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INFORMATIZZATA
"c'è più utilità in una favola che in una industria siderurgica"
di Luigi CAMINITI
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Jean Baudrillard nel 1974, denunciava: "come la società del Medio Evo si
reggeva in equilibrio su Dio e sul diavolo, così la nostra si regge sul consumo
e sulla sua denuncia. Ancora attorno al diavolo potevano organizzarsi eresie e
sette di magie nera. La nostra magia invece è bianca: nessuna eresia è
possibile nell'opulenza: E' la bianchezza profilattica di una società satura, di
una società senza vertigini e senza storia, senza altro mito al di fuori di se
stessa". Le parole del filosofo francese colpiscono nel segno perché la
denuncia, benché spettacolare (ancora meglio se spettacolare) , è soltanto
funzione del Sistema operante, è un'appendice necessaria per ridurre le
contraddizioni e riportare il tutto su una piattaforma omogenea. Appare così
comprensibile il fatto che i modelli di riferimento per i ragazzi di N.Y. come
per quelli di Palermo o di Stoccolma, al di là di qualsiasi teoria sul "villaggio
globale", appaiano sempre più simili e rispondenti agli stessi requisiti.
Baudrillard ha spiegato questo fenomeno come il mito del Cargo: "Gli
indigeni della Melanesia erano rapiti alla vista degli aerei che sfrecciavano in
cielo. Ma mai questi oggetti discendevano fin verso di loro. I bianchi
riuscivano invece a catturarli. E questo perché essi, a terra, disponevano, in
certi determinati spazi, di oggetti simili capaci di attrarre gli aerei volanti.
Perciò gli indigeni pensarono di costruire, con rami e liane un simulacro di
aereo; delimitarono poi un terreno, che illuminavano accuratamente durante la
notte, e si misero ad attendere pazientemente che i veri aerei vi si posassero...
Il miracolato del consumo mette in mostra tutto un dispositivo di oggetti-
simulacri, di segni caratteristici di felicità, e poi attende ... che la felicità vi si
posi". L'analogia appare evidentemente fondata appena si pensa alla
diffusione su scala mondiale di indumenti firmati, di automobili ultra potenti,
di un determinato profumo, tutte cose che rispondono poi alla definizione di
un modello particolare di uomo ultrapotente dal punto di vista sessuale,
economico, influente nelle amicizie, raffinato ecc... Così, ad esempio, negli
anni di rampante yuppismo portare l'orologio sopra il polsino della camicia
come Gianni Agnelli era, come per gli indiani della Melanesia con il grande
uccello costruito con le radici e le liane, il simulacro attraverso il quale molti
giovani imprenditori o managers tentavano di catturare l'immagine del
modello al quale si ispiravano col risultato, spesso, di imitare invece la rana
della favola che si gonfia fino a scoppiare pur di somigliare al bue. Proprio
questa favola ci offre però lo spunto per approfondire i termini della
questione: il gonfiarsi, il diventare più grande, più imponente non significa
altro se non un tentativo di mostrare la propria potenza. Ma la rana non è il
bue e le sue caratteristiche sono completamente diverse da quel modello. Così,
se la rana avesse chiesto al bue di fare una gara di salto, avrebbe avuto più
possibilità di ben figurare e di vedere affermata la propria abilità. Le
differenze, detto in altri termini, non vanno valutate a tutti i costi con il solo
modello quantitativo ma anche secondo la categoria della qualità.
In una società portata a quantificare tutto, è chiaro però che io sono quanto ho,
cioè sono quello che ho. L'avvento della società postindustriale
completamente automatizzata, ha cambiato la nostra stessa percezione delle
cose. La nostra mente organizza i dati che vi affluiscono ponendo i concetti in
categorie culturali continuamente modificate. La precarietà e la
trasformabilità, più ancora che il relativismo sono le condizioni di uno stato
permanente nel quale ci troviamo. Ma ciò che noi misuriamo è non meno
astratto di ciò che non possiamo misurare. E' concreto lo spazio vuoto, la
distanza tra due punti, l'economia che studiamo sui libri? I numeri sono
concreti? Le proporzioni aritmetiche sulle quali poggiano le nostre certezze
sono concrete? Pur tuttavia noi ci serviamo incessantemente di astrazioni per
raggiungere il mondo della nostra realtà quotidiana, per andare sulla luna
come per riparare una fontana che gocciola. Ci serviamo di norme, di postulati
non dimostrati perché fondati sull'evidenza (ma poi che cosa è mai
l'evidenza!) per dimostrare la concretezza di qualcosa che ci è utile. E tutto
questo non nega che dietro la quantità delle cose ci sia un valore che le cose
stesse hanno per noi, un valore che non è quantificabile o misurabile. La cieca
fede nella modernità, il suo miraggio di benessere da cogliere oltre la linea di
confine appena segnata, ci fa però credere che noi viviamo in un mondo di
certezze, che tutto è al sicuro finché è misurabile, perché se è misurabile è
definito e concreto. Così il ragazzino si misura con gli altri suoi coetanei non
per il suo valore o la sua abilità, ma per la quantità di cose che ha, o per il
valore, quantificabile nel prezzo di acquisto, delle cose che ha.
La risposta alla logica del dominio, repressiva per sua stessa natura, non può
avvenire che attraverso l'affermarsi di un altro principio di realtà. Questo
principio si può imporre solo oggi che il grande progresso scientifico e
tecnologico permette all'uomo di poter vivere senza la preoccupazione della
lotta per la sopravvivenza, di essere svincolato dalla miseria, dalla fame, dalla
necessità. L'imporsi di una dimensione estetica significa ridisegnare la propria
esistenza e il proprio mondo sotto le regole e le necessità della bellezza,
eliminare l'interesse personale in cambio della soddisfazione personale.
Soddisfazione che è sensuale e che deriva dal piacere che riusciamo a trarre
dalla bellezza di quello che c'è e di quello che riusciamo a creare. La creatività
dell'uomo è infatti la condizione irrinunciabile di qualunque tipo di obiettivo
possibile. Per ipotizzare bisogna essenzialmente immaginare, ed è
nell'impossibilità di immaginare che le ipotesi di sviluppo di questo Sistema si
arenano. Forse era questa la tragedia incipiente che Nietzsche paventava
quando contrapponeva alla speranza del superuomo la finta serenità dell'uomo
finale: "un uomo che non partorirà più nessuna stella". Ed è davvero poco lo
spazio intenzionalmente lasciato all'immaginazione nei paesi
tecnologicamente sviluppati perché le ipotesi di sviluppo partono tutte
dall'alto, da studi che servono soltanto a perpetrare sistemi sempre più
complessi ma la cui unica logica è sempre quella della sopraffazione, più o
meno coperta dal consenso istituzionale. La società tentacolare, piuttosto che
unidimensionale, raccoglie e fagocita tutte le contraddizioni dentro di sé. Le
interiorizza e le rende parte di se mercificandole, producendole in serie,
spettacolarizzandole. La morte in diretta, dei condannati a morte come delle
vittime della lupara, è stata per qualche tempo, almeno fino alla costituzione
in Italia di una commissione di controllo, lo strumento per mezzo del quale
registrare audience sempre maggiori per i networks. Non importa più che cosa
o chi è protagonista sulle colonne della carta stampata o sugli schermi dei
telegiornali. E' importante invece lo scandalo, l'eccitazione che la notizia
provoca o può provocare, tanto la società nella quale viviamo ha sempre in sé,
nel momento in cui testimonia gli avvenimenti con la notizia giornalistica, con
l'analisi e il commento, con le copie vendute e l'audience alle stelle, la
capacità di esorcizzare qualsiasi evento. Le guerre, le pestilenze, la carestia, la
fame, diventano eventi spettacolari, immagini fantastiche e ipnotiche che non
ci riguardano comunque mai direttamente. Il buco dell'ozono, la guerra nel
Golfo, la partita di calcio, i genocidi in Bosnia o nel Burundi, i processi
spettacolari, le catastrofi naturali, le epidemie, al pari dell'elezione del
Presidente, dell'acquisto del calciatore e della assoluzione o della condanna
dell'imputato, sono utili solo finché sono in grado di "fare notizia", poi
svaniscono nel nulla come fantasmi evocati da qualche altra parte o come i
personaggi e le atmosfere dell'ultimo serial televisivo. La nostra società è in
grado di esorcizzare tutti questi mali e di archiviarli come "già visto" alle
nostre coscienze. La nostra è una società dove tutto è possibile a patto che sia
quantificabile e misurabile. La creatività, la fantasia in quanto non misurabili,
non quantificabili, non utili immediatamente sono ostacolate, malviste,
valutate rischiose se non dannose. E allora tutta la nostra cultura diventa
improvvisamente povera, sterile, vuota perché costruita sull'impossibile e sui
sogni, sul fantastico e sull'immaginazione. Perché c'è più fantasia in Isaac
Newton, forse, che in tutte le opere d'arte del Settecento. E c'è più utilità, del
resto, in una favola che in una industria siderurgica.