa. Impeccabilmente vestito,
indossava un abito estivo beige su una camicia bianca immacolata e una cravatta marrone chiaro in tinta
unita.
Stava fissando il soffitto.
- E stato creato uno staff che occuperà per ora la stanza Ko, quella per le operazioni di coordinamento, -
esordi il capo della polizia senza ulteriori presentazioni né introduzzioni. - Sarà attivo almeno per i
prossimi giorni. Vedremo con il tempo se sarà il caso di trasferirci.
«Vedremo con il tempo». Tutti conoscevano il significato di quelle parole.
- Merda, non abbiamo nessun indizio, - sussurrò Billy T.
- Per il momento abbiamo molto poco, - confermò il capo della polizia ad alta voce mentre si alzava.
Si diresse verso un proiettore sul cui vetro appoggiò un lucido.
- Finora abbiamo interrogato ventotto persone. Si tratta di soggetti che possono essere strettamente
collegati per motivi di tempo e spazio al luogo del crimine. Personale dell'ufficio del primo ministro:
politici, funzionari, segretarie e le guardie presenti al quattordicesimo piano e al pianterreno. Oltre a un
paio di... ospiti. Che ieri si sono recati in visita dal primo ministro.
Il capo della polizia mostrò un riquadro rosso del lucido, pieno di nomi. Gli tremava la mano. La penna
che usava per indicare, e la cui ombra si rifletteva sulla parete alle sue spalle simile a una bacchetta
enorme, oscillò sul trasparente storcendolo. Per un istante cercò impacciato di raddrizzarlo, ma sembrava
incollato, così vi rinunciò.
- Per il momento non abbiamo nessuna teoria definitiva.
Ripeto: non abbiamo nessuna teoria definitiva.
È di massima importanza procedere a trecentosessanta gradi. In questo lavoro i servizi di sicurezza
giocheranno un ruolo importante. Il modo in cui è stato compiuto l'omicidio...
Spento il proiettore, si servì di entrambe le mani per rimuovere il lucido recalcitrante prima di sostituirlo
con un altro e riaccendere l'apparecchio.
-... denota un alto grado di professionalità.
Il foglio mostrava uno schizzo del quattordicesimo e del quindicesimo piano del palazzo del governo.
- Questo è l'ufficio del primo ministro. Come potete vedere, lo si può raggiungere in due modi, o
passando dall'anticamera e poi per di qua...
Con la penna picchiettò sul punto del disegno che indicava una porta.
-... o attraverso una sala riunioni e la stanza adibita al riposo del primo ministro, per poi arrivare qui.
La penna tracciò un riquadro sul lucido.
- Queste due entrate hanno in comune il fatto che in entrambi i casi bisogna superare la stessa porta...
La penna picchiettò nuovamente sul vetro.
-... e questa è nel raggio visivo della segretaria, che siede qui.
Il capo della polizia sospirò così pesantemente che il suono arrivò fino a Billy T. e all'agente Tone-Marit
Steen, seduti in fondo alla stanza. Poi si fece nuovamente silenzio, a lungo.
- Inoltre, - disse all'improvviso il capo della polizia; la voce, crollando a metà della parola, lo costrinse
a tossire con forza. - Inoltre per raggiungere gli ultimi tre piani, cioè la sezione occupata dal Gabinetto
del primo ministro, bisogna superare questo punto.
Si servì dell'indice paffuto, che andò a coprire tutto l'ingresso del quattordicesimo piano.
- Si tratta di una porta di sicurezza automatica dove è sempre presente una guardia. A dire il vero esiste
ovviamente un'uscita d'emergenza...
Il dito si rimise in movimento.
-... qui, ma nulla fa presupporre che sia stata usata. Le porte sono piombate e i sigilli sono intatti.
- Avrebbe dovuto essere qui John Dickson Carr, - commentò Billy T. sottovoce con la bocca rivolta
all'orecchio di Tone-Marit.
Il capo della polizia continuò.
- Da tempo sono in atto dei lavori di ristrutturazione in tutto l'edificio, sia all'esterno sia all'interno. Per
l'occasione sono state montate delle impalcature. Ovviamente abbiamo controllato che nessuno sia entrato
in quel modo, ma nemmeno in questo caso abbiamo trovato indizi.
Niente. Le finestre sono intatte, infissi inclusi. Stiamo anche ispezionando qualunque cosa abbia a che
fare con i condotti dell'aria e simili, ma per il momento anche questa sembra una pista cieca.
A braccia conserte, il capo dei servizi di sicurezza stava studiando qualcosa sul tavolo davanti a sé.
- Non è ancora stata ritrovata l'arma. Per il momento sembra essere di piccolo calibro, probabilmente un
revolver.
Avremo una risposta in giornata dopo che sarà pronto il referto dell'autopsia. Visto come stanno le cose,
l'omicidio è presumibilmente avvenuto tra le 18.00 e le 18.45.
E ragazzi...
Guardò i presenti con gli occhi socchiusi.
- Quello che sto per dirvi dovrebbe essere assolutamente superfluo, ma ve lo dico lo stesso: è più
importante che mai non far trapelare nulla. Qualsiasi informazione non autorizzata alla stampa o ad altri
sarà sottoposta ad accurate indagini interne, e intendo dire accurate. Non ammetto nessuna, ripeto
assolutamente nessuna fuga di notizie in questo caso. Capito?
Per la sala si diffuse un borbottio d'assenso.
- Il capo dei servizi di sicurezza desidera sottoporvi un breve resoconto.
Dopo essersi alzato, l'uomo in abito beige girò intorno al tavolo e con un movimento grazioso vi si
accomodò sopra prima di incrociare le braccia sul petto.
- Teniamo aperte tutte le possibilità, come ha già accennato il capo della polizia. Sappiamo che gruppi
dell'estrema destra hanno mostrato ultimamente un certo fermento e che alcuni di questi raggruppamenti
hanno operato con delle cosiddette liste della morte. In sé non è niente di nuovo. Le liste esistono da un
sacco di tempo e Birgitte Volter ne faceva parte molto prima di assumere l'incarico di primo ministro.
Dopo essersi rialzato, si mise a camminare avanti e indietro mentre parlava. La voce era profonda e
piacevole, le parole fluivano ininterrotte.
- Non possiamo neanche eliminare l'ipotesi che l'assassinio sia connesso a quanto è avvenuto ultimamente
in Medio Oriente. Gli accordi di Oslo corrono il pericolo incombente di arenarsi del tutto ed è cosa nota
che la Norvegia lavora intensamente dietro le quinte per impedire il collasso dell'intero processo di
pace.
- Adesso i ragazzi dei servizi di sicurezza avranno modo di collaborare nuovamente con i loro vecchi
amici del Mossad, - borbottò Billy T. con un filo di voce.
Tone-Marit fece finta di non aver sentito e allungò il collo per vedere meglio l'uomo che avevano
davanti.
- Inoltre abbiamo elaborato un paio di altre teorie che stiamo per esaminare più a fondo. Non è
necessario affrontarle in questa sede.
Il responsabile dei servizi di sicurezza si interruppe prima di annuire in direzione del capo della polizia
come a segnalare che la riunione era finita. Quest'ultimo si passò un dito tra la nuca e il colletto sporco.
Sembrava non vedere l'ora di tornarsene a casa.
- Credi ancora alla tua storia dello squilibrato che ha agito da solo? - domandò Tone-Marit mentre
stavano lasciando l'auditorio. - Nel qual caso deve trattarsi di un genio!
Billy T. non rispose, ma dopo averla fissata per qualche secondo scosse debolmente la testa.
- Adesso devo dormire, - borbottò.

Ore 09.07, centrale di Oslo.

Era impossibile indovinare l'età della donna che indossava un tailleur nero con un piccolo foulard rosso
e che, seduta, sorseggiava un bicchiere di acqua minerale gasata.
L'agente Tone-Marit Steen provava per lei un senso di ammirazione: nonostante fosse stata interrogata
quella stessa mattina alle quattro, sembrava riposata e appena uscita dalla doccia. A dire il vero gli occhi
erano leggermente chiazzati di rosso, ma il trucco era perfetto e i piccoli movimenti che eseguiva in
continuazione diffondevano nella stanza un sentore debole e piacevole di profumo.
Tone-Marit strinse le braccia lungo i fianchi nella speranza di non puzzare troppo.
- Mi spiace davvero di averla dovuta disturbare di nuovo, - le disse con una voce che suonava sincera. -
Ma vista la situazione, spero capisca che la consideriamo una testimone importantissima.
Wenche Andersen, segretaria dell'ufficio del primo ministro, annuì debolmente.
- Non importa. Tanto è impossibile dormire. Ci mancherebbe altro. Chieda pure.
- Per non rifare lo stesso lavoro di questa notte, ripeteremo in sintesi quello che ha detto. Mi fermi se
qualcosa fosse sbagliato.
Wenche Andersen annuì prima di appoggiarsi le mani in grembo.
- Birgitte Volter le aveva chiesto di essere lasciata in pace, giusto?
La donna annuì.
- E lei non sa perché. Doveva vedere il giudice della Corte Suprema Grinde per un incontro
assolutamente normale che era stato fissato con una settimana d'anticipo.
Nessun altro è entrato nell'ufficio dopo l'ultima volta in cui lei ha visto la Volter viva. Ma qui lei dice...
Tone-Marit sfogliò le carte prima di trovare finalmente quello che stava cercando.
- Lei afferma che ultimamente il primo ministro mostrava una certa inquietudine. Un certo stress. Cosa
intende dire?
La donna in nero la guardò mentre cercava palesemente le parole.
- A dire il vero, è difficile da spiegare. Non la conoscevo ancora così bene. Era... scontrosa? Irritabile?
Un po' entrambe le cose. In un certo senso, brusca. Più del solito.
Non saprei aggiungere altro.
- Può... è in grado di citare qualche esempio? I motivi che la irritavano?
Sul volto di Wenche Anderson apparve qualcosa che assomigliava a un sorriso.
- Di solito i giornali arrivano con un messo alle otto e un quarto. Giovedì c'era un piccolo ritardo, così
non sono stati consegnati prima delle nove e mezzo o quasi. Il primo ministro era così irritato da... si, da
dire delle parolacce, ecco.
Sulle guance della donna erano comparse due macchioline viola.
- E anche pesanti. Sono corsa a comprarle il «Dagbladet» e«KA».
Sospirò.
- Cose così. Superflue. Cose per cui un primo ministro non spreca di solito energie inutili.
Tone-Marit sollevò una bottiglia da mezzo litro di acqua minerale a mo' d'offerta.
- Si, grazie, - le rispose l'altra mentre le porgeva il bicchiere di plastica.
La poliziotta la fissò per un attimo, ma abbastanza a lungo perché il silenzio si facesse imbarazzante.
- Com'era, in realtà? - domandò all'improvviso. - Che tipo di persona era?
- Birgitte Volter? Com'era?
Le chiazze violacee aumentarono.
- Be'... era. Molto ligia al dovere. Una gran lavoratrice.
Quasi come Grò Harlem Brundtland, ecco.
In quel momento sorrise, un sorriso ampio che mise in mostra una fila di denti bianchi, ben curati. L'oro
dei molari brillò.
- Lavorava tutto il giorno, dal mattino alla sera. Molto facile rapportarsi con lei, dava sempre messaggi
chiari.
Disposizioni molto precise. Quando qualcosa non andava perfettamente come dovuto... con l'agenda che
ha un primo ministro, succedono sempre degli imprevisti... ma lei gestiva bene la situazione. E poi era
alquanto...
Cercò nuovamente le parole: fece scorrere lo sguardo per la stanza come se si fossero nascoste da
qualche parte rifiutandosi di comparire.
- Calorosa, - esclamò alla fine. - Si, la definirei calorosa.
Si è ricordata persino del mio compleanno, mi ha portato delle rose. Aveva quasi sempre il tempo per
fare due chiacchiere.
- Ma se dovesse dire qualcosa di negativo, - la interruppe la poliziotta. -- Cosa direbbe?
- Mah, di negativo...
La donna prese a giocherellare con il bordo della giacca prima di abbassare lo sguardo.
- Be', poteva essere un po'... un po' troppo... gioviale?
Non potevo chiamarla primo ministro, insisteva per essere chiamata Birgitte. Fatto insolito. E, se vuole
sapere come la penso, sbagliato. Inoltre era un po' pasticciona, quando si trattava di cose concrete. Per
esempio si dimenticava in continuazione il badge. E in tutta questa sua giovialità, c'era qualcosa... come
definirla?
Una specie di riservatezza? No, sto facendo una gran confusione.
Adesso parlava piano, quasi sussurrando mentre scuoteva affranta la testa.
- Altro?
- No, a dire il vero, no. Niente che abbia importanza.
Qualcuno bussò alla porta.
- Occupato, - esclamò Tone-Marit, che proseguì mentre si sentiva il suono fievole di passi che si
allontanavano lungo il corridoio. - Lasci che decida io se è importante.
Dopo averla fissata dritto negli occhi, la donna si passò con un gesto fulmineo la mano sui capelli con un
movimento superfluo.
- No, davvero. Non c'è altro da aggiungere. A eccezione di una cosa che mi ha colpito stanotte. O meglio,
stamattina. Poco fa. Anche se non ha niente a che vedere con questo.
Chinatasi in avanti, Tone-Marit afferrò una penna che si mise a far oscillare tra l'indice e il medio della
mano destra.
- Stanotte mi hanno chiesto di passare in rassegna l'ufficio del primo ministro, - proseguì Wenche
Andersen. - Per vedere se mancava qualcosa, ha detto il poliziotto.
È stato dopo che Birgitte è stata allon... portata via, voglio dire. Ma io l'avevo vista. Sia quando l'ho
trovata sia dopo, mentre giaceva là dentro, o meglio, era seduta, ecco. Riversa sulla scrivania. L'avevo
vista due volte. E...
Fissò apatica la penna che tamburellava sulla superficie del tavolo con un suono cadenzato e irritante.
Tone-Marit si bloccò di colpo.
- Chiedo scusa, - disse raddrizzandosi. - Continui.
- L'avevo vista due volte. E non per vantarmi... in nessun modo, ma vengo considerata un'ottima
osservatrice.
Le due macchie violacee si contornarono di rosso.
- Noto le cose. È fondamentale nel mio lavoro. E mi sono accorta che il primo ministro non indossava più
il suo scialle.
- Scialle?
- Si, uno scialle grande, con le frange, di lana, nero a disegni rossi. Lo portava su una spalla, così...
Wenche Anderson snodò il suo piccolo foulard e, dopo averlo piegato a forma di triangolo, lo
drappeggiò su una spalla.
- Non proprio così, si trattava di uno scialle ed era molto più grande di questo foularino, ma lei capisce
di sicuro.
Non ne sono certa, ma credo che lo tenesse a posto con una spilla da balia nascosta, perché non le cadeva
mai. Le piaceva molto e lo indossava spesso.
- E questo scialle?
- Non c'era.
- Non c'era?
- No, non ce l'aveva più indosso e non c'era neanche nella stanza quando ho controllato. Era scomparso.
La poliziotta si chinò di nuovo in avanti verso di lei; qualcosa le aveva acceso lo sguardo e la donna che
le stava di fronte si ritrasse inconsapevolmente sulla sedia.
- È sicura che quel giorno lo portasse? Assolutamente certa?
- Al cento per cento. Ho notato che era un po' storto, come se se lo fosse messo addosso senza controllare
allo specchio. Al cento per cento. Significa qualcosa?
- Forse si, - rispose Tone-Marit piano. - Forse no. Me lo può descrivere in dettaglio?
- Mah, come dicevo era nero a disegni rossi. Fantasia provenzale, direi. Era grande più o meno così...
Wenche Andersen teneva le mani a una distanza di circa un metro.
-... ed era di lana. Sono praticamente certa che si trattasse di lana pura. Ma è scomparso.
Tone-Marit si girò verso il computer posto accanto alla finestra. Senza dire niente, scrisse per dieci
minuti.
Wenche Andersen bevve ancora un po' d'acqua minerale mentre guardava con discrezione l'orologio da
polso.
Sentiva la stanchezza salirle da dentro, e al suono monotono, ticchettante delle dita della poliziotta sulla
tastiera, cominciò a battere le palpebre.
- Non ha mai sentito rumore di spari?
Wenche Andersen sobbalzò, doveva essersi assopita per un attimo.
- No, mai.
- Basta così per oggi. Può prendere un taxi a nostre spese per tornare a casa. Grazie per essersi presa il
disturbo di venire un'altra volta. Purtroppo non posso prometterle che sarà l'ultima.
Dopo che si furono strette la mano a mo' di congedo, Wenche Andersen si fermò esitante sulla porta.
- Pensa che lo prenderete? L'assassino, intendo dire?
Gli occhi, fino a quel momento leggermente arrossati, sembravano colmi di lacrime.
- In effetti non lo so. E impossibile dirlo. Però faremo del nostro meglio.
Ma la segretaria del primo ministro se n'era già andata dopo essersi richiusa con circospezione la porta
alle spalle.

Ore 12.00, aula plenaria del Parlamento.

L'aula principale del Parlamento norvegese, semicircolare e simile a un anfiteatro, non era mai stata più
affollata.
Tutti i centosessantacinque seggi erano occupati e questo da più di un quarto d'ora. Al contrario del
solito, non c'era nessuno che parlasse. I ministri sedevano nel cerchio di poltroncine più in basso,
soltanto il seggio del primo ministro era vuoto, a eccezione di un mazzo di dodici rose rosse che, messe
in bilico, rischiavano di cadere per terra da un momento all'altro. Nessuno se la sentiva di raddrizzarle.
La tribuna riservata ai diplomatici era stracolma di funzionari e rappresentanti stranieri, tutti in abito
scuro e pallidi in volto, tranne l'ambasciatore sudafricano, che era nero e indossava un costume
tradizionale coloratissimo. Da quella invece destinata alla stampa giungeva l'unico suono che si sentisse
oltre a diffusi colpi di tosse e raschiare di gole: il ronzio frusciante delle telecamere.
La galleria che circondava l'emiciclo era gremita di gente, due guardie avevano il loro daffare a tenere
gli ultimi arrivati all'esterno della sala.
Il presidente del Parlamento fece il suo ingresso dalla sinistra. La donna marciò dentro l'aula, dritta come
un fuso e con gli occhi gonfi. Era stata una delle poche e vere amiche di Birgitte Volter ed era soltanto
grazie alla sua lunga esperienza nel mantenere un comportamento dignitoso in pubblico che riusciva a
darsi un tono. I ricci le dondolavano tristemente intorno alla testa, come se anch'essi soffrissero per la
perdita di una persona cara.
Battè tre volte sul tavolo con il martelletto. Poi, dopo essersi schiarita la voce, rimase talmente a lungo in
silenzio che l'attenzione in aula si fece ancora più tesa. Alla fine deglutì così forte e così vicino al
microfono che si senti dappertutto.
- Dichiaro aperta la seduta, - disse, prima di cominciare con l'elenco dei sostituti che rappresentavano i
parlamentari assenti, e che una volta tanto era alquanto corto.
Era un bene: le formalità parevano fuori luogo in un giorno come quello.
- Il primo ministro Birgitte Volter è mancato, - riprese. - E nel modo più brutale che si possa pensare.
Il ministro delle Finanze Tryggve Storstein si perse l'elogio funebre. Era assorto nei propri pensieri.
Tutto ciò che lo circondava si era fuso in una poltiglia informe. Le decorazioni in oro del soffitto, il
tappeto rosso scuro davanti a lui, la voce del presidente del Parlamento. Intorno alla sua poltroncina si
era formata una campana di vetro. Si sentiva terribilmente solo. Sarebbe diventato il segretario del
partito. Ruth-Dorthe non aveva nessuna chance: era troppo discussa per un incarico del genere. Ma
sarebbe diventato anche primo ministro? Non sapeva neanche se era quello che voleva. Ovviamente ci
aveva fatto un pensiero sopra. Molto tempo prima. Prima della resa dei conti del 1992, quando Grò
Harlem Brundtland aveva rassegnato le dimissioni scatenando la guerra che Birgitte Volter aveva vinto.
Ma adesso? Voleva diventare primo ministro?
Scosse velocemente la testa. Non ci si poneva domande del genere. Bisognava fare ciò che richiedeva la
situazione.
Ciò che esigeva il partito. Come d'abitudine abbassò gli angoli della bocca prima di chiudere gli occhi.
Per un istante, breve e liberatorio, pensò alla possibilità che subentrassero i partiti dell'opposizione, ma
represse subito quel pensiero blasfemo. Dovevano cercare di rimanere al potere. Qualsiasi altra cosa
avrebbe significato il caos. La sconfitta. Era stanco di perdere.
- Propongo i funerali di stato per il primo ministro Birgitte Volter, - concluse il presidente.
Tryggve Storstein raddrizzò le spalle.
- Approvato all'unanimità, - dichiarò la donna battendo con il martelletto e prima di passarsi la mano su
una guancia con un gesto veloce e debole. - Il ministro degli Esteri ha chiesto la parola.
Oltre che dinoccolato, l'uomo sembrava ancora più magro e tirato di quanto lo fosse quella mattina.
Raggiunto il podio, pareva quasi assente, ma con uno sforzo si riprese girandosi verso destra.
- Presidente, - esordì con un cenno del capo, poi abbassò lo sguardo su un foglietto che aveva appoggiato
davanti a sé sul leggio. - Mi sono permesso di chiedere la parola per dire che tutto il governo rimette
ovviamente il proprio mandato, ora che il primo ministro è scomparso.
Era tutto. Esitante, si raddrizzò gli occhiali, come se avesse intenzione di continuare, poi scese dal podio
per tornare al suo posto senza riprendersi il foglietto.
- Chiedo dunque un minuto di silenzio, - disse il presidente del Parlamento.
Quella pausa intensa, vuota, durò due minuti e mezzo.
Di tanto in tanto si sentiva qualcuno tirare su con il naso, ma persino i fotografi della stampa rispettarono
quell'attimo solenne.
- La seduta è tolta.
Il presidente del Parlamento battè nuovamente con il martelletto.
Il ministro delle Finanze Tryggve Storstein si alzò.
Trentasei ore senza sonno cominciavano a fargli lo stesso effetto di una droga: si sentiva proiettato al di
fuori di se stesso mentre si fissava le mani come se appartenessero a un'altra persona.
- A che ora è la riunione del consiglio dei ministri, Tryggve?
Era il ministro della Cultura, in tailleur grigio scuro e un trucco che indicava come fosse passato
parecchio tempo da quando si era recata in bagno per una rinfrescata.
- Alle due, - rispose laconico.
Poi lasciarono tutti l'aula, piano e in silenzio, a occhi bassi, come un corteo funebre che si stesse
esercitando per il funerale. I fotografi della stampa notarono che un'unica persona, in effetti, sembrava
cercare di nascondere un sorriso, ed era il ministro della Salute Ruth-Dorthe Nordgarden.
Però poteva anche trattarsi di una smorfia.

Ore 15.32, ristorante «Gamie Chrìstianìa».

- Un tipo alla Christer Petterson. Garantito. Ci gioco gli attributi.


L'uomo indossava un abito che sembrava comprato alla Texaco. Era di stoffa lucida e ricordava i tutoni
in nylon che si usavano negli anni Settanta. Alzò la sua media, il bicchiere era quasi vuoto. Con due bei
baffi di schiuma sopra la bocca, continuò:
- La polizia ci farà una figura di merda. Proprio come in Svezia. Si andranno a ingolfare in qualche
stupida pista di grande politica. Invece il colpevole è uno svitato. Uno alla Christer Petterson.
- O un amante geloso.
La donna che se ne era uscita con quell'idea non propriamente originale era piuttosto giovane, sulla
trentina.
La voce era quasi in falsetto.
- C'è qualcuno che sa niente della vita sentimentale di Birgitte Volter?
Quattro delle persone sedute intorno al tavolo, tutti uomini, scoppiarono a ridere.
- Vita sentimentale? Se la faceva con Tryggve Storstein, questo è certo. Merda, lo stesso che
probabilmente prenderà il suo posto in tutta questa manfrina! Una situazione un pochino delicata per gli
sbirri, sì, deve comparire di sicuro nella lista dei sospettati! So che...
L'uomo alla Texaco era sicuro di sé, ma fu interrotto dalla voce tonante di un quarantenne dalla barba
maestosa.
Era calvo, ma la barba corvina gli arrivava fino al petto.
- Queste storie su una relazione tra la Volter e Storstein sono solo stronzate. Storstein se la fa con Helene
Burvik, non con la Volter. Tra loro è finita tanto tempo fa. Molto tempo prima del congresso nazionale
del partito nel 1992.
- Io credevo che Tryggve Storstein fosse felicemente sposato, - mormorò la più giovane dei giornalisti
seduti intorno al tavolo. Lavorava all'«Aftenposten» e non era ancora riuscita a far parte a tutti gli effetti
della cricca che si riuniva in quel ristorante. - Come diavolo fa un tipo così a trovare il tempo per avere
un'amante?
Il silenzio era totale, tutti s'irrigidirono: persino la birra venne lasciata in pace per qualche secondo. La
ragazza arrossì profondamente e fuori luogo, ma fu abbastanza coraggiosa da continuare:
- Voglio dire, come fate a sapere che è vero quello che dite? Se dovessi credere alla metà delle voci che
ho sentito nell'ultimo anno, la maggior parte dei ministri ha alle spalle un passato non propriamente
esemplare e una vita sessuale da far invidia a chiunque di noi. Quelli che non sono gay, ecco. O anche
loro, comunque. Dove trovano il tempo? In aggiunta a tutte le cose pazzesche che fanno, voglio dire. E
voi come lo sapete? È poi così interessante?
Alzò il bicchiere di vino: era l'unica a non bere birra.
Come con un colpo di bacchetta magica invisibile fu esclusa all'istante dal gruppo. Era seduta su uno
sgabello ai margini del tavolo e i due uomini che aveva per parte le voltarono le spalle, creando un muro
tra lei e gli altri che si fece sempre più alto.
- Che carinerie! - borbottò il Barba. - E che perbenismo!
Entrò Liten Lettvik, che li vide. Alzò una mano a mo' di saluto, ricevendo come risposta tre medie
sollevate, e si diresse al bancone prima di raggiungere i colleghi con in mano un bicchiere.
- Coca-Cola, Liten? Incredibile!
L'uomo del tutone scosse la testa.
- Va immortalato. Telefona al fotografo.
- A differenza vostra, - rispose pacata Liten Lettvik prima di sedersi ondeggiando su uno sgabello che
ospitava unicamente una minuscola circonferenza interna del suo sedere. Il resto debordò verso l'esterno
e il basso tanto che dal posteriore sembravano essere spuntate quattro gambe, - io sto lavorando
ventiquattr'ore al giorno, e mi tengo sobria. Si può ben vedere dal tuo giornale...
Sollevò il bicchiere verso il giornalista del «Dagbladet» seduto accanto a lei.
-... che voi non seguite la nostra stessa politica. Che cosa avete combinato oggi? Tutto il giornale pare un
omaggio senza fine a Birgitte Volter, il dono di Dio al Regno di
Norvegia, il più grande primo ministro della storia! Dov'è finita la critica, Ole? Il vostro giornalismo
d'elite? L'analisi cruda della realtà? «Dagbladet», sempre primo e in prima linea! Oggi invece siete
proprio indietro.
- Perlomeno capiamo che è meglio non uscire con congetture gratuite e selvagge fino a quando non
sappiamo niente.
Il Barba era offeso. Era un giornalista molto esperto e pluripremiato. In più occasioni gli era stato
proposto da numerose testate di diventare redattore, ma aveva sempre rifiutato borbottando e godendosi
la soddisfazione di aver ricevuto quelle offerte che alla fin fine erano l'attestazione palese della sua
bravura. Lui voleva essere un giornalista che andava a fondo, che scavava. Sapeva tutto ed era piacevole
stare con lui, per coloro che riconoscevano la sua superiorità. Per gli altri, no.
- Quando un primo ministro norvegese viene ucciso nel suo ufficio, è arrivato davvero il momento di fare
congetture, - continuò Liten Lettvik. - Cosa credete che stia facendo la polizia? Lo stesso. Non sanno
niente. Elaborano teorie e lavorano partendo da quelle. Proprio come noi.
- Non è il momento per le congetture, - replicò acido Ole Henriksen. - Quel giorno arriverà domani.
Quando la gente si sarà ripresa dal dolore.
- Non riusciremo a farcela per domani, - balbettò la giovane esclusa.
- Di cosa ti stai occupando allora? - domandò Ole Henriksen fissando Liten mentre continuava a rigirare
il bicchiere tra le dita. - Cos'è che sai che noi non sappiamo?
Liten Lettvik rise, con gusto e con voce afona.
- Come se lo venissi a raccontare a voi.
Guardò di colpo l'orologio, uno Swatch di plastica che aveva lasciato il segno di un bell'eczema intorno
al cinturino.
- Devo fare una telefonata, - disse bruscamente. - Tenetemi il posto.
I giornalisti rimasero seduti a guardarla: la sgradevole sensazione che forse si sarebbero dovuti trovare
da tutt'altra parte a fare tutt'altro che starsene li a bere birra li colpi all'improvviso. Nessuno disse niente.
- Quando apriranno il Tostrup-kjelleren? - borbottò alla fine il più anziano degli uomini, che aveva già
cominciato a biascicare.
Nessuno rispose. Osservavano Liten Lettvik, che non si era accontentata di uscire da quel locale lugubre,
ma per sicurezza aveva attraversato la strada per piazzarsi davanti ai grandi magazzini GlasMagasinet, a
qualche metro dall'entrata della pasticceria.
Fuori faceva freddo. La pioggia che cadeva sottile la costrinse a aderire quasi alla parete dell'edificio e,
dando le spalle alla strada, si mise a comporre il numero segreto.
- Storskog, - rimbombò come sempre.
- Konrad, Konrad, amico mio, - disse Liten Lettvik, che come sempre fu accolta da un silenzio
assordante. - Oggi un'altra domandina. La stessa di ieri, in effetti. Sei stato molto poco collaborativo.
La pausa non fu così lunga come si era aspettata.
- Questa è l'ultima volta che ti passo qualcosa, Lettvik.
Mi senti? L'ultima.
La voce tacque, palesemente in attesa di una promessa che non arrivò.
- Mi senti, Lettvik? Questa storia deve finire. Abbiamo un accordo?
- Dipende. Che cos'hai?
Di nuovo una lunga pausa di riflessione.
- Benjamin Grande.
- Grinde.
- Si, va bene. Grinde. Ieri ha ricevuto un mandato d'arresto.
- D'arresto?
Liten Lettvik stava per far cadere il cellulare, che si mise a suonare allegramente quando lei in preda allo
stupore prese a schiacciare un mucchio di tasti.
- Pronto? Ci sei?
-Si.
- Un mandato d'arresto, dici? Avete accusato un giudice della Corte Suprema?
- Rilassati. Il mandato l'hanno ritirato da un pezzo.
Una stronzata, il politìadjutant è stato come sempre troppo avventato.
- Ma l'avevano emesso? Per iscritto? Un mandato di arresto con tanto d'imputazione?
- Si, oggi quel politìadjutant ne ha sentite di tutti i colori.
Dal capo della polizia in persona. Di sicuro la sua carriera è finita.
Liten Lettvik si girò verso la strada. Un cieco arrancava sul marciapiede tra la gente con un bastone
bianco che agitava davanti a sé e che colpì lei sullo stinco.
- Me ne puoi procurare una copia, Konrad?
- No.
- Procurami una copia e abbiamo un accordo. Niente più telefonate da parte mia.
- Non posso. Ti ho già detto troppo.
- Pensa che accordo allettante, Konrad. Non mi farò mai più sentire se mi tiri fuori una copia del mandato
d'arresto.
Parola d'onore.
L'ispettore Konrad Storskog non rispose. Invece interruppe la chiamata con un clic. Per un attimo Liten
Lettvik rimase immobile a fissare il cellulare prima di richiuderlo e infilarselo nella tasca del cappotto.
Poi sorrise e, riattraversando la strada, fece un cenno di saluto con la mano in direzione dei sei
giornalisti in attesa, prima di scomparire verso la piazza di Stortorget. La Coca-Cola rimase intatta dove
l'aveva lasciata.
- Grazie a Dio Konrad odia i politìadjutant, - borbottò ridacchiando. - Grazie, caro Dio!
Era sicura che Konrad Storskog avrebbe fatto qualunque cosa per liberarsi per sempre di lei. Liten era
sul punto di mettersi a fischiettare.

Ore 19.04 (ora norvegese), Berkeley, Calìfornia.

Caro Billy T.!


Grazie per il fax, hai tutta la mia ammirazione perché hai ancora voglia di trovare il tempo di scrivere.
Spero di non svegliarti (il tuo fax fa rumore quando ti arriva qualcosa?) perché, se stai dormendo, te lo
sei proprio meritato. Devi procurarti un computer, così possiamo comunicare via mail! È molto più
economico e funziona meglio.
Qui l'assassinio di Birgitte Volter gode ancora di una certa attenzione, ma ringrazio internet! Ho passato
in rassegna i canali d'informazione norvegesi per ore, però non sembrano sapere un granché neanche loro.
A eccezione di «KA», che tira fuori una congettura dopo l'altra. Già, bisognerà pur riempire le edizioni
straordinarie.
È stato molto interessante leggere quello che hai scritto sulle guardie. Dal momento che potete collegare
con sicurezza soltanto quattro persone al luogo del crimine, la segretaria, il giudice della Corte Suprema
(a proposito, è quello della commissione?) e le due guardie, dedicherei il mio tempo alla ricerca di un
modo semplice per entrare nella sezione occupata dal Gabinetto del primo ministro.
Non sembra molto facile mettere in piedi un movente per nessuno dei quattro che, come noto, erano là.
Ergo si può trattare di qualcun altro, e questa o queste persone devono essere entrate in qualche modo.
Tipico del capo della Omicidi passare in rassegna i condotti dell'aria e le finestre al quindicesimo piano!
Capisco che si debbano compiere anche questi accertamenti, Billy T., ma io e te sappiamo che la risposta
si trova quasi sempre nella soluzione più semplice. La guardia si è fatta una pausa? Era venerdì sera e, da
quanto ne so, c'era poco movimento nell'ufficio. Qualcuno è riuscito a entrare nel più semplice dei modi?
La guardia fuma? Aveva mal di pancia? Immagino che tutte le guardie abbiamo il nulla osta sicurezza, ma
al riguardo c'era qualcosa di irregolare? Sostituti? E un'altra cosa: se io lavorassi a questo caso, metterei
da parte per il momento il problema dell'accesso. Mi concentrerei sui moventi.
Suppongo che i ragazzi dei piani superiori si stiano scatenando con le loro singolari teorie su terrorismo
e cose simili, ma che dire di un vecchio e sano lavoro d'investigazione da parte della polizia?
Aveva nemici? Sicuramente. Quella donna non aveva fatto altro che arrampicarsi per tutta la vita. E non
da meno: era sul punto di svelare o smascherare qualcosa? Il governo era in procinto di approvare
qualcosa di cui interessi forti, potenti avevano paura?
Okay, non voglio dire che uno sia intenzionato a uccidere per impedire la costruzione della centrale
termoelettrica nella Norvegia occidentale, eppure...
Semplice, Billy T. La cosa più semplice è la migliore! Prima trova il movente, e il modo in cui è stato
possibile entrare verrà da sé.
Nessuno uccide senza un movente. Perlomeno non se l'omicidio è premeditato, perché di questo deve
trattarsi.
Non farti mettere i piedi in testa dai tipi dei servizi di sicurezza, ma non comportarti neanche tu in modo
ostile nei loro confronti.
Lassù hai già abbastanza nemici.
Per il resto devo dire che non tutti i mali vengono per nuocere.
Cecilie e io abbiamo litigato per tre giorni quando ho saputo dell'omicidio. Lei vorrebbe prolungare il
soggiorno qui. Io non ci penso neanche. È vero che amo i vecchi States, ma un anno senza lavoro può
bastare. Adesso siamo di nuovo amiche per la pelle.
D'altro canto: ormai non se ne parla più della tua attesissima visita qui. O sbaglio?
Incrocio le dita sperando in una rapida soluzione del caso. Attendo trepidante il tuo prossimo fax.
Salutami tanto Hàkon se lo vedi e digli che è in arrivo una lettera.
Baci baci, Hanne

Ore 21.13, Odins gate 3.

- Non potevo lasciarti da solo con tua madre in una sera così, - gli sussurrò mentre gli teneva il braccio in
modo distratto e fraterno intorno alle spalle. - Non ti avrebbe fatto bene!
Benjamin Grinde sorrise senza convinzione prima di legarsi un grembiule intorno alla vita.
- Scusami se ti ho telefonato stanotte, Nina. Spero di non aver rovinato il sonno a Geirr e ai ragazzi.
- Sei matto, - lo rassicurò Nina Rambol. - Hai fatto bene a chiamare! Dovevi essere fuori di te!
Si mise a rosicchiare una carota cruda, le spalle al ripiano della cucina.
- Ti fa male la schiena.
- Cosa?
- Ti fa male la schiena, - gli disse sorridendo. Adesso si era seduta sul ripiano e faceva ciondolare le
gambe.
Le scarpe piatte sbattevano contro l'anta dell'armadietto delle pentole, ma Nina sembrò non accorgersi
della ruga di disappunto apparsa sulla fronte di Grinde.
- È quello che ho detto. Agli invitati. Che avevi la sciatica e ti faceva male al punto che sei stato costretto
ad annullare la festa. Ti salutano tutti e ti fanno i migliori auguri di pronta guarigione.
- Grazie, - borbottò lui fissando sconsolato il roastbeef già cotto che era riuscito a comprare da Smor-
Pettersen dieci minuti prima della chiusura. - Volevo servire salmone in crosta. Di pasta sfoglia.
- Chi se ne frega, - commentò Nina cercando di centrare il bidone della spazzatura, per l'occasione in
mezzo alla stanza.
Sbagliò mira e l'avanzo di carota finì per terra. Sembrò avere per un attimo intenzione di saltare giù dal
ripiano, invece le venne un'idea migliore e afferrò l'abbondante bicchiere di vino rosso che aveva
accanto.
- Accidenti, quanto rumore fai quando bevi, - borbottò lui.
Con la testa inclinata Nina lo fissò da sopra il bicchiere.
- Benjamin, adesso non sei davvero tu.
Benjamin Grinde non aveva una donna. Un uomo che interpretava un accenno ammirato alla sua giacca
come un invito a parlare della qualità eccelsa della lana d'alpaca non poteva trovarne una. Aveva invece
tante amiche.
Nina Rambol era quella più cara. Aveva cinque anni meno di lui e si erano incontrati quando Benjamin
faceva il tirocinio come medico e lei era segretaria. Erano passati tantissimi anni e il marito di Nina
aveva accettato poco alla volta il fatto singolare che sua moglie avesse scelto un testimone maschio
quando si erano sposati.
- Mando a casa anche Jon e Olav? - gli domandò con voce infantilmente consolatrice mentre gli
accarezzava la schiena. - Preferisci così? Ho fatto male a lasciarli venire? Hanno insistito...
- No, no. Non è un problema...
- Ragazzi! Adesso doveeete venire qui con noi!
Quella stridula esclamazione proveniva da una donna sulla porta. Aveva in mano un bicchiere di sherry e
ondeggiava leggermente. Il volto era abbronzato e rugoso come un acino di uva passa. La pelle flaccida
delle braccia si abbattè mollemente su un top senza maniche e a fiori molto grossi quando alzò il
bicchiere per fare un brindisi. I fuseaux arancioni erano passati di moda da parecchi anni e neanche
allora si addicevano propriamente a una donna di settantadue anni.
«- Sono volata dalla Spagna come un uccellino per festeggiare il mio gioiello e tu te ne stai qui con il
muso! Dai, Ben, unisciti a noi. Vieni dalla tua mamma. Accidenti, Nina, quel vestito ti sta benissimo.
Stupendo! Ma tu hai sempre avuto gusto per i colori!
Arrancò per la stanza su un paio di scarpe tacco sette e afferrò il braccio di Benjamin. Lui si divincolò
evitando di guardarla in faccia.
- Un attimo, mamma. Arrivo subito. Prima devo finire di preparare. Di' agli altri di mettersi a tavola.
Si girò verso di lei con in mano la ciotola dell'insalata, ma poi cambiò idea e la affidò a Nina. La madre
non sembrò fare caso alla mancanza di fiducia, e tornò a sfidare il pavimento e le sue provocazioni con il
bicchiere ben alzato.
- E così incredibilmente terribile, - cominciò dopo che erano state accese le candele e il cibo passava tra
i commensali. - Piccola, dolce Birgitte. Piccola, bella Birgitte!
Si, voi ovviamente sapete che da giovani Ben e Birgitte Volter erano amici per la pelle Andava e veniva
da casa nostra, Birgitte. Era una bambina dolce e beneducata.
Questo rende le cose ancora più difficili per Ben. E così sensibile, sapete. Ha preso da suo padre. Posso
venire anch'io ai funerali, Ben? Per me sarebbe naturale andarci, parlo seriamente, è entrata e uscita da
casa mia per anni Quando sono i funerali? Li fanno in duomo, no?
Devono essere nel duomo di Oslo.
Aveva requisito la ciotola con l'insalata di patate, che alzava e abbassava a tempo con quel fiume di
parole.
La madre di Benjamin Grinde non parlava: cinguettava.
Aveva una vocina esile e il tono era insolitamente alto. E poi insisteva con il fatto di farsi chiamare
Cinciallegra.
- Noi non eravamo amici, mamma. E lei non entrava e usciva da casa nostra. Sarà stata da me forse tre
volte.
Al massimo. L'ho aiutata ogni tanto a fare i compiti.
Di rado.
Cinciallegra Grinde sollevò offesa un paio di palpebre pesanti rese ancora più grevi da troppo ombretto.
- Adesso stai dicendo soltanto sciocchezze, Ben. io non dovrei sapere chi entrava e usciva dalla mia
casa? Cosa?
Birgitte era una... un'amica di famiglia, direi. Tu ne eri così entusiasta. Un po' innamorato, insomma, ecco
quello che eri, Ben.
Fece l'occhiolino a Jon che, dopo aver rinunciato all'idea di servirsi dell'insalata di patate, si era messo a
piluccare la carne.
- Avreste potuto fare una bella coppia, l'ho ripetuto a mio marito tante volte. Peccato che quel... com'è
che si chiamava, Ben? Il marito di Birgitte? Com'è che si chiamava?
- Roy Hansen, - mugugnò Benjamin cercando di afferrare la ciotola con l'insalata di patate.
La madre, dopo avergliela tolta dal raggio d'azione, riprese:
- Roy, si. Roy. Che nome orribile. Ma chi chiama i propri figli con un nome così? Mah. Non è stato certo
un buon affare, se volete sapere cosa penso, e con questo non voglio sembrare indiscreta, figuriamoci,
non ho pregiudizi, non sono mai stata schizzinosa, ma...
Si chinò con fare confidenziale sopra il tavolo, il mento che toccava quasi l'insalata di patate, mentre con
aria da cospiratrice guardava prima l'uno poi l'altro dei commensali.
- Hanno dovuto sposarsi...
Si raddrizzò con espressione estasiata e tese l'insalata a Nina.
- Mamma!
- Accidenti! Ho parlato troppo!
Dopo essersi portata la mano alla bocca, spalancò gli occhi.
- A Ben non piacciono i pettegolezzi. Scusa Ben! Perdonerai a tua madre di non saper tenere la lingua a
freno in un giorno come questo! Auguri, tesoro mio! Auguri!
Alzò il bicchiere così bruscamente che alcune gocce di vino rosso finirono sulla tovaglia.
- Cin cin, - sorrisero gli altri guardando con compassione il festeggiato.
Squillò il telefono.
Nel momento in cui si alzò, Benjamin Grinde avvertì un senso di vertigine simile a una folata improvvisa
di vento, foriera di tempesta. Dovette appoggiarsi allo schienale della sedia. Poi si strinse il naso tra il
pollice e l'indice mentre strizzava gli occhi.
- Va tutto bene, Benjamin? - gli domandò ansiosa Nina appoggiando la mano sulla sua. - Stai male?
- Bene, bene, - rispose lui piano, sfilando la mano per andare a rispondere al telefono in corridoio.
Il giramento di testa non gli voleva passare.
- Pronto, Grinde, - disse piano chiudendo la porta che dava sul soggiorno.
- Salve! Sono la giornalista Liten Lettvik di «KA». Mi scusi se la chiamo a quest'ora di sabato sera, ma
siamo in uno stato d'emergenza per...
- Mi può trovare lunedì in ufficio.
Stava per abbassare la cornetta...
-Aspetti!
Rassegnato se la riportò all'orecchio.
- Di che si tratta?
- Del caso Volter.
- Cosa?
- Del caso Volter.
Per un attimo il mondo si fermò prima di ricominciare a ruotare a un ritmo crescente. La serie di cinque
piccole litografie appese di fronte a lui si comportava come un treno ad alta velocità: dovette guardare
per terra.
- Non ne voglio assolutamente parlare, - rispose prima di avvertire un rigurgito.
L'acidità di stomaco gli fece rattrappire la lingua.
- Senta, Grinde...
- Ho ospiti, - la interruppe con ira repressa. - Compio cinquant'anni. Questa conversazione è fuori luogo e
insolente.
Adesso riaggancio.
- Ma Grinde...
Sbang. Riagganciò con tale veemenza da incrinare la cornetta.
Dal soggiorno provenivano le risatine della madre.
- E flirta pure! Ma ci pensate! Un bel senor e davvero distinto! Non diventerà niente di serio, capite, ma
dal momento che trascorro laggiù otto mesi all'anno, è meraviglioso ricevere un po' di attenzioni!
Cinciallegra Grinde rideva, in visibilio. In quel momento apparve più chiaro che mai a Nina Rambol il
motivo per cui Benjamin Grinde, da bambino, si era sepolto in camera da letto a leggere e fare i compiti.
La madre era seduta con il bicchiere sollevato quando lui rientrò nella stanza.
- Alla salute, gioia! Chi era? Altri auguri, Ben?
Tese sopra il tavolo il braccio, carico di braccialetti d'oro intorno al polso, mentre osservava tutti-i
mazzi di fiori che erano arrivati nel corso della giornata.
- Ben?
La preoccupazione le dipinse sul volto un'espressione sconosciuta.
- Ben, c'è qualcosa che non va?
Jon e Nina, che sedevano dandogli le spalle, si girarono di colpo.
In piedi al centro della stanza Benjamin Grinde stava oscillando, pallidissimo in volto e con gli occhi che
si erano infossati così profondamente nella testa da sembrare due cavità al bagliore debole delle candele.
- Mamma! Io non mi chiamo Ben e non mi sono mai chiamato così. Io mi chiamo Benjamin!
Poi chiuse piano gli occhi e svenne.

Domenica 6 aprile 1997


Ore 07.30, nei boschi del Nordmarka, Oslo.

L'acqua lo ghermì: gli si avvinghiò appiccicosa intorno al corpo rifiutandosi di mollare la presa. Fu
costretto a respirare con l'apice dei polmoni: respiri brevi, bruschi che gli fecero accapponare la pelle. Il
cuore batteva in modo veloce e intenso dietro l'ampio torace. Avvertiva nitidamente il sangue che gli
circolava per il corpo: sentiva il pompare ritmico, pulsante che dal cuore si diffondeva nelle arterie, le»
vene e i capillari sempre più sottili, lungo le gambe, le braccia e le dita dei piedi, prima che quel liquido
rosso invertisse la marcia per abbracciare i polmoni che lottavano, pronti a ricevere nuova energia,
nuova vita. S'immerse ancora, poi si concentrò sulle bracciate, lunghe, tenaci, deciso a compiere tutto il
tratto a nuoto: in acqua era un albatro, uno squalo tigre. Battè rapidamente i piedi con movimenti simili a
quelli di un pesce ottenendo così una velocità sufficiente a fendere la superficie grigia, lucida come uno
specchio.
Non si era mai sentito così vivo. Muovendosi in modo flessuoso e uniforme, raggiunse la terraferma.
Allargò per bene le gambe su un rilievo piccolo e grigio del terreno che il passare di milioni di anni
aveva reso perfettamente liscio.
Scrutò quel paesaggio bellissimo, meraviglioso, a cui lui apparteneva. Con sguardo amorevole osservò il
proprio corpo nudo: dai piedi grandi, mascolini e ricoperti di una peluria bionda, alle spalle,
perfettamente scolpite grazie al duro lavoro e ad allenamenti ancora più duri. Quando vide il membro
mezzo eretto, scoppiò a ridere. Non c'era niente di meglio per lui dell'acqua fredda, faceva sempre il
bagno senza costume, un gesto di scherno nei confronti degli uomini che conosceva. Ma adesso era solo.
Senza asciugarsi - non si era neanche portato dietro un telo dalla casetta in legno - si girò verso lo stagno
alle sue spalle. Solo in qualche punto un pesciolino solitario fendeva la superficie creando piccoli cerchi
concentrici che si espandevano sull'acqua.
La nebbiolina del mattino si annidava tra gli alberi, che, ancora spogli come lui, sbirciavano timorosi la
propria immagine riflessa nello stagno. Qua e là qualche residuo di neve sporca si avvinghiava
tenacemente all'erica e ai ciuffi d'erba. Non ci potevano essere più di quattro, cinque gradi nell'aria, che
era umida e satura dell'inconfondibile sentore della primavera in arrivo. Sorrise mentre inspirava
profondamente con il naso.
Mai, mai prima d'allora si era sentito così felice.
Non aveva mai avuto fiducia in quell'uomo. Anche se gli era stato consigliato. Da molti, a dire il vero.
Secondo due membri del gruppo valeva la pena di avvicinarlo. Era stato lui, il capo, a opporsi. C'era
qualcosa di debole in quel tipo. Personalmente non gli aveva mai parlato, non allora, ma si era limitato a
prendere le misure a distanza. Per una giornata intera aveva pedinato la guardia giurata, ignara di tutto,
nel quartiere dove erano concentrati i ministeri. Di solito quella tattica serviva: una giornata dedicata a
spiare una persona poteva rivelare molto più di tutte le referenze di questo mondo.
Non era sicuro del motivo che aveva sbloccato la questione.
C'era un che di inaccettabilmente effeminato nel suo modo di muoversi. Inoltre si vestiva in maniera
sbagliata. In lui c'era qualcosa di molle, di debole. Forse era lo sguardo.
Aveva gli occhi castani, anche se quel dettaglio non era poi così decisivo, ma, fatto importante, il suo
sguardo vagabondava in continuazione, denotava indecisione. Irresolutezza.
«Non se ne parla neanche, - aveva deciso. - Quell'uomo è un rischio».
Misure di sicurezza. Doppi controlli. Triplici garanzie.
Tante precauzioni non erano mai state così importanti come in quel momento, ora che i servizi di
sicurezza dei traditori seduti in Parlamento erano stati costretti a distogliere l'attenzione dal vero pericolo
- quello rosso - per concentrarla su di loro.
Alla fine era riuscito a costruire qualcosa che poteva assomigliare a un'organizzazione in grado di agire.
A essere precisi non erano in molti e si fidava al cento per cento soltanto di dieci di loro, ma più che
ingrandirsi, era importante dimostrarsi forti. Il reclutamento doveva avvenire con la massima cautela. Un
potenziale membro veniva passato al setaccio per molti mesi prima che il gruppo cominciasse ad
avvicinarlo.
La guardia giurata era un sostenitore del Partito del progresso. Non era membro, ma simpatizzava
apertamente per loro. Di solito non era un buon punto di partenza.
Si, i sostenitori di quel partito condividevano il suo stesso, genuino amore per la madrepatria, ma la
maggior parte di loro erano degli idioti. E se non lo erano, soffrivano di qualcosa che lui amava definire
un rigurgito democratico.
Gli piaceva quell'espressione, l'aveva coniata lui. Gli appartenenti al Partito del progresso non
possedevano la giusta sensibilità per capire che, in caso di stretta necessità, bisognava ricorrere a mezzi
diversi da quelli permessi dall'elite norvegese al potere controllata dagli ebrei.
Così aveva detto di no. I due referenti avevano borbottato, ma la sua impressione era che avessero
accettato la sua decisione. Dovevano.
- Prima ci deve dimostrare qualcosa, - aveva concluso; da allora era trascorso poco più di un anno.
I due referenti gli avevano detto che il tipo era amico di uno che faceva parte del «Loke». A suo avviso
un raggruppamento del cazzo. Idioti affetti da romanticismo, un gruppetto di boyscout alcolizzati e
scoppiati, che bevevano troppo e tamponavano le auto dei pachistani.
Ragazzate. Erano privi di qualsiasi base ideologica: non sapevano niente e avevano letto poco più che i
gialletti con protagonista Morgan Kane. Ma la guardia faceva un lavoro interessante.
Prima d'ora non avevano mai avuto l'occasione di reclutare qualcuno che fosse così a stretto contatto con
il governo. La guardia giurata occupava un posto oltre il quale non era possibile arrivare più vicino ai
rappresentanti del potere.
Così aveva continuato i pedinamenti. Da solo e non spesso. Sapeva tutto della guardia giurata. Quali
giornali leggeva, a quali riviste era abbonato. Che armi possedeva, perché ne aveva: era membro di una
società di tiro a segno. Nella cantina della sua casa, lui, il capo, aveva un intero fascicolo contenente
informazioni sulla guardia giurata.
Sapeva persino che si scopava la figlia quindicenne del custode e che usava Boss come dopobarba.
Lentamente, molto lentamente si era avvicinato al personaggio.
Prima per caso: aveva chiesto se poteva sedersi allo stesso tavolo di un caffè che la guardia occupava in
solitudine, anche se c'era posto per quattro. Aveva tirato fuori una rivista d'armi americana. La guardia
giurata aveva abboccato e da quel momento si erano incontrati forse cinque, sei volte.
L'uomo non era ancora membro. Non era nemmeno a conoscenza del gruppo: non con certezza, non in
concreto.
Ma in qualche modo doveva aver capito che esisteva una possibilità. Lui stesso, il capo, gli aveva detto
tutto quello che poteva rivelargli senza compromettersi, senza che cominciassero a circolare voci. E la
guardia giurata aveva capito. Aveva compreso che esisteva una possibilità, anche per lui.
Adesso la cosa più importante era mantenere le distanze.
In modo totale. Nessuno doveva collegare la guardia al gruppo. Era di vitale importanza.
- Finalmente ci siamo! - esclamò Brage Hàkonsen rivolto a due corvi che spaventati si alzarono in volo
da un albero divelto.
Poi il giovane colosso si diresse a grandi passi verso la casetta di tronchi che si trovava al limitare del
bosco.
- Finalmente ci siamo!
Nella casetta aveva moltissimi fogli, scritti con cura e suddivisi in cartelline e buste trasparenti. Si
sedette, sempre senza vestirsi. Sulla pelle aveva esantemi rossi dovuti al freddo.
«Finalmente ci siamo», mormorò ancora una volta tra sé. Rimase seduto a fissare una lista composta di
sedici nomi.

Ore 08.14, Holmenveien 12.

Karen Borg fissava affascinata Billy T. Intanto, cercava con discrezione di prendere un altro filone di
pane dal freezer per infilarlo nel microonde.
- Non ce n'è più?
Si era sbafato otto fette di pane, e aveva ancora fame.
- Un attimo, un attimo, - rispose Karen selezionando sul display il programma per scongelare. - Cinque
minuti!
Trascinando i piedi, il neopromosso politimspektor Hakon Sand, giurista in forza alla polizia, fece il suo
ingresso nella cucina grande e luminosa prima di lasciarsi cadere su una sedia impagliata. Era scalzo
sotto i pantaloni neri. Aveva i capelli bagnati e alcune piccole chiazze scure sulla camicia azzurra, stirata
di fresco, indicavano che non si era neanche preso la briga di asciugarsi per bene. Arruffò i capelli
biondissimi al figlio di due anni che sedeva nel seggiolone, ma di colpo ritirò la mano fissandola con una
smorfia di disgusto.
- Karen! Ha la marmellata nei capelli!
Ridendo di gusto, Hans Wilhelm prese ad agitare la fetta di pane e marmellata di fragole prima di
chinarsi in avanti e spiaccicarla sullo sparato della camicia di suo padre.
Billy T. scoppiò a ridere alzandosi in piedi. Il bambino lo guardò entusiasta tendendo le braccia verso di
lui.
- Credo che noi due andremo a fare un giretto in bagno.
Vieni con Billy T., Hans Wilhelm?
- Bagno, bagno, - esclamò il piccolo. - Bagno con Billiti!
- Così nel frattempo lui va a cambiarsi.
- Ci sono altre camicie pulite dell'uniforme? - domandò Hàkon imbronciato mentre osservava con
espressione offesa la macchia rossa.
- Certo, - sorrise Karen.
- Hàkon! Non sei neanche capace di prenderti cura delle tue camicie?
Billy T. teneva il bimbo sopra la testa a mo' di aeroplano.
Il piccolo rideva e agitava le braccia verso il soffitto.
- Is it a bird? Is ìt a plane? No, ìt's Superman!!!
Disegnando un arco enorme, su e giù dal pavimento al soffitto, Superman volò fuori dalla porta mentre
rideva a tal punto da singhiozzare.
- Ecco fatto, - commentò Billy T. al loro ritorno: adesso il bimbo aveva i capelli bagnati e indossava una
tutina pulita. - E ora passiamo al salame.
Afferrata una delle fette di pane appena sfornate, preparò un panino come si deve per Hans Wilhelm. Per
sicurezza glielo tagliò in due.
- Non sporcare, - comandò con fare arcigno. Il piccolo mangiò tutto con una velocità degna di nota e
senza macchiare da nessuna parte.
- Ne hai di cose da imparare da Billy T., Hàkon, - constatò Karen Borg cercando di infilare il pancione
tra il tavolo e la sedia.
- Quand'è che nasce, il piccolo? - le chiese Billy T. indicandolo con il panino all'insalata russa che
teneva in mano.
- È una femmina, Billy T. Il termine è tra due settimane.
- Ma figurati, è un maschio. Lo vedo.
- Andiamo giù nel seminterrato, - li interruppe Hàkon Sand. - Ci puoi prestare il tuo studio per un attimo?
Dopo aver annuito, Karen Borg mise in salvo un bicchiere di latte che stava oscillando pericolosamente
davanti al figlio.
- Vieni.
I due uomini si scapicollarono lungo la scala angusta che portava al seminterrato ed entrarono in una
stanza molto accogliente. Era luminosa, per quanto si trattasse in realtà di una cantina la cui unica finestra
lasciava filtrare un pallido sole domenicale. Billy T. cercò di accomodarsi su una panca posta lungo una
delle pareti più lunghe, mentre Hàkon si accomodò sulla poltroncina da ufficio girevole prima di
allungare le gambe sulla scrivania.
- Accidenti che sciccheria, Hàkon, - commentò Billy T. grattandosi un orecchio. - Una bella casa, una
bella donna e un bimbo stupendo. La vita è bella!
Hàkon Sand non rispose. La casa non era sua, ma di Karen. Era lei ad avere i soldi, anche se i guadagni
come avvocato libero professionista non si potevano comparare alla fortuna che aveva racimolato ai
tempi in cui era la partner più giovane, nonché unica donna, del più grande studio legale del paese,
specializzato in diritto societario e commerciale. Anche abitare nel quartiere residenziale di Vinderen era
stata una sua idea. Come la decisione di non sposarsi. L'aveva già fatto una volta e a suo parere era stato
più che sufficiente. Forse l'arrivo del bebé numero due l'avrebbe addolcita. Hàkon emise un profondo
sospiro prima di passarsi una mano tra i capelli.
- In questo momento pagherei una follia per dormire venti ore filate.
- Altrettanto. E magari anche di più.
- Che idea ti sei fatto finora?
Billy T. si sdraiò per terra con le mani sotto la testa e le gambe sulla panca.
- Tocca a me cercare di elaborare un profilo della Volter, - disse rivolto al soffitto. - E cazzo, non è
facile. Finora ho parlato con tre ministri, quattro amici, il personale dell'ufficio, collaboratori politici, il
diavolo in persona e tutta la sua famiglia. E strano, sai...
Karen Borg si presentò sulla porta con un vassoio di caffè e biscotti. Billy T. torse il collo prima di
allargare le braccia.
- Karen, quando sei stufa di quello lì, mi trasferisco qui io.
- Non mi stancherò mai di lui, - gli rispose lei appoggiando il vassoio sul tavolo del computer. -
Perlomeno non se minacci di prendere il suo posto.
- Cosa veda in te questa donna, per me è un mistero, - farfugliò Billy T. con la bocca piena di biscotti. -
Io sono disponibile da subito.
- Cos'è che stavi dicendo, - intervenne Hàkon con uno sbadiglio. - Che c'è qualcosa di strano.
- Sì. E strano, ma è difficile farsi un'idea di qualcuno che non hai mai incontrato. La gente sembra...
dicono cose così diverse. Alcuni la definiscono intelligente, laboriosa, gentile, pragmatica. Una donna
senza un nemico al mondo.
Altri sottolineano che poteva essere scontrosa, rigida e che aveva parecchi cadaveri sulle spalle a furia
di depistare i concorrenti. Secondo alcuni, per un certo periodo circa dieci anni fa, quando la sua carriera
è decollata veramente, non rifuggiva nessun mezzo per piazzarsi al posto giusto. E con questo intendo dire
nessun mezzo. A quanto pare, sarebbe andata a letto con la persona giusta, se necessario.
Altri insistono che non è mai stata infedele. Mai.
- Chi sono questi altri?
Hàkon Sand mostrò per la prima volta un certo interesse all'argomento.
- In effetti si tratta delle persone che la conoscevano meglio, a sostenere che lei non ha mai avuto storie
con nessuno. Sembra che...
Messosi a sedere, bevve rumorosamente il caffè.
- Ho l'impressione che più la gente le era vicina, meglio parla di lei ora.
- Normale, - commentò Hàkon. - Sono le persone più care quelle a cui piacciamo di più.
- Ma sono davvero loro a conoscerci meglio?
Silenzio. Dal piano di sopra giungevano le urla del bimbo che gridava come un maialino infuriato.
- Che fatica con i figli piccoli, vero Hàkon?
L'interpellato alzò gli occhi al cielo.
- Non immaginavo che richiedesse così tanto lavoro.
Così tanta... così tanta fatica!!!
- Dillo a me, - ridacchiò Billy T. - Avresti dovuto fare come il sottoscritto. Quattro figli da quattro madri
diverse che li accudiscono quotidianamente, mentre io li ho di tanto in tanto per divertirmi con loro. Il
miglior modo per avere dei figli.
Hàkon lo guardò: nei suoi occhi Billy T. colse qualcosa che interpretò come una specie di indulgenza,
così preferì sdraiarsi nuovamente sul pavimento e continuare a ispezionare con cura il soffitto.
- Ah, - replicò Hàkon a bassa voce. - Ecco perché ogni due venerdì sei dolce come il miele e il lunedì
successivo sei acido come l'aceto dopo che li hai riportati a casa.
- Lasciamo stare, - rispose scontroso Billy T. - Lasciamo stare.
Dopo essersi alzato, Hàkon Sand versò altro caffè a tutti e due.
- Fai attenzione a non rovesciarlo, - disse osservando la tazza in bilico sulla moquette in fibra. - Cosa ne
pensi?
- Mah... - Billy T. strascicò la parola. - In linea di principio presto più fede a chi la conosceva meglio. Il
problema è che...
Si rialzò, questa volta in tutta la sua altezza, prima di allungare le mani verso il soffitto.
- Quella donna era veramente come si deve, Hàkon! Accidenti, non c'è praticamente nulla nella sua vita
per cui qualcuno potesse volerla morta. Perlomeno non così tanto da metterlo in pratica. Ucciderla,
insomma.
- Per il momento. Abbiamo parecchio lavoro da sbrigare.
Per usare un eufemismo.
Sospirò ancora. Che giornata di merda.
- Ascolta, Hàkon.
Billy T. lo sovrastava con la sua mole e quando si chinò all'improvviso appoggiando le mani sulla
superficie del tavolo, Hàkon sussultò.
- In realtà esistono soltanto due possibilità. O è stata uccisa perché era Birgitte Volter e c'è qualcuno che
voleva lei morta. Come persona, intendo dire. E fino a questo momento niente, assolutamente niente, ce lo
fa pensare. O c'è qualcuno che l'ha liquidata perché era il primo ministro. Volevano uccidere il suo ruolo,
ecco. Un attacco alla Norvegia.
Contro la politica del Partito laburista. Devo ammettere...
Si trattenne, poi deglutì.
- Devo ammettere che sembra più verosimile. Al momento.
Questo significa che i ragazzi dell'ottavo piano avranno di che divertirsi. La cosa non mi piace per niente.
Il bambino aveva smesso di urlare; adesso sentivano invece dei colpi regolari, ritmici, come di un
giocattolo che veniva sbattuto sul pavimento.
- Dimmi quello che sai di lei, Billy T.
- Merda, non mi posso sedere da nessuna parte!
- Ecco, tieni.
Hàkon Sand gli lasciò la poltroncina da ufficio e Billy T. sorrise soddisfatto.
- Avrebbe compiuto gli anni venerdì. Cazzo, sarà seppellita il giorno del suo cinquantesimo compleanno.
Si è sposata a diciotto anni con un coetaneo, suo amico d'infanzia, Roy Hansen. Sono ancora sposati. Un
figlio. Per Volter. Ventidue anni. Frequenta l'accademia militare a Fredriksvern, Stavern. Un ragazzo in
gamba, l'unico dolore che pare abbia causato ai suoi genitori è quello di essere membro dei Giovani
conservatori. Piuttosto bravo a scuola, vicepresidente di un poligono di tiro, ha ereditato il talento
organizzativo della madre.
- Poligono di tiro? Aveva accesso alle armi?
- Ovvio. Molte. Ma in questo fine settimana ha preso parte a una marcia d'addestramento in un punto
sperduto dell'altopiano di Hardanger. È stato un problema trovarlo per avvisarlo della morte della
madre. Inoltre nulla fa pensare che avesse un rapporto teso con lei. Al contrario.
Un bravo ragazzo. A eccezione della sua adesione ai Giovani conservatori, ecco. Comunque... il figlio è
al di sopra di ogni sospetto.
- Altro? - borbottò Hàkon.
- Birgitte Volter era nata in Svezia l'11 aprile 1946.
Suo padre era svedese, la madre si era rifugiata li durante la guerra. Maturità, perito commerciale, è
entrata presto nel mondo sindacale. Segreteria o qualcosa del genere al Monopolio di stato per gli
alcolici ad Hasle. Assessore a Nesodden, incarichi sempre più alti nel Sindacato dei dipendenti statali.
Eccetera, eccetera. The rest is history, come si suol dire. Creatura di Grò Harlem Brundtland. La sua
favorita. Anche se nel 1992 c'è stata battaglia.
- Amici?
- Anche questo è strano, - disse Billy T. grattandosi nuovamente l'orecchio. - Mi sa che mi sta venendo
l'otite.
Ci manca solo questa.
Fissò l'indice, che però non presentava nient'altro che una macchia d'inchiostro risalente al giorno prima.
- Hai presente le cose che leggiamo sui giornali. Queste reti di contatti, no? Tu conosci Tizio che è
amicone di Caio e Sempronio. Secondo me non può essere vero. Ne deduco che la stampa opera secondo
un concetto di amicizia diverso da quello che abbiamo io e te. In realtà quelli non sono amici, ma più che
altro compagni di partito. Sembra che di amici ne abbiano pochi, e quasi tutti provengono da altri
ambienti, persone che hanno incontrato in posti di lavoro normali, ai tempi della scuola, o cose simili.
L'unica persona nell'ambiente politico che credo fosse davvero amica di Birgitte è il presidente del
Parlamento.
- Nemici?
- Rieccoci in tema. Dipende da cosa intendi per nemici.
Cos'è un nemico? Se è qualcuno che parla male di te, allora ne abbiamo un mucchio. Ma è giusto
chiamarli così? E chiaro, Hàkon, che quando raggiungi i vertici di un partito così inquadrato come quello
laburista, molti si sentano a volte... calpestati. Ma nemici? Per non parlare di... qualcuno che decide
coscientemente di ucciderti} No. Non da quello che vedo. Non ancora, perlomeno.
- No...
Hàkon Sand andò alla finestra per socchiuderla.
- A dire il vero abbiamo lo stesso problema anche se affrontiamo il caso dall'altro punto di vista, - disse
risedendosi.
- L'altro punto di vista?
- Si... se prendiamo in considerazione... il ruolo in sé.
Non è così che l'hai chiamato? Qui in Norvegia questa ipotesi sembra così... debole. Non è molto facile
immaginarsi Anne Enger Lahnstein che progetta l'omicidio di Birgitte Volter, anche se si oppone in modo
quasi fanatico al trattato di Schengen!
Billy T. rise fragorosamente.
- Ma ci pensi? La Lahnstein modello Combat mentre striscia attraverso i condotti d'aerazione del palazzo
del governo con in bocca un coltello e la pistola alla cinta!
- No, capisci?
I capelli brizzolati di Hàkon Sand facevano fatica ad asciugarsi. Il seminterrato conservava una certa
umidità e, per quanto continuasse a scuoterli, erano ancora bagnati.
- Non può trattarsi di qualcosa di premeditato entro i confini nazionali. Qui in Norvegia non è così. E non
tiene neanche la teoria su un possibile squilibrato. Avrebbe scelto un altro posto. Santo cielo! I ministri
norvegesi possono pur contare su un minimo di misure di sicurezza a tutela della loro persona, per non
parlare degli uffici. Un pazzo l'avrebbe uccisa/won. In un negozio. A una partita di pallamano. Una cosa
così.
- Davanti a un cinema, - aggiunse Billy T. piano.
- Esatto. L'assassinio di Olof Palme è stata al confronto una sfida molto più grande per la polizia svedese
perché chiunque poteva essere l'omicida! Per quanto concerne Birgitte Volter, partiamo da un
presupposto completamente opposto.
Si fissarono prima di alzare in contemporanea la tazza di caffè, come a un segnale invisibile.
- Nessuno può aver compiuto quest'omicidio, - affermò Hàkon Sand.
- E allora proviamo a scoprire chi è questo nessuno, - concluse Billy T. - Andiamo?
La cosa non si mostrò del tutto semplice: il piccolo, che aveva due anni, si aggrappò alla gamba sinistra
di Billy T. e non aveva nessuna intenzione di mollarla.
- Bagno con Billiti! Bagno con Billiti!
Urlava come un pazzo quando i due poliziotti salirono sulla macchina parcheggiata davanti alla bella
villetta bianca in Holmenveien 12, ma smise di colpo quando si sentì un botto provenire dal tubo di
scarico della marmitta mentre la Volvo procedeva a balzelloni lungo la stradina d'accesso.
- Ciao Billiti e papà, - li salutò con un cenno della mano prima di infilarsi il pollice in bocca.

Ore 11.25, centrale di polizìa, Oslo.

Il ronzio che avvolgeva l'edificio grande e arcuato della centrale di Oslo in Grenlandsleiret 44 era a
bassa frequenza e costante: un alveare fatto di lavoro sistematico e mirato. Era come se l'intera
costruzione fosse viva. Prima d'allora non si era mai comportata così. Quel palazzo grigio, lungo e logoro
composto di sei piani ufficiali oltre alla mansarda occupata silenziosamente da uomini dei servizi di
sicurezza soto copertura e cinici, era abituato ad accogliere seicento tra funzionari e poliziotti che di
solito erano impegnati a svolgere in solitudine la propria stanca battaglia contro una criminalità che era
sempre un passo avanti e che si faceva beffe di loro. Il sole mansueto di aprile si stagliava stanco nel
cielo sopra la collina di Ekeberg, ma la centrale di Oslo sembrava aver acquisito forze nuove. Era come
se l'intero edificio si fosse dilatato in lunghezza e altezza: le finestre, dall'aspetto solitamente opaco,
scintillavano con energia, occhi socchiusi rivolti verso un mondo di cui la polizia avrebbe preferito non
sapere nulla. Le tende parasole erano sollevate, le finestre semiaperte e all'interno i presenti si stavano
avviando tutti alla spicciolata nella stessa direzione. Persino i due ultimi piani, normalmente ritirati nel
loro mondo, osavano fare capolino: non si stringevano più compatti verso il soffitto con la speranza di
evitare ulteriori scandali, altre inchieste.
- Bisogna dargliene atto, - commentò Billy T. - Il capo della polizia ha organizzato tutto in modo molto
efficiente.
Centoquarantadue poliziotti in totale erano stati assegnati a tempo pieno alle indagini sull'omicidio di
Birgitte Volter, oltre a un numero sconosciuto di agenti dei servizi di sicurezza. Sedici sottogruppi di
dimensioni variabili erano in azione alla centrale di Oslo: il più piccolo era composto da tre persone
soltanto e aveva il compito di supportare e agire in sinergia con i servizi di sicurezza. Avevano la
responsabilità di coordinare le indagini tattiche.
Tutti i servizi di sicurezza della polizia erano impegnati a spremere fonti, raccogliere e sistematizzare
informazioni, cercare di disegnare un quadro di quanto si muoveva nel sottobosco di Oslo negli ultimi
tempi. Billy T. era assistito da quattro colleghi nell'opera di tracciare un'immagine della vita di Birgitte
Volter, un incarico speciale che lui considerava molto più eccitante degli interrogatori estenuanti a cui
aveva partecipato durante le ventiquattr'ore immediatamente successive alla morte del primo ministro.
Tone-Marit Steen non apparteneva al suo gruppo.
- Perché diavolo devo interrogare io quello li? Lo hai già fatto tu come si deve, no?
Billy T. era irritato.
- Vorrei che lo spremessi anche tu, - spiegò pacata Tone-Marit porgendogli una cartellina sottile dalla
copertina verde.
- Senti un po', - replicò Billy T. respingendola di nuovo verso la collega. - Adesso non cominciamo a
invertire i ruoli. Tocca a voi occuparvi di questo genere di cose.
Dubito che questa guardia giurata sia in grado di dirci qualcosa d'importante sulla vita privata di Birgitte
Volter.
- No, ma Billy, non lo puoi prendere come un complimento? Secondo me quel tipo sta mentendo e tu sei
uno dei migliori che abbiamo. Per piacere.
- Quante volte devo dirti... - picchiò il pugno sul tavolo, - quante volte ti ho già detto che mi chiamo Billy
T.!
T.! Non soltanto Billy. Non lo imparerai mai Tone-Marit annuì con decisione e ostentando il desiderio di
chiedergli scusa.
- T. Billy T. Per cosa sta questa T.?
- Non te ne deve fregare niente, - borbottò l'interessato aprendo ulteriormente la finestra.
Tone-Marit aveva un aspetto ingannevole. Il volto era rotondo e i tratti dolci la facevano sembrare una
ventenne, invece le rimanevano solo due anni a compierne trenta.
Era alta e slanciata. Gli occhi, sottili e leggermente obliqui, sparivano quando sorrideva. Aveva giocato
venticinque partite nella nazionale di calcio femminile norvegese, come terzino sinistro. Era un ruolo che
aveva tenuto anche in servizio: un difensore solido e fidato a tutela di tutto ciò che era equo e giusto. Era
forte, era pronta e non aveva paura di nessuno.
- Adesso basta! Non tollero il modo che hai di trattarmi.
Le scintillavano gli occhi e le tremava un angolo della bocca.
- Mi tratti sempre come una merda, e ti permetti di dire e di fare tutto quello che vuoi. Non osare mai più
parlarmi così. Chiaro?
Billy T. cadde dalle nuvole.
- Calma, ragazza mia! Calma!
- Io non sono la tua ragazza! Smettila! Billy T., tu sei solo un grandissimo porco che pensa di essere così
macho!
Ti vanti di avere tutte le donne che vuoi e pensi di essere un grande playboy, ma in realtà...
Si mise a pestare i piedi. Billy T. ridacchiò, cosa che la fece imbufalire ancora di più.
- In realtà a te le donne non piacciono, Billy T. Tu hai paura di loro. Non sono l'unica a essersi accorta
che tratti in modo diverso i colleghi a seconda se sono donne o uomini.
La pensano tutti così, se lo vuoi sapere. Tu hai paura di noi, ecco cos'hai.
- Aspetta... ci sono tante donne qui che...
- Certo, certo. Una. Ce n'è soltanto una in tutta la centrale che tu rispetti per davvero, Billy T. Sua Altezza
Reale Hanne Wilhelmsen. E sai perché? Eh? Lo sai?
Per un attimo sembrò esitare, valutare se ne avrebbe avuto il coraggio. Si inumidì le labbra con la punta
rosso chiaro della lingua prima di inspirare a fondo.
- Perché non riuscirai mai a portartela a letto! Perché non è fattibile! L'unica donna che tu rispetti davvero
è lesbica, Billy T. Pensaci su!
- ADESSO FALLA FINITA!
Dopo essersi alzato, rifilò un calcio al cestino della carta che andò a sbattere contro la parete. Si fece
silenzio.
Anche nell'ufficio accanto, dove per parecchi minuti avevano sentito una conversazione animata, non
volava una mosca. Eppure Billy T. non si calmò.
- Porca puttana! Non osare parlar male di Hanne Wilhelmsen. Tu... tu non sei neanche degna di baciarle i
piedi! E non lo sarai mai!
- Non sto parlando male di Hanne, - replicò Tone-Marit tranquilla. - Per niente. Sto parlando male di te.
Se avessi avuto qualcosa da dire su Hanne, sarei andata da lei personalmente.
Adesso è di te che stiamo parlando.
- Andata da lei? Andata da lei? Come, a nuoto? Eh?
Tone-Marit cercò di trattenere un sorriso, ma gli occhi la tradirono.
- Accidenti, quanto sei infantile.
- Accidenti, accidenti, - la imitò lui con una vocina esile, alterata.
Tone-Marit scoppiò in una risata. Anche se cercava di soffocarla, era più forte di lei, le gorgogliava in
gola e alla fine le uscì di bocca, lunga e squillante, mentre le lacrime le scendevano dalle fessure sotto le
sopracciglia. Mentre si contorceva sulla sedia, tenendosi una mano sulla pancia, ondeggiava avanti e
indietro con il busto. Singhiozzava così di gusto, mentre si batteva le mani sulle cosce, che neanche Billy
T. riuscì a trattenersi. Ridacchiava imprecando.
- Parlerò con quel tipo, - borbottò alla fine afferrando la sottile cartellina verde. - Dov'è?
- Vado a prenderlo, - rispose Tone-Marit asciugandosi gli occhi. Non riusciva a smettere.
- Vedi di muovere il culo, - disse Billy T.
Ma sorrise mentre lo diceva.
- Dovresti parlare con uno psicologo, - mormorò Tone-Marit mentre si richiudeva la porta alle spalle, ma
lui non la sentì.

Ore 11.30, Ole Brumms vei 212.

- Non lo trovo da nessuna parte, - disse Roy Hansen alla poliziotta con le trecce e due grandi occhi
azzurri.
- Mi spiace.
- E ha cercato dappertutto? - domandò inutilmente la giovane, che ricordava un personaggio del racconto
Synnove Solbakken, «la fattoria del sole», mentre giocherellava con il berretto dell'uniforme.
- Certo. Ovunque. Borse, armadi, tasche. Cassetti.
Aveva provato un dolore immenso: aveva sentito l'odore della moglie nei vestiti, l'intero guardaroba
profumava di Birgitte, e quella crosta sottile e fragile che si era formata sulla ferita sanguinante che gli si
era aperta dentro venerdì sera era stata strappata via di colpo. Le sue borse, piene di oggetti noti. Il
portachiavi scoobydoo che le aveva intrecciato la sera in cui avevano compiuto vent'anni: un doppio
nodo che non si era mai sciolto e su cui lei scherzava affermando che era solido come l'amore che
provavano l'un per l'altra. Un rossetto rosso scuro quasi inutilizzato, e per un attimo se l'era immaginata,
il movimento rapido, abituale, sulle labbra. Il biglietto di una rappresentazione al teatro Det Norske,
vecchio e sbiadito, in una sera che si sarebbe ricordato per tutta la vita: l'averlo trovato gli aveva
impedito di continuare le ricerche, era rimasto solo in camera da letto ad annusarlo e a desiderare di
ritornare indietro nel tempo fino al momento in cui erano stati catturati dal Grande Progetto: la carriera
politica di Birgitte.
- Il badge d'accesso non è qui. Mi spiace.
Sul divano era seduto un giovane, che secondo le deduzioni della poliziotta doveva essere il figlio.
Indossava l'uniforme ed era paurosamente pallido. Cercò di sorridergli, ma lui fissava un punto oltre lei.
- Allora lasciamo stare. Forse l'ha semplicemente perso.
Mi scuso davvero per il disturbo.
Dopo che Roy Hansen le ebbe richiuso la porta d'ingresso alle spalle, la poliziotta rimase in piedi sulle
scale a pensare. Venerdì la Volter si era dimenticata il badge.
Questo punto era stato chiarito. Eppure avevano passato al setaccio il suo ufficio e lì non c'era. Doveva
essere delle stesse dimensioni di una carta di credito, ma con tanto di foto e di striscia magnetica sul
retro. Un normalissimo badge come ce l'avevano tutti i dipendenti dello stato. E che non si trovava
neanche nell'abitazione del vedovo. Strano.
Mah, il primo ministro poteva averlo smarrito. Punto.
Poteva averlo lasciato da qualche parte della villetta a schiera a cui il marito non aveva pensato. In fondo
aveva appena perso la moglie e non era in grado di ragionare in modo lucido.
La poliziotta si sedette in macchina e infilò la chiave per accenderla. Per un attimo s'irrigidì prima di
decidersi ad avviare il motore.
La tormentava il fatto di non essere riuscita a trovare il badge.

Ore 12.01, centrale di polizia, Oslo.

Billy T. aveva la luna storta. L'uomo seduto all'altro lato del tavolo non aiutava a migliorargli l'umore.
- Vediamo di ripetere un'altra volta, - disse bruscamente il detective cercando di catturare lo sguardo
evasivo dell'interrogato. - E partito un allarme. Dalla stanza delle riunioni attigua a quella usata dal
primo ministro per riposare. Ore...
- Ore cinque e trentasette. Se non mi credete, potete leggere il registro.
- Cosa diavolo ti fa supporre che io non ti creda? - replicò Billy T. - Guardami!
La guardia giurata non alzò la testa, ma sollevò legger - mente gli occhi.
- Perché non dovremmo crederti?
- Perché allora mi avete convocato qui per la seconda volta? - rispose imbronciato l'uomo che, secondo
le carte che Billy T. teneva davanti a sé, aveva ventisette anni e qualche mese.
La guardia era un personaggio strano. Non era propriamente brutto, ma tutt'altro che bello sì. Anche se
non era ripugnante, c'era qualcosa in tutta la sua persona di impalpabilmente sgradevole. Il viso era
sottile, il mento aguzzo e avrebbe dovuto lavarsi i capelli. Gli occhi avrebbero anche potuto essere belli
se l'uomo avesse affinato lo sguardo. Le ciglia erano lunghe e scure.
Billy T. non era riuscito a stabilirne l'età fino a quando non aveva controllato i dati. Poteva avere
vent'anni, come quaranta.
- Allora capirai anche che la tua testimonianza è fondamentale!
Billy T. afferrò uno schizzo che rappresentava il quindicesimo piano, una copia dei lucidi che il capo
della polizia aveva mostrato loro il giorno prima.
- Guarda!
Gli indicò la stanza delle riunioni, che era separata dall'ufficio del primo ministro da una molto più
piccola, quella per il riposo.
- Tu eri qui. A un'ora cruciale. Raccontami cosa è successo.
La guardia giurata sbuffò come un cavallo, gocce di saliva caddero sulla scrivania e Billy T. fece una
smorfia.
- Quante volte glielo devo ripetere? - commentò la guardia con irritazione.
- Tutte le volte che lo decido io.
- Posso avere qualcosa da bere? Un bicchiere d'acqua?
-No.
- Non ho neanche diritto a un bicchiere d'acqua?
- Non hai diritto a niente. Se vuoi, ti puoi alzare e lasciare la centrale. Sei un testimone e noi dipendiamo
dal fatto che tu deponga liberamente. Cosa che dovresti fare!
E subito!
Picchiato un pugno sulla scrivania, Billy T. strinse i denti con violenza: le mani gli facevano male dopo
lo scoppio d'ira di mezz'ora prima e il dolore gli trapanò gli avambracci.
Servì. La guardia giurata si diede letteralmente una raddrizzata: si tirò su sulla sedia, poi prese a
spazzolarsi le spalle.
- Ero seduto al pianterreno. Al posto di guardia. Poi è scattato l'allarme nella sala riunioni. Sono allarmi
silenziosi, si sentono soltanto giù da noi. Scattano in continuazione, ogni due giorni, e quindi non gli
diamo troppo peso.
Parlava rivolto al bordo della scrivania.
- Comunque dobbiamo controllare, ovvio. Sempre.
Così sono salito... cioè, in realtà dovremmo sempre essere in due a controllare, ma avevamo avuto una
giornata molto movimentata per via dei lavori di ristrutturazione e il mio collega si era addormentato.
Così sono andato da solo.
Adesso stava cercando di comunicare con il cestino della carta, che dopo i maltrattamenti subiti era
ritornato nel suo angolino.
- Così ho preso l'ascensore fino al quattordicesimo piano perché era quello che dormiva ad avere le
chiavi dell'ascensore che sale fin lassù. Ho salutato il collega dietro il gabbiotto e ho fatto le scale fino al
quindicesimo piano.
- Fermati un attimo.
Billy T. agitò la mano piatta.
- È possibile salire fino al quindicesimo piano con l'ascensore? Senza passare davanti all'uomo che siede
nel gabbiotto di vetro?
- Si, anche fino al sedicesimo. Ma bisogna avere la chiave. Senza, l'ascensore arriva soltanto fino al
quattordicesimo piano.
Billy T. si domandò come mai quella possibilità non fosse stata citata durante la riunione del giorno
prima te nuta dal capo della polizia. Per il momento lasciò cadere la questione: chi di dovere aveva per
forza preso nota di una via d'accesso così evidente per raggiungere l'ufficio del primo ministro. Dopo
aver scarabocchiato velocemente la parola «ascensore» su un post-it giallo, lo appiccicò sul paralume
della lampada.
- Continua, - gli chiese.
- Si, sono entrato nella sala riunioni e non c'era nessuno.
Il solito contatto che non funziona. Non hanno mai fatto riparare il sistema.
- La porta che dava sulla stanza era aperta?
La guardia giurata lo fissò di colpo, per la prima volta.
Esitò e Billy T. avrebbe scommesso di avergli visto una piccola contrazione sulla guancia.
- No, era chiusa. L'ho aperta per guardare dentro, è il mio compito, per controllare se ci si era nascosto
qualcuno, ma era vuota. La porta che da sulla stanza per il riposo e che a sua volta da sull'ufficio del
primo ministro era chiusa. Quella non l'ho toccata.
- E poi?
- E poi... si, sono risceso. È tutto.
- Perché non hai parlato con la segretaria seduta nell'anticamera?
- La segretaria nell'anticamera? Perché avrei dovuto farlo?
La guardia giurata sembrava genuinamente sorpresa, ma aveva già distolto lo sguardo e stava studiando
qualcosa sul petto della camicia di Billy T.
- Di solito non lo... a proposito! Non c'era.
- Si invece. È rimasta al suo posto per tutto il pomeriggio e la sera.
- No, non c'era!
La guardia scosse energicamente il capo.
- Magari era in bagno, che ne so io, comunque li non c'era. Se c'era, l'avrei vista... - chinatosi sullo
schizzo, indicò con il dito, - l'avrei vista da qui.
Billy T. si masticò la guancia.
- Mmmh... ah.
Preso il bigliettino appiccicato sulla lampada da ufficio, scarabocchiò la parola «gabinetto?» prima di
rimetterlo al suo posto.
- Poi sei sceso. Per tornare al... com'è che l'hai chiamato?
- Posto di guardia.
-Ah.
Dopo essersi girato verso uno scaffale di alluminio smaltato, Billy T. prese un termos e si versò del caffè
fumante in una tazza su cui era raffigurato Puccini. La guardia giurata gli lanciò un'occhiata interrogativa a
proposito della tazza, ma non ebbe risposta.
- Vedo che ti interessano le armi, - proseguì Billy T., soffiando rumorosamente sul liquido bollente.
- Si vede così tanto? - commentò acido l'interpellato mentre guardava l'orologio.
- Divertente. Sei una persona spiritosa, vero? Le carte, sai, è scritto qui. So molte cose su di te, capisci?
Ho persino il tuo nulla osta sicurezza.
A mo' di provocazione gli agitò davanti un foglio prima di infilarlo in fondo alla pila di documenti.
- Ma non dovete averlo voi, - disse irato l'altro. - Non è da regolamento!
Con un ampio sorriso Billy T. puntò lo sguardo negli occhi dell'uomo, che adesso non aveva più la
possibilità di scappare.
- Ascolta una cosa. In questo momento qui alla centrale non siamo così scrupolosi per quanto riguarda il
regolamento.
Se hai qualcosa di cui lamentarti, provaci pure.
Vedremo se abbiamo personale a disposizione. Ho comunque i miei dubbi. Che tipo di armi possiedi?
- Ne ho quattro. Tutte registrate. Tutte legali. Sono tutte a casa, se vuole venire con me, così...
Si fermò di colpo.
- Così cosa?
- Le posso portare qui, se vuole.
- In effetti mi piacerebbe, - commentò Billy T. - Ma voglio sottolineare il fatto che in questo caso si
tratterebbe di un atto del tutto volontario da parte tua. Io non te lo impongo.
L'uomo borbottò qualcosa che Billy T. non riuscì a sentire.
- Un'altra cosa, - disse all'improvviso il detective. - Conosci Per Volter?
- Il figlio del primo ministro?
- Sì. A proposito, come facevi a saperlo?
- Ho letto i giornali, no? Un mucchio, negli ultimi giorni.
No, non lo conosco.
Tutta la sua persona sembrò in preda a un'inquietudine improvvisa: si mise a far oscillare il piede
sinistro sopra il destro con movimenti veloci, irritanti.
- O meglio, - aggiunse di colpo. - So chi è. Un buon tiratore. Da gara.
- Questo significa che lo hai incontrato?
La guardia giurata ci mise così tanto tempo a rifletterci sopra da destare attenzione.
- No, - rispose guardando per la seconda volta dritto negli occhi di ghiaccio di Billy T. - Non l'ho mai
incontrato.
Mai in tutta la mia vita.

Ore 14.10, Motzfeldts gaie 14.

Gli altoparlanti del computer emisero una musichetta elettronica veloce prima di passare a una specie di
ululato più prolungato e contenuto. Liten Lettvik si diresse lentamente nel suo studio avvolta da un
asciugamano ampio e con un cigarillo all'angolo della bocca. Il computer ci mise un po' di tempo a
scaricare il messaggio in arrivo e quando sull'angolo destro dello schermo apparve l'icona raffigurante
una busta, ci cliccò subito sopra.
La mail non aveva mittente. Dopo aver spostato il cursore sulla riga più alta, cliccò altre due volte.
Il mandato d'arresto.
Konrad Storskog aveva mantenuto la promessa.
Lei non sapeva se avrebbe fatto lo stesso con la sua.

Ore 16.30, centrale di polizìa, Oslo.

- Comincio a essere stufo marcio di queste conferenze stampa, - borbottò il politiinspektor Hàkon Sand.
Il capo dell'Ufficio relazioni esterne della centrale proveniva da un lavoro ben retribuito al quotidiano
«Dagbladet» e aveva stupito tutti quando aveva accettato di accollarsi l'ingrato compito di informare
l'opinione pubblica su quello che la polizia non riusciva a fare.
- Briefing con la stampa, Hàkon. Non conferenza stampa, - puntualizzò mentre teneva aperta la porta
dell'anticamera del capo della polizia.
- Ma quattro volte al giorno? È necessario?
- Il miglior modo per evitare supposizioni. A proposito, te la sei cavata bene. Ti dona l'uniforme! E
adesso abbiamo quattro ore prima della prossima. Non sei felice?
- E fino ad allora non avremo niente di nuovo, - commentò Hàkon Sand passandosi un dito nel colletto,
l'eterno colletto in fibra sintetica che gli arrossava e irritava il collo.
Nella stanza c'erano sei uomini. Uno di loro stava armeggiando con un proiettore mentre un altro tentava
di scoprire come funzionavano le veneziane. Non ci riuscì e alla fine dovette chiamare la segretaria, che
nel giro di trenta secondi oscurò il locale e accese la luce prima di richiudersi la porta alle spalle.
- Abbiamo ricevuto il referto provvisorio dell'autopsia, - esordì il capo della polizia, la cui barba incolta
stava diventando folta e nera. - E comunque piuttosto preciso.
Avevamo ragione riguardo all'ora in cui è avvenuto l'omicidio. Tra le cinque e mezzo e le sette. Per il
momento non è possibile precisarla ulteriormente, è difficile visto il considerevole sbalzo di temperatura
della stanza.
Fece segno a Hàkon Sand, che alzatosi accese il proiettore.
Sulla parete apparve un'immagine. Una foto in primo piano della testa del primo ministro Birgitte Volter.
Tra i capelli biondi si vedeva chiaramente un foro piuttosto piccolo e rotondo, dai margini neri, e un filo
di sangue rappreso tra i capelli. Il capo della polizia fece un cenno al capo della Omicidi, che illuminato
dalla luce proveniente dal proiettore estrasse una bacchetta snodabile.
- Come potete vedere, il foro d'ingresso è piccolo. Il proiettile si trovava qui...
Cliccò su un telecomando e apparve una nuova immagine.
Sotto i capelli si vedeva nitidamente un leggero rigonfiamento, grande pressappoco come un grosso
foruncolo.
- È penetrato nella tempia, ha attraversato il cervello e il cranio sull'altro lato, ed è rimasto conficcato di
traverso in questo punto, proprio sotto la pelle. Birgitte Volter è morta all'istante.
Cliccò nuovamente.
- Ecco la pallottola.
Aveva un aspetto modesto, anche se era ingrandita molte volte: un centimetro bianco e nero posto di lato
mostrava il piccolo calibro del proiettile.
- La cosa strana è... - riprese, ma si interruppe. - No, analizziamo prima le conclusioni dei tecnici.
Un nuovo clic fece comparire un disegno raffigurante una donna seduta su una poltroncina da ufficio con
le mani sulla scrivania. Dietro di lei c'era un uomo senza volto, che impugnava un'arma, un revolver, e
glielo puntava alla tempia.
- Questo è quello che deve essere successo. L'arma deve aver toccato la tempia nel momento in cui è
partito il colpo.
Lo possiamo vedere dalle bruciature presenti nel punto d'entrata del proiettile, il che significa che
l'assassino doveva trovarsi in piedi dietro di lei. Davanti non c'era evidentemente spazio.
La bacchetta si abbattè sul disegno della scrivania.
- Non vogliamo trarre conclusioni affrettate, ma sembra che...
- Una situazione d'estorsione, - intervenne Hàkon Sand.
Gli altri uomini lo guardarono. Il capo dei servizi di sicurezza, che ora indossava un abito grigio carbone
e una cravatta rossa, chiuse gli occhi respirando così pesantemente dal naso da produrre un sibilo.
- Sì, così parrebbe. Inoltre...
Apparve un'altra foto, questa volta la ferita causata dal proiettile alla testa del primo ministro, e che
ingrandita migliaia di volte si mostrò loro simile a una bocca spalancata.
-... qui vediamo resti di fibre. Fibre di lana, a quanto pare. Supponiamo che provengano dallo scialle che
indossava Birgitte Volter e che per il momento non abbiamo ancora ritrovato. Fibre di lana nere e rosse.
Questo significa che...
- Che le hanno sparato attraverso lo scialle? - domandò Hàkon Sand. - Lo aveva in testa?
Il capo della Omicidi sembrava irritato da quelle interruzioni.
- Suggerisco di rimandare la discussione a dopo, - commentò acido mentre agitava la bacchetta, che di
colpo rimase incastrata nel gancio di un quadro tolto per l'occasione. - No, non aveva lo scialle sulla
testa, lo portava sulla spalla, ma potrebbe averlo avuto sul capo proprio in quel momento, quasi a mo'
di...
- Cappuccio, - borbottò Hàkon Sand. - Era accecata.
Dall'assassino.
- Esatto, - intervenne il capo dei servizi di sicurezza aggiustandosi la cravatta prima di sporgersi in
avanti. - Il nostro uomo può averle coperto la testa con lo scialle per spaventarla ulteriormente. È una
tattica nota quella di impedire alla vittima di vedere. Tende a confondere noi esseri umani. Mi riferisco
al buio.
- E adesso arriviamo al punto che a nostro parere è il più singolare di questo caso.
Il capo della Omicidi aveva palesemente deciso di non farsi fuorviare da quelle interruzioni
intempestive.
- Il calibro.
Riapparve sulla parete la foto della pallottola.
- E troppo piccolo.
Il capo della polizia si era alzato in piedi per spostarsi accanto alla finestra, da dove guardava nella
stanza mentre si grattava le reni.
- Cosa intendi dire con troppo piccolo?
- 7,62 millimetri. Piccolo. Il calibro più comune per le armi leggere è il 9 millimetri. O il.38, come
dicono negli Stati Uniti. Ma con dei proiettili di calibro così piccolo non è affatto certo... - si grattò la
fronte esitando un po' troppo a lungo. - Non è affatto certo che sarebbe morta!
Senza alzarsi, Hàkon Sand chinò eccitato il busto in avanti.
- Ecco, - mormorò rassegnato il capo della Omicidi guardando il soffitto.
- Una volta mi sono trovato ad affrontare un caso simile, - riprese Hàkon Sand. - Un uomo che si era
sparato due volte alla testa. Due volte! Il primo colpo era penetrato nel cervello senza provocare danni
mortali, perlomeno non da ucciderlo all'istante. Ma perché...
Adesso fu lui a esitare e il capo della Omicidi a intervenire.
- Si, esattamente. Perché una persona che aveva intenzione di uccidere il primo ministro ed è stata
abbastanza astuta da penetrare nell'ufficio forse più sorvegliato della Norvegia si porta dietro un'arma
che a rigore non è adatta?
E non solo...
Con la punta rossa della bacchetta disegnò un cerchio intorno al proiettile.
- Si tratta di un calibro molto raro. Qui in Norvegia, perlomeno. Non lo si può comprare direttamente,
anche se ovviamente lo si può ordinare.
- Ma se, - cominciò il capo della polizia dirigendosi verso la parete che fungeva da schermo, - se
quell'uomo ha compiuto una qualche forma di estorsione... voglio dire, se è andato da lei per ricattarla,
non per ucciderla... qual era il suo obiettivo? E perché l'ha uccisa, se non era quella la sua intenzione
iniziale?
Nella stanza si fece silenzio; si sentiva odore di chiuso.
Il capo della polizia premette un tasto del telefono.
- Caffè, - disse, premendo una seconda volta.
Due minuti dopo i sei uomini erano seduti intorno al tavolo per le riunioni del capo della polizia a bere
caffè.
Alla fine, appoggiata la tazza, il capo dei servizi di sicurezza si schiari la voce.
- Il re di Giordania sarebbe dovuto venire qui mercoledì' prossimo. In incognito.
Gli altri si guardarono l'un l'altro; il capo della polizia fissò intensamente il responsabile della Direzione
centrale della polizia criminale, un uomo generoso dai capelli rossi, che, fatto insolito, era rimasto in
silenzio durante l'intera riunione.
- Un tentativo di salvare gli ultimi brandelli dell'accordo di Oslo, - continuò il capo dei servizi di
sicurezza Ole Henrik Hermansen dopo una breve pausa in cui si guardò in giro, evidentemente a caccia di
qualcosa. - È permesso fumare?
- A dire il vero, no, - disse il capo della polizia grattandosi la testa. - Ma per oggi va bene.
Andò a prendere un posacenere di vetro dal cassetto della scrivania e lo appoggiò davanti a Hermansen,
che si era già acceso una sigaretta.
- Dopo la morte del primo ministro Volter, la visita è stata ovviamente cancellata. Può essere una pista.
D'altro canto: c'erano modi molto meno drammatici per fermare il re di Giordania. Se ci fosse stata una
fuga di notizie sulla sua visita, una minaccia telefonica fatta a noi... sarebbe stato più che sufficiente.
I cerchi di fumo crearono una catena di aureole sopra la sua testa.
- Poi ci sono gli estremisti di destra. Come sapete, hanno cominciato a muoversi. I giornali esagerano, ma
abbiamo la certezza che almeno due, tre gruppi sono abbastanza convinti da pianificare un omicidio.
Finora li abbiamo considerati cani sciolti, troppo poco fanatici. Il quadro non sembra più corrispondere
alla realtà.
- Ma...
Hàkon Sand agitò l'indice come un esaminando troppo zelante.
- Se fossero loro i responsabili, perché non hanno... rivendicato l'omicidio? Lo scopo di un'azione del
genere non perde di significato se nessuno sa chi lo ha commesso?
- Il punto è proprio quello, - disse Ole Henrik Hermansen senza guardare Hàkon Sand. - Ci eravamo
aspettati una comunicazione. Che non è arrivata. Però se davvero si tratta di uno o più di questi gruppi ad
avere commesso l'omicidio, avremo un problema gigantesco.
- I funerali, - precisò stancamente il capo della polizia.
- Esattamente. Il primo ministro è in testa a queste cosiddette liste della morte. Tutti gli altri che vi
compaiono, e con questo intendo dire tutti gli altri, saranno presenti alla cerimonia funebre.
- E allora potrebbe scoppiare l'inferno, - commentò il capo dell'Antiterrorismo, un tipo corpulento, dai
capelli neri.
- Esatto, - rispose il capo dei servizi di sicurezza schiacciando la sigaretta con un gesto deciso. - Questo
potrebbe essere il motivo per cui non hanno rivendicato ancora nulla.
Aspettano. È possibilissimo, certo. Assolutamente possibile.

Ore 21.39, Stolmakergata 15.

Non potendo carezzarmi, le manine componesti in croce!


E tu sei morto senza sapere quanto t'amava questa tua mamma!
Billy T. si trovava in una cameretta che sembrava ancora più angusta per via dei letti a castello posti su
ogni lato, e la cui distanza era di poco superiore al mezzo metro.
Per un attimo smise di risistemare le lenzuola: con la testa tra le mani si appoggiò al letto più alto. La
musica rimbombava in tutto l'appartamento. Aveva gli altoparlanti in ogni stanza. Anche in quella dei
ragazzi, sebbene i suoi tenaci tentativi di insegnare ai quattro figli di età compresa tra i sei e gli otto anni
ad amare la lirica per il momento non avessero avuto successo.
Suor Angelica piangeva per la morte di suo figlio nell'opera centrale del Trittico di Puccini mentre Billy
T., portain italiano nel testo, come anche i versi successivi [N.d.T.]. tosi il lenzuolo sul viso, chiudeva gli
occhi che gli bruciavano dietro le palpebre. Da venerdì mattina aveva dormito cinque ore: un sonno
agitato, durante il quale aveva continuato a rigirarsi nel letto sentendosi al risveglio ancora più stanco di
quando si era coricato. Presto avrebbe dovuto capitolare davanti al Roipnol che teneva nell'armadietto
del bagno come una specie di salvagente: non lo usava da un anno.
Si strofinò il lenzuolo sulla faccia. Gli occhi gli bruciavano sempre più. I ragazzi avrebbero dovuto
trascorrere il fine settimana con lui. Con pazienza e con la comprensione di piccoli ometti, i quattro
fratellastri avevano accettato di essere riportati a casa delle rispettive madri sabato mattina, dopo che
con un brevissimo preavviso la sorella di Billy T. era venuta a fare loro da babysitter il venerdì sera.
- Papà troverà l'assassino, - aveva spiegato il maggiore, Alexander, ai più piccoli. - Lo troverà lui. Vero,
papà?
Adesso papà era stufo. E dispiaciuto. Si trascinò in soggiorno per lasciarsi cadere sull'unica poltrona
decente della casa: enorme, di fabbricazione inglese e dalla pelle logora.
Dopo aver appoggiato le gambe sul tavolino, vecchio e rovinato, comprato in un mercatino delle pulci,
alzò il volume dell'imponente stereo con il telecomando.
M'ha chiamata mio figlio!
Dentro un raggio di stelle m'è apparso il suo sorriso, m'ha detto: Mamma, vieni in Paradiso!
Addio! Addio!
Addio, chiesetta! In te quant'ho pregato.
Sedeva con il libretto davanti a sé, anche se lo sapeva praticamente a memoria. Il libricino spariva quasi
nelle sue mani enormi. Rimase seduto apatico a fissare nel vuoto.
Sentì a malapena suonare il campanello. Cercò irritato di scoprire che ore fossero: alla fine gli occhi
trovarono l'orologio del forno mentre abbassava il volume.
- Sì, si, - disse mentre suonavano una seconda volta senza dargli il tempo di raggiungere la porta
d'ingresso.
Stava armeggiando con la serratura di sicurezza quando lo squillo riecheggiò una terza volta.
- Si, si, - sibilò spalancando l'uscio.
La prima cosa che vide fu un enorme borsone da marinaio.
In cima non era neanche legato per bene e un grosso maglione di lana stava cercando di uscirne con la
forza.
Poi vide un paio di stivali, bellissimi, insoliti, di pelle di serpente con le punte in argento. Alzò lo
sguardo.
La donna che gli stava davanti sorrideva. Aveva i capelli di media lunghezza, castani, e gli occhi blu con
un cerchio nero intorno all'iride. La giacca di pelle era chiara e nuova, con le frange corte sul petto e i
ricami tipici degli indiani d'America sulle tasche. La donna era abbronzata: una tinta opaca, dorata, senza
ombra di arrossature, come di chi ha trascorso molto tempo in zone particolarmente soleggiate. Dagli
occhi partiva una linea bianca che proseguiva lungo le tempie. Scoppiò a ridere.
- Sembra che hai visto un marziano! Posso stare da te?
- Hanne, - sussurrò Billy T. - Non ci posso credere! Hanne!
- It's me, all right! - rispose lei. Scavalcato il borsone, lui l'afferrò e, dopo averla sollevata, ritornò
nell'appartamento.
La lasciò cadere sulla poltrona, prima di spalancare le braccia e ruggire:
- Hanne! Che ci fai qui? Quando sei arrivata? Rimani a lungo?
- Ti spiace portare dentro il borsone?
Dopo aver eseguito, Billy T. spense la musica.
- Vuoi qualcosa? Qualcosa da bere?
Si sentiva come un bambino e si scoprì ad arrossire di gioia, cosa per lui del tutto insolita, ma per
qualche strana ragione alquanto piacevole. Hanne Wilhelmsen era tornata.
Era tornata a casa. Avrebbe potuto abitare da lui. Nel frigorifero erano rimaste mezza pizza fatta in casa
il venerdì e cinque lattine di Ringnes. Ne prese due, accese il forno e lanciò una birra alla donna seduta
in poltrona.
- Racconta, - le disse dopo essersi seduto per terra vicino a lei. Incrociò le braccia sulle sue ginocchia e
prese a fissarla negli occhi. - Quando sei arrivata?
- Proprio adesso. Un mucchio di ritardi e sono stanca morta. Ma che ore sono?
Senza aspettare la risposta gli passò di colpo una mano sul cranio rasato.
- È così bello vederti, Billy T.! Come stai?
- Bene, bene, - disse lui impaziente. - Ricominci a lavorare?
Subito?
- No, sono in permesso fino a Natale e ritorno in California.
Tra un po'. Ma non sono riuscita a stare lontana.
Cecilie l'ha capito. Si è resa conto che sarei impazzita a rimanermene là con tutto quello che...
Agitò la lattina formando un arco intorno a sé, si sentì il rumore della birra.
- Non potevo lasciarti da solo con questo caso. Potrei darti una mano come una specie di... freelance?
Così non sarai più solo.
- Solo?
Le trapanò il grembo con la testa mentre le stringeva le gambe e si agitava tutto, scuotendo entrambi.
- Ma se siamo quasi duecento poliziotti!
- Ma nessuno come me, - rispose Hanne Wilhelmsen ridendo.
La sua risata. L'assorbì tutta dentro di sé: un trillo basso e piacevole che gli si insinuava nelle orecchie e
nel cervello, diffondendosi gradevolmente lungo la spina dorsale.
L'ispettore capo Hanne Wilhelmsen era tornata. In Norvegia.
A Oslo. E voleva aiutarlo.
- Sono così felice che tu sia qui, - le sussurrò. - Ho...
Si fermò per grattarsi la schiena.
- Hai sentito la mia mancanza. E io altrettanto. Dove dormo? Abbiamo affittato l'appartamento, spero che
non ci siano problemi se mi trasferisco qui.
- Dipende, - commentò Billy T. - Accetti il rischio di dividere con me il lettone o preferisci uno dei letti
a castello dei ragazzi?
- La seconda è più sicura, - disse lei sbadigliando rumorosamente. - Ma prima ci apriamo una bottiglia di
vino, eh?
Fissò la lattina di birra che aveva toccato a malapena.
- In effetti in questo momento non c'è cosa al mondo che vorrei più di stappare una bottiglia di vino con
te.
Nessun'altra.
- E anche un po' di pizza, - ridacchiò Billy T. - Che ho fatto con le mie mani.
La sveglia sul comodino diffondeva una pallida luce verdognola. Segnava le quattro e cinque del mattino.
Billy T. dormiva scoperto e giaceva in diagonale nel letto costruito su misura. Indossava un paio di boxer
e la maglietta da football americano, regalo di Cecilie, quella dei San Francisco 49CTS, taglia xxxl.
Russava leggermente con la bocca aperta. Hanne rimase in piedi a guardarlo. Per un attimo fu sul punto di
cambiare idea, poi gli si avvicinò furtivamente per coricarsi accanto a quel corpo enorme.
- Faccio brutti sogni, - gli sussurrò. - E poi il materasso è troppo duro.
Dopo aver schioccato le labbra, lui si spostò su un lato del letto matrimoniale. Poi, rovesciato il braccio
sinistro su di lei, borbottò:
- Lo sapevo che sarei riuscito a portarti a letto.
Hanne ridacchiò nel buio. E si addormentarono, tutti e due.

Lunedì 7 aprile 1997


Ore 09.15, Corte Suprema.

Benjamin Grinde fissò il presidente della Corte Suprema e scosse debolmente la testa.
- Non so davvero cosa dire. Come ti ho spiegato ieri al telefono, la polizia ha ammesso che si è trattato di
una grave negligenza. Come l'abbia scoperto la stampa, mi è del tutto ignoto.
Il presidente della Corte Suprema teneva il giornale sollevato all'altezza del viso. Le lenti degli occhiali
erano molto forti e rendevano i suoi occhi piccolissimi: adesso erano addirittura socchiusi.

IMPUTATO GIUDICE DELLA CORTE SUPREMA


Benjamin Grinde è stato l'ultimo a vedere la Volter in vita
La polizia ha negato ostinatamente per quasi tre giorni di aver arrestato qualcuno in connessione al caso
Volter e questo non corrisponde al vero. La verità che sia la polizia sia il giudice della Corte Suprema
Benjamin Grinde hanno cercato disperatamente di nascondere, è che Grinde è stato di LITEN LETTVIK
TROND KJEVIK (foto) arrestato nella tarda serata di venerdì nella sua abitazione.
Già mezz'ora dopo che era stato ritrovato nel suo ufficio il corpo senza vita del primo ministro Birgitte
Volter, è stato spiccato un mandato d'arresto nei confronti del giudice della Corte Suprema Grinde (vedi
facsimile). Il noto magistrato, che presiede anche la cosiddetta commissione Grinde, istituita dal
Parlamento lo scorso autunno, in base agli elementi in possesso è stato l'ultimo a vedere il primo ministro
in vita. Grinde, che si rifiuta di pronunciarsi al riguardo con «KA», sostiene, da quanto sappiamo, che la
sua visita a Birgitte Volter nell'ufficio del primo ministro nel tardo pomeriggio di venerdì fosse dovuta a
una pura richiesta di routine. Allo stesso tempo la polizia non vuole confermare queste parole. Alla
centrale di Oslo il mandato d'arresto è circondato da un muro di silenzio. Il capo della polizia Hans
Christian Mykland sostiene laconicamente che il mandato è stato ritirato da tempo e che si è trattato di
una «grave negligenza».
Le reazioni da parte del mondo politico passano dallo choc all'atteggiamento di chi preferisce rimanere
in attesa di sviluppi.
Il servizio alle pp. 7, 8 e 9.
- Una brutta faccenda, - borbottò il presidente della Corte Suprema. - Proprio brutta.
Benjamin Grinde fissava sul tavolo davanti a sé il volume rosso e consumato che raccoglieva il codice
giuridico.
Il leone che simboleggiava lo stemma nazionale gli sorrideva, in modo arrogante e ostentando superiorità.
Grinde ammiccò.
- Non è difficile condividere il tuo pensiero, - disse piano. - Cosa vuoi che faccia? Dimettermi dal mio
incarico di giudice a tempo indeterminato?
Appoggiato il giornale, il presidente della Corte Suprema si alzò e, dopo aver aggirato il massiccio
tavolo in rovere della sala riservata ai giudici, andò alla finestra, incorniciata da tende di velluto verde
scuro. Si mise a guardare la facciata di fronte, dove scolpite nella pietra si leggevano le prime parole
dell'inno nazionale: Ja, vi elsker, «Si, noi amiamo». Forse il ministero delle Finanze desiderava
rassicurare il mondo sui propri sentimenti nazionali, in un periodo in cui si faceva di tutto per risparmiare
la fortuna che fuoriusciva dal Mare del Nord come da un incontrollabile vaso di Sarepta.
- Una bella foto, - mormorò appoggiando il palmo delle mani sul vetro della finestra.
- Scusa?
- C'è una tua bella foto. Sul giornale.
Dopo essersi girato, si rimise con calma a sedere. Sembrava assente, lontano, ma Benjamin Grinde
sapeva che il presidente della Corte Suprema era un uomo che pensava prima di parlare, e finse di non
far caso al suo lungo silenzio.
- Sarebbe ingiusto, - disse alla fine il presidente. - Il capo d'imputazione era palesemente assurdo e se
lasciassi il tuo incarico daresti adito a congetture. Comunque, per sicurezza, è meglio consultare gli
avvocati.
Dopo essersi alzato, tenne la porta aperta per gli altri quattro giudici che aspettavano nelle loro toghe
nere guarnite di velluto porpora all'altezza del collo. Tirato in disparte quello più anziano, discusse con
lui a bassa voce in modo che gli altri non potessero capire. Nel momento in cui il presidente della Corte
Suprema aprì la porta per congedarli, sulla soglia apparve il cancelliere che pronunciò la frase di rito:
- Entrala Corte!
Il più anziano si alzò rivolgendo un breve cenno agli altri, che reagirono mettendosi in fila dietro di lui
secondo una graduatoria precisa. Benjamin Grinde in fondo, dal momento che era il giudice della Corte
Suprema di ultima nomina.
La sensazione di solennità che lo prendeva sempre quando, dopo un cenno breve e formale rivolto agli
avvocati, si accomodava al suo posto, un secondo dopo che si era seduto il giudice incaricato di
presiedere il collegio giudicante, era scomparsa. La sedia dallo schienale alto gli sembrava scomoda e la
toga troppo calda.
- L'udienza è aperta. Oggi verrà discusso il ricorso della causa numero...
Benjamin Grinde non si sentiva per niente bene. Cercò di afferrare un bicchiere pieno d'acqua, ma le
mani gli tremavano a tal punto che lasciò stare.
- C'è qualche obiezione nei confronti della composizione della Corte?
Il giudice incaricato di presiedere il collegio giudicante fissò a turno i due avvocati che, in piedi dietro il
banco, erano rivolti verso quello a ferro di cavallo dei giudici della Corte Suprema. L'avvocato che
secondo il sistema giuridico norvegese stava sostenendo una delle due cause di prova che gli avrebbero
permesso l'iscrizione all'albo speciale dei legali abilitati ai ricorsi presso la Corte Suprema aveva il
pomo d'Adamo che andava su e giù come uno yo-yo, impedendogli di parlare. Scuoteva febbrilmente la
testa mentre il collega, una donna quasi sulla sessantina, già avvocato della Corte Suprema, rispondeva
con voce ferma e chiara:
- No.
- Sono consapevole del fatto che oggi ci troviamo di fronte a una situazione alquanto particolare, -
continuò il giudice incaricato di presiedere la seduta mentre sfogliava a caso i documenti che aveva
davanti a sé, pile di estratti di varia natura giuridica, dopo quello che aveva visto prima.
- Suppongo che gli avvocati siano a conoscenza dell'articolo comparso su un quotidiano dove è stato fatto
il nome...
Fece un cenno del capo alla sua sinistra.
-... del giudice Grinde, che sarebbe stato incriminato in relazione al tragico caso di omicidio che tutti noi
conosciamo.
Abbiamo effettuato i dovuti accertamenti in merito e abbiamo ricevuto la conferma da parte del
procuratore generale che si è trattato di un errore. Per questo non vedo come le speculazioni contenute in
un... tabloid...
Sembrava che avesse affondato i denti in un limone.
-... possano comportare che un giudice della Corte Suprema receda dal suo incarico. Ma, come dicevo, si
tratta di una situazione particolare, e io lascio agli avvocati il compito di esprimere il proprio punto di
vista in merito alla questione se il giudice Grinde goda della fiducia necessaria.
Per questo vi ripropongo la domanda e, come dicevo, per scrupolo: avete qualche obiezione nei confronti
della composizione della Corte?
- No!
I due avvocati risposero in coro e il più giovane si appoggiò al pesante banco di teak. Dopo aver
deglutito più volte, si alzò di colpo in piedi in tutta la sua statura quan do il giudice gli diede la parola.
Pausa. Una lunga pausa. L'uomo vacillava. Ai giudici venne risparmiata la scena di vedere la collega che
gli faceva un gesto di incoraggiamento chiudendo il pugno e alzando il pollice. Lo fece in modo discreto,
nascosta dal banco, ma l'uomo in piedi accanto a lei era così assente da non notarlo neanche.
Benjamin Grinde provò l'impulso di mettersi a ridere.
Si passò una mano sulla bocca, cercando di soffocare la risata e di rimandarla da dove veniva. Non gli
era mai successo prima di perdere il controllo su quell'aura di deferenza e serietà da cui dipendeva il
tribunale più alto della Norvegia. Tutto doveva essere solenne. Sapeva cosa stava passando l'avvocato.
Quest'ultimo era pallido in volto e spalancava la bocca come un pesce tirato in superficie. Alla fine
esordì dicendo:
- Illustratissimi Signori Magistrati...
Il giudice incaricato di presiedere il collegio giudicante si raschiò la gola, con forza e in modo eloquente.
L'avvocato si interruppe di colpo: era sul punto di mettersi a piangere.
Il giudice conosceva fin troppo bene la continuazione di quella frase di rito.
-... Massimali Giudici del Regno di Norvegia -. A quel punto, dopo l'ennesimo strafalcione, il giudice
alzò discretamente la mano verso il cancelliere, che scribacchiò alcune rapide parole su un post-it giallo
e lo mise davanti all'infelice, ora paonazzo e tutto sudato in viso.
- Illustrissimi Signori Magistrati, Massimi Giudici del Regno di Norvegia, - ricominciò. L'aula stessa
sembrò emettere un sospiro di sollievo; le pareti scure non parevano più così severe, così opprimenti.
Quattro giudici sorrisero debolmente prima di mettersi a prendere appunti.
Benjamin Grinde non sentiva più il bisogno di ridere.
Non si accorse neanche della presenza di Liten Lettvik, che seduta in fondo all'aula si alzava e lasciava la
stanza.
Ore 12.00, centrale di polizia, Oslo.

Neppure la cadenza morbida della parlata di Kristiansand era in grado di nascondere l'ira. Il capo della
polizia Hans Christian Mykland picchiò la mano sul tavolo e quasi centocinquanta poliziotti e funzionari
si raddrizzarono sulle sedie.
- Considero quello che è successo un episodio molto grave.
Molto grave. Credevo di essere stato chiaro durante la riunione generale di sabato. Nessuna fuga di
notizie alla stampa. Su questo punto sono stato chiarissimo!
Battè nuovamente il palmo della mano. Il silenzio era tale che Billy T. non aveva il coraggio di fare aria:
aveva mal di pancia.
- Quell'incriminazione è stata un errore. Lo sappiamo tutti. Adesso rischiamo di trovarci di fronte a una
richiesta di risarcimento salatissima! Sapete cosa vuol dire oltraggiare il terzo potere dello stato?
Nessuno si sentì chiamato a rispondere: la maggior parte dei presenti era tutta presa a osservarsi le
ginocchia.
- Quanto è successo verrà perseguito. Indagato. Mi occuperò io personalmente che il responsabile riceva
la lezione che merita. Farà i conti con me.
Finalmente il capo della polizia era riuscito a radersi e qualcosa in lui denotava una risolutezza nuova:
sembrava che fosse cresciuto nell'arco del fine settimana.
- Per il momento chiudiamo la faccenda. Durante la prossima conferenza stampa voglio...
Lanciò un'occhiata al capo dell'Ufficio relazioni esterne della polizia prima di correggersi da solo..
-... durante il prossimo briefing con la stampa, volevo dire, intendo chiarire al di là di ogni dubbio che
Benjamin Grinde collabora con noi in qualità di testimone.
Così avremo modo di sondare la gravità della situazione e possibilmente di eliminarla. Adesso lascio la
parola al capo della Omicidi.
L'interpellato sobbalzò, come se non avesse seguito la lavata di capo: non lo riguardava.
- È necessario fare un breve riassunto della situazione, - cominciò appoggiando un lucido sul vetro del
proiettore.
- Chi non ha niente da dire, lo esprime con il proiettore, - borbottò Billy T., che sedeva in fondo alla
stanza con accanto Tone-Marit.
Lei fece finta di non aver sentito.
- Come sapete, stiamo lavorando duramente su tutti i fronti. Come prima cosa è importante scoprire il
come e il perché dell'omicidio. Per quanto concerne l'ultimo punto, abbiamo trovato opportuno
suddividere i possibili moventi in tre categorie principali.
Si girò verso lo schermo, indicando la proiezione senza alzarsi.
- Uno: il movente personale. Due: il movente internazionale.
Tre: il movente estremista. La sequenza è casuale.
- Uccidere il primo ministro mi sembra già in sé un estremismo, indipendentemente dal movente, -
commentò Tone-Marit a bassa voce. Billy T. la guardò stupito.
- Adesso fai la brava bambina e non parlare, - disse ridacchiando.
- Inoltre abbiamo deciso di limitare gli interrogatori dei parenti più stretti, perlomeno fino a dopo i
funerali.
Che saranno venerdì. E qui abbiamo un nuovo problema.
Alzò la mano in direzione del capo dell'Antiterrorismo, o Forze speciali di pronto intervento, come si
chiamavano più finemente sulla carta. L'uomo piccolo e compatto dai capelli corvini e la barba si alzò
indolenzito.
- Durante i funerali saranno in vigore disposizioni di massima sicurezza. Stiamo lavorando a identificare
i gruppi considerati a rischio, cioè terroristi internazionali, agenti stranieri, estremisti norvegesi sia di
destra sia di sinistra...
Sorrise al capo dei servizi di sicurezza, che non ricambiò.
Irritato, il capo dell'Antiterrorismo proseguì:
- E ovviamente persone che soffrono di disturbi psichici.
Sappiamo da esperienze precedenti, maturate all'estero devo precisare, che gli squilibrati spuntano fuori
in contesti del genere. Inoltre stiamo tenendo d'occhio criminali comuni di nostra conoscenza che in
qualche modo potrebbero avere dei collegamenti con questo caso. Terremo una riunione in merito domani
mattina.
Dopo essersi riseduto, fissò il capo dei servizi di sicurezza in cerca di approvazione, ma senza ricevere
neppure questa volta risposta alcuna.
Il capo della Omicidi riprese a parlare.
- Attualmente tutti gli interrogatori a cui sono stati sottoposti i dipendenti che lavorano al palazzo del
governo vengono trascritti su computer. L'obiettivo è quello di scoprire eventuali accessi non autorizzati
all'ufficio del primo ministro. Per questo è molto importante che tutti gli interrogatori vengano salvati su
dischetto...
- Se avessimo un'attrezzatura migliore, basterebbe una pressione del dito su un tasto, - sospirò Billy T.
alzandosi.
- Te ne vai già? - sussurrò Tone-Marit.
- Ho di meglio da fare, - rispose Billy T.
C'era qualcosa che lo tormentava, ma per quanto si sforzasse non riusciva a capire cosa fosse. Qualcosa
che aveva dimenticato, un'informazione che aveva ricevuto, ma che era andata persa da qualche parte
nell'hard disk della sua testa.
«Overflow, - borbottò tra sé mentre usciva furtivamente dalla porta diretto verso la zona gialla al terzo
piano della centrale. - Non credo proprio di essere in grado di gestire altre informazioni».

Ore 12.24, centro di Oslo.

Brage Hàkonsen indossava un paio di jeans e un'ampia felpa color ruggine con sul petto la scritta
«Washington Redskins» impressa e sulla schiena l'immagine di un capo indiano con il copricapo di
piume. Per gli altri era strano che andasse in giro con uno di colore sulla maglia, ma era soltanto perché
non capivano niente. Gli indiani del Nord America erano un popolo orgoglioso, che viveva a testa alta. A
differenza dei loro inetti parenti del Sud, quelle creature piccole, dalla pelle e i capelli neri, loro
possedevano una cultura impressionante e conoscevano sia la natura sia la vita degli animali. Era stato il
governo americano infiltrato dagli ebrei a opprimerli per secoli, a togliere loro l'ovvio diritto che
avevano sull'acqua, la terra e la prateria. Il solo pensiero gli procurava un attacco d'ira.
Con la velocità di un fulmine si nascose dietro un furgoncino a motore acceso e carico di vestiti per il
negozio in fondo a Storgata. Per una frazione di secondo la guardia giurata aveva girato gli occhi nella
sua direzione.
Dopo aver sbirciato nuovamente con il berretto da baseball calato sulla fronte, Brage Hàkonsen vide che
la guardia aveva ripreso a camminare allo stesso modo di prima: con circospezione. Si comportava con
un nervosismo che non aveva mai mostrato prima. Non era sfuggente, né vigliacco come al solito.
Sembrava assalito piuttosto da una specie di cautela, pareva un capriolo durante la stagione di caccia.
Entrò in quel momento nel negozio di articoli sportivi G-sport dopo aver guardato in entrambe le
direzioni.
Quasi correndo, Brage Hàkonsen superò il McDonald's e attraversò la strada con il semaforo rosso. Un
Maggiolino frenò di colpo senza che lui si girasse neanche verso il conducente.
Passò parecchio tempo prima che la guardia uscisse dal negozio. Non portava niente, neanche un
sacchetto, quindi se aveva comprato qualcosa doveva essere così piccola da poterla tenere in tasca.
Aveva ancora quell'espressione di allerta, continuava a guardarsi intorno. A intervalli irregolari si
fermava all'improvviso per girarsi, prima di accelerare il passo, non a lungo, solo qualche metro, fino a
riprendere a camminare lentamente, talvolta in modo quasi esagerato.
Prima non era così. La guardia giurata era stata uno degli obiettivi più facili da pedinare. Non guardava
mai nessuno. Evitava qualsiasi contatto visivo e più volte Brage Hàkonsen lo aveva seguito a breve
distanza, addirittura in qualche occasione, con un gesto temerario che gli aveva procurato un'enorme
soddisfazione, si era parato davanti a lui, a soli due, tre metri. La guardia giurata non lo aveva mai visto.
Adesso invece aveva gli occhi anche dietro. Era faticoso seguirlo e Brage Hàkonsen si pentì della felpa
che aveva indosso. Sarebbe stato meglio un abbigliamento più neutro: camicia e giacca, qualcosa di
marrone o grigio.
La guardia era sul punto di attraversare il ponte Nybrua, da li sarebbe stato più facile tenerla d'occhio e
Brage Hàkonsen avrebbe potuto seguirla a un centinaio di metri di distanza senza rischiare di perderla.
Un'ambulanza a sirene spiegate uscì di colpo dal pronto soccorso.
Brage vide l'uomo trasalire. Per un attimo sembrò quasi che avesse intenzione di buttarsi nel fiume Aker.
Aggrappato alla ringhiera, si guardava intorno come un pazzo.
Brage Hàkonsen sorrise. Non poteva sbagliarsi. L'unico dettaglio a rovinare la sua gioia era il fatto che
quell'uomo si stava comportando in modo così sospetto che, se la polizia lo avesse visto, lo avrebbe
arrestato subito. D'altro canto: sicuramente la polizia l'aveva interrogato, forse più volte, comunque lui
continuava a girare per le vie di Oslo libero e indisturbato.
Quando la guardia giurata del palazzo del governo superò l'angolo della strada in cui abitava ed ebbe
infilato la chiave nella serratura del portone senza neanche scambiare due parole con la figlia del
custode, che offesa rimase in piedi a guardarlo con i fianchi provocantemente spinti in avanti, Brage
Hàkonsen ebbe la certezza definitiva.
Si fermò a osservare il palazzo fatiscente in Jens Bjelkes gate fino a quando non fu più o meno sicuro che
la guardia giurata fosse entrata nel proprio appartamento.
Poi cercò di prendere un taxi al volo.

Ore 14.47, redazione del giornale «KA».

Liten Lettvik non aveva più male al ginocchio sinistro.


In aggiunta aveva trascorso un fine settimana esemplare e il corpo sembrava reagire a quell'insolito
trattamento mostrando disgusto verso i cigarilli: non fumava da cinque ore. Liten Lettvik si sentiva
benissimo.
La polizia non aveva smentito nulla. A essere precisi aveva cercato di eludere la questione nel corso
della conferenza stampa che si era tenuta un'oretta prima. Il capo della polizia aveva sudato sette camicie,
ma l'informazione riguardante l'imputazione non era stata smentita. Liten Lettvik pensò con gratitudine a
Konrad Storskog, chiedendosi per un attimo se d'ora in avanti avrebbe dovuto lasciarlo in pace per
davvero.
Ovviamente erano stati gli unici a pubblicare e a porre domande sulla questione. Una certa gratitudine
aveva fatto si che il redattore capo le avesse concesso l'autorizzazione a continuare a lavorare sulla
connessione esistente tra l'assassinio di Birgitte Volter e la visita di Benjamin Grinde nell'ufficio del
primo ministro. Anche se era stato alquanto tiepido.
- Adesso non c'è più niente da spremere da questo limone, - aveva protestato con cautela mentre si
mordeva dubbioso il labbro. - Oggi è una faccenda piccante, Liten, ma è evidente che la polizia non lo
sospetta più. Santo cielo, stamattina era già alla Corte Suprema!
- Ascolta, Leif, - aveva argomentato lei. - I colleghi che si occupano di politica si sono trovati fra le mani
un tesoro. Ci sono un mucchio di cose su cui lavorare.
- In verità hanno già abbastanza da fare. Per il momento non è ancora chiaro quale governo avremo
venerdì. Non si divertivano così tanto dal caso Furre.
- Appunto! E qual era la questione centrale del caso Furre?
Il redattore non aveva risposto, ma lei aveva tutta la sua attenzione: il palpeggiamento insistente del
sottomano ne era una conferma. Era logoro e sfilacciato lungo i bordi e le dita che ci giochicchiavano
erano il segno più tangibile che il redattore capo Leif Skarre mostrava il suo interesse per qualcosa.
- Le critiche vertevano innanzitutto sul fatto che Berge Furre era stato indagato dai servizi di sicurezza
della polizia, no? Perché era membro della commissione che avrebbe dovuto esaminare l'operato dei
servizi di sicurezza.
Giusto? Perché era membro e quindi avrebbe dovuto essere esonerato da indagini del genere. Per
semplificare.
Poi i difensori dei servizi di sicurezza avevano cominciato a sbraitare che nessuno è immune in casi
come questi, né ricchi né poveri, o per usare l'espressione usata allora né il re Salomone né la piccola
fiammiferaia!
E adesso hanno incriminato un giudice della Corte Suprema!
Il re Salomone, se capisci cosa intendo dire! Senza nessuna istruttoria preliminare! Ce n'è per tutti. Un
mucchio di roba.
Il redattore capo rimase in silenzio per un po' prima di annuire scontroso in direzione della porta. Era
comunque un consenso.
Eppure Liten Lettvik non era riuscita a scoprire altro su Benjamin Grinde. Un particolare la colpì mentre
sfogliava il fascicolo che aveva su di lui: sembrava che nessuno lo conoscesse veramente. Nemmeno la
segretaria così gentile e ingenua che sedeva in qualità di sostituta nell'anticamera della Corte Suprema
era stata in grado di aiutarla.
Benché fosse palese che la donna aveva trovato molto eccitante che una giornalista della capitale fosse
interessata a conoscere la sua opinione su questo e quello.
- No, il giudice Grinde non riceve mai telefonate private, - aveva cinguettato all'altro capo della cornetta.
Benjamin Grinde aveva un gran numero di conoscenti, ma evidentemente nessun amico, perlomeno non
nell'ambiente giuridico. Le descrizioni che le erano state fatte nel corso di undici conversazioni
telefoniche sprecate erano noiosissime e del tutto inservibili: Benjamin Grinde era bravo, corretto e
laborioso.
- Studio dell'avvocato Fredriksen!
Alla fine Liten Lettvik si era accesa un sigaro e, mentre soffiava il fumo fuori dalle narici, si presentò
chiedendo di parlare con Frode Fredriksen. Bastarono solo pochi secondi per averlo in linea: l'avvocato
Fredriksen era uno di quelli che non si lasciavano sfuggire nessuna occasione per usufruire del diritto
costituzionale di esprimere la propria opinione.
- Uno scandalo giudiziario, - affermò bombastico. Liten Lettvik era letteralmente in grado di sentirlo
mentre si spazzolava la forfora dalle spalle della giacca, cosa che faceva sempre quando voleva
sottolineare ciò che stava dicendo. - Le confesserò una cosa, Liten Lettvik: se la commissione non andrà a
fondo in questa faccenda, mi premurerò personalmente di fare in modo che i responsabili finiscano sotto
processo. Questo è il mio dannatissimo dovere come portavoce dei deboli!
Frode Fredriksen era capace di ricorrere alle espressioni più pompose anche quando si trattava di
spiegare come si fa il pane e Liten Lettvik non si scomodò neanche a prendere appunti. Invece interruppe
la tiritera prima che l'avvocato arrivasse a citare «l'inviolabilità dei diritti umani».
- Ma cosa c'è di così scandaloso? Cosa può essere successo?
- Le autorità vogliono nascondere qualcosa, Liten Lettvik.
Nascondono qualcosa!
- Sì, capisco che è quello che intende dire, ma cosa?
- Ovviamente non lo so, ma le dirò questo: non mi sono mai trovato di fronte a un muro di silenzio come
quello che le diverse istanze coinvolte hanno costruito intorno a questo caso. In tutta la mia carriera.
Carriera che, modestia a parte, è molto lunga. Come lei sa.
- Che tipo di silenzio?
Liten Lettvik si accese un nuovo sigaro con quello precedente.
- Le cartelle cliniche sono sparite, - continuò l'avvocato Frode Fredriksen. - Si rifiutano di consegnarle e
risultano lacunose quando finalmente arrivano nelle mie mani.
In questo paese gli ospedali sono i servizi di sicurezza del sistema sanitario, lasci che glielo dica,
Lettvik. Soppiatteria e arroganza del potere in lungo e in largo. Ma non ci lasceremo fermare.
- Ma lei ha chiesto di posporre l'elaborazione delle richieste di risarcimento da parte dello stato.
- Certo. Spero che la commissione Grinde getti una nuova luce su questo caso. Le somme richieste
potrebbero quindi salire.
- Ascolti, avvocato Fredriksen.
Liten Lettvik spostò la cornetta contro l'altro orecchio con un gesto d'impazienza.
- Lei deve essersi fatto un'idea su quello che è successo... secondo il mandato assegnatole, la
commissione deve chiarire quanto è accaduto e se i familiari hanno ricevuto informazioni sufficienti da
parte del sistema sanitario. Ma tutto questo risale a trent'anni fa, può essere un caso così esplosivo? E
perché lei è così indignato? Non ha ottenuto quello che voleva? È stata istituita una commissione: non era
proprio quello che lei aveva chiesto in primis?
All'altro capo si fece silenzio. Dopo aver aspirato voluttuosamente, Liten Lettvik trattenne il respiro per
gustarsi la nicotina che si diffondeva nel sangue.
- Quasi duemila bambini sono morti nel 1965, Liten Lettvik, - giunse infine la risposta, pronunciata a
voce bassa e con molto pathos. La giornalista sentiva il fruscio delle carte in sottofondo a quella voce
intensa. - Duemila bambini! Nel 1964 sono morti qui in Norvegia 1078 bambini al di sotto di un anno.
Nel 1966 il numero era di 976. Negli anni precedenti e in quelli successivi erano più o meno stabilmente
sui mille, per poi scendere in modo costante e regolare ai due-trecento di oggi. Ma nel 1965, Liten
Lettvik, sono morti 1914 neonati! Non può essere una casualità. Sono morti a causa di qualcosa.
E le autorità non vogliono contribuire a scoprire cosa sia questo qualcosa. Uno scandalo. Ripeto: uno
scandalo senza proporzioni.
Liten Lettvik era al corrente della situazione. Aveva letto tutto quello che esisteva sul caso. Continuava a
non ricevere risposta alla sua domanda e per un attimo si chiese se aveva voglia di proseguire quella
conversazione. Poi cambiò di colpo tema:
- Che mi dice di Benjamin Grinde?
L'avvocato Fredriksen rise sonoramente.
- Siete proprio fuori strada! O lo è la polizia. Ma loro l'hanno ammesso, da quanto ne capisco, anche se
voi avete montato a dismisura la cosa. Benjamin Grinde è un uomo eccellente. Un po' noioso, un po'
pomposo, ma fa parte della sua posizione. Del resto è un atteggiamento diffuso tra le pareti di
quell'edificio. No, Benjamin Grinde è un giurista dotato e un cittadino irreprensibile. Personalmente ero
molto soddisfatto che fosse stato scelto a presiedere la commissione d'inchiesta. Mi sono anche permesso
di comunicarglielo. In tutta umiltà.
Era inutile. Liten Lettvik lo ringraziò per la telefonata senza grande entusiasmo. Poi compose un ultimo
numero.
Tra poco doveva mangiare qualcosa.
- Edvard Larsen, - rispose una voce piacevole.
- Ciao, Morbidone. Sono Liten Lettvik. Come va?
- Bene, - rispose tiepidamente il capo dell'Ufficio relazioni esterne del ministero della Salute. Liten
Lettvik telefonava in tutti i momenti e sembrava non possedere la benché minima comprensione del fatto
che lui non le potesse fornire il numero diretto di Ruth-Dorthe Nordgarden. - In cosa posso aiutarti oggi?
- Senti, devo assolutamente parlare con il ministro.
- Di che si tratta?
- Purtroppo non te lo posso dire. Ma è importante.
Di norma «Morbidone» Larsen nuotava in un mare di pazienza, una qualità inestimabile nella sua
posizione di portavoce del ministro nel mondo dei media. Adesso però stava per arenarsi.
- Sai benissimo che devi dirmi di cosa si tratta. Dobbiamo ripetere la stessa scena per l'ennesima volta,
anche adesso?
L'uomo cercò di farsi passare l'irritazione con una breve risata. Liten Lettvik gemette.
- Okay, è una cosa del tutto innocua, ma è importante.
Volevo farle alcune domande riguardo al lavoro della commissione Grinde.
- Dammi le domande, così cerco di farti avere le risposte il più presto possibile.
- Grazie dell'aiuto, ma no, grazie, - rispose Liten Lettvik prima di riagganciare con violenza la cornetta.
In fondo però non era così arrabbiata. Nessun membro del governo era disponibile a parlare come Ruth-
Dorthe Nordgarden. Bastava trovare qualcosa con cui allettarla.
Uno scambio. Discretamente Liten Lettvik rimase seduta a sfogliare la sua agenda Filofax. Le dita
trovarono da sole il numero segreto di casa di Ruth-Dorthe Nordgarden.
L'unico particolare maledettamente fastidioso era che doveva aspettare fino a sera.

Ore 20.50, Stolmakergata 15.

- Potresti rendere questa casa un po' più accogliente.


Per i ragazzi, se non altro.
Hanne Wilhelmsen aveva intorno alla vita un grembiule di cuoio invecchiato, con macchie di vino e di
cibo.
Sconsolata sollevò il cucchiaio di legno facendo schizzare il sugo di pomodoro.
- Tu invece potresti evitare di sporcare di salsa tutta la mia cucina, - rispose Billy T. ridacchiando. -
Questo non la rende di certo più accogliente!
Dopo aver passato il dorso della mano sullo sportello del frigorifero, se lo leccò con cura.
- Mmmh, delizioso. Adesso sì che i miei figli ci sarebbero dovuti essere. Spaghetti al ragù. Il loro piatto
preferito.
- Tagliatelle, - lo corresse lei. - Questi non sono spaghetti.
Gli mostrò la scatola.
- Spaghetti piatti, - constatò lui. - Cosa ci fai con questo?
Agguantato un sedano, se lo mise in bocca prima di indicare un'intera noce moscata.
- Giù le mani!
Hanne agitò nuovamente il cucchiaio di legno, che questa volta lasciò una striscia di puntini rossi sulla
maglietta immacolata di Billy T.
- Guarda il tuo soggiorno, - commentò sconsolata prima di mettere il coperchio sulla pentola del sugo. -
Le tende devono risalire agli anni Settanta!
Probabilmente aveva ragione. Pendevano tristi e stor te ed erano di un tessuto grezzo, arancione a strisce
marroni.
Nelle pieghe si vedeva la polvere che vi si era accumulata per anni.
- Potresti almeno lavarle. E guarda qui, per esempio.
Sbirciando tra l'armadietto superiore e quello inferiore della cucina che si apriva sul soggiorno, osservò
lo stereo incassato nella libreria, che brillava alla luce di una lampada in acciaio con tre lampadine e il
paralume in juta.
- Quanto è costato?
- Ottantaduemila corone, - mormorò Billy T., cercando di pescare con un cucchiaio dentro la pentola.
- Non toccare, ti ho detto. Ottantaduemila corone? Se tu avessi usato soltanto la metà di quei soldi
all'Ikea, qui sarebbe diventato davvero carino. Non hai neanche un divano come si deve!
- Ai ragazzi piace stare seduti per terra.
- Sei e rimarrai un personaggio, - gli sorrise lei. - Vedrò cosa posso fare mentre sono qui.
Billy T. apparecchiò e spostò il televisore in modo che potessero vedere Redaksjon 21 mentre
mangiavano. Poi aprì due birre, le versò e regolò il volume dell'apparecchio.
- Quando si stuferanno di mandare in onda tutte queste edizioni speciali? - borbottò Hanne Wilhelmsen
togliendosi il grembiule. - Oggi ne ho viste due e ripetono sempre le stesse cose. O quasi.
La donna che apparve sullo schermo era decisa, ferma e ispirava fiducia, anche se con la sua chioma
rossa ricordava il piccolo troll Baktus.
- Accipicchia, si è tagliata i capelli? - domandò Hanne Wilhelmsen. - Non sta male.
- Deve essere stanca quanto noi, - disse Billy T. ingozzandosi di cibo. - Buonissimo! Fa un numero
imprecisato di telegiornali al giorno. E ormai neanche Redaksjon 21 è più quella di prima. Prima c'è il
telegiornale, poi lo sport e Redaksjon 21. E cambiato tutto. Per sino quello.
Indicò lo schermo con il cucchiaio.
- Sstt, - gli fece segno Hanne. - Zitto.
«E in studio con noi abbiamo il capo della polizia Hans Christian Mykland. Benvenuto, Mykland!»
«Grazie».
«Vado subito al punto, Mykland, so che ha cose più importanti da fare che stare qui con me. Può dirci a
chiare lettere se voi della polizia siete più vicini a una soluzione del caso Volter, ora che sono passati tre
giorni dalla sua morte?»
- Poveraccio, - borbottò Hanne quando sentì la risposta del capo della polizia. - Non ha niente da
raccontare, ma deve dare l'impressione di avere un mucchio di notizie.
Siete veramente conciati così male, Billy T.?
- Quasi.
Ingoiava tagliatelle in quantità tale che sulle labbra gli vennero due bei baffi rossi di sugo.
- Pagliaccio, - borbottò Hanne.
- Abbiamo però qualche dettaglio in più, - precisò Billy T. prima di asciugarsi la bocca con il braccio. -
Tra cui un calibro piuttosto insolito.
- Ah! Insolito quanto?
- 7,62 millimetri. Ci daranno la risposta sul tipo d'arma che è stata usata nel giro di poco, credo. Ma
ovviamente lui questo non lo può dire.
Accennò con la testa in direzione dell'apparecchio.
- Non riesco a capire perché vada in televisione, tanto non può dire niente. È incazzatissimo perché la
stampa ha scoperto quella stronzata del mandato d'arresto. Adesso ci hanno messo una museruola a
doppia mandata, a tutti quanti.
- Le speranze che funzioni sono poche, - commentò Hanne prima di bere un sorso di birra. - La centrale di
Oslo è peggio di un colabrodo. Lo è sempre stata.
Il capo della polizia sembrò sollevato quando ricevette finalmente il permesso di andarsene. La donna
dai capelli rossi passò il collegamento a un altro studio dove i capigruppo delle diverse forze
parlamentari sedevano intorno a un tavolo a forma di boomerang, mentre il conduttore al centro fissò un
po' troppo a lungo la telecamera prima di cominciare a parlare. Introdusse un filmato e anche quello si
fece aspettare.
- Perché non ci riescono mai? - commentò Hanne sorridendo. - Negli Stati Uniti non si vedono scene
simili. Li funziona sempre tutto e in qualsiasi momento.
Mentre scorrevano in sottofondo delle immagini alquanto banali del Parlamento, un reporter spiegava che
adesso i giochi per formare un nuovo governo si presentavano alquanto complicati. Il conduttore in studio
si rivolse a un uomo che indossava un impeccabile abito chiaro e aveva un'espressione molto seria.
- Credevo che il leader del Partito popolare cristiano fosse una donna, - disse Billy T. - Non quello li.
- Lei è il leader, ma lui è il capogruppo in Par... Ssst!
«Sarebbe completamente sbagliato se introducessimo ora dei cambiamenti politici, vista la situazione
tragica che si è creata per via dell'omicidio del primo ministro Volter».
«Questo significa che non avete intenzione di sfruttare la possibilità di entrare a far parte del governo?»
Il conduttore aveva una parlata singolare con un vago accento del Trondelag, e lo strano ricciolo che gli
scendeva sulla nuca, anche se si era accorciato da quando Hanne era partita per gli Stati Uniti, oscillava
in su e in giù a ritmo con la voce.
«Come dicevo, un evento assolutamente tragico ha colpito il nostro paese, e noi, partiti del centro,
abbiamo deciso che adesso non è il momento giusto per effettuare cambiamenti.
Dobbiamo essere tutti uniti in questo periodo difficile e saranno gli elettori che decideranno a settembre
chi governerà la nazione da li in poi».
Il rappresentante del Partito popolare cristiano non aveva ancora finito, ma il conduttore si girò alla
propria sinistra per rivolgersi a un uomo dalla curata barba sale e pepe e con un'espressione sconsolata.
«Come interpretate queste parole, voi del Partito conservatore?»
L'interpellato, dopo aver scosso rassegnato la testa, fissò deciso il conduttore della trasmissione.
- Corso di comunicazione per affrontare i mass media, - sentenziò Hanne. - Ne ha seguito uno.
- Cosa? - disse Billy T. servendosi ancora una volta.
- Niente. Sst.
«Stiamo vivendo un momento difficile e non è tempo di tattiche politiche né di accuse. Tuttavia mi
permetto di dire che questo dimostra in tutta la sua pienezza come non esista una reale alternativa di
centro. Dopo che per mesi i partiti del centro hanno esasperato la propria candidatura in vista delle
elezioni autunnali, ora che hanno la possibilità di governare la respingono come se fosse una patata
bollente. Questo dimostra che noi del Partito conservatore avevamo ragione fin dall'inizio. Un'alternativa
al Partito laburista deve includere il Partito conservatore».
«Questo non lo sapremo prima dell'autunno».
Era stato il rappresentante del Partito popolare cristiano a parlare, ma venne troncato con decisione dal
conduttore.
Hanne rise di gusto.
- Non lo vogliono il potere, nessuno di loro! Hanno una fifa blu!
- La politica! - ridacchiò Billy T. con disgusto mentre si serviva per la terza volta. - Sei assunta. Come
cuoco.
- Cuoca, - replicò Hanne senza distogliere lo sguardo dallo schermo.
- Cosa?
- Cuoca, grazie. Il cuoco è un uomo. Per favore, lasciami sentire.
«Sarebbe profondamente sbagliato trarre vantaggio da questa situazione».
Era stato il rappresentante del Partito di centro a intervenire, sostenendo come un'eco l'affermazione del
suo alleato del Partito popolare cristiano. Quello del Partito conservatore scosse ancora la testa, stavolta
con più forza.
«E qual è la differenza? - domandò. - Cosa cambierà in autunno? Oggi il Partito laburista è in minoranza
e lo stesso sarà in autunno. Lo è dal dopoguerra. Il Partito del centro, il Partito liberale e il Partito
popolare cristiano pensano di ottenere la maggioranza in Parlamento alle elezioni?»
«Come dicevo, vedremo», cercò di interromperlo il rappresentante del Partito popolare cristiano, ma il
conduttore lo zitti con un gesto imperioso della mano mentre l'esponente del Partito conservatore
riprendeva inarrestabile.
«Sarebbe ora che conoscessimo la vostra posizione su temi assolutamente scottanti! Gli elettori hanno il
diritto di essere informati. Siete a favore o contro la costruzione della centrale termoelettrica? Dello
Spazio economico europeo? Del sussidio economico alle famiglie con bambini da uno a tre anni? E cosa
ne pensate delle norme sul pagamento dello stipendio in caso di malattia? Potremo sapere qualcosa prima
che gli elettori vadano alle urne?»
Cominciarono a parlare tutti insieme.
- Via il gatto, i topi ballano, - commentò Hanne.
- Ma quelli non vogliono ballare, - replicò Billy T. - Se ne stanno li immobili con la paura che qualcuno
li sfidi!
Che schifo. Mi fanno venire la nausea.
Nausea che però non gli impedì di servirsi per la quarta volta, oramai stava grattando la pentola.
- Non posso mettere un po' di musica? - chiese.
- No, per piacere, è importante.
Alla fine i partecipanti alla trasmissione smisero di litigare, o almeno venne impedito loro di continuare.
Il collegamento tornò alla donna nell'altro studio, che in piedi accanto a sé aveva Tryggve Storstein.
- Accidenti, com'è conciato, - disse Hanne piano prima di appoggiare il bicchiere di birra senza più
toccarne il contenuto.
Tryggve Storstein era così tirato che neanche le truccatrici della Nrk erano riuscite a fare un granché. Le
occhiaie erano ancora più evidenti sotto i riflettori e la bocca aveva un'espressione triste, quasi
contrariata, che rimase uguale per tutta l'intervista.
«Tryggve Storstein, nonostante queste tragiche circostanze, è giusto congratularsi con lei per il suo nuovo
incarico di segretario del Partito laburista».
L'interpellato mormorò qualcosa che poteva significare grazie.
«Ha ascoltato qui con me la discussione che è appena avvenuta. Sarà lei a formare venerdì il nuovo
governo?»
Schiarendosi la voce, Tryggve Storstein annuì.
«Sì».
La conduttrice, sbalordita da quella risposta laconica, prese a compiere dei movimenti energici con le
braccia prima di riuscire a porre un'altra domanda. Storstein continuò a rispondere in modo laconico: a
volte pareva scontroso, e la donna aveva qualche problema a colmare il tempo programmato per
l'intervista.
- Non si direbbe proprio la Grande Speranza Bianca, quello, - affermò Hanne Wilhelmsen mettendosi a
sparecchiare. - Caffè?
- Si, grazie.
- Allora vedi di prepararlo.
Ora sullo schermo era riapparso l'uomo occhialuto e dalla lieve cadenza del Trondelag. Erano in studio
con lui tre redattori di quotidiani, i quali con enorme pathos e gravità si espressero in merito alla
situazione che si era venuta a creare.
«Com'è possibile avviare in questi giorni un procedimento politico sano e normale per la costituzione di
un nuovo governo quando la polizia ha in corso delle indagini che potrebbero, e sottolineo potrebbero,
arrivare alla conclusione che esistono dei sospettati di omicidio proprio tra le file di coloro da cui
potrebbe nascere il nuovo governo?»
Era stato il conduttore a chiedere.
- Come mi piacerebbe che la gente imparasse a parlare usando il punto, - disse Hanne, quasi a se stessa.
Billy T. fischiò ad alta voce mentre penava con la macchina del caffè.
Il redattore del «Dagbladet» si chinò in avanti con tale zelo che la barba toccò quasi la superficie del
tavolo.
«Adesso è fondamentale che la polizia non si intrometta nel processo politico. Deve essere assolutamente
chiaro che nessuna circostanza può impedire alla polizia di svolgere il proprio lavoro, ma d'altro lato
non deve sussistere una situazione in cui il partito preposto alla formazione del nuovo governo venga
castrato per il fatto che la maggior parte dei candidati papabili a diventare ministri di fatto conoscevano
Birgitte Volter».
- Tipico, - sospirò Hanne Wilhelmsen. - Nessuno pensa che possa essere stata una tra le persone a lei più
vicine, anche se le statistiche indicano invece che gli assassini appartengono quasi sempre alla cerchia
più stretta della vittima. Del resto tutta la Norvegia del potere conosceva Birgitte Volter. Sarebbe
pericolosissimo credere alle statistiche, allora.
Dopo essersi alzata, spense il televisore., - Musica, - chiese ottimista Billy T.
- No! Voglio silenzio, okay?
In mancanza di un divano vero si sdraiarono sul lettone in camera, con i piedi di uno contro quelli
dell'altro.
Hanne aveva la testa appoggiata alla parete e la schiena su un cuscinone tutto logoro e schiacciato.
Sorseggiò il caffè datole da Billy T.
- Bleah!
Sputò con una smorfia.
- Ma cos'è? Asfalto?
- Troppo forte?
Senza aspettare la risposta, Billy T. andò a prendere il latte nel frigo e gliene versò una bella dose.
- Ecco. Così rimarremo svegli per un po'.! Cercò di trovare una posizione comoda nel letto, ma dal
momento che non c'erano altri cuscini si tirò a sedere., - C'è qualcosa in Ruth-Dorthe Nordgarden, -
esordì grattandosi l'orecchio. - Merda, c'ho dentro qualcosa. Fa un male cane, ogni tanto... - Cosa intendi
dire con qualcosa?
- Un'infiammazione, una cosa così.
- Sciocco. Mi riferivo a Ruth-Dorthe Nordgarden.
- Ah.
Billy T. si osservò con gli occhi socchiusi la punta dell'indice, ma non c'era niente.
- Che tipa strana. Un mucchio di movimenti nervosi con le mani e smorfie assurde. Però allo stesso tempo
da l'idea di essere... fredda!
Agitò l'indice.
- Sembra gelida! Un pezzo di ghiaccio. C'è qualcosa che mi fa venire voglia di proseguire su questa
pista,! ma non riesco a capire cosa e non c'è nessun presupposto per sostenere che fosse dalle parti
dell'Upm la notte dell'omicidio.
- upm?
- Ufficio del primo ministro. E ora che impari questa terminologia... - le disse sorridendo.
- Era amica del primo ministro?
- No, a quanto dice lei stessa. Non si frequentavano privatamente. Una donna davvero strana. C'è in lei
qualcosa... di pauroso. Starci insieme nella stessa stanza mi ha innervosito!
Hanne Wilhelmsen non rispose. Mentre si scaldava le mani sulla tazza bollente, fissava un disegno
appeso su una lavagna in sughero: una Batmobile ben equipaggiata, con tanto di ali e cannoni.
- E quello che...
- Silenzio, - lo interruppe Hanne ad alta voce facendolo sobbalzare. Billy T. rovesciò un po' di caffè.
- Ma cosa...
- Ssst!
Billy T. imprecò, ma Hanne non ci fece caso. Invece prese a osservare con grande attenzione la parete
dietro di lui.
Billy T. si girò per vedere cosa stesse guardando con tanta intensità.
- Alexander, - le disse esitante. - L'ha disegnato Alexander.
Di colpo Hanne lo fissò. Gli occhi parevano più grandi del solito e il cerchio nero intorno all'iride
ancora più scuro.
- Te lo ha detto lei che non si frequentavano in privato?
- Sì, e allora?
Hanne si alzò dal letto per poi appoggiare la tazza a terra.
Si diresse verso il disegno di Alexander, che riprese a osservare con attenzione.
- Cosa c'è che non va in quel disegno? - domandò Billy T.
- Niente, niente. È bello, ma sto pensando ad altro.
Si girò verso di lui e si portò le mani sui fianchi, piegando la testa di lato.
- Il figlio di Birgitte Volter, Per, è un tiratore piuttosto bravo. L'ho incontrato qualche volta al poligono di
Lovenskjold. Quando era più giovane, veniva spesso anche suo padre. Non posso dire di conoscerlo, ma
qualche volta abbiamo chiacchierato insieme e sarebbe del tutto naturale che ci facessimo un cenno di
saluto se ci incontrassimo per strada. E...
Billy T. la fissò mentre il dito continuava a scavare nel condotto uditivo.
- Se hai un'infiammazione in corso, dovresti lasciarlo stare, - disse Hanne togliendogli la mano. -
Comunque, circa un anno fa, no, aspetta, era appena prima che partissimo a novembre per gli Stati Uniti,
quindi doveva essere nel periodo in cui c'è stato il cambio di governo, ho visto Roy Hansen e Ruth-
Dorthe Nordgarden al Café 33 a Grùnerlokka.
- Al Café 33? In quella topaia?
- Si, quel particolare aveva colpito anche me. Ero passata a consegnare una cosa a uno che lavora li.
Erano seduti in fondo al locale, davanti a una birra. Si, deve essere stato dopo il cambio di governo,
perché prima sapevo a malapena chi fosse Ruth-Dorthe Nordgarden. È piuttosto... bella?
Bionda, appariscente e quant'altro, facile da notare. Lì per li avevo pensato di andare a salutare Roy, ma
qualcosa me lo ha impedito, così sono uscita senza farmi vedere.
- Ma Hanne, come fai a ricordartelo così bene?
- Perché quello stesso giorno avevo letto un articolo in un giornale, il «Dagbladet» credo, che parlava di
queste reti di contatti a cui i giornalisti sono tanto interessati.
Sulle dinastie e cose così. In effetti credo che avessi il giornale con me al Café 33.
- Merda, - borbottò Billy T. strofinandosi il lobo dell'orecchio. - Penso proprio che sia il caso di farmi
vedere da un medico.
- Non ci sarebbe niente di così strano, Billy T., - commentò pensosamente Hanne mentre riprendeva a
fissare la Batmobile che, come aveva appena scoperto, era munita di Tv sul cofano e aveva il radar de il
tempo Gigante sul carter. - Non è strano che Ruth-Dorthe Nordgarden affermi di non aver frequentato in
privato Birgitte Volter quando circa sei mesi fa si beveva una birra con suo marito in un postaccio a
Grùnerlokka?
Billy T. la fissò sfregandosi la testa rasata avanti e indietro, avanti e indietro.
- Si, - rispose alla fine. - Hai ragione. È strano.

Martedì 8 aprile 1997


Ore 09.00, centrale di polizia, Oslo.

- E così hai smesso di fumare, Hanne!


- Sei sveglio, ci hai messo solo dieci minuti per accorgertene.
Billy T. non l'ha ancora capito. E tu? Hai avuto una promozione! Grande!
Hàkon Sand le prese la mano e gliela strinse con forza mentre sorrideva da un orecchio all'altro.
- Devi venire a casa nostra appena puoi. Hans Wilhelm è cresciuto tantissimo!
Il nome del figlio di Hàkon si ispirava al suo, Hanne Wilhelmsen, e lei ringraziava gli dèi, a cui non
credeva, per essersi ricordata di comprare qualche regalo. A essere precisi il merito era di Cecilie: le
era venuto in mente di acquistarli all'aeroporto all'ultimo momento, appena prima che Hanne lasciasse la
California in fretta e furia. La maglietta di una squadra di football americano per Billy T. e un enorme
alligatore giallo limone per Hans Wilhelm.
- Vuoi stare da noi?
Pareva che la magnifica idea gli fosse venuta di colpo: la sua faccia si aprì felice a quell'invito che
arrivava dal cuore.
- Forse Karen non sarebbe molto contenta di avere un'inquilina, - rispose Hanne, declinando l'offerta con
un gesto della mano. - Non è agli sgoccioli?
- Il prossimo fine settimana, - mormorò Hàkon, senza più insistere. - Però devi venire a trovarci. Presto.
Si sentì bussare debolmente alla porta prima che un poliziotto in uniforme facesse il suo ingresso nella
stanza.
Stupito, rimase immobile a guardare Hanne.
- Accipicchia! Sei tornata? Benvenuta! Quando? Sei di nuovo al lavoro? - disse parlando con la cadenza
della Norvegia settentrionale.
Mentre fissava Hanne in attesa di risposta, appoggiò una cartellina davanti a Hàkon Sand.
- No, sono in ferie, - sorrise lei compassata. - Soltanto un paio di settimane.
- Ah! E tu vorresti farmi credere che ti terrai lontana dalla centrale!
Sentirono risuonare la sua risata anche molto tempo dopo che si era richiuso la porta alle spalle.
- Cos'è? - chiese Hanne indicando la cartellina.
- Vediamo.
Hàkon Sand la sfogliò mentre Hanne Wilhelmsen scalpitava, costringendosi a non alzarsi per andare a
leggere alle spalle del collega. Gli diede due minuti, poi non ce la fece più.
- Cos'è? Qualcosa d'importante?
- L'arma. Crediamo di sapere quale arma ha sparato il proiettile.
- Fammi vedere, - disse Hanne infervorata tentando di afferrare le carte.
- Ehi, ehi, - protestò Hàkon appoggiando i palmi sui fogli. - Segreto professionale, sai. Tu sei in
permesso. Non dimenticartelo.
- Cooosa?!
Per un attimo sembrò credergli: lo fissò incredula.
- Una volta poliziotto, per sempre poliziotto. Insomma!
- Stavo scherzando!
Ridendo le porse la cartellina verde.
- Nagant, - borbottò Hanne Wilhelmsen, sfogliando.
- Probabilmente un 1895,un modello russo. Che strano.
Veramente strano.
- Perché?
Dopo aver richiuso la cartellina, Hanne rimase seduta con l'incartamento sulle ginocchia.
- Un'arma singolare. Molto speciale. Ha un brevetto tutto suo per il tamburo. Viene fatto ruotare
all'armamento del cane e spinto in avanti per favorire l'inserimento del colletto del bossolo nella canna.
In questo modo si garantisce la cosiddetta tenuta dei gas tra tamburo e canna.
Divertente, capisci, specie perché il brevetto fu rubato con tutti i crismi a un norvegese!
-Eeeh?
- Hans Larsen di Drammen. Aveva scoperto un sistema autonomo per la tenuta dei gas nelle pistole. Lo
mandò a Liegi, in Belgio, per farlo produrre. Li se ne fregarono e gli rubarono il brevetto, che alla fine
del secolo scorso fu elaborato per essere applicato in Russia a un revolver.
Siamo ai tempi dello zar.
- Non la finirai mai di stupirmi.
Hàkon Sand sorrise, ma sapeva che molti anni prima alcuni colleghi avevano cercato di iscrivere Hanne
a Lascia o raddoppia in qualità di esperta d'armi. Lei aveva protestato furiosamente quando era stata
contattata dalla Nrk e così non se n'era fatto niente.
- E a che serve questa canna a tenuta dei gas, è così che l'hai chiamata?
- Da una precisione maggiore, - gli spiegò Hanne. - Il problema con una pistola è che tra il tamburo e la
canna si crea una perdita di pressione per cui il grado di precisione risulta più basso. Di solito non è così
importante, visto che i revolver non sono pensati per le lunghe distanze.
Una volta ne ho vista una uguale.
Smise di parlare e si immerse nella lettura.
- Qui c'è scritto che nel registro nazionale delle armi denunciate esistono soltanto cinque esemplari di
questo tipo.
Avete un bel problema, Hàkon. Un problema enorme.
Dopo aver richiuso la cartellina, sembrò per un attimo che desiderasse farla sparire nella borsa che
teneva accanto alla sedia. Invece l'appoggiò sul tavolo che li divideva.
- Per quanto ne so, con questo caso di problemi ne abbiamo più d'uno, - commentò Hàkon con uno
sbadiglio. - Ce ne sono una sfilza, per così dire. Ma a cosa ti riferivi?
- Quest'arma è stata prodotta per un lungo periodo di tempo a livello industriale. La troverai in moltissimi
paesi, soprattutto quelli che erano sotto l'influenza sovietica. Le hanno svendute in blocco ai propri
alleati sia in Europa sia in Africa negli anni Cinquanta. Per esempio le troverai...
Esitante si passò velocemente una mano sugli occhi.
- In Medio Oriente. Ce ne sono alcune anche in Norvegia.
Sicuramente più di cinque e sono arrivate qui nei modi più curiosi. Quella che ho visto apparteneva a un
russo in esilio.
L'aveva ereditata da suo padre, che aveva prestato servizio nell'Armata Rossa durante la Seconda guerra
mondiale.
- Un'arma non denunciata, - commentò Hàkon sconsolato prima di gonfiare le guance. - Ci mancava solo
questa.
Ridendo di gusto, Hanne Wilhelmsen si passò le dita tra i capelli.
- Ma cosa ti aspettavi, Hàkon? Pensavi forse che il primo ministro norvegese fosse stato ucciso con
un'arma che si trovava in un registro incompleto, lacunoso e totalmente inservibile come il nostro? Lo
credevi davvero?

Ore 09.45, ministero della Salute.

A essere sinceri nessuno capiva come avesse fatto quella donna a diventare ministro della Salute. Il
pensiero colpì Morbidone Larsen quando la vide fare una strana smorfia.
Aveva sempre contrazioni anomale del viso, tic, movimenti facciali improvvisi che non erano
riconducibili a nulla di quanto era successo o era stato detto. Fu proprio quando concluse la riunione che
nessuno capì perché occupasse quell'incarico. Soltanto poche persone che non facevano parte del
triangolo Stampa-Parlamento-Governo sapevano chi fosse di preciso quando era diventata ministro della
Salute, nonostante ricoprisse il ruolo di vicesegretario del Partito laburista da quattro anni. Aveva
studiato Storia all'università, oltre a un paio di altre materie insignificanti, e molto tempo prima aveva
lavorato come insegnante.
Era divorziata e aveva due gemelle, adolescenti. Inoltre per un periodo piuttosto lungo era rimasta a casa.
Poi aveva cominciato la scalata, un gradino qui, uno là, passando attraverso la Lo, ma non a lungo, e poi
Parbeidernes Opplysningsforbund, ma anche lì per poco. Aveva occupato posizioni sempre più
importanti, ma al contempo era riuscita con abilità a tenersi discretamente dietro le quinte.
Non si era mai fatta notare nelle questioni sanitarie.
Fino a quando era diventata ministro.
A Morbidone Larsen non piaceva il suo nuovo capo e la cosa lo tormentava seriamente.
- E con questo, concludiamo la riunione del mattino.
Il sottosegretario, il consigliere politico e il segretario generale del ministero si alzarono
contemporaneamente a Morbidone Larsen.
-Tu!
Tutti trasalirono prima di girarsi verso il ministro.
- Gudmund! Tu rimani qui.
Il consigliere politico, un giovane corpulento di Fauske, si rattrappì guardando con invidia gli altri che
risollevati lasciavano la stanza.
Ruth-Dorthe Nordgarden lasciò il tavolo delle riunioni per andare a sedersi sulla sua spaziosa
poltroncina da ufficio.
Prese a fissare Gudmund Herland. Ricordava una Barbie un po' sciupata: il viso era vuoto, gli occhi
sbarrati.
Fece una smorfia buffa con il labbro superiore che spinse il giovane a guardare nervoso fuori dalla
finestra.
- Questo caso Grinde, - esordì il ministro vagamente.
Il consigliere politico non sapeva se accomodarsi, ma dal momento che non riceveva nessun aiuto dal suo
capo, rimase in piedi. Si sentiva un idiota.
- Si, - provò cauto.
- Perché non sono stata informata del fatto che desiderava più soldi?
- Ma, - cominciò Gudmund Herland. - Io ho cercato di sollevare...
- Cercato! Non accetto e non tollero di non essere informata su questioni così importanti.
Si mise a giocherellare con una penna che rischiava da un momento all'altro di rompersi per via di quei
movimenti duri, bruschi.
- Senti, Ruth-Dorthe, io ti ho detto che desiderava fissare un incontro con te per parlartene, ma tu...
- Tu non mi hai detto di cosa si trattava.
- Ma...
- Finiamola qui.
Era decisa e agitava violentemente le mani senza guardarlo.
- Vedi di darti una regolata. Ma sul serio. Puoi andare.
Gudmund Herland non si mosse. Rimase in piedi al centro della stanza mentre sentiva un'ira irrefrenabile
agitarsi dentro di lui. Contrasse le labbra e chiuse gli occhi. Quella brutta stronza. Quella cagna. Non
solo l'aveva informata del desiderio di Benjamin Grinde di parlarle, ma le aveva anche consigliato di
incontrarlo. Lo scandalo della sanità era qualcosa che lei avrebbe potuto sfruttare per promuovere la
propria immagine, facendosi vedere così come un politico d'azione. Se c'era qualcosa di cui il governo
aveva bisogno, era proprio mostrare la propria capacità di agire. Invece lei era stata a sentirlo con
espressione assente prima di liquidarlo. Non aveva tempo. Forse dopo. Era sempre così: forse dopo.
Quella donna non sapeva cosa voleva dire essere un ministro.
Pensava di avere un orario d'ufficio come tutti gli altri e si arrabbiava se succedeva un imprevisto che
non le permetteva di cenare con le sue splendide figlie.
Gudmund Herland strinse i denti con tanta forza da farli scricchiolare. La sentì a malapena dirgli:
- Pensi di startene li?
Aprì gli occhi. Adesso lei ricordava un membro della famiglia Addams, le guance sollevate in
un'espressione diabolica. Non ne valeva la pena. La sua carriera politica non doveva arenarsi per via di
quella donna. Senza dire niente girò sui tacchi e uscì. Una piccola soddisfazione comunque se la tolse:
sbattè la porta con forza dietro di sé.
Ruth-Dorthe Nordgarden alzò la cornetta e chiese alla segreteria di mandarle nuovamente il segretario
generale.
Nell'attesa, appoggiò le spalle allo schienale della poltroncina e i piedi sul cestino della carta straccia e
si mise a studiare le tende. Non le piacevano e la irritava il fatto che non le avessero ancora cambiate,
anche se aveva sollecitato più volte la questione.
La faccenda dei neonati la spaventava. Anche se non l'avesse costretta a dimettersi adesso, cosa di cui
comunque dubitava fortemente, avrebbero potuto usarla contro di lei. Forse. Cos'era che Benjamin
Grinde voleva discutere con lei? Perché invece aveva scelto di recarsi da Birgitte Volter? Si trattava
soltanto di ottenere più soldi o c'era dell'altro?
Inzuppò una zolletta di zucchero nel caffè e si mise quel grumo marrone sulla lingua. Arrabbiata, e non
senza una certa preoccupazione, pensò alla telefonata con Liten Lettvik della sera prima. Non aveva
capito cosa stesse cercando quella giornalista. Neanche lei le aveva detto niente, ma la conversazione le
aveva scatenato un'inquietudine che la tormentava. Con tutto quel dolce che le riempiva la bocca, ebbe un
rigurgito acido.
Il segretario generale del ministero era sulla porta.
- Mi volevi?
- Si, - farfugliò Ruth-Dorthe mettendosi a sedere per bene sulla poltroncina. Lo zucchero le scricchiolava
tra i denti e fu costretta a deglutire più volte. - Voglio tutte le carte che riguardano il caso dei neonati.
Subito.
Il segretario generale annuì risollevato, sapendo che un ordine di quel genere significava che i documenti
avrebbero dovuto essere sul tavolo del ministro il giorno prima.

Ore 12.39, locali dei servizi di sicurezza, centrale di polizia, Oslo.

Il capo dei servizi di sicurezza Ole Henrik Hermansen scoppiò in una sonora risata, cosa per lui insolita.
Era in tutti i sensi un uomo abbottonato: il suo aspetto impeccabile e il viso quasi completamente
inespressivo facevano di lui il prototipo dell'agente segreto. Il volto era neutro e senza caratteristiche
particolari, i capelli pettinati all'indietro tendevano al grigio, gli occhi erano di un azzurro acquoso e la
bocca diritta con le labbra sottili: quell'uomo poteva mescolarsi in qualsiasi folla di persone del mondo
occidentale.
- Dove l'hai trovata?
Il funzionario in piedi davanti a lui abbassò lo sguardo su di sé sorridendo imbarazzato.
- La uso solo qui. Al lavoro. Mai fuori.
La maglietta era grigia con una scritta in nero che diceva:
«Ce l'ho io il tuo dossier».
- Lo spero proprio. Ci potrebbe dare dei guai.
- E ce ne sono altri qui, - disse il funzionario appoggiando sulla scrivania una cartellina mentre, con
espressione interrogativa, guardava una sedia.
- Siediti. Di che si tratta?
- Un rapporto dei colleghi svedesi della Sàpo. Preoccupante.
Massaggiandosi la spalla destra con la mano sinistra, fece una smorfia. Il capo dei servizi di sicurezza
non toccò l'incartamento, ma si mise a fissare intensamente il suo sottoposto.
- Ieri sera è precipitato un aereo, un piccolo Cessna a sei posti, nel Norrland. Contea di Vasterbotten, tra
Umeà e Skellefteà, - esordì l'uomo con la maglietta.
Adesso aveva cambiato presa: era la spalla sinistra a venir massaggiata brutalmente dalla mano destra.
- Venerdì sera abbiamo inviato la comunicazione di massima allerta a tutti i paesi che confinano con noi e
sono state prese misure di sicurezza straordinarie per Góran Persson e Paul Nyrup Rasmussen.
Fortunatamente la cosa non è arrivata alle orecchie dell'opinione pubblica...
Esitò fissando la cartellina che aveva appoggiato davanti al suo capo. Sarebbe stato meglio se l'avesse
letta, ma Ole Henrik Hermansen non diede nessun segno di volerla toccare.
Solo un corrugarsi quasi impercettibile della fronte indicò che era impaziente di sentire il resto.
- Il primo ministro Gòran Persson avrebbe dovuto viaggiare su quell'aereo. Aveva in programma
l'inaugurazione di un'esposizione nautica a Skellefteà e per via del congresso nazionale dei
socialdemocratici a Umeà avrebbe preso quel piccolo aereo per riuscire a essere presente a entrambi gli
impegni.
- Avrebbe dovuto prendere quell'aereo, - puntualizzò il capo dei servizi di sicurezza.
- Si. Per fortuna è stato costretto a cancellare il viaggio.
All'ultimo momento. Il pilota ha volato da solo. Da quello che ho capito, abitava li. A Skellefteà. Il
pilota.
Adesso è morto.
Finalmente Hermansen aprì la cartellina, che sfogliò in fretta, troppo in fretta per riuscire ad acquisire un
numero sufficiente di informazioni.
- E cosa dicono i nostri amici svedesi? Sabotaggio?
- Non lo sanno. Per il momento sono felici che nessuno sia a conoscenza di questa storia. Ovviamente
stanno elaborando le loro congetture. Come noi, del resto.
Alzatosi in piedi, Ole Henrik Hermansen si avvicinò a una carta della Scandinavia appesa alla parete.
C'erano capocchie di spillo rosse ovunque, raggruppate qua e là a grappoli. La carta era logora a furia di
essere usata. Fece scorrere il dito lungo la costa orientale svedese.
- Più su, - disse il funzionario. - Qui.
Aveva seguito il capo e gli mostrò un punto sulla carta con un indice paffuto.
- A metà tra Kvàrnbyn e Vebomark.
Due spilli con la capocchia che avevano infilzato Malmò caddero per terra: nessuno dei due uomini li
aveva toccati.
- Serve una carta nuova, - borbottò Hermansen. - Questa deve essere li appesa dalla notte dei tempi.
Quante persone sapevano del viaggio del primo ministro?
- Praticamente nessuno. Neanche il pilota.
- Neanche il pilota, - ripetè a bassa voce il capo dei ser- | vizi di sicurezza, grattandosi con un dito
l'attaccatura dei capelli. - Qual è il grado di preoccupazione della Sapo?
- Molto alto.
Alzate le spalle, il funzionario ruotò la testa da una parte all'altra.
- Inoltre Góran Persson verrà qui in Norvegia. Per i funerali. Ovviamente.
Ole Henrik Hermansen emise un profondo sospiro.
- Si, e chi non ci viene.
Il funzionario si avviò verso la porta e stava per richiudersela alle spalle quando Hermansen esclamò a
un tratto:
- Senti!
La testa dell'uomo fece di nuovo capolino.
-Si?
- Togliti quella maglietta. Pensandoci bene... non è poi così divertente. Toglitela, per favore. E mettila
via.

Ore 13.30, ufficio del primo ministro.

- Ero seduta qui. Me ne stavo... me ne stavo seduta qui!


Wenche Andersen si coprì il volto con le mani prima di mettersi a piangere: un pianto silenzioso e
disperato. Le spalle sussultavano sotto la giacca color ruggine e Tone-Marit Steen si accoccolò accanto a
lei tenendole una mano sulla schiena. La segretaria del primo ministro cominciava a mostrare di subire il
peso degli ultimi avvenimenti: sembrava più piccola e molto più vecchia.
- Posso andare a prenderle qualcosa? Un bicchiere d'acqua, forse?
- Me ne stavo seduta qui. Senza far niente!
Si tolse le mani dal viso. Sotto l'occhio sinistro era disegnata una riga nera: il mascara aveva iniziato a
colare.
- Se soltanto avessi fatto qualcosa, - singhiozzò. - Forse avrei potuto salvarla!
Una ricostruzione non era mai semplice. Sospirando Billy T. si trattenne mentre lanciava un'occhiata al
giudice della Corte Suprema Benjamin Grinde: anche lui sembrava essersi rimpicciolito. L'abito gli
cadeva troppo molle intorno al corpo e la lieve abbronzatura era svanita. Billy T. notò in quel momento
che sulle guance aveva un disegno appena accennato di capillari rotti, e la bocca era così contratta da
essersi ridotta a una riga sottile e sgradevole.
- Non poteva salvarla, - la consolò Tone-Marit. - È deceduta all'istante. Adesso lo sappiamo. Non
avrebbe potuto fare nulla.
- Ma chi è stato? Come sono entrati? Devono essermi passati davanti in qualche modo. Perché me ne
sono rimasta li seduta?
Wenche Andersen si accasciò sul tavolo mentre Billy T. squadrava il soffitto alla ricerca della pazienza
che aveva perso da un pezzo. Avevano impiegato troppo tempo per controllare se i rumori provenienti
dall'ufficio del primo ministro fossero udibili nell'anticamera. Un poliziotto aveva sparato parecchi colpi
a salve. Anche se si sentivano appena attraverso la doppia porta, Wenche Andersen aveva sobbalzato
ogni volta sulla sedia. Dal bagno non si sentiva niente. Il problema era che la segretaria non era in grado
di stabilire con precisione a che ora si fosse allontanata dal suo posto.
- Forse dovremmo cominciare e vedere come va, - suggerì Billy T. - Non è meglio finire il più presto
possibile?
Wenche Andersen tirò su con il naso senza smettere di piangere, perlomeno raddrizzò la schiena e prese
il fazzoletto che le porgeva Tone-Marit Steen.
- Forse, - sussurrò. - Forse è meglio cominciare e basta.
Benjamin Grinde guardò Billy T. e, ricevuto un muto segnale d'assenso, uscì in corridoio.
- Aspetti fino a quando glielo dico io! - esclamò il detective.
Poi, chinatosi sulla scrivania di Wenche Andersen, le domandò a voce bassa:
- Erano le cinque meno un quarto. Pressappoco le 16.45.
Le persone ancora presenti erano...
Sfogliò le carte che aveva davanti a sé.
- Oyvind Olve, Kari Slotten, Sylvi Berit Gronningen e Arne Kavli, - lo aiutò Wenche Andersen, tirando
su con il naso a ogni nome. - Non sono stati sempre qui. Se ne sono andati nel giro di mezz'ora. Tutti
quanti.
- Okay, - disse Billy T. Poi, girandosi verso la porta, gridò: - Venga pure!
Benjamin Grinde entrò sforzandosi di trasformare in un sorriso la smorfia che aveva dipinta sul viso da
quando era arrivato. Fece un cenno a Wenche Andersen.
- Ho un appuntamento con il primo ministro, - disse.
- Stop, - intervenne Billy T., grattandosi l'orecchio.
- Qui non è necessario recitare. Mi dica semplicemente cosa ha fatto.
- Va bene, - borbottò Benjamin Grinde. - Sono entrato e ho detto quello che ha appena sentito. Mi è stato
chiesto di attendere un attimo, poi...
Si concentrò e Wenche Andersen si affrettò subito a intervenire.
- Mi sono alzata e sono andata dal primo ministro, che lo ha fatto entrare con un cenno della mano, poi io
ho detto prego e lui è passato davanti a me... così.
Benjamin Grinde si mosse titubante verso Wenche Andersen. Non riuscivano a mettersi d'accordo su
quale lato scambiarsi, così rimasero a dondolare da una parte all'altra, come due galli da combattimento
incerti su chi fosse il più forte.
- Stop, - si intromise nuovamente Billy T. con un profondo sospiro e lanciando un'occhiata eloquente al
capo della Omicidi, che fino a quel momento non aveva detto una parola. - Come ho appena spiegato...
Parlava in modo esageratamente lento e scandito, come se avesse davanti due bambini di cinque anni che
non sapevano ancora come si giocava a Ludo.
- Non fate gli attori. Cercate di rilassarvi. Non è così importante sapere dove eravate e se vi siete mossi
proprio in questo punto. Dunque...
Dopo aver appoggiato una mano enorme sulla spalla di Benjamin Grinde, lo condusse deciso oltre la
porta che dava nell'ufficio del primo ministro.
- Lei è entrato da qui e poi...
Benjamin Grinde si lasciò condurre davanti al tavolo delle riunioni al centro della stanza. Billy T. lasciò
la presa facendo un cenno d'assenso al giudice. Non servì a nulla: l'uomo rimase impacciato dov'era,
facendosi ancora più pallido.
- L'avrà salutata, -gli suggerì Billy T., consapevole del fatto che adesso lo stava guidando molto più di
quanto gli avessero insegnato alla scuola di polizia. - L'ha abbracciata?
Le ha stretto la mano?
Benjamin Grinde non rispose: continuava a fissare la scrivania che aveva davanti: oramai era in ordine e
pulita, senza traccia alcuna della tragedia avvenuta quell'ultimo venerdì sera.
- Le ha stretto la mano, Grinde?
L'uomo trasalì, come se di colpo si fosse reso conto di dove era e di cosa ci si aspettava da lui.
- Ci siamo stretti la mano e ci siamo abbracciati appena.
È stata lei a volerlo. L'abbraccio, intendo dire. Personalmente l'ho trovato un po' innaturale. Non la
vedevo | da moltissimi anni.
La voce era bassa, intensa e completamente piatta.
- E allora?
Billy T. eseguì un gesto rotatorio con la mano nella spe- | ranza che il giudice proseguisse.
- Poi mi sono seduto. Qui.
Si lasciò cadere su una poltroncina prima di appoggiare il portadocumenti in pelle rosso borgogna
davanti, sulla scrivania.
- L'ha appoggiato proprio qui?
- Cosa? Ah si. Il mio portadocumenti. No.
Dopo averlo afferrato, se lo pose accanto, appoggiato alla gamba della poltroncina.
- Ecco, sono rimasto seduto così.
- Per tre quarti d'ora, - disse Billy T. - E poi avete parlato di...
- Non è necessario discuterne in questa sede, Billy T., - lo corresse il capo della Omicidi schiarendosi la
voce. - Questo non è un interrogatorio. Il giudice della Corte Suprema si è già spiegato. E una
ricostruzione.
Rivolse un sorriso servile a Benjamin Grinde, ma il giudice aveva la testa da tutt'altra parte.
- Okay, - rispose Billy T. senza riuscire a nascondere il proprio evidente fastidio. - E poi? Quando avete
finito di parlare?
- Mi sono alzato e me ne sono andato. Non è successo altro.
Alzò lo sguardo verso Billy T. Gli occhi erano più scuri di prima, il castano dell'iride si era fuso con il
nero delle pupille.
Il bianco era venato di rosso e la bocca più sottile che mai.
- Non c'è molto da raccontare. Mi spiace.
Per un attimo sembrò che Billy T. non sapesse esattamente che pesci pigliare. Invece di continuare la
ricostruzione, si diresse verso la finestra. Adesso che fuori c'era luce, Oslo pareva più caotica e grigia
dell'ultima volta che si era fermato a guardarla da quel punto, quando tutte le sorgenti luminose avevano
reso quasi bella la città. Anche se gli edifici di fronte erano nuovi, compresa la sede di un giornale vicino
al palazzo chiamato R5, c'era qualcosa di sciatto in quel panorama, qualcosa di eternamente incompleto: i
cantieri edili aperti all'angolo dove prima c'era il negozio Hansen & Dysvìk rafforzava l'impressione che
la capitale norvegese fosse un patchwork di vecchio e nuovo e che mai e poi mai sarebbe apparsa come
un progetto finalmente ultimato.
Si girò bruscamente verso la stanza.
- Cosa le ha detto il primo ministro quando vi siete salutati?
Benjamin Grinde, che era rimasto seduto con lo sguardo fisso davanti a sé, rispose:
- «Buon fine settimana».
- «Buon fine settimana»? Né più né meno?
- Esatto. Mi ha augurato un buon fine settimana, e io me ne sono andato.
Dopo essersi alzato, il giudice si infilò il portadocumenti sotto il braccio e si avviò verso la porta.
- Possiamo congedare il giudice Grinde, vero?
Era il capo della Omicidi e le parole andavano considerate più un ordine che una domanda.
- Va bene, - borbottò Billy T.
Invece non andava bene affatto. Non era giusto. Benjamin Grinde non diceva la verità. Era il peggior
bugiardo in cui Billy T. si fosse mai imbattuto. Le sue menzogne avevano la luce blu e le sirene. Erano
palesi ed evidenti, eppure era impossibile coglierne il significato.
- Vai a prendere la guardia giurata, - chiese a un poliziotto in uniforme prima di seguire Benjamin Grinde.
A metà scala appoggiò nuovamente la mano sulla spalla del giudice. Grinde si fermò di scatto
irrigidendosi, ma senza girarsi. Billy T. gli passò davanti e si piazzò due gradini sotto di lui: quando si
voltò, i loro occhi erano alla stessa altezza.
- Secondo me lei mente, Grinde, - mormorò.
Quando il giudice abbassò lo sguardo, Billy T. stupì entrambi mettendogli una mano sotto il mento, non in
modo duro e neanche sgarbato, ma come faceva più o meno con i suoi figli quando non volevano
guardarlo negli occhi. Era un gesto terribilmente privo di rispetto, ma per qualche ragione Benjamin
Grinde accettò quell'umiliazione. Billy T. non sapeva perché. Alzò la testa del giudice e mantenne la
presa mentre parlava.
- Io non credo che lei mi abbia detto la verità. E sa una cosa? Non capisco perché. Sono sicuro che non
ha ucciso Birgitte Volter. Non mi domandi per quale ragione, ma lo sono. Però mi nasconde qualcosa.
Qualcosa che vi siete detti, presumibilmente. Qualcosa che potrebbe contribuire a far luce su questo
omicidio.
Grinde si era ripreso. Con un movimento brusco liberò il mento dalla mano di Billy T. prima di arretrare
di un gradino. Poi guardò il detective dall'alto in basso.
- Ho detto quello che andava detto per quanto concerne questo caso.
- Quindi lei ammette di aver taciuto alcune cose?
Billy T. non mollava il suo sguardo.
- Ho detto quello che andava detto. Adesso voglio uscire.
Superato quell'enorme poliziotto, girò l'angolo ai piedi della scala senza guardarsi indietro.
- Merda, - sussurrò Billy T., - merda, merda.
- Adesso vedi di svegliarti, ragazzo!
La guardia giurata non era la persona che Billy T. sentiva il bisogno di prendere sotto il mento nel
tentativo amichevole di instaurare una qualche collaborazione. Era invece il tipo che uno avrebbe avuto
voglia di atterrare, bloccare con le ginocchia e picchiare. Era acido, scontroso e sembrava nervosissimo.
- Hai toccato quella maniglia o non l'hai fatto?
Billy T. e la guardia erano nella piccola stanza adibita al riposo del primo ministro, che si trovava tra
l'ufficio e la sala riunioni.
- L'ho già detto mille volte, - rispose l'interpellato con ira. - Io non ho toccato quella porta.
- E come spieghi che ci sono le tue impronte sia qui...
Billy agitò l'indice davanti a un piccolo cerchio sullo stipite.
-... che qui! Sulla maniglia!
- Sono stato qua dentro almeno cento volte, - rispose la guardia alzando gli occhi al cielo. - Hai i codici
con segnata l'ora su queste impronte o cosa?
Billy T. chiuse gli occhi mettendosi mentalmente a contare.
Al dieci li rispalancò.
- Cos'hai nella testa? Non capisci la gravità di questo caso?
Picchiò un pugno sulla parete.
- Eh? Non capisci niente o cosa?
- Io capisco che secondo te ho ammazzato la Volter e io questo non l'ho fatto, cazzo!
La voce era in falsetto e il labbro inferiore iniziò a tremare.
Billy T. rimase in piedi a fissare quell'uomo senza dire una parola per molto tempo. Poi lo fece
comunque: gli mise una mano sotto il mento e lo costrinse a guardarlo negli occhi. Il giovane provò a
divincolarsi, ma la stretta era troppo forte.
- Tu non sai cos'è meglio per te. Non capisci che noi due ci possiamo aiutare a vicenda. Se soltanto mi
raccontassi cos'è successo quella sera, dopo staremmo meglio sia tu che io. E un'altra cosa: se hai ucciso
la Volter, lo scoprirò. Te lo giuro sul mio onore: lo scoprirò. Ma non credo sia stato tu. Non ancora. Però
devi aiutarmi. Lo capisci?
La stretta alla faccia dell'uomo era così forte che intorno alle dita di Billy T. comparvero delle macchie
rosse. Il capo della Omicidi borbottò a mo' d'ammonimento alle sue spalle.
Ma Billy T. non sentiva. Fissava gli occhi castani della guardia giurata, incoronati da ciglia insolitamente
lunghe.
A Billy T. si rizzarono i peli sulla nuca quando riconobbe il guizzo che balenava nello sguardo del
ragazzo: fifa pura.
Terrore.
- Tu non temi me, - sussurrò Billy T., così piano che nessun altro al di fuori della guardia sarebbe stato in
grado di sentire.
- Se tu avessi un po' di cervello, mi racconteresti di cos'hai tanta paura. Perché qualcosa c'è. Ma aspetta.
Lo scoprirò.
Poi lasciò la faccia dell'uomo con un gesto brusco e stizzito.
- Puoi andare, - disse scontroso.
- Almeno la donna non mente, - borbottò Billy T. più che altro rivolto a se stesso.
Sempre con un nodo alla gola, Wenche Andersen aveva descritto nei minimi dettagli quello che aveva
fatto da quando Birgitte Volter era ancora viva a quando l'aveva trovata morta nel suo ufficio. Era stata
tre volte al gabinetto e, rossa e imbarazzata, aveva anche specificato che una era per qualcosa di solido e
due di liquido. Con un sorriso disarmante Tone-Marit aveva sottolineato che non era necessario scendere
così nei particolari.
- E poi ho telefonato alla polizia.
Wenche Andersen aveva finito e respirò risollevata.
- Molto bene, - si complimentò con lei Tone-Marit Steen: quella sua aria solida e fidata da maestrina era
più evidente che mai. Billy T. chiuse gli occhi e si strofinò la faccia.
La segretaria ringraziò per il complimento con un fievole sorriso, poi a un tratto divenne paonazza. Tone-
Marit ne vide l'eccitazione improvvisa, la carotide sgonfia che pulsava.
- Mi sono dimenticata una cosa, - disse Wenche Andersen. - Per l'ennesima volta mi sono dimenticata una
cosa!
Si precipitò nell'ufficio del primo ministro e, fatto insolito per lei, senza neanche chiedere il permesso.
- La scatoletta, - sussurrò prima di girarsi verso Billy T. che l'aveva seguita. - La scatoletta. L'avete presa
voi?
- La scatoletta portapillole?
Billy T. guardò con aria interrogativa il poliziotto in uniforme, il quale andò a prendere l'elenco degli
oggetti che erano stati prelevati per ulteriori accertamenti.
- Qui non compare niente del genere, - disse scuotendo la testa.
- Che tipo di portapillole? - le chiese Billy T. chinando la testa di lato per appoggiare il palmo della
mano sull'orecchio, che gli faceva un male cane.
- Una scatoletta deliziosa in argento smaltato, - spiegò Wenche Andersen.
Disegnò nell'aria un quadrato piccolissimo.
- In argento placcato oro e smaltato. In effetti forse era d'oro. Sembrava molto antico e stava sempre qui
sulla scrivania.
Indicò con il dito.
-Io...
Adesso sembrava disperata, ma la disperazione era mista a qualcosa che poteva ricordare la vergogna.
Esitò.
- Devo ammettere, - disse alla fine guardando per terra, - che una volta ho provato a...
Si coprì nuovamente il volto con le mani. La voce le uscì distorta, come se parlasse attraverso una
sordina.
- Ho provato ad aprirla, ma era un po'dura, e prima che ci riuscissi è arrivato il primo ministro e...
Adesso il suo volto era di nuovo scoperto, le scendevano le lacrime e singhiozzava cercando di
respirare.
- È stato così imbarazzante, - sussurrò. - Non dovevo assolutamente permettermi una cosa del genere, ma
lei... lei si è limitata a riprendersela, poi non ha mai più citato l'episodio.
Billy T. sorrideva con calore alla donna con l'abito color ruggine.
- Oggi lei ha svolto un lavoro splendido, - la consolò. - A volte la curiosità può prendere il sopravvento
su chiunque. Adesso può andare.
Lui rimase nell'ufficio del primo ministro dopo che tutti gli altri lo avevano lasciato.
«Una scatoletta portapillole», si disse alla fine. E dentro ce n'erano?

Ore 17.10, Ole Brumms vei 212.

- Sarò discretissima, - lo tranquillizzò Hanne Wilhelmsen. - Farò tutt'uno con la tappezzeria.


- Chi? Tu? Impossibile.
Billy T. non era ancora convinto che fosse stata una bella idea portare Hanne Wilhelmsen a casa di Roy
Hansen.
- Non dire niente, - le mormorò mentre salivano verso la porta d'ingresso della villetta a schiera dipinta
di giallo. - E mi raccomando, al lavoro non una parola con nessuno.
Nel momento in cui l'ebbero raggiunta, ad Hanne parve di aver visto qualcosa. Con la coda dell'occhio.
Si girò verso una siepe alta circa un metro e venti, un metro e trenta, che correva ai due lati del giardino
antistante la casa.
Li non c'era niente. Scosse la testa prima di raggiungere Billy T., che aveva già suonato il campanello.
Non rispose nessuno.
Billy T. risuonò, senza che neanche questa volta venisse qualcuno ad aprire. Discesa la scala, Hanne
sbirciò verso il piano di sopra.
- Dentro c'è qualcuno, - disse piano. - Si sono mosse le tende.
Dopo aver esitato per un attimo, Billy T. premette per la terza volta il campanello.
- Si?
L'uomo che apparve davanti a loro dopo aver aperto la porta con uno strattone infastidito aveva il
dentifricio agli angoli della bocca, una barba di tre giorni e gli occhi piccoli e stretti, come se si fosse
appena alzato. Sulla maglietta c'erano delle macchie d'uovo: di tuorlo vecchio, giallo scuro. Hanne le
odiava e per un'istante dovette girarsi.
Mentre respirava profondamente dal naso, sorrise a un melo che si trovava ai piedi della scala.
- Roy Hansen? - domandò Billy T. ricevendo un breve cenno d'assenso a mo' di risposta.
- Polizia, - continuò mostrando il distintivo con la mano sinistra mentre porgeva la destra per salutare. -
Scusi se la disturbiamo. Possiamo entrare?
L'uomo fece un passo verso di loro prima di guardarsi velocemente intorno da entrambi i lati.
- Va bene, - borbottò. - Oggi hanno già suonato quattro volte. Giornalisti.
Li condusse attraverso un piccolo ingresso fino a un soggiorno in penombra dove la polvere danzava
nella striscia di luce proveniente dalle tende chiuse. Dopo essersi lasciato cadere sul divano con un
gemito, Roy Hansen aprì il palmo delle mani invitando così i due poliziotti ad accomodarsi.
L'aria era spessa e appiccicosa. Si sentiva l'odore dolciastro e debole di fiori e di agrumi che stavano
marcendo.
Hanne fissò un'enorme fruttiera, dove le arance erano coperte da macchie verdastre di muffa. Accanto, su
una credenza di pino che copriva la parete più corta, c'erano mucchi di posta inevasa. In un angolo del
soggiorno si vedeva una gran quantità di mazzi di fiori, anch'essi intonsi: quaranta, cinquanta bouquet
enormi avvolti in carta grigia e cellofan blu. I quadri appesi alle pareti, grafiche popolari ma che
denotavano gusto, sembravano scialbi e incolori. Come se avessero rinunciato a portare un po' di gioia
agli abitanti di una casa sul punto di non essere più tale.
- Vuole che l'aiuti con i fiori? - gli domandò senza sedersi. - Non dovrebbero stare li così.
Roy Hansen non rispose. Guardò verso l'angolo in questione, come se i tanti mazzi che coprivano
parecchi metri quadrati della stanza non lo riguardassero minimamente.
- Almeno potremmo staccare i biglietti d'accompagnamento, - suggerì Hanne. - Così avrà modo di
ringraziare, voglio dire. Più avanti. Quando ne avrà le forze.
Roy Hansen scosse sconsolato la testa e agitò il braccio in direzione dei fiori.
- Non importa. Domani viene il camion della spazzatura.
Hanne si mise a sedere.
Un tempo quel soggiorno era stato accogliente. Se la luce fosse potuta entrare, i mobili sarebbero stati
allegri e colorati, le piante verdi sulla finestra panoramica imponenti.
Le pareti, che ora parevano grigiastre, erano in realtà giallo chiaro, e se la luce e l'aria fossero circolate
liberamente per la stanza avrebbero creato una bella combinazione con il pavimento di pino chiaro.
Soltanto quattro giorni prima quel soggiorno era il nucleo di una casa norvegese fresca e accogliente.
Hanne rabbrividì al pensiero di quello che era in grado di fare la morte: non solo il vedovo davanti a lei,
ma anche l'abitazione stessa sembrava sopraffatta da un senso di vuoto.
- Mi spiace davvero, - disse Billy T., che per una volta sedeva immobile, con le gambe allungate per
bene davanti a sé. - Vi è stato comunicato che vi avremmo lasciato in pace fino ai funerali, ma è emerso
qualcosa per cui ci serve subito una risposta. A proposito, prima di affrontare il motivo per cui siamo
venuti...
Un giovane di vent'anni o poco più stava scendendo le scale che conducevano al piano terra. Indossava
una tuta e un paio di scarpe da ginnastica nere. Era di statura media, chiaro di capelli e con un volto quasi
anonimo in tanta palese normalità.
- Vado a correre un po', - disse dirigendosi verso la porta d'ingresso senza guardare i due poliziotti.
- Per! Aspetta!
Roy Hansen tese le braccia, come per trattenere il figlio.
- Lo sai che tentano di parlare con te, - disse lanciando un'occhiata indifesa a Billy T. - Ci fermano ogni
volta che usciamo!
Billy T. si alzò irritato.
- Gente di merda, - borbottò prima di raggiungere la porta dell'altana. - Non puoi uscire da questa parte?
Saltare la siepe del vicino?
Aprì la porta per sbirciare fuori.
- Là, - disse indicando un punto. - Quella siepe?
Per Volter esitò per un attimo prima di attraversare il soggiorno e uscire dalla porta dell'altana con
un'espressione scontrosa e lo sguardo abbassato. Il detective lo seguì.
- Billy T., - esordì tendendo la mano. - Sono della polizia.
- L'avevo capito, - rispose il giovane senza stringerla.
- Le mie condoglianze, - continuò Billy T., che pur avendo problemi a pronunciare quelle parole estranee
non trovò niente di meglio da dire. - Una tragedia.
Il ragazzo non rispose. Gli fremevano le gambe, come se volesse andarsene ma fosse troppo beneducato
per dimostrarsi ancora più scortese di quanto non fosse già stato.
- Soltanto una cosa prima che tu sparisca, - precisò Billy T. - Mentre ti ho qui. È vero che sei membro di
un club di tiro con la pistola?
- Un club di tiro a segno, - rispose Per Volter. - Sono vicepresidente dell'Associazione di tiro di
Groruddalen.
Per la prima volta il volto del giovane venne increspato da qualcosa che poteva assomigliare a un
sorriso.
- Conosci tutti i membri?
- Quasi. Perlomeno quelli più o meno attivi.
- E tu fai gare?
- Sì, cioè: adesso si tratta perlopiù di campionati militari.
Frequento l'accademia militare.
Billy T. annuì prima di estrarre una foto. Una polaroid, presa senza autorizzazione e senza dare il tempo
alla guardia giurata del palazzo del governo di protestare.
- Conosci quest'uomo?
Porse la foto a Per Volter che, con le gambe finalmente ferme, la osservò per parecchi secondi.
- No, - disse esitante. - Non credo.
- Non ne sei sicuro?
Per fissò l'immagine ancora per qualche istante. Poi, dopo aver scosso con veemenza il capo, la restituì
guardando Billy T. negli occhi.
- Sicurissimo. Non ho mai visto quell'uomo prima d'ora.
Annuì brevemente, poi scattò in giardino e si avviò correndo verso una siepe alta mezzo metro che superò
elegantemente con un salto laterale, prima di scomparire tra i cespugli sull'altro lato.
Billy T. lo seguì con lo sguardo e, dopo aver corrugato le sopracciglia, ritornò da Hanne Wilhelmsen e
Roy Hansen.
- Ha trovato il badge? - gli chiese mentre si sedeva.
- No, mi spiace. Non può essere qui.
Billy T. e Hanne si scambiarono rapidamente un'occhiata.
Il poliziotto non riusciva a stare seduto immobile.
Si chinò in avanti; la poltroncina da salotto era così bassa che si trovò semiaccovacciato per terra, così
scomodo da avere quasi male.
- Sa se Birgitte aveva una scatoletta portapillole in argento o in oro?
- Smaltata, - aggiunse Hanne. - Una scatoletta smaltata più o meno grande così.
Unì i pollici e gli indici.
Roy Hansen guardò prima l'uno poi l'altra.
- Una scatoletta portapillole? Che cos'è?
- Un cofanetto piccolissimo, - spiegò Hanne. - Probabilmente molto antico. Un'eredità, forse?
Roy Hansen inclinò la testa prima di grattarsi la guancia.
Gli altri due ne sentirono il tenue raspare. Poi si alzò di colpo per andare a prendere un album da una
libreria ben fornita. Dopo essersi riseduto, lo sfogliò per un po'.
- Qui, - disse all'improvviso. - Può essere questa?
Chinatosi sul tavolino del soggiorno, appoggiò l'album tra sé e Hanne Wilhelmsen indicando una foto in
bianco e nero. Era grossa ed era stata evidentemente scattata da un fotografo con una pellicola di grande
formato: persino i più piccoli dettagli erano nitidi. Una Birgitte Volter molto giovane e felice, con
indosso l'abito da sposa, era in piedi vicino a un ridente Roy Hansen, dal ciuffo gon fio e gli occhiali neri
di corno. La coppia era accanto a un tavolo dove erano esposti i regali di nozze: due ferri da stiro, una
grande ciotola di vetro, posate d'argento, due tovaglie, un set per la panna e lo zucchero in qualcosa che
forse era cristallo, oltre a un mucchio di altri oggetti difficili da identificare. E in primo piano: una
scatoletta piccolissima.
- Non si vede quasi, - si scusò Roy Hansen. - E a essere sincero, me l'ero dimenticata. Non la vedo più da
molti, molti anni. Non ricordo neanche chi ce l'avesse regalata.
- Si ricorda il colore?
Roy Hansen scosse la testa.
- E neanche da dove viene?
L'uomo continuò a scuotere il capo. Aveva lo sguardo assente, come se stesse cercando di ripescare i
ricordi del matrimonio da un angolo polveroso e dimenticato del cervello.
Fissava la foto, quell'immagine felice, e una lacrima gli pendeva all'estremità dell'occhio sinistro.
- Bene, allora non la disturbiamo oltre, - disse Billy T.
Suonarono alla porta. Roy Hansen sobbalzò, la lacrima si staccò per sfrecciare verso l'angolo della
bocca e lui si asciugò rapidamente con il dorso della mano.
- Vado io ad aprire? - domandò Hanne.
Roy Hansen si alzò con fare lento e pesante. Si strofinò più volte il viso con le mani.
- No, grazie, - sussurrò. - Sto aspettando mia madre.
Può essere lei.
Era come se la polvere, la semioscurità e l'aria viziata influenzassero l'acustica. I tic-tac stanchi di un
antico orologio da tavolo risuonavano come avvolti nel cotone. Tutta la stanza pareva ovattata. Le voci
nell'ingresso fendevano violentemente tutto quell'insieme morbido, silenzioso, simili a coltelli in
dissonanza.
- Lei chi è? - sentirono che diceva Roy Hansen, quasi urlando, come un grido d'aiuto.
Hanne Wilhelmsen e Billy T. si alzarono con la velocità di un fulmine e si precipitarono nell'ingresso. Al
di sopra della schiena curva di Roy Hansen, Billy T. intravide un uomo alto, circa quarantanni, con una
massa di capelli scompigliati e un gigantesco mazzo di fiori non incartato che teneva tra sé e il vedovo di
Birgitte Hansen, il quale in quel momento stava arretrando in preda allo sbigottimento più totale.
Sfruttando l'occasione, l'uomo con i fiori era già quasi oltre la porta. Billy T. superò con decisione Roy
Hansen prima di appoggiare una mano enorme sul petto del neoarrivato.
- Chi sei? - gli chiese.
- Chi sono? Scrivo per la rivista di gossip «Kikk & Lytt», volevo soltanto fare le condoglianze e magari
scambiare due parole.
Girandosi di scatto, Billy T. guardò Roy Hansen. Il vedovo era in uno stato pietoso già al loro arrivo.
Aveva pianto in presenza di due estranei. A Billy T. spiaceva enormemente doverlo tormentare, ma la
questione della scatoletta portapillole era così importante che non aveva trovato altra via d'uscita.
Adesso Roy Hansen era grigio e il sudore gli imperlava la fronte.
- Cosa cazzo vorrebbe dire presentarsi qui in questo modo? - ruggì Billy T. al giornalista. - Non capisci
niente o cosa?
Hanne Wilhelmsen riportò Roy Hansen in soggiorno e chiuse la porta.
- Sparisci, - sibilò Billy T. - Vedi di uscire immediatamente da qui e guai se resti nei paraggi!
- Accidenti, quanto baccano. Volevo soltanto essere gentile!
- Gentile! - commentò Billy T. spingendolo con forza sul petto. L'uomo vacillò all'indietro lasciando
cadere il mazzo di fiori. - Esci, ti ho detto!
- Calma! Me ne vado, me ne vado!
Il giornalista arretrò chinandosi a raccogliere il bouquet.
: - Può metterli in un vaso?
Billy T. non lo colpì. Aveva già distrutto un mucchio di cose in preda alla rabbia: cestini per la carta e
paralumi, vetri di finestra e specchietti, ma non aveva mai messo le mani su nessuno dopo che da giovane
aveva fatto a botte con la sorella. Non colpì neanche quell'uomo, ma ci mancò un pelo che non gli
mollasse un cazzotto. Con i pugni chiusi all'altezza della faccia, sibilò:
- Se ti vedo un'altra volta da queste parti... se solo sento l'odore di te o di qualche tuo collega...
Chiuse gli occhi prima di contare fino a tre.
- Sparisci. Adesso.
Mentre stava per sbattere la porta, i fiori vennero infilati attraverso l'apertura.
- Può farglieli avere? - sentì dire.
A quel punto Billy T. schiantò l'uscio sul braccio che teneva il mazzo. L'uomo lo lasciò mentre urlava:
- Che cazzo! Hai intenzione di uccidermi?
Per un attimo Billy T. riaprì la porta e il braccio spari in un baleno. Poi la richiuse con violenza mentre
respirava pesantemente cercando di riprendere l'autocontrollo.
- Lei non può rimanere qua, - disse a Roy Hansen quando alla fine si sentì abbastanza calmo da ritornare
nel soggiorno. - Vanno avanti così tutto il tempo?
- No, non sempre. Oggi è stato peggio. E come se... come se si aspettassero che io non soffra più. Come
se mi avessero già concesso tre giorni.
Si piegò sulle ginocchia piangendo disperato.
Hanne Wilhelmsen voleva andare via. Provava l'impulso di uscire, allontanarsi da quel luogo chiuso,
pesante con due persone sconvolte dal dolore che non riuscivano a parlarsi. Roy Hansen aveva bisogno
d'aiuto. Né lei né Billy T. potevano darglielo.
- Posso chiamare qualcuno? - gli disse piano.
- No. Mia madre arriverà tra poco.
I due poliziotti si guardarono prima di decidersi a lasciare Roy Hansen a una disperazione di cui non
potevano essere partecipi. Rimasero seduti in macchina per tre quarti d'ora in Ole Brumms vei 212, fino
a quando una donna anziana ebbe raggiunto la porta d'ingresso con l'aiuto del tassista. Senza che nessun
giornalista avesse provato a parlarle.
Probabilmente li aveva spaventati la luce blu che lanciava i propri moniti dal tetto della macchina
parcheggiata proprio sull'altro lato della strada.
Mentre lasciavano la casa, Billy T. aveva infilato i magnifici fiori di «Kikk & Lytt» nel bidone della
spazzatura.
Dovevano essere costati quasi mille corone.

Ore 18.30, ristorante «Bombay Plaza».


Erano seduti in fondo al ristorante indiano masticando papadums mentre aspettavano il pollo tandoori. Le
sfoglie sottili e croccanti erano forti e a Oyvind Olve ritornò un po' di colore in viso. Quasi non toccava
il letto da venerdì mattina e dopo tre sorsi di birra sentì l'alcol dargli già alla testa.
- Che bello vederti, - disse sollevando il boccale verso Hanne Wilhelmsen. - Quando arriva Cecilie?
Hanne non sapeva se sentirsi offesa: tutti quelli che conoscevano lei e la sua convivente le chiedevano
quando Cecilie sarebbe tornata a casa prima di domandarle qualsiasi altra cosa. Scelse di non lasciarsi
irritare.
- Non prima di Natale. Io ritorno negli Stati Uniti tra poco. Questa è una specie di vacanza.
L'uomo seduto di fronte a lei si avvicinava ai quaranta e aveva l'aspetto di un simpatico orsacchiotto di
peluche.
Non che fosse particolarmente grande, grasso o morbido, ma le orecchie gli spuntavano allegre e a
sventola da una testa perfettamente sferica. Aveva i capelli a spazzola neri, mentre gli occhi dietro gli
occhiali piccoli e rotondi davano l'idea di non aver mai visto nessuna delle miserie terrene. Il che era un
inganno: quell'uomo era un politico abilissimo. Fino al venerdì prima era stato il sottosegretario di
Birgitte Volter. Ed era un caro amico di Cecilie Vibe. Era cresciuto a Kvinnherad, nella fattoria accanto
alla casa che i genitori di Cecilie abitavano in villeggiatura.
La convivente di Hanne Wilhelmsen, che aveva un rapporto con la propria vita molto più semplice di lei,
si era portata gli amici estivi d'infanzia, Oyvind e la sorella Agnes, nell'esistenza di adulta. Hanne
Wilhelmsen non aveva nessun contatto con la fanciullezza. Esisteva una linea netta nella sua vita che
coincideva con il giorno in cui lei e Cecilie erano andate a vivere insieme. Era stato moltissimo tempo
prima. In sostituzione dei propri amici, condivideva quelli di Cecilie.
- E adesso cosa farai?
Lui non rispose subito, ma rimase seduto a fissare il bicchiere mentre lo faceva girare sul proprio asse.
Poi, dopo essersi passato una mano sulla testa, sorrise.
- Dio solo lo sa. Ritornerò all'ufficio centrale del partito, penso. Ma prima... prima di tutto le ferie.
- Ben meritate! Come sono stati questi ultimi sei mesi?
Prima che lui avesse il tempo di rispondere, le si illuminò il volto:
- Vieni a trovare Cecilie! La California è stupenda in questo periodo dell'anno! Abbiamo posto e la
spiaggia è a cinque minuti a piedi.
- Ci penserò. Grazie. Magari non va bene a Cecilie.
- Ma certo che sì! Ne sarebbe così felice. Tutti dicono che ci verranno a trovare, ma non lo fa nessuno.
Lui sorrise, ma lasciò cadere l'argomento.
- Sono stati i sei mesi più turbolenti della mia vita. Tutto quello che poteva andare storto è andato storto,
però...
Si passò nuovamente la mano tra i capelli, un gesto di timidezza che aveva da quando si conoscevano.
- È stato anche molto eccitante. Una fucina di solidarietà.
Credici o no, ma tutto quel putiferio che ci ha coinvolto a livello di partito non l'ha distrutta. Birgitte,
cioè.
E riuscita a tenerci uniti. Come dire, noi contro di loro. I responsabili contro i faciloni.
Un uomo alto e scuro arrivò con il cibo. Il pollo color rosso fuoco emanava vapore e profumo, e Hanne
Wilhelmsen si rese conto che non mangiava nulla da quando aveva fatto colazione. Prese una pagnotta di
naan e si mise a parlare con la bocca piena.
- Com'era Birgitte Volter? In realtà, intendo. Hai lavorato gomito a gomito con lei per molti anni, vero?
- Mmmh.
- Com'era?
Oyvind Olve era un uomo riflessivo e posato della Norvegia occidentale. Aveva fatto carriera politica
partendo da una base proletaria, grazie a un lavoro duro e onesto e alla capacità di tenere la bocca chiusa
quando era il caso. Adesso non sapeva cosa dire. Era vero che Hanne Wilhelmsen era una buona amica,
ma era anche una poliziotta. Era già stato interrogato due volte, da un gigante che, se avesse indossato
altri abiti, avrebbe potuto essere l'emblema della propaganda nazista nella Germania degli anni Trenta.
Esitò. Gli girava la testa per via della birra.
- Era una delle persone più emozionanti che io avessi mai incontrato, - disse alla fine. - Era premurosa,
capace, aveva idee e visioni. La caratteristica forse più importante era il suo estremo senso del dovere.
Non lasciava mai le cose come stavano, le sue responsabilità se le assumeva sempre.
Inoltre... era molto gentile e buona.
- Gentile e buona? - Hanne rise. - Esistono politici gentili e buoni? Cosa intendi dire?
Oyvind Olve sembrò rifletterci sopra per un attimo, poi fece cenno al cameriere di portargli un'altra
media.
Guardò interrogativamente Hanne, che fece segno di no con la mano.
- Birgitte voleva il bene. Era convinta sul serio che lo scopo della politica sia quello di creare una
società migliore per più persone possibile. Non soltanto nei discorsi.
Non soltanto sulla carta. A lei stavano davvero a cuore gli esseri umani. Insisteva per esempio a leggere
tutte le lettere che le arrivavano da ogni parte della Norvegia, di cittadini che volevano esporle il proprio
caso. E ne arrivano tante, credimi. Non che possiamo fare un granché, ma lei le leggeva tutte e i destini di
certe persone l'avevano toccata. In un paio di occasioni è pure intervenuta. Con grande irritazione dei
burocrati.
Un'irritazione immensa.
- Era impopolare tra di loro? Tra i burocrati, intendo?
Oyvind Olve la fissò, a lungo. Poi riprese a mangiare.
- Sai, è quasi impossibile a dirsi. Non ho mai avuto a che fare con uno staff apparentemente così fedele
come quello del Gabinetto del primo ministro. È davvero impossibile dire se Birgitte gli piacesse o
meno. E forse è anche poco interessante -. Si stropicciò gli occhi con gli indici piegati, come un bambino
piccolo, stanco.
- E la vita privata? - gli chiese Hanne.
La domanda gli giunse del tutto inaspettata e, dopo essersi tolto le mani dal viso, Oyvind la guardò con
un'espressione quasi inorridita.
- Privata? Non posso dire di averla conosciuta in privato.
- Non la conoscevi? Ma se hai lavorato al suo fianco per anni!
- Lavorato, sì. Non è come conoscere qualcuno a livello privato. Questo tu lo dovresti sapere.
Sorrise notando che Hanne era arrossita un po'. Lei lavorava alla polizia di Oslo da tredici anni e
soltanto due colleghi avevano messo qualche volta piede nell'appartamento che divideva con Cecilie
Vibe.
- Ma voi avete delle feste, occasioni simili, - insistette Hanne. - Nel partito, intendo. E poi hai girato per
il mondo con lei, no?
- Non molto. Ma cos'è che vuoi sapere di preciso?
Dopo aver appoggiato coltello e forchetta, Hanne Wilhelmsen si pulì la bocca con un tovagliolo di stoffa
bianca.
- Lasciami cominciare da un'altra parte, - disse pacata. - È stata Birgitte Volter a scegliere Ruth-Dorthe
Nordgarden come ministro della Salute?
Adesso toccò a Oyvind Olve arrossire. Si mise a trafficare con un pezzo di naan che inzuppò nella salsa e
che gli gocciolò sulla camicia macchiandola di rosso.
- Non te lo avrei detto se non fosse morta, - mormorò mentre tentava di togliere la chiazza, che si ingrandì
sempre di più a furia di essere strofinata con un tovagliolo asciutto. - Forse è difficile da capire.
- Mettimi alla prova, - gli sorrise Hanne.
- Formare un governo è un gioco a incastro enorme e complicato, - esordì Oyvind Olve. - Ovviamente
non è soltanto il primo ministro a scegliere i ministri in totale autonomia. Bisogna valutare e tener conto
di moltissimi elementi. Geografia, sesso...
Cercò di reprimere un rutto.
- La confederazione sindacale Lo deve dire la sua. Personaggi centrali del partito. Il responsabile della
segreteria del partito. Eccetera, eccetera.
Gli venne un rigurgito e si battè sullo sterno.
- Acidità di stomaco, - mormorò a mo' di scusa.
- Ma Ruth-Dorthe Nordgarden, - gli domandò nuovamente Hanne che, spostato il piatto da una parte,
aveva appoggiato i gomiti sul tavolo. - Chi l'ha scelta?
Oyvind Olve estrasse una bustina monodose di Balancid prima di assumerne il contenuto nel modo più
discreto possibile. Non fu una cosa semplice.
- Non dovresti mangiare indiano se hai problemi di stomaco, - commentò Hanne. - La Nordgarden?
- Non era stata Birgitte Volter a volerla. Ruth-Dorthe le è stata imposta.
- Da chi?
- Ti prego, Hanne. Non sei neanche membro del partito.
- Ma io voto per voi, - ridacchiò lei. - Tutte le volte!
Capì comunque che non avrebbe ottenuto altre informazioni.
Non sull'argomento. Forse sarebbe stata più fortunata su quello che le stava veramente a cuore.
- Ruth-Dorthe Nordgarden ha avuto una storia con Roy Hansen? - Il tentativo era stato così brusco che
Oyvind Olve ebbe un altro rigurgito: dall'angolo della bocca gli colò una striscia sottile di Balancid.
Riprese il tovagliolo maltrattato.
- Tu, Hanne, più di chiunque altro, non sei il tipo da ascoltare le voci che circolano.
- Significa che te ne erano già arrivate all'orecchio?
Oyvind Olve alzò gli occhi al cielo.
- Se dovessi stare a raccontarti tutto quello che ho sentito su chi va a letto con chi negli ambienti politici
norvegesi, potremmo tranquillamente prenotare e rimanere in questo locale per il resto della settimana, -
replicò con un debole sorriso.
- Non c'è fumo senza arrosto, - commentò Hanne.
- Ti voglio dire una cosa, - affermò Oyvind piegandosi verso di lei. - Ho visto stanze stracolme di fumo
senza che ci fosse neanche un pezzetto di carne. Questo l'ho imparato bene e da tempo. Anche tu dovresti
saperlo.
Secondo le dicerie, con quanti uomini te la saresti fatta prima che la gente cominciasse a intuire la verità?
E alla Borsa del gossip con quante donne saresti stata?
La piega che aveva preso la conversazione non era più piacevole. Gli avanzi del pollo tandoori avevano
un odore intenso e acre, e la birra era diventata insipida. Faceva troppo caldo nel ristorante e Hanne
prese a tirarsi il collo del maglione. Lei viveva nel suo fedele isolamento con Cecilie da quasi
diciannove anni e sapeva che alla centrale di Oslo il suo nome veniva collegato ai più incredibili intrecci
sessuali. Guardò l'ora.
- Una cosa, comunque, - disse. - Si conoscevano? Birgitte Volter e Ruth-Dorthe Nordgarden?
- No, - rispose Oyvind Olve mentre faceva un cenno al cameriere perché gli portasse il conto. - Non nel
significato che tu dai alla parola conoscersi. Non privatamente.
Erano compagne di partito.
- E tu non sai se Ruth-Dorthe... che razza di nome! - Sorrise prima di continuare. - Se conosceva Roy
Hansen?
- Non che io sappia -. Oyvind Olve scosse la testa.
- Quindi se ti dicessi che...
Era arrivato il cameriere, che dopo qualche attimo di esitazione aveva appoggiato il conto davanti ad
Hanne, anche se era stato Oyvind a chiederlo.
- Vedi quanta autorità emani! - ridacchiò lui.
- Se ti dicessi che ho visto la Nordgarden e Roy Hansen seduti davanti a una birra al Café 33 sei mesi fa,
ti sorprenderebbe?
Oyvind la guardò con una ruga improvvisa tra gli occhi da orsetto.
- Si, - rispose piegando la testa di lato. - Mi stupirebbe molto. Sei proprio sicura che fossero loro?
- Al cento per cento, - confermò Hanne Wilhelmsen spingendo il conto verso il lato opposto del tavolo. -
Per il momento non ho un lavoro fisso!
- Se è per questo neanche io, - borbottò Oyvind Olve, che in ogni caso pagò il conto.

Ore 23.10, Vidars gaie ne.

- Mi devi aiutare, - sussurrò la guardia giurata. - Cazzo, Brage, ho bisogno d'aiuto!


Con indosso una maglietta di un bianco immacolato e un paio di mutande che imitavano il disegno delle
tute mimetiche, Brage Hàkonsen non credeva ai propri occhi.
Davanti alla porta di casa sua c'era la guardia del palazzo del governo e sembrava al culmine della
disperazione. I capelli, sporchi e a ciocche, andavano in tutte le direzioni, gli occhi erano sbarrati come
se avesse appena visto un vampiro. I vestiti gli pendevano addosso e le spalle erano scomparse sotto una
giacca militare troppo grande.
- Ma sei impazzito, - sibilò Brage. - Venire qui! Adesso!
Vattene e non farti più vedere a casa mia!
- Ma Brage, - piagnucolò la guardia. - Cazzo, ho bisogno d'aiuto! Io ho...
- Me ne fotto dì quello che hai fatto!
- Ma Brage, - insistette l'altro. - Ascoltami! Fammi entrare, ti devo parlare!
Brage Hàkonsen appoggiò una mano enorme sul petto dell'altro, che era venti centimetri più basso di lui.
- Per l'ultima volta: sparisci.
Qualcuno armeggiava con la porta al piano di sotto, Brage Hàkonsen sussultò e respinse con violenza la
guardia giurata sul pianerottolo. Poi richiuse l'uscio e l'altro lo sentì trafficare con la serratura di
sicurezza.
Un giovane stava salendo le scale. La guardia giurata si tirò il bavero della giacca fin sulle orecchie e
fissò la parete mentre l'uomo lo superava. Poi rimase immobile ad ascoltare i passi che salivano fino al
quarto piano.
Cosa doveva fare? Aveva le lacrime agli occhi e la bocca gli tremava. Si sentiva malissimo e fu costretto
a sedersi sulle scale per non cadere.
«Devo sparire, - disse tra sé. - Devo sparire».
Alla fine si alzò e si mise a vagabondare nella notte di Oslo.

Mercoledì 9 aprile 1997


Ore 08.32, centrale di polizia, Oslo.

L'arma si trovava in una busta imbottita, su cui c'era scritto soltanto «Polizia di Oslo» con un pennarello
nero, a punta grossa. Niente affrancatura. Il poliziotto sulla soglia dell'ufficio di Hàkon Sand aveva il
fiatone.
- Si trovava in un cassone all'ufficio postale centrale, - disse ansimando. - Il personale si è reso conto che
poteva essere importante e ce l'hanno consegnata proprio adesso.
Hàkon Sand indossava guanti in latex. La busta era già stata aperta, in sé una negligenza grave da parte di
chi l'aveva fatto: avrebbe potuto contenere una bomba.
Hàkon Sand estrasse una pistola che con enorme cautela appoggiò su un foglio di carta bianca.
- Una Nagant, - sussurrò Billy T. - Modello 1895, russo.
- Non ti ci mettere anche tu, - sospirò Hàkon. - Tu e anne passate i sabati sera facendo finta di partecipare
ad un quiz?
- Indovina! - rispose Billy T. - Su armi e moto. E lei ne sa più di me in entrambi i casi.
- Non toccare, - lo ammonì Hàkon Sand quando il detective si chinò sul revolver.
- Non sono mica scemo, - borbottò Billy T. studiando l'arma a dieci centimetri di distanza. - Scommetto
che è stata chimicamente ripulita di ogni indizio che ci possa condurre da qualche parte. É stata lucidata e
lustrata fino a sembrare praticamente nuova.
- Hai ragione, - sospirò Hàkon. - Ma non toccarla lo stesso. Neanche la busta. Andrà tutto alla
Scientifica.
- Senti!
Billy T. si illuminò di colpo.
- Se si trovava in un cassone dell'ufficio postale centrale... ci sarà un video? Quel maledetto locale sarà
pieno di videocamere, no?
- Ci avevo già pensato, - mentì Hàkon. - Ehi!
Indicò il poliziotto che, ancora in piedi sulla soglia, allungò il collo.
- Fai esaminare i video girati nelle ultime ventiquattr'ore.
No, anzi, facciamo le ultime quarantotto.
- E così troveremo le immagini sfocate e inservibili di un tipo con il berretto ben calato sul viso che
oltretutto ha avuto l'accortezza di girarsi mentre veniva ripreso, -.„ borbottò Billy T.
- Hai una proposta migliore? - replicò Hàkon, un po' troppo ad alta voce.
Billy T. si strinse nelle spalle prima di tornare nel suo ufficio.

Ore 12.03, ìens Bjelkes gaie 13...

Era stata un'idiozia mettersi in malattia. Un vero e proprio errore. Il capo però lo aveva guardato con
espressione preoccupata, confermandogli che aveva un aspetto spaventoso. Proprio come si sentiva
dentro.
Doveva andarsene. Preferibilmente via dal paese, ma avrebbe destato sospetti, questo lo capiva.
Avrebbe potuto recarsi a Tromso. Darsi allo sci di fondo. Gli avrebbe fatto bene. Morten era il suo
migliore amico e gli diceva sempre di andare da lui. Quell'inverno, lassù c'era una montagna di neve.
Preparò uno zaino voluminoso e si diresse all'aeroporto, senza aver comprato il biglietto. Era
impossibile che un ' mercoledì d'aprile gli aerei fossero al completo. Non in pieno giorno, almeno.

Giovedì 10 aprile 1997


Mattino, ministeri.

«Tutte le previsioni indicano che la composizione del nuovo governo sarà uguale a quella precedente,
fatta eccezione per Joachim Hellseth, attuale portavoce al Parlamento per le politiche finanziarie, che
assumerà l'incarico di ministro delle Finanze. Ulteriori cambiamenti all'interrno del governo
costituirebbero una grande sorpresa».
Il ministro dell'Agricoltura spense la radio prima di ap| poggiare le spalle allo schienale della
poltroncina. Proba! bilmente il reporter aveva ragione. Quella era l'impressione che il giorno prima
aveva dato Tryggve. Aveva sorriso, anche se non di cuore, dandogli una pacca sulla spalla.
Non che fosse una questione di vita o di morte. Certo, lui desiderava continuare. Gli piaceva. Il
ministero^ dell'Agricoltura era un posto stimolante: si trattava di lavoro importante e carico di sfide che
avrebbe voluto portare avanti. Ma se non era possibile, non era possibile. fuori lo aspettavano un
mucchio di altri incarichi.
Squillò il telefono.
Rimase per un po' seduto a guardarlo sorridendo:
Si sentiva tranquillo e a suo agio e sapeva che sarebbe stato bene indipendentemente dal contenuto della
telefonata.
Alzò la cornetta.
- Tryggve Storstein, - gli annunciò la segretaria.
- Passamelo, - rispose il ministro dell'Agricoltura, che dopo una breve pausa aggiunse:
- Ciao Tryggve, come va?
- Meglio. Almeno adesso dormo. Sei ore stanotte. Mi sento un uomo nuovo e migliore.
Il ministro dell'Agricoltura ridacchiò mentre tirava fuori la confezione di tabacco.
- Churchill ce la faceva con quattro. E la sua situazione era più serena della tua!
Gli sembrò di cogliere un sorriso all'altro capo del filo.
- Bene, - disse Tryggve Storstein. - Fai ancora parte della squadra, vero?
L'interpellato sentì la mano che teneva la cornetta cominciare a tremare. Teneva a quell'incarico più di
quanto volesse ammettere? Deglutì, tossicchiò.
- Certo. Se vuoi.
- Voglio. Lo vuole il partito.
- Ne sono felice, Tryggve. Grazie.
La sua voce risuonò genuinamente contenta.
Il ministro della Cultura stava sfogliando i quattro fax che le avevano appena messo sulla scrivania. Si
accese una Prince mild, registrando con irritazione di aver già fumato più di quello che in realtà si
concedeva prima di pranzo.
Erano offerte di lavoro. Da due stazioni televisive e da un giornale. C'era poi quella di una
multinazionale che aveva un progetto sull'informazione rivolta verso l'esterno.
Fece scorrere lo sguardo sui fogli senza leggerli con attenzione prima di piegarli e infilarli in un cassetto
contrassegnato dalla dicitura «Privato» scritta con l'etichettatrice.
Suonò il telefono.
Sollevò la cornetta ed ebbe una conversazione che durò quarantacinque secondi.
Quando riagganciò, sorrideva da un orecchio all'altro.
Chiamò la segretaria mentre ripescava i telefax che aveva appena ritirato.
- Distruggili, per favore, - le disse porgendole le carte.
La donna più anziana emise un sospiro di sollievo.
- Complimenti, - sussurrò strizzando l'occhio destro.
- Sono così felice!
Il ministro della Salute Ruth-Dorthe Nordgarden non riusciva a concludere niente. Ogni volta che il
telefono aveva suonato ci si era avventata sopra, rimanendo puntualmente delusa. Adesso non era più
delusa, adesso era arrabbiata.
Per un po' aveva valutato l'ipotesi di telefonare a qualcuno degli altri, per scoprire se sapessero niente.
D'altro lato sarebbe stata la più grande delle umiliazioni avere la conferma di quello che a poco a poco
iniziava a intuire: loro avrebbero continuato, lei no.
Furiosa afferrò una borsa e si mise a rovistarci dentro.
Alla fine trovò quello che cercava: una carota avvolta nella carta da alimenti.
In tutta la testa le rimbombò il rumore della propria masticazione.

Ore 13.46, locali dei servizi di sicurezza, centrale di polizia, Oslo.

- Non può essere un caso. Non è possibile.


Il funzionario che si era precipitato nell'ufficio del capo dei servizi di sicurezza senza bussare era
eccitato e aveva il fiatone. Battè il palmo della mano sulle carte che aveva appoggiato davanti a Ole
Henrik Hermansen.
- Secondo la Sàpo si tratta di sabotaggio. Il tubo della benzina era danneggiato in modo inspiegabile. Non
per via dell'usura e neanche per un errore di manutenzione. Tutto l'aereo era stato controllato con cura
poche ore prima della partenza, e non avevano trovato niente.
Ole Henrik Hermansen aveva perso la sua immutabile espressione da sfinge. Adesso aveva un'aria tesa e
vigile: aggrottò la fronte, gli occhi che rilucevano dalla preoccupazione.
- È sicuro? O per essere più precisi: quanto è sicuro?
- Ovviamente non lo sanno ancora. Stanno compiendo altre indagini. Ma non è tutto, Hermansen. C'è
molto di più!
Il funzionario estrasse dalla ventiquattrore una cartella rossa che sfogliò fino a trovare una foto. Era
grande, leggermente sgranata, a colori: il profilo di un uomo giovane dai capelli biondi, pettinati
all'indietro. Aveva un paio d'occhiali senza montatura e una sigaretta all'angolo della bocca.
- Tage Sjògren, - annunciò il funzionario. - Trentadue anni, di Stoccolma, capo di un gruppo dell'estrema
destra che si chiama «Lotta bianca». Hanno già avuto a che fare con la polizia, ma più che altro per i
disordini causati in occasione del compleanno di Carlo XII e cose simili.
Sembra che nell'ultimo anno siano praticamente svaniti nel nulla. La Sàpo li ha persi di vista, ma noi
sappiamo che sono ancora operanti. E una settimana fa...
Adesso il funzionario era così infervorato che scoppiò a ridere. Al capo dei servizi di sicurezza ricordò
il figlio, quando da bambino arrivava a casa correndo per far ve-Jere la pagella prima delle vacanze.
-... Tage Sjògren è venuto in Norvegia Ole Henrik Hermansen trattenne il respiro. Non se ne accorse
prima che iniziassero a fischiargli le orecchie, ed espirò così dalle labbra contratte: un debole suono di
tromba sottolineò l'importanza sensazionale di quelle informazioni.
- Merda, - disse piano. - Sappiamo altro dei suoi movimenti qui in Norvegia?
Il funzionario si abbandonò contro la poltroncina portandosi le mani dietro la nuca.
- No. Il brutto è che questo Tage è ritenuto così poco importante dai servizi di sicurezza svedesi che non
ci hanno informati. Sanno soltanto che è venuto qui e che è tornato in Svezia...
Adesso era raggiante, sembrava un cane da caccia all'alce che aspettava di essere sguinzagliato.
-... sabato mattina!
Ole Henrik Hermansen fissò il suo sottoposto. Molto a lungo., - Chiamami il capo della Sapo al telefono,
- disse bruscamente. - Dobbiamo chiedergli di interrogare quest'uomo.
Immediatamente.

Ore 22.30, ministero della Salute.

L'autista era seduto nello scantinato e aspettava dalle cinque del pomeriggio. Lei sapeva che il suo modo
di usare le auto blu irritava tutti, compreso il segretario generale del ministero e i suoi collaboratori
politici, ma loro non avevano idea di quanto infastidisse lei essere] costretta a conversare con i tassisti:
si sentivano a tutti i costi in obbligo di innalzarsi a rappresentanti del Popolo.
Con l'incarico che rivestiva, doveva pur esserle con-] cesso qualche privilegio.
Per di più sembrava che quello sarebbe stato l'ultimo giorno in cui avrebbe potuto godere del vantaggio
di avere un autista privato. Tryggve Storstein non aveva ancora chiamato.
Era trascorso così tanto tempo che i giornalisti iniziavano a fare congetture. Liten Lettvik l'aveva
chiamata al suo numero di cellulare segreto per chiederle se fosse vero che non le era stato chiesto di
continuare. Ruth-Dorthe Nordgarden aveva riagganciato con violenza. Il telegiornale era stato più cauto,
eppure avevano messo un punto di domanda accanto alla sua foto presentando i candidati che secondo
loro sarebbero entrati nel nuovo governo.
Aveva bisogno di un'altra carota. Nervosa rovistò ancora nella borsa, ma senza trovare niente. Ce n'era
un sacchetto nella cucina comune.
Sulla porta dell'anticamera, rimase per un attimo immobile.
Avrebbe sentito il telefono dalla cucina? Prima di darle il tempo di decidere, l'apparecchio squillò.
Aveva collegato la linea direttamente alla sua, prima di mandare tutti a casa. Non voleva testimoni per la
più grande delle umiliazioni.
- Pronto, - urlò nella cornetta. Si era precipitata alla scrivania e adesso era in piedi dalla parte sbagliata,
niente su cui sedersi.
- Pronto? - La voce sembrava stupita. - Con chi parlo?
Era Tryggve.
- Ciao Tryggve, sono io, Ruth-Dorthe.
- Sei ancora al lavoro?
- Sto mettendo un po' d'ordine.
Pausa.
- Lascia perdere. Continui.
Nuova pausa, lunga.
- Grazie, Tryggve. Non me lo scorderò mai. Questo giorno, voglio dire. Mai.
All'altro capo del telefono Tryggve Storstein sentì i peli rizzarsi sulla nuca.
I ringraziamenti di Ruth-Dorthe suonavano quasi come una minaccia.

Venerdì 11 aprile 1997


Ore 10.55, Parlamento.

Da quando si erano tenute le esequie del vecchio monarca nel gennaio 1991, il centro di Oslo non era mai
stato così affollato. Le vie laterali che conducevano al Parlamento erano state chiuse al traffico e
un'armata di arcigni poliziotti in uniforme cercava di tenere la Kirkegata aperta in modo che il corteo,
atteso nel giro di pochi minuti, potesse passare. Per il momento sembrava difficile: lo spazio tra le ali di
folla assiepate a ciascun lato della strada era stretto quanto un sentiero. C'erano telecamere ovunque e
Brage Hàkonsen vedeva, sparsi qua e là, gli uomini facilmente riconoscibili dei servizi di sicurezza:
avevano l'auricolare e gli occhiali da sole anche se era nuvoloso.
Due cavalli della polizia girarono nella Karl Johan. Trotterellavano eleganti e nervosi ognuno sul proprio
lato della strada. Fu efficace: la gente si ritrasse spinta da una certa paura per quegli animali imponenti
che schiumavano dalla bocca e strabuzzavano gli occhi. D'un tratto spuntarono da dietro l'angolo della
via principale e lungo la Kirkegata quattro moto, seguite dalle limousine che formavano il corteo funebre.
A velocità elevata sfrecciarono verso il duomo di Oslo, dove si fermarono di colpo una dietro l'altra.
Ospiti illustri provenienti da tutto il mondo vennero condotti velocemente, e a volte in modo alquanto
brutale, nell'atrio della chiesa da poliziotti in uniforme e in borghese. Brage Hàkonsen ridacchiò quando
dal suo posto d'osservazione all'incrocio tra Grensen e Kirkegata scorse Helmut Kohl che protestava
perché lo avevano preso per un braccio: spinse via il poliziotto troppo zelante, più basso di venti
centimetri, e si prese tutto il tempo necessario per girarsi verso qualcuno che forse conosceva per
salutarlo.
Arrivò la banda musicale delle Guardie reali. La marcia funebre di Chopin calò come un sipario
silenzioso sulla folla.
Brage Hàkonsen si tolse il berretto: non per rispetto, ma perché sapeva che li era importante fare come
tutti gli altri.
Dietro la banda giunse una macchina nera, con le bandiere norvegesi sul cofano e tendine a lutto sui
finestrini che non impedivano ai presenti di vedere che la bara di Birgitte Volter era bianca e sul
coperchio aveva una corona di rose di color rosso scuro, come un anello di sangue denso, coagulato. Qua
e là Brage Hàkonsen sentiva che la gente cominciava a tirare su con il naso. Per qualche inspiegabile
motivo, su cui non voleva assolutamente soffermarsi, avvertì anche lui la gravità del momento. Una
sensazione di solennità, di dolore.
Irritato se la scrollò di dosso e si avviò verso la piazza costeggiando la folla.
Avvenne di colpo.
Urlando a squarciagola, quattro uomini e sette donne si aprirono un varco tra la gente assiepata sul
marciapiede spingendosi verso il corteo funebre prima che la polizia avesse il tempo di reagire.
- Stop thè whaling, - gridavano. - Killersì Killers!
Brage si bloccò e all'improvviso si trovò a fissare gli «Fermiamo la caccia alle balene», «Assassini»
[N.d.T.]. occhi di una gigantesca balena di gomma che si gonfiava, mentre uno degli attivisti teneva una
bombola di gas elio tra le gambe.
- Stop thè whaling now! Stop thè whaling now!
Gli slogan urlati a tempo, assordanti, quasi soffocavano la musica delle Guardie reali, che erano le
uniche persone nelle strette vicinanze a non notare quella fonte di disturbo. Continuarono a suonare: il
ritmo pesante, carico di morte rimbombava sotto il soffio della balena, che adesso aveva raggiunto
dimensioni quasi naturali e si contorceva a mano a mano che si ingrossava. Sembrava quasi che
desiderasse nuotare dentro il duomo. Uno degli attivisti, apparentemente oltre la cinquantina, con una
barba enorme da marinaio e alcune mostrine sulle spalle che Brage non riuscì a decifrare, afferrò un
barattolo che gli porgeva una giovane. Alla velocità di un fulmine gli tolse il coperchio con un coltellino
svizzero e con un movimento ampio, dimostrativo rovesciò la vernice rossa sul carro funebre. L'autista,
che nel frattempo aveva capito la situazione, fece retromarcia. I cavalli nitrirono spaventati mentre
trottavano all'indietro. La pittura rossa finì sull'asfalto e solo qualche goccia raggiunse l'auto che
conteneva le spoglie mortali di Birgitte Volter.
Anche se la polizia era stata colta di sorpresa, impiegò pochissimo tempo per bloccare l'azione. Venti
agenti si scagliarono sui dimostranti: in cinque minuti li ammanettarono, bucarono la balena e infilarono
sia gli attivisti sia il cetaceo inerte in una camionetta parcheggiata accanto a Hennes & Mauritz. Il tutto
era avvenuto in maniera veloce ed efficace nonostante molti spettatori maschi avessero provato l'impulso
di aiutare la polizia e con le loro grida e il loro comportamento irato avessero reso il lavoro decisamente
più difficile di quello che era.
- Ehi! - gridò Brage Hàkonsen ammanettato. - Io non c'entro niente!
Lottò con tutte le sue forze quando tre uomini lo costrinsero a salire nel furgone.
- Io non c'entro un cazzo con tutto questo! Mi sentite?
- Stai zitto, - gli sibilò una donna in uniforme seduta sul sedile anteriore. - Non avete il minimo senso del
pudore.
Rovinare un... rovinare un funerale! Non avete vergogna!
Si era girata verso di lui e le parole sembravano essere in grado di perforare la rete che la divideva dal
vano del furgone dove sedevano le persone arrestate.
- Ma io non c'entro un cazzo con questa storia! - sbraitò nuovamente Brage, mentre picchiava più volte la
testa contro la parete. - Lasciatemi andare, merda!
L'unica risposta che ebbe fu il rombo del motore del furgone e il mantra delle persone arrestate insieme a
lui:
- Stop thè whaling now! Stop thè whaling now!

Ore 12.13, duomo di Oslo.

- Bellissimo! Bellissimo e così commovente!


Cinciallegra Grinde si sforzava di parlare piano, ma la sua voce era così stridula che anche i suoi
sussurri si sentivano a molti metri di distanza. Appesa al braccio del figlio, sfoggiava un abbigliamento
che sarebbe stato più consono] ai funerali del Padrino che a quelli di un primo ministro
socialdemocratico norvegese. Era tutta in nero. E luccicante.
Le scarpe con il tacco alto, le calze a rete, il vestito, il mantello, e come se non bastasse portava un
cappello a forma di scatoletta portapillole, con tanto di veletta nera e dura calata sul viso. Quello che non
sapeva, ma che l'avrebbe riempita di gioia quando quella sera stessa avrebbe guardato le riprese della
cerimonia alla Tv, era di essere stata immortalata più volte dalle telecamere: una donna vestita così
rigorosamente a lutto, e che singhiozzava tutto il tempo, doveva per forza di cose far parte della cerchia
più stretta della famiglia.
- Controllati, mamma, - le sussurrò Benjamin Grinde. - Non puoi darti una calmata?
Nell'atrio della chiesa c'erano Roy Hansen e Per Volter.
Indossavano entrambi l'abito scuro. Il figlio era più alto del padre di una ventina di centimetri. Tutti e due
erano grigi in volto e tenevano lo sguardo abbassato. Stringevano mani a casaccio e dopo un attimo di
esitazione molti preferirono superarli senza far loro le condoglianze. Altri invece scambiarono con i due
qualche rapida parola di conforto. La maggior parte dei ministri donne li abbracciarono a lungo e con
calore.
Liten Lettvik, che si trovava insieme a un gruppo di giornalisti a qualche metro di distanza, scrutava le
persone a lutto. Quando apparve Ruth-Dorthe Nordgarden, l'ultima della fila dei ministri, Liten notò che
Roy Hansen le dava le spalle, apparentemente per via di un attacco improvviso di pianto che però non si
arrestò prima che Ruth-Dorthe rinunciasse e uscisse attraverso le pesanti porte in rovere della chiesa. Per
Volter fu ancora più esplicito del padre e, rifiutandosi di stringere la mano tesa della donna, si girò
ostentatamente verso il vescovo di Oslo, che, bardato di tutto punto, giganteggiava accanto ai due: pareva
un'aquila in là con gli anni che si atteggiava impropriamente a pavone.
- Roy! - gli sussurrò Cinciallegra Grinde quando fu il suo turno. - Roy! Che tragedia!
Liten Lettvik si avvicinò all'uscita: chi era quella donna anziana al braccio del giudice Grinde?
- Anche Birgitte, - continuò Cinciallegra Grinde. I presenti avevano cominciato a girarsi verso di lei. -
Che cosa terribile. Piccola Birgitte! Piccola, innocente, bella Birgitte.
Tirò rumorosamente su con il naso prima di girarsi verso Per Volter, il quale fissava sorpreso quella
strana donna che non aveva mai visto prima.
- Per! Che bel ragazzo!
Tentò di abbracciarlo, ma il giovane si ritrasse spaventato.
Fu così che Cinciallegra Grinde si trovò appesa al braccio del figlio, pericolosamente protesa in avanti. I
tacchi a spillo si erano incastrati in una fessura del pavimento e lei stava per cadere.
- Oddio, svengo, - gemette.
Benjamin Grinde strinse il braccio della madre mentre un poliziotto l'afferrava per la vita rimettendola in
posizione verticale.
- La aiuto a uscire, signora, - le disse gentilmente e, senza aspettare risposta, la condusse fuori dalla
chiesa fino alla piazza antistante di Stortorget, facendosi strada per trenta metri tra la folla. Benjamin
Grinde li seguì furtivo con il bavero del cappotto ben tirato sulla faccia.
I giornalisti davanti al duomo ridacchiarono di gusto alla scena. Tutti tranne Liten Lettvik che invece
annotò nel suo taccuino a spirale alcune parole:
«Donna anziana insieme a B. G. Interessante?»

Ore 13.00, davanti al palazzo reale.

I giornalisti avevano fatto centro, indovinando tutti e sedici i mandati. La composizione del governo non
presentava sorprese. Tryggve Storstein era al centro di una lunga fila di ministri, con in mano un grande
mazzo di rose rosse e un sorriso assente, riservato, perfetto per l'occasione: in fondo era passata soltanto
un'ora da quando il suo predecessore era stato sepolto. Si era radunata meno gente del solito a salutare il
nuovo governo, ma c'erano molti più giornalisti e fotografi del consueto.
Piovigginava e il ministro dei Trasporti sembrava impaziente di concludere la rituale serie di foto.
Continuava a guardare l'orologio e si diresse troppo presto verso le auto nere di rappresentanza. Tryggve
Storstein la rincorse per farla tornare.
Finalmente tutto ebbe fine e il gruppo si sciolse. Liten Lettvik afferrò il braccio di Ruth-Dorthe,
costringendola a un abbraccio.
- Sul cellulare stasera, - le sussurrò in un orecchio.

Ore 17.15, centrale di polizia, Oslo.


- Prima invita i piedipiatti a vedere le sue armi e poi svanisce! Non capisci che la cosa puzza, Hàkon!
Hàkon Sand tamburellò in modo eloquente le dita della mano destra sulla scrivania.
- Non stare a casa quando si è in malattia non lo definerei «svanire», Billy T. Può essere ovunque. Dal
medico.
Dalla sua ragazza. Da sua madre, a titolo di cronaca.
- Ma non risponde neanche al telefono! È da ieri sera che lo chiamo di continuo, non sarà mica dal
medico giorno e notte!
- All'ospedale, allora. O dalla sua ragazza, come ti dicevo.
- Quello li non ce l'ha la donna. Garantito.
Hàkon Sand si arruffò i capelli prima di invitare Billy T. a sedersi.
- Che cosa avresti in realtà su questa guardia giurata? - domandò con voce stanca.
- Primo: era sul luogo del crimine. Secondo: possiede delle armi. Quattro denunciate e che risultano dal
nostro registro. Ed elemento ancora più sospetto...
Billy T. si allungò verso la bottiglia mezza vuota di Coca-Cola ingollandone il contenuto senza chiedere
il permesso al proprietario.
- Prego, - commentò acido Hàkon.
- Ma stammi a sentire, - proseguì Billy T. prima di contorcere il viso in una smorfia e, dopo aver
sollevato una coscia, di mollare una potente scoreggia.
- Cazzo, Billy T., ma ci vuoi dare un taglio una volta per tutte!
Hàkon si alzò mentre agitava febbrilmente una mano e si tappava il naso con l'altra. Poi arrancò verso la
finestra e la spalancò. Con una risata Billy T. buttò la bottiglia vuota nel cestino.
- L'elemento più sospetto, - ripetè, - è che quell'uomo ha cambiato idea.
- Cosa intendi dire con «ha cambiato idea»?
Hàkon era seduto con in mano una scatola di fiammiferi, che si mise ad accendere uno dopo l'altro non
appena lo zolfo di quello precedente si era consumato.
- Prima ha detto che potevo andare a casa sua a vedere le armi. Poi ha cambiato idea dicendo che me le
avrebbe portate qui. Ho accettato. Da quel momento in poi è sparito.
E adesso, a quanto pare, è in malattia. Ah!
- Quindi secondo te, - commentò Hàkon lentamente, - noi dovremmo arrestare uno solo perché ha svolto
il suo lavoro venerdì, si è permesso di non correre subito da Billy T. come gli aveva promesso e ha
compiuto un crimine gravissimo come quello di ammalarsi!
Dopo aver gettato la scatola di fiammiferi sulla scrivania, piegò indietro la testa prima di appoggiare le
mani sui braccioli.
- Allora devi trovarti un altro politiinspektor. Un mandato di perquisizione presuppone un'incriminazione.
E ce n'è già stata una troppo affrettata. E poi: questo non è lavoro tuo. Tu hai gli stessi problemi di
Hanne! Mi riferisco al fatto di limitarti a svolgere l'incarico che ti è stato assegnato. Non è compito tuo
valutare il ruolo della guardia giurata in tutta questa faccenda.
- Ma Hdkon, cazzo!
Billy T. picchiò la mano sul tavolo.
- E stata Tone-Marit che ha voluto a tutti i costi farlo interrogare a me, quel tipo!
- Non importa. Scordatelo. Vedi di ritornare nel tuo ufficio e di trovare altri amici della Volter con cui
parlare.
Billy T. non disse una parola, ma sbattè la porta quando uscì.
- Stop thè whaling now! - rise di gusto e a lungo Hàkon Sand.
Soltanto dopo aver evaso due telefonate e quando stava per riprendere a lavorare, si accorse che Billy T.
lo aveva fregato per bene.
La copia del referto dell'autopsia, che non riguardava assolutamente il detective e che lui aveva insistito
come un bambino per vedere, non era più sulla scrivania.
Doveva essersela sgraffignata Billy T.
Ore 19.00, Stolmakergata 15.

- Non vuoi vedere il telegiornale, Hanne?


Presa una birra fredda nel frigo, Billy T. guardò in giro per il soggiorno con aria soddisfatta. Le tendine
erano nuove. Anche se non aveva mai fatto caso a quelle precedenti di colore arancione, vedeva
benissimo che le nuove, di un blu intenso, erano più carine, soprattutto adesso che Hanne era stata da Ide
Skeidar e aveva comprato un divano, anche quello blu. Inoltre aveva trovato dei vecchi poster ammassati
in soffitta. Da dove avesse fatto saltare fuori le cornici non lo sapeva, ma stavano bene sulla parete dietro
il sofà. Invece le piante erano inutili. Anche se i vasi erano decorati con disegni tipici degli indiani
d'America ed erano belli, quei vegetali sarebbero morti in meno di tre settimane. Lo sapeva bene.
Ci aveva già provato.
Hanne non rispose. Sedeva immersa nella lettura del referto dell'autopsia mordendo una penna.
- Pronto! La Terra chiama Hanne Wilhelmsen! Vuoi vedere il telegiornale?
Le diede un colpetto sulla testa con la bottiglia prima di accendere il televisore. La musica funebre
rimbombava dagli altoparlanti.
- Va bene. Ma non disturbare!
Hanne si grattò irritata il punto in cui lui l'aveva colpita con la bottiglia senza neanche alzare lo sguardo
verso lo schermo. Con un gemito Billy T. si sedette a terra per seguire la trasmissione.
Di colpo scoppiò a ridere.
- Guarda quei pazzi! Guarda!
Le immagini leggermente mosse mostrarono i dimostranti infuriati che esigevano la fine della caccia
norvegese alle balene. Una voce spiegò che durante i tafferugli scoppiati davanti al duomo di Oslo erano
stati arrestati un cittadino norvegese, tre olandesi, due francesi e sei americani.
- Gli americani che manifestano contro la caccia alla balena! Proprio loro che arrostiscono, gassano e
avvelenano la gente! Che hanno milioni di abitanti quasi ridotti alla fame! Che coraggio.
Dopo aver bevuto un bel sorso di birra, Billy T. mollò nuovamente una scoreggia.
- Smettila, - borbottò Hanne, anche questa volta senza alzare la testa. - Tua madre non ti ha insegnato che
certe cose si fanno al gabinetto?
- Prima era l'orecchio, - disse acido lui. - Adesso li è passato, ma ho la pancia sottosopra. Devo far
uscire l'aria!
C'è più posto fuori che dentro, diceva sempre mia nonna.
Ssst!
Se lo sarebbe potuto risparmiare, tanto Hanne era immersa nel referto dell'autopsia. Il servizio sui
dimostranti era finito e l'annunciatore specificò che il norvegese era stato rilasciato perché era risultato
estraneo all'azione, mentre gli altri erano ancora agli arresti.
- Si può sapere cosa stai cercando? - domandò Billy T., per la prima volta mostrando un certo interesse
per quello che stava facendo Hanne.
- Niente, - sospirò lei raccogliendo le carte prima di infilarle in una busta trasparente di plastica. -
Assolutamente niente. Credevo di avere avuto un'idea geniale che avrebbe fornito la risposta a tutto.
- Cosa?
- Come sempre non era poi così geniale. Il referto dell'autopsia esclude quello che pensavo. Comunque è
stato un bene poterlo controllare. Grazie per avermelo procurato.
- Ho dovuto far fesso il tuo pupillo. Cosa avevi pensato di così geniale?
- Niente, - sorrise Hanne. - Non coincideva. Giochiamo?
- Yes!
Billy T. balzò in piedi e andò a prendere in camera l'enorme, antiquato biliardino.
- Io sono l'Inghilterra, - esclamò mentre portava in soggiorno il tavolo da gioco con le figure di gomma
infilzate in otto sbarre d'acciaio.
Che una squadra avesse le magliette verde chiaro e l'altra blu, a loro non importava niente. Poteva
trattarsi di vecchie divise di riserva.

Ore 21.30, Ole Brumms vei 212.

Finalmente solo. La giacca dell'abito scuro pendeva dallo schienale di una sedia: anch'essa sembrava
spossa-* ta e in preda allo sconforto. Roy Hansen fissò la foto di Birgitte sopra la credenza. La candela
accanto era l'unica fonte di luce della stanza. Ne rimase quasi ipnotizzato.
Quella settimana era stata irreale. Lui non aveva mai provato interesse per la New Age o per i fenomeni
paranormali, e non era neanche religioso, ma negli ultimi giorni aveva vissuto un'esperienza
extrasensoriale, tale da fargli ritenere possibile che quell'interesse gli venisse.
Tryggve Storstein, turbato e sfinito, era venuto a trovarlo, dimostrandogli una vicinanza e un dolore così
genuini da fargli stranamente piacere. Tryggve lo aveva commosso. Avevano parlato a lungo e poi erano
rimasti in silenzio ancora più a lungo. I due dell'ufficio del Protocollo presso il ministero degli Affari
esteri gli avevano fatto meno piacere. La donna aveva insistito sull'intervento dell'impresa di pulizie City
Maid: i fiori, la polvere e il buio dovevano sparire. Perlomeno adesso era tutto pulito e in ordine.
Nel pomeriggio avevano cercato tutti di appiccicarsi a lui. Lo facevano a fin di bene, lo sapeva, solo che
non desiderava averli in casa. Soltanto Per. Ma Per non voleva parlargli. O era fuori a correre, giri
interminabili, o era immerso in telefonate che potevano durare un'eternità, conversazioni con chissà chi.
Qualcuno era rimasto al suo fianco dopo il ricevimento al municipio. Lui era scappato via non appena i
funzionari del Protocollo glielo avevano permesso. Lo avevano seguito la responsabile della segreteria
del partito e altri tre. Poi si erano aggiunte ancora delle persone, ma per fortuna avevano capito a poco a
poco che lui desiderava starsene solo. E avevano messo in ordine prima di andare via.
Roy Hansen aveva tentato di accendere il televisore, ma trasmettevano unicamente servizi interminabili
sui funerali che gli ricordavano l'ultima, bruciante sconfitta: non poteva avere per sé neppure la morte di
Birgitte.
Persino mentre giaceva li, sotto il coperchio di legno bianco di una bara pesante, lei non era sua. Era
dello stato.
Dell'opinione pubblica. E prima di tutto del Partito.
Mai sua. Neanche quel giorno, quando tutto era finito per sempre. Invece di un incontro pacato, raccolto,
con le persone più care, un momento per trovare conforto con chi voleva bene alla donna con cui aveva
passato la vita, il funerale di Birgitte era diventato un incontro politico ad alto livello.
Di colpo scoprì di sentire la mancanza dei suoceri: erano morti alla fine degli anni Ottanta, e
probabilmente era stato meglio così. Si erano risparmiati di vivere la distanza crescente che lei metteva
tra sé e le persone più care. Quel giorno, però, sarebbe stato bello averli li.
Forse avrebbero potuto condividere quel momento con lui. Evidentemente Per non ci riusciva.
Il venerdì prima Roy aveva desiderato più di ogni altra cosa che il figlio fosse a casa. Le ore di attesa
fino a sabato, quando di colpo si era presentato in uniforme e con il borsone militare pieno zeppo, erano
state insopportabili. Ma quando Per era finalmente tornato, in un certo senso era scomparso. Il suo volto
era duro e chiuso, impenetrabile.
Era apparso all'improvviso.
- Buonanotte. Ho aspettato che la nonna si addormentasse.
Adesso vado a dormire.
Roy Hansen non aveva neanche sentito la macchina arrivare.
Fissò i tratti del figlio, in piedi sulla soglia: il bagliore della candela li rendeva indistinti.
- Ma Per, - sussurrò. - Non ti puoi sedere un attimo?
Soltanto per poco?
Il giovane non si mosse. Era impossibile vedere il suo volto.
- Siediti, solo per un momento.
D'un tratto la luce inondò la stanza. Per aveva premuto l'interruttore e, quando le pupille ebbero reagito a
quella luminosità improvvisa, Roy era rimasto scioccato.
Per, il bravo ragazzo. Il figlio beneducato, capace, che da adolescente non aveva mai dato grattacapi ai
suoi genitori.
Per, che era stato il suo bambino, la sua consolazione e anche la sua responsabilità: Birgitte aveva
iniziato la sua «lunga assenza» quando il figlio aveva compiuto da poco dieci anni.
Era irriconoscibile.
- Se mi devi parlare a tutti i costi, io lo faccio più che volentieri.
Il volto era distorto, gli occhi sporgevano come quelli di un merluzzo morto e sputava quando parlava.
- Avevo pensato di non dire niente, ma non credere che io non sappia!
In piedi di fronte al padre, aveva un aspetto minaccioso, i pugni erano chiusi.
- Tu sei un... tu sei un maledetto ipocrita! Sai, papà, tu sei un... un...
Scoppiò a piangere. Non aveva versato una lacrima durante il funerale. Adesso sembrava una fontana.
Aveva il volto macchiato: una forma di peste sconosciuta lo aveva contagiato, rendendolo brutto e
ripugnante. Roy si piegò sul divano, era quasi sdraiato sulla schiena.
- Credi che io non sappia perché la mamma se ne stava alla larga? Perché non aveva voglia di passare
più tempo in casa?
Roy Hansen cercò di allontanarsi ulteriormente dal figlio, ma il movimento brusco di Per con i pugni
contratti lo impaurì ancora di più, e si irrigidì.
- Anche Ruth-Dorthe Nordgarden! Con la sua faccia da Dolly Parton! Cosa credi che abbia significato
per la mamma trovare quell'orecchino sul letto! Cosa credi?
- Ma...
Roy tentò nuovamente di mettersi a sedere. E di nuovo Per alzò le mani pronto a colpire: i pugni erano a
mezzo metro da lui, lo inchiodavano.
- E vi ho sentito! Tu credevi che quella sera io non ci fossi, invece sono tornato a casa!
- Per...
- Niente Per! Vi ho sentito!
Il giovane piangeva disperato. Tossiva, tirava su con il naso e gridava in falsetto. Era difficile capire
quello che diceva.
- Controllati, Per! Calmati!
- Calmarmi? Io dovrei calmarmi? Perché non lo hai fatto tu quella sera dell'autunno scorso? Tu e quella
brutta troia!
All'improvviso non provò altro che vuoto. Per Volter abbassò lentamente i pugni, sembrava quasi che
avesse assunto la posizione di riposo, come facevano i militari.
Cercava di riprendere fiato.
- Non ti parlerò mai più!
Per andò verso la porta.
Roy Hansen si alzò lentamente. Non aveva più voce.
- Ma Per, - bisbigliò. - Sono tante le cose che non sai!
Così tante!
Non ebbe risposta e poco dopo sentì il rumore della macchina che si allontanava sparata. La candela si
era spenta e il soggiorno era inondato da una luce bianchissima, spietata.

Sabato 12 aprile 1997


Ore 10.15, Oàìns gaie 3.

Era impossibile alzarsi. Sotto la testa aveva un doppio guanciale: era difficile respirare. Si fissò i piedi
nudi cercando il foro da cui erano uscite tutte le sue forze. Si sentiva morto. Il vuoto totale era imbottito
da un dolore che non aveva mai provato prima.
Non c'erano vie d'uscita. Il mondo di Benjamin Grinde si stava dissolvendo. L'ultima settimana era stata
un calvario verso il nulla: la fine assoluta. Lo sguardo dei colleghi giudici: era come essere avvolto da
qualcosa di intangibile e immobile simile a una pellicola. Non parlavano con lui, gli rivolgevano la
parola solo di tanto in tanto e se necessario. Gli articoli apparsi sui giornali avevano rovinato tutto.
Anche se l'imputazione non era giusta.
Anche se la polizia continuava a sottolineare che lui non era sospettato. Il mandato di arresto esisteva
comunque, un documento d'accusa che, ora che tutto era diventato di pubblico dominio, avrebbe reso
impossibili le sue azioni future. Ma il resto era ancora peggio.
Non sarebbe mai riuscito a liberarsi da quella comunione di destini che legava lui e Birgitte? Non ci
sarebbe mai stata una fine? Dopo tutti quegli anni? Entrambi avevano tentato di fuggire, ognuno per
proprio conto; erano scappati nelle rispettive direzioni e avevano raggiunto il massimo, la vetta. Ma
separatamente e in am-| biti diversi.
Cercò convulsamente di riprendersi. Rovesciò le gambe giù dal letto e a fatica si mise a sedere. Il leone
di bronzo che faceva da sentinella accanto alla porta della camera da letto gli mostrò i denti, immobile
nella sua posizione.
Il manto riluceva come l'oro. Le fauci erano nere e ossidate. L'aveva comprato in una stradina di Teheran.
Quel grande felino lo affascinava, quell'animale esotico che era stato scelto come il più norvegese di
tutti: il simbolo ufficiale della Norvegia, che con i denti sfoderati faceva mostra di sé all'ingresso del
palazzo del governo.
Due di loro si trovavano davanti al Parlamento: docili e sdentati, si sforzavano di dare il meglio di sé
senza riuscire a spaventare nessuno. E la più bella di tutte: la leonessa dalle mammelle prosperose che
sorvegliava la sala 9 della Corte Suprema, quella di rappresentanza, usata anche per le riunioni.
Benjamin Grinde fissò la figura di bronzo che lo teneva inchiodato al letto. Era come se un fetore
ripugnante fuoriuscisse dalle sue fauci. Provò l'impulso di andare via.
Di uscire da quella stanza. Vacillando sulle gambe, si diresse in cucina.
«Non ci ho mai guardato dentro, - gli venne in mente di colpo. Non riusciva a trovare altro caffè. - Cosa
c'è dentro?»
La grande credenza in rovere, con le ante di vetro e i grappoli d'uva intagliati nel legno, pareva quasi
nera in tutto quel buio. Le tende erano tirate, la vita era fuori, li dentro c'era il nulla.
Dietro le vecchie tovaglie della trisavola, una scatoletta che avrebbe fatto meglio a lasciare dov'era.
Una scatoletta portapillole piccola e molto bella, d'oro smaltato.
Dopo averla presa, cercò di aprirla.

Ore 11.00, locali dei servizi di sicurezza, centrale di polizìa, Oslo.

- E quest'uomo l'avevamo arrestato noi ieri? Era qui?


In centrale?
Non era rimasto un granché dell'inappuntabile, impassibile capo dei servizi di sicurezza. Ora camminava
avanti e indietro per l'ufficio pettinandosi i capelli con le dita.
- Quando è stato rilasciato?
- Ieri pomeriggio. Non aveva nulla a che vedere con la manifestazione. Era semplicemente al posto
sbagliato nel momento sbagliato.
- Brage Hàkonsen, - borbottò Ole Henrik Hermansen con ira repressa. - Precedenti?
- Poco.
Il funzionario cercò di seguire il proprio capo con gli occhi, ma era difficile: Hermansen si muoveva con
foga da una parte all'altra dietro le sue spalle.
- E questo poco?
- Appartiene senza ombra di dubbio all'ambiente dell'estrema destra. Prima faceva parte di Potere ariano,
ma si parla di parecchio tempo fa. Negli ultimi due anni è diventato invisibile. Nutriamo il sospetto che
abbia un gruppo suo, più propriamente una cellula. Ma non sappiamo niente.
Il capo dei servizi di sicurezza si bloccò di colpo, proprio dietro la schiena del sottoposto.
- E Tage Sjògren è stato da lui. La settimana scorsa.
Il funzionario si limitò ad annuire, anche se dubitava che il suo superiore avesse visto il suo gesto.
- Scoprite tutto, - sibilò Ole Henrik Hermansen prima di ritornare alla sua poltroncina e sedersi. -
Scoprite assolutamente tutto quello che riguarda questo tizio. Nel peggiore dei casi: arrestatelo.

Ore 15.32, Tindfoten, Tromsdalen, Tromso.

La neve non era più bianca. Lo sferzava con una sfumatura grigiastra che lui non aveva mai visto. Tutto
quel grigio si fondeva in un nulla indistinto. Vedeva a malapena la punta degli sci davanti a sé. Non
avrebbe dovuto lasciare Skarvassbu. Aveva detto a Morten che era una sciocchezza: il tempo era così da
quando avevano lasciato la valle di Snarbydalen. Avrebbero fatto meglio a rimanere nella baita.
- Ma da qui è quasi tutto in discesa, - aveva protestato, Morten. - Venti minuti di salita leggera, poi una
mezz'oretta di nuovo in discesa. La birra è a casa. Preferisci restare qui?
Morten aveva indicato le mensole di quella piccola baita turistica. Qualche busta di minestra di
cavolfiore liofilizzata e quattro barattoli di zuppa già pronta di verdure con polpettine di carne erano
molto meno allettanti di una bella bistecca al sangue e di una birra fredda nella baita di Morten a
Skattora.
- Ma il pericolo di valanghe, - aveva obiettato la guardia giurata. - Se ne può staccare una!
- Oddio! Ho sciato su questa pista centinaia di volte!
Qui non ci sono valanghe. Forza!
Aveva ceduto. Adesso non sapeva più dove fosse Morten.
Si fermò riposandosi sui bastoncini.
- Morten! Morten!
Sembrava che in tutto quel nevischio grigio la voce non volesse uscirgli di gola. Era come se, appena
pronunciate, le parole si girassero per rientrargli in bocca.
- Morten!
Non sapeva neanche dove fosse. La salita continuava debolmente, ma lui aveva sciato per quasi un'ora.
Morten gli aveva detto che ci volevano soltanto venti minuti prima della discesa. Era sicuramente colpa
delle condizioni pessime della pista. Tutta quella neve. Molta più del solito: sapeva che quasi ogni
giorno le previsioni del tempo annunciavano nevicate record nella Norvegia settentrionale.
Li non era un pochino più in piano?
Si fermò per tastare il terreno. La neve, che lo sferzava implacabile, aveva cominciato a penetrare negli
indumenti.
Nessuno dei due era vestito per affrontare una bufera.
- Morten!
Alla guardia giurata del palazzo del governo girava la testa: aveva difficoltà a capire cos'era su e cosa
giù. Datempo aveva perso la cognizione di nord, sud, est e ovest.
Ora però la pista procedeva diritta. La salita era finita.
All'improvviso sentì un suono. Qualcosa di diverso dal vento che ululava e gemeva e dallo schiocco
continuo della stoffa che chiudeva lo zaino. Qualcosa a bassa frequenza, minaccioso. Rimase immobile,
come congelato, mentre sentiva la paura salirgli su per le gambe.
Ci dovevano essere due metri di neve sotto di lui. Si trovava su un pendio? Accanto a una parete
rocciosa?
Cominciò disperatamente a procedere: veloce, risoluto, anche se non aveva idea di dove stesse andando.
Poi perse l'equilibrio.
Il terreno aveva iniziato a muoversi, in modo lento e vischioso.
Il frastuono si era trasformato in un ruggito assordante e, prima che la guardia avesse il tempo di
rimettersi in piedi dopo la caduta, arrivò l'enorme massa di neve. Era come se la terra stesse per
sprofondare. Venne scagliato da tutte le parti, sbattuto ovunque, si trovò prima di schiena, poi sulla
pancia. La neve si intrufolava in ogni dove: non soltanto sotto i vestiti, sulla pelle, ma dentro le orecchie,
gli occhi, la bocca, il naso. Seppe di colpo che sarebbe morto.
La pressione sopra di lui aumentò. Non scivolava più sulla superficie bianca lungo il fianco della
montagna, adesso era sotto. Intorno a lui non era più grigio, ma nero come la pece. Sembrava che gli
occhi gli dovessero sfondare il cranio. Ansimava alla ricerca di aria che non c'era. Le vie respiratorie
erano piene di neve.
«Adesso non potranno mai più saperlo».
Tentò per l'ultima volta di spingere dell'ossigeno nei polmoni doloranti, schiacciati. Poi gli si ottenebrò
la vista e tre minuti dopo era morto.

Ore 16.10, Kirkeveien 129.

Una bella sedia antica in stile Impero sembrava contrariata mentre se ne stava li accanto a una scrivania
dozzinale dell'Ikea. Offesa, così come doveva sentirsi la litografia di Munch appesa troppo vicino a una
serigrafia dal passe-partout rosso, comprata ai tempi degli yuppie per duecento corone a un'asta ad Aker
Brygge.
Seduta su quella sedia, Ruth-Dorthe Norgarden stava pensando.
Fissò il cellulare che teneva nella mano destra. Poi lo appoggiò con un tonfo, afferrando al suo posto il
telefono: un cordless che non padroneggiava ancora al cento per cento.
Avrebbe riguadagnato il terreno perduto. Forse non subito, ma prima o poi avrebbe restituito pan per
focaccia.
Tryggve Storstein non la voleva con sé e lei sapeva che erano stati altri poteri a costringerlo a farla
proseguire.
Ci sarebbe voluto tempo, ma l'occasione si sarebbe presentata: prima o poi.
- Pronto?
La cornetta era silenziosa come una tomba. Esitante premette un tasto verde, sorridendo sollevata quando
sentì il segnale della chiamata in corso.
- Pronto?
- Pronto?
- Sono Ruth-Dorthe.
- Ciao. Complimenti.
La voce era neutra, ma lei sapeva bene da che parte stava quell'uomo. Non bisognava fidarsi di lui. Non
bisognava fidarsi di nessuno. Eppure era suo. Era stato quell'uomo in primis a prendersi cura di lei.
L'aveva aiutata, sostenuta, consapevole del fatto che le rispettive carriere dipendevano l'una dall'altra.
Dal punto di vista politico erano gemelli siamesi. Gunnar Klavenaes sedeva anche nella Direzione
centrale del partito.
- Cosa diavolo è successo? - gli domandò.
- Non ti preoccupare. È andata bene. Alla fine.
Si fece silenzio. Lei udiva la lavastoviglie, si era bloccata e continuava a sciacquare ininterrottamente. Si
portò il telefono in cucina.
- Un attimo.
All'interno dell'elettrodomestico si sentiva piovere a dirotto: sembrava che in quella scatola di latta si
fosse scatenato un uragano. Interdetta fissò i pulsanti del display senza toccarne nessuno. Alla fine
premette decisa quello dello spegnimento. La forza del vento diminuì a poco a poco, adesso sgocciolava
sempre più debolmente.
- Pronto?
- Si, ci sono.
- Lui non durerà a lungo, - disse lei impassibile.
- Secondo me fai male i tuoi calcoli, Ruth-Dorthe. E più forte di quello che credi.
- Non se erediterà tutti i problemi del periodo di Birgitte.
E lo farà. Le elezioni autunnali decreteranno la sua fine.
- Non adesso. Guadagneremo voti dall'omicidio. Così è stato per i socialdemocratici in Svezia.
Strizzando gli occhi, si mise a osservare l'albero nel giardino dietro casa: erano cominciate appena a
spuntare le prime foglioline.
- Vedremo, - borbottò. - Ti ho telefonato per chiederti se ti va di uscire a cena. Stasera.
- Oggi non posso. Sono impegnatissimo in questo periodo.
Se ti chiamo io appena mi libero?
- D'accordo, - rispose scontrosa. - Credevo che ti sarebbe interessato sentire quello che avevo da
raccontarti.
- Ma certo, Ruth-Dorthe, però un'altra volta, okay?
Senza rispondere lei ripremette il tasto verde su cui era raffigurata l'immagine di un telefono in miniatura.
Funzionò.
Credevano che ormai fosse arrivata al capolinea. Lo pensavano anche i suoi sostenitori. Perlomeno
qualcuno di loro.
Doveva ringraziare le dimissioni di Grò Harlem Brundtland avvenute l'anno prima se era ancora
vicesegretario generale del partito. Il primo quadriennio non era andato esattamente secondo le
aspettative. Il gruppo di amici si era assottigliato e il mormorio ostile degli oppositori era aumentato. Al
congresso nazionale due settimane dopo il cambio di governo, tutti avevano fatto del proprio meglio per
ridurre al minimo i contrasti interni. Era il congresso nazionale di Birgitte e la dirigenza in carica era
rimasta al suo posto. Ruth-Dorthe Nordgarden sapeva di essersi salvata per un pelo. E sapeva che il suo
più grande oppositore era Tryggve Storstein. Allora ricopriva soltanto il ruolo di vicesegretario del
partito, come lei, ma ora ne era il leader. Ed era il primo ministro.
Eppure lei sapeva ancora quali fili poteva tirare.
Guardò l'ora. Le figlie non sarebbero rientrate prima di qualche ora. Ruth-Dorthe Nordgarden andò a
prendersi una tazza di caffè. Era troppo forte. Arricciando il naso, tornò in cucina per metterci una punta
di latte. Quando aprì il frigorifero, ne uscì un odore acre: le ragazze si sottraevano ai propri doveri
peggio che mai. Notò con disappunto che la data di scadenza era passata da un pezzo.
Infilò il naso nella confezione e versò comunque qualche goccia nella tazza.
Mentre sorseggiava quella bevanda marroncina, fece scorrere lo sguardo dal cellulare al cordless. Chissà
se i telefonini venivano intercettati. Con la tecnologia moderna era difficile pensare di poter parlare con
la garanzia che nessun altro ascoltasse. Il cellulare non sembrava per niente sicuro: si sentivano dei
rumori, delle interferenze e a volte aveva percepito altre voci sulla linea. Alla fine optò comunque per il
telefonino.
- Mi volevi parlare, - esordì apatica quando le risposero.
Avrebbe dovuto lavare i vetri delle finestre. Il sole primaverile che penetrava trasversalmente nella
stanza non riusciva ad arrivare fino alla scrivania e la polvere danzava nella luce pallida. Ascoltò a
lungo la voce all'altro capo della linea.
- Stai parlando di documenti interni, - disse alla fine.
- È difficile. Impossibile, quasi.
Non era vero. Lo sapevano tutti e due. Ma Ruth-Dorthe Nordgarden voleva essere convinta. Voleva
sapere cosa avrebbe avuto in cambio.
Cinque minuti dopo interruppe la comunicazione.
Scribacchiò qualche parola al margine dell'agenda di impegni prevista per il lunedì. Doveva trovare il
più presto possibile un tecnico per far riparare la lavastoviglie.
Avrebbe chiesto al consigliere politico di occuparsene.

Ore 18.00, Jacoh Aalls gaie 16.


- Sono scettica! Lo dico apertamente, sono scettica!
Cinciallegra Grinde aggrottò la fronte abbronzata, stringendo le labbra. Eppure Liten Lettvik vide un
guizzo di curiosità balenare negli occhi dell'anziana.
- Dopo tutte le cose terribili che il suo giornale ha scritto su Ben, non è strano che io non sprizzi di gioia
nel vederla.
D'altro lato...
Cinciallegra Grinde si ritrasse nell'ingresso minuscolo facendo segno a Liten Lettvik di seguirla.
- Se posso contribuire in qualche modo a far si che la gente capisca che Ben non c'entra nulla con questa
terribile storia, sarebbe meraviglioso.
La donna, che doveva aver superato da un pezzo i settanta, indossava un paio di jeans attillati:
un'affascinante dimostrazione di cosa avvenisse a un corpo che invecchiava. Le gambe magre parevano
prive di forza. I polpacci erano sottili come scovolini. Nello spazio intermedio tra il fondo dei pantaloni
e i sandali con la zeppa, Liten Lettvik intravide un tratto di pelle abbronzata, lucida, tesa e con macchie
scure dovute all'età. Sotto il maglioncino rosa di angora che arrivava mollemente fino alla metà del
sedere di Cinciallegra Grinde, Liten notò 1 che l'usura del tempo aveva rosicchiato via tutta la
muscolatura dei glutei.
«Dieci anni fa, - pensò Liten Lettvik. - Ancora dieci anni fa riuscivi a portare abiti simili».
- Si accomodi, - ordinò Cinciallegra Grinde mentre Liten Lettvik avvertiva lo sguardo spiacevole con cui
la vecchia contraccambiava il suo, da sotto le sopracciglia ridotte con la pinzetta a due righe sottili sulla
fronte alta. - Non dirà certo di no a qualcosa da mettere sotto i denti.
Quando tornò dalla cucina, teneva in una mano un piccolo piatto da portata con dei canapè e nell'altra uno
con dei dolci.
- Io mi sono sempre mantenuta magra, vede. Per me solo Porto. Così!
Se ne versò un bel bicchiere. Il liquido rossiccio quasi strabordava. Liten Lettvik annuì con un veloce «sì
grazie» e ne ricevette la metà.
- Lei guida, immagino, - spiegò Cinciallegra Grinde mettendosi a sedere. - Si serva! Non faccia
complimenti!
Spinse i due piatti verso la giornalista.
Che bell'aspetto. Liten Lettvik aveva fame. Aveva sempre fame. Molto tempo prima aveva letto un
articolo in una rivista di divulgazione scientifica secondo cui la fame poteva sostituire la coscienza.
Aveva cercato di dimenticare quelle parole. Prese un canapè con salmone e omelette, chiedendosi se la
vecchia bizzarra che le stava davanti tenesse sempre pronte delle leccornie, visto che non era stata in
cucina più di dieci minuti.
Non era piacevole mangiare sotto l'occhio da falco della donna che, seduta sul divano, la fissava con uno
sguardo castano e intenso da sopra il bicchiere di Porto. Liten Lettvik rinunciò dopo aver ingurgitato
mezzo canapè.
- Come avete potuto scrivere quelle cose? - ripetè Cinciallegra Grinde. - Voi sapevate già che la
citazione in giudizio era una sciocchezza!
- Incriminazione, - la corresse Liten Lettvik. - Di questo si trattava. E comunque abbiamo scritto che era
stata ritirata. Non c'era assolutamente nulla nell'articolo che non corrispondesse a verità.
Cinciallegra Grinde sembrava assente. Fissava senza ritegno Liten Lettvik, ma i suoi pensieri non
parevano per niente concentrati sul fatto che soltanto pochi giorni prima suo figlio era stato accusato di
omicidio. Qualcosa di nuovo e d'indistinto si dipinse su quel vecchio volto: un misto di soddisfazione e
superiorità che confuse Liten Lettvik.
- E adesso tutto è stato dimenticato, - riprese. - Tutti dimenticano in fretta. Glielo posso assicurare, ma
forse lei desidera raccontarmi qualcosa di suo figlio...
Adesso lo sguardo della donna era insopportabile. Continuava a fissarla mentre con movimenti cauti si
puliva la bocca con un tovagliolo di stoffa, in continuazione.
Liten Lettvik scosse leggermente la testa.
- C'è qualcosa che non va?
- Ha dell'uovo sul mento, - sussurrò Cinciallegra Grinde chinandosi sopra il tavolino. - Qui!
Indicò il suo stesso mento e la giornalista eseguì un rapido movimento con il dorso della mano. Un grumo
giallo le si spiaccicò sulla pelle e Liten Lettvik ricorse all'altra mano per aiutarsi.
- Ma ce l'ha il tovagliolo, - commentò tagliente Cinciallegra Grinde.
- Grazie, - borbottò Liten Lettvik estraendo il pezzo di stoffa da un grande anello d'argento cesellato.
- Fatto, - sorrise soddisfatta la donna. - Cosa voleva chiedermi?
Raramente Liten Lettvik si sentiva spiazzata. Non badava al proprio aspetto. Non gliene importava niente.
In realtà erano poche le cose che le interessavano e dentro di lei era molto contenta di non voler bene a
nessuno. Le persone non la coinvolgevano più di tanto. Forse lui, si.
No, neanche lui. La sua battaglia, la sua crociata, il suo grande progetto era la verità. La verità era
un'ossessione e lei rideva con scherno di tutti gli stupidi tentativi messi in atto dai suoi colleghi di
discutere sui legami tra etica e giornalismo. Due volte, solo due volte nel corso di una lunga e gloriosa
carriera, aveva pubblicato qualcosa che non era risultato vero. Era stato pesante. Quegli episodi
l'avevano tormentata per mesi. Pagare dazio nel penitenziario appiccicoso della demenza era stato un
inferno.
La verità non poteva mai essere immorale. I mezzi per ottenerla e gli effetti sugli altri erano del tutto
secondari.
Non aveva nessuna importanza se lei ricorreva alle menzogne e all'immoralità per scoprire ciò che era
vero. La verità aveva un lato solo: l'obiettività. Se tutte le parole contenute in un articolo che lei scriveva
erano giuste, allora l'articolo era legittimo.
La certezza della sua ricerca eterna della verità la rendeva invulnerabile. Ma in quel momento, davanti a
quella strega di donna, quello scoiattolino vanitoso e ridicolo che giocava con le vibrisse seduto all'altro
lato del pesante tavolino di mogano, Liten Lettvik provava un'insicurezza insolita.
Si appoggiò alla poltrona cercando di rendere la pancia meno visibile. Per la prima volta dopo tanto
tempo si guardò infastidita i seni, che si espandevano davanti a lei come un solido balcone: non si era
mai accorta che si appoggiavano comodamente sulle cosce quando si sedeva.
- Mi chiedevo solo se poteva raccontarmi qualcosa di suo figlio, - disse alla fine. - Vorremmo
trasmettere ai nostri lettori un'impressione corretta su di lui. Occupa una posizione di grande prestigio e
la sua vita è di grande interesse pubblico, non è d'accordo?
- Altroché!
Cinciallegra Grinde rise, una risata sonora, squillante, acuta.
- A dire il vero sono stupita del fatto che la stampa non abbia mai mostrato una curiosità maggiore nei
suoi confronti.
Sa...
L'anziana donna si sporse nuovamente in avanti, come per creare una certa confidenza.
- Ben è stato il primo in Norvegia a laurearsi sia in medicina che in giurisprudenza. In legge poi ha
conseguito il dottorato. Il primo in assoluto. Guardi qui!
Si alzò dal divano per dirigersi verso una libreria mentre continuava a ciarlare. Dopo essercisi
accovacciata con orgoglio davanti, estrasse un album.
- A mio avviso l'evento ha ricevuto troppo poca attenzione.
Posò rumorosamente l'album davanti alla giornalista.
- Solo un articoletto di due colonne sull'«Aftenposten», - ridacchiò con disgusto indicandoglielo con
un'unghia laccata di rosso. - E stato un avvenimento, sa. Ma...
Si lasciò ricadere sul divano.
- C'era un articolo più lungo su Ben quando ha superato la maturità.
Cinciallegra Grinde fece un segno con le mani indicando a Liten Lettvik di sfogliare l'album.
- E apparso soltanto sull'«Akershus Amtstidende», ma comunque.
La giornalista prese a girare le pagine. D'improvviso vide il giovane Benjamin Grinde ritratto in una
vecchia foto di giornale, ingiallita e consunta. Sorrideva timidamente al fotografo e, nonostante la sua
capigliatura fosse più folta e avesse lo sguardo limpido di un qualsiasi diciottenne, era facilmente
riconoscibile. Si era fatto più attraente con il passare degli anni, era vero, ma anche in quella vecchia
foto di giornale Liten Lettvik riuscì a vedere la sua bellezza, incompiuta, vulnerabile e sensuale.
- Accidenti! - borbottò. - Ha preso Eccellente di media?
- Aveva Eccellente in tutte le materie, - ridacchiò Cinciallegra Grinde estasiata. - Alla Katedralskole di
Oslo!
La migliore scuola della città... si, oserei dire la migliore scuola di tutta la Norvegia. A quei tempi. Da
allora il livello è sceso, come per tante altre cose.
Contrasse nuovamente le labbra a mo' di disapprovazione.
- Chi è questa?
Liten Lettvik appoggiò il pesante raccoglitore davanti alla madre del giudice. Cinciallegra Grinde
estrasse un paio di, occhiali a mezzaluna da un astuccio di pelle che teneva sul: tavolino davanti a sé,
prima di guardare la foto.
- Questa, - cinguettò di gioia. - Ma è Birgitte! Povera Birgitte, guardi com'era bella!
Birgitte Volter era in piedi con un braccio intorno alle spalle del diciottenne Benjamin Grinde. Il giovane
era rigido come un palo, con le mani che pendevano indecise davanti alle cosce. Fissava con espressione
seria un punto a lato della macchina fotografica. Birgitte Volter, con * i capelli di media lunghezza, una
gonna ampia e gonfia, scarpe basse e occhiali a goccia, rideva verso l'obiettivo mentre teneva un neonato
con l'altro braccio. Il bambino (non era molto comodo: la testa gli pendeva troppo al di là del gomito. Sul
foglio di cartoncino grigio scuro c'era scritto con l'inchiostro bianco, in bella grafia: «Il primo giorno al
sole della piccola Liv».
- Guardi qui, - disse Cinciallegra Grinde infervorata, riprendendo a sfogliare l'album. - Qui siamo tutti
sulla spiaggia! Capisce, Birgitte Volter era una cara amica di famiglia. I suoi genitori, persone
meravigliose, sono morti qualche anno fa, erano i nostri vicini più prossimi. Che tempi splendidi.
Con un sospiro si risedette per bene sul divano prima di mettersi a fissare fuori dalla finestra con aria
nostalgica.
Liten Lettvik non la stava neanche ad ascoltare.
- Chi è? - chiese ad alta voce indicando un'altra foto.
La vecchia non rispose. Continuava a guardare fuori, il suo volto era mutato. Qualcosa di dolce le
illuminava gli occhi, il sorriso sembrava provenire da dentro, da uno spazio interiore chiuso da tempo.
- Scusi, - disse Liten Lettvik ad alta voce. - Signora Grinde!
- Oh, - sobbalzò la donna. - Mi perdoni. Cos'è che mi ha chiesto?
- Chi è?
Liten Lettvik non voleva richiamare l'attenzione sulle proprie unghie mangiucchiate, quindi battè la nocca
sulla foto di un neonato. Giaceva supino su un asciugamano di cotone e a occhi socchiusi guardava
insoddisfatto il sole con le ginocchia nude piegate al petto. A un lato sedeva Birgitte Volter, sempre
sorridente e civettuola, dall'altro Benjamin Grinde, serissimo in viso. Dietro il piccolo, accovacciato,
bello, con le spalle larghe, un sorriso immenso e una mano sotto la testa del bebé c'era un uomo che Liten
Lettvik riconobbe subito: Roy Hansen.
- Chi è il piccolo?
Cinciallegra Grinde la guardò confusa.
- La bimba? Ma è Liv!
- Liv?
- Si, la figlia di Birgitte e Roy.
- Figlia? Ma non ne hanno uno solo? Un maschio, no? Per.
- Ma mia cara...
L'anziana la fissò con aria di rimprovero.
- Per ha solo vent'anni o poco più, - le spiegò. - Qui siamo nel '65. La piccola Liv è morta. Una tragedia
terribile.
È morta così...
Cercò di schioccare le dita.
- Senza nessun motivo. Una cosa orribile. Quella disgrazia ha colpito tutti quanti. Poveri signori Volter,
si sono intristiti. Anzi, voglio esagerare, non sono mai più stati quelli di prima. Grazie a Dio Birgitte era
così giovane. E anche Roy, ovviamente, ma a dire il vero non ho mai capito come avesse fatto Birgitte a
innamorarsi di quell'uomo.
I giovani, sa... i giovani riescono a rialzarsi. E Ben, che bravo ragazzo. Era distrutto. Povero Ben. E così
sensibile.
Lo era anche suo padre. Era fotografo, sa, e a essere sinceri aveva l'animo di un artista. L'ho sempre
detto.
- E questo avvenne nel 1965, giusto? - disse Liten Lettvik prima di deglutire. - Quanti anni aveva la
piccola?
- Soltanto tre mesi, poverina. Una bambina bellissima.
Incantevole. La sua nascita non era proprio in programma, ecco. Capisce cosa voglio dire...
Cinciallegra Grinde strizzò leggermente l'occhio destro.
-... ma era un piccolo raggio di sole. E poi è morta, all'improvviso. Morte in culla, non è così che la
chiamano oggi? Ai tempi non avevamo tutte queste belle parole, sa.
Liten Lettvik tossì con violenza, una tosse roca e rumorosa che proveniva direttamente dalle ginocchia. Si
portò le mani alla bocca prima di ansimare:
- Potrei avere un po' d'acqua?
Cinciallegra Grinde sembrava del tutto frastornata mentre si precipitava in cucina.
Liten continuò a tossire mentre afferrava l'album facendolo scivolare nella borsa molto capace che aveva
sempre con sé. Durante un ultimo, violento attacco di tosse richiuse la cerniera.
- Ecco, - cinguettò Cinciallegra tornandole accanto con un bicchiere di cristallo con lo stelo. - Beva
piano, mi raccomando! Lei fuma, signora Lettvik? Dovrebbe smettere!
L'interessata non rispose, ma bevve tutta l'acqua.
- Grazie, - mormorò. - Ora però devo andare.
- Di già?
Cinciallegra Grinde non riuscì a nascondere la delusione.
- Ma tornerà? Un'altra volta?
- Ma certo, - la rassicurò la giornalista. - Però adesso devo andare.
Per un attimo si chiese se prendere uno di quegli allettanti canapè mentre usciva, poi si diede una
regolata.
C'era un limite a tutto.

Lunedì 14 aprile 1997


Ore 02.00, redazione del giornale «KA».

Se Liten Lettvik avesse potuto, avrebbe scodinzolato.


China sullo schermo del computer, studiava la bozza della prima pagina del giornale. Era particolarmente
contenta della foto: quella dei giovani sposi Birgitte Volter e Roy Hansen scattata dal padre di Benjamin
Grinde, il fotografo Knut Grinde. Birgitte Volter aveva una leggera protuberanza all'altezza della vita e
indossava un abito da sposa lungo e ampio: un po' troppo grande per poter passare per moderno, due anni
dopo la morte di Marilyn Monroe.
- Ma in che modo ti sei procurata queste foto? - borbottò il caporedattore.
Non si aspettava una risposta, e neppure l'ebbe. Liten Lettvik si limitò a sorridere con aria di superiorità
prima di chiedere una copia della bozza.
- Procuratela da sola, - rispose l'uomo acido.
Ma quella sera niente poteva distruggere il buon umore di Liten Lettvik. Trotterellò nel suo ufficio e
controllò il giornale sul computer.

LE FAUCI DEL LEONE


AMICO D'INFANZIA INVESTIGA TRAGEDIA FAMILIARE
Foto finora sconosciute del primo ministro Birgitte Volter
di LITEN LETTVIK
foto: archivio privato
Oggi «KA» presenta in esclusiva lati finora sconosciuti della vita del defunto primo ministro Birgitte
Volter. Le foto che la ritraggono da giovane non sono mai state pubblicate prima d'ora.
Quasi nessuno sa che Birgitte Volter e suo marito Roy Hansen persero nel 1965 una figlia di tre mesi,
Liv, in circostanze tragiche. Birgitte Volter aveva soltanto diciannove anni al momento della nascita della
piccola, ma riuscì comunque a finire il liceo. Come è risaputo non proseguì gli studi: due mesi dopo la
morte di Liv cominciò a lavorare come segretaria al Monopolio di stato per gli alcolici. Soltanto nel
1975 ebbe di nuovo un figlio, Per Volter, che oggi frequenta l'accademia militare. La famiglia ha
mantenuto il più stretto riserbo sulla scomparsa della piccola Liv.
Le fonti con cui «KA» è entrato in contatto, e che sostengono di essere molto vicine alla famiglia Volter-
Hansen, dicono di non aver mai saputo nulla della tragica disgrazia. «KA» non è riuscito a raccogliere
nessun commento da parte di Roy Hansen, il vedovo di Birgitte Volter.
Non è neanche noto ai più che da giovani Birgitte Volter e Benjamin Grinde erano molto amici. Più di
trent'anni dopo lo stesso Benjamin Grinde si sarebbe trovato a presiedere la commissione istituita per
indagare su cosa successe nel 1965, anno in cui morì in Norvegia un numero altissimo di neonati.
Vedi anche pp. 12-13.
Liten Lettvik si accese un nuovo cigarillo prima di passare sul computer a pagina dodici.
«MOLTO PREOCCUPANTE», DICE IL PROFESSORE? Fred Brynjestad è molto crìtico nei confronti
di Grìnde di LITEN LETTVIK: foto: BENT SKULLE
«Ci sono tutti i motivi per essere scettici sull'affidabilità del giudice della Corte Suprema Benjamin
Grìnde a presiedere i lavori della commissione d'inchiesta che indagherà su quello che avvenne nel 1965
e che potrebbe essere uno scandalo senza precedenti nella Sanità norvegese», racconta a «KA» il dottor
Fred Brynjestad, professore di diritto pubblico.
Il presidente della commissione per gli affari sociali in Parlamento, Kari-Anne Softeland (Partito dì
centro) si dice profondamente sconcertata dalle nuove informazioni riguardanti il caso. A suo avviso sia
lei sia il resto del Parlamento sono stati ingannati.
«Qualora risultasse fondato che anche Birgitte Volter aveva perso una figlia nell'anno in questione e che a
quel tempo aveva forti legami d'amicizia con Benjamin Grinde, ci sarebbero tutti i presupposti per stare
in allerta, - ribadisce Brynjestad. - Il primo ministro Volter avrebbe dovuto vedere da sé che la richiesta
di affidare l'incarico a Grinde era compromettente a priori», afferma Brynjestad.
«Ancora peggiore è comunque il fatto che non se ne sia reso conto Grinde stesso, - continua. - È un
giurista molto dotato, per questo la gravità della situazione gli sarebbe dovuta balzare subito agli occhi».
Brynjestad aggiunge che Grinde non è necessariamente di parte, ma potrebbe esserlo, eventualità
sufficiente per affermare che non avrebbe dovuto accettare l'incarico.
«Nella nostra società ha preso piede un trend preoccupante, e cioè che i suoi più alti ed eminenti
rappresentanti hanno sempre più legami tra di loro, cosicché i confini tra potere e influenza reciproca
risultano cancellati agli occhi del normale cittadino. Abbiamo un network invisibile di forze che non
siamo in grado di controllare».
Dopo le indagini compiute da «KA» nelle ultime settimane, possiamo arrivare alla conclusione che
Benjamin Grinde vada considerato un'eminenza grigia nell'ambito della società norvegese. Amico
d'infanzia di Birgitte Volter e con amici sia al Parlamento sia ai massimi livelli del sistema giudiziario.
Tra le altre cose, dal 1979 al 1984 cantava nello stesso coro dei parlamentari Karl Bugge-Oygarden
(Partito laburista) e Fredrick Humlen (Partito conservatore).
All'epoca degli studi frequentava quello che sarebbe diventato il futuro amministratore delegato del
gruppo Orkla, Haakon Severinsen, nonché l'attuale direttore dell'ospedale di stato, Ann-Berit Klavenaes.
La parlamentare Kari-Anne Softeland (Partito di centro) dice di essere profondamente scossa dal fatto
che queste relazioni non siano emerse prima.
«Adesso dobbiamo riunirci per istituire una nuova commissione, - dice al telefono a "KA" dalle
Seychelles, dove la commissione per gli affari sociali è in viaggio di studio per osservare come vengono
gestite localmente le infermerie. - Una vicenda simile sottolinea la necessità che sia il Parlamento stesso
ad avere il controllo su questo genere di cose. Probabilmente anche la commissione avrebbe dovuto
essere nominata dal Parlamento. Eventuali ritardi sul suo lavoro d'inchiesta sarebbero assolutamente
deprecabili», conclude.
Liten Lettvik uscì dal programma del computer e, dopo aver estratto l'album da un cassetto, si mise a
sfogliarlo distrattamente: in parecchi punti mancavano delle foto. I piccoli riquadri di carta che
avrebbero dovuto tenere incollate le immagini di famiglia ora incorniciavano senza alcun senso il vuoto.
Liten Lettvik aveva un solo problema: come avrebbe fatto a restituire l'album?
Rimase a lungo a rifletterci sopra mentre la stanza si riempiva lentamente del fumo leggero e bianco del
cigarillo.
«In fondo che importa, - fu la sua conclusione. - Posso sempre bruciarlo».
Se lo portò a casa. Per sicurezza.

Ore 07.00, giardino botanico, Toyen.


A Hanne Wilhelmsen piaceva la sensazione del sudore che colava e del cuore che protestava. Salendo di
corsa lungo il leggero pendio della Trondheimsveien, aveva inserito una marcia in più e in velocità aveva
infilato la porta che dal giardino botanico conduceva al museo zoologico.
Scelse una panchina sotto un albero che non riuscì a classificare. La scritta sulla targhetta informativa era
illeggibile: qualche teppista ci aveva lasciato il suo marchio di proprietà con una bomboletta spray.
Non si era mai sentita così in forma. Chiuse gli occhi e percepì il profumo delle piante, che si
preparavano ad affrontare un'estate lunga e faticosa. Cecilie aveva ragione: l'olfatto migliorava quando si
smetteva di fumare.
Un vecchio stava venendo verso di lei, armato di rastrello in una mano e paletta da giardino nell'altra.
- Bel tempo, - le disse con un cenno del capo prima di alzare sorridendo lo sguardo verso il cielo grigio
e piagnucoloso.
Hanne Wilhelmsen scoppiò a ridere.
- Sì, può proprio dirlo!
Dopo averla guardata, l'uomo si decise velocemente.
Andò a sedersi accanto a lei sulla panchina prima di tirar fuori un pezzetto di tabacco da masticare che si
infilò sotto la lingua.
- Questo è il tempo migliore, - borbottò. - Pioviggina adesso al mattino, poi viene il sole nel pomeriggio.
- Crede? - disse Hanne scettica piegando la testa all'indietro.
La pioggerella le coprì la faccia come un asciugamano da viso giapponese.
- Ci può scommettere, - rispose l'uomo. - Guardi!
Indicò verso occidente, dove la chiesa di Sofienberg si stagliava in tutto quel grigio.
- Vede quello spiraglio laggiù?
Hanne annuì.
- Adesso è lì, proprio sopra Holmenkollen, leggermente a ovest-sudovest, e quando non tira vento, come
adesso, allora tra qualche ora ci sarà bel tempo.
- Ma le previsioni non dicevano questo, - ribattè Hanne alzandosi in piedi per fare stretching. - Davano
pioggia fino a mercoledì.
Il vecchio rise di gusto prima di sputare saliva marrone.
- Lavoro qui da quarantadue anni, - disse soddisfatto.
- Da quarantadue anni mi prendo cura delle mie piante.
So di cosa hanno bisogno. Di acqua e sole e di essere accudite. È un lavoro meraviglioso, signora.
Magari lei pensa che agli alberi servano trattamenti per così dire scientifici. Ma queste piante qui...
hanno bisogno di ben altro.
La fissò a lungo. Hanne interruppe gli esercizi per guardarlo a sua volta. Il volto dell'uomo era rugoso e
abbronzato.
La stupiva che lavorasse ancora. Avrebbe dovuto essere in pensione già da un pezzo. Era una persona che
faceva piacere avere accanto: possedeva una specie di calma che non esigeva che lei parlasse più di
tanto.
- Ha a che fare con l'istinto, sa. Lei mi dia pure libri e testi o come li vuole chiamare, ma a me non
servono. Io so di cosa hanno bisogno ogni piccolo fiore e ogni pianta gigantesca di questo giardino. Io
possiedo l'istinto, capisce, signora. Io so che tempo farà e so cosa serve a queste piante. Al più piccolo
dei fiori.
Si alzò per dirigersi verso una pianta molto esile che si trovava vicino alla panchina. Hanne non sapeva
se si trattasse del germoglio di quello che sarebbe diventato un albero, o se sarebbe rimasta così.
- Guardi questo cespuglio qui, signora. Viene direttamente dall'Africa. Non ho bisogno di leggere libri
per sapere che questo piccoletto necessita di calore e cure supplementari.
Se ne sta qui provando nostalgia, poverino, per il caldo e per i suoi amici laggiù in Africa.
Passò la mano sul fusto e Hanne battè con forza le palpebre quando ebbe l'impressione che alla pianta
piacesse davvero quel contatto. La mano era grossa e ruvida, ma accarezzò l'alberello con una sensibilità
dolce, sensuale.
- Lei vuole molto bene a queste piante, - sorrise Hanne.
Il vecchio si rialzò prima di appoggiarsi al rastrello.
- Se no non potrei fare un lavoro del genere, per di più da quarantadue anni. E lei?
- Lavoro nella polizia.
L'uomo rise sonoramente, una risata fragorosa, contagiosa.
- Allora ne ha di cose da fare! Con quella povera Birgitte che è morta e tutto il resto! E ha il tempo di
andare in giro a correre per le strade?
- In realtà sono in permesso, - cominciò prima di interrompersi. - Però devo mantenermi in forma.
Comunque.
L'uomo estrasse un enorme orologio da tasca.
- Adesso però devo mettermi in moto. Questo è il periodo più faticoso, sa, signora. Adesso in primavera.
Arrivederci!
Sorridendo sollevò il rastrello a mo' di saluto. Percorsi pochi passi in discesa, si girò e tornò indietro.
- Senta, - disse serio. - Io non me ne intendo di indagini.
Io lavoro solo nel giardino, però deve essere così anche da voi, no? Che la cosa più importante è seguire
l'istinto?
Hanne Wilhelmsen si era rimessa a sedere.
- Si, credo che lei abbia ragione.
L'anziano sollevò nuovamente il rastrello per salutare prima di proseguire.
Hanne Wilhelmsen inspirò a fondo. L'aria era tiepida, umida e pareva purificarla dentro. La testa le
sembrava più leggera e i pensieri più chiari, più ordinati di quanto non fossero da tempo.
Si sentiva come Hercule Poirot. Si abbandonò alle «celluline grigie». La situazione era insolita. Di solito
aveva il controllo. Normalmente aveva a disposizione tutte le informazioni su un caso, invece adesso lo
conosceva soltanto a pezzi e bocconi. Perfino Billy T. aveva esternato la propria frustrazione: la squadra
era così grande che soltanto pochissime persone possedevano tutte le informazioni. A dire il vero Hàkon
era più aggiornato sul quadro generale, ma si stressava avanti e indietro, ed era nervoso soprattutto
perché Karen non aveva ancora partorito.
La vittima aveva due identità: il primo ministro Volter e Birgitte. Quale delle due era stata uccisa?
Hanne si rimise a correre. In discesa, passando davanti al vecchio che, inginocchiato, stava scavando
nella terra e non la vide neanche. Accelerò l'andatura.
Nessuna delle due identità era connessa a qualche movente.
Perlomeno non in modo palese. Hanne era molto scettica nei confronti del movente internazionale su cui
insistevano i giornali. La pista estremista sembrava più probabile, anche se non pareva che i servizi di
sicurezza avessero molto da offrire al riguardo. D'altro canto: era sempre difficile sapere cosa stessero
facendo in realtà.
Secondo Billy T. la vita di Birgitte Volter pareva onestamente noiosa. La sua vita privata. Non
abbastanza grandiosa per contemplare scandali. Era quella pubblica a occupare tutto lo spazio. Se aveva
un amante segreto, doveva trattarsi allora dell'amante più segreto della storia.
Le voci che le venivano appiccicate addosso, come a tutte le persone pubblicamente esposte, erano vaghe
e si erano dimostrate totalmente infondate. Inoltre si riferivano perlopiù al passato.
Non c'era neanche un movente per uccidere il primo ministro. In Norvegia non si uccidevano i primi
ministri.
D'altra parte: Olof Palme nutriva sicuramente lo stesso parere sul proprio paese quando non aveva voluto
nessuna guardia del corpo con sé al cinema quella fatidica sera di febbraio del 1986.
Hanne era arrivata al parco di Sofienberg e aveva smesso di piovere. Diede un'occhiata verso ovest. Gli
squarci che le aveva indicato il vecchio si erano ingranditi: adesso, laggiù, si vedeva un pezzo di cielo
azzurro. Si sedette su un'altalena e si mise a dondolare avanti e indietro.
I pochi che avevano accesso all'ufficio del primo ministro sembravano improbabili come assassini.
Wenche Andersen avrebbe dovuto uccidere il proprio capo a sangue freddo e poi recitare davanti alla
polizia con tale maestria da meritarsi un Oscar come migliore attrice non protagonista. Da escludere.
Benjamin Grinde? Che andava a casa a preparare i festeggiamenti per la festa di compleanno dei suoi
cinquant'anni e che, secondo il rapporto dei poliziotti mandati a prenderlo, era stato perfettamente calmo
fino a quando lo avevano informato della morte della Volter? Non poteva essere lui. Tutti gli altri
collaboratori del Gabinetto del primo ministro avevano alibi a prova di bomba. Erano stati a incontri, in
studi radiofonici, a cene.
La soluzione le era sembrata così vicina quando aveva chiesto di vedere il referto dell'autopsia. Era
rimasta sveglia tutta la notte lottando contro quel pensiero. Suicidio.
La soluzione più semplice. Ma come avrebbe potuto una suicida far sparire l'arma con cui si era tolta la
vita per poi inviarla alcuni giorni dopo alla polizia? Hanne Wilhelmsen non credeva a un'esistenza dopo
la morte. Almeno non a una vita così attiva. Si era rigirata nel letto formulando altre teorie. Eccitata
aveva supplicato di vedere quel referto, che aveva distrutto le sue supposizioni con un piccolo e
semplice test. Era impossibile togliersi la vita senza lasciare indizi tecnici. Il patologo aveva esaminato
le mani di Birgitte Volter, in parte per cercare segni di lotta, in parte per escludere di prassi il suicidio.
Cosa che era stato in grado di fare: le mani erano completamente prive di polvere da sparo. La teoria di
Hanne era crollata come un castello di carte.
Non aveva più voglia di correre. Si alzò dallo pneumatico con cui era costruita l'altalena e si incamminò
verso casa, verso Stolmakergata 15 e la strana dimora di Billy T.
La risposta a quell'omicidio misterioso risiedeva nella domanda: perché l'arma era stata consegnata alla
polizia?
C'era qualcuno che desiderava raccontare loro qualcosa?
Hanne scosse irritata la testa, che aveva ripreso a elaborare nuove ipotesi. I pensieri si agitavano senza
trovare il proprio posto in quel modello confuso su cui aveva investito tutto il fine settimana allo scopo
di ricomporlo.
L'omicidio di Birgitte Volter era un caso senza movente.
Nessuno visibile, per il momento. Che cosa avevano? Una raccolta esclusiva di oggetti scomparsi e una
persona morta. Una pistola perfettamente ripulita e consegnata, di origine sconosciuta. Gli esami balistici
avevano mostrato che era l'arma del delitto, quella che si trovava nella busta.
Era scomparso uno scialle. E una scatoletta portapillole d'oro o d'argento smaltato. E un badge d'accesso.
Esisteva un nesso tra quegli oggetti?
Hanne Wilhelmsen pensò improvvisamente al vecchio del giardino botanico. Istinto. Si fermò, chiuse gli
occhi e cercò di sentire: era abituata a dare ascolto al proprio istinto. Una sensazione a livello di pancia.
Un riflesso nel midollo spinale. Adesso non sentiva nulla a parte una vescica crescente sul tallone
sinistro.
Eppure fece di corsa tutto il tratto fino a casa.

: Ore 09.10, centrale dì polizia, Oslo.! - Questa però non può essere una coincidenza, Hàkon!
Billy T. si era precipitato nel suo ufficio parlando a voce troppo alta. Tra le braccia teneva un oggetto
grande e indefinito: era rosso, di plastica, e aveva evidentemente esalato l'ultimo respiro.
- Cosa c'è? - sbadigliò Hàkon Sand.
- La balena, - ridacchiò Billy T. prima di ammassare l'animale morto in un angolo. - I miei figli ne
andranno pazzi questa estate! Il più grande gonfiabile della spiaggia.
- Accidenti, Billy T. Non puoi appropriarti come se niente fosse di un oggetto sequestrato!
- No? Quella povera balena non dovrà mica starsene...
Diede un calcio con la punta dello stivale a tutto quel rosso, che in cambio emise un fruscio leggero e
malinconico.
-... sola soletta giù nella cantina buia. No. Starebbe meglio con i miei ragazzi.
Scuotendo la testa, Hàkon Sand risbadigliò.
- Ascolta, Hàkon! - continuò Billy T. chinandosi su di lui. - Non può essere un caso. Era la guardia
giurata del palazzo del governo l'uomo che è morto sotto una valanga sabato, su a nord da quei montanari.
- Troms è una città universitaria con sessantamila abitanti.
Dubito che gradirebbero essere chiamati montanari.
- Va bene, va bene! Non capisci? Adesso che il tipo è morto, possiamo dare un'occhiata al suo
appartamento.
Billy T. sbattè un foglio azzurro davanti al politiinspektor.
- Ecco. Prepara un mandato di perquisizione.
Hàkon Sand allontanò da sé il modulo come se gli avessero offerto una scatola di scorpioni vivi.
- Quanto tempo può passare prima che diventi una cosa seria? - borbottò.
- Ehhh?
- Donne. Donne incinte. Per quanto possono andare oltre il termine?
Billy ridacchiò di gusto.
- Nervoso? Ci sei già passato, Hàkon. Andrà tutto bene.
- Ma Hans Wilhelm è nato con una settimana d'an! ticipo.
Hàkon cercò di reprimere l'ennesimo sbadiglio.
- Non avevi detto che il termine di Karen scadeva ieri? - disse Billy T.
- Si, - mormorò Hàkon strofinandosi la faccia. - Ma niente.
- Oddio, Hàkon! Possono passare una, due settimane oltre il termine prima che la situazione diventi
critica! E poi il medico può aver sbagliato. Rilassati. Compila questo, piuttosto.
Tentò nuovamente di spingere il foglio verso l'altro.
- Smettila!
Prima Hàkon provò a rimandarlo al mittente, ma dal momento che non ci riuscì, lo afferrò e lo strappò in
mille pezzi con movimenti bruschi, irati.
- Non so se hai memoria, Billy T., ma io mi ricordo benissimo un episodio avvenuto qualche anno fa,
quando ho cercato di far arrestare l'avvocato Jorgen Ulf Lavik sulla base di una deposizione di Karen. È
stato un incubo. Il giudice voleva la mia testa su un piatto perché i morti godono degli stessi diritti di noi
vivi. Col cavolo che ripeto l'esperienza.
Billy T. rimase a bocca aperta.
- Tira pure su il mento, - riprese Hàkon. - Se tu non impari dai tuoi errori, io si. Inoltre, e te lo dico per
l'ultima volta: la guardia giurata non è a/far tuo!
Hàkon picchiò le mani sul tavolo prima di riprendere con tono di voce più alto:
- Se adesso hai intenzione di inciuciare con Tone-Marit per farle fare il galoppino per te... allora mi
incazzo sul serio! Non esiste nessun motivo giuridico per incriminare nessuno. Tanto meno per supporre
che esista qualcosa a casa della guardia giurata da porre sotto sequestro. Ecco!
Si girò di scatto prima di afferrare una delle quattro raccolte di leggi che teneva sulla mensola alle sue
spalle. La sbatté sul tavolo con tale veemenza da far tremare i vetri delle finestre.
- Articolo 194 del Codice di procedura penale! Leggi!
Billy T. si contorse sulla poltroncina.
- Accidenti quanto la fai lunga!
Hàkon Sand emise un pesante sospiro.
- Sono stufo marcio, Billy T.
Adesso parlava con un tono di voce più basso, sembrava che si rivolgesse al codice.
- A volte sono così stufo di te e Hanne. Lo so che siete bravi. Lo so che di norma avete ragione. E solo
che...
Si riappoggiò allo schienale fissando fuori dalla finestra.
Due gabbiani, appollaiati sul davanzale, guardavano dentro.
Con la testa piegata di lato, davano l'impressione di provare pena per lui.
- Non siete voi a dover gestire tutta la merda che arriva quando la giurisprudenza non collima. Sono io.
Sai come hanno cominciato a chiamarmi gli altri giuristi?
- Il portaborse, - borbottò Billy T. sforzandosi di non sorridere.
- Personalmente non mi tange, anzi mi va pure bene.
Sono grato per il rapporto che abbiamo instaurato io, tu e Hanne. Abbiamo risolto un bel po' di casi
importanti nel corso del tempo.
Adesso sorridevano tutti e due. I gabbiani gridavano con voce rauca davanti alla finestra esprimendo il
proprio accordo.
- Ma non è possibile mostrarmi un po'... un po' di rispetto? Ogni tanto?
Billy T. guardò il collega con espressione seria.
;, - Ti stai sbagliando di grosso, Hàkon. Ascolta...
Si chinò a prendergli la mano. Hàkon tentò di divincolarsi, ma lui non mollò la presa.
- Se c'è un giurista in questa centrale di cui io e Hanne abbiamo rispetto, sei tu. Nessun altro. E sai
perché?
Hàkon fissò le loro mani senza rispondere: quella di Billy T., enorme e pelosa, incredibilmente morbida
e calda, e la sua, dura e ossuta. La girò. Sembrava che le tenessero come per ballare.
- Ci piaci, Hàkon. E dimostri di rispettare noi. Sei disposto a forzare tutto quell'inchiostro...
Billy T. indicò con la testa il codice, voluminoso e con la copertina rossa.
-... quando capisci che è un ostacolo alla cattura dei delinquenti.
Ti sei esposto tantissime volte per me e Hanne e commetteresti un grave errore se pensassi che non ti
rispettiamo.
Molto grave.
Hàkon provò un calore improvviso. Dentro di sé avvertì qualcosa di bello, che gli ricordava la
sensazione infantile, ormai dimenticata da un pezzo, della felicità. Fu colto da una spossatezza terribile.
Gli occhi gli si stavano chiudendo, gli girava la testa.
- Accidenti, sono stanco morto. Stanotte non ho chiuso occhio. Sono rimasto sdraiato a letto a fissare il
pancione di Karen. Sei sicuro che non sia pericoloso?
- Garantito, - rispose Billy T. lasciandogli la mano. - Ma adesso stammi a sentire.
Si strofinò la testa con le nocche.
- Sono cose grosse. Birgitte Volter è morta e di colpo la guardia giurata ci lascia le penne a causa di una
valanga. Proprio lui che era nell'ufficio del primo ministro nel momento più critico di tutti. Che si è
comportato in modo acido e scontroso, possiede delle armi e non si presenta per mostrarcele come aveva
promesso.
Hàkon, qui si può trattare di vita o di morte! Devo avere quel mandato!
Hàkon Sand si alzò. Allungò le braccia verso il soffitto mentre oscillava avanti e indietro sulla punta dei
piedi.
- Lascia perdere, Billy T. Non firmerò nessun mandato di perquisizione, ma se la cosa ti può consolare...
Atterrò di botto sui talloni.
- Venerdì scorso è stato mandato alla guardia giurata un ordine di consegna. In altre parole ha ricevuto
una richiesta formale che coincide con quello che volevi.
Adesso tocca agli eredi occuparsene. Avrà dei genitori da qualche parte. Se Tone-Marit scopre che vale
la pena insistere su questa pista, ne discuterò con lei. Con Tone-Marit.
Non con te.
- Ma Hàkon!
Billy T. non aveva intenzione di cedere.
- La morte di quella guardia capita troppo a proposito! Non lo vedi?
Hàkon Sand scoppiò a ridere.
- Così tu pensi che esista un'organizzazione terroristica in grado di prenotare la nevicata del secolo nella
regione settentrionale della Norvegia per poi provocare una tempesta improvvisa con conseguente
valanga? Allora quella valanga l'hanno pianificata a novembre! È stato allora che ha cominciato a
nevicare senza sosta. Mio zio abita a Troms. L'hanno ricoverato la settimana scorsa. Infarto dopo aver
spalato troppa neve. Ah!
Rise di gusto e a lungo.
- Un bello spettacolo da orchestrare! Stai prendendo un granchio, Billy T. Per una volta ti sbagli di
grosso.
Era vero. Billy T. aveva il muso lungo. Si alzò bruscamente e, dopo essersi accovacciato, afferrò la
balena con entrambe le braccia.
- E quella balena la rimetti lì dove l'hai trovata, - ruggì Hàkon. - Mi senti? Rimettila giù!

Ore 12.15, Corte Suprema.

Seduti in sala da pranzo, cinque giudici si stavano godendo un té accompagnato dai panini che si erano
portati| da casa, durante quello che veniva chiamato «il grande intervallo». Due di loro non si erano
ancora abituati a; saltare il caffè. Alla Corte Suprema si beveva té. La stanza era grande e bella: due
gruppi di divani in betulla foderati di lana verde mela si combinavano elegantemente con le pareti gialle,
cui erano appesi numerosi quadri di pittori coloristi. Si sentiva il tintinnio leggero delle tazze sottili di
porcellana bianca e di tanto in tanto il discreto rumore di chi sorseggiava il té.
- Qualcuno ha visto Benjamin Grinde?
Il presidente della Corte Suprema mostrava una ruga tra gli occhi che denotava una leggera inquietudine:
la provava da un paio d'ore, da quando aveva scoperto che non si | riusciva a trovare il giudice Grinde.
- Sono appena passato dal suo ufficio, - proseguì. - Non era lui che doveva pronunciarsi per primo sul
ricorso presentato per quella causa sulla previdenza sociale? Quella che abbiamo dibattuto mercoledì
scorso.
Tre giudici annuirono debolmente.
- Era quello che intendevo. La settimana prossima terrò una conferenza in tribunale per i giudici del
lavoro e vorrei fare riferimento a quest'ultima delibera.
- Non l'ho visto neanch'io, - disse il giudice Sommer, aggiustandosi il colletto immacolato della camicia.
- Neanch'io, - dissero gli altri due, quasi in coro.
- Avrebbe dovuto deliberare nel pomeriggio, - commentò il giudice Lovenskiold. - Abbiamo una riunione
alle 16.00. Che...
- Strano, - completò l'altro. - Proprio strano.
Il presidente della Corte Suprema si alzò e si diresse verso il telefono che si trovava accanto all'elegante
cucinino a sinistra della porta d'ingresso. Dopo una breve conversazione a bassa voce riagganciò e si
girò verso gli altri.
- Sono preoccupato, - disse ad alta voce. - La sua segretaria dice che oggi lo aspettavano come sempre,
ma che non si è visto. Non ha neanche avvisato.
I giudici tenevano lo sguardo abbassato sulle tazze e dalla strada proveniva il rumore del motore in folle
di un; camion.
- Devo controllare, - mormorò il presidente della Corte Suprema. - Subito.
Benjamin Grinde si era ammalato? Non era da lui non presentarsi al lavoro senza avvisare. Seduto nel
proprio ufficio, il presidente della Corte Suprema rimase in ascolto del telefono che squillava. Sapeva
che in Odins gate 3 l'apparecchio stava suonando, ma invano. Rinunciò e riagganciò con cautela.
Nel fascicolo personale di Grinde c'erano due numeri che si riferivano alla madre, la sua parente più
stretta.
Uno era estero, non riuscì a identificare subito il prefisso internazionale. L'altro iniziava con 22, il
prefisso di Oslo.
Lo compose, lentamente e con cura.
- Pronto, Grinde, - cinguettò una voce. - In cosa posso servirla?
Il presidente della Corte Suprema si presentò.
Cinciallegra Grinde si sentì tutta ringalluzzita. Il giorno prima aveva ricevuto la visita di una giornalista,
oggi telefonava il presidente della Corte Suprema in persona.
- Che piacere, - esclamò con voce così stridula che l'uomo fu costretto a staccare la cornetta
dall'orecchio. - In cosa posso aiutarla?
Le espose la questione.
- Immagino che Ben abbia bisogno di riposo, - lo tranquillizzò. - E così stanco, sa. Questa storia con la
polizia lo ha turbato profondamente. Non so se lei abbia avuto modo di notare che Ben è così sensibile.
Tipico della famiglia Grinde. Suo padre, per esempio...
Il presidente della Corte Suprema la interruppe.
- Quindi lei crede che magari stia soltanto dormendo?
Ma non ci ha avvisato.
- Sia io sia lei sappiamo che non è da Ben. Forse è rimasto addormentato. Posso...
La donna si interruppe di colpo, ma la pausa non durò a lungo.
- Posso passare da lui nel pomeriggio. Ci riesco appena prima di andare a teatro. Adesso ho
appuntamento dal parrucchiere, sa, ma nel pomeriggio...
- Grazie, - la interruppe di nuovo lui. - Le sarei riconoscente se lo facesse.
- Ma certo, - rispose Cinciallegra Grinde e all'uomo parve di sentire un tono leggermente offeso.
- Arrivederci, - disse il presidente della Corte Suprema riagganciando prima che quella donna avesse la
possibilità di replicare.

Ore 17.30, ministero della Salute.

- Ma questo lo posso fare io!


La segretaria personale del ministro della Salute assunse un'espressione inorridita quando trovò il suo
capo chino sul telefax mentre a occhi socchiusi cercava di capire come funzionasse.
- E una cosa privata, - abbaiò Ruth-Dorthe Nordgarden indicando alla sua nervosa impiegata di
allontanarsi.
Alla fine riuscì a inviare il fax e si portò l'originale in ufficio.
- Falli accomodare, - ordinò a una delle segretarie prima di sedersi a capo del tavolo da riunione, con
mezz'ora di ritardo rispetto all'orario previsto.
Nessuno di loro la guardò quando entrarono. L'atmosfera era tesa: la stanza era pervasa da una paura che
tutti percepivano a eccezione del ministro. Ruth-Dorthe Nordgarden sorrise forzatamente invitandoli a
sedersi.
- Come prima cosa devo dire che non conosco affatto l'argomento. Quindi cercate di essere chiari! Prego.
No, aspettate!
Fissò i presenti, due uomini e tre donne, prima di allargare le braccia.
- Dov'è Grinde? Non è ancora arrivato?
Guardò l'orologio.
Gli altri cinque si scambiarono un'occhiata stupita.
- Avevo capito, - esordi Ravn Falkanger, un anziano medico pediatra, - che il giudice Grinde fosse già
qui per un incontro preliminare...
- Niente affatto, - lo interruppe Ruth-Dorthe Nordgarden. - Io non ho mai sentito parlare di un incontro
preliminare.
Riguardò ostentatamente l'orologio, con la manica della giacca sollevata e la mano puntata al soffitto.
- Bene. Se non è arrivato fino a questo momento, possiamo iniziare. L'ho letta.
Agitò una relazione di undici pagine che quella mattina stessa aveva ricevuto dalla segretaria della
commissione, una donna che fungeva da assistente scientifico, aveva un'aria infelice e sembrava molto
giovane.
- E devo dire che con tutti questi termini medici mi rendete le cose difficili.
Il più anziano degli uomini, il professore di tossicologia Edward Hansteen, si schiarì leggermente la
voce.
- Bisogna capire, signor ministro, che il lavoro affidato alla commissione ha preso gradualmente un'altra
direzione rispetto a quanto era previsto nel mandato. Da parte nostra è scaturito il desiderio di recarci
all'estero per esaminare gli archivi ivi presenti. Questo era il motivo per cui Benjamin Grinde desiderava
parlare con il ministro, ma capisco...
Si raschiò nuovamente la gola, questa volta con più forza, prima di abbassare lo sguardo sulle sue carte.
- Capisco che la mole di lavoro del ministro ha impedito l'incontro con Grinde. Suppongo che sia stato
questo il motivo per cui si era rivolto al premier Volter. Ministro... si tratta di una questione così delicata
che Grinde desiderava sollevarla in via confidenziale con i vertici politici.
Nella pausa imbarazzante che seguì, la segretaria della commissione cominciò ad arrossire. Con la fronte
imperlata di sudore, tentò invano di nascondersi dietro i capelli lunghi e biondi.
- Bene, - disse Ruth-Dorthe Nordgarden. - Questa ormai è acqua passata. Ora siamo qui. Prego.
Annuì in direzione del professor Hansteen.
La riunione durò tre quarti d'ora. L'atmosfera non si rasserenò. L'esposizione avvenne con toni pacati.
Soltanto gli improvvisi «non capisco bene» e «può ripetere» del ministro interruppero di quando in
quando la voce regolare, piacevole di Edward Hansteen. Synnove von Schallenberg, professore di
medicina sociale, subentrò al collega: anche lei parlava con un'espressione preoccupata e lanciando
occhiate veloci in direzione del ministro... - Come il ministro sicuramente capisce, - disse alla fine il
professor Hansteen, - ci troviamo di fronte alla probabile conclusione che sia avvenuto qualcosa di
assolutamente irregolare.
Sottolineò il punto battendo tre volte la nocca sui documenti.
Ruth-Dorthe Nordgarden fissò la relazione che aveva davanti a sé, quella che aveva ricevuto in mattinata.
Uaveva letta. Ma forse non in modo così approfondito. Non abbastanza. Non avrebbe mai dovuto inviare
quel fax a Liten Lettvik. Almeno non da quell'ufficio. Potevano risalire a lei? Era stato un tragico errore.
Fece una smorfia incomprensibile mentre si passava una mano tra i capelli.
- Si, ma... - L'angolo della bocca prese a tremarle con forza. - Si tratta di qualcosa che dal punto di vista
prettamente politico può creare problemi?
Le quattro persone più anziane sedute intorno al tavolo si scambiarono un'occhiata carica di angoscia e
d'imbarazzo.
L'assistente scientifico si mise a osservare minuziosamente un nodo del legno del tavolo. Il ministro della
Salute capì troppo tardi di aver superato il limite. La commissione non era li per aiutarla sotto l'aspetto
politico. Era li per informarla dei fatti.
- Potete andare, - disse rapidamente. - Grazie per...
Il resto scomparve nel rumore delle gambe delle sedie che grattavano il pavimento mentre i presenti si
alzavano.
La segretaria della commissione riuscì persino a far cadere la sua. Ruth-Dorthe rimase in piedi senza
reagire, con gli occhi gonfi di lacrime. Nessuno degli altri lo notò.

Ore 19.30, Stolmakergata 15.

Anche se era fantastico che Hanne Wilhelmsen si fosse trasferita li, Billy T. provò un enorme piacere nel
trovarsi a casa tutto solo. Nessuno che lo costringesse a vedere il telegiornale, inoltre poteva mangiare
direttamente gli spaghetti appena intiepiditi direttamente dal barattolo senza che nessuno arricciasse il
naso. Era così pratico: gli bastava lasciarli sotto l'acqua calda corrente per un po' e, in un attimo, ecco la
cena.
Era andato in camera da letto a prendere il pouf. Non si sentiva ancora del tutto a suo agio con il divano
blu.
Aveva il pouf sotto la parte alta della schiena e gambe e braccia distese sul pavimento. Ignorando i colpi
del vicino scontroso che picchiava sulla parete, con il telecomando alzò di una tacca il volume.
La fine si avvicinava per Madama Butterfly. Billy T. condivideva a fondo la sua grande sconfitta. L'uomo
che lei amava e aspettava da anni era tornato, ma con un'altra donna. E questa donna che le aveva rubato
l'amato adesso voleva portarle via anche il suo unico vero tesoro, il figlio.
Il suo unico figlio.
La musica crebbe: compatta, drammatica. Billy T. chiuse gli occhi, sentiva che la musica lo riempiva
completamente, gli vibrava nelle dita dei piedi.
«Con onor muore chi non può serbar vita con onore!»
Billy T. sussurrò la frase in norvegese.
Squillò il telefono nel bel mezzo del finale.
- Merda!
Balzò in piedi, afferrò con violenza la cornetta e ruggì:
- Un attimo!
L'appoggiò accanto al telefono e ritornò al centro della stanza.
Madama Butterfly cantava per suo figlio, in modo intenso e pieno di dolore. Era per lui che sarebbe
morta.
Fine.
Con una voce così morbida che per un momento Tone-Marit pensò di aver sbagliato numero, Billy T.
disse:
- Pronto, con chi parlo?
La sua voce ritornò quella di sempre quando subito dopo sbraitò:
- Cazzo! E morto Benjamin Grinde?

Martedì 15 aprile 1997


Ore 08.30, «Markveien Café».

Hanne Wilhelmsen ridacchiò mentre leggeva i fumetti di Calvin & Hobbes. Era sempre la prima cosa che
faceva.
Aveva divorato tutto quello che c'era nel piatto: polpette di carne con cipolle, patate arrosto e mezzo litro
di latte.
Represse un rutto, pentendosi di aver mangiato le patate.
Billy T. non era abbonato al quotidiano «Aftenposten».
Le dava sui nervi che lui non adempisse neanche a una delle premesse fondamentali che
contrassegnavano l'appartenenza a un'esistenza civile: trovare il giornale davanti alla porta di casa tutte
le mattine. Dopo il jogging mattutino Hanne compensava l'ignoranza del suo amico facendo colazione al
bar, dove trovava tutte le testate che voleva.
Il caffè non era buono, ma era forte. Arricciò il naso, anche se quella reazione poteva essere causata da
tutti i titoli che riportavano la notizia della morte di Benjamin Grinde. Il «Dagbladet» aveva scelto dei
caratteri cubitali rossi che campeggiavano sopra la foto del giudice. Hanne andò a pagina 4, come
indicava l'articolo d'apertura.
Conteneva unicamente informazioni che conosceva già.
Le passò la voglia di continuare a leggere. Per una volta dovette ammettere che la stampa aveva segnato
un punto a proprio favore: era clamoroso il fatto che la morte di Benjamin Grinde fosse avvenuta otto
giorni dopo quella di Birgitte Volter. L'obbligo imposto dal capo della polizia di mantenere il più stretto
riserbo aveva evidentemente dato i suoi frutti. Infatti, per quanto vedeva, nessun giornale sapeva che l'ora
del decesso era stata fissata al sabato pomeriggio. Si trattava di una coincidenza strana.
Tutta la stampa norvegese sarebbe partita all'attacco se - o forse lei avrebbe fatto meglio a dire quando -
avesse scoperto che la guardia giurata del palazzo del governo era passata a miglior vita lo stesso giorno.
C'era qualcosa che la colpiva, ma non riusciva a capire cosa. La guardia. Benjamin Grinde. Birgitte
Volter.
Tutti morti nell'arco di una settimana. Una uccisa con una pistola. L'altro da una catastrofe naturale. Il
terzo si era probabilmente suicidato, o perlomeno era quello che Billy T. le aveva sussurrato quando
sfinito si era coricato accanto a lei alle quattro del mattino. Le aveva detto che il giudice era sdraiato sul
letto, con una boccetta vuota di pillole a fianco. Dopo aver preso una penna dalla borsa e appoggiato il
piatto su un tavolo vicino, Hanne disegnò un triangolo sul tovagliolo di carta. Grinde, la guardia giurata e
la Volter, ognuno a un vertice. Sotto disegnò uno scialle, una pistola, un badge e una scatoletta
portapillole.
La risposta era lì. Lo sapeva che era lì.
Fece scorrere la penna dagli oggetti alle persone, dalle persone agli oggetti ottenendo alla fine un
incrocio di righe incomprensibile e disordinato. Le venne mal di testa.
L'emicrania la tormentava a intervalli irregolari da quando l'avevano colpita alla testa nel 1993 e aveva
perso i sensi.
Era avvenuto davanti al suo ufficio mentre indagava su un caso molto grave che aveva coinvolto politici e
avvocati di spicco, nonché funzionari dei servizi segreti, tutti accusati di traffico e detenzione di
stupefacenti.
Prese due analgesici, che mandò giù con l'ultimo goccio di latte.
«KA» era partito in quinta. Finalmente anche la sezione politica del giornale mostrava interesse per la
crociata di Liten Lettvik. Di tutto quello che era stato pubblicato nelle sei pagine dedicate al caso, il
commento politico era quello più sconcertante.
SIAMO IN GRADO DI AFFRONTARE LA VERITÀ?
Gli avvenimenti che in quest'ultima settimana hanno sconvolto la Norvegia come nazione non possono
essere paragonati a nessun altro evento verificatosi nella storia nazionale del dopoguerra. Venerdì scorso
il primo ministro Volter è stato trovato ucciso nel suo ufficio. Ieri sera è stato rinvenuto nella sua
abitazione il corpo senza vita di un giudice della Corte Suprema, deceduto in circostanze misteriose.
È certamente possibile analizzare questi avvenimenti da diversi punti di vista. Alcuni preferiranno
chiudere gli occhi, scegliendo di credere che anche personalità di spicco della società norvegese siano
state vittima della violenza comune che si sta diffondendo sempre più tra di noi, una tendenza in costante
crescita e che i nostri politici non sembrano in grado di affrontare e debellare. Una constatazione di
questo tipo sarebbe ingenua e parrebbe voler coprire lo stato delle cose, piuttosto che smascherarlo.
Nell'arco dell'ultima settimana la stampa norvegese ha elaborato un numero infinito di teorie, come quella
secondo cui organizzazioni terroristiche internazionali avrebbero scelto un primo ministro norvegese
come obiettivo per i propri crimini. Se concentriamo troppo la nostra attenzione su questa possibilità,
rischiamo di escludere a priori spiegazioni che coinvolgono sfere più vicine a noi.
«KA» è stato l'unico giornale a indagare ulteriormente sulle circostanze che hanno provocato la morte di
Birgitte Volter. Non ci siamo accontentati di riprodurre e diffondere i laconici bollettini ufficiali che la
polizia ha condiviso con l'opinione pubblica.
Grazie al nostro lavoro, assiduo e puntuale, abbiamo rivelato che probabilmente Benjamin Grinde è stato
l'ultima persona a vedere Birgitte Volter in vita, e che per qualche ora è stato accusato dell'omicidio. In
seguito abbiamo potuto documentare che esistevano legami molto stretti tra il giudice Grinde e il primo
ministro.
Oggi siamo in grado di svelare che, nel corso del proprio lavoro, la commissione Grinde ha scoperto il
sussistere di condizioni di massima irregolarità all'interno del sistema sanitario norvegese.
Adesso la questione decisiva è: i politici, la stampa e la polizia avranno il coraggio di trarre le debite
conclusioni in merito a quanto emerso?
È in momenti difficili come questo che dobbiamo mostrare se siamo davvero uno stato di diritto.
Il superamento di una simile prova presuppone una totale indipendenza tra stampa, polizia, tribunali e
politici. O forse presuppone innanzitutto una stampa che sia disposta a parlare e a cercare la verità, a
dispetto delle autorità costituite.
Dobbiamo trarre insegnamento dagli altri paesi che hanno già dovuto affrontare traumi nazionali di questo
tipo. Undici anni fa la Svezia fu costretta a confrontarsi con l'assassinio di Olof Palme, ucciso su una
pubblica via. In un primo tempo le indagini si concentrarono quasi unicamente sulla cosiddetta «pista
curda». Altre possibilità furono prese in considerazione quando ormai era troppo tardi. La mancanza di
professionalità e l'irrigidimento su alcune teorie arrecarono gravi danni alle indagini. Il risultato è che
con tutta probabilità la Svezia non avrà mai più la possibilità di risolvere il proprio enigma nazionale.
Recentemente il Belgio è stato sconvolto da uno scandalo di pedofilia in cui sono coinvolti rappresentanti
della polizia e probabilmente personaggi legati ad ambienti politici. I sommi sacerdoti del potere hanno
mostrato di avere contatti così stretti tra di loro da essere in grado di minare e impedire le indagini su
crimini di particolare gravità. Questo soltanto quando fa loro comodo...
(Noi dobbiamo vigilare affinchè non accada lo stesso nel nostro paese.
Le notizie possedute da «KA» in esclusiva mostrano che il numero eccessivo di decessi infantili avvenuti
nel 1965 sarebbe stato provocato da un gravissimo errore commesso dalle autorità.
I vaccini distribuiti dall'Istituto superiore della sanità sarebbero risultati mortali per centinaia di bambini.
Una morte di massa distribuita e amministrata da un ente statale.
La più alta autorità politica del paese e il presidente della commissione d'inchiesta si sono incontrati,
come è noto, per discutere la faccenda poco più di una settimana fa. Adesso entrambi sono morti.
Siamo disposti a guardare la verità negli occhi?
Per la prima volta dopo tanto tempo Hanne Wilhelmsen provò il desiderio di fumare. Evidentemente il
proprietario di quel piccolo caffè non aveva mai sentito parlare del divieto di fumo nei locali pubblici:
tutte le persone presenti nella stanza si stavano gustando la propria sigaretta. Hanne conosceva poco i
dettagli dello scandalo che coinvolgeva la Sanità norvegese: era scoppiato poco prima che lei e Cecilie
partissero per gli Stati Uniti. Sapeva che a Grinde era stato affidato l'incarico di investigare e che si era
recato dalla Volter lo stesso giorno in cui lei era stata uccisa. Ma questo aveva a che fare con l'omicidio?
Fissò nuovamente il tovagliolo di carta. Il disegno era più indecifrabile che mai. Fece una croce sulla
guardia giurata prima di ispessire la linea che collegava Benjamin Grinde e Birgitte Volter, con il
risultato di bucare la carta sottile mentre la guardia giurata sembrava non avere intenzione di sparire. La
cancellò del tutto, ma il disegno risultava in un certo senso sbagliato. C'era qualcosa che non quadrava,
anche se non riusciva a capire cosa. Le tornò il mal di testa, ma non poteva prendere altre medicine.
- Hanne! Hanne Wilhelmsen!
Un uomo la colpì sul capo con un giornale. In un baleno Hanne si protesse con un braccio prima di aprirsi
in un gran sorriso.
- Varg! Che ci fai qui? Siediti!
L'uomo indossava un soprabito ampio e logoro che con nonchalance lanciò sullo schienale della sedia
mentre si accomodava.
Poi, dopo aver appoggiato le braccia sul tavolo, giunse le mani e si mise a guardarla.
- Incredibile. Diventi sempre più bella con il passare degli anni.
- Cosa ci fai qui? Credevo che soltanto in caso di estrema necessità ti saresti allontanato dalla bella città
delle sette montagne!
- Bergen? Mi sto occupando di un caso. Molto particolare.
Un ragazzino scappato di casa di cui nessuno vuole occuparsi, ma che a quanto pare è un genio
dell'informatica.
Il Tribunale dei minori continua a trovare sue tracce su internet, ma non sanno dove sia. Ha solo dodici
anni.
Fece un gesto per chiedere che gli portassero un caffè.
- Meglio se prendi un té, - sussurrò Hanne.
- Figuriamoci! Io la mattina devo bermi un caffè. E tu? Cosa combini?
Varg e Hanne non ricordavano in quale occasione si fossero conosciuti. Lui era un investigatore privato,
che soltanto raramente passava per Oslo. Avevano in comune alcuni conoscenti alla lontana e un paio di
volte si erano incontrati per motivi di lavoro. Avevano provato subito simpatia l'una per l'altro, cosa che
li aveva sorpresi molto.
- In realtà sono in permesso, - gli disse Hanne senza fornire altre spiegazioni. - Ma mi sto occupando un
po' del caso Volter. Impossibile lasciar perdere.
- Clamoroso quello che c'è scritto oggi sul giornale, - annuì lui indicando con la testa il caos di fogli e
carta sparsi sul tavolo. - Questo scandalo della Sanità sembra una faccenda molto grossa.
- Non sono riuscita a leggere più di tanto. Di che si tratta?
- Be', - esordì lui mentre sollecitava impaziente l'arrivo del caffè. - Da come stanno le cose, un numero
anomalo di bambini morì per un cosiddetto «arresto cardiaco».
A quanto pare si tratta di una, diciamo, diagnosi di riserva a cui si ricorre quando è stata esclusa ogni
altra causa di decesso. Tutti i bambini avevano ricevuto lo stesso tipo di vaccino trivalente. Viene
somministrato al terzo mese. Pare che quel vaccino fosse...
Afferrato «KA», si mise a sfogliarlo febbrilmente leccandosi l'indice.
- Contaminato. Ecco, qui dice: «Con ogni probabilità si trattava di un derivato del conservante. Quel
derivato aveva la caratteristica di assomigliare all'antigene presente nel vaccino, ma scatenava un effetto
diverso, che potrebbe aver attaccato il cuore dei bambini, provocandone il conseguente arresto
cardiaco».
- Fammi vedere, - disse Hanne portandogli via il giornale.
Rimase concentrata per parecchi minuti sull'articolo:
Varg fece in tempo a bersi mezza tazza di caffè prima che lei alzasse gli occhi.
- Ma. è gravissimo, - commentò Hanne ripiegando tutti i giornali. - Non sanno neanche dove fosse stato
comprato il vaccino.
- Appunto. A quanto sembra, questa commissione ha chiesto di svolgere delle indagini all'estero per
controllare gli archivi e scoprirlo. Nel nostro paese le istanze di controllo sono spesso lacunose.
Probabilmente il vaccino è stato prodotto in qualche stato del bongo-bongo che non ha procedure
igieniche sufficienti.
Dopo essersi ingollato il resto di quel liquido nero come la pece, si alzò di scatto.
- Devo andare. Ancora una cosa!
Esitò un istante prima di sorridere dicendo:
- In autunno compio cinquant'anni. Perché non vieni in quel di Bergen? Ho deciso di festeggiare.
- In autunno sarò negli Stati Uniti, - si scusò Hanne allargando le braccia. - Comunque auguri! Ci
vediamo!
Dopo essersi infilato il soprabito, Varg se ne andò. Hanne strappò un foglio dal time manager dell'agenda
e ridisegnò il suo triangolo. Volter - Grinde - guardia giurata. Nell'articolo c'era scritto che il ministro
della Salute Ruth-Dorthe Nordgarden aveva assicurato che il caso sarebbe stato affrontato con la
massima serietà e che sarebbero stati dispensati i mezzi e i mandati necessari per avviare le indagini
all'estero. Hanne esitò un po' prima di scrivere le iniziali R. D. N. tra Grinde e la Volter. Di colpo la
guardia giurata sembrava inutile: la sua presenza sulla carta disturbava il nuovo triangolo che collegava
invece gli altri. Se Benjami Grinde si era tolto la vita, perché lo aveva fatto? Qualora fosse stato
coinvolto nello scandalo dei vaccini, Hanne non riusciva a trovare la logica di quel gesto. Grinde
sarebbe dovuto essere orgoglioso di averlo scoperto. Certo, era anche vero che gli articoli comparsi
recentemente su di lui non erano molto piacevoli, ma uccidersi...
Adesso l'emicrania era insopportabile. D'un tratto fece una bella croce su tutto il disegno prima di
strapparlo.
«Non ha né capo né coda», si disse. Poi uscì per vedere se un po' d'aria fresca potesse farle bene.
In strada compose un numero con il cellulare. Senza presentarsi chiese:
- Possiamo vederci stasera?
Concluse la chiamata pochi secondi dopo:
- Va bene. Alle sette. Da Tranen in Alexander Kiellands plass.
Poi fece il numero di Billy T.
- Ciao, sono io. Anche stasera sei solo. Ceno fuori.
- Si tratta di un appuntamento ufficioso o ufficiale se dovesse chiamare Cecilie chiedendo di te? - rise
Billy T.
- Stupido. Ho un incontro con Gola profonda. Dillo pure a Cecilie.
Il mal di testa la stava uccidendo. Con le dita premute sulle tempie decise di andare a casa in
Stolmakergata per cercare di dormire un po'.

Ore 11. 15, Odins gaie 3.

La sera prima la Scientifica aveva passato molte ore nell'appartamento. Ovunque c'erano minuscole
tracce del suo passaggio: segni impercettibili indicavano che l'abitazione era stata messa sottosopra da
persone che non ci vivevano, anche se ogni cosa era tornata al suo posto. A eccezione del flaconcino
vuoto di pastiglie da venticinque milligrammi di Sarotex che si trovava sul comodino di Grinde accanto a
mezzo bicchiere d'acqua, e delle lenzuola che dovevano essere esaminate ulteriormente. Al centro della
camera, Billy T. teneva in mano il breve rapporto dei tecnici. Il cadavere era stato trovato sul letto, con
indosso soltanto un paio di boxer. Non c'era nessun segno di scasso: la porta era chiusa a chiave
dall'interno con tanto di catenella. Per entrare, la madre del defunto aveva chiamato il fabbro, che però
aveva avuto il buon senso di telefonare prima alla polizia.
Dopo averlo ripiegato due volte, Billy T. si infilò il foglio nella tasca posteriore dei pantaloni. Aveva
quasi dovuto litigare per essere presente, ma Tone-Marit gli doveva pur un favore dopo l'interrogatorio
con la guardia giurata.
- Sarotex, - chiese alla collega. - Il tipo prendeva antidepressivi?
- Non c'è niente che lo faccia pensare, - rispose lei. - Sapeva semplicemente cosa prendere. Prima due
Valium per calmarsi, poi una manciata di Sarotex. L'ha comprato venerdì. Ha prescritto il farmaco alla
madre ed è andato a prenderlo con la ricetta, facendo credere in farmacia che la madre era diventata
vedova e aveva bisogno di tranquillanti per superare quella fase di passaggio. Era medico. I medici
sanno cosa ci vuole e in farmacia possono acquistare praticamente qualunque cosa.
La cucina era la stanza più bella di tutto l'appartamento.
Gli armadi erano di ciliegio, con i ripiani in un materiale che assomigliava a marmo scuro.
- Larvikite, - commentò Tone-Marit Steen passando la mano sulla superficie liscia e dura. - Bello!
Guarda qui!
Un ampio frigorifero americano con tanto di freezer a lato era incassato nel legno di ciliegio. Da
un'apertura posta al centro del congelatore si poteva prelevare l'acqua con tanto di cubetti di ghiaccio.
Billy T. aprì lo sportello.
Pacchetti che portavano in bella grafia la scritta «Filetto d'alce 1996», «Mirtilli rossi 1995» e
«Fettuccine fatte in casa, 20 marzo» inducevano a pensare che anche nel frigorifero avrebbero trovato un
contenuto altrettanto allettante.
Cosa che non corrispose alla realtà. Dentro c'erano unicamente del brie che aveva iniziato ad ammuffire,
un peperone avvizzito, tre bottiglie di acqua minerale gasata e due di vino bianco. Billy T. infilò il naso
nella confezione aperta da un litro di latte parzialmente scremato che si trovava su uno dei ripiani dello
sportello: ritirò la testa con una smorfia. Grinde non mangiava da molto. Una litografia era appesa sopra
un piccolo tavolo a due posti sotto la finestra. Il robot da cucina era invece uguale a quello che Billy T.
aveva visto nella cucina della mensa in centrale.
Una stanza molto bella, ma sterile.
Il soggiorno era più accogliente. Nelle librerie che coprivano tutta la parete lunga, c'era ogni genere di
letteratura.
Billy T. premette il tasto per far uscire il Cd contenuto nel lettore: Peter Grimes di Benjamin Britten. Non
collimava esattamente con i gusti di Billy T., che scosse appena la testa. L'opera parlava del pescatore
Peter Grimes, che usciva sempre con il mare in tempesta e che tormentava i ragazzi dell'orfanotrofio,
costretti a lavorare per lui. Cose terribili, assolutamente poco adatte a un'anima che meditava il suicidio.
In soggiorno vide che Tone-Marit stava palpeggiando alcune statuette. Billy T. ne prese una dalla
mensola dellla credenza massiccia e imponente, chiedendosi cosa fosse.
- Netsuke giapponesi, - spiegò Tone-Marit sorridendo.
- Piccole miniature che originariamente venivano prodotte come bottoni da cintura, ma che in seguito
sono state usate come decorazioni e oggetti da collezione.
Billy T. osservò stupito prima il dio shinto minuscolo e; pauroso che teneva nel palmo della mano, poi
Tone-Marit.
- Queste sono davvero belle, - riprese lei. - Probabile che siano autentiche. Se così fosse, sono state fatte
prima del 1850. In questo caso valgono molto.
Con delicatezza ripose le statuette al loro posto, in fila, dietro le ante di vetro smerigliato.
- Mio nonno aveva un'agenzia di rappresentanza giapponese, - spiegò quasi commossa.
Billy T. si inginocchiò prima di aprire le doppie ante intagliate.
Dentro c'erano tovaglie inamidate e stirate, tutte accuratamente in pila.
- Un amante dell'ordine, questo Grinde, - borbottò richiudendo la credenza.
Si diresse in camera. Era tutto a posto, a parte il letto. Un paio di pantaloni pendevano elegantemente da
una pressa elettrica montata alla parete. Su una poltrona erano appese una camicia e una cravatta. Dalla
camera si accedeva al bagno, che aveva le piastrelle del pavimento blu scuro ed era arredato in modo
molto mascolino. Le pareti bianche erano interrotte all'altezza delle spalle da un bordo blu e oro che
ricordava vagamente un disegno egizio, e che si ripeteva per tutta la stanza. Si percepiva un profumo
debole e fresco da uomo. Uno spazzolino da denti. Un antiquato pennello e un vero sapone da barba.
Billy T. toccò il rasoio: sembrava d'argento e sull'impugnatura aveva incise le iniziali B. G.
Si sentiva un intruso. Di colpo gli balenò nella mente uno scenario da paura: il pensiero di essere luì a
morire!
L'idea che qualche poliziotto passasse al setaccio il suo bagno, toccasse le sue cose, desse un'occhiata ai
suoi oggetti più intimi. Si riprese ed esitante aprì l'armadietto.
Era li dentro.
Non ebbe dubbi.
- Tone-Marit, - ruggì. - Prendi una busta e vieni qua!
In un baleno la collega fu sulla soglia.
- Cosa c'è?
- Guarda.
Dirigendosi lentamente verso di lui, Tone-Marit seguì con gli occhi il suo indice che puntava verso una
scatoletta portapillole smaltata in oro.
- Accidenti, - commentò sbarrando gli occhi.
- Lo puoi ben dire, - ridacchiò Billy T. mentre infilava l'oggetto in una busta di plastica con la zip che
richiuse accuratamente.

Ore 15.45, centrale di polizia, Oslo.

Il capo dei servizi di sicurezza sembrava un rappresentante delle pompe funebri. Il vestito era troppo
scuro e la camicia era troppo bianca. La cravatta sottile, nero carbone, ricordava un punto interrogativo
che si domandava il motivo di quell'abbigliamento inadeguato. Era vero che avrebbero dovuto incontrare
i familiari di Birgitte Volter, ma erano passati quattro giorni dai funerali.
Nessuno dei presenti raccolti nella sala riunioni del capo della polizia aveva mai preso parte a una cosa
simile. Nel corso della carriera la maggior parte di loro aveva ovviamente avuto modo di parlare con i
parenti delle vittime, ma non così. Non in circostanze tanto ufficiali. E non quando si trattava
dell'omicidio di un primo ministro.
- Accidenti, - commentò il capo della polizia.
Guardò con espressione incredula Billy T., che indossava un paio di pantaloni grigi di lana con la piega,
una camicia bianca e una giacca grigio scuro portata aperta. La cravatta era nelle tonalità morbide
dell'autunno. Sembrava un altro.
Persino il crocefisso capovolto che portava al lobo dell'orecchio era stato tolto e sostituito da un
piccolissimo diamante.
Il capo della Omicidi entrò trafelato e rosso in viso.
- Gli ascensori non funzionano, - ansimò passandosi le mani sui pantaloni, del tipo che non si stropiccia
mai.
Roy Hansen era sulla porta, amorevolmente rimproverato dalla segretaria del capo della polizia.
Guardava a turno i presenti, e il giro di strette di mano si fece così lungo e complicato nel caos di sedie
che Billy T. preferì non contribuire a quella scena penosa. Dopo essersi accomodato al suo posto, fece un
cenno con la testa al vedovo e si trattenne dal chiedere dove fosse finito il figlio.
Per Volter arrivò con cinque minuti di ritardo. Sembrava avere dormito nei vestiti che indossava. Cosa
che probabilmente corrispondeva a verità. Un odore acre di sudore stantio si mescolava alla puzza
inconfondibile di una vecchia sbornia rinverdita la mattina e che aveva cercato di ammortizzare con una
gomma da masticare alla menta.
Gli occhi erano sfuggenti. Alzò la mano in un gesto collettivo di saluto invece di stringere quella che
qualcuno gli aveva porto con una certa titubanza. Non degnò il padre di uno sguardo.
- Sono in ritardo, - borbottò lasciandosi cadere su una sedia in modo ostentato e con la schiena per metà
rivolta verso il padre. - Scusate.
Il capo della polizia si alzò senza sapere esattamente cosa dire. Non pareva appropriato augurare il
benvenuto quando si trattava di affrontare in dettaglio l'omicidio di una moglie e madre. Fissò Roy
Hansen, che a sua volta aveva gli occhi inchiodati sulla schiena del figlio: uno sguardo così vuoto e
carico di disperazione che per un attimo il capo della polizia perse il coraggio pensando di rimandare
l'incontro.
- Questa riunione sarà sicuramente spiacevole, - esordì infine. - E vi porgo le mie più profonde scuse, ma
io e i miei collaboratori dobbiamo fare il punto su come procedono le indagini.
- Noi ne sappiamo molto meno di quelli parcheggiati qui fuori dalla porta, - lo interruppe Per Volter in
modo brusco e ad alta voce.
- Scusi?
Il capo della polizia si toccò una spalla prima di guardare il giovane.
- Fuori dalla porta?
- Si. Giornalisti. Sono dovuto passare sotto le forche caudine per farmi largo. Credete che abbia così
tanta voglia di essere fotografato, in questo momento?
Tirò lo sparato della camicia per mostrare lo stato pietoso in cui era conciato.
Il capo della polizia si mise a scrutare qualcosa davanti alle sue gambe, deglutendo più volte. Il pomo
d'Adamo, subito sotto il mento, era rosso per via di un eczema dovuto alla barba.
- Non posso fare altro che scusarmi. Nessuno di loro avrebbe dovuto sapere del vostro arrivo. Mi spiace.
- Mi spiace qua, mi spiace là!
Per Volter spinse la sedia all'indietro e vi si stravaccò come un adolescente recalcitrante, con il sedere
appoggiato all'estremità del sedile, le spalle contro lo schienale e le gambe divaricate, tese sul
pavimento.
- «Servire e proteggere». Non è così che si dice? Intanto non avete né servito né protetto. Siete
d'accordo?
Picchiò un pugno sulla parete prima di coprirsi il volto con le mani.
Roy Hansen si schiarì la gola. Adesso era grigio in volto e gli occhi erano minacciosamente umidi. Gli
altri sedevano in silenzio; soltanto Billy T. ebbe il coraggio di guardare padre e figlio.
- Per, - disse Roy Hansen con tono sommesso, - puoi...
- Non rivolgermi la parola, - ruggì Per Volter. - Non te l'ho detto? Non te l'ho detto che non mi devi più
parlare?
Eh?
Si coprì nuovamente il volto.
Il capo dei servizi di sicurezza era paonazzo. Giocherellava con una sigaretta che non poteva accendere,
fissandosi intensamente un ginocchio. Il capo della Omicidi aveva la bocca aperta senza esserne
consapevole: soltanto quando una leggera bava prese a colargli dal labbro inferiore, la chiuse mentre con
un gesto fulmineo si asciugava il mento con la manica della giacca.
Il capo della polizia guardava fuori dalla finestra, come se stesse valutando una possibile via di fuga.
-PerVolter!
Era la voce di Billy T., profonda e penetrante.
- Guardami!
Il giovane seduto dall'altra parte del tavolo smise di dondolarsi, ma continuò a nascondere il viso.
- Guardami, - tuonò Billy T. picchiando il palmo della mano sul tavolo di teak con tanta violenza da far
tremare i vetri delle finestre.
Il ragazzo sussultò prima di togliere le mani dalla faccia.
- Capiamo perfettamente che stai male. Tutti noi qui presenti sappiamo quanto soffri.
Billy T. si protese sul tavolo. - Ma non sei l'unico in tutta la storia del mondo ad aver perso la madre!
Vedi di darti un contegno!
Per Volter si raddrizzò rabbioso sulla sedia.
- No, ma sono l'unico che dopo si vede pubblicare la vita della sua famiglia sui giornali di tutta la
Norvegia!
Adesso piangeva, un pianto silenzioso interrotto ogni tanto dal naso che tirava su. Continuava a
strofinarsi gli occhi, ma invano.
- In questo hai ragione, - disse Billy T. - Sicuramente io non sono neanche in grado di immaginare come
sia.
Però tu devi permetterci di svolgere il nostro lavoro e in questo momento si tratta di esporre a te e a tuo
padre a che punto sono le indagini. Se vuoi stare a sentire, bene.
In caso contrario ti suggerisco di andartene. Ti farò accompagnare all'uscita posteriore così eviterai la
stampa.
Il giovane non rispose, non smetteva di piangere.
- Per! - proseguì Billy T. piano.
Per Volter alzò lo sguardo. Gli occhi del poliziotto erano strani: un azzurro ghiaccio che si addiceva di
più a un cane pericoloso o a un film dell'orrore. La bocca però era atteggiata a un debole sorriso che
voleva comunicare una forma di comprensione che secondo Per Volter nessuno gli aveva mai mostrato da
quando sua madre era stata uccisa.
- Vai o rimani? O forse preferisci aspettare nel mio ufficio, così dopo parliamo tu e io a quattrocchi?
Per Volter si costrinse a sorridere.
- Scusate. Rimango.
Dopo essersi soffiato il naso in un fazzolettino offertogli dal capo dei servizi di sicurezza, si raddrizzò e,
' accavallate le gambe, piantò gli occhi addosso al capo della polizia, come se impaziente e sorpreso si
domandasse perché l'esposizione fosse finita prima ancora di cominciare.
Non ci volle molto tempo. Il capo della polizia diede quasi subito la parola a quello dei servizi di
sicurezza, che a sua volta fu molto stringato. Billy T. sapeva che le informazioni che stava fornendo erano
state filtrate a regola d'arte. La cosa più interessante fu che quando riferì della pista estremista
parlandone in modo molto generico, la bocca assunse una smorfia particolare e lo sguardo non era saldo
còme sempre.
«La guardia giurata, - pensò Billy T. - Hanno in mano qualcosa su di lui».
- Sì, - disse di colpo dopo che il capo della polizia aveva pronunciato tre volte il suo nome senza che lui
sentis-| se. - Sì, scusate. Il portapillole, sì.
Dopo aver estratto una piccola busta di plastica dalla tasca della giacca, la pose davanti a Roy Hansen. Il
vedo-| vo non aveva detto una sola parola da quando Per aveva inveito contro di lui e neanche adesso
aprì bocca. Guardò impassibile la busta.
- La riconosce? - gli domandò Billy T. - È la scatoletta portapillole di Birgitte Volter?
- Non l'ho mai vista, - rispose Per Volter prima che suo padre avesse il tempo di parlare.
Il giovane si sporse in avanti per prendere la busta. Fulmineo Billy T. copri l'oggetto con la mano.
- Non ancora. La riconosce?
Dopo aver preso l'oggetto dal contenitore, lo mostrò a Roy Hansen.
- È nostra, - sussurrò il vedovo. - Ce l'hanno regalata quando ci siamo sposati. Birgitte e io. Un dono di
nozze.
È quella che le ho fatto vedere nella foto.
- Ne è sicuro?
Roy Hansen annuì lentamente senza mollare la scatoletta con lo sguardo.
- Io non l'ho mai vista, - ripetè Per Volter.
- Dove l'ha trovata? - domandò Roy Hansen tendendo il palmo verso Billy T.
- Nell'appartamento di Benjamin Grinde, - rispose Billy T. appoggiando l'oggetto nella mano di Roy
Hansen.
- Cosa?
Per Volter guardò prima uno e poi l'altro.
- Da quel giudice della Corte Suprema?
Tutti i poliziotti annuirono con zelo, come per avvalorare ulteriormente la veridicità della frase.
- Da Benjamin Grinde, - disse Roy Hansen. - Perché?
Smise di scrutare la scatoletta.
- Speravamo che uno di voi due potesse-spiegarcelo, - intervenne Billy T. giocherellando con il
diamantino che aveva all'orecchio.
- Non ne ho idea, - borbottò Roy Hansen.
- Non ha neanche un'ipotesi?
La disperazione aveva lasciato il posto all'aggressività.!
Il vedovo alzò la voce:
- Forse Benjamin l'aveva rubata? Sgraffignata in qualche occasione. Che ne so io! Poteva averla presa
molti anni fa se è per questo. Io non vedevo questo oggetto da secoli.
- No, in questo caso deve essere successo il giorno in cui ha visto Birgitte prima che fosse uccisa, -
spiegò Billly T. pacatamente. - La sua segretaria ricorda che la scatoletta stava sempre sulla scrivania.
Guardò Per Volter, che stringendosi nelle spalle scosse la testa.
- Non ne ho idea, - ripetè. - Mai vista prima.
- Avrà notato che è difficile da aprire, - riprese Billy T. rivolto a Roy Hansen. - Ma noi ci siamo riusciti.
Dentro c'è una ciocca di capelli. Sembra quella di un neonato...
Per ansimò prima di provare convulsamente a riprendere il controllo e a non scoppiare di nuovo a
piangere.
- Pensavamo, - esordì Billy T. - Credevamo che forse... non è molto facile chiederle questo, Hansen,
ma...
Roy Hansen pareva rimpicciolito, teneva gli occhi chiusi.
- Abbiamo sottolineato che tutte, assolutamente tutte le informazioni relative a Birgitte possono essere
utili per la soluzione del caso, quindi sono costretto a chiederle...
Dopo essersi appoggiato una mano sul cranio rasato a zero, Billy T. la fece scivolare lentamente avanti e
indietro.
Evitò con cura di guardare il capo della polizia: sapeva già cosa gli avrebbe detto il suo superiore.
- Perché non ci ha parlato della neonata morta? - disse in fretta. - Di vostra figlia.
- Billy T., - intervenne tagliente il capo della polizia, come previsto. - Questo non è un interrogatorio!
Hansen, lei non è costretto a rispondere a questa domanda.
- Invece voglio!
Roy Hansen si alzò. Indolenzito andò alla finestra prima di girarsi bruscamente verso i presenti.
- Lei ha appena detto di non sapere cosa vuole dire vedersi sciorinare la propria vita sui giornali. In
questo lei ha perfettamente ragione. Non ne ha idea! Tutta la Norvegia si occupa di Birgitte. Voi vi
occupate di lei. E lo accetto. Ma esiste qualcosa che è soltanto mio! Mio! Lo capisce questo?
Adesso era in piedi davanti a Billy T. e, dopo essersi chinato sul tavolo appoggiandosi a una mano, lo
guardò dritto negli occhi.
- Perché non ho detto nulla di Liv, mi chiede. Perché voi non avete niente a che fare con questo! Okay? La
morte di Liv è stata la nostra tragedia! Mia e di Birgitte!
L'ira scomparve con la stessa velocità con cui era venuta.
Di colpo Roy Hansen parve non sapere più dove fosse e perché si trovasse li: si guardò stupito intorno
prima di rimettersi a sedere.
Ci fu silenzio, a lungo.
- Be', - sospirò Billy T. riponendo con cautela la scatoletta nella busta e rinfilandola nella tasca della
giacca. - Per ora lasciamo stare. Chiedo scusa se ho detto qualcosa che l'ha ferita. A questo punto rimane
soltanto una cosa...
Guardò il capo della polizia che con un cenno sconsolato gli indicò di procedere.
- Siamo a conoscenza di qualcosa che non deve assolutamente trapelare. Finora siamo riusciti a tenere
lontana la stampa e vorremmo continuare a tenere segreta quest'informazione ancora per un po'.
Abbiamo...
Estrasse una busta da una cartella e pose il contenuto davanti a padre e figlio.
- Sappiamo che questa è l'arma che è stata usata per l'omicidio, - spiegò indicando le due fotografie. - È
una...
- Nagant, - lo interruppe Per Volter. - Una Nagant russa. Un modello del 1895.
Osservò la foto.
- Dov'è la pistola?
- Perché? - chiese Billy T.
- Dov'è la pistola? - ripetè Per Volter. Aveva un aspetto febbricitante per via del rossore improvviso che
gli era apparso sulle guance. - Voglio vederla.
Ci volle soltanto qualche minuto prima che un poliziotto bussasse alla porta, consegnasse un revolver a
Billy T. e lasciasse la stanza con un cenno del capo.
- Posso prenderla in mano? - chiese Per a bassa voce guardando Billy T., che annuì.
Con i movimenti sicuri di chi ha dimestichezza, Per Volter ispezionò l'arma che aveva ucciso sua madre.
Controllò il tamburo, lo trovò vuoto, puntò a terra e premette il grilletto.
- Conosci questo tipo di armi? - gli domandò Billy T.
- Si, -rispose Per Volter. - Conosco quest'arma molto bene. E mia.
- Tua?
Il capo dei servizi di sicurezza aveva quasi urlato.
- Si. Questa Nagant è mia. Qualcuno mi vuole spiegare come ha fatto a finire qui?

Ore 17.30, Stensparken.

Lo indisponeva da morire non aver insistito per incontrarsi da un'altra parte. Odiava lo Stensparken.
Riusciva a stento ad attraversare quel piccolo polmone verde tra Stensgata e Pilestredet senza trovare
qualcuno che lo abbordasse. Era la feccia che bazzicava da quelle parti, checche schifose che lo
prendevano sempre per uno di loro, indipendentemente da come si vestiva o si comportava.
Una volta un uomo lo aveva chiamato a mo' di lusinga Jonas Fjeld, ed era stato solo per quello che non
aveva steso un essere tanto repellente. Brage Hàkonsen aveva la serie completa dei libri d'azione scritti
da Ovre Richter Frich su quel personaggio dall'aspetto ariano.
Inoltre sarebbe stato meglio vedersi più tardi. Adesso c'era ancora luce. Il fornitore aveva insistito: era in
partenza per l'estero e voleva chiudere la faccenda.
Brage Hàkonsen aveva fatto tre giri del parco. Era impossibile stare fermi, altrimenti sarebbero strisciati
fuori.
Quelle termiti della società.
Alla buon'ora. L'uomo, in un cappotto scuro che gli arrivava fino ai piedi, gli fece impercettibilmente
segno di andargli incontro come per caso. Nel modo più discreto possibile Brage guardò da tutte le parti
incamminandosi verso di lui. Nel momento dello scambio, sentì il peso di qualcosa che era caduto nel
borsone di nylon, dove aveva infilato per sicurezza alcuni indumenti sportivi. Aveva lasciato andare un
manico al momento giusto.
Lo riafferrò e si avviò a passo spedito verso due cestini della spazzatura in fondo al parco. Ne aprì uno e
vi lasciò cadere dentro una busta consunta, insieme a una carta da gelato che aveva trovato mezz'ora
prima.
Cinquemila corone, non era poi così male per una pistola non denunciata e funzionante. Impossibile da
rintracciare.
Nell'attimo in cui Brage Hàkonsen lasciò il parco, vide con la coda dell'occhio che l'uomo dal cappotto
lungo si stava dirigendo verso i cestini. Brage sorrise mentre stringeva con più forza il borsone.
Di colpo avvertì un brivido lungo la spina dorsale: aveva già visto prima il tizio che stava leggendo un
giornale in piedi sotto un grande albero.
Quello stesso giorno, poco prima. Si sforzò di ricordare dove. Nel chiosco o sul tram? Aumentò
l'andatura mentre sbirciava sopra la spalla per vedere se il tizio lo pedinasse. No. Si limitò a seguirlo
con lo sguardo prima di immergersi nuovamente nella lettura.
Doveva essere uno di loro. Una checca. Brage tirò un sospiro di sollievo prima di avviarsi con passo
veloce ver| so l'Istituto superiore di veterinaria.
Ma il pensiero del tizio che leggeva il giornale non lo mollava. Sarebbe voluto andare alla capanna nei
boschi a nascondere l'arma. Per il momento. Fino a quando il piano fosse stato pronto. Lo era quasi, ma
non del tutto non era ancora sicuro su chi voleva con sé: era impossibile portare a termine quel progetto
da solo. Comunque voleva un unico collaboratore. Più ce n'erano, maggiore era la possibilità che tutto
andasse a rotoli.
Liquidato il primo ministro, toccava al presidente del Parlamento. Il valore simbolico sarebbe stato
enorme. Per qualche motivo ebbe un attimo di esitazione quando aprì la porta di casa. Non poteva recarsi
alla capanna. Quasi nessuno sapeva della sua esistenza. Soltanto la vecchia al pianterreno, a cui lui
faceva la spesa e lavava le scale. E che, come ringraziamento, gli aveva dato le chiavi della capanna. Era
una donna senza figli e molto anziana, che conosceva a malapena persone diverse dagli assistenti mandati
dal Comune a portarle tre volte alla settimana un pasto caldo. Era tutta pelle e ossa, ma era una bella
persona.
Lui non aveva in mente nessun secondo fine quando di tanto in tanto faceva due chiacchiere con lei, ma il
giorno in cui era venuto a sapere che suo marito aveva combattuto al fronte a fianco dei nazisti ed era
morto durante la guerra, aveva cominciato a darle una mano. Bisognava prendersi cura della propria
gente. Si trattava di una questione d'onore.
Sarebbe voluto andare alla capanna, ma qualcosa gli diceva che non poteva farlo e che non avrebbe
dovuto tenere l'arma in casa. O nel ripostiglio, giù in cantina.
Scese nelle cantine, dove aprì quella della signora Svendsby: nascose la pistola impacchettata dietro
quattro vasetti di marmellata del 1975.
Non aveva neanche guardato l'arma quando, chiusa la porta, infilò la chiave fra due travi sotto il soffitto.
La signora Svendsby aveva le anche rovinate e non scendeva in cantina da più di quindici anni.

Ore 19.10, ristorante «Tranen».

Il ristorante Tranen non aveva neanche tentato di diventare alla moda. Mentre tutti gli altri postacci della
capitale erano ormai oggetto di pellegrinaggio per i turisti della Oslo bene che ci arrivavano in taxi,
Tranen era senza dubbio troppo lugubre. La sua clientela aveva messo a malapena piede fuori dal
quartiere di Bislett e adesso era in gran parte impossibilitata ad arrancare così lontano. Se ne stavano
tutti li seduti con in tasca qualche spicciolo ricevuto dall'assistenza sociale, i volti rosso-violacei e storie
di vita che nessuno voleva ascoltare. Hanne Wilhelmsen sapeva che erano racconti tristi e strazianti, se
soltanto qualcuno avesse avuto voglia di porgere l'orecchio. Invece quella gente sbraitava e
schiamazzava, con le guance percorse da capillari rotti e destini impacchettati per benino nell'alcol che
nessuno avrebbe mai scoperto.
Guardò l'orologio cercando di mascherare l'irritazione.
Con il fiatone comparve Oyvind Olve. Guardandosi confuso intorno, credeva di aver sbagliato posto. Al
tavolo accanto alla porta sedeva un cowboy. Per l'esattezza una donna che, a essere sinceri, dava l'idea di
non aver mai posato il suo sederone su qualcosa che assomigliasse a un cavallo. L'abbigliamento invece
era perfetto. Indossava una giacca lucida di pelle rossa con lunghe frange di nylon catarifrangenti, mentre
sulla schiena aveva delle borchie che formavano l'espressione «Divine madness» in bella grafia. In testa
portava la copia di uno Stetson bianco. I jeans erano tre taglie in meno della sua e faceva fatica a stare
seduta. Forse era per quello che se ne stava mezzo in piedi, protesa verso un uomo che evidentemente si
rifiutava di pagarle il conto. O forse voleva soltanto mettere in mostra gli stivali: lucidi, bianchi e
palesemente di plastica.
- Hai detto che avresti pagato tu, - farfugliò prima di afferrare per il colletto l'uomo; lui aveva i capelli
sottili che gli coprivano il cocuzzolo in sparute ciocche. - Va' a morire ammazzato, Barile! Avevi
promesso di pagare, cazzo!
Il tipo cercò letteralmente di sottrarsi all'accordo e, così facendo, rovesciò una media quasi intatta. Tutte
e cinque le persone sedute intorno al tavolo fissarono scioccate le gocce preziose che, dopo aver
inondato la superficie, scrosciavano a cascata sul pavimento.
- Cazzo, Barile, cosa diavolo stai facendo? - piagnucolò la cowgirl. - Adesso mi devi pagare almeno una
media!
Oyvind Olve si accorse di Hanne solo quando lei gli fece un cenno con la mano. Felice di scampare al
rodeo che si stava consumando sulla porta d'ingresso, si lasciò cadere davanti a lei prima di appoggiare
rumorosamente la sua cartella portadocumenti sul tavolo.
- Ma Oyvind, - gli disse lei con un. sorriso di rimprovero. - Quand'è che ti procuri qualcosa di meglio?
Lui fissò risentito la piccola ventiquattrore di nylon rosso e nero con impresso in un angolo il logo del
Partito laburista.
- Io la trovo carina!
Piegando all'indietro la testa, Hanne Wilhelmsen scoppiò a ridere fragorosamente.
- Carina? E terribile! Te l'hanno data a un convegno nazionale del partito?
Oyvind Olve annuì sconcertato prima di appoggiarla accanto a sé, fuori dalla vista dell'ispettore capo.
Hanne fece un cenno con la testa in direzione della birra piazzata davanti a lui: ne aveva ordinate una per
ciascuno.
- Perché hai voluto che ci incontrassimo qui? - sussurrò lui alzando gli occhi al cielo.
- Perché è l'unico posto dove puoi essere sicuro che nessuno ascolta quello che dici, - mormorò lei di
rimando guardandosi intorno con aria da cospiratrice. - Qui non si sono infiltrati neanche quelli dei
servizi di sicurezza!
- Ma, - borbottò lui guardando il menu unto di grasso, - si può mangiare?
- Poi ceniamo da un'altra parte, - rispose Hanne eludendo la domanda. - In questo locale la birra è buona
come in qualsiasi altro posto. Adesso racconta.
Sorseggiando il contenuto del bicchiere, lui appoggiò i gomiti sul tavolo mentre si leccava le labbra.
- Cosa diavolo sarebbe questo scandalo della Sanità?
Che cosa sta succedendo?
- Quando capitano cose del genere, si tratta quasi sempre di lotte di potere. E di soffiate alla stampa.
- Stampa? Ti riferisci alle informazioni passate ai giornali.
- A quello che è apparso oggi sui quotidiani, - disse Oyvind mentre disegnava un cerchio sul vetro del
bicchiere appannato, - non lo sapevano neanche al Gabinetto del primo ministro. Sembra che qualcuno
cerchi di colpirci.
- Colpirvi? Ma non è vero quello che c'è scritto?
- Può anche essere. E se fosse vero, sarebbe stato reso pubblico. Il punto è che si tratta proprio di ciò che
questa commissione d'inchiesta deve esaminare, e dal momento che sono già trapelate molte cose, per noi
è difficile essere oggettivi.
- Per noi? Intendi dire il partito?
Oyvind Olve sorrise, quasi imbarazzato.
- Si, in un certo senso. Ma prima di tutto il governo.
Mi dimentico sempre che non faccio più parte dell'ufficio del primo ministro. Scusa.
- Ma come fa questa situazione a danneggiare il governo oggi? È successo più di trent'anni fa!
- Ogni cosa viene imputata al governo. Questo dovresti vederlo da sola. E il governo che si è assunto la
responsabilità di investigare sulla faccenda. C'è mancato un pelo che il Parlamento non si appropriasse
anche di questo caso.
Fortunatamente Ruth-Dorthe si è mossa in anticipo ed è riuscita a formare una commissione nominata
dall'esecutivo prima che qualcuno in Parlamento avesse il tempo di rifletterci sopra. La questione non era
abbastanza grave.
Allora. Ma adesso vedrai...
Dopo aver bevuto una bella sorsata di birra, emise un gemito.
- Pensa allo scandalo che ha coinvolto i servizi di sicurezza quando si è scoperto che tenevano sotto
controllo l'operato di alcune persone politicamente scomode, - pròseguì abbassando ulteriormente la
voce. - Quando è stato reso noto il dossier della commissione Lund*...
Si portò ancora il bicchiere alla bocca, trangugiando quasi metà del contenuto.
- Non hai visto come hanno cercato di trasformare lo scandalo in una loro vittoria?
-Chi?
- L'opposizione. Il Partito socialista di sinistra e il Partito del centro. E altri. Come se fosse merito del
Parlamento, e non invece a un giudice lungimirante della Corte Suprema e di un team eccellente. Come se
noi non fossimo interessati a portare alla luce tutte le eventuali storture.
- Ma, - protestò Hanne, - anche il governo aveva condotto le proprie indagini, però avevano portato a ben
poco!
- Si, - replicò Oyvind Olve, picchiando il bicchiere sul tavolo. - Ma non era di certo colpa del governo!
Non era mica Grò Harlem Brundtland ad avere spulciato i vari dossier!
Irritato fece un cenno affinchè gli portassero un'altra birra. Invece del cameriere, ricevettero di colpo la
visita di un uomo che raggiungeva appena il metro e quaranta di altezza. Indossava uno smoking e
possedeva un naso che aveva visto senza dubbio giorni migliori, ma che sicuramente non poteva essere
stato più grande di adesso.
La bocca apparve solo quando l'aprì per dichiarare con un gesto pavoneggiante che eseguì con il
cilindro:
- Signori miei! Mi delizia assai che questa compagine di beoni riceva la visita di gente perbene! A nome
del proprietario e della clientela fissa di Tranen desidero porgervi il più caloroso benvenuto!

Nota. Commissione istituita nel 1994 per indagare sulla supposta sorveglianza illegale ai danni di
comunisti, socialisti, individui e gruppi che i servizi di sicurezza reputavano potenzialmente pericolosi
per lo stato. Il rapporto della commissione confermò i sospetti [N.d.T.].

Dopo essersi calcato il cappello sulla testa con entrambe le mani, eseguì un inchino compassato.
- Il mio nome è Pinguino, e i signori comprendono di sicuro perché!
Rise ad alta voce prima di stringere il bordo del tavolo con le dita grasse. Lo smoking era vecchio e
logoro, e la fusciacca in seta grigia lo stringeva dolorosamente in vita.
Le gambe e le braccia erano troppo corte rispetto al resto del corpo.
Hanne si mise a cercare il portafoglio.
- Ma mia gentile signora, - esclamò risentito l'uomo.
- Come possono lorsignori giungere al tracotante pensiero che la mia spedizione a questo tavolo avesse
qualche motivo egoistico? Il mio misero compito è quello di porgere il benvenuto alla coppia!
Il tappetto guardò astiosamente il portafoglio di Hanne, che si affrettò a rimetterlo nella borsa.
- Così, - annuì l'uomo soddisfatto. - Allora vi lascio a una conversazione che mi auguro lieta e al dorato
elisir, e colgo l'occasione per esprimere il mio più profondo e sentito desiderio di vedere tornare le
signorie in codesto loco.
Schioccò leggermente le dita e un cameriere apparve con due birre senza che né Hanne né Oyvind
avessero ordinato niente.
- Adesso smettila di infastidire gli ospiti, Pinguino, - disse acido il cameriere. - Vattene via.
- Non ci da fastidio, - intervenne Hanne, ma invano.
Il cameriere spinse l'omino fino al lato opposto del locale.
- Dove eravamo rimasti? - domandò lei, versando il goccio di birra rimasto in quella nuova.
- Chi diavolo era? - chiese Oyvind, che non riusciva a staccare lo sguardo dalla figura in smoking.
- Questa è la città, - sogghignò Hanne. - In campagna non ne avete mica di personaggi così!
- SI invece, - borbottò Oyvind. - Ce li abbiamo, ma non portano lo smoking.
- Stavi dicendo qualcosa.
Oyvind fissò ancora per un po' quello strano tipo.
- Governare è un gioco d'equilibrio alquanto scomodo, - sentenziò alla fine. - In tutti i sensi. Specie
quando un partito è logoro come il nostro. Ci danno là colpa di qualunque cosa. Di qualunque cosa
negativa. La Norvegia vive nella bambagia, eppure sono tutti incazzati con il Partito laburista. Questo
scandalo della Sanità...
Guardò l'orologio portandosi una mano sulla pancia.
- Hai fame? - gli domandò Hanne Wilhelmsen.
- Mmmh.
- Dopo. Prima raccontami.
- Be', se fosse vero che è avvenuto qualcosa di sbagliato nel 1965, noi siamo ovviamente interessati a
fare luce. Lo siamo tutti. Per tanti motivi. Bisogna sapere chi sono i responsabili e, importantissimo,
imparare dai propri errori, anche quelli commessi nel passato. Ma è fondamentale che tutto avvenga
secondo tempi prestabiliti.
Il fatto che molti elementi di questo caso siano già finiti in mano alla stampa costringe il governo a stare
sulla difensiva... merda, Hanne, l'ufficio del primo ministro non ne sapeva niente prima che fosse
pubblicato sul giornale!
- Continuo a non capire, - insistette Hanne. - Si tratterebbe eventualmente... chi era al potere nel '65?
- Gerhardsen fu sostituito da Borten, - borbottò Oyvind. - Ma non è il punto! Il punto è che in questo caso
il governo sembra impotente e disinformato rispetto a ciò che ha scoperto la stampa, il che viene sempre
interpretato come un segno di debolezza. È questo che penserà la gente. Perlomeno i giornali. Ed è questo
che conta.
Ebbe un nuovo rigurgito di birra.
- Dovresti fare qualcosa per il tuo stomaco, - commenò Hanne.
- E quando oggi mettono in connessione lo scandalo della Sanità con l'omicidio di Birgitte, allora siamo
dav vero nei guai.
Si era proteso in avanti, il suo viso era a soli venti centimetri da quello di Hanne.
- Ma si tratta quasi sicuramente di sciocchezze, - protestò Hanne.
- Sciocchezze? Sì, certo, ma non importa! Fino a quando i giornali mescolano tutto come se fosse un caso
unico, la gente lo percepisce come tale. Specialmente quanddo sembra che...
Si raddrizzò di colpo prima di fissare il bancone del bar.
Pareva che non avesse intenzione di continuare.
- Sembra che... cosa?
Hanne stava sussurrando.
- Sembra che la polizia non abbia idea di cosa sia successo nel caso Volter, - proseguì lentamente
Oyvind. - O lo sapete?
Hanne disegnò un cuore nella patina d'umidità lasciata sul tavolo dal bicchiere.
- Non confondermi con la polizia, adesso. Non ci lavoro.
D'un tratto Oyvind Olve si abbassò per prendere la sua ridicola valigetta di nylon e appoggiarla davanti a
sé.
Armeggiò con la cerniera prima di presentare ad Hanne tre fogli A4.
- Giustappunto. Non lavori li e quindi mi dirai cosa devo fare con queste.
Spinse le carte verso di lei.
- Di che si tratta? - domandò Hanne prima di girarle verso di sé per leggerle.
- Le ho trovate nell'ufficio di Birgitte. Ho dovuto passare in rassegna tutti i documenti, alcuni
riguardavano questioni politiche molto delicate. Questi erano infilati tra due cartelline rosse.
- Cartelline rosse?
- Contengono documenti segreti.
I fogli riportavano una serie di nomi impressi a caratteri puntiformi e sul retro si leggeva il giorno in cui
erano stati elaborati.
- Data di nascita e di morte, - spiegò Oyvind Olve.
- Deve trattarsi di un elenco che riguarda i decessi improvvisi avvenuti nel 1965. Guarda qui...
Riprese le carte, sfogliò fino a pagina tre e, dopo aver cercato per un attimo, le mostrò nuovamente ad
Hanne indicandole un punto preciso.
- Liv Volter Hansen. Nata il 16 marzo 1965, morta il 24 giugno 1965.
- Cos'è?
- Prendendola alla larga e grazie a un mucchio di mezze bugie ho scoperto che questo elenco è stato
stilato dalla commissione Grinde. I genitori di questi bambini sono stati selezionati da un computer e
avrebbero dovuto essere interrogati in dettaglio su salute, comportamento, abitudini alimentari eccetera
dei figli prima del decesso. Una cosiddetta selezione statistica. Casuale.
E casualmente il primo ministro è finito nel gruppo.
Ma la cosa più interessante è che questo elenco l'hanno preparato solo il 3 aprile. Il giorno prima che
Birgitte fosse uccisa. L'unico modo per lei di esserne entrata in possesso è che glielo abbia dato
Benjamin Grinde. Ho controllato tutte le altre possibilità. Cartelle cliniche, protocolli di riunioni, tutto.
Deve averlo avuto da Grinde.
E guarda qui...
Indicò qualcosa contenuto nei fogli. A margine della prima pagina era stata aggiunta una scritta a mano.
«Persona nuova???» e «Cosa dire».
- Cosa diavolo significa? - commentò Hanne, più rivolta a se stessa che a Oyvind.
- Non lo so, - rispose lui. - Ma è la calligrafia di Birgitte.
Cosa devo fare?
- Quello che avresti dovuto fare immediatamente, - disse Hanne, la cui voce sostenuta conteneva un
esplicito rimprovero. - Devi consegnare questi fogli alla polizia.
Subito.
- Ma ho fame, - si lamentò Oyvind Olve.

Ore 20.00, centrale dì polizìa, Oslo.

Per Volter stava cominciando a perdere i capelli. Billy T. lo vedeva benissimo: un diradamento proprio
sulla sommità della testa. Era solo una questione di tempo prima che gli spuntasse la chierica.
Il detective non sapeva cosa fare. Per quasi dieci minuti Per Volter era rimasto piegato sulla scrivania
con la testa tra le braccia piangendo come un bambino. Reazione causata da un semplice postulato di
Billy T.:
- Secondo me hai parecchie cose da spiegarmi.
- Crede che io abbia ammazzato mia madre, - aveva gridato Per Volter prima di crollare scoppiando in
un pianto disperato.
Niente aveva funzionato. Billy T. lo aveva rassicurato dicendogli che non era questo. Innanzitutto il suo
alibi era a prova di bomba: venti soldati e tre ufficiali avevano giurato che il giovane si trovava in una
tenda nell'Hardanger quando era partito il colpo che aveva ucciso il primo ministro. Inoltre non esisteva
ombra di movente.
Infine non avrebbe mai dichiarato che l'arma non denunciata usata per l'omicidio era sua, se fosse stato
davvero un assassino.
Billy T. gli aveva ripetuto tutto questo più volte, ma non era servito a niente. Alla fine ci aveva
rinunciato, stabilendo che era meglio lasciar sfogare Per. Vista la situazione, ci sarebbe voluto un bel po'
di tempo.
Mentre si studiava le unghie, prese in considerazione l'ipotesi di andare in bagno e, quando si era
finalmente deciso e stava per alzarsi, Per Volter tirò su con il naso e incerto si raddrizzò sulla sedia. Il
suo volto era sfatto: rosso e gonfio.
- Va un po' meglio? - gli domandò Billy T. rimettendosi a sedere.
Per Volter non rispose, ma si asciugò la faccia con la manica del maglione a mo' di assenso.
- Tieni, - gli disse il detective porgendogli un fazzolettino. - Custodisci le armi e tutta l'attrezzatura in
modo ineccepibile.
Il complimento fu sottolineato da un sorriso d'apprezzamento, ma il gesto e le parole non parvero
incoraggiare il ragazzo.
- Siete stati là, - borbottò Per Volter abbassando lo sguardo sul fazzolettino zuppo.
- Si. Due poliziotti sono stati a casa di tuo padre e hanno scritto un rapporto che parla del modo
eccellente in cui custodisci le armi. Chiuse a chiave in un apposito armadietto, le munizioni in un altro.
Tutte e cinque le armi sono state regolarmente denunciate.
- Il vostro registro è solo una presa in giro, - mormorò Per Volter. - Per quanto ne so, copre unicamente
questo distretto e i dati non sono stati neanche computerizzati.
- Siamo in attesa di una nuova legge sulla detenzione d'armi, - disse Billy T. prima di versare il caffè
contenuto in un termos d'acciaio in due tazze. Spinse verso Per una tazza nera con impressa l'immagine di
Franz Kafka.
- Ma perché? - commentò esitante.
Per alzò lo sguardo e fece una smorfia dopo essersi scottato la lingua.
- Perché cosa?
- Perché non hai registrato la Nagant?
Per soffiò sul caffè, ma visto che era ancora troppo caldo, appoggiò delicatamente la tazza sul tavolo.
- Non è stato fatto. Le altre armi le ho comprate, invece la Nagant me l'hanno regalata. Quando ho
compiuto diciotto anni. Apparteneva alla mia nonna materna. E stata una donna attivissima durante la
guerra, nella contea di Finnmark. Noi dicevamo sempre che la Nagant era la sua medaglia al valore.
Il giovane sorrise debolmente, una traccia di orgoglio gli comparve sul viso.
- Ha operato un russo ferito salvandogli la vita. E non era neanche medico! Era l'autunno del 1943 e
quell'uomo non aveva altro da darle che la propria arma. Si chiamava Kliment Davidovitsj Raskin.
Adesso sorrideva con tutta la bocca.
- Da bambino, quel nome mi sembrava così bello. Per molti anni la nonna ha provato a trovarlo,
rivolgendosi anche alla Croce Rossa e all'Esercito della salvezza. Senza successo. È morta quando avevo
sedici anni. Una donna stupenda. Lei...
Gli occhi minacciavano di riempirsi da capo di lacrime e Per cercò di concentrarsi sul caffè.
- La Nagant me l'ha regalata la mamma per il mio diciottesimo compleanno. Il più bel regalo che abbia
mai ricevuto.
- L'hai usata qualche volta per sparare?
- Sì. I proiettili sono particolari e vanno ordinati. L'ho usata... sei, sette volte, credo. Ma solo per il gusto
di farlo.
E un'arma poco precisa. E oltretutto vecchia. La nonna non l'ha mai usata.
Venne di nuovo sopraffatto dal ricordo di una persona a lui cara che non c'era più. Gli scesero delle
lacrime dall'occhio sinistro, ma rimase con la schiena dritta.
- Perché sei così arrabbiato con tuo padre, Per?
Nell'attimo in cui Billy T. pose quella domanda, tutti i suoi campanelli d'allarme interiori cominciarono a
suonare: doveva avvisare quel giovane che non era obbligato a testimoniare contro un membro della
propria famiglia.
Eppure non ritrattò la domanda.
Per Volter si mise a guardare fuori dalla finestra. Teneva la tazza all'altezza del viso, senza bere. Il
vapore sembrava fargli bene: aveva chiuso gli occhi e subiva l'umidità che gli si diffondeva sul viso
devastato come fosse piacevole.
- Arrabbiato è niente, - disse piano. - Quell'uomo è una merda. Ha tradito la mamma e mi ha mentito.
Di colpo fissò Billy T. I suoi occhi erano di un azzurro intenso, e per un attimo sgradevole a Billy T.
parve di osservare un fantasma: Per assomigliava molto alla madre.
- Papà se la faceva con Ruth-Dorthe Nordgarden.
Sputò fuori quel nome come se pronunciarlo gli costasse un grande sforzo.
Billy T. non disse nulla, ma il cuore prese a battergli più in fretta. Un fibrillare inquietante. Senza
rendersene conto si portò una mano sul petto mentre contraeva le labbra.
- Non so quanto è durata, - continuò Per. - Li ho beccati in flagrante a casa l'autunno scorso. Mio padre
non lo sapeva. Intendo dire che li ho sentiti. Gliel'ho raccontato l'altro giorno.
Appoggiata con violenza la tazza sul tavolo, si nascose il viso tra le mani, i gomiti che puntavano sulle
cosce.
Cominciò a oscillare avanti e indietro mentre continuava a parlare tra i palmi.
- Non ho idea se la mamma lo sapesse.
Non aggiunse altro. In quella stanzetta si bolliva, il calore premeva sulla pelle e Billy T. avvertiva
ancora quella fitta spaventosa sotto le costole a sinistra. Tentò di alzare un braccio, ma rimase
paralizzato dal dolore.
- Come mi sarebbe piaciuto far parte di una famiglia normale, - sussurrò Per in modo quasi
impercettibile.
- Così avrei evitato di leggere di noi sul giornale. Di...
- Di tua sorella, - completò la frase Billy T.
Il dolore si era attutito, ma il cuore continuava a martellare fuori ritmo.
Per Volter sollevò il viso e riprese a fissare Billy T. negli occhi. Adesso la somiglianza con la madre era
sconcertante.
- Non sapevo niente di mia sorella prima di leggerlo sul giornale, - commentò con voce piatta. - Niente!
Non ne avevo idea! Era o non era mio diritto saperlo? Eh? Lei non crede che avrebbero dovuto dirmi che
un tempo avevo una sorella?
Stava quasi urlando. Di tanto in tanto parlava in falsetto.
Billy T. annuì, ma rimase in silenzio.
- Ho sempre creduto che la mamma lavorasse così tanto perché era... una specie di dovere. Il partito e la
nazione e tutte queste cose. Ora penso che...
Si rimise a piangere. Tentò di opporsi, deglutì, si strofinò gli occhi. Il suo corpo era troppo stanco per un
nuovo attacco di pianto. Eppure le lacrime e il moccio gli colavano dal viso e le maniche erano così
bagnate che non gli furono di nessun aiuto quando si passò gli avambracci sulla faccia.
- Penso che non mi volesse bene sul serio. Se era capace di dimenticare un figlio così facilmente da non
nominarlo mai, allora non è poi tanto strano che ogni tanto si scordasse di me. Non voleva bene a nessuno
di noi.
- Penso che tu ti stia sbagliando di grosso, - provò a dire Billy T. anche se si rese conto che la sua stessa
voce era esile e poco convincente. - Se non si parla di una persona, non significa che non le si voglia
bene. Devi ricordarti che...
- Riesce a immaginarsi cosa significa leggere una cosa simile sul giornale? - lo interruppe Per Volter. -
Eh? Leggere i segreti più intimi della tua famiglia senza averli mai saputi? Odio mio padre. Odio
quell'uomo!
Billy T. non rispose. Non c'era niente da dire. Il dolore che quel ragazzo si portava dentro era così
grande e scomodo che non esisteva posto capace di contenerlo. La stanza in cui si trovavano era
surriscaldata e mancava l'aria, pareva che potesse esplodere da un momento all'altro.
Billy T. sapeva che avrebbe dovuto permettere al ragazzo di sfogarsi del tutto. Avrebbe dovuto portarlo
via, dargli da mangiare, da bere, andare con lui da qualche parte dove avrebbe potuto continuare a
parlare insieme a qualcuno con cui era possibile farlo. Per Volter doveva avere l'opportunità di vomitare
tutto il suo dolore, ora che era riuscito a lasciarsi andare.
Ma Billy T. era esausto. Non ce la faceva più. Chiuse gli occhi mentre si sforzava di pensare a come
raggiungere il letto.
- Ti faccio accompagnare a casa da qualcuno, - disse a bassa voce.
- Non voglio andare a casa, - replicò Per Volter. - Non so dove voglio andare.

Ore 23.30, Vidars gaie ne.


Non riusciva a prendere sonno. Pensava all'arma nascosta dietro i vasetti di marmellata nel ripostiglio
della signora Svendsby, giù in cantina. Anche se era più al sicuro che in casa, la cosa non gli piaceva.
Avrebbe dovuto nasconderla nella capanna.
Lo tormentava anche il pensiero dell'uomo con il giornale.
Non era come gli altri. Non sembrava interessato. In nessun modo. Eppure lo teneva d'occhio. Anche
questo gli piaceva molto poco.
Mentre si rigirava nel letto, Brage Hàkonsen si accorse che le lenzuola erano diventate umide
dall'inquietudine.
Con un gemito di irritazione, si alzò. Avrebbe desiderato più di tutto chiamare Tage. Aveva bisogno
d'aiuto dall'esterno. Sarebbe stata la cosa più sicura, ma non poteva telefonare. E se lo intercettavano? Il
cellulare era sicuramente un'alternativa, ma d'altro lato la polizia poteva scoprire dove aveva chiamato.
Era questo il motivo per cui ricorrevano alle cabine telefoniche. E a lettere criptate che bruciavano
subito dopo averne letto il contenuto.
Aveva l'impressione che il suo corpo fosse invaso da formiche che si muovevano e lo pizzicavano sotto
pelle.
Si grattò la pancia prima di spostarsi inquieto nel piccolo soggiorno. Alla fine si piazzò sulla cyclette
ergometrica che teneva in camera e tirò al massimo i freni. Pedalò come un forsennato e dopo due
chilometri sentì che i muscoli cominciavano a sciogliersi. Il sudore gli si era appiccicato sul torso nudo e
il respiro era pesante e regolare.
Suonarono alla porta.
Brage Hàkonsen si irrigidì e, dopo aver lasciato i pedali, li fece girare a vuoto per un paio di volte.
Non voleva aprire. Non sapeva chi fosse, ma l'inquietudine e la tensione di prima erano ritornate: avvertì
una contrazione al diaframma che lo fece tremare di colpo. Muovendosi lentamente, si intrufolò di nuovo
a letto, ma non osò spegnere la luce. Ogni cambiamento visibile dall'esterno avrebbe indicato la presenza
di qualcuno in casa.
Suonarono per la seconda volta, in modo deciso e insistente.
Era disteso sul letto, rigido e calmo. Si rifiutava di aprire. Nessuno avrebbe dovuto suonare il
campanello a quell'ora. Era nel suo pieno diritto di non aprire. All'improvviso gli vennero in mente le
riviste porno. Si tirò su appoggiandosi a un gomito e, quando vide la pila imponente che teneva sul
comodino, si preoccupò ancora di più della pistola in cantina. Si alzò con movimenti morbidi e veloci e,
sollevato il materasso, infilò le riviste tra le doghe e il fondo del letto.
Il campanello squillò per la terza volta, ininterrottamente per un minuto.
Non c'era nulla nell'appartamento per cui lo potessero beccare in flagrante, non aveva conti in sospeso
con nessuno.
Doveva aprire.
Indossò una vestaglia blu scuro a strisce nere e si allacciò la cintura mentre andava verso la porta.
- Si, si, arrivo, - borbottò togliendo la catenella.
Fuori c'erano due uomini. Erano entrambi sulla quarantina: uno indossava un vestito marroncino e la
cravatta, l'altro giacca e pantaloni con la camicia aperta sul collo.
- Brage Hàkonsen? - chiese quello con il vestito.
- Si?
- Siamo della polizia.
Tutti e due gli mostrarono il distintivo: una piccola tessera di plastica con la foto e il leone simbolo del
Regno di Norvegia.
- Lei è in arresto.
- In arresto? Per cosa?
Brage Hàkonsen arretrò di qualche passo senza rendersene conto e i due uomini si precipitarono
nell'appartamento.
Quello in giacca chiuse piano la porta.
- Per essersi procacciato illegalmente un'arma.
L'uomo gli mostrò il mandato d'arresto con il capo d'imputazione, ma Brage si rifiutò di prendere in mano
il foglio azzurro.
- Arma? Ma io non ne ho!
- Lei non ha il porto d'armi, - disse il poliziotto più alto. - Eppure ha acquistato una pistola nello
Stensparken questo pomeriggio.
Merda. Cazzo, cazzo, cazzo. L'uomo con il giornale non era un culattone, ma uno sbirro.
- Non è vero, - rispose Brage Hàkonsen, che comunque andò a vestirsi.
Non gli permisero neanche di recarsi da solo in camera da letto: l'uomo più alto lo seguì. Lo fissò
intensamente per tutto il tempo che Brage impiegò a prepararsi per seguirli in centrale.

Mercoledì 16 aprile 1997


Ore 09.15, centrale di polizia, Oslo.

- Chi non muore si rivede, - ridacchiò Billy T. rivolto a Severin Heger mentre si chinava per aiutarlo a
raccogliere i fascicoli che gli erano caduti per terra.
- Potresti fare più attenzione a come ti muovi, - rispose il collega, sorridendogli comunque.
- Che fine hai fatto? - gli chiese Billy T. guardandolo con espressione interrogativa.
Severin Heger lavorava nei servizi di sicurezza da quattro anni. Era l'unico di loro con cui Billy T.
avesse un buon rapporto e questo grazie al passato. Erano coetanei e avevano frequentato insieme la
scuola di polizia. Tutti e due superavano i due metri di statura e guidavano una Honda Goldwing. Quando
Billy T. aveva vinto ufficiosamente i campionati norvegesi di full contact karaté nel 1984, Severin si era
classificato al secondo posto. La sera in cui avevano concluso gli studi e, orgogliosi, avevano potuto
finalmente fregiarsi di una mostrina dorata sulle maniche spoglie della divisa, avevano festeggiato
insieme a molti altri in città.
Nel corso della notte, goffamente e sotto i fumi dell'alcol, Severin aveva tentato un approccio di carattere
sessuale nei confronti di Billy T. In modo molto più raffinato e delicato questi aveva rifiutato l'offerta, ma
a quel punto Severin era scoppiato a piangere. Billy T. lo aveva abbracciato prima di riportarlo a casa.
Li, nel corso di una notte contrassegnata da una disperazione senza fine e da parole di conforto, aveva
preparato tre termos di caffè. Quando il sole era spuntato a est rompendo la coltre di nubi e i due erano
tornati completamente sobri mentre se ne stavano seduti con le gambe sul cornicione del balcone di
quell'appartamentino a Etterstad, all'improvviso Severin si era alzato per andare a prendere una piccola
coppa d'argento:
- Questa voglio che la tieni tu, Billy T. È la mia primissima coppa e la più bella che ho. Grazie.
Da quel momento non si erano più frequentati, solo qualche saluto e di tanto in tanto una pacca sulla
spalla quando si incrociavano nei corridoi della centrale, e in qualche rara occasione avevano bevuto
insieme una birra fredda in estate. Nessuno dei due aveva mai più nominato quella serata primaverile di
molti anni prima. La coppa d'argento si trovava su una mensola nella camera da letto di Billy T., insieme
a un portauovo ricevuto al battesimo e a una scarpa da bambino placcata in argento che era appartenuta al
suo primo figlio. Da quanto Billy T. aveva capito, quella notte Severin aveva preso la sua decisione,
totalmente opposta a quanto gli aveva suggerito lui. Severin Heger viveva nel celibato più assoluto e
Billy T. non aveva mai sentito voci maligne su di lui.
- Sto lavorando allo stesso caso di cui ti occupi tu, immagino, - disse Severin Heger. - Non è quello che
stiamo facendo più o meno tutti?
- Suppongo di si. Come te la passi?
Dopo essersi morso un labbro, Severin Heger si guardò intorno. I colleghi li superavano affaccendati,
alcuni alzavano la mano, altri li salutavano allegramente.
- Hai tempo per un caffè? - gli domandò di colpo Severin.
- No ma si, grazie, - ridacchiò Billy T. - Mensa?
Si sedettero in fondo al locale, accanto alle porte finestre che davano sulla terrazza. La giornata era
fredda e il cielo minacciava pioggia, così poterono starsene in pace.
- Adesso lassù ve la godete un mondo, - commentò Billy T. accennando con la testa verso il soffitto. -
Non vi siete mai divertiti così tanto!
Severin lo guardò serio.
; - Non capisco perché tu abbia un atteggiamento tanto negativo verso di noi. I miei colleghi sono persone
ammodo e che lavoravano duramente, proprio come voi.
- Io non ho niente contro di te, ma non sopporto tutte queste vostre soppiatterie. Ora, per esempio, ho la
netta sensazione che neanche i responsabili delle indagini sappiano esattamente a quali teorie stiate
lavorando. La cosa più frustrante di questo caso è che nessuno sembra avere il quadro completo. Noi
perlomeno cerchiamo di informarci a vicenda.
Severin non rispose, ma continuò a fissarlo mentre con una mano si grattava il dorso dell'altra.
- A cosa stai pensando? - gli domandò Billy T. mentre versava la Coca-Cola in un bicchiere con tale
impeto da farla traboccare.
Il liquido nero, schiumoso si allargò ovunque.
- Merda, - borbottò, spazzando il tavolo con la mano prima di asciugarsela sui pantaloni.
Chinandosi verso di lui, Severin osservò il pasticcio.
- Ieri abbiamo messo dentro un estremista. Un tipo che ha comprato in modo sospetto un'arma non
denunciata in un parco, e che crediamo sia il capo di un gruppo di neonazisti.
È in contatto con uno svedese del suo stesso calibro, e lo svedese...
Severin tirò fuori dalla tasca un fazzoletto con cui si mise ad asciugare il tavolo.
- Questo svedese è venuto in Norvegia tre giorni prima dell'omicidio di Birgitte Volter, ed è andato a
trovare il nostro amico qui a Oslo prima di tornarsene a casa il giorno dopo.
Billy T. aveva l'aspetto di uno a cui Severin Heger avesse appena raccontato che si sarebbe sposato con
la principessa reale Màrtha Louise.
- Che cavolo stai dicendo?
Severin Heger gli lanciò un'occhiata fulminea e ammonitrice nell'attimo in cui due donne passarono
davanti a loro per controllare se era possibile sedersi all'aperto. Cambiarono rapidamente idea dopo
aver messo la testa fuori e scomparvero ritornando al bancone, che si trovava venti metri più in là.
- E non solo, - continuò Severin, adesso quasi sussurrando. - Abbiamo motivo di credere che il tipo che
abbiamo arrestato ieri in qualche modo conoscesse la guardia giurata del palazzo del governo. Il tizio che
è morto recentemente sotto quella valanga, sai. Ne hai sentito parlare?
- Se ne ho sentito parlare?
Billy T. si sforzò di trattenersi, ma il fervore gli distorse la voce quando sibilò:
- Non solo ne ho sentito parlare, ma l'ho addirittura interrogato! E ho continuato a insistere perché gli
dessimo un'occhiata più da vicino! È così? Esiste veramente una connessione?
- Non lo sappiamo, - rispose Severin facendo segno a Billy T. di calmarsi. - Ma abbiamo motivo di
crederlo.
Non è quello che si dice quando non si può raccontare perché si sa qualcosa?
- Ma gli avete cavato qualche informazione?
- Niente. Abbiamo perquisito l'appartamento. Non abbiamo trovato che testi sospetti nella libreria e
riviste porno sotto il letto. Nessun'arma. Niente di punibile per legge.
- Ma potete trattenerlo?
- Ne dubito. Le cose vanno schifosamente a rilento con questa nuova legge sulla detenzione d'armi. Ora
possiamo operare con margini così stretti che finiremmo nei guai se lo trattenessimo più di un giorno. Poi
verrà pedinato e tutto il resto. Dio solo sa a cosa ci condurrà. La Sàpo ha interrogato Tage Sjògren, lo
svedese, lo hanno trattenuto per due giorni. Lo hanno torchiato per bene, ma lui non ha aperto bocca e
così sono stati costretti a rilasciarlo.
Guardò di colpo l'orologio prima di passare il dito sul bicchiere.
- Devo andare.
- Severin!
Billy T. lo afferrò per un braccio mentre Severin lo superava.
- Come ti va la vita? - disse piano.
- Non ho una vita. Lavoro nei servizi di sicurezza.
Dopo aver sorriso velocemente, Severin Heger ritirò il braccio e quasi di corsa lasciò la mensa.

Ore 17.19, Vidars gaie 11 e.

Brage Hàkonsen sapeva che ogni passo compiuto nei giorni a venire non gli sarebbe appartenuto. Ci
sarebbero stati occhi ovunque e tutto quello che avrebbe fatto sarebbe stato annotato con cura per poi
finire in un dossier ai piani superiori della centrale. In qualche modo doveva convivere con quella
situazione. Si sentiva agitato come aveva previsto, ma era stato molto peggio quando lo avevano arrestato
erroneamente pensando che fosse uno dei dimostranti che avevano manifestato contro la caccia alle
balene. Adesso si trattava di qualcosa in cui credeva e sarebbe stato ingenuo pensare di non finire mai
sotto indagine per ciò che faceva.
Doveva diventare ancora più cauto.
Era stato saggio tenere la bocca chiusa. Glielo aveva consigliato il suo avvocato: un vecchio che aveva
l'aspetto di un idiota, ma che, come Brage sapeva, condivideva le sue opinioni. I piedipiatti si erano
arrabbiati tantissimo per la scelta del legale e ci avevano messo ore a concedergli di parlare con lui.
L'ultima cosa che gli aveva detto l'avvocato era di fare attenzione in futuro. Gli aveva strizzato l'occhio
destro sotto un paio di sopracciglia arruffate mentre glielo diceva.
Gli sbirri non avevano trovato l'arma. Non che lui avesse osato scendere in cantina per controllare, ma
l'avrebbero sicuramente messo a confronto con la pistola se avessero saputo dov'era. Meglio lasciare che
le acque si calmassero. Per un po'.
Innanzitutto l'arresto significava che bisognava posporre l'attentato. Increscioso, per molte ragioni.
Primo: più tempo passava dall'omicidio della Volter e minore sarebbe stato l'effetto dell'azione.
Secondo: era sempre una brutta cosa cambiare un piano così dettagliato. D'altro canto aveva già deciso di
scegliersi un nuovo partner. Ci si poteva assolutamente fidare di Reidar, ma a Brage non ci era voluto
molto tempo per capire che il ragazzo non era molto sveglio. Quando Tage gli aveva detto a mo' di saluto
prima di partire che era a disposizione in qualsiasi momento, sottolineando l'importanza di collaborare
oltre i confini nazionali, il pensiero lo aveva colpito: erano loro due che dovevano farlo. Lui e Tage.
Forse era un vantaggio posporre l'azione. Magari Tage aveva qualche idea o suggerimento su come
modificare il piano.
Il solo pensiero lo inebriava e scoppiò a ridere quando sbirciò fuori dalla finestra e vide due uomini
seduti in una vecchia Volvo sull'altro lato della strada.
Sapeva come raggiungere la capanna senza essere visto.
Doveva solo aspettare un paio di giorni.

Venerdì 18 aprile 1997


Ore 12.01, sala stampa, palazzo del governo.

«Ci è mancato un pelo».


Edvard Morbidone Larsen dovette contenersi per non emettere un sospiro di sollievo quando superò la
ressa di fotografi che si accalcavano davanti alla porta della sala, in attesa che il ministro facesse il suo
ingresso.
C'erano voluti molti anni di saggezza e astuzia per farle capire che dovevano agire secondo le sue
direttive. Ruth-Dorthe Nordgarden aveva insistito a lungo: Morbidone avrebbe letto una dichiarazione a
nome suo, e lei sarebbe entrata soltanto dopo per rispondere per dieci minuti alle domande della stampa.
- Ma Ruth-Dorthe, - aveva cercato di spiegarle. - Farebbe uno strano effetto se io, che lavoro al
ministero, dovessi leggere una tua dichiarazione, quando sei tu il politico!
Risulterebbe molto strano.
- Ma non me la sento di mettermi a leggere ad alta voce davanti a una folla di persone che mi guardano, -
si era lamentata lei. - Che importa se sembra un po' strano? La cosa più importante è informarli su quello
che stiamo facendo!
Ci aveva messo mezz'ora per convincerla e, a essere precisi, erano proprio i trenta minuti di cui aveva
bisogno per prepararsi. Per fortuna, comunque, Ruth-Dorthe si era ravveduta.
Morbidone Larsen raggiunse il podio muovendosi a zigzag tra i numerosi giornalisti presenti. La cravatta
pendeva storta e uno dei lembi della camicia spuntava dai pantaloni.
Con discrezione tentò di rimetterlo a posto dopo che una cara amica, una reporter televisiva, lo aveva
costretto ad abbassare lo sguardo facendogli una serie di smorfie.
Sul tavolo davanti a lui c'erano i quotidiani del giorno.
Li aveva già letti. Molto attentamente. Erano tutti infarciti di articoli che riguardavano lo scandalo della
Sanità e il desk di «KA» aveva deciso di occupare tutta la prima pagina con una foto a colori di una
coppia che all'inizio degli anni Sessanta era china davanti a una piccola lapide di marmo bianco con un
angelo in cima. Sulla pietra era inciso a caratteri dorati il nome di Marie, e sotto c'era scritto: «23
maggio 1965 - 28 agosto 1965. Non ti dimenticheremo mai». Il titolo che campeggiava sopra l'immagine
urlava: Chi è responsabile della morte della piccola Marie?
Dopo essersi seduto, Morbidone Larsen guardò la porta.
Finalmente Ruth-Dorthe Nordgarden fece il suo ingresso accompagnata da una fitta pioggia di flash.
Teneva un braccio davanti alla faccia, come se stesse avviandosi in un'aula di tribunale per essere
condannata al carcere dopo aver compiuto un grave crimine e non volesse essere riconosciuta.
«Oddio, - pensò Morbidone Larsen. - Chissà che foto splendide!»
Si passò rapidamente una mano sugli occhi prima di aiutare il ministro a prendere posto. Ruth-Dorthe
Nordgarden strizzò gli occhi verso i presenti e fece alcuni gesti con la mano per fermare i flash. Poi,
dopo aver tossito, abbassò lo sguardo sui documenti che aveva davanti a sé.
- Benvenuti a questa conferenza stampa, - esordì Morbidone Larsen, che si era alzato. - Il ministro
Nordgarden desidera prima informarvi brevemente su quello che sappiamo in merito ai decessi infantili
avvenuti nel 1965. Ci vorranno dieci minuti circa, poi avrete modo di fare le vostre domande.
Annuì a mo' d'incoraggiamento verso Ruth-Dorthe, ma dal momento che lei era profondamente
concentrata sulle carte, le si avvicinò di due passi e le appoggiò con cautela una mano sulla spalla.
- Prego, ministro.
La sua voce era esile e nervosa quando attaccò. Gli occhi grandi, azzurri passarono freneticamente in
rassegna i presenti prima di fissarsi sulla relazione che aveva davanti a sé. La tensione si allentò un poco.
- Sulla base di quanto è apparso sui giornali negli ultimi giorni, ho ritenuto doveroso tenere questa
conferenza stampa per informarvi sulle circostanze storiche relative all'acquisto da parte dello stato del
vaccino trivalente negli anni 1964 e 1965. Voglio sottolineare che ciò non intaccherà minimamente il
lavoro della commissione d'inchiesta, che come sapete è ancora lontano dal potersi definire concluso.
Questa esposizione si limiterà unicamente ai fatti.
All'improvviso alzò gli occhi dalle carte, un gesto imparato a tavolino che però non sortì l'effetto voluto,
visto che poi ebbe problemi a trovare il punto del testo dove si era interrotta.
- Il governo desidera fortemente che sia fatta chiarezza, - riprese quando ebbe riacchiappato il filo. -
Nell'arco di poco tempo il ministero ha lavorato intensamente al riguardo per impedire ulteriori
congetture. Spero si tratti di un caso che riusciremo a risolvere a breve per poterci concentrare su
problemi più attuali.
Morbidone Larsen chiuse gli occhi sconsolato. Aveva cancellato quella frase quando aveva riletto il
testo, spiegando con dolcezza a Ruth-Dorthe che l'ultima cosa da fare era minimizzare l'importanza del
caso. Evidentemente lei se ne era fregata, del suo consiglio.
- Per i bambini nati nel 1965 fu acquistato un lotto limitato di vaccini tripli. Il fornitore era la famosa
casa farmaceutica olandese Achenfarma e l'Istituto superiore della sanità l'importatore. Verso la fine del
1965 pervennero alcuni rapporti che indicavano un anomalo tasso di mortalità infantile avvenuta nello
stesso anno. Il vaccino trivalente fu subito ritirato, anche se voglio sottolineare...
Aveva parlato in falsetto e dovette raschiarsi la gola due volte prima di essere in grado di riprendere.
-... voglio sottolineare che non fu provata nessuna connessione tra il vaccino trivalente e la causa dei
decessi. La decisione fu presa a scopo precauzionale. Ricerche ulteriori hanno mostrato che il
conservante contenuto nel vaccino era contaminato. Per i bambini nati l'anno successivo fu concluso un
accordo per l'acquisto dei vaccini con una prestigiosa casa farmaceutica americana.
Ruth-Dorthe cominciò a leggere così in fretta che alcuni giornalisti facevano fatica a seguire quello che
diceva: un mormorio di protesta si diffuse nella sala. Morbidone Larsen scrisse un paio di parole su un
post-it che appoggiò con la massima discrezione davanti al ministro.
Lei perse il filo, ma capì il messaggio e, quando riprese la lettura, procedette più lentamente.
- Gli effetti nocivi del vaccino Achenfarma non sono mai stati resi noti prima. L'Istituto superiore della
sanità comunica che è fondamentale che il programma delle vaccinazioni goda della fiducia della
popolazione. Se più del dieci per cento dei norvegesi smettesse di vaccinarsi, il programma perderebbe
la sua efficacia preventiva. Voglio ricordare a questo punto che i vaccini inoculati in Norvegia hanno lo
scopo di proteggere da malattie gravi e in parte mortali e che non sussiste nessun motivo...
Sottolineò l'importanza di quell'affermazione battendo la mano sul tavolo.
-... nessun motivo per non avere fiducia nei vaccini che oggi sono inoculati a bambini e giovani.
Ci fu silenzio. Poi scoppiò l'uragano. Morbidone Larsen fu costretto ad alzarsi e, dopo aver faticato un
minuto buono per assicurare ad alta voce che tutti avrebbero avuto la parola, riuscì a riportare l'ordine
tra le file. Le domande fioccarono senza sosta investendo tutto: dal diritto di risarcimento delle famiglie
coinvolte da parte dell' Achenf arma, se esisteva ancora. Il «Dagbladet» voleva sapere se il ministero
della Salute conoscesse da anni la relazione tra i decessi e il vaccino trivalente, o se avesse saputo dello
scandalo soltanto grazie al lavoro della commissione. Il «Bergens Tidende» era rappresentato da un
giornalista alquanto irascibile che poneva le domande in modo inutilmente dettagliato, inutilmente
provocatorio e, almeno per il momento, inutilmente cospiratorio.
Ruth-Dorthe sorprese Morbidone con una calma e una chiarezza che lui non aveva mai visto prima. Il
ministro non perse il controllo, rispondendo nel modo più preciso possibile. Morbidone cominciò a
rilassarsi, le cose non stavano procedendo poi così male. L'unico dettaglio che gli creava una certa
preoccupazione era il silenzio di Liten Lettvik che, seduta in prima fila, non prendeva neanche un
appunto. Soltanto quando la tempesta di domande calò, la giornalista si alzò all'improvviso chiedendo la
parola. Ruth-Dorthe le sorrise amichevolmente concedendogliela prima che Morbidone avesse il tempo
di farlo.
- Ho registrato con interesse che il ministro desidera fare luce su tutte le circostanze storiche legate a
questo caso, - esordì mentre notava compiaciuta che i colleghi si erano azzittiti di colpo e avevano lo
sguardo concentrato su di lei.
Persino i fotografi fecero una pausa. Tutti volevano sentire Liten Lettvik, era stata lei a far esplodere lo
scandalo.
- L'acquisto del vaccino è un tema interessante. Il ministro è sicuro che fosse la Achenfarma a produrlo?
Ruth-Dorthe pareva confusa. Un piccolo tic le alzava e abbassava il lato sinistro della faccia.
- Sì, - rispose. - È stato comprato presso questa casa farmaceutica.
- Ma io non sto chiedendo dove è stato comprato il vaccino, - replicò Liten Lettvik, in piedi a gambe
larghe, con i capelli ispidi che andavano in qua e in là. Tutto il suo corpo sembrava preso da un eccesso
di zelo, ricordava un cane da caccia ormai vecchio che voleva insegnare il mestiere ai cuccioli. - Io sto
chiedendo chi lo ha prodotto.
- Be', ecco, - disse Ruth-Dorthe Nordgarden mentre sfogliava le carte che aveva davanti.
Non trovò niente e guardò Morbidone in cerca di aiuto.
Questi scosse la testa stringendosi nelle spalle.
- Be', prodotto... esistono i subfornitori nell'industria farmaceutica?
- Devo intenderla come una domanda da parte del ministro? - domandò Liten Lettvik. - In tal caso posso
informarvi che il vaccino che nel 1965 costò la vita a oltre mille neonati venne prodotto nell'allora
Germania democratica.
Da una casa farmaceutica che si chiama Pharmamed. Esiste tuttora, ma è stata privatizzata.
Dopo un istante di silenzio totale cominciò il ronzio.
I reporter televisivi si spinsero in prima fila e, dopo aver infilato i microfoni davanti a Liten Lettvik,
diedero sottovoce ordine ai cameraman di inquadrare alternativamente la giornalista e il ministro.
- Noi di «KA» abbiamo svolto le indagini che la commissione Grinde non ha avuto il tempo di effettuare,
- continuò Liten Lettvik con un ampio sorriso. - Abbiamo consultato gli archivi esteri. È stato molto
facile.
Sorrise ancora, con aria di superiorità e in modo malvagio, prima di dirigersi verso il podio e buttare sul
tavolo del ministro un documento.
- La casa farmaceutica della Germania orientale Pharmamed ottenne nel 1964 la licenza di esportare una
partita di vaccini alla Achenfarma. Il vaccino trivalente, però, non raggiunse mai il mercato olandese.
L'unica cosa a essere prodotta nei Paesi Bassi furono gli imballaggi, prima che quel lotto mortale venisse
rivenduto alla Norvegia.
Un giovane entrò correndo nella sala. Si fermò per un istante guardandosi febbrilmente intorno, poi vide
Liten Lettvik e si precipitò da lei porgendole qualcosa.
- Grazie, Knut, - disse la donna permettendosi un piccolo e arrogante inchino.
Poi sollevò il giornale.
- Questa è l'edizione speciale di «KA» che circola in questo momento, - spiegò lanciando un'occhiata in
direzione dei colleghi. - Qui potete leggere tutto sul caso.
Fece una mezza risata e respirò un paio di volte prima di proseguire:
- Sono entrata anche in possesso di una lettera. Scritta dal ministero norvegese per gli Affari sociali alla
Achenfarma, in data 10 aprile 1964. Si tratta di un sollecito per la consegna dei vaccini. In fondo dice, e
traduco per semplicità in norvegese: «Il ministero per gli Affari sociali conferma che parte del
pagamento verrà effettuato direttamente al subfornitore».
Sembrava che Ruth-Dorthe Nordgarden avesse smesso di respirare. Morbidone Larsen provò l'impulso
di interrompere la conferenza, ma sapeva bene che questo avrebbe soltanto peggiorato la situazione.
- Voglio ricordare ai presenti, - disse Liten Lettvik, che ora parlava rivolgendosi sia ai suoi colleghi sia
al ministro, - che ciò avvenne negli anni più bui della guerra fredda.
Tre anni dopo che era stato eretto il Muro di Berlino. A quel tempo la Germania democratica era
politicamente isolata e tutti i paesi della Nato avevano introdotto restrizioni di natura commerciale ed
economica. Sei anni prima che Willy Brandt lanciasse la sua politica di riconciliazione!
Liten Lettvik era la regina incontrastata e tutti lo sapevano.
Fece una pausa a effetto.
- Il ministro è in grado di dire perché nessuna di queste informazioni è contenuta nella relazione che ha
appena tenuto e che avrebbe dovuto esporre i fatti?
Ruth-Dorthe Nordgarden riprese il contegno.
- Non è compito mio considerare informazioni non documentate.
- Non documentate? Legga «KA», ministro. E se mi è permesso, vorrei dare un consiglio amichevole al
governo.
Cominciate a guardare da vicino in quali paesi è stato esportato nel 1965 il minerale di ferro proveniente
da Narvik. Studiate bene. Noi l'abbiamo fatto.
Si risedette.
Nessun altro ebbe il tempo di riprendersi per porre ulteriori domande, così, con la velocità di un fulmine,
Morbidone Larsen sfruttò l'occasione per dichiarare che la conferenza stampa era finita.
Ruth-Dorthe Nordgarden corse fuori dalla sala seguita da un codazzo di fotografi che si ostacolavano a
vicenda, imprecavano e urlavano: nessuno di loro si accorse che il ministro piangeva a dirotto.

Ore 23.52, Eidsvoll.

- Stai dormendo, cara? - le sussurrò sulla porta.


La moglie si mise a sedere sul letto.
- No, - rispose tirando su con il naso. - Non dormo.
Penso.
L'uomo provò un profondo dolore quando sentì la voce della moglie. Conteneva disperazione. Pena.
Avevano impiegato così tanti anni per imparare a convivere con quello che era successo. In qualche
modo erano riusciti a trasformarlo in qualcosa che li univa, qualcosa di grande e pesante che era
esclusivamente loro. Alla parete sopra il divano era appesa la foto della piccola Marie, nuda sulla pelle
di pecora, un'espressione stupita dipinta sul viso, la bocca aperta con un filo sottile di saliva sul labbro
inferiore, gli occhi grandi e rotondi. Era l'unica immagine che avevano della bambina. Con il passare
degli anni si era sbiadita, proprio come se l'esistenza avesse perso colore dopo la morte di Marie e visto
che per qualche motivo Kjell ed Elsa Haugen non erano più riusciti ad avere figli. Un anno dopo che la
bimba era deceduta, lui aveva trasformato la cameretta in uno studio. Elsa l'aveva accettato in silenzio,
ma lui sapeva che la moglie teneva una scatola da scarpe con gli oggetti della piccola: una tutina rosa, un
pannolino di stoffa, il suo sonaglino, una ciocca di capelli che le avevano tagliato quando era morta. Era
una cosa da mamma, ricordi da mamma: lui capiva e accettava. Ma con il passare degli anni avevano
smesso di commemorare il compleanno di Marie e lentamente la vita era diventata più sopportabile.
Andavano a visitare la sua tomba la vigilia di Natale, mai in altre circostanze. Era meglio così, lo
pensavano tutti e due.
Kjell Haugen si guardò le mani. La fede nuziale aveva scavato la pelle dell'anulare.
- Vieni, ci prepariamo un caffè, - le disse. - Tanto non riusciamo a dormire.
Elsa gli sorrise debolmente e, dopo essersi asciugata le lacrime con un fazzoletto grande e stropicciato,
lo seguì in cucina. Si sedettero ciascuno al proprio lato del tavolo, quello che usavano tutti i giorni e che
aveva soltanto due sedie.
- È così strano, - commentò lei con un filo di voce. - Penso sempre a Marie come a un bebé. Adesso
sarebbe grande.
Trentadue anni. Forse noi...
Con le lacrime che le scendevano lungo le guance stanche, gli strinse la mano.
- Forse avremmo avuto dei nipotini. Qualcuno che poteva rilevare la fattoria.
Guardò il marito: aveva cinquantaquattro anni. Si erano incontrati a quindici anni e da allora erano
vissuti fedelmente l'uno all'altra. Se non fosse stato per Kjell, la vita sarebbe finita il mattino in cui si era
svegliata e aveva trovato Marie morta nel lettino. L'aveva cullata per quattro ore, stringendosela al seno.
Si era rifiutata di lasciarla quando era arrivato il medico. Era stato Kjell a convincerla.
Era stato Kjell a rimanere sdraiato accanto a lei tenendola stretta a sé per tre giorni. Era stato Kjell che
nel corso degli anni le aveva permesso di sorridere al pensiero della figlia che nonostante tutto avevano
potuto godersi per qualche mese.
- Mah, - disse lui guardando fuori dalla finestra: il buio non era più così pesto come in inverno. La
sfumatura grigia della notte faceva presagire che la primavera non era lontana. - Non serve pensare a
queste cose, Elsa.
Non serve.
- Non avresti mai dovuto permettere a quella giornalista di venire qui, Kjell, - sussurrò lei. - Non avresti
dovuto.
Tutto diventa... tutto è diventato...
Il marito le strinse più forte le mani.
- Su, su, - le disse sforzandosi di sorridere.
- È come se tutto ritornasse, - singhiozzò piano Elsa, - Tutto il dolore. Quello che eravamo riusciti a...
- Ssst, - mormorò lui. - Lo so, cara. Lo so. E stata una sciocchezza. Ma sembrava così perbene. Quello
che hai detto, pareva così importante... che parole ha usato al telefono?
«Portare alla luce lo scandalo dei vaccini». Mi è sembrato giusto, messa così. Dava l'impressione di
essere| molto interessata e comprensiva.
- Non è stata tanto comprensiva quando è arrivata, -' ribattè Elsa alzando la voce e liberando le mani per
pulirsi il naso. - Hai visto come osservava la foto di Marie?
Che sfrontatezza! Chiederci di prestargliela. Una sfrontatezza inaudita.
Dopo essersi alzata con movimenti bruschi e stizziti, prese la caraffa di vetro dalla macchina da caffè.
Riempì entrambe le tazze, ma invece di sedersi, rimase in piedi con i fianchi appoggiati al ripiano della
cucina.
- E quella fotografa. Come spadroneggiava per il cimitero.
Hai visto come calpestava i fiori? «Scusate», ha detto soltanto, poi ha schiacciato il tumulo di terra
fresca della povera Herdis Bràttom. Che modi!
Kjell Haugen non disse nulla. Sorseggiò il caffè lascian-| do che Elsa sfogasse la sua rabbia. Per un breve
momento avrebbe sofferto di meno. Lui si vergognava come un cane!
La giornalista di «KA» era rimasta a malapena mezz'ora] senza ascoltare quello che le dicevano. Quello
che dicevano veramente. Non era interessata a loro, voleva unicamente conoscere i dettagli, che annotava
su un bloc-notes a grandissima velocità senza guardarli. Non aveva nemmeno assaggiato il caffè e il
dolce, anche se Elsa aveva preparato una torta alla panna prima del suo arrivo.
- Non ci ha neppure dato il tempo di raccontarle che il dottor Bang l'aveva capito, - commentò a un tratto
Kjell.
- Non ci ha dato il tempo di dirglielo. Che lui ha scritto alle autorità per molti anni dopo l'accaduto.
Elsa guardò fuori dalla finestra. Stava albeggiando. I deboli raggi di sole parevano sollevarsi a fatica dal
campo, da ogni solco della terra appena arata.
- E proprio come un coltello, - sussurrò. - E come se qualcuno avesse riaperto una cicatrice che aveva
impiegato così tanti anni a formarsi.
Kjell Haugen si alzò intorpidito e andò in soggiorno. Prese «KA» dal tavolino. Di colpo lo strappò e
buttò i pezzi nella stufa. Afferrò una scatola di fiammiferi, ma le mani gli tremavano al punto che non
riusciva ad accenderli.
- Ci penso io, - intervenne con calma la moglie alle sue spalle. - Li brucio io.
- E stata una sciocchezza, - mormorò lui guardando le fiamme che salivano tingendogli la faccia di rosso.
- Sembrava così simpatica quando ha telefonato.

Sabato 19 aprile 1997


Ore 04.20, nei boschi del Nordmarka, Oslo.

Li aveva fregati, ed era stato così facile da morire dalle risate. A dire il vero ci aveva messo un po' per
capire dove si appostavano. Adesso nel frigorifero c'erano sei litri di latte comprati dopo quattro giri
inutili nel negozietto all'angolo.
Si sarebbero inaciditi, ma non aveva importanza. Era quasi troppo bello per essere vero. La polizia
teneva d'occhio il portone che dava su Vidars gate. Punto. Evidentemente non avevano scoperto che si
poteva passare dalla cantina e sbucare nel caseggiato accanto, dove una botola nello scantinato gli aveva
permesso di sgusciare nel cortile posteriore.
Da li bastava saltare lo steccato per trovarsi fuori dal portone, tre palazzi più in là. Nessuno l'aveva
visto. Per essere perfettamente sicuro, aveva preso tre autobus e un tram che andavano in direzioni
diverse, saltando giù di colpo e all'ultimo momento. Alla fine era entrato in un negozio di articoli
sportivi, dove aveva comprato una bicicletta a buon mercato.
Aveva pedalato fino alla capanna, che aveva raggiunto soltanto a sera inoltrata il giorno prima, dopo che
si era fatto buio. L'ultimo tratto era deserto: l'uggioso tempo primaverile non era allettante neppure per i
più convinti frequentatori dei boschi intorno a Oslo. Aveva letto un po': gli era stato difficile
addormentarsi. Si era alzato più volte per calmarsi. Fuori non c'era nessuno. Dallo stagno giungeva di
tanto in tanto qualche rumore d'animali e per un'oretta era scrosciata una pioggerellina primaverile. Per il
resto regnava il silenzio.
Si sentiva ancora stanco dopo tre ore di sonno leggero, ma non voleva dormire oltre. Aveva fatto due
volte lo stagno a nuoto: il corpo era perfettamente sveglio, anche se la testa era pesante. Si preparò il
caffè e si imburrò quattro fette di pane con caviale di merluzzo.
Accese la radio, ma non c'era niente che valesse la pena di ascoltare: soltanto il baccano della musica
pop. A Brage Hàkonsen non piaceva. Tirò fuori un libro di David Irving che si mise a leggere mentre
mangiava.
Aveva sicuramente perso il lavoro. Era assente ingiustificato da quattro giorni e quell'acido del
capomagazziniere gli avrebbe sputato dietro se fosse tornato. Ma lui non aveva intenzione di farsi vedere.
Adesso comunque non voleva pensarci. Aveva dei soldi in banca e viveva con parsimonia.
Ora fuori era chiaro. Diede un'occhiata dalla finestra.
Sarebbe stato più prudente andare al deposito delle patate mentre era ancora molto presto. Di tanto in
tanto la gente passava di li nel fine settimana, anche se il sentiero si snodava a duecento metri dalla
capanna. Lo stagno attirava i pochi che si addentravano così in profondità nei boschi.
Aveva rinunciato a spaventarli appendendo cartelli con scritto «Divieto di pesca e di balneazione». La
Forestale glieli toglieva puntualmente.
La cosa più sicura era andarci subito.
Si infilò prima una felpa, poi le scarpe da ginnastica senza però annodare le stringhe. Gliene servivano di
nuove, ma adesso doveva stare attento. La bicicletta gli era costata tremila corone: gli aveva dato sui
nervi spendere così tanti soldi quando aveva una bici bella e costosa nel cortile sul retro, ma non poteva
correre rischi. Sarebbe stato difficile farla passare per la cantina e non era sicuro di riuscire a portarsela
al di là della siepe.
L'aria del mattino aveva un forte profumo di terra e di vegetazione che gli dava le vertigini, anche se era
già stato fuori. Quasi correndo percorse i quaranta metri che lo separavano dalla collinetta a est. La porta
del deposito delle patate era coperta di rami d'abete e sterpaglia, e sarebbe risultata invisibile se non
avesse saputo che era li.
Ammassò accanto all'ingresso tutta la mimetizzazione prima di ripescare la chiave che apriva un
catenaccio massiccio, e che lui teneva in una taschina della scarpa da ginnastica.
La serratura era ben oliata e non ebbe problemi a sollevare l'enorme asse che fungeva da porta. I cardini
cigolarono un po' e Brage si fermò per un istante ad ascoltare con attenzione, irrigidito. Poi espirò prima
di appoggiare con cautela la tavola di legno accanto all'apertura. Entrò in quella cavità buia. Ci voleva
sempre del tempo prima che gli occhi si abituassero all'oscurità, così accese una torcia.
In quell'istante sentì qualcosa, qualcosa di diverso dal rumore prodotto da un animaletto di passaggio.
Qualcosa di più del vento che fievole e delicato giocava tra le foglie dell'anno prima, che ora stavano
marcendo. Un ramoscello che si spezzava. Altri ramoscelli che si rompevano.
Sentì dei passi.
- Esci di li, - disse una voce, alta e in tono di comando.
Per un istante valutò le proprie possibilità. In tasca aveva la pistola appena comprata. In mano teneva le
cartucce.
Davanti a lui c'erano quattro AG-3 e due fucili a canne mozze, oltre a quattro fucili di precisione. Sulla
mensola c'erano le munizioni per tutto. Avrebbe avuto il tempo di caricare. Avrebbe potuto farsi strada
sparando.
- Esci immediatamente, - ruggì l'uomo.
Brage Hàkonsen sentì la morsa della paura stringerlo sotto le costole. Cercò di aprire la scatola con i
proiettili della pistola, ma le dita parevano tumefatte e riluttanti.
«Non ne ho il coraggio, - pensò all'improvviso. - Cazzo, non oso».
A denti stretti arretrò uscendo dal deposito. Aveva le lacrime agli occhi, ma deglutendo in continuazione
riuscì a mantenere un certo controllo.
Nell'attimo in cui fu fuori, si scagliarono su di lui. Si ritrovò schiacciato al suolo. Sentì il sapore del
terriccio mentre alcuni aghi di pino gli si infilavano nel naso e nella bocca. Avvertì un dolore molto forte
quando gli ammanettarono i polsi.
- Sono troppo strette, - urlò sputando. - Cazzo!
Stringono!
Uno degli uomini era già dentro il deposito di patate.
- Guarda un po', - disse mentre il collega costringeva Brage ad alzarsi. - Indovina cosa abbiamo qui!
In una mano teneva un AG-3. Nell'altra aveva il cofanetto con le carte. I piani. Le grandi idee.
- Mi sembra che ti abbiamo fregato per bene, - commentò l'uomo ridendo fragorosamente. - Pensavi che
fossimo dei dilettanti, eh? Che tenessimo sotto controllo soltanto il portone.
La risata riecheggiò sullo stagno e un uccello di grandi dimensioni gracchiò di rimando dall'altra riva.
- Culattone di merda, - ringhiò Brage.
Il poliziotto che lo teneva, un tipo massiccio sulla cinquantina, ridacchiò di gusto.
- Culattone sarai tu, - replicò trascinando con durezza Brage verso la capanna.
Severin Heger corse via per primo a chiamare rinforzi.

Ore 09.40, Kirkeveien 129.

Il mal di testa la stava uccidendo. Aveva un punteruolo che le trapanava le tempie e avvertiva una
dolorosa pressione agli occhi di cui non capiva l'origine. Non aveva bevuto la sera prima, anzi: non
toccava un goccio da quando era morta Birgitte Volter. Eppure aveva problemi a stare in piedi, il dolore
era nuovo, sconosciuto e incuteva paura.
Due compresse di analgesico non avevano sortito nessun effetto, così si mise a rovistare nella trousse
alla ricerca di qualcosa di più efficace.
Le parole dei giornali le saltarono agli occhi quando si sedette al tavolo della cucina. Il caffè aveva un
sapore acre, ma dopo una mezza tazza si sentì leggermente meglio. Difficile dire se grazie a quello o a un
Paralgin Forte pieno di granelli di polvere e altri residui accumulatisi nella trousse.
«KA» non era più il solo a occuparsi del caso. Anche se era sempre avanti rispetto ai concorrenti, tutti i
quotidiani della capitale e quelli regionali si erano buttati sulla vicenda. Bisognava elaborare nuovi punti
di vista, teorie, visioni. Era saltato ogni limite alle congetture che i commentatori più pessimisti e cupi
erano in grado di partorire.
Anche se nessuno aveva il coraggio di fare nomi, tutti i giornalisti lasciavano trasparire fra le righe che
lo scandalo della Sanità era palesemente connesso all'omicidio di Birgitte Volter. Senza mai essere
citato, il nome di Benjamin Grinde trapelava a chiare lettere dalle pagine dei giornali. Tutti facevano
riferimento all'amicizia tra la Volter e Grinde come a un esempio della cultura negativa presente
nell'amministrazione pubblica e che il Partito laburista aveva implementato nel sistema con il passare
degli anni. L'acquisto di vaccini da un paese dell'Est nel pieno della guerra fredda veniva considerato il
più grande scandalo della storia norvegese del dopoguerra, più grande delle rivelazioni contenute nel
rapporto della commissione Lund, infinitamente più grande degli incidenti di Kings Bay. Nonostante
l'emicrania Ruth-Dorthe Nordgarden dovette ammettere che su quel punto la stampa non era proprio
lontana dalla realtà: centinaia e centinaia di vite umane sarebbero potute andare perse.
Ammesso che tutto corrispondesse a verità, cosa che non sapeva ancora nessuno.
Gli altri giornali non contenevano niente di nuovo rispetto all'edizione straordinaria di «KA» del giorno
prima, che invece era stata così ricca di notizie da poter riempire un nutrito numero di pagine con i
commenti di dotti ed esperti, politici e instancabili analisti e veggenti del sistema politico.
Fedele a se stesso, il professore di diritto Fred Brynjestad aveva sparato a zero, anche se per il lettore
più scrupoloso poteva essere difficile capire a chi fossero indirizzati i suoi strali. Dal momento che il
primo ministro Einar Gerhardsen era morto da un pezzo, così come il suo ultimo ministro per gli Affari
sociali, Olav Gjasrevoll, la veemenza delle affermazioni del professore pareva eccessiva. Soprattutto
visto che non era ancora stata fatta chiarezza né su chi tra le alte sfere fosse a conoscenza della questione
e avesse dato formalmente il proprio beneplacito all'acquisto dei vaccini, né su chi ci avesse speculato
sopra.
Un paio di giornalisti avevano cominciato a chiedersi quale ruolo avesse Ruth-Dorthe Nordgarden in
tutto questo.
Non che fosse sospettata di omicidio, assolutamente no, per di più nel 1965 aveva dodici anni e faceva la
scout, ma sia «KA» che il «Dagbladet» e l'«Aftenposten» si erano permessi di mettere in discussione il
modo in cui aveva gestito la situazione. La cosa peggiore era che le loro «fonti certe» avevano
confermato come si fosse rifiutata di incontrare Benjamin Grinde pochi giorni prima che lui si recasse da
Birgitte Volter. Le ipotesi del motivo per cui il ministro della Salute non aveva voluto vederlo erano
tanto fantasiose quando insensate.
«Non avevo tempo, - mormorò tra sé. - Non ne avevo voglia».
Anche i parlamentari erano andati allo sbaraglio, alcuni con più esitazione e cautela, altri con impeto e
pensando esclusivamente alle elezioni, che si sarebbero tenute di li a cinque mesi. Come sempre si erano
barricati dietro insulse frasi di circostanza, affermando di voler attendere gli sviluppi della situazione.
Insulse perché subito dopo si erano espressi con la più totale sufficienza su tutto: i rapporti esistenti tra il
Partito laburista e il blocco dei paesi dell'Est negli anni Sessanta, il ruolo della politica nel corso delle
indagini sull'omicidio della Volter, il lavoro della commissione Grinde, la sua composizione, e come se
non bastasse l'opposizione aveva sollevato un putiferio sulle ricadute che l'assassinio aveva avuto sulla
vita sociale norvegese nel suo complesso e sulla politica norvegese nello specifico. La tregua era finita e,
per timore di un «effetto Palme», l'opposizione faceva di tutto affinchè il Partito laburista non traesse
troppo vantaggio dalle indagini demoscopiche elettorali che si sarebbero svolte durante l'estate.
«Come se l'omicidio mostrasse l'incapacità del Partito laburista, - sospirò Ruth-Dorthe Nordgarden,
portandosi una mano alla tempia mentre strizzava gli occhi. - Come se dicesse qualcosa sul partito. E
pensare che sei mesi fa eravamo accusati di aver perseguitato i comunisti negli anni Sessanta. Adesso
invece ci incolpano di aver fatto comunella con loro».
Furibonda e affranta spiaccicò con il giornale una mosca coraggiosa e intontita dalla primavera che
arrancava verso lo scodellino della marmellata.
- Io vado, mamma, - disse una testa bionda e arruffata, apparsa di colpo sulla soglia.
- Hai fatto colazione?
- Ciao!
- La colazione!
Ruth-Dorthe sospirò ostentatamente prima di riappoggiarsi allo schienale della sedia. Il grande larice che
si trovava davanti alla finestra aveva cominciato a vestirsi in attesa dell'estate: sarebbe stato verdissimo
per la festa nazionale del 17 maggio.
- Astrid è già sparita?
Una seconda testa, ancora più arruffata della prima, la fissava acida.
- Non esci prima di aver fatto colazione!
- Ma devo andare!
* Sbang.
La porta d'ingresso lasciò dietro di sé un silenzio che non sapeva se apprezzare o desiderare invece che
riempire con una cosa qualsiasi. Non ebbe bisogno di pensarci a lungo. Il cellulare, che era sotto carica,
la guardava con un occhio verde e maligno, come se sapesse quanta fatica le sarebbe costato usarlo.
Conosceva il numero a memoria.
- Spero che tu abbia dormito bene, - disse aspramente quando qualcuno infine rispose all'altro capo.
- Grazie, si, - replicò una voce zuccherosa. - Ho dormito il sonno dei giusti.
- Tu non puoi scrivere quelle cose, - esplose Ruth-Dorthe.
- Che tu scriva in questo modo su di me, tu che...
- Io che... cosa? Che ho avuto un così bell'aiuto, intendi dire? Ma non eri a servizio della libertà di
parola, Ruth-Dorthe?
- Sai benissimo cosa intendo dire!
- No, onestamente non lo so. Sei tu che mi hai mandato la nota della commissione. In totale libertà. Io non
ti | ho promesso niente.
- Ma tu... tu mi hai distrutta! E non soltanto me, mai forse l'intero governo. Guarda quello che ha scritto
oggi [ l'«Aftenposten»! Che...
Furiosa scartabellò tra i giornali.
- Ecco. «Constatiamo con rammarico che la "cultura del qualcuno-ha-parlato" sembra inestirpabile dal
nostro ™ partito di maggioranza. L'unica differenza è che, a quanto pare, è esistita una "cultura del
qualcuno-ha-parlato-con-Walter-Ulbricht".
Non sappiamo cosa sia peggio».
Scagliò il giornale.
- Nell'editoriale! Cos'hai fatto, Liten Lettvik? Avevamo un accordo!
- Sbagliato. Noi non avevamo nessun accordo. Io ho aiutato te quando mi faceva comodo. Tu hai aiutato
me. Il fatto che non possiamo più lavarci le mani a vicenda dobbiamo metterlo in conto in nome della
libertà di stampa e della democrazia. E per questo che esistiamo, no?
-Io...
Fu costretta a trattenersi. Il mal di testa era ritornato più forte di prima, aveva la nausea.
- Non ti parlerò mai più fin che campo, - sussurrò Ruth-Dorthe nella cornetta.
Ma all'altro capo non c'era più nessuno, solo il segnale che la linea era di nuovo libera e a cui le sue
tardive mi| nacce non sembravano interessare affatto.
Suonò il telefono. Ruth-Dorthe sobbalzò.
- Pronto?
Il cellulare era morto, eppure continuava a sentire gli squilli.
Sbigottita si guardò intorno nel soggiorno, con la guancia appoggiata al telefonino, come se quel contatto
la potesse consolare in un momento difficile.
Era il telefono fisso a suonare, il cordless.
- Pronto, - ripetè, questa volta nell'apparecchio giusto.
- No, pronto, Tryggve. Stavo per chiamarti. Ho bisogno di parlarti su questo caso di malasanità... sì?
Prese a mordersi l'unghia del mignolo sinistro.
- Capisco. Alle quattro lunedì. Nel tuo ufficio. Ma a quell'ora sono... no, certo. Ci sarò. Alle quattro.
L'unghia era troppo corta e avvertì un certo dolore che si diffondeva per il dito. Ne uscì una striscia
sottile di sangue e si infilò la falange in bocca. Poi si alzò per andare a cercare un cerotto.

Ore 14.21, centrale di polizia, Oslo, locali dei servizi di sicurezza.

- Ma guarda guarda, - commentò Severin Heger con dolcezza, soddisfatto.


Cercò di catturare lo sguardo del giovane che sedeva davanti a lui, il quale però teneva gli occhi fissi
sulle proprie mani mentre borbottava qualcosa di incomprensibile.
- Cos'hai detto? - gli domandò il poliziotto.
- Queste non servono mica, - ripetè il ragazzo mostrandogli i polsi. - Le manette!
- Se tu non avessi tentato di scappare una decina di volte dalla capanna a qui, avremmo potuto parlarne.
Ma adesso no.
Con un sorriso a ventiquattro carati servì a Brage Hàkonsen una Coca-Cola.
- Come cavolo faccio a berla con queste qui, - si lamentò il giovane, quasi con voce piagnucolosa.
- Andrà benissimo. L'ho già fatto anch'io. E qui cosa abbiamo?
I fogli che aveva davanti erano stati infilati uno per uno in buste di plastica trasparente. Erano scritti a
macchina, in un linguaggio alquanto ampolloso e con varianti appartenenti a un norvegese antiquato che,
erroneamente, facevano credere che l'autore fosse in là con gli anni.
- Sei tu che li hai scritti, vero?
Il poliziotto continuava a sorridere e la voce era amichevole, al limite dello spensierato.
- Fanculo, - mormorò a bassa voce il giovane.
- Cosa?
Severin Heger non sorrideva più. Si allungò sopra la scrivania e afferrò la camicia di flanella di Brage.
- Un'altra parola del genere e le cose per te si complicheranno molto, - sibilò. - Adesso ti siedi per
benino e rispondi in modo educato a tutte le domande che ti faccio. Capito?
- Voglio parlare con un avvocato, - replicò Brage. - Non dico niente prima di aver parlato con un
avvocato!
Dopo essersi alzato, Severin Heger rimase in piedi così a lungo a osservarlo che Brage Hàkonsen
cominciò a contorcersi sulla sedia.
- Certo, - disse alla fine il poliziotto. - Certo che parlerai con un avvocato. Ne hai diritto. Ci vorrà un po'
e nel giro di qualche ora ti assicuro che sarò diventato molto meno gentile e paziente. Abbiamo parecchio
qui: queste carte. E queste armi. Abbastanza da torchiarti per bene e lasciarti marcire a lungo, ma per
carità, sei tu a decidere. Ovviamente per te sarebbe meglio fare due chiacchiere con me adesso, ma
certo... se preferisci invece un avvocato, te lo procuriamo. Di solito non lavorano nel fine settimana, ma
entro domani mattina ne avremo trovato uno.
Brage Hàkonsen guardò il bicchiere di Coca-Cola prima di cercare di portarselo alle labbra con
entrambe le mani.
- Vedi! Si riesce a bere. Adesso ti riporto in cella, e attenderemo l'arrivo del tuo avvocato.
- No, - disse Brage piano.
- Scusa?
- No. Possiamo cominciare a parlare adesso. Se dopo mi procurate un avvocato, voglio dire.
- Ne sei sicuro? Poi non ti metti a piagnucolare dicendo che non conoscevi i tuoi diritti eccetera,
eccetera?
Il giovane scosse debolmente la testa.
- Saggio da parte tua, - sorrise Severin Heger rimettendosi a sedere. - Nato il 19 aprile 1975, giusto?
Brage annuì.
- Magazziniere e celibe, abiti in Vidars gate ne?
Annuì nuovamente.
- Parlami di queste carte.
Dopo essersi schiarito la voce, Brage Hàkonsen si raddrizzò sulla sedia.
- Qual è la pena per queste cose qua? - domandò piano.
Severin Heger agitò la mano sinistra a mo' di diniego.
- Adesso lascia stare. Sei accusato di violazione del paragrafo 104a del codice penale: «Chi bla bla bla
organizzazioni di carattere militare bla bla bla che hanno come intento quello di sabotare, destabilizzare
o ricorrere ad altri mezzi illegali allo scopo di disturbare l'ordine pubblico e sociale bla bla bla».
Dovresti conoscerlo bene. Tu che sei così erudito.
Mentre parlava, scorreva l'elenco dei titoli dei libri trovati nella libreria, annuendo.
- Si parla dai due fino al massimo di sei anni di carcere.
Dipende, - spiegò Severin Heger quando si rese conto che Brage Hàkonsen non avrebbe proseguito prima
di aver ricevuto una spiegazione. - Ma non pensarci adesso. Limitati a rispondermi. Sei stato tu a scrivere
queste cose?
Pallido in viso Brage Hàkonsen fissava un punto davanti a sé. Gli occhi non parevano più azzurri, ma
presero a vagare incolori per la stanza. Aveva smesso di ammiccare.
- Sei anni, - mormorò. - Sei anni!
- Senti! - insistette il poliziotto. - Non ti sembra correre un po' troppo?
- Sono mie. Ho scritto io quelle cose. Solo e soltanto io.
- Che sciocchezza, - commentò Severin Heger asciutto, prima di aggiungere: - E stato saggio da parte tua
ammetterlo. Molto saggio, direi. Uccidere il presidente del Parlamento? Questo si che non sarebbe stato
molto saggio.
Sfogliò tre altre pagine.
- Questo invece è ancora più fastidioso, - disse mostrando il foglio a Brage. - Un piano già pronto per
liquidare il primo ministro Volter. A una cassa del supermercato!
- E li che va a fare la spesa. Andava, cioè.
Brage Hàkonsen aveva ripreso a fissare un punto davanti a sé, quasi a mo' di zombi. La scena ricordò a
Severin un film di serie B che aveva visto in una camera di un albergo in Inghilterra perché non riusciva a
prendere sonno:
La lunga notte dell'orrore. Era evidente che il ragazzo non voleva piangere, al contrario sembrava
rilassato, quasi come un nottambulo, lì dove se ne stava seduto. Senza manette probabilmente le braccia
gli sarebbero ciondolate lungo il corpo come pendoli, come se Brage avesse la mente altro ve e fosse
solo in grado di registrare lo scorrere del tempo, - Ma non è successo al supermercato, - disse Severin
Heger. - È stata uccisa nel suo ufficio.
- Non sono stato io, - replicò apatico il giovane. - È stato qualcun altro.
Severin Heger avvertì il sangue scrosciargli nel cervello, quasi che tutto il suo corpo avesse capito che
era arrivato il momento. Il ronzio alle orecchie era così forte che senza accorgersene inclinò la testa di
lato per sentire meglio.
Gli chiese:
- E tu sai chi è?

Dal corridoio sentì qualcuno avvicinarsi e per un attimo terribile si pentì di essersi dimenticato di
appendere la targa con scritto «Interrogatorio in corso - non disturbare».
Emise un sospiro di sollievo quando i passi superarono la porta per scomparire lungo il corridoio.
- E chi è stato?
Si sforzò di dare l'idea che la domanda fosse confidenziale e ovvia. Prese il bicchiere di Coca-Cola,
come per sottolineare che quella situazione era del tutto scontata, come se fosse abituato a interrogare
estremisti di destra che sapevano chi aveva ucciso una persona di spicco della società norvegese. La
schiuma ne traboccò prima che si versasse altra bibita.
Per la prima volta sulla faccia di Brage Hàkonsen apparve qualcosa che pareva un sorriso.
- Lo so chi è stato. So anche chi vi ha spedito l'arma.
In una busta grande, marroncina, vero? Con la scritta in nero e nessun francobollo. E stata lasciata
all'ufficio postale centrale, no? Quello che posso dire è che sono state opera di due persone diverse.
Non erano stati resi pubblici tutti i dettagli. Anche in centrale erano pochi a conoscere ogni particolare.
Chiunque era a conoscenza del ritrovamento dell'arma: la notizia era comparsa sulle prime pagine dei
giornali. Ma non che era stata inviata all'ufficio postale centrale, né tantomeno che era contenuta in una
busta marroncina, senza affrancatura.
- Pensi di farmi qualche nome?
- No.
In quel momento Brage sorrise per davvero. Severin Heger dovette stringere con forza il bordo della
scrivania per non mollargli un ceffone.
- No. Io so chi ha ucciso la Volter. E chi ha spedito l'arma. Ho da offrire due nomi, ma non vi dirò nulla
prima di patteggiare la mia pena.
- Hai visto troppi film, - sibilò Severin Heger. - Qui in Norvegia non scendiamo a compromessi!
- Be', - rispose Brage Hàkonsen. - C'è sempre una prima volta. E adesso vorrei parlare con l'avvocato.

Ore 19.00, Stolmakergata 15.

I quattro figli di Billy T., Alexander, Nicolay, Peter e Truls, erano incantevoli in pigiama. Quando
dormivano.
E soltanto in quel momento. Altrimenti erano eccitanti, divertenti, tosti e ingegnosi, ma molto, molto
rumorosi.
Hanne Wilhelmsen si portò una mano sulla fronte, in un modo che credeva veloce e invisibile.
- Stanca? - le chiese Billy T. mentre si destreggiava con un cucchiaio di legno per riempire di zuppa
d'avena le ciotole dei quattro rampolli, i quali, dopo aver raccolto il suggerimento di Hanne, sedevano
relativamente tranquilli.
A eccezione di Peter, che stava pizzicando Truls sulla coscia con una molla da cucina scovata nel
cassetto più basso dell'armadietto.
- No, - sorrise. - Un pochino... soltanto.
I bambini si erano catapultati in casa la sera prima, ululando dall'eccitazione e impazienza. Truls era
vestito da indiano, arrivava direttamente da una festa di carnevale: i tre più vecchi indossavano tute da
ginnastica con sotto dei costumi da bagno bagnati.
- Insomma Billy T., - l'aveva ammonito Hanne. - E aprile!
Vergognoso e borbottando il padre aveva fatto in modo di asciugarli e cambiarli dopo aver appeso il
copricapo piumato di Truls a una parete. Da quel momento in poi non c'era stato un attimo di tregua.
Hanne non sapeva quale fosse stato il momento peggiore: Probabilmente quando Billy T. aveva messo in
atto l'idea pazzesca di conficcare dei ganci nel soffitto da cui far pendere dei pezzi di corda per vedere
fino a dove riuscivano ad arrivare i bambini.
Alexander rimasto appeso dal bagno alla cucina e ritorno senza mollare la presa, tra l'ammirazione
estatica e sonora dei fratellini e lo scrosciante applauso paterno. Truls era caduto quasi subito: quella
mattina erano stati al pronto soccorso per fargli ingessare il braccio.
Comunque fosse, il risultato era che adesso i pargoli erano stanchi morti. Truls non si curava neanche
delle pinze da cucina: batteva le palpebre e masticava la sua zuppa d'avena come se fosse sul punto di
addormentarsi.
- Guarda che prima ti devi lavare i denti, - ruggì Billy T.
Mezz'ora dopo dormivano come piccoli sassi.
- Tre nomi presi dagli zar di Russia e poi Truls? - domandò Hanne in un bisbiglio mentre stavano
controllando che fosse tutto a posto. - Mi sono sempre chiesta il perché.
- Secondo sua madre doveva avere un nome come si deve e indiscutibilmente norvegese.
- A dire il vero è danese.
- Eh?
- Truls. Non è norvegese. È danese!
- Ah. Visto che non è proprio come gli altri, doveva avere un nome socialdemocratico, scandinavo, ecco.
Per non rimanere escluso. Lo ha deciso sua madre. Io non sapevo neanche della sua esistenza prima che
avesse tre mesi.
È stato un inferno ottenere il diritto di visita, ma adesso va tutto bene.
Truls non era come gli altri: era nero. I due figli più grandi di Billy T. erano molto simili al padre.
Avevano i capelli biondi, la carnagione sana e due occhi grandi e di colore azzurro ghiaccio. Peter, il
terzo, aveva i capelli rossissimi e il viso coperto di efelidi. Truls era nero e così scuro che era difficile
credere avesse un padre bianco, se non fosse stato per il sorriso: quando alzava gli angoli della bocca,
era spiccicato il papà.
- Hai dei bei figli, Billy T., niente da dire. Li sai proprio fare.
Hanne Wilhelmsen lisciò delicatamente il piumone di Nicolay prima di provare a spingere Billy T. fuori
dalla cameretta.
Lui invece rimase e andò a sedere sul letto più basso dei due a castello, dove Truls dormiva a bocca
aperta e con il gesso nuovo di zecca sopra gli occhi, a mo' di scudo.
- Secondo te sente male? - sussurrò Billy T. - Dovrei | dargli un antidolorifico?
- Hai sentito quello che ha detto il medico. Braccio rotto, sarà a posto fra tre settimane. Non devi dargli
niente, a meno che non abbia dolori molto forti. Adesso dorme | tranquillo, quindi non può fargli troppo
male.
- Ma di solito non tiene il braccio così.
Billy T. cercò di spostarlo di lato lungo il piumone, ma| il braccio rimbalzò al suo posto mentre il
bambino emetteva un gemito.
- Avrei dovuto dargli un antidolorifico, - insistette Billy T. disperato.
- Non avresti dovuto farti venire in mente quel gioco, ecco. O almeno avresti dovuto mettere qualcosa per
terra, non so, dei materassi. Non vedi che Truls è più gracile degli altri? Non diventerà un colosso come
te.
- E solo perché è il più giovane, - replicò scontrosamente lui. - È così piccolo perché ha soltanto sei anni.
Crescerà con il tempo, vedrai.
- È più piccolo degli altri, Billy T. Ed è comunque figlio tuo anche se non ha un fisico da paura. Dacci un
taglio.
- Sua madre mi farà la pelle per via del braccio, - borbottò passandosi una mano sul viso. - Secondo lei
sono un po' troppo rude con Truls.
- Probabile, - sussurrò Hanne. - Adesso vieni.
Billy T. non voleva. Rimase seduto sul bordo del materasso, incurvato in una posizione scomoda perché
tra i due letti non c'era abbastanza spazio. La sua mano si muoveva delicatamente lungo la testa e il viso
del piccolo, accarezzandogli i capelli crespi, ricciuti.
- Se gli dovesse succedere qualcosa di serio, - disse piano. - Se dovesse succedere qualcosa a uno dei
miei figli, allora non so cosa...
Hanne si mise a sedere con cautela sul letto di Peter dopo aver spostato dolcemente il bambino, un
braccio bianchissimo pieno di lentiggini che spuntava sopra il piumone.
Peter tossì nel sonno aggrottando la fronte.
- Pensa a come stava Birgitte Volter, - disse lei prima di infilare il braccio del bimbo sotto le coperte:
non faceva caldo nella stanza e la pelle era fredda.
- Volter?
- Si. Prima, quando le è morta la bambina, e poi, quando è ritornato tutto a galla più di trent'anni dopo.
Credo...
Alexander si mosse nel letto in alto.
- Papà!
Billy T. si alzò per chiedergli cosa voleva. Battendo le palpebre, il bambino strizzò gli occhi per via
della luce che penetrava dalla porta aperta del corridoio.
- Ho sete, - biascicò. - Coca.
Ridacchiando Billy T. fece segno ad Hanne di tornare in soggiorno mentre lui andava a prendere un
bicchiere d'acqua per il figlio. Poi si lasciò cadere sul divano blu accanto a lei.
- Cosa ne pensi? - disse mentre prendeva la lattina di birra che Hanne gli porgeva. - Stavi dicendo
qualcosa sulla Volter.
Ruttò con discrezione prima di asciugarsi la bocca con il dorso della mano.
- La bimba che è morta. Non riesco a liberarmi da questo pensiero. Pensa a come doveva stare. Per
qualche motivo credo che il decesso in sé abbia a che fare con questo caso. Ma...
Billy T. fece per agguantare il telecomando che era davanti a loro, per accendere lo stereo. Hanne glielo
soffiò in tempo posandolo in un punto fuori dalla sua portata.
- Per favore, Billy T., - disse indispettita. - Anche tu devi riuscire a conversare senza quel tormentone
che esce dagli altoparlanti a duecento decibel.
L'interpellato non rispose, ma ingollò un bel sorso di birra dalla lattina.
- Forse dovremmo capire come stava Birgitte, - con tinuò Hanne piano. - Come ha vissuto gli ultimi
giorni della sua vita. Dovremmo scoprirlo. Invece di cercare disperatamente come se la passavano tutti
gli altri nel momento dell'omicidio! Dovremmo sforzarci di indaga re il significato delle parole scritte su
quel foglio. «Persona nuova» e poi un punto interrogativo, giusto? Qual era l'altra frase?
Sembrava che Billy T. non la ascoltasse.
- Ma la guardia giurata, - commentò lui. - Dopo quello che mi ha raccontato ieri Severin, sono certo che
in qualche modo quel tipo era coinvolto. E allora chi se ne frega di come stava Birgitte!
- Adesso sei cattivo. Un momento fa stavi per crollare al pensiero che potrebbe accadere qualcosa a tuo
figlio e ora sei di colpo gelido di fronte al fatto che, in effetti, Birgitte Volter ha vissuto in prima persona
quello che più temi. Si chiama mancanza d'empatia. Dovresti chiedere aiuto.
- Ma senti questa! - Le pizzicò la coscia. - Non scherzare!
Ho un mucchio di empatia, io, è solo che non andiamo da nessuna parte se ci infogniamo in questo genere
di cose durante le indagini.
- Si invece, - replicò Hanne Wilhelmsen spingendogli via la mano. - Credo che sia l'unico modo per
arrivare in fondo al caso. Dobbiamo scoprire come stava, cosa provava davvero in quel momento, come
era la sua vita proprio quel giorno. Il 4 aprile 1997. Poi dobbiamo investigare sul ruolo che la guardia
giurata ha avuto in tutto questo.
- E come ha fatto la regina a giungere a questo metodo? - le chiese alzandosi per andare a prendersi una
fetta di pane. - Ne vuoi una con lo sgombro?
Hanne non rispose, ma disse invece:
- Ho la netta sensazione che la morte della bambina sia molto più importante in questo caso che non lo
scandalo della Sanità. Secondo me stiamo ciecamente considerando gli altri neonati che sono morti. E hai
ragione per quanto riguarda la guardia giurata. C'entra qualcosa. Era nato nel 1965?
- No, era molto più giovane.
- Il vecchio aveva ragione.
- Eh? - disse Billy T. con la bocca piena di sgombro al pomodoro, marca Stabburet.
- Il vecchio nel parco. Lascia stare. Credo che mi mangerò anch'io una fetta di pane. Però voglio del latte.
- Ma sentila! - borbottò Billy T. aprendo una nuova lattina di birra.

Ore 23.15, Ole Brumms veì 212.

- Non puoi sederti, Per?


La voce era impastata e roca per via del whisky e delle troppe sigarette. Fu costretto ad appoggiarsi al
bracciolo quando si alzò. Non avrebbe dovuto bere. D'altro lato aveva cercato qualcosa per allontanare
il dolore, ma era stato tutto inutile. Il medico che si era recato da lui due giorni prima gli aveva prescritto
del Valium, ma c'era un limite. Non voleva impasticcarsi. Un drink come si deve era meno pericoloso. Se
ne era scolati sei.
Per lo guardò con disprezzo. Era in tuta, anche se era difficile che fosse uscito a correre. Non così tardi,
non cosi a lungo. Erano passate sei ore da quando Roy Hansen aveva sentito sbattere la porta d'ingresso.
- Bevi! - sputò Per. - Ci mancava soltanto questa.
Cazzo, papà.
- Adesso basta -. Roy Hansen picchiò il pugno sul tavolo facendo cadere con violenza una piantana in
acciaio che si trovava accanto al divano. Il paralume di vetro andò in mille pezzi.
- Ora ti siedi, - urlò strofinandosi il petto come se cercasse di raddrizzarsi dentro i vestiti che aveva
indosso da due giorni | ed erano tutti stropicciati. - Adesso ti siedi e parli con me!
Stupito Per Volter guardò suo padre, poi, stringendosi nelle spalle, si lasciò cadere sulla poltrona di
fronte. Roy si sedette sul bordo del divano, come pronto a scattare.
Improvvisamente sobrio, si passò le dita tra i capelli.
- Quando la smetterai di punirmi? - gli domandò. - Non credi che abbia subito abbastanza?
Il figlio non rispose, si mise a giocherellare con un grande accendino da tavolo in peltro: non aveva più
gas e la pietra focaia emetteva piccoli sibili insignificanti.
- Io sto malissimo, Per. Proprio come te. Vedo che stai soffrendo e darei tutto quello che ho per fare
qualcosa per te. Ma tu mi punisci in continuazione e mi tieni lontano.
Tutti e due sappiamo che così non può continuare. Dobbiamo trovare una soluzione... un modo per
parlarci.
- E cosa vorresti dire? - gli chiese il figlio all'improvviso e inaspettatamente, picchiando l'accendino sul
tavolino.
Roy si appoggiò allo schienale del divano prima di posarsi le mani in grembo. Sembrava che stesse
pregando una forza superiore, con il mento sul petto e le dita intrecciate.
- Volevo dire che mi dispiace. Volevo chiederti di perdonarmi.
Per quello che è successo quest'autunno. Con...
- Ruth-Dorthe Nordgarden, - disse Per velenoso. - Non è a me che devi chiedere scusa, ma alla mamma!
Era a lei che dovevi chiedere perdono. Tanto non lo sapeva neanche.
- Ti sbagli.
Roy Hansen si accese un'altra sigaretta. Fece una smorfia, come se in quell'istante ne avesse scoperto il
sapore schifoso. Eppure non la spense.
- Tua madre sapeva tutto. È stata l'unica volta da quando eravamo insieme che ho fatto una cosa simile.
Non so perché sia successo...
Espirò il fumo dal naso prima di guardare il figlio negli occhi.
- Non mi sembra giusto spiegarti queste cose, ma voglio che tu sappia che ho raccontato tutto a Birgitte. Il
giorno in cui è tornata da quell'incontro a Bergen. Sono rimasto seduto qui, su questo divano. Fino al suo
arrivo di notte.
Erano le due, prima era passata dall'ufficio e quando è tornata a casa le ho detto tutto.
Per fissava il padre con un'espressione che mostrava tutta la sua diffidenza nei confronti di quello che gli
era stato appena raccontato.
- Ma... cos'ha detto?
- Questa è una cosa tra me e tua madre. Ma mi ha perdonato.
Dopo un po'. Molto prima di morire. Dovresti farlo anche tu. Vorrei che mi perdonassi, Per.
Rimasero a lungo seduti nella penombra senza parlare.
La pioggia tamburellava sui vetri. Una grondaia perdeva: l'acqua colava a cascate sul muro esterno, lungo
l'angolo sinistro della casa esposto a nord. In lontananza sentirono un cane abbaiare. Il suono era
continuo, allarmante, e squarciava il rumore del rovescio primaverile. Allo stesso tempo quell'ululare
potente ricordava loro che là fuori esisteva qualcosa, qualcosa di cui erano parte e con cui sarebbe
arrivato presto il momento di tornare a rapportarsi.
- Quando in autunno me ne torno a casa, vorrei comprarmi un cane, - disse a un tratto Per.
Roy fu assalito da una stanchezza indicibile. Aveva il capogiro e riusciva a malapena a tenere gli occhi
aperti.
- Certo che puoi avere un cane, - commentò sforzandosi di sorridere, anche se quel gesto gli richiese uno
sforzo quasi insostenibile. - Un cane da caccia?
- Mmmh. Un setter, pensavo. È vero?
- Sì, certo che puoi avere un cane. Sei grande e decidi da solo.
- Non mi riferivo a questo. Lo hai detto per davvero alla mamma?
Dopo aver spento la sigaretta, Roy Hansen tossì piano.
- Si. Tua madre e io... non c'erano molti segreti tra di noi. Qualcuno, ovvio. Ma non molti. Non di questo
tipo.
Per si alzò per andare in cucina. Roy rimase seduto, sempre con gli occhi chiusi. Suo figlio era li con lui.
In autunno sarebbe tornato a casa, comunque. Li, nella casa dove la loro famigliola aveva vissuto, litigato
e amato fin da quando era nato Per.
Forse si era addormentato. Almeno sembrava che fosse passato solo un attimo quando sentì un tintinnio
proveniente da un piatto posato sul tavolino.
- Posso prenderne uno? - chiese Roy.
Per non rispose, ma spinse il piatto in avanti di qualche centimetro.
- Com'era in realtà? - domandò.
- La mamma? Birgitte?
Era confuso.
- No. Liv. Mia sorella. Com'era?
Roy Hansen appoggiò la fetta di pane intatta sul tavolino.
Dopo essersi grattato la pancia, si sentì di colpo perfettamente sveglio.
- Liv era meravigliosa.
Rise. Una risata leggera, sottovoce.
- Lo dicono tutti dei propri figli. Ma lei era così... così piccola! Così piccina e svelta. Completamente
diversa da te. Tu eri... tu eri proprio un maschio. Grande e forte e urlavi come un maialino quando avevi
fame, sin dal primo giorno. Liv era... aveva le fossette e i capelli biondi.
Si, credo... si, erano biondi. Bianchi, quasi.
- Abbiamo una sua foto?
Roy scosse lentamente la testa.
- Ce n'erano tantissime, - disse dopo un po'. - Il padre di Benjamin Grinde, si, sai, lui... suo padre era
fotografo e abitavano accanto ai nonni, e li abbiamo vissuto anche io e Birgitte, i primi due anni, prima
che... ce n'erano un mucchio, di foto. Credo che Birgitte le abbia bruciate tutte quante. Io perlomeno non
le ho più viste dopo... ma...
Lanciò un'occhiata al figlio, che a sua volta non aveva toccato cibo, ma che lo guardava con un'aria
meravigliata, quasi imbarazzata.
- Forse c'è qualcosa in soffitta, - continuò Roy. - Un giorno passerò in rassegna tutto. Metterò un po'
d'ordine.
Credo che riprenderò a lavorare. Martedì o mercoledì, forse. Quando ricomincerai la scuola?
- Presto.
In silenzio mangiarono quattro fette di pane ciascuno, bevendo latte e caffè. Ogni tanto si lanciavano
un'occhiata.
Roy gli sorrideva sempre, Per abbassava immediatamente lo sguardo. Ma tutto il dolore e il distacco di
prima non c'erano più. L'astio era scomparso con il temporale, che ora era aumentato d'intensità: la
pioggia tamburellava dura e furiosa contro la grande finestra panoramica che dava sul giardino.
- Dov'è sepolta, papà? Liv. C'è qualche lapide?
- A Nesodden. Ti ci porto un giorno.
- Non tra molto, eh? Presto?
- Presto, ragazzo mio. Possiamo andarci tra non molto.
Quando il figlio andò a letto, non gli augurò la buonanotte, ma non avrebbe lasciato passare troppo tempo
prima di tornare a farlo.

Lunedì 21 aprile 1997


Ore 09.00, centrale dì polizia, Oslo.

Stranamente a Billy T. erano cominciate a piacere le riunioni generali. Di solito odiava quel genere di
cose, ma in effetti era molto utile un incontro bisettimanale fra i responsabili dei diversi gruppi di
indagine, sia perché era il modo migliore per fare il punto della situazione e coordinare gli sforzi comuni,
sia perché, con il passare del tempo, era diventato possibile discutere. Erano tutti presenti, persino Tone-
Marit Steen, anche se nessuno ne capiva il motivo, visto che lei non era a capo di nessun team, non
formalmente, eppure in qualche modo ricopriva una funzione che le era congeniale: fungeva da portavoce,
era precisa e aveva la capacità di vedere il quadro completo della situazione. Arrivava puntuale ogni
volta senza che si levassero proteste.
L'unico a essere laconico e a dare l'idea di non con-, dividere con gli altri tutto quello che sapeva era il
capo dei servizi di sicurezza. Difficile aspettarsi qualcosa di più. Quel giorno la riunione era stata
potenziata con la presenza del procuratore capo, ma Billy T. aveva deciso di non lasciarsi impressionare
dall'aria acida e scontrosa di quella che, secondo lui, doveva essere la donna più cocciuta del mondo.
Era brava, noiosa e ostinata: ciò che ogni altro essere vivente poteva credere e pensare le era
indifferente. Sempre e comunque. In quel momento era intenta a sfogliare una voluminosa pila di
incartamenti.
Lanciò un'occhiata acida a Billy T., appena entrato nella stanza, senza neanche degnarlo di un cenno di
saluto.
Bene, neanche lui voleva essere da meno, quindi si comportò di conseguenza.
Billy T. versò dell'acqua calda da un termos in una tazza bianca che riportava il logo delle mense di
stato.
Lasciò la bustina del té immersa per mezzo minuto preciso mentre controllava l'ora, prima di strizzarla
con le dita per gettarla nel cestino della carta nell'angolo. L'acqua era poco più che tiepida e il té non
sapeva di niente.
Erano arrivati tutti, a parte il politiinspektor Hàkon Sand. Nessuno lo aveva visto né sentito. La riunione
sarebbe dovuta iniziare da dieci minuti e il capo della polizia non aveva intenzione di aspettare oltre.
- La settimana scorsa ci ha portato qualche sorpresa, - esordì. - Billy T.! Vuoi cominciare tu?
Dopo aver appoggiato la tazza di té, l'interpellato andò all'estremità del tavolo. Si appoggiò alla parete
con le braccia dietro la schiena. - A nostro avviso e sulla base delle indagini effettuate possiamo
escludere che la famiglia sia coinvolta nell'omicidio. Per, il figlio, ha un alibi a prova di bomba.
Ovviamente abbiamo valutato anche l'ipotesi di un complotto, per cui non sarebbe stato necessario essere
fisicamente presenti nell'ufficio del primo ministro quando è stato esploso il colpo, ma non esistono
elementi plausibili a supporto di questa idea. Per quanto riguarda l'arma... abbiamo ripreso in
considerazione la teoria dell complotto quando è emerso che apparteneva a Per. Siamo però giunti alla
conclusione che in qualche modo sia stata rubata alla famiglia.
Con le mani tese in avanti e gli occhi bassi, per un attimo oscillò sulla punta dei piedi.
- Per Volter è un ragazzo molto infelice e sfortunato che ha visto la sua vita capovolgersi nell'arco di
poco tempo.
Ma un assassino... mi rifiuto di crederlo. Anche Roy Hansen può essere eliminato dall'elenco. Vi ho già
riferito al proposito...
Guardò il capo della polizia, che annuì appena.
- E difficile pensare che sia riuscito a entrare furtivamente e senza essere notato dalle guardie giurate, a
uccidere la moglie e poi spedirci la pistola del figlio. Inoltre sappiamo che ha ricevuto a casa una
telefonata da sua madre alle 18.40. Questo dettaglio ci è stato confermato dalla compagnia telefonica, e
basterebbe a escluderlo. Com'è noto, abitano a Groruddalen. L'omicidio è avvenuto presumibilmente in
quell'arco di tempo. Anche se...
Guardò di nuovo il capo della polizia, che di nuovo annui, questa volta con irritazione.
- Non è molto piacevole diffondere notizie che non andrebbero fatte circolare, ma va detto che l'anno
scorso Roy Hansen ha avuto una... breve relazione con il ministro della Salute Ruth-Dorthe Nordgarden.
Un debole mormorio si diffuse fra gli astanti, persino il procuratore capo mostrò il proprio interesse
dietro il paio di occhiali antiquati e sgraziati che portava, dalla montatura in acciaio.
- Non è durata a lungo. Se questo costituisca o meno il possibile movente di un omicidio, lo escluderei.
No...
Billy T. stava tornando al proprio posto quando si fermò a metà strada.
- La famiglia Volter Hansen è una normale famiglia norvegese.
Con le sue gioie, i suoi dolori e i suoi segreti. Come tutti noi. Per quanto concerne questo scandalo della
Sanità...
Si passò una mano sul cranio, come faceva sempre quando era sconsolato.
- Tocca ad altri valutarlo. Quel che posso dire io è che...
In un lampo rivisse mentalmente la conversazione che aveva avuto sabato con Hanne Wilhelmsen dopo
che i bambini erano andati a dormire.
- Non credo che questo scandalo sia connesso all'omicidio.
A quel tempo Birgitte era una giovanissima mamma.
Indipendentemente da quanto gridano e si agitano tutti questi politici... no. Se, e sottolineo se, i decessi
infantili avvenuti nel 1965 fossero in qualche modo collegati a questo assassinio, penso che allora
dovremmo cercare una connessione con la figlia della Volter. Comunque, personalmente, non credo a
questa teoria.
Dopo essersi seduto, mormorò:
- La guardia giurata. E stato lui.
Aveva la mano davanti alla bocca quando pronunciò quelle parole, in modo che nessuno le sentisse. La
guardia non era di sua competenza. Tone-Marit Steen, che gli sedeva accanto, non riuscì a trattenere un
sorriso.
- Non cedi, - gli sussurrò prima di alzarsi su indicazione del capo della polizia.
- Billy T. non ha nominato l'arma, - continuò ad alta voce. - Come noto, la Nagant è stata usata per
l'omicidio, e come sappiamo adesso con certezza appartiene a Per Volter. Abbiamo perquisito
l'armadietto in cui vengono conservate le armi, dove abbiamo riscontrato la presenza di impronte digitali
di tutti i membri della famiglia, fatto che riteniamo normalissimo. Vorrei anche aggiungere che non ce
n'erano altre. Questo perché il ministero degli Affari esteri ha avuto la brillante idea di far ripulire a
specchio la casa da una ditta specializzata prima che noi potessimo effettuare le nostre indagini.
Tone-Marit fece una pausa eloquente.
- Una sbadataggine, si può ben dire. Be', a questo punto credo che per il momento dobbiamo
accontentarci di affermare che l'arma è stata sottratta in qualche modo dall'abitazione, anche se non ci
sono segni di scasso. Purtroppo non possiamo stabilire né data né ora del furto, visto che Per non apriva
l'armadietto da Natale.
Si sedette sul bordo del tavolo, contorcendosi verso i presenti alle sue spalle.
- Billy T. si è incaponito su questa guardia giurata del palazzo del governo, - riprese sorridendo al
collega. - E io sono d'accordo con lui. C'è qualcosa, qualcosa che non sono ancora riuscita a definire.
Non l'ha fatto nessuno di noi. Ma che quel tipo abbia mentito su alcuni dettagli, ne sono certa. È una
sfortuna che sia morto. Un gesto davvero irriguardoso, devo proprio dire.
Mentre alcuni ridacchiavano, il procuratore capo le lanciò un'occhiata al fulmicotone. La poliziotta
assunse un'espressione di falsa gravità prima di strizzare l'occhio a Billy T.
- Al contrario della maggior parte delle persone coinvolte in questo caso, sappiamo che la guardia era a
tutti gli effetti sul luogo del crimine. Elemento non insignificante, dal momento che il nostro problema
maggiore, oltre a riuscire a definire un possibile movente, è quello di stabilire se qualcuno avesse la
possibilità di uccidere la Volter. Per questo motivo continuiamo a lavorare per scoprire se la guardia
avesse legami con qualche ambiente preciso. Ecco perché speravo in una collaborazione più stretta... un
aiuto maggiore da parte...
Tone-Marit lanciò un'occhiata di sfida al capo dei servizi di sicurezza, che sedeva come una sfinge. Billy
T. era impressionato: la collega non aveva paura di niente e di nessuno.
- Poi è stata la volta di Benjamin Grinde, - riprese lei spostando lo sguardo sul capo della polizia. - Vuoi
che ne parli io? O forse il responsabile della Omicidi...
Il capo della polizia eseguì un gesto rotatorio e impaziente con la mano destra e Tone-Marit continuò:
- Iniziamo dalla scatoletta portapillole su cui sono state rilevate le impronte di Birgitte Volter, Wenche
Andersen e Benjamin Grinde. All'esterno. Ciò significa che probabilmente la scatoletta è finita nelle mani
di Grinde di recente. Questo tra l'altro quadra con la testimonianza di Wenche Andersen. All'interno non
c'erano impronte. Cosa significhi il portapillole, o se significhi qualcosa, è impossibile dirlo.
Si passò l'indice sulla fronte prima di guardare il capo della polizia.
- Avrei dato non so cosa per trovare una lettera d'addio scritta da quell'uomo. Perché non c'è ombra di
dubbio che Benjamin Grinde si sia tolto la vita. Nessun segno di scasso nell'appartamento, nessun indizio
che possa far pensare ad atti di violenza e di costrizione nei suoi confronti.
L'appartamento era pulito e in ordine, e nel camino abbiamo trovato della cenere, quindi Grinde ha
deciso consapevolmente di liberarsi di carte private in suo possesso.
I documenti che aveva invece portato a casa dall'ufficio erano in ordine e in bella vista, in modo da non
creare problemi alla persona che se ne sarebbe occupata dopo la sua morte. Però niente lettere, cosa
insolita.
- Forse non aveva nessuna spiegazione da dare a nessuno, - disse piano il capo della polizia.
Tone-Marit alzò lo sguardo dai suoi appunti, una piccola scheda su cui aveva scritto le parole chiave e
che teneva) nella mano sinistra.
- A volte ne vediamo, - proseguì il capo della polizia appoggiando i gomiti sul tavolo. - Li chiamiamo
suicidi ordinati. Tutto è pianificato e curato nei minimi dettagli.
Semplicemente la fine di una vita, che in un certo senso viene cancellata. Come se non ci fosse mai stata.
Triste.
Tristissimo.
- Ma la madre... e Grinde aveva amici. Amici molto cari.
- Gli doveva qualcosa?
Il capo della polizia sembrava molto partecipe e Billy T. cercò di nascondere la propria meraviglia.
Quell'uomo aveva assunto l'incarico sei mesi prima e lui, come la maggior parte dei suoi colleghi, era
scettico. Il suo nuovo capo aveva scarsa esperienza sul campo e aveva lavorato poco nella polizia, solo
due anni all'inizio degli anni Settanta in qualità di giurista a Bodo. Poi era stato giudice di Corte d'Assise
per undici anni, un background che non poteva certo dirsi ideale quando lo avevano messo alla guida
della centrale di polizia più grande e più turbolenta di tutta la Norvegia. Invece si era fatto le ossa. Nelle
ultime due settimane aveva impressionato positivamente tutti quanti. Li teneva uniti e li sapeva
coinvolgere.
Stavano lavorando come pazzi, ma nessuno si era ancora lamentato delle tante ore di straordinari non
retribuite.
Una prestazione degna di un vero capo.
- Il suicidio è un argomento interessantissimo, - continuò il superiore appoggiando la schiena alla
poltroncina, consapevole del fatto che tutti lo seguivano con attenzione. - Cupo e molto avvincente. In
linea di massima si potrebbe dire che la differenza tra noi, che ogni tanto e nei momenti più neri
valutiamo l'ipotesi di toglierci la vita...
Sorrise, un sorriso nuovo, da ragazzino. D'improvviso a Tone-Marit parve attraente, nella camicia stirata
di fresco dell'uniforme a cui, a dispetto del regolamento, aveva arrotolato le maniche. C'era in lui
qualcosa di giovanilmente mascolino, qualcosa di impavido e al contempo di molto forte.
- La differenza tra noi e gli altri è che noi pensiamo all'effetto che una morte del genere avrebbe sui nostri
cari.
Ci rendiamo conto della tragedia che si abbatterebbe su chi rimane. Allora stringiamo i denti e dopo
qualche mese la vita ci appare migliore e più luminosa...
Si alzò per andare alla finestra. Fuori stava smettendo di piovere, ma la coltre di nubi premeva grigia e
umida sopra l'enorme prato verdognolo che si stendeva a triangolo tra l'edificio della centrale, il
penitenzario e Gronlandsleiret.
Sembrava stesse cercando un codice nascosto nel disegno di gocce ricamato sul vetro, quando proseguì:
- Quello che possiamo definire il vero candidato al suicidio pensa l'opposto. Pensa che le cose
miglioreranno per le persone che lo amano, e per questo sceglie la morte. Si sente un peso. Non
necessariamente perché ha commesso qualche errore, ma forse perché il dolore che prova è così... così
insopportabile che contagia anche i suoi cari, rendendo la vita impossibile a tutti. Crede. Così si uccide.
- Accidenti, - esclamò Billy T. senza volere. Non aveva mai sentito un superiore pronunciare il verbo
«amare» prima di quel momento.
- Guardate Grinde, - riprese il capo della polizia facendo finta di non aver sentito l'esclamazione. - Un
uomo di successo. Molto bravo. Molto rispettato da tantissime persone. Nutre numerosi interessi, ha
buoni amici.
Poi succede qualcosa. Qualcosa di così terribile da... deve aver preso quella decisione dopo averla
vagliata con cura.
Ha acquistato le pastiglie, ha lasciato tutto in ordine... il dolore era insopportabile. A cosa era dovuto?
Si girò di colpo allargando le braccia come se invitasse tutti i presenti a suggerire i motivi che potevano
aver spinto al suicidio un uomo del quale di fatto non sapevano molto.
- Non hai nominato l'onore, - disse Billy T. con voce soffocata.
- Cosa?
Il capo della polizia lo fissò intensamente, con occhi fiammeggianti. Billy T. si pentì di aver parlato.
- L'onore, - borbottò comunque. - Come nella Madama Butterfly.
Il capo della Omicidi sedeva a bocca aperta, quasi non avesse la più pallida idea di cosa stessero
parlando.
- Chi non può vivere con onore, muore con onore. O qualcosa del genere, - spiegò Billy T.
Appena capì che poteva continuare, alzò la voce.
- Quando i massimi esponenti della società vengono presi con le mani nel sacco, capita che decidano di
togliersi la vita. Di solito ci facciamo una nostra idea, no?
Pensiamo che la persona in questione fosse imbarazzata, che l'onta sarebbe stata troppo grande eccetera,
eccetera.
Normalmente siamo portati a credere che questo tipo di suicidi siano una prova di colpa. Si è commesso
un errore madornale e non si ha più la forza di affrontare il mondo. Questo però non è... non sempre è
così!
Forse non si desidera più continuare a vivere pensando al disonore, che si sia colpevoli o meno!
- O per esempio, - si permise di interrompere Tone-Marit Steen, - può trattarsi di qualcosa che il
candidato suicida ha commesso e che magari risulta... magari risulta moralmente esecrabile, ma non
necessariamente punibile per legge. Da questo punto di vista la stessa azione può essere valutata in modo
diversissimo da persona a persona.
Alcuni si stringerebbero a malapena nelle spalle pensando alle vittime, mentre per altri l'azione
commessa avrebbe una valenza morale così alta da...
- Con tutto il rispetto!
Il responsabile dei servizi di sicurezza Ole Henrik Hermansen, che fino a quel momento era rimasto
seduto immobile a guardarsi le unghie, picchiò il palmo sul tavolo.
- Non vedo il motivo di starcene qui a disquisire sui misteri del suicidio quando siamo sottoposti a tempi
di lavoro molto stressanti. Ci deve pur essere un limite!
Gli tremava l'angolo della bocca ed era più scuro in volto che mai. Facendo oscillare con violenza la
gamba, guardò con aria di sfida il capo della polizia.
Questi sorrise. Era una smorfia così carica di superiorità che persino il responsabile della Omicidi non
ebbe dubbi che si trattasse di un rimprovero, e per di più molto arrogante.
Il capo dei servizi di sicurezza era paonazzo. Si alzò per dire altro. Teneva le mani piantate sulla
superficie del tavolo come se lui fosse l'unico tra i presenti ad aver conservato il senno e a volersi
attenere alla realtà concreta.
- Se adesso potessimo accantonare queste altisonanti teorie, - disse con durezza prima di proseguire
quasi in falsetto, - avrei molte cose da raccontare.
Gli altri si guardarono. Quello si che era un cambiamento.
Forse una dissertazione filosofica sulle connotazioni più profonde del suicidio era proprio ciò che ci
voleva: Ole Henrik Hermansen avrebbe finalmente parlato!
- Prego, - disse il capo della polizia, sempre con il sorriso stampato sul viso.
- Vorrei cominciare porgendo le mie scuse, - esordì Hermansen aggiustandosi qualche capello in cima
alla testa. - Mi rendo conto che alcuni di voi si sono sentiti...
«sottoinformati», scusate l'espressione. Mi spiace, ma è stato necessario. Sappiamo tutti che la nostra
centrale ha il brutto vizio di lasciar trapelare informazioni alla stampa.
In modo a volte massiccio. Per questo abbiamo dovuto tener per noi molte cose.
Dopo aver scostato la sedia, andò all'estremità del tavolo.
- Se ritengo necessario condividere con voi le informazioni in nostro possesso, è perché mi pare che le
indagini stiano andando... in tutte le direzioni, per dirla così.
Mentre noi ci troviamo di fronte a qualcosa che consideriamo una svolta.
- Merda, - scappò a Billy T.
L'escapade del capo della polizia sul lato più spirituale dell'esistenza era stata molto eccitante, ma niente
era comparabile con gli indizi concreti.
- Ma questo significa, - continuò Hermansen, - che le informazioni che riceverete vanno usate con la
massima cautela. Se diventassero di dominio pubblico, le indagini rischierebbero di crollare come un
castello di carte e noi ci ritroveremmo con un pugno di mosche in mano.
- Più o meno come fin da quando abbiamo iniziato, - grugnì Billy T., azzittendosi subito quando Tone-
Marit gli sferrò un calcio nello stinco.
- Ci è parso interessante che l'ultima conversazione sostenuta da Birgitte Volter prima di morire abbia
riguardato, presumibilmente, quello che adesso è stato battezzato lo scandalo della Sanità. In questi ultimi
giorni abbiamo letto con grande attenzione i giornali.
«Tipico, - pensò Billy T. - Non fate altro che leggere giornali, tagliare, incollare e raccogliere».
Intelligentemente tenne la bocca chiusa: era impossibile fraintendere l'occhiata di Tone-Marit.
- Non per altro. La maggior parte delle notizie che compaiono, le conosciamo già. E molte di più.
Hermansen fece una pausa a effetto, godendosi il momento: tutti lo seguivano attenti, finalmente qualcuno
aveva qualcosa di concreto.
- Un certo numero di paesi alleati aveva relazioni commerciali limitate con la Germania democratica
negli anni 1964 e 1965, - disse il capo dei servizi di sicurezza ad alta voce mentre camminava avanti e
indietro di fronte agli ascoltatori, come un professore pedagogicamente corretto. - Si trattava di una
strategia che rientrava in un'operazione di più ampio respiro sotto la regia degli americani e che
riguardava lo scambio di prigionieri tra Est e Ovest.
I tedeschi orientali avevano posto come condizione di poter importare merci non reperibili ed esportarne
di loro in Occidente. In questo modo si assicuravano sia prodotti che valuta pesante.
Billy T. non riusciva a capire il punto di tutto quel discorso e si mise a tamburellare con le dita fino a
quando un'occhiata del capo della polizia lo costrinse a smettere di colpo.
- La Norvegia si dichiarò disponibile a esportare metallo ferroso e a importare tra l'altro medicinali. Si,
in effetti in quel periodo tutta una serie di prodotti attraversarono i confini tra Est e Ovest, ma non è
necessario scendere nei dettagli. L'importante è tenere presente che ciò avvenne in collaborazione con gli
Stati Uniti, i nostri alleati più stretti, ma per una buona causa: riavere gli agenti occidentali e i
diplomatici arrestati. Gli Stati Uniti portarono avanti quel tipo di commercio in scala ben maggiore della
nostra, ovviamente, anche se era in netto contrasto con la dottrina Truman e se ne parlava molto poco ad
alta voce.
Va ricordato...
Hermansen si sedette sullo schienale di una sedia con i piedi appoggiati sul sedile: una posa che voleva
essere giovanile e disinvolta.
- Ai tempi la Germania orientale non era neanche riconosciuta come stato, cosa che avvenne soltanto nel
1971.
La Rdt era un sistema estremamente chiuso e la cosa peggiore, vista con i nostri occhi, era che di fatto
non poteva far fronte ai suoi debiti.
Il capo della polizia aggrottò le sopracciglia.
- Ma - protestò flebilmente - non avevano un sistema finanziario?
- Certo che ce l'avevano, ma quanto valeva un marco tedesco orientale? Nulla! Per noi l'unica soluzione
fu quella di procedere a un vero e proprio baratto. Agli americani andò peggio. I tedeschi orientali
volevano soldi liquidi. In un certo senso possiamo affermare che gli Stati Uniti liberarono i propri uomini
pagando. Ingenti somme di denaro, e a scapito di uno dei più importanti principi di politica estera: si
deve trattare solo con ordinamenti che tutelano i diritti politici e umani fondamentali.
- Come se l'avessero mai seguito, - borbottò Billy T., il cui commento venne di nuovo ignorato. - Cosa
diavolo c'entra tutto questo con l'omicidio di Birgitte Volter?
- I servizi di sicurezza non erano coinvolti in queste relazioni commerciali, - continuò Hermansen
imperterrito. - Ma ne venivano informati di continuo. Era necessario, dal momento che dovevamo tenere
sotto controllo un certo numero di tedeschi orientali. Non ho bisogno di raccontarvi che abbiamo ancora
una serie di dossier risalenti a quel periodo...
Con un balzo scese dalla sedia e riprese a camminare avanti e indietro.
- Ciò che oggi ci interessa, è osservare più da vicino uno dei tedeschi orientali di cui invece non
possediamo nessun fascicolo. O per essere più precisi: un ex cittadino della Germania orientale. Kurt
Samuelsen. Nato nel gennaio 1942 a Grimstad. La madre era norvegese e si chiamava Borghild
Samuelsen. Il padre era un soldato della
Wehrmacht di cui non conosciamo il nome. Appena nato, il bambino fu mandato in un orfanotrofio, per
poi essere trasferito all'età di un anno nel Terzo Reich secondo le direttive del progetto Lebensborn.
Di colpo Hermansen interruppe quel continuo andirivieni.
Rimase con i piedi ben piantati per terra e le gambe leggermente divaricate, come nella posizione
militare di riposo: incrociò persino le braccia dietro la schiena.
- Dopo la guerra Kurt Samuelsen finì nel settore orientale.
Nessuno ebbe mai più sue notizie, nessuno chiese di lui. O meglio: la madre fece qualche sporadico
tentativo di ritrovarlo nel 1950, ma pochi erano disposti ad aiutare una donna che era stata rasata e che
nel 1945 si era fatta tre mesi di carcere. Ma nel 1963, in occasione di un viaggio di studio a Parigi, il
nostro amico Kurt Samuelsen decide di fare il grande salto. Ha ventun anni ed è uno studente di chimica
molto promettente. Si presenta all'ambasciata norvegese dichiarando di essere norvegese.
- Norvegese?
Nessuno guardò il capo della Omicidi, tutti volevano che Hermansen continuasse.
- Si. Possiede documenti e altre prove a testimonianza del fatto che lui è davvero Kurt Samuelsen. Gli
permettono di venire in Norvegia, dove si ricongiunge alla madre con grandi festeggiamenti. Persino i più
incalliti membri della Resistenza norvegese a distanza di così tanti anni, siamo nel 1963, sono felici del
commovente ricongiungimento di madre e figlio. Kurt Samuelsen viene accolto all'Università di Oslo,
facoltà di medicina. E uno studente molto capace e si laurea a soli ventiquattro anni. Parla un norvegese
perfetto dopo soli sei mesi, cosa che per qualche strana ragione rafforza la convinzione della madre che
il figlio perduto sia tornato.
Il capo dei servizi di sicurezza si interruppe di colpo e, senza chiedere il permesso, si accese una
sigaretta. Nella tasca aveva un posacenere da viaggio con tanto di coperchio, che appoggiò sul tavolo
davanti a sé. Dopo aver inalato con gusto, sorrise soddisfatto prima di continuare:
- Fino a quel punto tutti felici e contenti. Però nel 1968 Kurt Samuelsen ritorna nella Germania orientale.
Senza dirlo alla madre. Da quel momento, nessuno sa più nulla di lui.
Neanche Billy T. disse niente, ma si limitò a far schioccare piano la lingua.
- Mi da molto fastidio che fumi, - disse a un tratto Tone-Marit. - Non puoi spegnerla?
Dopo averle lanciato un'occhiata acida, il capo dei servizi di sicurezza obbedì.
- Quando la madre morì nel 1972, la famiglia non riuscì a trovarlo. Con il passare del tempo furono
eseguite delle ricerche e i servizi segreti occidentali lo scoprirono per caso in Bulgaria nel 1987. Fu così
che venne chiarito una volta per sempre che quell'uomo non era Kurt Samuelsen.
Si chiama Hans Himmelheimer. Il vero Kurt Samuelsen ha sempre vissuto a Karl Marx Stadt, l'attuale
Chemnitz, e non ha mai messo piede fuori dall'ex Germania orientale.
Neanche dopo la riunificazione. E adesso arriviamo al punto più interessante.
Si accorse che stava per prendere un'altra sigaretta, ma evitò di accenderla.
- Sono stati i nostri colleghi tedeschi a farci presente Hans Himmelheimer. Hanno trovato il suo nome
negli archivi della Stasi. Il nostro caro Himmelheimer è oggi capo della ricerca farmaceutica di un
colosso tedesco e indovinate quale?
- Pharmamed, - dissero Tone-Marit, Billy T. e il capo della polizia all'unisono.
- Esatto. Niente po' po' di meno. La Pharmamed era, come tutta l'industria, di proprietà dello stato ai
tempi del vecchio regime, ma a differenza di quasi tutte le altre, è riuscita a superare il processo di
privatizzazione in modo eccellente. Tra l'altro è l'unico fornitore e produttore di un tipo di siringhe
monouso che si rompono dopo essere state utilizzate una volta: un brevetto che vale oro ai tempi
dell'Aids. E Hans Himmelheimer era in Norvegia a marzo di quest'anno...
- Cosa?!
Il capo della polizia allargò le braccia, ma fu bloccato da Hermansen.
- Aspetta. Era qui a un congresso all'Oslo Plaza, dove ha alloggiato per quattro giorni. Con il suo vero
nome.
Alquanto azzardato, secondo me: ha corso il rischio che qualcuno lo riconoscesse. In fondo è vissuto in
Norvegia per cinque anni.
Fino a quel momento Ole Henrik Hermansen aveva goduto della situazione. Se n'erano accorti tutti
benissimo, ma in fondo se lo meritava. Era davvero sconvolgente quello che aveva appena raccontato. E
lo aveva fatto con stile.
Ora però era scesa su di lui una specie d'insicurezza.
Vagava con lo sguardo giocherellando incerto con la sigaretta.
- I nostri analisti sostengono che sarebbe un danno immenso per la Pharmamed se si venisse a sapere dei
vaccini.
Non tanto per il fatto che la società potrebbe essere ritenuta responsabile. E probabile che sotto l'aspetto
giuridico la sua forma societaria sia diversa dopo la privatizzazione e tutto il resto, ma si tratta del
nome...
Nessuno gli chiese cosa intendesse dire, anche se nessuno aveva capito.
- Il nome Pharmamed. Dopo la caduta del muro la società ha avuto una crescita enorme. Oggi vale molti
miliardi. E si chiama Pharmamed. Devo ammettere che non riesco a capire il motivo per cui non possa
cambiare nome, nel peggiore dei casi, ma a quanto pare costerebbe cifre da capogiro, inoltre sarebbe
difficile. Avere sul mercato un nome che goda di credibilità vale una fortuna, mi dicono. Questo scandalo
può intaccare la credibilità di tutta la società, il che sarebbe sinonimo di catastrofe in un'industria basata
sulla fiducia come quella farmaceutica.
E se ci atteniamo alla nostra teoria iniziale...
Il capo dei servizi di sicurezza si strofinò con forza la faccia, la pelle s'arrossò e per la prima volta
dall'inizio della riunione apparve veramente stanco.
- Lo scialle.
Hermansen fece segno al capo della Omicidi di smorzare le luci prima di appoggiare un lucido sul
proiettore: il disegno dell'uomo senza volto alle spalle di Birgitte Volter, lei con la testa coperta da uno
scialle e una pistola puntata alla tempia. L'immagine che avevano visto il primissimo sabato assunse un
significato nuovo.
- Immaginiamo per il momento di aver avuto ragione.
Lo scopo non era uccidere Birgitte Volter, ma minacciarla.
E cosa poteva essere più efficace che...
- Mostrarle che erano riusciti a entrare in casa sua e rubare la Nagant senza che nessuno si accorgesse di
niente!
Billy T. aveva quasi gridato.
- Ma... - balbettò il capo della Omicidi, - ma aveva il volto coperto dallo scialle! Non poteva vedere la
pistola!
Il capo dei servizi di sicurezza lo guardò con aria sconsolata.
- L'assassino può avergliela mostrata prima. Come ho detto la volta scorsa quando abbiamo visto questo
disegno, la mossa dello scialle è stata fatta per spaventarla ancora di più. Partendo da questa ipotesi, è
stata uccisa per sbaglio.
L'obiettivo doveva essere quello di fermare o limitare l'operato della commissione Grinde.
- Potresti aver ragione, - disse Billy T. - Si, proprio così.
Il livello del rumore nella stanza aumentò a mano a mano che i presenti si misero a discutere tra di loro la
svolta nuova e a dir poco clamorosa che aveva assunto il caso.
Il capo dei servizi di sicurezza pareva dubbioso mentre guardava gli altri, sembrava quasi che non
provasse nessun piacere a interromperli.
- Purtroppo, devo dirlo, questa non è l'unica pista che stiamo seguendo. Ieri il caso ha preso una nuova
direzione.
Si fece di colpo silenzio.
- Che direzione? - esclamò Tone-Marit Steen. - C'entra qualcosa con tutto questo?
- Con l'omicidio del primo ministro Volter, si. Con la Pharmamed, no.
In modo breve e conciso riferì dell'ingresso di Brage Hàkonsen nel caso. Gli ci vollero poco più di sette
minuti per esporre la situazione, inclusi il piccolo aereo che era precipitato (non si sapeva ancora se si
trattasse di un'azione di sabotaggio contro Goran Persson), il viaggio di Tage Sjògren in Norvegia in una
data critica, l'armamentario alquanto imponente di Brage Hàkonsen e il fatto che il giovane avesse pronti
cinque piani per attentare alla vita di sedici cittadini norvegesi di spicco e di cui erano specificate le
generalità. L'unico comun denominatore tra loro era che occupavano posizioni di rilievo e che parlavano
in modo troppo favorevole degli immigrati. Dopo aver emesso un lungo sospiro, aggiunse:
- Mi piacerebbe relegare quel tipo nella categoria degli idioti esaltati, ma i miei ragazzi sostengono che è
troppo codardo per uccidere davvero. Aveva la possibilità di scappare sparando quando lo hanno
arrestato: era in una stanza dove c'erano armi a sufficienza per rifornire un commando di tutto rispetto, ma
non ne ha avuto il coraggio.
Nel frattempo...
Si alzò nuovamente. Sembrava intorpidito. Tutti cominciavano a sentirsi stanchi, la riunione durava da
quasi tre ore e alcuni non vedevano l'ora di bere un caffè e fumarsi una sigaretta.
- Sostiene di conoscere chi lo ha fatto. E da l'impressione di sapere quello che dice.
Hermansen riferì come Brage Hàkonsen avesse descritto in dettaglio il modo in cui era stata spedita
l'arma.
- Allora sa più cose di noi, - esclamò Tone-Marit. - Abbiamo osservato per ore i filmati della posta
centrale ed è impossibile ricavarne qualcosa d'interessante. Se hanno le telecamere, dovrebbero
preoccuparsi che siano abbastanza buone da poter utilizzare le riprese!
- Brage dunque afferma di sapere. Ma vuole fare uno scambio.
- Uno scambio?
Il procuratore capo non aveva aperto bocca durante quella riunione interminabile, ma adesso il suo
sguardo luccicava dietro le lenti spesse degli occhiali.
- Dovremmo lasciarlo andare in cambio del nome? Non se ne parla neanche.
- Gli abbiamo spiegato che il nostro sistema non funziona così, - replicò seccamente il capo dei servizi di
sicurezza. - Lo sa che non è normale.
- E in questo paese non è neanche normale che venga ucciso il primo ministro, - borbottò Billy T., che
però non aveva voglia di mettersi a litigare con il procuratore capo.
Tanto sapeva sulla propria pelle che non sarebbe servito a niente.
- Be', facciamo una pausa, - dichiarò il capo della polizia. - Trenta minuti, poi ci rivediamo per decidere
le strategie future. Credo che sarebbe saggio unire il gruppo di Billy T. e quello di Tone-Marit.
- Yesss, - esclamò giubilante Billy T. prima di schioccare un bacio alla collega.
- Trenta minuti, - ripetè il capo della polizia. - Non uno di più.
- A volte sei proprio un bambino, Billy T., - sibilò Tone-Marit stizzita mentre si asciugava la guancia in
modo ostentato.

Ore 12.30, ufficio del primo ministro.

Non riusciva a calmarsi. Le sembrava di diffondere pettegolezzi, cosa che non poteva essere più lontana
dalla sua natura. Lavorava come segretaria per il primo ministro da undici anni e conduceva una vita che
corrispondeva a quell'impegno: tranquilla e precisa, senza eccessi e dentro una cerchia di persone che
nel corso degli anni avevano tentato di farla parlare, amici e conoscenti, qualche giornalista, ma lei
sapeva come comportarsi. Nel suo lavoro esisteva un codice d'onore. Se altri non erano così intransigenti
verso norme antiquate, non sarebbe stata di certo lei a tradire i propri ideali.
Il dubbio l'aveva tormentata. Aveva riflettuto per molti giorni, senza arrivare a una risposta che potesse
essere giusta. Non era più convinta del motivo per cui si era decisa.
Forse erano state la disperazione genuina e l'indecisione dell'amica, ma soprattutto la certezza che il
tradimento che aveva svelato era molto ma molto più deprecabile dell'indiscrezione di cui si era
macchiata nel raccontare tutto quanto al primo ministro.
Tryggve Storstein l'aveva ascoltata con attenzione e cortesia, ringraziandola con una voce gentile che
contrastava nettamente con l'espressione disillusa, quasi malinconica che aveva assunto quando lei era
uscita dal suo ufficio arretrando, ancora convinta di non aver agito nel modo giusto.
Le piaceva il nuovo primo ministro. Ovviamente era troppo presto per dirlo con sicurezza, inoltre non
desiderava porsi la questione se il suo capo fosse o meno di suo gradimento, però era impossibile non
trovarsi a proprio agio con lui. Anche se dava l'idea di essere distratto, quasi fuori posto a quella
scrivania enorme e arrotondata dietro cui se ne stava seduto con un'eterna ruga sulla fronte e la bocca un
po' contratta quando le chiedeva qualcosa dopo essersi schiarito la gola. Di solito andava a prendersi
tutto da solo. Era come se trovasse imbarazzante avere persone che lo servivano. Una volta le aveva
detto senza troppi giri di parole, mentre stavano per scontrarsi davanti alla macchina del caffè in cucina:
- Mi sento così stupido quando qualcuno compie questi gesti per me. La gente dovrebbe farsi il caffè e
venire a prenderselo da sola.
L'amica aveva pianto. Aveva sussurrato e singhiozzato piano, e si era passata sul viso in una danza
nervosa le unghie laccate di rosso, simili a grandi coccinelle senza macchie, quando, balbettante, le
aveva detto quello che le pesava.
Si era recata da lei perché era nella confusione più totale e perché Wenche Andersen non era soltanto una
vecchia amica, ma anche una specie di superiore: non formalmente, ma per via della sua esperienza e
abilità. L'amica lavorava nell'anticamera del ministro della Salute da quattro anni.
In effetti aveva ottenuto il lavoro grazie alle referenze di Wenche Andersen, cosa che a quest'ultima dava
un ulteriore senso di responsabilità.
- Era molto contento che glielo abbiamo detto, - la consolò a bassa voce al telefono, ma troncando subito
la conversazione quando entrò uno dei sottosegretari.
Il primo ministro Storstein le aveva richiesto esplicitamente di non riferire l'episodio a nessun altro. Era
venerdì e da quel momento in poi non era successo niente.
Perlomeno niente di cui fosse a conoscenza lei: tutto procedeva come sempre.
Squillò il telefono subito dopo che lei aveva riagganciato.
- Anticamera del primo ministro.
Era l'ufficio che gestiva le auto blu. Ascoltò concentrata per qualche secondo.
- Mettetelo in un sacchetto di plastica e mi raccomando: non toccatelo più di quanto avete già fatto.
Portatelo subito alla centrale di polizia. Chiedete di Tone-Marit Steen. Steen, si. Con due E. Telefono per
dire che state arrivando.
Il badge. Avevano trovato il badge di Birgitte Volter.
Era infilato tra lo schienale e il sedile di una delle auto governative, e non era saltato fuori prima delle
accurate pulizie di quel giorno.
Wenche Andersen alzò nuovamente la cornetta per parlare con la poliziotta giovane e simpatica che
l'aveva interrogata quella che sembrava un'eternità prima. Mentre componeva il numero, si accorse delle
mani. Parevano rimpicciolite, a parte la pelle che ricopriva in pieghe sottili i tendini e i tessuti, come
inerte e priva di forza. Si accarezzò lentamente il dorso di entrambe e per la prima volta dopo tanto
tempo si rese conto che stava invecchiando.
Si sentì pervasa ancora una volta dalla nostalgia del passato.

Ore 13.00, centrale dì polizia, Oslo, locali dei servizi di sicurezza.


- Se lo portiamo adesso davanti a un tribunale sarà un inferno, non lo capisci?
Severin Heger non aveva mai alzato la voce davanti al suo capo, ma adesso era in preda allo sconforto.
- Se lo si viene a sapere, ci bruciamo tutti i ponti!
Non ho mai sentito parlare di nessuno che sia riuscito a ottenere la custodia cautelare senza che la stampa
lo scoprisse.
Santo cielo, Hermansen, se la notizia si diffonde in questo edificio, non sarà niente rispetto all'udienza
preliminare!
Il capo dei servizi di sicurezza spingeva la mandibola avanti e indietro producendo uno strano clic: una
brutta abitudine che sua moglie era convinta di aver debellato molti anni prima. Adesso i denti si
spostavano lateralmente:
Hermansen pensava con una tale intensità che lo si sentiva scricchiolare.
- Capisco il tuo punto di vista, - borbottò mentre armeggiava con il bordo del sottomano. - Ma non
possiamo tenerlo dentro senza un'ordinanza del giudice. E qui da sabato mattina e oggi sarebbe l'ultimo
giorno di fermo.
Severin Heger congiunse le mani, cercando di trattenere la calma.
- Non possiamo chiedere a uno dei giudici fissi? - domandò piano. - Uno di quelli che usiamo di solito?
E poi lo trasferiamo in carcere stasera, quando il tribunale è chiuso.
Ole Henrik Hermansen si mise a guardare una specie di ragno che stava erigendo una costruzione
stupenda in un angolo del soffitto accanto alla porta. L'insetto sfrecciava con zelo avanti e indietro, ma di
colpo si trovò appeso in aria, sostenuto da un filo così sottile da risultare invisibile. Un moscerino si
dibatteva al centro di una ragnatela cercando invano di mettersi in salvo: il ragno l'aveva visto e si stava
avvicinando minaccioso lungo quella funicolare invisibile che aveva costruito da solo.
- Sta arrivando la primavera, - grugnì il capo dei servizi di sicurezza. - Vedrò cosa riesco a fare. Non
possiamo scegliere i giudici, Severin. Presenteremo tutti i documenti in nostro possesso. Telefonerò al
presidente del tribunale per vedere cosa posso fare per quanto riguarda l'ora. Nel tardo pomeriggio
sarebbe meglio che adesso.
- Devi riuscirci, - insistette Severin Heger prima di lasciare l'ufficio del suo capo per preparare la
documentazione.

Ore 16.03, ufficio del primo ministro.

Tryggve Storstein aveva appena fatto in tempo a insediarsi nel suo nuovo ufficio. In quella grande stanza
rettangolare che sovrastava Oslo, non c'era nessun oggetto di carattere personale. Neanche una foto della
moglie e dei figli. Neanche una tazza con scritto «Caro papà» o «Bravo ragazzo». Anche se avrebbe
meritato entrambi i complimenti. Almeno era ciò che pensavano i suoi figli, ma quella con «Il migliore
papà del mondo» a caratteri verdi su fondo arancione la teneva nel cassetto contrassegnato con
«Privato». Non si sentiva a proprio agio: nulla era di sua proprietà. Non l'ufficio. Non il lavoro. Non
tutte le persone che correvano ovunque e che avrebbero dovuto essere il suo «apparato». La stanza era
troppo grande, il panorama su quella città rumorosa e variegata era troppo imponente. Gli faceva venire
le vertigini. Ma aveva accettato, ed era sincero. Era la persona giusta per quel lavoro, anche se per il
momento i panni sembravano stargli un po' troppo grandi. Girava impacciato e aveva chiesto alla moglie
di annodargli tre cravatte ogni domenica sera. Sarebbe andato tutto bene, se soltanto avesse avuto a
disposizione il tempo di cui aveva bisogno. Chissà, forse si sarebbe persino abituato al fatto che nessuno
lo chiamava più per nome.
- La faccia entrare, - borbottò all'interfono quando Wenche Andersen gli comunicò a bassa voce che era
arrivato il ministro della Salute.
-Tryggve!, Ruth-Dorthe Nordgarden attraversò decisa la stanza diretta verso di lui, aprendo le braccia
per un abbraccio.
Lui la evitò mettendosi a sedere e concentrandosi su alcuni documenti insignificanti. Non alzò lo sguardo
prima che lei si fosse accomodata.
- Credo che tu conosca il motivo per cui volevo parlarti, - disse guardandola.
Ruth-Dorthe Nordgarden non aveva mai notato prima gli occhi di Tryggve Storstein. La colpirono come
una pioggia di frecce inaspettata. Erano sgradevoli, spalancati: per qualche motivo non erano più
rimpiccioliti da quella piega, in parte triste in parte timida, che spingeva a non soffermarsi sui bulbi
profondamente incavati.
Tryggve era cambiato. Adesso gli occhi erano il suo volto.
L'espressione di qualcosa di grande, di grigioverde che lei, riluttante e recalcitrante, riconobbe subito:
palese e smascherato disprezzo.
Arrossì di vergogna da capo a piedi, avvertì un prurito diffondersi sul palmo delle mani e, senza volerlo,
ricorse a una delle sue peggiori abitudini quando era nervosa: si grattò il collo.
- Cosa intendi dire?
Si costrinse a sorridere, ma i nervi facciali si rifiutarono, la bocca si torse in una smorfia di ammissione:
lui lo capì.
- Evitiamo di rendere questa situazione più imbarazzante del necessario, Ruth-Dorthe, - disse prima di
alzarsi.
Si fermò davanti alla finestra. Parlava alla propria immagine sul vetro, quel vetro spesso dai riflessi
verdognoli che avrebbe dovuto proteggerlo in caso di attentati esterni.
Sorrise a labbra strette: non aveva aiutato Birgitte.
- Sai cosa significa essere un politico? - le domandò.
- Ti sei mai soffermata a chiederti qual è lo scopo?
Lei non si mosse; il primo ministro la vide riflessa nel vetro, rigida. Soltanto la mano continuava a
scendere e salire instancabile lungo il collo esile.
- Avresti dovuto farlo. Ti seguo da molto tempo, Ruth-Dorthe.
Da molto più tempo di quanto tu faccia con me.
Non mi è mai piaciuto quello che ho visto. E non è mai stato un segreto.
Si girò di scatto. La fissò cercando di catturarne lo sguardo, ma anche gli occhi la tradivano: erano
concentrati su un punto oltre la spalla del primo ministro.
- Tu non hai ideali, Ruth-Dorthe. Mi piacerebbe sapere se ne hai mai avuti. È pericoloso. Senza ideali
perdiamo di vista il punto... la base stessa per cui facciamo politica. Tu sei un membro del Partito
laburista, dannazione!
Tryggve aveva alzato la voce. Gli si erano imporporate le guance, gli occhi erano diventati ancora più
grandi.
- Per cosa ci battiamo? Me lo sai dire?
Si chinò in avanti, appoggiò le mani sui braccioli della poltroncina di lei, il viso a soli trenta centimetri
dal suo.
Ruth-Dorthe percepiva il debole profumo del dopobarba, ma non voleva vedere. Non ce la faceva. Non
ne aveva le forze.
- Il pubblico là fuori... gli elettori, la gente... chiamali come ti pare. Perché devono votare proprio noi?
Perché noi vogliamo ripartire e ridistribuire, Ruth-Dorthe. Non siamo più rivoluzionari da un pezzo. Non
siamo neanche particolarmente radicali. Amministriamo una società di mercato e viviamo tranquilli in
uno spazio internazionale che viene controllato perlopiù dal capitale. A noi sta bene.
Sono mutate molte cose. Forse dovremmo cambiare: addirittura nome. Ma cosa...
Lei sentì il calore emanato dal viso di quell'uomo, sentì gocce microscopiche di saliva posarsi sul suo
volto in fiamme. Continuava a battere le palpebre, ma non osava girarsi.
- Giustizia, - le sussurrò. - Una ripartizione relativamente equa di tutto il latte e miele che circola là fuori.
Che non può mai...
Tryggve Storstein si raddrizzò di colpo, come se gli fosse venuto mal di schiena.
Tornò alla finestra. Le tenebre si erano impossessate furtivamente della città: insieme alla pioggia, erano
rimaste in agguato dietro le colline a est aspettando la sera. C'era stato un tamponamento fra due auto in
Akersgata. Vide due persone irate gesticolare mentre un autobus provava stizzito a salire sul marciapiede
e a proseguire.
- Non raggiungeremo mai la giustizia piena, - disse all'improvviso. - Mai. Ma per poter fare qualcosa,
per cercare di livellare le iniquità... sei mai stata nella parte orientale di Oslo?
La guardò attraverso il vetro: nel riflesso la pelle aveva un colorito verdognolo.
- Sei mai stata da quelle parti? Hai mai visitato nel quartiere di Toyen una famiglia di immigrati con
cinque figli, il gabinetto in corridoio e ratti grossi come gatti in cantina?
Per poi invece andare dall'altra parte...
Indicò con la mano le colline a ovest.
- Per vedere come stanno loro?
Ruth-Dorthe dovette morsicarsi l'interno delle guance per non crollare. Continuava a battere le palpebre.
Di colpo si accorse che stava per venirle un crampo alla mano sinistra, le nocche erano bianche, e cercò
di staccarla dal bracciolo.
- Non succede spesso di avere tempo per farlo, - riprese Tryggve Storstein.
La sua voce era cambiata, era dolce: come se stesse parlando a un bambino recalcitrante che aveva
bisogno di un ammonimento paterno.
- Troppo raramente si ha il tempo di pensare al perché.
Perché siamo in politica, ma a volte è doveroso farlo.
La voce era mutata ancora. Il primo ministro si sedette sulla sua poltroncina, le parole che sferzavano al
di là della scrivania.
- Tu fai politica per te stessa, Ruth-Dorthe. Per un tuo ritorno personale. Tu sei pericolosa. Tu non pensi
agli altri.
Non al partito, non alla maggior parte della gente. Soltanto a te stessa.
Questo non era disposta a tollerarlo. La sua vita stava per scomparire: era come trovarsi in mezzo a un
terremoto senza sapere se il terreno era solido o se l'abisso si sarebbe spalancato sotto i piedi da un
momento all'altro. Ma questo non era disposta a tollerarlo. Si gettò sulla scrivania, furibonda, afferrò il
fermacarte di vetro, lo sollevò minacciosamente.
- Adesso stai superando il limite, - sibilò. - Non dimenticarti che io sono vicesegretario generale del...
Lui scoppiò in una risata. Reclinata la testa all'indietro, rideva di gusto.
- E come tu lo sia diventata, è un mistero.
- Ma...
- Stai zitta!
Ruth-Dorthe Nordgarden si accasciò sulla poltroncina.
Teneva ancora in mano il fermacarte, lo stringeva, si avvinghiava a quella goffa figura di vetro azzurro
come se rappresentasse la sua ultima chance per qualcosa che non sapeva cosa fosse.
- Sei un'idiota, - continuò Tryggve Storstein, la voce carica di disprezzo. - Non sai nulla degli strumenti
moderni? Non sapevi che il fax conserva le ricevute di tutto quello che arriva e viene trasmesso, e che
registra tutti i numeri dei riceventi?
Cominciava a girarle la testa. Cosa poteva fare? Aveva del materiale su di lui. O no? Qualche vecchia
storia di donne, un'eredità... aveva sentito qualcosa, una cosa qualsiasi che potesse andare a cercare, a
ripescare, per buttargliela in faccia? Tryggve non poteva farle questo, non doveva...
- Sei così egoista da non vedere gli altri, Ruth-Dorthe.
Tu non li capisci. Ti esplodono in faccia quando meno te lo aspetti perché non trovi mai il tempo di
capire come vivono, cosa provano e come percepiscono il mondo. Per questo non sarai mai un politico.
Non lo sei mai stata. Tu desideri il potere per il gusto del potere. Il potere è il tuo afrodisiaco. Il
problema è che fai l'amore soltanto con te stessa. Non sai fare altro perché non ti piace nessun altro.
Ti rendi conto di cos'hai combinato passando di nascosto la relazione della commissione a «KA»?
- Ma, - tentò di replicare lei, la voce piatta e metallica.
- Io... conteneva unicamente la verità.
Le parve all'improvviso di aver trovato un'arma, a cui si aggrappò con entrambe le mani.
- Solo che tu hai paura della verità, Tryggve. Odi le persone come me, convinte che c'è bisogno di una
stampa libera... si, odi noi per cui la libertà di parola e una società aperta significano qualcosa di diverso
dai timbri con scritto «documento riservato»!
Lui ridacchiò. Faceva girare la poltroncina, a destra e a sinistra, a destra e a sinistra, senza smettere di
ridere.
- La verità! Chi sei tu per innalzarti aristocraticamente sopra gli altri e amministrare la verità come se
fosse la tua serva? Credi... - gettò la testa all'indietro ridendo esaltato, - credi che la verità sia qualcosa
che puoi distribuire a porzioni ai tuoi contatti personali nella stampa perché ti diano una mano ogni tanto?
Mi chiedevo, sai...
Adesso non rideva più, gli tremava la voce e lottava per non urlare.
- Mi domandavo come mai una come te... una persona sleale, incapace, impopolare e intrigante come te
sia sempre stata trattata in modo così incredibilmente leggero dai giornali. Perché non ti abbiano messo
alla berlina tanto tempo fa, è sempre stato un mistero. Per molte persone, non soltanto per me. Adesso lo
so. Li hai pagati. Li hai pagati con delle informazioni. Ah!
Tese la mano con un movimento brusco.
- Dammi il fermacarte!
Dopo aver abbassato lo sguardo, esitando, lei lo appoggiò sul bordo della scrivania. Rischiava di cadere
per terra, così il primo ministro dovette alzarsi dalla poltroncina per metterlo al sicuro.
- Non avrei mai creduto... non avrei mai pensato di dover istruire un ministro del mio governo sulle
regole del gioco alla base della democrazia. Non capisci, Ruth-Dorthe, che sei stata messa a occuparti
della Sanità di questo paese in nome del popolo norvegese? Invece ti sei servita dei tuoi poteri per ordire
una vendetta personale contro di me. Hai informato la stampa per essere la prima a commentare
l'avvenimento, mentre io sarei stato colto totalmente impreparato. Si tratta di un abuso di fiducia così
grande che... non trovo le parole. Un abuso di fiducia sia nei miei confronti sia verso coloro che
rappresenti. Con i frammenti di verità che hai lasciato trapelare, sei riuscita non soltanto a far vacillare la
fiducia e la credibilità del governo, ma hai anche contribuito a diffondere paura e congetture! Paura e
congetture! Ecco la tua verità!
Lui chiuse gli occhi e, quando li riaprì, l'espressione del suo viso era tornata quella di sempre: in parte
preoccupata, in parte umile. Questo le diede coraggio, e Ruth-Dorthe passò nuovamente al contrattacco.
- Ma la verità non può mai nuocere! È solo...
- Voglio dirti qualcosa io sulla verità, - replicò stancamente Tryggve a bassa voce. - È ovvio che deve
emergere.
In tutta la sua ampiezza. Riferirò al Parlamento. Non alla stampa. Anche i giornalisti sapranno tutto, a suo
tempo, ma è il Parlamento il destinatario designato in un caso così grave. Questo è l'unico modo di
procedere con la dignità richiesta dalla situazione. E nel frattempo...
Compose un numero di quattro cifre.
- Wenche, vuole essere così gentile da portarci due tazze di té?
Tolse il dito dal tasto e rimase in attesa.
Nessuno dei due disse niente prima dell'arrivo di Wenche Andersen. La segretaria aveva piccole chiazze
viola sulle guance, ma le sue mani si mossero sicure e salde nel momento in cui distribuì i piattini e le
tazze prima di versare il té a entrambi.
- Zucchero? - chiese a Ruth-Dorthe Nordgarden. - Latte?
Il ministro della Salute non rispose e Wenche Andersen non trovò giusto insistere. A piccoli passi lasciò
la stanza, ma riuscì a cogliere un sorriso d'incoraggiamento dal suo capo mentre richiudeva la porta.
- Sarai messa in amministrazione controllata, - le disse piano mescolando un cucchiaino di zucchero nel
liquido dorato. - Da adesso. Nessuna decisione di un certo significato verrà presa senza che io sia stato
consultato. Chiaro?
- Ma...
Qualcosa stava per accadere a Ruth-Dorthe Nordgarden.
La sua faccia aveva assunto un'altra espressione, era come se i tratti del suo viso si fossero ingigantiti: le
crebbe la bocca, il naso pareva tumefatto, gli occhi sembravano scavati in modo troppo grezzo, enormi
nel volto minuto. Le ombre proiettate dalla lampada sulla scrivania sottolineavano quelle proporzioni
sbagliate: un viso sottile dai tratti troppo grandi.
- Non puoi farlo! Non ne hai il diritto! Mettimi in minoranza nelle riunioni di governo, fallo pure, ma...
non hai nessun diritto di portarmi via la guida del ministero!
Tryggve Storstein continuava a mescolare il suo té, con un movimento circolare inutile che gli permetteva
di concentrare lo sguardo. Si fermò all'improvviso e, dopo aver leccato il cucchiaino, soffiò sulla
bevanda calda.
- L'alternativa è che tu dia adesso le dimissioni, - riprese. - Puoi scegliere tra due mali. O fai quello che
ti dico e ti sostituisco dopo le elezioni. In modo tranquillo^ e pacato e senza che nessuno sappia niente. O
te ne vai ora, e io rendo pubblico il motivo delle tue dimissioni.!
Rivelando tutto.
- Ma tu non puoi... il partito... Tryggve!
- Il partito!
Lui rise ancora, stavolta in modo più cordiale, come se davvero trovasse divertente la situazione.
- Tu non hai pensato al partito, - replicò stancamente.
- Adesso devi scegliere. Peste o colera.
Rimasero in silenzio per cinque minuti. Tryggve beveva il té e con le gambe allungate mentre sembrava
pensare ad altro. Ruth-Dorthe era come impietrita. Una lacrima solitària le scivolò lungo la guancia in
fiamme. Lui lo vide e per un attimo provò un senso di pietà, che allontanò immediatamente.
- Peste o colera, Ruth-Dorthe. La scelta è tua.
D'un tratto squillò il telefono. Sussultarono entrambi e Tryggve Storsteìn esitò prima di prendere la
cornetta.
- È per te, - disse laconico e sorpreso, porgendogliela.
Il ministro della Salute l'afferrò, come un manichino, con le membra rigide e i movimenti a scatti.
- Va bene, - disse dopo un attimo prima di restituire il telefono. - Mi vogliono alla centrale di polizia.
Subito.
Così il ministro della Salute Ruth-Dorthe Nordgarden lasciò il suo capo di governo senza comunicargli la
propria scelta.
Non aveva importanza.
Lui sapeva che non avrebbe mai accettato una sconfitta pubblica.
L'aveva distrutta. Lo sorprese il fatto di non avvertire nessun pentimento né dolore. Se si metteva in
ascolto, sapeva di provare pena per lei. Ma era tutto.
Qualcuno avrebbe dovuto distruggerla molto tempo prima.

Ore 23.10, centrale di polizia, Oslo.

- Non so, merda.


Billy T. si strofinò il viso emettendo un suono con le labbra come se fosse appena riemerso dall'acqua
gelida.
- Ma la sua spiegazione è credibile. C'è qualcosa in quella donna...
Si contorse disperatamente tentando di raggiungere un punto della schiena con le dita.
- Gratta, Hanne, gratta! Là! No, no, più su, di lato. Li, si.
Hanne Wilhelmsen alzò gli occhi al cielo, insistendo a grattare brutalmente lo stesso punto per cinque
secondi.
- Ecco. Siediti.
Hanne sorrise a Hàkon Sand, apparentemente indifferente verso qualunque cosa non riguardasse il bebé,
che non dava segno di voler lasciare la pancia della mamma.
Compose un numero facendo segno agli altri di stare zitti.
- Oh, scusa, - disse con una smorfia. - Stavi dormendo?
Dopo aver ascoltato per un attimo, scoccò un bacio nella cornetta e riagganciò.
- Le sembra che le mie premure stiano diventando un po' eccessive, dato che la sveglio di continuo, -
sorrise stupidamente. - Ma sono così nervoso! Ho perso la riunione generale perché mi sembrava di
avere visto delle contrazioni nel pancione di Karen quando ci siamo alzati. Oddio, quanto è faticoso!
- Rilassati, - risposero gli altri due all'unisono. - Il piccolo arriva quando arriva.
- E una femmina, - borbottò Hàkon Sand mentre fissava il badge di Birgitte Volter, che si trovava in una
busta di plastica e che era già stato analizzato per il rilevamento delle impronte.
Quelle di Ruth-Dorthe Nordgarden erano molto evidenti.
Due: una del pollice e una del medio della mano destra. L'espressione del suo viso, quando l'avevano
messa di fronte ai fatti, era stata di sconcerto totale e assoluto.
Con un po' d'aiuto, di tempo e di pause di riflessione, balbettando le era venuto in mente che Birgitte
l'aveva perso nella sala dei ministri in Parlamento un mese prima.
Ruth-Dorthe l'aveva raccolto e, dopo averla raggiunta di corsa, glielo aveva restituito. Era l'unico motivo
che poteva fornire per spiegare la presenza delle sue impronte sul badge di Birgitte Volter.
- Se avesse voluto usarlo per davvero, si sarebbe premurata di cancellare le impronte prima di lasciarlo
nella macchina in modo che qualcuno lo ritrovasse, - commentò Hanne stancamente. - Da quanto ho
capito, i ministri non hanno sempre la stessa macchina e Tone-Marit ha detto che sia Birgitte sia Ruth-
Dorthe hanno usato insieme la stessa auto parecchie volte nelle due settimane antecedenti l'omicidio.
- Credo a quella donna, - acconsentì Billy T. - Come dicevo, c'è qualcosa di ripugnante in tutta la sua
figura, comunque un vicino l'ha vista uscire con la spazzatura alle sei e mezzo il giorno dell'assassinio.
Devo ammetterlo, trovo singolare che nessuno sia riuscito a telefonarle per tutta la sera, ma lei sostiene
che voleva soltanto stare tranquilla a casa e aveva staccato tutto.
- Ruth-Dorthe è solo un serpente nel paradiso, - disse Hanne piano. - Una che confonde le indagini con
tutti i suoi segreti costringendoci a odiarla. Cosa diavolo ci ha trovato Roy Hansen in una strega così?
- Basta che respirino, - ridacchiò Billy T.
- Si, sai tutto al riguardo, - sbottò Hanne. - Ma per piacere! Dai!
- Anche se corro il pericolo di sentirmi dare del maschilista di merda, Hanne, io credo che sia stato un
intrigo ordito dalla nostra amica Ruth-Dorthe. Le altre collezionano francobolli e lei colleziona segreti e
uomini da prendere per le palle a tempo debito. Ha l'intelligenza e l'aspetto per farlo. Comunque, con chi
va a letto non ci riguarda. A meno che non abbia importanza per il caso, e non ce l'ha. Ne sono convinto.
Hàkon sbadigliò prima di guardare l'orologio.
- Adesso devo andare a casa. Se la piccola non spinge per uscire entro le prossime ventiquattr'ore,
insisto per il taglio cesareo.
Sulla soglia dell'ufficio di Hàkon c'era un uomo, arrivato così silenziosamente che nessuno aveva notato
la sua presenza.
- Severin Supremo, - lo salutò Billy con entusiasmo.
- Anche tu in piedi fino a tardi?
- In piedi da un giro completo dell'orologio, adesso, - rispose l'altro salutando Hanne con un cenno del
capo.
- Come sei abbronzata! A casa in vacanza?
- Una specie. Come stai?
- Bene. Vorrei scambiare due parole con te, Billy T.
Fece un cenno con la nuca.
- Certo, - disse Billy T. - Andiamo da me.
Si fece largo in quell'ufficio stretto e, mentre scavalcava Hanne, rovesciò un portapenne.
- Ci vediamo giù nell'atrio tra dieci minuti, - le disse, mollando una pacca sulla schiena a Severin Heger.
Poi si girò e, infilato il busto nella stanza, mormorò in modo che tutti potessero sentire:
- Lei dorme nel mio letto matrimoniale, Hàkon. Insieme a me!
- Che scoop, - borbottò Hanne Wilhelmsen decidendo in quel momento di dormire da un'amica.
Ma pensandoci bene, era troppo tardi per telefonare.

Martedì 22 aprile 1997


Ore 07.35,ìens Bjelkes gaie 13.

Jens Bjelkes gate 13 sembrava non esistere per nessuno: la via si trovava troppo a est per appartenere al
quartiere di Grùnerlokka e troppo a ovest per quello di Toyen. Al numero 13 c'era una palazzina
dimenticata sia da Dio sia dall'Ente per il rinnovamento dell'edilizia cittadina. La tecnologia moderna
non era mai arrivata fino a quel caseggiato grigio, scrostato. Sul portone non c'era neanche il citofono,
così Hanne Wilhelmsen e Billy T. attraversarono l'androne buio.
- Questa è follia pura, - commentò Hanne. - Non capisco come intendi gestire la situazione. Perché non ci
hanno pensato i signori dei servizi di sicurezza?
- Senti, in questo periodo si stanno facendo tutte le paranoie di questo mondo per via delle critiche che
gli sono piovute addosso negli ultimi anni. Li hanno girati e strizzati come calzini. E un miracolo che
esistano ancora, - rispose Billy T. fermandosi.
- Accidenti! Da quand'è che stai dalla loro parte?
- Ma va'! Però siamo tutti d'accordo che dobbiamo avere dei servizi di sicurezza.
- Tutti... - borbottò Hanne riprendendo a camminare.
- Aspetta. Severin sa qualcosa che ufficialmente non potrebbe conoscere. Forse si tratta di informazioni
ottenute in modo illegale, che ne so. Comunque...
Dopo aver abbassato la voce, mise un braccio intorno ad Hanne e avvicinò il viso al suo.
- Hanno messo dentro quel Brage di cui ti parlavo. Ieri pomeriggio. Per il momento è accusato
unicamente di violazione del 104a, ma sperano in una svolta sull'omicidio della Volter. Il problema è che
il tipo ha un alibi per la sera dell'assassinio, era al pub, allo Scotchman, insieme a un nazi svedese.
Almeno venti persone lo possono testimoniare.
- Il che non esclude l'eventualità di un complotto, - disse Hanne pensosa.
- Esattamente! E quello che Severin non può sapere per vie ufficiali, è che questo Brage aveva legami
con la guardia giurata!
-Cosa???
- Non chiedermi come. Immagino che nei piani alti della centrale si trovi un certo numero di dossier
illegali.
Comunque: io l'ho sempre detto che la guardia c'entrava in qualche modo. Sempre!
D'un tratto una ragazzina spuntò dal portone. Era magra e dinoccolata, e li fissò con malcelata curiosità.
Mentre li superava, fece con la bocca un enorme palloncino di gomma da masticare rosa, che esplose
ricoprendole la faccia a mo' di asciugamano bagnato e strappato.
- Ciao, - esordì Hanne con un sorriso.
- Ciao, - borbottò l'altra staccandosi dalla pelle i resti di gomma da masticare.
- Fermati un attimo, - le chiese Billy T. nel modo più gentile possibile. Non servì a molto: la ragazzina lo
guardò atterrita prima di allungare il passo verso la via.
- Aspetta, - esclamò Hanne, che la rincorse e l'afferrò per un braccio. - Volevamo soltanto chiederti una
cosa.
Abiti qui?
- Chi cazzo siete? - rispose lei arrabbiata. - Lasciami andare!
Hanne eseguì immediatamente: negli occhi della ragazzina brillava ancora una certa curiosità e quindi
sapeva che non sarebbe scappata.
- Conoscevi quello che abitava al primo piano? Con i capelli castani, magro?
La ragazzina li guardò e i due poliziotti rimasero sorpresi dalla velocità con cui la sua faccia cambiò
colore.
- No, - rispose secca tentando di allontanarsi.
Billy, che l'aveva anticipata, le sbarrò l'uscita.
- Riceveva spesso visite? - le domandò.
- Non lo so.
Era uno strano miscuglio di donna e bambina. Il corpo era esile, ma i seni erano già rotondi, non soltanto
un preludio a quelli che sarebbero spuntati. I fianchi erano mascolini e stretti, ma lei aveva già imparato a
muoverli in modo provocante, stereotipato. Le mèche dei capelli andavano dal rosso cupo al color caffè.
Sulla narice sinistra aveva un piccolo piercing. Gli occhi sotto le sopracciglia | tinte erano comunque
quelli di una bambina: grandi, azzurri e impauriti.
- Quanti anni hai? - le chiese Hanne cercando nuovamente di sembrare gentile: allargò le braccia e aprì il
palmo delle mani con fare intrigante, innocuo.
- Quindici, - sussurrò la ragazzina.
- Come ti chiami?
Di colpo la sua componente adulta prese il sopravvento, - Voi chi cazzo siete? - domandò ritentando di
sgusciare oltre Billy T.
- Siamo della polizia, - le rispose lui scostandosi.
All'improvviso il labbro inferiore della ragazzina si mise a tremare. Si nascose la faccia tra le mani.
- Fatemi passare, - singhiozzò. - Lasciatemi andare!
Hanne le mise un braccio intorno alle spalle mentre tentava di liberarle il viso. Le unghie che si
intravedevano sotto l'attaccatura dei capelli sulla fronte erano completamente mangiate.
- Lui non ha fatto niente di male, - sussurrò la ragazzina. - E vero!

Ore 11.00, centrale di polizia, Oslo.

Non ci volle molto a Billy T. per capire che non si sarebbe mai avvicinato alla verità. Non finché il
padre di Kaja fosse stato nella stanza. L'uomo doveva essere sulla cinquantina, ma l'alcol, il fumo e
un'alimentazione malsana gli avevano reso la pelle floscia e i pori dilatati. Sembrava un ultrasessantenne.
Quando tossiva, pareva che avesse un piede nella fossa e Billy T. si scoprì a portarsi una mano alla
bocca nel vano tentativo di mantenere a distanza batteri apparentemente mortali.
- Cazzo, - ansimò il custode. - Ho diritto a un avvocato, chiaro?
- Senta, - disse Billy T. guardando Kaja che, seduta come un fiore avvizzito troppo presto, non riusciva a
decidere di quale dei due uomini presenti in quella stanza avesse più paura. - O se ne sta qui seduto
mentre scambio due parole con Kaja, o faccio venire qualcuno dal Tribunale dei minori in qualità di
tutore. Scelga lei.
- Tribunale dei minori? Non hanno niente a che fare con noi. Rimango.
L'uomo intrecciò le mani sulla pancia. Qualcosa di rosso gli aveva lasciato una grossa macchia sulla
canottiera: sembrava che tenesse le mani su una carta della Norvegia. Si raschiò la gola con tanta forza
che per un attimo Billy T. pensò che avrebbe sputato per terra. Invece deglutì a fatica.
- Ma io ho diritto a un avvocato.
- No, non ce l'ha. Voglio solo parlare con Kaja. Non è accusata di nulla.
- Che me ne fotte. Kaja non ha fatto niente di male, comunque niente che c'entri con la polizia.
Billy T. guardò prima la ragazzina, poi il padre.
- Kaja non ce l'ha una mamma? - domandò ottimista.
- Forse potrebbe venire qui al posto suo, se ci sono problemi di tempo o altro?
- Sua madre è morta. Rimango io. Non posso andarmene quando i piedipiatti hanno messo le grinfie su
mia figlia.
Pareva quasi che a quell'uomo piacesse trovarsi in cen trale. Sul suo volto grigio e sudato si era dipinta
un'espressione nuova, soddisfatta. Si mise a trafficare nelle tasche dei pantaloni per prendere il tabacco.
- Vietato fumare, purtroppo, - borbottò Billy T. - Senta un po'.
Prese un blocco di carta sulla scrivania e, mentre compilava un modulo, continuò:
- Ora le do l'autorizzazione a servirsi della mensa. E al sesto piano. C'è anche il reparto fumatori. Intanto
io faccio due chiacchiere con Kaja, ma ovviamente non scrivo nulla fino al suo ritorno. Va bene?
Sorrise.
Il custode esitò mentre guardava prima il foglio compilato, poi Kaja, poi di nuovo il foglio.
- Cosa posso mangiare? - borbottò.
- Quello che vuole. Prenda quello che desidera.
Dopo essersi deciso, l'uomo si alzò ansimando.
- Ma nessuna parola per scritto prima del mio ritorno.
Chiaro? Neanche una parola!
- Certo che no. Faccia pure con calma. Ecco...
Billy T. gli porse oltre all'autorizzazione anche un numero della rivista per uomini «Vi Menn».
- Faccia con calma.
Lo spazio vuoto lasciato dal padre di Kaja era tangibile.
L'ufficio spartano parve crescere di volume, dando finalmente spazio a quella ragazzina gracile che
aveva smesso di mangiarsi le unghie, alla buon'ora. Adesso stava guardando fuori dalla finestra a occhi
socchiusi, come se si fosse dimenticata dov'era.
- Mi spiace per tua madre, - esordì con voce sommessa Billy T. - Mi spiace molto.
- Mmmh, - commentò la ragazzina impassibile.
- Avevi paura di lui?
Kaja si girò di colpo.
- Di mio padre?
- No. Di lui.
Lei scosse piano la testa.
- Forse gli volevi bene.
Billy T. si scoprì a pensare che la guardia giurata, un uomo che due settimane prima era seduto allo
stesso posto adesso occupato da Kaja, doveva essere stato una persona per cui era difficile provare
sentimenti diversi dal disprezzo.
Ma c'era qualcosa nello sguardo di quella ragazzina.
Qualcosa nei piccoli movimenti delle sue mani: intrecciava le dita, si toccava un anellino di metallo.
Continuava a non dire niente.
- Capisco che sei triste e dispiaciuta, - riprese Billy T.
- Ma cos'è che ti fa tanta paura?
Avvenne qualcosa, qualcosa che in seguito Billy T. avrebbe avuto problemi a spiegare: successe
velocemente e in modo inaspettato. Kaja ebbe una metamorfosi totale e, dopo aver allargato le braccia, lo
fissò negli occhi e alzandosi per metà dalla sedia gridò quasi:
- Credete che sia stato lui, ma vi sbagliate, voi pensate sempre il peggio della gente, ecco perché non
aveva il coraggio di parlarvi, invece voi credete che sia stato lui e... non è stato Richard! Non è stato
Richard! E adesso è morto e voi credete che...
Si accasciò sulla scrivania e, con la testa affondata tra le braccia, scoppiò in un pianto disperato.
- Non è stato Richard, lui ha solo... è a casa nel mio armadio, ma non per questo è stato lui, lui ha solo... è
nell'armadio e io non so... Richard...
Billy T. chiuse gli occhi. Si sentiva stanco. Stufo. Per qualche motivo pensò a Truls. L'immagine del
bambino che cercava coraggiosamente di non piangere mentre il medico gli rimetteva a posto il braccio
prima di ingessarlo gli era rimasta impressa nella memoria: si passò una mano sul viso per cancellarla.
Riaperti gli occhi, guardò la ragazzina senza dire una parola.
Quanti giovani avrebbero dovuto versare lacrime più o meno coraggiose in un ufficio brutto e austero al
secondo piano della centrale, la zona blu, prima che quel caso fosse risolto?
Pensò al suo figlio minore, e al fatto che la vita non sarebbe stata più la stessa. La Norvegia non sarebbe
mai più stata quella di prima. Billy T. sedeva con una ragazzina davanti a sé, il germoglio di un bambino
trascurato, che probabilmente possedeva la chiave di tutto. Lei era in grado di raccontargli cosa era
successo veramente la sera del 4 aprile al quindicesimo piano del palazzo del governo, lei conosceva la
risposta è, se lui fosse riuscito a muoversi con cautela, poco alla volta gliel'avrebbe data. Ma non era
sicuro di averne la forza.
Pensò che Hanne Wilhelmsen presto sarebbe partita.
Glielo aveva detto quella mattina, in una frase di passaggio, con la bocca piena di cornflakes: le mancava
Cecilie.
Sarebbe partita presto.
Per un attimo che tentò di reprimere con forza, ebbe davanti agli occhi la madre furibonda di Truls
quando aveva visto il gesso bianco con su scritti i nomi dei tre fratelli più grandi: lettere indifese che il
figlio aveva mostrato con orgoglio alla mamma, al suo sguardo cupo e carico di rimprovero.
- Cos'è che c'è nell'armadio, Kaja? - le chiese.
- Lo scialle, - mormorò raddrizzandosi. - Lo scialle che il primo ministro indossava quando è stata
uccisa!
Billy T. si alzò di colpo. La sedia scivolò contro la parete e il poliziotto dimenticò all'istante di essere
troppo sfinito, troppo stufo. Troppo stanco di tutto.
- Lo scialle? Tu hai lo scialle? È stata la guardia a uccidere la Volter? Ascoltami, Kaja! È stato Richard
a uccidere il primo ministro?
- Mi ascolti quando parlo, - singhiozzò lei. - Non è stato Richard. Lui doveva soltanto... è partito uno di
quegli allarmi ed è salito da solo, il suo collega dormiva, credo...
Si asciugò gli occhi con il dorso della mano, ma il fiume di lacrime non voleva cessare.
- Ha preso la pistola. Va pazzo per le armi, ma... la donna era già morta quando è arrivato. Lui spara un
mucchio, ha quintali di riviste e libri... Richard ha il pallino delle armi... lui... la pistola era li, la donna
era morta, ha messo il revolver nello scialle e si è portato via tutta quella merda... poi ha avuto una paura
fottuta... avevo notato che era strano, una sera ero...
Arrossì. Gli occhi azzurri parevano più giovani che mai.
- Non dirlo a mio padre, - lo pregò con voce esile. - Non avevo il permesso di andare da Richard.
Promettimi che non dirai niente a papà!
- Fregatene di tuo padre, - abbaiò Billy T. - Mi stai dicendo che Richard ha semplicemente preso la
pistola che era a fianco di un primo ministro ucciso con un proiettile? Era pazzo?
- E a me che è venuta l'idea di spedirla per posta. Ho pensato che se la trovavate, potevate scoprire chi
era stato, ecco. L'abbiamo pulita per bene e poi sono andata all'ufficio postale centrale... mi sono
dimenticata i francobolli.
Ma avevo i guanti.
- Ma lo scialle, - gridò quasi Billy T. - Perché non avete spedito anche quello?
Kaja si contorse sulla sedia: guardò con desiderio il pacchetto di sigarette preso dallo zainetto a forma di
panda che teneva sulla schiena.
- Fuma pure, - disse Billy T. sbattendo sulla scrivania un enorme portacenere di lava laccata arancione. -
Perché non avete spedito anche lo scialle?
- Richard diceva... è più difficile pulire perfettamente uno scialle. Aveva paura di averci lasciato sopra
delle tracce che non saremmo riusciti a togliere. Diceva che è possibile rilevare le impronte dal cuoio e
non sapevamo se con la stoffa era uguale. Non potevamo neanche buttarlo nella spazzatura, perché... nei
film i piedipiatti controllano sempre i rifiuti, ecco, e allora era più sicuro tenere lo scialle per un po'.
Richard doveva andare in Germania e al suo ritorno sarebbe passato a prendermi quando... pa| pà odiava
Richard.
Il pensiero del padre le fece salire nuovamente le lacrime agli occhi: il suo volto si torse in una smorfia
di dolore.
- Stai tranquilla, - le disse Billy T., ora meno agitato. - A tuo padre ci penso io. Ti prometto che non ti
darà rogne.
Non sapeva se il sorriso con cui cercava di infonderle un po' di calma avrebbe sortito qualche effetto, ma
lui aveva fretta. Adesso voleva il mandato di perquisizione su cui aveva insistito tanto. Lo voleva adesso.
Afferrò la cornetta per parlare con Hàkon Sand.
- Mi spiace, - disse gentilmente la segretaria. - È andato all'ospedale di Aker. E cominciato il parto!
Billy T. imprecò senza ritegno prima di lanciare un'occhiata di scuse alla ragazzina, che lei non colse:
probabilmente era abituata a sentire di peggio.
- Tone-Marit, - abbaiò nella cornetta. - Porta con te il politiinspektor di turno e precipitati qui! Adesso!
Subito!
Kaja si era accesa la seconda sigaretta.
- Vengo anch'io? - chiese piano prima di espirare il fumo dall'angolo della bocca. - Così vi faccio vedere
lo scialle?

Ore 18.05, centrale di polizia, Oslo.

L'avvocato non era affatto stupido. Aveva capito tutto.


Ottenere due giorni di carcerazione preventiva era stato una mossa astuta. Brage aveva accettato di
rimanere in prigione fino a mercoledì, per permettere alla polizia di riflettere. Erano riusciti anche a
evitare che la stampa venisse a sapere quanto stava accadendo. L'avvocato aveva insistito e minacciato
di chiedere un risarcimento se non avessero saputo mantenere segreto quel breve soggiorno in carcere.
Due giorni. Era il tempo che avevano a disposizione per pensare. Per meditare se volevano patteggiare
un accordo. Avrebbero accettato. Lui conosceva qualcosa che loro volevano. Due nomi. Quel deficiente
di Richard e la sua ragazza. Richard era stato un cretino: coinvolgerla in una cosa del genere! Brage
l'aveva vista, l'aveva seguita fino all'ufficio postale. Perché Richard non avesse voluto tenersi l'arma, non
lo aveva capito. Forse alla tipa era venuto il panico. Mocciosa, non poteva avere più di quattordici,
quindici anni.
Gli sbirri sbavavano per avere i nomi. Quell'Heger era rimasto sorpreso quando gli aveva fornito dei
dettagli che collimavano.
Sapevano che lui aveva due nomi che scottavano.
Brage Hàkonsen si spostò al centro della cella calda e appiccicosa per sdraiarsi sul pavimento di
cemento armato.
Eseguì i sit up senza pause e mantenendo lo stesso ritmo veloce per tutto il tempo. Novantotto,
novantanove. Cento.
Si mise a sedere con le braccia intorno alle ginocchia.
Non era neanche particolarmente sudato.
Fino a quando aveva i nomi, i piedipiatti avrebbero patteggiato e lui sarebbe tornato libero.

Ore 22.30, Motzfeldts gate 14.

Seduta su una vecchia poltrona con un Jack Daniel's liscio, a Liten Lettvik mancava il sapore del
successo. Era sempre così. La sensazione breve e intensa di trionfo del momento, poi il vuoto. Bisognava
andare avanti. Non c'era niente di più morto e insignificante di un quotidiano del giorno prima. Tra
qualche mese quasi nessuno si sarebbe ricordato che era stata lei a smascherare quella storia.
Che ore magnifiche. Screditare Ruth-Dorthe davanti a un pubblico numeroso era stata la cosa più bella
che le fosse riuscita. Le occhiate in parte di apprezzamento in parte invidiose dei colleghi le avevano
fatto bene. Alcuni, i più giovani, quelli che non avevano ancora molto da difendere, erano stati espliciti:
si erano accalcati entusiasti intorno a lei chiedendole come avesse scoperto così velocemente della
Pharmamed.
Se solo avessero saputo.
Quando ci pensava, avvertiva una fitta sotto lo sterno.
Malessere: fissò il whisky con espressione di rimprovero prima di stringere il pugno sinistro sullo
stomaco.
Forse non avrebbe dovuto farlo. Aveva sfruttato qualcosa di vecchio e in un certo senso di... prezioso.
Sputò fuori quella parola prima di appoggiare il bicchiere con un tonfo.
Certo che aveva dovuto farlo. Nessuno sarebbe mai venuto a sapere niente perché nessuno ne sapeva
niente.
Mai. Mai in tutti quegli anni... trentatre.
Suonarono alla porta.
Il punteruolo si conficcò sotto il plesso solare, costringendola a piegarsi dal dolore.
Il campanello riecheggiò per la seconda volta. Tentò di alzarsi, ma raggiunse la porta quasi piegata in
due. Aveva la fronte imperlata di sudore.
- Liten Lettvik?
Non ebbe bisogno di chiedere chi fossero i due uomini.
Ne riconobbe uno: lavorava nei servizi di sicurezza.
- Si, - gemette.
- Vorremmo che ci seguisse alla centrale di polizia. Dobbiamo parlare con lei.
- Adesso? Alle dieci e mezzo di sera?
L'uomo più alto sorrise. Liten Lettvik percepì nei suoi occhi il disprezzo, quindi spostò lo sguardo
sull'altro, che era più giovane, più piccolo, ma che la fissava senza battere ciglio.
- Sì. Sicuramente sa anche il motivo di tutta questa fretta.
La giornalista era sul punto di svenire. Si aggrappò a tentoni allo stipite della porta e chiuse gli occhi per
fermare la stanza che girava.
Lo sapevano. Cazzo, lo sapevano.
Dopo che ebbe preparato la sua borsa capiente e si fu infilata il cappotto, la colpì per un attimo un
pensiero che si affrettò a scacciare.
Pensò a come si doveva essere sentito Benjamin Grinde.

Mercoledì 23 aprile 1997


Ore 17.30, ospedale di Aker, Oslo, clinica ostetrica.

Hanne Wilhelmsen studiava il visetto piccolo e rugoso.


La neonata raggrinzì la faccia, gli occhi erano due fessure gonfie. Assomigliava a un topino appena
venuto al mondo, però miagolava. Gemeva come un gattino mentre le labbra si contorcevano sdentate,
tremando insoddisfatte.
La pelle era rossastra e il volto asimmetrico, con delle ciocche sparute di lanugine rossiccia vicino alle
orecchie.
Nella fontanella, che sembrava troppo aperta, il pulsare era ritmico e veloce: pareva quasi che la piccola
fosse priva di calotta cranica. Era impressionante.
- Non è stupenda? - sussurrò Karen Borg. - Non è la bambina più deliziosa che tu abbia mai visto?
- Sii... - mentì Hanne Wilhelmsen. - E bella. Tutti i bambini lo sono.
- Non è vero, - protestò Karen, continuando a sussurrare. - Hai visto quel maschio laggiù? Sembra una...
scimmia!
Ridacchiò, ma dovette asciugarsi il fiume di lacrime che le scendeva dall'occhio sinistro.
- Sono potuta venire soltanto io, mi spiace, - disse Hanne. - Hàkon è in tribunale ed è importantissimo che
questa richiesta di carcerazione preventiva vada a buon fine.
Arriva non appena avrà finito. Ha promesso...
- Tieni, - la interruppe Karen sollevando l'involto di cotone con dentro una bebé di ventiquattr'ore e
porgendolo all'ispettore capo. - Senti che meraviglia!
- No, no, - disse Hanne Wilhelmsen, ma fu costretta a cedere: Karen non sembrava abbastanza forte da
riuscire a sorreggere a lungo la bimba a braccia tese.
Era tutt'altro che bella. Hanne appoggiò senza pensare il viso su quello della neonata. Aveva un profumo
fantastico: un odore dolce, buono che le fece venire la pelle d'oca. La piccola aprì gli occhi
all'improvviso, pozzi profondi, incolori, dall'iride non ancora definita.
- Ha un'aria così saggia, - sussurrò Hanne. - Ha gli stessi occhi di mia nonna. Come si chiamerà?
- Non lo sappiamo ancora. Non riusciamo a metterci d'accordo. Hàkon vuole un doppio nome, come
abbiamo fatto con Hans Wilhelm, ma a me non piace per le bambine.
Vedremo.
- Dyveke, - disse Hanne piano prima di baciare delicatamente la fronte della piccola, la cui pelle
morbida le fece il solletico alle labbra. - Ha l'aria di una che si chiama Dyveke.
- Vedremo, - rise Karen. - Siediti qui.
Dopo essersi accomodata con precauzione sul bordo del letto, Hanne porse la bambina alla madre.
- È stata dura?
- La puoi mettere nel lettino? - le chiese Karen prima di fare una smorfia. - Alla fine hanno deciso per il
taglio cesareo e mi fa un male cane piegarmi.
Hanne appoggiò con prudenza il fagottino in una specie di vaschetta di plastica dai sostegni lunghi e le
rotelle: per sicurezza scosse leggermente quella culla precaria.
- Non sembra molto solida, - commentò scettica. - Taglio cesareo?
- Si. Non sentivano più il battito cardiaco del feto.
Si mise a piangere. Karen Borg piangeva disperata. Ogni tanto rideva scusandosi e cercando di
asciugarsi le lacrime, che però continuavano a scendere implacabili: non riusciva a fermarle.
- Non capisco perché mi comporto così, ma ho pianto tutto il giorno. Per fortuna sono riuscita a darmi un
contegno quando stamattina sono arrivati Hans Wilhelm e mia mamma. Mio figlio è stato così carino,
lui...
Hanne si alzò per spingere un paravento davanti al letto.
Poi, dopo essersi riseduta, prese la mano di Karen.
- Piangi pure.
- Sono così contenta che sei venuta, - disse Karen tirando su con il naso. - Ma è Hàkon che dovrebbe
essere qui. Siamo stati noi a correre il rischio di perderla. È sana e bella e non dovrei piangere, ma...
Maledetta centrale, pensò Hanne. Non potevano mandare un altro politiinspektor} Si alzò ancora e
raggiunse un piccolo lavandino che si trovava accanto alla porta, lungo la parete corta. Sotto erano
impilati alcuni asciugamanini.
Ne bagnò uno nell'acqua fredda, lo strizzò e lo appoggiò sulla fronte di Karen.
- Avrebbe potuto morire, - sussurrò Karen. - Adesso sta bene, ma avrebbe potuto... se fosse morta,
sarebbe stata tutta colpa mia. Hàkon ha insistito a lungo per indurre il parto, ma io... sarebbe stata colpa
mia. Non ce l'avrei fatta...
Non terminò la frase, mentre tirava ripetutamente su con il naso. Poi appoggiò le mani sull'asciugamano
freddo coprendosi il viso.
Hanne dovette distogliere lo sguardo. Lo posò sulla piccola avvolta in una copertina rosa. Stava
dormendo e vicino alla testa c'era un coniglietto giallo dagli occhi sbarrati che faceva la guardia. Viste le
circostanze, non pareva di grande aiuto: la mamma della neonata non riusciva a calmarsi.
Era quello che doveva aver provato Birgitte Volter. La notte di San Giovanni del 1965. Con la
sostanziale differenza che lei non aveva potuto consolarsi con il fatto che la bimba era sopravvissuta. La
sua era morta. A soli tre mesi.
- Liv Volter Hansen, - mormorò Hanne al coniglietto giallo: aveva incisivi di cotone incredibilmente
grandi che si piegavano in modo allegro e innaturale nella parte bassa.
- Cos'hai detto? - singhiozzò Karen, un po' più calma. - Liv cosa?
Hanne sorrise scuotendo la testa.
- Pensavo alla figlia di Birgitte Volter. Quella che è morta. Birgitte Volter doveva stare...
- Malissimo, - completò la frase Karen, che a fatica si tirò a sedere sul letto. - Non posso immaginare
niente di più brutto.
Sorrise debolmente, sembrava che si stesse riprendendo.
- Ho capito che è scoppiato l'inferno, - continuò. - Ho sentito il notiziario.
- Sì. Sono passata al volo dal tribunale per le udienze preliminari. C'era una folla di giornalisti da non
dirsi: mai visti così tanti. Prima richiesta di carcerazione preventiva in questo caso d'omicidio...
sembravano impazziti. Prendilo come un complimento che sia toccato a Hàkon. La prossima volta che
partorirai, speriamo che non interferisca l'assassinio del primo ministro.
- Non ci sarà una prossima volta, - gemette Karen, adesso sorridendo per davvero. - Non se ne parla
neanche!
Ma questo significa che il caso... è risolto?
- Sarebbe un'affermazione un po' esagerata, ma si tratta sicuramente di una svolta. In questo sono
d'accordo.
Hanne si guardò intorno. La donna del letto accanto aveva ricevuto la visita del padre del neonato, e
tenevano i volti quasi appiccicati mentre parlavano piano, gli sguardi rivolti a un fagottino azzurro:
probabilmente la scimmia.
La terza donna, in fondo alla stanza, era scura di pelle e aveva intorno a sé cinque adulti e due bambini
piccoli che si inerpicavano sul piumone facendo un gran baccano.
Hanne si alzò. Passò dall'altra parte del letto dando così le spalle al resto della stanza, poi, sottovoce,
prese a informare la puerpera sugli avvenimenti del giorno prima.
- Billy T. era delusissimo dopo la perquisizione. Hanno trovato una montagna di libri che parlavano di
armi, un certo numero di riviste sospette e quattro armi regolarmente denunciate. Nient'altro. A eccezione
di un piccolo dettaglio che a Billy T. non è bastato, ma che ha fatto esultare Hàkon. Una rubrichetta rossa.
Quella della guardia giurata, e sotto la H di Hàkonsen c'era scritto il nome di Brage, con tanto di
indirizzo, ma senza numero di telefono. Allora abbiamo...
Chinatasi sull'amica, notò che, nonostante la stanchezza che le traspariva dagli occhi, Karen era molto
interessata.
Hanne si mise a contare sulle dita.
- Uno: abbiamo i piani elaborati da Brage per compiere gli omicidi, oltre a una collezione alquanto
insolita di armi. Due: anche se nega nel modo più assoluto di aver conosciuto la guardia, ha affermato
davanti a un collega di sapere dettagli di cui non avrebbe potuto avere idea, se non avesse avuto qualche
contatto con quel tipo. Pensava di essere furbo, invece si è scavato la fossa con le sue stesse mani. Ah!
Ridacchiò e, dopo essersi ravviata i capelli dietro l'orecchio, mostrò un terzo dito che appoggiò sul
piumone.
- Tre: la rubrica è la prova che esiste un qualche legame tra i due. E la guardia giurata è...
Si interruppe raddrizzando la schiena.
- La guardia è stata fin dall'inizio la pista migliore. Se ha ucciso Birgitte Volter, possiamo allora
dimenticarci il particolare che ha causato così tanti grattacapi alla polizia: come ha fatto qualcuno a
entrare in una stanza che era praticamente sigillata? Lui era li. Aveva un'arma.
- Ma come se l'è procurata una pistola che in realtà apparteneva al figlio della Volter?
- Accipicchia, - commentò Hanne. - Mi stupisci! Su questo hai ragione. Non lo so. Comunque... la guardia
è la pista migliore, e adesso...
Guardò l'orologio con un sorriso.
-... e adesso, all'udienza preliminare, Brage Hàkonsen se la fa sotto mentre il tuo brillante marito... no, a
proposito, non si dice così, il tuo brillante compagno... insomma... mentre Hàkon sta convincendo un
giudice che esistono prove che giustificano l'iscrizione di Hàkonsen nella lista degli indagati.
- Ma c'è di più, - disse Karen, togliendosi l'asciugamano dalla fronte.
- Vuoi che te lo bagni e te lo strizzi ancora?
- No, grazie. Ma tutto questo non fa presupporre una condanna finale? Se adesso ottenete un'estensione
della custodia cautelare e avete la possibilità di fare altre indagini mentre Hàkonsen è dietro le sbarre?
- No, - disse Hanne. - Siamo ancora lontani da una condanna. Questo tu lo dovresti sapere!
- Kaja potrebbe avere ragione, - commentò Karen.
- Forse sta dicendo la verità.
Hanne si tese verso la culla e afferrò il coniglietto che fungeva da guardia. Mentre gli accarezzava le
orecchie, annuì. Con lo sguardo vagava per la stanza, che profumava di neonati e detersivo.
- Esattamente. Kaja può aver detto la verità.

Giovedì 24 aprile 1997


Ore 06.50, Stolmakergata.
- Hanne! Svegliati!
Billy T. scrollò piano il braccio di Hanne, che, sdraiata in diagonale, godeva nello starsene tutta sola nel
letto.
Due piumoni arrotolati in qualche modo la coprivano dalle anche in giù. Supina, teneva le mani sopra la
testa.
- Dov'eri finito? - borbottò girandosi sulla pancia.
- Spegni la luce.
- Abbiamo avuto un casino di roba da mettere a posto.
Tra carte e altro.
Brutalmente le strappò via i piumoni per piegarli e trasformarli in due cuscini giganti. Poi costrinse
Hanne a tirarsi a sedere, incurante delle sue proteste soffocate.
- Caffè e colazione, - le disse con tono falsamente allegro indicando il comodino. - E i giornali.
Accidenti, non parlano che dell'arresto di Brage.
Hanne sbadigliò a lungo prima di stirarsi. Poi, dopo essersi portata la tazza alla bocca in equilibrio
precario fece una smorfia quando si bruciò il labbro superiore.
Il «Dagbladet» era in cima. Tutta la prima pagina era occupata da una foto di Brage Hàkonsen mentre si
avviava dal tribunale a un'auto della polizia. Aveva la giacca ben tirata sopra la testa.
- Guarda, - disse Billy T., che era strisciato accanto a lei. - Sono io!
Battè la mano sulla foto.
- Mannaggia, quel Brage deve essere enorme, - commentò Hanne. - E alto quasi come te e Severin!
Detto questo, sfogliò il giornale fino a pagina quattro.

I NEONAZISTI HANNO UCCISO LA VOLTER


Estremista dì destra incarcerato per sei settimane
di STEINAR GRUNDE, VEBJ0RN KLAAS e SIGRID SLETTE
Ieri pomerìggio la polizia dì Oslo ha visto soddisfatta la sua richiesta di custodia cautelare per un uomo
dì 22 anni, accusato di complicità nell'omicidio del primo ministro Volter. Il capo della polizia Hans
Christian Mykland conferma a «Dagbladet» che l'arresto delventiduenne, legato da tempo agli ambienti
neonazisti, rappresenta una svolta nelle indagini. Il principale sospettato dell'assassinio è un uomo che,
travolto da una valanga, è deceduto sabato 12 aprile a Tromsdalen, vicino a Tromso.
«È importante sottolineare che le indagini procedono comunque a ritmo serrato e che la polizia segue
anche altre piste», afferma il capo della polizia Mykland.
Deceduto.
Nel corso di una conferenza stampa tenutasi ieri sera è emerso che sin dalla notte dell'omicidio la polizia
ha indirizzato i propri sospetti verso un uomo di ventotto anni che lavorava come guardia giurata presso
il palazzo del governo.
Benché lo avesse interrogato più volte, la polizia non aveva ritenuto di possedere prove sufficienti per
procedere all'arresto.
L'uomo è deceduto sotto la valanga che all'inizio del mese scorso è costata la vita a due persone in
prossimità di Tromso. Secondo la polizia sarebbe stato in contatto con il ventiduenne che ora si trova
sotto custodia cautelare.
Quest'ultimo sarebbe il leader di un gruppo d'azione neonazista.
Piani per alcuni attentati.
Nel corso della perquisizione | effettuata nella capanna dell'imputato, localizzata nei boschi del
Nordmarka, la polizia ha trovato un deposito d'armi e piani dettagliati per attentare alla vita di| svariate
personalità di spicco della società norvegese. La polizia non vuole commentare se Birgitte Voiter
rientrasse in questi piani, ma da quanto ha appreso «Dagbladet» il suo nome era in cima a una lista che
conteneva altre sedici persone di cui erano specificate le generalità.
Complotto.
Il ventiduenne è accusato di numerosi crimini, tra cui detenzione illegale di armi, e di aver progettato
«azioni di disturbo all'ordine costituito».
La polizia, negando che questi capi d'imputazione abbiano un fine tattico, ha visto soddisfare la propria
richiesta di custodia cautelare durante la recente udienza preliminare connessa all'omicidio di Birgitte
Volter. Anche se l'imputato ha un alibi molto solido per la sera dell'omicidio, secondo la polizia è uno
dei possibili basisti.
«Abbiamo motivo di credere che si tratti di un complotto», sostiene Hans Christian Mykland, che non
esclude altri arresti.
- Povero ragazzo, - disse Hanne grattandosi la radice del naso. - Rimarrà dentro per un po'. Comunque.
- Cosa vorresti dire con «comunque»? - replicò Billy T. irato. - Quello è colpevole fino alla punta dei
capelli!
Hanne non rispose, ma continuò a sfogliare il giornale.

IL PARLAMENTO PARALIZZATO
Messe in atto misure di sicurezza straordinarie.
di KJELLAUG STEENSNES
I parlamentari dì quasi tutti i partiti esprìmono dolore, cordoglio e choc per la svolta assunta dal caso
Volter. «Doveva accadere. È da molto tempo che mettiamo in guardia contro l'estremismo di destra, ma
come noto ì servizi dì sicurezza sono molto più impegnati a controllare e a registrare attività polìtiche
legali», dice il portavoce della Sinistra socialista Kaare Sverdrup, che ha il pieno appoggio del
rappresentante parlamentare dì Alleanza rossa per le elezioni.
I capigruppo di Partito laburista, Partito conservatore, Partito del centro, Partito liberale e Partito
cristiano popolare esprimono tutti soddisfazione per come la polizia sarebbe riuscita in breve tempo ad
avvicinarsi a una soluzione che spiegherebbe il motivo dello scioccante omicidio di Birgitte Volter.
Le misure di sicurezza che riguardano i nostri rappresentanti sono state notevolmente inasprite.
I responsabili amministrativi del Parlamento non vogliono entrare nei dettagli del tipo di misure adottate
né pronunciarsi in merito alla loro introduzione immediatamente dopo l'uccisione di Birgitte Volter. Il
«Dagbladet» ha motivo di ritenere che tutti i presidenti del Parlamento e i rappresentanti di maggior
rilievo abbiano al momento guardie del corpo ventiquattr'ore su ventiquattro, alcune provenienti dai
ranghi della polizia, altre reclutate da agenzie di sicurezza private.
Si rifiuta.
Fredrik Ivanov (Partito conservatore) dice al «Dagbladet» di essersi rifiutato di sottomettersi alle nuove
misure di sicurezza.
«Se ci pieghiamo agli elementi antidemocratici presenti nella società, abbiamo perso la battaglia contro
tutte le forme di estremismo», sostiene, aggiungendo anche che comunque ha trovato giusto mandare la
moglie e i figli in una località norvegese sconosciuta.
Ivanov è noto soprattutto come importante portavoce del partito e per la sua politica di massima apertura
verso gli immigrati:
«I tragici avvenimenti delle ultime settimane sottolineano a mio avviso come esista l'eterno bisogno di
porre l'attenzione sull'umanità, sulla generosità e sulla tolleranza».
Collaborazione.
Annema Brottum (Partito laburista) si sente insicura, incerta e addolorata: «Ci hanno sottratto qualcosa di
prezioso. La Norvegia non può più invocare una specie di innocenza periferica. Non siamo più un angolo
protetto all'estremità del mondo. Il che dimostra come sia importante ricercare una collaborazione
sovranazionale: soltanto grazie a impegni vincolanti e all'apertura tra i diversi paesi è possibile lottare e
reprimere la violenza politicizzata».
Satana.
Gora Veldin (Partito popolare cristiano) sottolinea che l'estremismo di destra è il risultato di una società
in decadenza. «Fino a quando noi politici non saremo disposti ad assumere come valori fondamentali i
principi morali, la società andrà in decomposizione, - dice. - Il vangelo dell'amore è scomparso, mentre
ciò che resta sono i valori materiali che fanno da sfondo a simili azioni sataniche».
Innocente.
«Per quanto ne so, non è stata ancora emessa nessuna sentenza. Un uomo è innocente fino a quando non
viene dimostrato il contrario». Vidar Fangen Storli (Partito del progresso) si rifiuta di rilasciare altri
commenti.
- Per una volta sono d'accordo con il Partito del progresso, - disse Hanne infilandosi il resto della fetta di
pane in bocca. - Perché devi tagliare sempre le fette così spesse?
- Non parlare con la bocca piena, - rispose bruscamente Billy T., che stava lottando con le pagine
dell'«Aftenposten» finite nella marmellata.
- Non noti niente di strano? - gli domandò Hanne prendendo «KA», anch'esso stracolmo di articoli su
Brage Hàkonsen, come tutti gli altri giornali.
- Si, - rispose Billy T. spazzando il lenzuolo con una mano. - Stai sbriciolando dappertutto! Tra poco
dovrò passare l'aspirapolvere sul materasso.
- Senti un po'! O accetti le conseguenze di una colazione a letto o non la servi.
Hanne gli sferrò un pugno sul braccio.
- Ahi! Smettila! Cos'è che mi hai chiesto?
- Qualche giorno fa i giornali erano convinti che esistesse un nesso tra lo scandalo della Sanità e
l'omicidio della Volter. Si sono scatenati raccogliendo commenti da tutte le parti, hanno scritto editoriali
sulle collusioni tra questo e quello, e poi voilà!
Cercò di schioccare le dita, ma si era sporcata il pollice di burro e il risultato fu un lieve svuosch.
- Basta un piccolo arresto e cambiano rotta. Adesso hanno... uno, due, tre, quattro, cinque...
Sfogliò rapidamente il giornale.
- Nove pagine! Che danno per scontato che la guardia giurata e Brage Hàkonsen sono i colpevoli! Nove
pagine!
Oltretutto quel tipo è ancora lontano anni luce da una sentenza di condanna. Non hanno memoria?
- Chi?
- I giornalisti, no? Non ricordano quello che hanno scritto una settimana fa?
- Si, ma...
Billy T. si grattò energicamente l'inguine con espressione scontrosa.
- Adesso stai dalla parte dei giornalisti? - disse Hanne ridacchiando. - Anche tu sei una banderuola come
loro.
Non grattarti] Vai in bagno se hai i pidocchi.
Lo schiaffeggiò duramente sulla mano.
- Adesso piantala. Mi fai male!
Dopo essersi strofinato il dorso, si spostò più a sinistra.
- In questo momento sono felice che tra poco te ne andrai.
- Non parli sul serio.
Strisciò verso di lui e, dopo avergli preso il braccio, se lo passò sulle spalle.
- A essere sincera non ho voglia di partire. La mia casa è qui, ma Cecilie mi manca tantissimo e lei...
parto sabato.
Billy T. la strinse forte.
- Lo so. Se davvero questo caso sta per essere risolto, verrò presto a trovarvi.
- Bene. Non puoi portare con te anche i tuoi figli?
Piegata la testa all'indietro, Billy T. la battè contro la parete prima di ridere sonoramente.
- Che bella idea! Immagino che Cecilie riuscirebbe a concludere molto se avesse per casa i miei
mascalzoni!
Hanne si alzò sul letto e lo guardò.
- Tanto lavora tutto il giorno! Pensa a come ci divertiremmo!
Sole, estate e bagni... possiamo andare a Disneyland!
Billy T. scosse la testa.
- Non ho i soldi.
- Porta soltanto Truls!
Lui l'allontanò da sé con una spinta.
- Vedremo. A proposito...
Si alzò e scomparve. Hanne sentì dei rumori provenire dalla cucina: un tintinnio metallico seguito da un
ululato.
- Domani Hàkon fa la festa d'addio, - le gridò superando il rumore dell'aspirapolvere.
- Smettila, - replicò Hanne catapultandosi per tempo giù dal letto. - Chi ci va?
- Io, te e Hàkon. E Tone-Marit, pensavo. Se non hai niente in contrario, vorrei invitare anche Severin.
- Cosa?
Hanne tentò di afferrare l'aspirapolvere. Dopo aver teso la mano sopra la testa, Billy T. passò ad
aspirare l'altro lato.
- Spegni!
- Okay, okay, - borbottò indispettito lui prima di premere l'interruttore. - Ti va bene se vengono Severin e
Tone-Marit?
Hanne, in piedi accanto al letto, scosse la testa, poi si grattò un piede con l'altro.
- Lo sai che non frequento i colleghi nel tempo libero, - disse piano. - Perché me lo chiedi?
Dopo aver buttato l'aspirapolvere sul materasso, Billy T. spalancò sconsolato le braccia.
- Ma Cecilie non è qui, e poi...
Strisciò verso Hanne cercando di prenderle la mano.
Lei la ritirò velocissima, fuori dalla sua portata e senza guardarlo.
- Per quanto tempo hai intenzione di continuare così? - le sussurrò. - Con questo tuo nascondino?
- Io non mi nascondo, - sibilò lei. - Ma avrò pure il diritto di scegliermi gli amici.
Si sbatté con violenza la porta alle spalle e poco dopo Billy T. sentì il rumore della doccia: persino
quella sembrava furibonda. Furtivamente andò a schiudere appena la porta.
- Ti va bene se vengono? - le gridò con la bocca nello spiraglio.
La voce era distorta come quella di un bambino piccolo.
Si accovacciò.
- Per favore!
Sentì una risata fievole, riluttante. Richiuse la porta e andò a telefonare a Hàkon Sand.

Ore 23. 45, Motzfeldts gate 15.

Liten Lettvik stava male. Si trattava di un'esperienza nuova e insolita. L'avvertiva come un'inquietudine
diffusa per tutto il corpo, un'angoscia inspiegabile. Qualcosa la mordeva in cima alla schiena, in un punto
dietro le scapole da cui partivano frecciate che la colpivano ovunque, riempiendola di un dolore cui non
esisteva rimedio. Aveva tentato praticamente di tutto, ma c'era un limite a quello che poteva fare quando
si rifiutava di consultare un medico.
Non l'aiutava neppure l'alcol, non riusciva neanche a ubriacarsi. Aveva cercato addirittura di farsi
passare il dolore nuotando.
Erano almeno vent'anni che non metteva piede nella piscina di Toyen, che a dire il vero non era cambiata
un granché. Era riuscita a fare a nuoto duecento metri prima che il suo corpo pesante e privo di
allenamento dicesse basta, così, quando si era lasciata cadere nella sauna con un asciugamano legato
intorno alla vita, il dolore era tornato.
L'umiliazione. Ecco cos'era. Il dolore di essere umiliata.
L'avevano guardata, penetrata con gli occhi e informata su quello che sapevano, pezzo per pezzo.
Avevano usato le telecamere? Una parte di quello che le avevano comunicato lasciava intuire che
sapessero esattamente cosa avevano fatto e come. Il solo pensiero le fece aumentare il dolore e
imporporare il viso. Tuttavia la cosa peggiore era che ne fossero a conoscenza da tempo. Forse da molti
anni.
Era stata ingenua. Immensamente ingenua. Liten Lettvik, una giornalista molto in gamba, pluripremiata e
ammirata, famosa per passare il potere al setaccio. Eppure lei non aveva capito che loro sapevano.
Forse aveva chiuso gli occhi perché in fondo era trascorso così tanto tempo. Tanto. Poche volte gli ultimi
anni, a dire il vero, e poi a marzo...
Adesso provava un dolore insopportabile e aveva le lacrime agli occhi. Si chinò in avanti per prendere
una lettera che le era arrivata quel giorno stesso, scritta in bella grafia, il francobollo incollato in modo
preciso e ordinato in alto, all'angolo destro della busta, la dentellatura intatta. All'inizio non aveva
compreso chi fosse la donna. Elsa Haugen.
Soltanto quando aveva fatto scorrere un paio di volte lo sguardo sulla missiva, le era venuto in mente. La
mamma della piccola Marie. Quella di Elverum. O era di Eidsvoll?, La lettera parlava di dolore e
disperazione e di una ferita riaperta.
Di notti insonni e di un comportamento offensivo.
Dopo aver sospirato profondamente, Liten Lettvik strappò la lettera.
Ne aveva già abbastanza del proprio, di dolore da gestire.

Venerdì 25 aprile 1997


Ore 21.35, Holmenveien 12.

Seduto a capotavola del grande tavolo da pranzo in pino, Oyvind Olve cullava un bebé. La piccola
eseguiva movimenti incomprensibili con le mani. Quando Karen Borg si chinò su di lui per prenderla,
Oyvind Olve non aveva nessuna voglia di farsela portar via.
- Che bella bambina, - disse commosso. - Come la chiamerete?
- Non sappiamo ancora, - rispose Karen. - Ragazzi!
Teneva la figlia appoggiata a una spalla e aveva un'aria stanca e tirata. Vederla così spiacque molto a
Hanne Wilhelmsen: non aveva assolutamente pensato che forse per
Karen non era il massimo avere la casa piena di gente il giorno stesso in cui era tornata dall'ospedale con
un neonato e dopo aver appena subito un'operazione.
- Vado a letto. Di sopra non sento niente, quindi divertitevi, mi raccomando. Cercate soltanto di fare
piano quando ve ne andate. Okay?
Hàkon Sand balzò in piedi.
- Ti aiuto!
- No, no, sta' lì seduto. Divertiti, ma ricordati che domani mattina presto ti devi occupare tu di Hans
Wilhelmsen.
- Ci penso io, - ruggì Billy T. - Lascia a me il ragazzino, Karen.
Karen non rispose, ma fece un piccolo cenno di saluto con la bimba prima di sparire al primo piano di
quella villetta di legno spaziosa e accogliente. Billy T. prese la bottiglia di vino rosso numero sei e l'aprì
con fare da intenditore.
- Spero che tu ne abbia abbastanza, Hàkon, - ridacchiò girando tra i presenti per riempire i bicchieri.
- No, grazie. Ho già bevuto troppo, - disse Oyvind Olve coprendo il suo con la mano.
- Hanne, che smidollato ti sei portata dietro? Non beve!
Oyvind Olve si sentiva tagliato fuori. Non capiva esattamente il motivo per cui Hanne aveva insistito per
farlo venire. Aveva incontrato Billy T. in altre due occasioni, in compagnia di Hanne e Cecilie, ma
quell'uomo gigantesco e rumoroso pareva essersi dimenticato di lui. Non conosceva invece gli altri.
- Domani devo guidare, - mormorò senza mollare il bicchiere.
- Guidare! Deve guidare! E allora?
- Adesso dacci un taglio, Billy T., - gli disse Hanne mentre gli mollava una pacca sulla spalla per
calmarlo e farlo sedere. - Non tutti riescono a tenere i tuoi ritmi, sai.
- Continua, Tone-Marit, - la incitò Billy T. accomodandosi. - Cos'è che dicevi?
Tone-Marit rideva: aveva le lacrime agli occhi. Poi, abbassando il tono di voce, imitò l'accento di
Kristiansand.
- «Forse non deve niente a nessuno». Billy T. si è messo a parlare di Madama Butterfly e di onore!
Dovevate vedere il capo della Omicidi! Aveva un'espressione da rincoglionito.
Sembrava un citrullo!
Gli altri scoppiarono a ridere, sorrise persino Oyvind Olve anche se non capiva cosa ci fosse di così
divertente nei racconti che Billy T. e Tone-Marit facevano di quanto era successo alla riunione generale
di lunedì.
- Non solo! - ruggì Billy T., rischiando di rovesciare la bottiglia con il bicchiere mentre si alzava per
battere il palmo delle mani sul tavolo. - A detta del nostro magnifico capo dei servizi di sicurezza, ci
eravamo spinti troppo in là con quelle considerazioni spirituali...
Quando, dopo essersi schiarito la voce, riprese a parlare, si era trasformato di colpo in Ole Henrik
Hermansen:
- «Con tutto il rispetto, capo! Non voglio buttare via il mio sudatissimo tempo con queste scempiaggini».
Hanne fu costretta a chiedere ai presenti di abbassare il volume: ridevano con un tale fragore che
difficilmente Karen avrebbe potuto riposare. A Tone-Marit andò di traverso un pezzo di patata e divenne
paonazza in viso. Billy T. si mise a batterle con forza sulla schiena.
- Però non è male che il capo della polizia si occupi di queste cose, - commentò Hanne.
- Suo figlio si è tolto la vita due anni fa, - disse Tone-Marit.
Era riuscita a liberarsi del pezzetto di patata e si stava asciugando le lacrime. - Quindi non dovremmo
ridere.
- Lo ignoravo, - commentò Hanne avvicinando il bicchiere alla guancia. - Come fai a saperlo?
- Io so tutto, Hanne. Assolutamente tutto!
Tone-Marit le sussurrò quelle parole in modo drammatico mentre la fissava. La guardò così a lungo che
Hanne dovette servirsi di altra carne alla griglia.
- Ma perché in questo contesto parlate di onore? - disse Oyvind Olve, che apriva bocca per la terza volta
da quando era arrivato.
Billy T. lo osservò a lungo prima di intrecciare le dita dietro la nuca.
- A essere sincero non so esattamente il motivo per cui ho tirato in ballo quelle cose. Quando si parla di
«integrità», sappiamo tutti cosa significa. Non facciamo altro che pensarci, ma «onore», invece... è
diventata una parola che ci fa abbassare lo sguardo dall'imbarazzo. Eppuresono due lati della stessa
medaglia. Provate a immaginare...
Dopo aver allontanato da sé il piatto con gli avanzi del cibo e delle salse, appoggiò le braccia sul tavolo.
- Immaginatevi Benjamin Grinde. Un bravo ragazzo per tutta la vita. Capace. Tutto gli va bene. Giudice e
medico e Dio solo sa cosa. Poi viene sputtanato e infangato sui giornali. Una settimana dopo si suicida.
Si deve poter pensare all'onore, no?
Hanne Wilhelmsen abbassò lo sguardo sul bicchiere. Il vino rosso brillava mandando strali di luce che le
colpivano gli occhi quando lo faceva ruotare.
- Forse, per quanto concerne Benjamin Grinde, la soluzione è davvero così semplice, - disse
sorseggiando il vino. - Ma ipotizziamo la successione degli avvenimenti.
Se Grinde si fosse tolto la vita per un altro motivo, soltanto le persone a lui più care avrebbero pianto la
sua scomparsa. La polizia avrebbe fatto capolino per constatare l'avvenuto suicidio e il caso sarebbe
stato chiuso.
Ma la morte così brusca e probabilmente autoinflitta di Grinde è avvenuta...
Spiegò un tovagliolo di carta prima di rubare una penna dal taschino della giacca di Oyvind Olve.
- Birgitte Volter è stata uccisa il 4 aprile.
Disegnò un puntino su cui scrisse il numero quattro.
- Sappiamo che le hanno sparato alla testa, con un'arma con cui l'assassino non poteva essere certo di
uccidere nessuno, neanche facendo fuoco a distanza ravvicinata. Non esistono tracce dell'omicida. Tre
persone in tutto hanno avuto qualcosa da sbrigare o solo nelle immediate vicinanze del luogo del crimine.
Mi riferisco all'ora in cui è stato commesso il delitto. La segretaria, la guardia giurata e
Grinde. Nell'arco di poco più di una settimana muoiono due dei tre, anche se erano tutte persone nel fiore
degli anni. Strano, no?
Sottolineò quel punto disegnando sul tovagliolo due minuscole croci.
- Inoltre...
- Ma Hanne, - intervenne Tone-Marit.
Hàkon si irrigidì: interrompere Hanne Wilhelmsen nel mezzo di un ragionamento veniva solitamente
punito con uno sguardo così gelido da chiudere la bocca alla maggior parte delle persone per molto,
molto tempo.
Sprofondò lo sguardo nel piatto da portata per evitare di essere testimone dell'umiliazione. Ma con sua
grande sorpresa notò che Hanne, appoggiatasi allo schienale della sedia, guardava benevolmente Tone-
Marit aspettando che proseguisse.
- A volte tendiamo a sovrainterpretare le cose, - disse Tone-Marit con enfasi. - Non sei d'accordo?
Insomma, la guardia giurata è morta per colpa di una catastrofe naturale e questo lo può decidere soltanto
Nostro Signore...
Arrossì per via di quell'ammissione religiosa, ma si affrettò a proseguire:
- Mi sembra molto strano che Benjamin Grinde si sia tolto la vita perché si è pentito dopo aver ucciso il
primo ministro, che oltretutto era anche una sua vecchia amica. Forse il suicidio non ha niente a che fare
con l'omicidio! Forse era depresso da molto tempo? Inoltre adesso possiamo dire di sapere con certezza
che l'arma era a casa della guardia giurata, ergo escludiamo Benjamin Grinde. O no?
- In un certo senso è quello che stiamo facendo. Perlomeno credo che possiamo escludere che a ucciderla
sia stato lui. Però il suicidio può comunque avere a che fare con il caso. Ma in un altro modo!
Nessuno disse niente, avevano smesso tutti di mangiare.
- Quello che voglio dire, - riprese Hanne spostando alcuni oggetti presenti sul tavolo per farsi più spazio,
- è che la sequenza degli avvenimenti a volte ci può confondere.
Stiamo cercando un disegno, in base alla logica, che in realtà non c'è!
Inclinata la testa di lato, si mise a tamburellare con la penna. I capelli le caddero sul viso e Billy T. si
girò verso di lei per ravviarglieli dietro l'orecchio.
- Sei così dolce quando ti infervori, - le sussurrò baciandola sulla guancia.
- Imbecille. Stammi a sentire invece. Se sei ancora abbastanza sobrio. Oltre alle due persone morte e ad
alcuni strani oggetti che erano scomparsi e poi sono stati ritrovati, abbiamo quasi rischiato una crisi di
governo. Non è vero, Oyvind?
Gli occhi dell'interpellato batterono dietro gli occhialetti.
Aveva ascoltato con interesse la conversazione, ma non era preparato a intervenire.
- Be', - esordì giocherellando con la forchetta. - In realtà ne abbiamo avute due. La prima durante la
formazione del nuovo governo, ed è andata abbastanza bene. Politicamente parlando ci troviamo con
molte più cartucce da sparare in vista della campagna elettorale: i nostri amici del centro non hanno
mostrato una gran voglia di subentrarci.
Si fermò per un attimo e Severin sfruttò quella possibilità: aveva bevuto troppo e sapeva che non era una
mossa molto astuta. Non era abituato a bere alcol e quindi ingollò una bella sorsata di acqua minerale.
- Ma tu parlavi di due crisi, - insistette. - Qual è la seconda?
- Lo scandalo della Sanità, ovviamente. Non si può definirla una vera e propria crisi di governo, ma è
stata dura.
Superata, direi. Tryggve se l'è cavata bene quando ha riferito al Parlamento. Inoltre sembra che funzioni
come un vero e proprio Valium nei confronti dell'opposizione, il fatto che nel '64 e nel '65 sono stati al
potere sia governi conservatori che socialdemocratici. Noi abbiamo dato ai tedeschi orientali metallo
ferroso di buona qualità, ricevendo in cambio vaccini avariati. A mio parere tutta questa faccenda dei
vaccini è un esempio del cinismo che dominava ovunque durante la guerra fredda. Nessuno l'ha fatta
franca. E hanno pagato anche centinaia di bambini.
Intorno al tavolo si fece silenzio. Sulle scale si sentì il rumore di piccoli passi.
- In un certo senso sono i bambini le vittime della guerra, - sospirò Oyvind, che di colpo voleva altro
vino. - Sono vittime di guerra come chiunque altro.
Un bimbo di due anni apparve sulla soglia accanto all'enorme, stupendo camino di selce. Aveva un
pigiama blu con impressi dei palloni da calcio e si strofinava gli occhi.
- Papà! Hassillem non riesce a dormire.
- Hassillem adesso sentirà delle belle storie della buona notte, - disse Billy T. alzandosi.
- Billitì, - sorrise il bambino tendendo le braccia verso di lui.
- Ci vogliono cinque minuti al massimo, - aggiunse Billy T. prima di scomparire. - Non dite niente di
importante!
- Hanne, - intervenne Hàkon, un po' ferito per il fatto che il bambino si fosse trovato subito bene con Billy
T. - Di due teorie... se tu dovessi scegliere tra la pista Brage - guardia giurata e quella della Pharmamed,
cosa sceglieresti? Perché una esclude l'altra, no? E a essere sincero io...
Si mise a raccogliere i piatti.
- Anyone for dessert?
- Oddio, ma allora è contagioso, - borbottò Tone-Marit.
- Devo cominciare a parlare inglese per far parte di questa compagnia?
- Yesss, - rispose Hanne dando una mano a sparecchiare.
- Che cos'hai?
- Gelato e fragole spagnole.
- Si, grazie, - disse Severin. - Tutti e due! Avevi un problema?
- Hanne ha appena detto che secondo lei la teoria iniziale del capo dei servizi di sicurezza è esagerata, -
spiegò Hàkon che, in piedi in mezzo alla stanza, aveva tre piatti in ogni mano. - E in effetti possiamo
essere d'accordo con lei. Suona un po' troppo avventuroso... che una importante casa farmaceutica di un
paese democratico mandi una squadra di assassini a liquidare il primo ministro di una nazione alleata e
ben disposta!
- In effetti è vero quello che dici, - fu il commento di Hanne, che aveva portato in tavola il gelato e le
fragole prima di distribuire i piattini da dessert. - Ma non devi mai porre limiti alla fantasia. Bisogna dire
che avevo qualche difficoltà a credere al caso Mannesmann quando è scoppiato.
Anticipò la domanda di Tone-Marit.
- La Statoil acquista in continuazione servizi e merci per miliardi di corone. I contratti valgono oro e la
leadership investe molto tempo e molte energie per impedire la corruzione all'interno della società.
Eppure c'è stato qualcuno che si è fatto pagare da un'impresa tedesca.
I dipendenti della Statoil hanno ricevuto regali modesti e la Mannesmann ha ottenuto un contratto per
fornire tubi alle piattaforme petrolifere. Non credevo che fosse possibile una cosa del genere. Non in
Norvegià.
E neanche in Germania, ecco. La morale è: nessuna morale oltre al profitto. E se prendiamo per esempio
il caso Thalidomide...
Avrebbe voluto mordersi la lingua. Nel momento in cui pronunciò quelle parole, le tornò in mente
qualcosa che le aveva raccontato Billy T. molti anni prima: la sorella di Severin Heger non aveva né
braccia né gambe. E un solo orecchio.
- Non c'è problema, Hanne, - disse Severin bevendo ancora. - Va bene così.
Imbarazzata, lei prese a girare il cucchiaino nel gelato, che aveva cominciato a sciogliersi.
- Hai sentito, Hanne! Ti dico che non ci sono problemi.
- Be', il Thalidomide, che in Norvegia è stato venduto con il nome di Neurodyn, era un farmaco contro la
nausea in gravidanza. Tra le altre cose. Mi sembra di ricordare che avesse anche un effetto calmante.
Veniva prodotto in Germania occidentale negli anni Cinquanta, e soltanto dopo che più di diecimila
bambini erano nati con malformazioni gravi un esperto di genetica riuscì a dimostrare e a convincere che
esisteva un nesso tra il farmaco preso dalle madri e i danni irreversibili riportati dai feti.
- Come diavolo fai a sapere tutte queste cose? - mormorò Tone-Marit.
- Io so tutto, - sussurrò Hanne guardandola negli occhi. - Assolutamente tutto!
Oyvin scoppiò in una fragorosa risata, ma Hanne continuò imperterrita.
- Per la ditta produttrice è stata una catastrofe. Richieste enormi di risarcimento, poi il fallimento. Anche
se la società poteva vantare una serie di altri farmaci eccellenti.
Nessuno voleva avere più niente a che fare con loro. E che mi crediate o no, cari amici...
Il gesto della mano li includeva tutti, compreso un enorme alligatore giallo seduto su una sedia vicino alla
finestra.
- Adesso sono quelli della Pharmamed a farsela sotto!
Anche se è passato molto tempo. Anche se ci sono altri proprietari. Il nome è infangato. La parola
«Pharmamed» sarà ricordata molto a lungo per colpa dei decessi terribili e tragici di quei neonati...
Per un attimo si sentì unicamente il raschiare dei cucchiaini sui costosi piattini di vetro della casa.
- Ma, - intervenne di colpo Severin., - anche se io di principio...
Farfugliava leggermente: «principio» era una parola difficile da pronunciare.
- Anche se io sono d'accordo con te sul fatto che non bisogna mai escludere niente e che i soldi sono la
forza motrice nella maggior parte delle cose...
Billy T. entrò come una furia nella stanza.
- Mi sono perso qualcosa?
- Dorme? - gli chiese Hàkon.
- Come un sasso. Gli ho raccontato due storie dell'orrore.
Era paralizzato dalla paura e adesso dorme sereno.
Dove eravate rimasti?
- Purtroppo devo informarti che la pista Pharmamed va esclusa, - disse Severin. - Non c'era nulla di
sospetto nella visita che Himmelheimer ha fatto qui a Oslo in primavera.
Era impegnato in tutt'altre cose, diciamo così...
- Severin, - intervenne Billy T. lanciandogli un'occhiata ammonitrice. - Qui non ci sono soltanto
poliziotti, sai...
- Lui, - disse Severin indicando Oyvind Olve. - Lui è abituato ai grandi segreti. Ha lavorato per il primo
ministro.
Ma adesso state a sentire...
Bevve un bel sorso di vino rosso.
- Quando abbiamo controllato i movimenti di questo Hans Himmelheimer, abbiamo passato prima in
rassegna l'hotel della Sas. Personale, servizio in camera, tabulati telefonici... tutto. Non ha fatto nessuna
telefonata strana.
Due a casa alla moglie in Germania, quattro all'ufficio della Pharmamed. Quello che la mogliettina non
sapeva, era che nella camera d'albergo di Herr Himmelheimer c'erano due persone. Oltre a se stesso,
aveva registrato anche una Frau!
- L'amante, - borbottò Billy T.
- Esatto! E adesso indovinate pure. Posso dirvi che è norvegese, ma probabilmente mi fareste il nome di
trecentosettantacinque altre donne prima di pronunciare quello giusto.
Nessuno si sentiva chiamato a risolvere il mistero. Billy T. aggrottò le sopracciglia in una smorfia
d'impazienza.
- La Frau era Liten Lettvik!
- Non è possibile, - disse Billy T.
- Quella di «KA»? - chiese Oyvind.
- Non ci posso credere, - mormorò Hanne.
- Liten Lettvik, - ripetè Hàkon.
Tone-Marit rise sonoramente e a lungo, gli occhi ridotti a fessure sottili sopra gli zigomi.
- Sst, sst, - farfugliò Severin muovendo il palmo delle mani su e giù sulla superficie del tavolo. - Vi devo
chiedere di fare silenzio. Si conoscono da anni. Si sono incontrati a Blindern nel 1964, all'epoca il
nomignolo di Liten «Piccola» Lettvik le si confaceva meglio. I due si vedono quando Hans è a qualche
congresso non in Germania. A Lipsia ha moglie e tre figli adolescenti, ma all'estero è rimasto fedele a
Liten. In fondo, una cosa carina.
Dopo aver svuotato il bicchiere, lo porse a Billy T. che glielo riempì con zelo.
- Siamo andati a prelevarla per interrogarla. All'inizio ha sibilato un mucchio di parole sulla tutela delle
fonti giornalistiche e altre stronzate simili, così non siamo riusciti a cavarle molto. Comunque è fuor di
dubbio che in qualche modo ha ricevuto le informazioni da lui. Probabilmente gliele ha carpite. Magari
durante un momento di passione?
- Ecco perché «KA» ha scoperto tutto in quattro e quattr'otto, - disse Hanne pensosa. - Me lo chiedevo e,
a essere sincera, ero anche impressionata.
- Comunque, - riprese Severin con un pesante sospiro - A Oslo Hans Himmelheimer non ha fatto altro che
partecipare a due riunioni e starsene a letto con Liten. Questo siamo riusciti ad appurarlo. E non abbiamo
compiuto nessun passo avanti che ci aiutasse a suffragare l'ipotesi che la Pharmamed c'entri con il caso.
Aveva cominciato a piovere. Hàkon si alzò e mise un ciocco nel camino. Un lampo tinse
improvvisamente di azzurro il giardino buio e bagnato, poi seguì il rombo di un tuono che fece sobbalzare
tutti. Si strinsero di più intorno al tavolo, avvolti da un'atmosfera confidenziale che li fece sentire più
amici di quanto non fossero. Persino Tone-Marit sorrise quando Billy T. l'accarezzò con dolcezza sulla
schiena nel momento in cui lei sussultò per via dello schianto.
- Odio i tuoni, - disse scusandosi.
- Ma perché in albergo? Liten Lettvik non abita da sola?
Hàkon Sand si grattò la testa.
- Ci ha detto che di principio lei non permette a nessun uomo di mettere piede in casa sua, - spiegò
Severin. - Dopo averla incontrata, ne sono più che convinta.
- Ma se la Pharmamed non è più una pista da seguire...
- esordì Hanne.
- Perlomeno niente su cui costruire, - la interruppe Severin, - il che non significa che non continueremo a
investigare, ma secondo...
Gli venne un rigurgito e deglutì.
- Secondo me è una pista morta. Soprattutto perché l'arma era a casa della guardia giurata, questo lo
sappiamo, e come la guardia sia entrata in contatto con la Pharmamed... be'... se fossero stati loro i
mandanti dell'omicidio, sarebbero stati più professionali. Un altro tipo d'arma e sicuramente un altro tipo
di collaboratore che quello scarmigliato.
No, dimentichiamoci la Pharmamed.
- E dimentichiamoci anche la guardia, - sentenziò d'un tratto Billy T. - Per me è stato un incubo per tre
settimane, ma a pensarci bene, era uno senza spina dorsale. Permettere che la sua ragazza, una
quìndìcenne, lo convincesse a spedirci la pistola. Mentre lui se ne va in ferie a Tromso...
TromsqÌl Se ne sarebbe andato in Bolivia o qualcosa del genere, se avesse davvero ucciso la Volter.
Credo che la guardia abbia detto la verità quando ha raccontato a Kaja quello che è successo. Perché
avrebbe dovuto mentirle?
Si fidava così ciecamente di lei da confidarle dell'arma e dello scialle. Mi pare incredibile che quel tipo
si sia portato via la pistola con cui avevano appena ucciso un capo di governo, ma d'altro canto... era una
delle persone più spregevoli che abbia mai incontrato. Se qualcuno era capace di compiere un'azione
simile, quello era lui. Anche se in fondo era un grandissimo vigliacco. Proprio come questo adone di
Brage. No, dimentichiamoci la guardia.
Odio dirlo, ma non è stato lui.
- Sentite un po' qua, gente.
Hanne era passata alla Farris: teneva il bicchiere sollevato davanti al viso mentre sentiva l'anidride
carbonica contenuta nell'acqua minerale solleticarle la pelle.
- Se dobbiamo escludere Benjamin Grinde... e quella strega di Ruth-Dorthe Norgarden, che si è
comportata in modo ignobile, ma niente di più. E la Pharmamed. E la guardia giurata. E quindi anche quel
povero idiota di nazista che sta marcendo in gattabuia... allora... allora non rimane più nessuno!
- Qualche nemico di cui non siamo a conoscenza, - disse Billy T. - Il che significa giorni e mesi di grande
lavoro, senza magari scoprire niente. Non siamo abbastanza bravi.
Ecco. Ma adesso voglio un po' di musica. Musica vera.
Si alzò dopo aver mollato a Hàkon una pacca sulla schiena.
- Lirica, Hàkon, hai qualcosa del genere? Puccini?
- Mah, credo che abbiamo la Tosca. Guarda là.
- La Tosca va benissimo. Ha ucciso per amore. Il motivo per cui vengono commessi la stragrande
maggioranza degli omicidi, si, vediamo, signori e signore.
- E per questo che ti piace tanto l'opera lirica? - gli domandò Tone-Marit. - Perché si ammazzano tutti?
Non ne hai abbastanza di quello che vedi sul lavoro?
Billy T. fece scorrere le dita su e giù lungo un porta-Cd che si trovava in fondo alla stanza. Quando infilò
quello prescelto nel lettore, fu tentato di comunicare a Hàkon cosa ne pensava del suo misero stereo, ma
lasciò stare. Invece si alzò con un sospiro soddisfatto nel momento in cui l'ouverture di Tosca si diffuse
dagli altoparlanti.
- Voglio dirti una cosa, Tone-Marit.
Chiusi gli occhi, il poliziotto si mise a dirigere un'orchestra invisibile.
- L'Opera, - esclamò. - La Lirica in fondo in fondo è una vera corbelleria! Ma Puccini, capisci, lui crea
donne proprio come dovrebbero essere. Tosca, Mimì, Madama Butterfly, tutte quante... si uccidono
quando devono affrontare la tragedia più grande della loro esistenza. Hanno pretese così grandi nei
confronti della vita e di se stesse da non voler continuare a vivere se vengono travolte da qualcosa di
veramente orrendo.
I movimenti delle braccia si fecero sempre più concitati mentre gli altri osservavano impietriti quella
strana scena.
- Sono senza compromessi, - ruggì Billy T. - Completamente prive di compromessi!
Si fermò di colpo, nel bel mezzo dell'esecuzione di un arco che stava tracciando dal pavimento al soffitto.
Le braccia gli caddero lungo i fianchi. Dopo aver aperto gli occhi, andò tranquillo ad abbassare il
volume.
- Proprio come te, Hanne, - disse mentre si sedeva accanto a lei schioccandole un bacio sulla guancia. -
Totalmente priva di compromessi. Ma...
La fissò e anche gli altri l'avevano notato. L'ispettore capo Hanne Wilhelmsen era come in trance. Aveva
la bocca socchiusa e sembrava non respirare. Gli occhi erano chiari, grandi, pareva che guardassero
qualcosa che si trovava da un'altra parte, forse in un altro tempo.
Sul collo le pulsava un'arteria in modo molto palese, forte e ritmico.
- Che cos'hai? - le domandò Billy T. - Hanne, stai male?
- Sto pensando all'omicidio Volter, - sussurrò lei. - Abbiamo eliminato tutti i possibili assassini. Ci
troviamo davanti...
Il Cd si era incantato, lo stereo sputava in continuazione le stesse note. Neppure Billy T. si alzò per fare
qualcosa.
- L'omicidio del primo ministro Birgitte Volter può non essere mai stato commesso, - disse piano Hanne
Wilhelmsen. - Nessuno può averlo compiuto.
In modo inspiegabile e di propria iniziativa il lettore ritornò a funzionare. La musica riprese a uscire
dagli altoparlanti, netta e scorrevole, colmando la casa dove un bebé e la sua mamma dormivano insieme
al primo piano.
Tone-Marit Steen abbassò lo sguardo sul proprio braccio nudo, aveva la pelle d'oca. Era come se un
angelo fosse appena volato nella stanza.

Domenica 27 aprile 1997


Ore 16.00, Ole Brumms vei 212.

Il fascio luminoso che cadeva come un cono dal lucernario del tetto, illuminando il pavimento di legno
sudicio, lo fece pensare a una foca. Le tenebre che contornavano lo squarcio bianco, tagliente in tutto quel
grigio, erano quasi nere.
L'aria era satura di polvere e di vecchi ricordi. Inciampò nei primi sci da fondo di Per dipinti di blu,
mentre si avvicinava allo spiraglio. Gli venne in mente una vacanza di molti anni prima. Prima di Per. Lui
e Birgitte erano andati a Bergen. Le foche dell'acquario a Nordnes, così come le vedeva dalla vetrata
della piscina, che ricordava una specie di cantina, avevano volteggiato nell'acqua fino a quando si erano
dirette di colpo verso la luce che pioveva a ventaglio giù dal cielo. Gli animali avevano puntato decisi
verso l'aria, il sole.
Roy Hansen era al centro della soffitta. Non ci saliva da tre anni. Pensava a una foca. Era ora di cambiare
aria.
Per qualche giorno aveva vagheggiato di trasferirsi.
Dopo il funerale, quando tutto era diventato remoto e la strada da percorrere sembrava impossibile. Non
voleva più abitare in quella casa, non con le cose di Birgitte, i suoi marchi di proprietà ovunque: una
calamita da frigo in gesso che aveva fatto lei prima di un Natale, il divano che lui non avrebbe voluto ma
su cui lei aveva insistito. Si abbinava così bene alle pareti, secondo Birgitte; lui aveva capitolato. In
silenzio, una sera, Per aveva portato via i vestiti mentre Roy era andato a trovare sua madre, ormai
vecchissima. Quando era tornato, Per non aveva detto niente, si era limitato a sorridere. Roy aveva
tentato di ringraziarlo, ma non ne era stato capace. Gli indumenti di Birgitte non c'erano più e con questo
qualcosa del suo odore. Le lenzuola in cui aveva dormito l'ultima notte, le aveva buttate via.
Negli ultimi tempi però le cose avevano assunto un significato nuovo. Non erano più il ricordo bruciante,
doloroso di qualcosa che non sarebbe mai più tornato:
Birgitte era nelle pareti, negli oggetti, nei quadri che aveva scelto e nei libri che aveva letto. Era bello.
Lui voleva che fosse così. Ma desiderava sapere cosa c'era in soffitta.
Per questo si trovava là. Neanche Birgitte ci saliva spesso. Però più di lui. Quando scendeva, c'era
sempre in lei qualcosa di assente, di triste, che non durava a lungo, un giorno di solito. Una distanza nello
sguardo, qualcosa che Roy non cercava minimamente di vincere: l'amava da troppo tempo per farlo. In
qualche modo doveva essere qualcosa che stava lassù, e lui non aveva trovato la forza necessaria per
andare in soffitta prima d'ora.
Era pesante spostare gli oggetti. Un vecchio telaio con tanto di spole, rise piano tra sé e sé. Anche
quell'attrezzo era legato a un periodo del passato. Birgitte era incinta di Per, indossava gli abiti larghi e
svolazzanti di Sigrun Berg ed era fermamente decisa a imparare a tessere, ma per motivi di tempo era
riuscita a frequentare soltanto un corso per principianti al PA of. Roy Hansen toccò la lana, era così
impolverata che in quella luce fioca non se ne distingueva il colore. Il disegno dell'arazzo iniziato a
malapena era quasi invisibile. Fece scorrere l'indice sulla polvere e disegnò un cuore con dentro una B.
Il telaio sarebbe rimasto. Non se ne sarebbe mai liberato.
Al limitare del cono di luce c'era un enorme baule con le borchie. Ansimò forte quando lo spostò per
vedere meglio.
La chiave non c'era. Dopo essersi raddrizzato, si guardò intorno. Il nascondiglio si rivelò da solo: lo capì
immediatamente.
Forse Birgitte aveva voluto così, pensò. Fece scorrere le dita sulla traversa di compensato che divideva
la soffitta in due. La chiave, grande, pesante e nera, era dove doveva essere.
Anche il coperchio era pesante, ma non cigolò quando l'aprì. All'interno il baule era vuoto, a eccezione
di una scatola rotonda più piccola: una cappelliera, pensò Roy, sua madre ne aveva avute di simili. Era
di colore rosa antico, legata con un grande fiocco. Questo l'ha annodato Birgitte, si disse, facendo
scivolare la seta pesante tra le dita.
Esitò ad aprirla. Gli si diffuse in bocca uno strano sapore: ferro e sangue. Stava scomodo. Piano piano
sollevò la scatola e prima di aprirla richiuse il baule e ci si sedette sopra.
In cima c'era un paio di calzine da bebé: un tempo dovevano essere bianche. Erano minuscole, da
neonato, con dei pizzi intorno alla caviglia. Se le appoggiò sul ginocchio e le accarezzò con il pollice.
Poi prese la foto. Era la prima che avevano scattato a Liv, nuda, con le ginocchia sollevate al petto e con
i pugnetti chiusi, che piangeva. Sotto c'era un libriccino rosso chiaro. Lo aprì sfogliandolo con cautela.
Birgitte ci aveva scritto così tante cose. Il peso al momento della nascita, l'altezza. Il braccialettino di
lino del reparto di ostetricia, con annotato il nome di Birgitte e il giorno di nascita di Liv, era incollato
sulla prima pagina.
La colla si era quasi seccata e, quando lo accarezzò, si staccò. Lo ripose in fondo, tra le pagine. L'ultima
annotazione risaliva al 22 giugno 1965: «Oggi hanno inoculato a Liv il vaccino trivalente. Ha pianto
disperata ed è stata una sofferenza per tutti, ma poi le è passato». Non c'era scritto altro.
Roy non riusciva a respirare. Scostò velocemente la cappelliera e quando si alzò le calzine caddero per
terra, sul pavimento sporco. Il lucernario era difficile da aprire, ma alla fine ebbe la meglio. Rimase in
piedi per un attimo a respirare l'aria fresca, con il viso accecato dalla luce abbagliante.
Birgitte non aveva voluto esporre nessuna foto. Infuriata gli aveva chiesto di toglierla quando, un anno
dopo la morte di Liv, lui ne aveva messa una sul comodino, in una cornice d'argento che aveva appena
comprato. Lei non aveva voluto tenere niente. Quando era nato Per, Roy Hansen aveva tentato un paio di
volte di affrontare l'argomento. Per avrebbe dovuto saperlo. C'era il rischio che sentisse parlare della
sorella da altre persone, e sarebbe stato molto peggio. Birgitte si era nuovamente infuriata.
Con il passare del tempo era diventato impossibile. Liv non era tema di discussione e per Roy era
risultato sempre più difficile dirlo a Per a mano a mano che cresceva. Così, in modo lento e graduale la
bambina era scomparsa. Ogni tanto pensava a lei, di colpo, dolorosamente, soprattutto quando si
avvicinava la festa di San Giovanni, quando il sole splendeva alto nel cielo e tutto profumava di fresco,
di vita, di nuovo con l'arrivo dell'estate. Liv. Birgitte si rifiutava di sentirne parlare, di discuterne, di
saperne qualcosa.
Era quello che lui aveva sempre creduto.
Nella vita di Birgitte esisteva un unico figlio: Per. Era quella l'impressione che lei dava. Era quello che
avevano pensato tutti. Birgitte aveva accolto la nascita di Per con serietà e responsabilità. La gioia così
giovanile, giocosa che avevano condiviso alla nascita di Liv era scomparsa.
Al suo posto era subentrata un'attenzione perennemente contrassegnata dalla preoccupazione, che non
aveva mollato la presa fino a quando alla fine Birgitte aveva dovuto riconoscere che Per era un bambino
di dieci anni robusto e sano.
Si rimise a sedere sul baule, la cappelliera in equilibrio sulle ginocchia. Dentro c'era il cucchiaino
d'argento che avevano comprato per il battesimo. E il ciuccio. Sorrise quando vide com'era antiquato,
così semplice e rosa: la gomma era indurita dal passare degli anni. Sotto tutto, sul fondo di quella
semplice scatola che raccoglieva pochi ricordi, c'era una busta. Con il suo nome, Roy, scritto nella
calligrafia ondulata e perfetta di Birgitte.
Quando l'aprì, le mani gli tremavano a tal punto che gli cadde per terra. Dopo essersi raddrizzato, girò il
viso verso la luce inspirando a fondo. Poi spiegò il foglio che c'era dentro e lo lisciò più volte con la
mano.
La lettera era stata scritta trentadue anni prima.

Nesodden, 2 agosto 1965


Mio amatissimo Roy,...
è da tempo che penso di scriverti questa lettera, ma soltanto. adesso credo di avere la forza per farlo. Se
non ci dovessi riuscire neanche stavolta, temo che non ne sarò mai capace. L'unico modo in cui questa
lettera può finire nelle tue mani è se io dovessi lasciarti.
E non credo che avverrà. Hai già perso tanto e io ti amo, ma solo Dio conosce gli sforzi che ho dovuto
affrontare per riuscire a superare le settimane appena passate. Pare impossibile: mi trascino di giorno in
giorno e desidero soltanto dormire. Quello che ho commesso è imperdonabile. Non potrai mai
perdonarmelo tu, e non potrò mai perdonarmelo io.
Vedo che soffri quanto me, però tu non hai colpe. Nessuna, mentre io ho sbagliato e non è possibile
vivere con la vergogna che provo. Ogni volta che cerchi di farmi parlare di Liv e di quanto è successo,
sento che la colpa e la vergogna mi soffocano e mi bloccano. Il dolore che vedo nei tuoi occhi quando
credi che io sia arrabbiata è insopportabile, io mi sforzo, mi sforzo davvero, ma è impossibile. Forse la
cosa migliore sarebbe dirti la verità. Allora potresti odiarmi e lasciarmi, così riceverei la punizione che
merito.
Ma non ce la faccio. Non oso. Sono troppo vigliacca. Troppo vigliacca per morire, troppo vigliacca per
continuare a vivere in modo onesto.
Così stanotte ti scrivo.
In queste settimane ho continuato a pensare: come è potuto succedere? Io la amavo così profondamente!
Anche se è arrivata in un momento inopportuno. Ricordo bene come hai reagito quando ti ho detto che ero
incinta. Per due settimane il pensiero mi aveva terrorizzata, tu avevi appena cominciato a frequentare la
scuola per diventare insegnante e non ci poteva essere niente di peggio che avere un figlio proprio allora.
Hai riso così di gusto! Mi hai stretto mentre mi facevi girare tra le braccia, mentre mi dicevi che sarebbe
andata bene, e il giorno dopo avevi già modificato i tuoi piani e dicevi a tutti che saresti diventato papà.
Non mi dimenticherò mai, mai com'eri, come ti sei comportato.
Avevo tanta paura che le potesse succedere qualcosa. La mamma mi prendeva in giro dicendomi che, da
che mondo è mondo, i bambini nascono e sopravvivono. Adesso, stanotte, vedo che il mio amore per Liv
non valeva niente. Credevo di essere una buona madre che amava e accudiva la propria figlia, invece ero
un'irresponsabile.
Il senso di responsabilità è più importante di tutto l'amore del mondo: se io avessi mostrato
responsabilità, Liv sarebbe ancora con noi.
Il giorno di San Giovanni avevamo un giorno libero. Ne ero così felice! Finalmente saremmo stati
Birgitte e Roy, come eravamo prima di Liv, così com'eravamo stati l'anno prima, quell'estate
meravigliosa. Mi rendo conto che non avremmo mai dovuto affidare una bimba così piccola a qualcuno,
ma noi volevamo soltanto andare giù al molo, e Benjamin era bravissimo con Liv. Non ci sarei mai
dovuta andare, ma era bello pensare di avere qualche momento libero. Mamma e papà erano a Oslo, e
penso che se fossero stati a casa tutto questo non sarebbe mai successo. La mamma mi avrebbe impedito
di uscire o si sarebbe offerta di guardare Liv.
Eri così bello quando verso le undici me ne sono andata per allattarla. Ridevi e, mentre mi allontanavo,
mi facevi segno di tornare presto. Eri un po' ubriaco, ma così radioso e divertente, e io ero felice mentre
mi avviavo verso casa barcollando, anch'io avevo bevuto troppo. Non reggevo molto quella sera. Tu sai
che molto raramente tocco l'alcol e la testa mi girava un po'.
Ho detto sia a te sia agli altri che ero stanca e che mi ero addormentata.
Che era quello il motivo per cui non ero tornata.
È una bugia.
Roy si passò una mano sugli occhi, sentì la punta delle dita inumidirsi. Le righe successive della lettera
erano state cancellate con forza, con dell'inchiostro nero, in due punti il foglio era bucato. Cominciò a
leggere la seconda pagina.
È tutta una bugia enorme, nera. Sento quant'è difficile soltanto scrivere la verità. Come se non volesse
materializzarsi sulla carta.
Mi sono imbattuta in Benjamin sulla porta. Era molto agitato e stava per venire di corsa a cercarmi. Liv
era inquieta e respirava a fatica, mi ha detto, e aveva quasi quaranta di febbre. Non riuscìvo a rendermi
conto del rischio, Roy. Aveva avuto la febbre tante altre volte, e andava e veniva in fretta. In quel
momento ero un po' stufa della bambina. Dovevamo passare una bella serata. Io volevo essere libera!
Così gli ho risposto che sicuramente non era niente di pericoloso, che bastava allattarla un po' e poi si
sarebbe riaddormentata.
E in effetti si è calmata quando l'ho messa nel lettino. È ve; ro, non me lo sono immaginato! A dire il vero
non poteva aver succhiato troppo latte, ma non era particolarmente irrequieta quando l'ho rimessa a
dormire. Aveva ancora la febbre, lo vedevo dagli occhi e lo sentivo dalla pelle, ma i bambini ogni tanto
ce l'hanno, no?
Di colpo ho trovato Benjamin molto dolce e attraente. È terribile pensarci, ti avevo appena lasciato giù al
molo, eri per me l'uo. mo più bello e affascinante di tutti! Te lo giuro, non ho mai visto, Benjamin sotto
quella luce, lui è solo un liceale e sempre così serio.
Ma è successo qualcosa; forse è stato stupido da parte mia allattare Liv mentre Benjamin guardava.
Scusami! E successo. Lui era impacciato, incerto, verde in viso, abbiamo bevuto del vino, anche se
sapevo che tu avresti notato che la bottiglia non c'era più. L'unica che ci eravamo potuti comprare in sei
mesi. Perché non mi hai mai chiesto che fine avesse fatto?
Il vino e la birra insieme sono stati troppo e quando mi sono svegliata sul divano, alle cinque del mattino,
Benjamin non c'era più. Avevo un mal di testa terribile e provavo una grandissima vergogna.
Mi sono messa a cercare un analgesico, ma senza trovarlo.
Sono entrata in camera per controllare Liv. Era fredda. Gli occhi erano chiusi, la pelle ghiacciata. L'ho
sollevata e mi ci è voluto un minuto prima di capire che era morta.
Poi non ricordo molto. Soltanto che ho lavato i bicchieri e li ho rimessi al loro posto. E tu sei arrivato
subito dopo, felice e ubriaco.
Con Benjamin ho scambiato soltanto qualche parola dopo l'accaduto, ma glielo vedo addosso quando
cammina che sta malissimo.
Alla fine del mese si trasferisce in città, studierà medicina, me lo ha detto la signora Grinde. Sembra
preoccupata. È dimagrito ed è più taciturno del solito, mi ha raccontato la madre. Spero di non doverlo
vedere mai più. Mi ricorderebbe sempre il mio tradimento, il mio grande tradimento nei tuoi confronti e
quello imperdonabile verso nostra figlia.
Penso a lei in continuazione. Ogni secondo del giorno e della notte sogno la sua pelle, i capelli color
miele, l'unghia del mignolo che non era più grande di un punto. A volte, per brevi attimi, dimentico che è
morta.
Invece lo è.
Sono stata un'irresponsabile, e ho tradito. Ho deciso di continuare a vivere, ma sono costretta a escludere
totalmente Liv dalla mia vita, dalla nostra vita. Per il resto del tempo che mi rimane, non dimenticherò
mai che la cosa più importante di tutte è mostrare responsabilità. Io mi assumerò le mie e non le
tralascerò mai.
Adesso non ce la faccio più a scrivere. Se un giorno leggerai questa lettera, significa che non ci sono più.
E allora saprai che non vale la pena di piangere la mia morte.
La tua Birgitte

La polvere danzava nel cono di luce. La corrente d'aria creata dal lucernario aperto faceva turbinare in
tutte le direzioni e secondo traiettorie imprevedibili le sue minuscole particelle, che scintillavano come
sotto piccoli riflettori.
Roy ripiegò la lettera, con movenze rigide. Quando si guardò le mani, gli sembrò che appartenessero a un
altro, uno che non aveva mai conosciuto. Ripose la lettera nella cappelliera appoggiata ai suoi piedi, con
il coperchio di traverso. Lentamente tese le mani verso la luce, con i palmi rivolti verso l'alto.
Era come se qualcuno ci stesse versando sopra della polverina dorata. Si immaginò di percepire il
contatto di quelle particelle sulla pelle: avrebbe pur dovuto sentire qualcosa. Dolore. Di colpo, si
schiaffeggiò violentemente.
Le ultime ore di vita di Birgitte si presentarono alla sua mente con chiarezza. L'ultima notte. Roy aveva
dormito male e, ogni volta che si svegliava, vedeva la stessa cosa: lei che fissava il buio con gli occhi
sbarrati, senza neanche battere le palpebre. Il muro che li separava si era fatto troppo spesso. Lui non
sapeva cosa la tormentasse, ma la conosceva abbastanza bene da non tentare di forzarla.
Non aveva detto niente, nemmeno dopo. Nemmeno alla polizia. Le loro domande - su Birgitte, sulla
scatoletta portapillole, su Liv - erano state tremendamente spiacevoli.
Di colpo seppe il perché. C'era qualcosa che giaceva nascosto in lui da così tanto tempo da non voler
uscire. Lui stesso non voleva farlo uscire. Doveva rimanere dov'era, lontano da ogni forma di coscienza.
Tanto si era dimenticato tutto.
Invece non l'aveva mai fatto.
La verità lo colse quasi come una rivelazione. Ora il sole era proprio sopra il tetto della casa e la sua
luce violenta illuminò la soffitta intera. Roy ripensò alla foca.
L'immagine era nitidissima davanti ai suoi occhi, come una specie di foto ben conservata o uno spezzone
di pellicola che aveva resistito alla furia degli anni: la foca liscia, abituata all'acqua, che si destreggia
nella piscina turchese a Bergen nel 1970 e che gli manda un'occhiata dolorosa prima di guizzare verso la
luce, verso la vita oltre la superficie, verso l'aria.
Nessuno aveva ucciso Birgitte. Birgitte si era suicidata.

Fuga
Venerdì 4 aprile 1997
Ore 18.30, ufficio delprimo ministro.
Quando Benjamin si richiuse la porta alle spalle, fu come se con lui fosse uscita la vita stessa.
Era bello come un tempo. Altrettanto serio. Ma non era più così giovane rispetto a lei. Quell'anno grande
come un oceano, che aveva creato un abisso tra di loro quando erano ragazzi, adesso era scomparso. Era
stata una conversazione pacata. In un certo senso era come se negli ultimi trentadue anni non fosse
successo niente: mentre lo guardava in viso, sentiva profumo di lillà e latte materno.
Si era rivista nel vestito di tessuto sintetico ingualcibile a palloncino, stretto in vita, il bustino, la gonna
ampia e audacemente corta al ginocchio. L'aveva cucito con le sue mani, felice che il suo corpo avesse
ripreso in fretta la forma e il peso che aveva prima della gravidanza. Gli occhi di Benjamin erano
castani, con lunghe ciglia femminili, e avevano un'espressione giovanile, fresca. Nel suo sguardo c'era
Liv, e Birgitte Volter aveva saputo che la sua decisione era irrevocabile.
- Mi devo ritirare da tutto questo, - le aveva detto giocherellando con la scatoletta portapillole, quella
che Roy e Birgitte avevano ricevuto dai genitori di Benjamin come regalo di nozze, quella che nessuno
aveva il permesso di toccare. Lei però non poteva sottrargliela, né impedirgli di studiarla. Forse
l'avrebbe aperta, e lei non poteva fare niente per evitarlo. - Ci ho messo secoli a dimenticare, e avevo
dimenticato. E incredibile che sia riuscito a farlo.
Forse perché ero così giovane. Mi consolo con questo pensiero, Birgitte. Ero troppo giovane. Però non
posso tacere un'altra volta. Se me lo chiederanno, dovrò dire la verità.
Anche se coinvolgerà entrambi.
Non aveva tentato di convincerlo. Si era limitata a scarabocchiare meccanicamente qualche parola sugli
elenchi che le aveva dato. La lista con il nome di Liv le era balzata agli occhi. Significava che la morte di
Liv non poteva più essere dimenticata e relegata a un anno del passato che lei aveva dedicato il resto
dell'esistenza a tentare di cancellare.
Benjamin era stato dolce. La sua voce cantava e lo sguardo incrociava il suo ogni volta che lei lo
cercava. Avevano conversato un po', e taciuto ancora più a lungo. Alla fine lui si era alzato. Non aveva
nemmeno provato a nascondere che si era preso la scatoletta portapillole. L'aveva tenuta in mano e dopo
averla osservata, senza dire una parola, se l'era infilata in tasca.
- E passato così tanto tempo, Birgitte. Adesso dobbiamo imparare a conviverci. Non fare finta che non
sia mai successo. Abbiamo sbagliato tutti e due, ma è trascorso tanto tempo.
Poi si era congedato e, mentre la porta gli si chiudeva alle spalle, si era chiusa anche la vita di Birgitte
Volter.
Non era la denigrazione che temeva. Né la perdita dell'onore. La caduta che poteva arrivare era in grado
di gestirla. Non aveva paura del giudizio altrui. Forse non l'avrebbero nemmeno rimproverata. Lei aveva
Roy. E Per.
Meritava di perdere tutto il resto, ma non loro, e neanche loro avrebbero voluto scomparire dalla sua
vita.
Quella notte aveva raggiunto la certezza. In verità aveva preso quella decisione molto tempo prima.
Trentadue anni non erano bastati. Non avevano rimarginato le ferite: le avevano soltanto dato la maturità
per capire la portata del suo tradimento. La sua piccola era morta da sola, anche se la mamma avrebbe
potuto essere accanto a lei. La vergogna per il tradimento si mescolava alla nostalgia per il mondo di Liv.
La vita era finita perché Liv era tornata. Liv era nella stanza. Birgitte sentiva il profumo della sua nuca, i
capelluzzi sottili che le solleticavano il naso. Sentiva il seno che scoppiava quando la sua boccuccia si
sporgeva con una smorfia affamata. Avvertiva la sensazione violenta, sconosciuta, paurosa della
responsabilità che le si era rovesciata addosso quando a soli diciotto, quasi diciannove anni aveva tenuto
la sua primogenita tra le braccia. Aveva pianto per molte ore e quel pianto lo udiva in quel momento,
proveniva da ogni dove, riempiva la stanza fino al cielo, riempiva Oslo, la città dov'era andata a
nascondersi da Liv, dove aveva lavorato e sudato per dimenticare la tragedia della sua gioventù. In
seguito si era assunta grandi responsabilità e le aveva percepite come tali, ma non era mai riuscita a
lasciarsi alle spalle il tradimento abissale che aveva compiuto. E quel tradimento l'aveva raggiunta, stava
davanti a lei come un leone ghignante, con la bava alla bocca. Quello era il luogo dove tutto sarebbe
finito. Era lì che l'aveva condotta la morte di Liv, in alto, ed era lì che la sua vita doveva concludersi.
Lentamente impacchettò la pistola nello scialle. Non aveva il coraggio di guardarla. Il revolver in sé era
una specie di accusa. Aveva scelto proprio la Nagant della mamma perché quella sera sua madre
l'avrebbe fermata, le avrebbe impedito di uscire: non avrebbe mai permesso che Liv morisse.
Nell'attimo in cui si puntò l'arma avvolta nello scialle contro la tempia, sentì qualcuno armeggiare nella
sala riunioni dietro di lei.
Questo non le impedì di premere il grilletto.

FINE

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