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Viel, M., 2015. Quello che riconosciamo. In Bianchi, A. and Leghissa, A., eds, 2015.

Mondi Altri
Milano: Mimesis.

Quello che riconosciamo.


di Massimiliano Viel

Siamo sordi a noi stessi. Non solo: siamo docili a cambiamenti di cui neppure ci accorgiamo, pronti ad
abbracciare abitudini che mai avremmo accolto se avessimo avuto la possibilità di scegliere, indossando
la nostra personalità come una divisa che sembra fatta di aria, a chi sa guardare.
Come è possibile tutto ciò? Non stiamo forse esagerando? Al lettore la risposta; per parte nostra
dovremo seguire un lungo percorso per poter alla fine delineare il senso di queste affermazioni.

Il terreno comincia a sparirci sotto i piedi quando iniziamo a occuparci di musica. Abbiamo un bel
riempirci la mente di oggetti sonori, musicali, uditivi che si muovono e interagiscono tra loro1 , ma
l’evidente impalpabilità dei suoni, il loro carattere effimero li rende indocili a una gabbia fatta di
concrezioni materiali. È pur vero che certi suoni ci colpiscono nello stomaco come un pugno, se sono
sufficientemente intensi e alla giusta frequenza, al punto che l’altoparlante, usato opportunamente, può
trasformarsi in un’arma2 . Ma il suono non è materia e quello che ci ferisce anche se siamo sordi è
piuttosto la pressione esplosiva dell’aria, che veicola il suono, ma non è suono essa stessa.
Dunque il suono è inafferrabile, figuriamoci poi la musica. Anche in questo caso si è cercato, e si cerca
ancora oggi, di ridurla a oggetto, magari con un disperato uso della maiuscola, a ricordarci che di
Musica ce n’è una sola. O magari di musiche ce ne sono due: quella buona e quella cattiva, quella
naturale e quella innaturale, quella che piace a me e quella che, contro ogni “logica” apparente, piace agli
altri3. Il gioco delle Musica è sempre quello di negare una diversità e di ricondurla a un’opposizione
possibilmente normativa; come dice un meme che circolava sui social network qualche anno fa: “se ci
devono mettere in prigione perché scarichiamo musica, che almeno ci dividano a seconda dei generi che
ascoltiamo”4.

Non si può parlare di musica e allo stesso tempo sfuggire alle maglie dell’assoggettamento. A rigor di
logica non si potrebbe nemmeno parlare di “musiche”, perché la stessa parola “musica” diventa uno
strumento di dominio, di violenta imposizione culturale quando viene introdotta in contesti che
originariamente non la contemplano5. Meglio sarebbe parlare di pratiche sonore. Meglio ancora,
sarebbe parlare di ascolto. Come dice John Cage: “comporre è una cosa, eseguire un’altra, ascoltare
un’altra cosa ancora. Cosa c’entrano l’una con l’altra?”6. Dunque colui che ascolta decide cosa è musica
e cosa non lo è con una certa autonomia rispetto a chi la crea e a chi la suona, orientandosi alla musica
in modo diverso da come si orienta verso altri suoni o rumori, considerati non musicali. Sarebbe

1 M. Viel, Sounds and objects, “Technoetic Arts”, 9 (2/3), 2012, pp. 233-238.
2 J. Volcler, Il Suono come arma. Gli usi militari e polizieschi dell’ambiente sonoro (2011), DeriveApprodi, Roma 2012.
3 Un esempio su tutti: in A. Frova, Armonia celeste e dodecafonia. Musica e scienza attraverso i secoli, Rizzoli, Milano
2006, l’autore sembra parlare di musica nel senso più universale, ma alla fine non fa che contrapporre la
tradizione occidentale, quella che viene comunemente etichettata come “classica”, agli esiti contemporanei di
quella stessa tradizione, per l’autore nefasti, come se nella somma delle pratiche musicali dell’attuale cultura
planetaria non ci fosse nient’altro.
4Originariamente: “if someday we all go to prison for downloading music, I just hope they split us by the music
genre”.
5 Si veda in proposito J.J. Nattiez, Musicologia generale e semiologia (1987), EDT, Torino 1989 p.33 sgg..
6 J. Cage, Silenzio (1961), Shake, Milano 2010, p. 34.
sbagliato però trattare l’ascolto a partire dalla musica così come la conosciamo7 , poiché l’esperienza ci
insegna che tutto può essere musica e siamo ormai abituati alle commistioni tra suoni strumentali,
rumori ambientali, voci che cantano, parlano o gridano.
Parlare di ascolto deve quindi necessariamente riferirsi a tutto quello che si può ascoltare, che la
consideriamo musica oppure no.
Ma da dove partire? La letteratura ci presenta infiniti modi di parlare dell’ascolto, ma poiché parlare di
ascolto è innanzitutto parlare, è facile perdersi in retoriche utili soltanto a rinnovare i paradigmi in cui
siamo imbrigliati. Ecco quindi che si parano davanti a noi le scorciatoie del fondazionalismo, con il loro
desiderio di essenza, di verità assolute, che invece sono solo il desiderio, poco pio, di essere parte di un
gruppo, di mantenere stretta la presa su un potere, più o meno pervasivo. Subito ci vengono offerti i
neurocentrismi8 o gli eurocentrismi, con cui si proclama un uomo universale, una cultura universale, una
musica universale, che invece sono solo proiezioni a norma di discorsi particolari, usati come dispositivi
di dominazione.
Non ci resta che affrontare di petto la chiusura operativa del linguaggio e, circumnavigando il nostro
Umwelt9, tentare una descrizione dell’ascolto che pur essendo essa stessa il prodotto delle strategie
discorsive messe in opera dal soggetto sia potenzialmente in grado di includere costruttivamente queste
stesse strategie discorsive, ovvero la nostra descrizione dell’ascolto, come conseguenza del processo
esplicativo.

“L’operazione basilare che un osservatore compie nella sua prassi è l’operazione di distinzione”10 recita
la prima “nozione di base” dell’epistemologia maturaniana. Si potrebbe ben dire la stessa cosa
dell’ascolto come declinazione sensoriale della nostra attività di spettatori del mondo, colti nella prassi
del vivere. Distinguiamo, dunque: scopriamo discontinuità dalla quale emergono due falde sonore: le
due continuità che si oppongono al di qua e al di là della barriera. È però una relazione circolare, quella
tra continuità e discontinuità, che non può fondarsi sul caos indistinto della trascendenza, ma deve
appoggiarsi sull’esperienza e dunque sulle selezioni operate dall’attenzione e dalla memoria. Distinguere
significa quindi riconoscere e riconoscere implica una protensione che nasce dall’aver distinto nel caos
primigenio dello sconosciuto una costellazione (che temporaneamente potremmo caratterizzare come
“sensoriale”), la quale nasce a sua volta da distinzioni pregresse. È una spirale cognitiva che a partire dal
gamete si costruisce attraverso un percorso individuale di esperienze e si muove, si trasforma, non
senza traumi, lungo una deriva orientata dalle interazioni nella collettività, che magari un giorno ci
condurrà a parlare di ascolto.
Forse la chiave di questo progredire sta proprio nel riconoscere; e noi quando ascoltiamo riconosciamo
un’infinità di elementi: riconosciamo ad esempio il suono di uno strumento, le note che emette,
l’armonia con cui queste sono state scelte per formare una melodia, i frammenti o i temi che a partire
dalla melodia si sviluppano, le sezioni dei brani costruiti con questi temi, i movimenti, ad esempio quelli

7 A partire almeno dal 1873 con la dissertazione Über das Musikalische Hören di Hugo Riemann si sviluppa una
tradizione che tratta l’ascolto a partire dai criteri con cui viene composta la musica, piuttosto che considerare
questa come un prodotto dell’ascolto, secondo quella che H.Fiske chiama il “paradigma della copia” (in H. Fiske,
Selected theories of music perception, The Edwin Melle Press, Lewinston NY 1996). Secondo questo modello,
l’ascoltatore ideale sarà quindi colui che riesce a catturare al meglio con l’ascolto le intenzioni del compositore,
con la conseguenza di escludere normativamente la possibilità di una libertà interpretativa.
8Il termine è stato proposto nei lavori di Sally Satel e Scott Lilienfeld per indicare un assunto secondo cui l’intera
esperienza e comportamento umani sono spiegabili al meglio attraverso l’analisi elettrofisiologica del cervello. Un
esempio di questo approccio si può trovare ancora in A. Frova, cit., in cui i presunti problemi della musica
contemporanea vengono spiegati attraverso i dati delle analisi neurologiche, fornendo l’occasione per cercare di
dimostrare l’innaturalità di questa rispetto alla tradizione “classica”.
9 L’idea di “Umwelt” secondo Jacob von Uexküll, poi sviluppata da Husserl e Heidegger, come l’ambiente che ci
circonda in termini delle nostre operazioni su di esso, le quali determinano il modo in cui lo percepiamo si
connette all’idea degli oggetti del mondo come “relazioni operative dell’agire linguistico” (H. Maturana,
Autocoscienza e realtà, (1990), Raffaello Cortina Editore, Milano 1993 p. 91). Non possiamo dunque che parlare del
linguaggio.
10 H. Maturana, cit., p. 25.
di una sinfonia, che risultano dalla composizione di queste sezioni, il programma di un concerto in cui
la sinfonia viene eseguita, il genere e lo stile in cui i brani in programma sono stati composti, la cultura
musicale, ad esempio la tradizione “classica” europea oppure il Gamelan indonesiano, che include
questi stili e questi generi. Si tratta di una scala senza fine, una scala beninteso attorcigliata, in cui
trovano posto costellazioni “cognitive” sempre più complesse, le quali mostrano tutte un’articolazione
interna fatta di costellazioni più piccole, che trovano anch’esse posto su questa scala, ma da qualche
parte più in basso. Si potrebbe obiettare che il rapporto tra le note e la melodia che le contiene non è
proprio identico a quello che c’è ad esempio tra una melodia da un lato e un tema, che potremmo
definire semplicemente come una melodia che viene riconosciuta più volte all’interno di un brano,
dall’altro. Però sia “melodia” che “tema” sono parole, suoni essi stessi, che associamo a istanze sonore
non molto diversamente da come la singola enunciazione di un tema, viene usata per richiamare alla
mente tutte le enunciazioni e variazioni con cui questo tema ci viene presentato nel corso di un brano.
E questo richiamare alla mente assomiglia a un canto responsoriale in cui un direttore musicale o un
officiante seleziona e orienta il comportamento, sempre sonoro, di una moltitudine. Come se
l’interminabile flusso sonoro in cui siamo immersi11 non fosse diverso da un’immensa sinfonia in cui le
parole che emettiamo sono “chiamate”12 alle quali l’assemblea dei “musicisti“ che riescono a leggere il
nostro stile e il nostro genere “musicale” rispondono con il canto appropriato.
Non c’è quindi da stupirsi se quando cerchiamo di dare una definizione universale di “melodia” ci
troviamo in difficoltà di fronte alla vastità di espressioni sonore a cui possiamo applicarla13 , una vastità
che contrasta inevitabilmente con l’omogeneità delle melodie che incontriamo normalmente nelle
nostre abitudini d’ascolto.

Riconosciamo, dunque: siamo forse una macchina cognitiva per catturare somiglianze, ma allo stesso
tempo questo riconoscere si accompagna a un’amnesia, perché ogni volta che noi riconosciamo,
consolidiamo quel legame che unisce tutte le istanze sensoriali che abbiamo riconosciuto come simili tra
loro, fino a che, per così dire, le solidifichiamo in un oggetto pesante che si deposita nella nostra
coscienza. Possiamo chiamare questo oggetto “referente” oppure possiamo inventarci delle etichette,
che si aggancino all’esperienza dei suoni senza intermediari14, come do, re, mi, fa, sol oppure trillo, nota
di passaggio, basso albertino o ancora triade diminuita, cadenza perfetta, forma-sonata. Così, quando
nominiamo ad esempio l’accordo di dominante ci sembra che questo esista da qualche parte e instauri
relazioni energetiche, tensioni armoniche verso altri accordi e non sia invece il risultato della messa a
catalogo di una complessa articolazione di riconoscimenti15 , la quale non è mai conclusa perché ogni
qual volta il contesto ci preannuncia un riconoscimento, noi lo cerchiamo spingendoci a volte fino a
inventarcene uno fasullo. Oppure, se il contesto ci conduce verso altre aspettative, noi semplicemente

11Cage ci ricorda che il silenzio non esiste se non quando siamo morti, perché anche in un ambiente silenzioso e
acusticamente controllato possiamo comunque percepire i suoni prodotti dal nostro corpo (J. Cage, cit., p. 23).
12Si tratta di pattern ritmici o melodici usati per coordinare l’attacco delle diverse sezioni di un brano, come ad
esempio avviene nel repertorio per djembe dell’Africa occidentale.
13Pensiamo ad esempio a una melodia mozartiana, alla polifonia virtuale che si può trovare ad esempio in alcuni
brani di Bobby McFerrin, a un assolo di chitarra elettrica, a un canto aborigeno australiano oppure infine a un
brano per clarinetto solo di K. Stockhausen.
14Sulla pluralità delle “modalità di riferimento” si fonda la non semplice discussione, mai veramente chiusa, sulla
semanticità di musica e linguaggio, nonché sul loro ambiguo rapporto.
15 È quello che David Huron chiama fallacia di “errata attribuzione” (misattribution), cioè la tendenza ad
attribuire la sensazione di aver fatto una corretta previsione al risultato di questa previsione (D.Huron, Sween
anticipation: music and the psychology of expectation, MIT Press, Cambridge Mass. 2007, p.361).
non riconosciamo ciò che, con un cambio di prospettiva, apparirebbe in bella evidenza16, perché, va
detto chiaramente, noi percepiamo solo quello che riconosciamo, distinguendolo da uno sfondo17.
In questo processo di oggettivazione, che è poi un processo di astrazione, consiste il nucleo della
attività cognitiva: un’operazione di distinzione attraverso l’incessante flusso sensoriale che ci permette di
considerare le due estensioni sonore separate dalla discontinuità come due continuità, le quali a loro
volta si connettono in una continuità più vasta che le comprende come momenti successivi, che
possiamo in seguito riconoscere anche in altri momenti del flusso sensoriale.
A+B = C, dove C è l’oggettivazione di un riconoscimento articolato, l’immagine di un momento
nell’infinito ciclo di riconoscimenti (continuità) e disattese (discontinuità), in quanto proiezioni di
aspettative (il futuro) che ricalcano le esperienze pregresse (il passato). Più sopra abbiamo chiamato
tutto ciò una “costellazione”: ora possiamo preferirgli il nome di “pattern” e definirlo come un
frammento sonoro che riconosciamo in quanto composto da una successione di elementi sonori più
brevi, eleggendolo a emblema di un possibile meccanismo esplicativo dell’ascolto, che vive quindi nelle
descrizioni che formuliamo, ben inserito nei processi epistemici di messa in ordine del mondo.

Ma il pattern non esiste: è il risultato di un mascheramento che è insito nello stesso processo che lo
costruisce, è il frutto di quell’amnesia che ci colpisce già dal primo momento in cui riconosciamo e si
intensifica ogni volta che rinnoviamo quel riconoscimento, mettendo in moto il processo stocastico
della cognizione18.
Uno stimolo ripetuto un numero sufficiente di volte non dà più adito a reazione, viene ignorato. Si
tratta dell’”abituazione”, un fenomeno della percezione che ci appare esplicitamente non solo quando
smettiamo di prestare attenzione a un suono che continua da ore, come un antifurto che echeggia dalla
strada, magari per poi sorprenderci nel momento in cui cessa, ma anche quando entriamo in una
camera anecoica e iniziamo a scoprire gli incessanti rumori del nostro corpo di cui non avevamo
coscienza19 .
L’abituazione è quindi un processo che parte dalla scoperta di una presenza, vale a dire di un
riconoscimento, il quale crea inevitabilmente una distinzione tra ciò che viene riconosciuto, la figura, e
ciò da cui emerge, lo sfondo, come un trauma che separa il flusso della coscienza in un “prima” e in un
“dopo”, creando, per così dire, l’esperienza del tempo.
Il processo continua quando il riconoscimento viene reiterato, in modo che quanto più si riconosce una
presenza tanto più questa sbiadisce e alla fine scompare. Ma è ancora lì: non è una sparizione dunque,
bensì una metabolizzazione o meglio una sublimazione che trasforma l’esperienza da violenza sul
mondo a carattere del mondo. La presenza è stata interiorizzata ed è ora diventata parte dell’ascoltatore.
Almeno fino a quando una nuova violenza, come ad esempio l’improvviso spegnimento dell’antifurto,
strappa questo carattere, questa proprietà del mondo incorporato, via dall’ascoltatore e la trasforma di
nuovo in presenza: la presenza di un’assenza, destinata questa volta a scomparire gradualmente, almeno

16 La settima di dominante, ad esempio, in quanto aggregato sonoro definito come settima di prima specie,
scompare in quanto tale quando ascoltiamo il blues (ma anche quando ci appare in un contesto eterofonico come
in Debussy), perché inserito in una catena di successioni accordali estremamente diverse da quelle in cui
riconosciamo un brano tonale, magari del periodo classico.
17 Si noterà come a volte l’operazione di distinzione sia riferita a momenti successivi nel tempo e altre volte al
rapporto tra figura e sfondo. Si è voluto per concisione, trattare la distinzione come esperienza generica, che
comprende quindi entrambe le possibilità, poiché è possibile ricondurre la distinzione tra figura e sfondo alla
distinzione di una successione in cui la figura emerge dallo sfondo in cui essa era precedentemente assente. Si
allude quindi alla possibilità di ricondurre quello che in psicologia della musica è indicato come segregazione,
ovvero la percezione di stream simultanei, alla segmentazione, in quanto distinzione di momenti successivi nel
tempo, o almeno alla possibilità di comprendere entrambi i fenomeni come declinazioni di uno stesso
meccanismo cognitivo.
18 Si tratta del cosiddetto “statistical learning” (apprendimento statistico), che Huron definisce come una forma
di apprendimento basata su quanto frequentemente riusciamo a individuare un evento particolare o a quanto
stretti sono correlati tra loro due o più eventi (D. Huron, cit., p. 360).
19 Vedi nota 11.
fino a quando un successivo scattare dell’antifurto porterà il riconoscimento ad un più alto livello nella
struttura dell’esperienza.
Ascoltare è quindi un articolato processo di continua messa in figura contro uno sfondo e allo stesso
tempo una continua costituzione dello sfondo da cui la figura si staglia; è il prodotto della frizione tra il
processo di distinzione di una presenza e la sua assimilazione in ciò da cui le presenze stesse si
distinguono, che è in definitiva l’incorporazione delle presenze come parte dell’identità di chi ascolta.
Potremmo ulteriormente sviluppare questa descrizione di come ascoltiamo, fino a includere l’intera
gamma delle esperienze sensoriali o ancora di più fino considerare non solo i sensi nella loro diversità
ma il linguaggio stesso che ne parla, come conseguenze del meccanismo di riconoscimento/
dimenticanza. Il percorso è ancora lungo e irto di accidenti e false piste; non possiamo quindi svolgerlo
in questo testo. Proviamo però a immaginare che questa ipotesi riesca a spingersi fino al punto di
contemplare il nostro agire nel mondo, così che possiamo provare a procedere ancora per qualche
passo nella stessa direzione.

A questo punto, tutte le nostre operazioni nel mondo sono orientate da quello che scopriamo in esso,
cioè da ciò che riconosciamo, da ciò che si staglia sullo sfondo e che resta riconoscibile anche quando lo
sfondo si articola nelle sue infinite declinazioni che chiamiamo “mondo”.
Il nostro mondo si costituisce, in definitiva, dai pattern intricati che si sono consolidati durante lo
svolgimento della nostra vita e che costituiscono lo sfondo sempre rinnovato delle nostre operazioni
nel mondo. Di conseguenza questo mondo/sfondo è diverso per ognuno, ma la sua formazione è
coordinata dalle interazioni ricorsive che ognuno ha con i suoi abitanti, vale a dire che esso si costituisce
con un processo di deriva orientata collettivamente in modo che molti dei pattern che ognuno ha
sviluppato si manifestano con coerenza rispetto ai pattern degli individui con cui interagiamo
abitualmente, proprio in virtù di questa interazione abituale20, così che possiamo far finta che questi
pattern coincidano, che tutti viviamo nello stesso mondo.
Da questo punto di vista noi siamo i pattern che abbiamo sedimentato nella nostra esistenza, noi siamo
lo sfondo delle nostre operazioni, dove il verbo “siamo” non esce dalla nostra descrizione per entrare in
un mondo di Verità e Idee, ma nella migliore delle ipotesi è uno strumento utilizzabile, una ulteriore
distinzione, che ci permette di operare nel mondo, cioè in definitiva in noi stessi.

Noi chi? Da un lato è evidente che un uso indefinito del pronome “noi” è sempre sottoposto a
un’identificazione sottintesa insieme a una formalizzazione linguistica degli usi sensati di questo
pronome, vale a dire a una qualche forma oggettivazione, spontanea o imposta che sia, del soggetto
parlante.
Naturalmente è la divisione dei saperi, afferenti all’Accademia oppure alla sfera privata, ognuno con le
proprie tecniche e linguaggi, che ci fornisce una direzione operativa nel rispondere alla domanda. Ma
non importa quanto questi saperi siano funzionali ad una struttura di potere, quanto agiscano come
dispositivo nel guidare le nostre azioni e i nostri pensieri: ogni risposta viene organizzata attraverso
operazioni linguistiche di sostituzione del primo oggetto, “noi”, con una selezione dalla rete di vincoli
semantici che partendo da “noi” conduce ad “altri da noi” e alle interazioni che abbiamo con essi.
Allora “noi” diventiamo di volta in volta coloro che lavorano, sognano, che comperano e ascoltano
musica, che fanno il tifo; oppure veniamo sostituiti dai dati che emanano gli strumenti e i computer che
sono collegati al nostro corpo o al nostro conto in banca.
Noi parliamo di “noi stessi” quando ci osserviamo l’un l’altro attraverso sonde semantiche e
parametriche che ci forniscono dati più o meno “positivi”, i quali ci permettono di dividerci in gruppi e
di attribuirci delle etichette, delle identità. E dunque bisogna sempre mettere in conto la presenza di un
osservatore che attraverso l’organizzazione dei dati individua opposizioni identitarie, giacché non è
pensabile una identità senza un contesto che la contenga come una delle identità possibili.
Dire che noi siamo i nostri pattern, sostenere insomma che le nostre operazioni nel mondo sono
definite da ciò che riconosciamo, inserisce il problema dell’identità all’interno di un contesto più ampio
all’interno del quale viene individuato quel sottoinsieme di riconoscimenti che vengono considerati
l’espressione di una identità, ma allo stesso tempo pone l’analisi delle identità come una distinzione che

20 Questa idea di “deriva cognitiva” è assolutamente debitrice del lavoro di H. Maturana e F. Varela.
viene realizzata sulla base di quello che noi siamo in grado di riconoscere delle identità, nelle quali
cerchiamo di risolvere il contesto che stiamo studiando.
Non c’è quindi da stupirsi se, poiché riconosciamo sulla base del contrasto contro uno sfondo, noi
percepiamo solo differenze: si tratta di una logica dell’opposizione, da cui dipendono non solo l’analisi
delle identità, ma anche la loro percezione individuale.
Se siamo i pattern o più precisamente quei pattern che sono stati acquisiti così profondamente da non
essere più presenza, ma sfondo sul quale operiamo, noi non siamo in grado di accorgerci della nostra
identità fino a quando questa non viene violata, fino a quando insomma non siamo sottoposti
forzatamente alla delusione delle nostre aspettative più basilari.
Siamo dunque sordi a noi stessi, o anche ciechi e insensibili. Almeno fino a quando non entriamo in
conflitto con il mondo e percepiamo l’identità come una violazione del nostro mondo, oppure come la
bandiera sotto cui ricostituirlo.
Ma l’ampio contesto dei pattern che abbiamo assimilato, la scala attorcigliata che si diparte da ben
prima che ci potessimo chiamare esseri umani, fenotipicamente e genotipicamente, si sviluppa ben oltre
i livelli con cui abbiamo scelto di caratterizzare l’identità, in tutte e due le direzioni. Da un lato abbiamo
gli infiniti livelli delle operazioni sul mondo con cui reagiamo alle trasformazioni del nostro sfondo:
sono i livelli che dall’identità conducono alla personalità.
Dall’altro lato abbiamo altrettanti infiniti livelli che conducono a identità più ampie, agli epistemi, al
linguaggio, al nostro essere umani o semplicemente vivi.
Se noi ci rendiamo conto solo dei riconoscimenti definiti dalle pratiche con cui interagiamo
ricorsivamente nel nostro ambiente, come potremo costruire opposizioni identitarie quando questo
ambiente diventa globale, quando cerchiamo di analizzare i pattern che sono più generalmente condivisi
all’interno del contesto in cui operiamo? Se l’identità segue una logica d’opposizione, la scoperta dei
processi di soggettivazione segue quindi una logica della possibilità, una logica basata sull’impossibilità
di creare opposizioni se non nella storia o nelle possibili declinazioni del linguaggio ed è per questo che
l’indagine sul soggetto non può che essere un’analisi di indizi e di trasformazioni genealogiche.

Il pattern, che è in fondo, lo ricordiamo, l’ipostatizzazione di un riconoscimento, sembra dunque


prestarsi a dispositivo con cui pensare a identità e soggetto, per nominare solo due aree semantiche di
questa scala cognitiva, come orientamenti dei discorsi dell’essere umano sull’essere umano in quanto
costruttore di conoscenza. Ma si tratta di un dispositivo di carattere eminentemente temporale, che si
fonda su un meccanismo in cui futuro e passato si incontrano nel presente della distinzione, dunque
pone i problemi di identità e soggetto in prospettiva genetica. E lo fa attraverso il legame con la
frequenza delle nostre esposizioni a pratiche, che certamente dipendono dalla deriva collettiva, ma
possono anche essere coercitive. Noi sedimentiamo i nostri pattern, orientando le nostre operazioni
ricorsive nel mondo, in relazione a quante volte abbiamo riconosciuto determinate costellazioni
cognitive. Noi non siamo semplicemente i nostri pattern, ma siamo prima di tutto, per così dire, la “top
ten” dei nostri nostri pattern, così che quanto più abbiamo consolidato il riconoscimento di un pattern
tanto più questo ha risalito una gerarchia di incorporazioni fino a radicarsi nella nostra “naturalità”
dell’essere al mondo. Siamo quindi indifesi di fronte alla forzata esposizione a pratiche che ci
costringono a riconoscere, a incorporare e alla fine a incuneare nella nostra coscienza pattern divenuti
ormai oggetti, quindi attuatori di oggettività, di Verità incontrovertibili.
La cultura della globalizzazione, con le sue corporation, i suoi mass media, i social network e i meme, ha
il potere, un potere di entità mai raggiunta in precedenza, di sottoporci a pattern poietici che hanno la
potenzialità di trasformarsi, e trasformarci, in pattern estesici21 , guidandoci nella formazione dei nostri
pattern, in modo da creare un uomo globalizzato, ma allo stesso tempo convinto di avere una identità
locale, una genuina e originale personalità.
Siamo dunque docili a cambiamenti di cui neppure ci accorgiamo perché siamo concentrati sulla figura
e non sullo sfondo che cambia con noi. Siamo pronti ad abbracciare abitudini che mai avremmo accolto

21 La distinzione tra “poietico” ed “estesico” fa riferimento al modello semiotico di J. Molino (vedi J.J. Nattiez,
cit.) secondo cui nel processo di comunicazione gli interpretanti dell’emittente sono diversi da quelli del
destinatario. In particolare si vuole sottolineare come le pratiche ricorsive di un operatore (i pattern poietici) non
coincidano necessariamente con la ricezione (i pattern estesici) che il destinatario, voluto oppure occasionale, ha
di esse.
se avessimo avuto la possibilità di scegliere, perché costretti dalla deriva dei riconoscimenti, ben pilotata
da chi controlla la statistica di ciò a cui siamo esposti.

Possiamo lasciare chi legge con questa visione apocalittica, ma dobbiamo ricordare che il modello
proposto riguarda la cognizione, quindi la cognizione di tutti, compresa quella di chi può e vuole
dominare. Dunque anche le possibili strategie di liberazione non possono che seguire il percorso dei
riconoscimenti e prendere la via della logica oppositiva delle identità, mostrando il suo lato
insurrezionale oppure schiudersi a una più profonda logica delle possibilità.
Non basta però essere disponibili all’altro: certo la curiosità è una motivazione fondamentale per
riuscire a sopportare la fatica di guardare sotto il velo che ricopre il nostro mondo e dunque noi stessi.
È però necessario creare nuovi pattern, svegliare l’attenzione a nuovi riconoscimenti, così da
neutralizzare, almeno in parte, la potenza oggettivante dei processi coercitivi di formazione identitaria e
di soggettivazione. È allora necessario rendersi conto del ruolo attivo che ognuno di noi ha nella
propria costruzione dei pattern, scegliendo a cosa esporsi, rendendosi conto che è prima di tutto la
frequenza delle esposizioni a cui siamo soggetti che fa di noi ciò che siamo. Bisogna dunque recuperare
la responsabilità verso le nostre operazioni di distinzione guidandole verso obiettivi che siamo
alternativi a quanto ci propongono i media e, se possibile, attuare strategie di sovversione percettiva,
ridisegnando i pattern che ci vengono proposti anche in modo del tutto imprevedibile e sperimentale,
gettandoci a capofitto nelle ricorrenze statisticamente più insignificanti. E non c’è ossessione mediatica
che tenga, queste non ci potranno mai essere portate via da nessuno.

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