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Il Giorno del Ricordo

Tra riduzionismi e forse voluti fraintendimenti


di Luigi Morrone

Scriveva il grande medievista francese Jacques Heers


che lo storico indulge volentieri al “gioco puerile” di
distribuire biasimo ed elogio, essendo “privo di attratti-
va” indagare a fondo le fonti storiche, narrare i fatti,
analizzarli, spiegarli asetticamente, trovando più soddi-
sfazione ad ergersi a giudice scegliendo tra chi “ha fatto
la storia” chi è “eroe positivo” e chi “eroe negativo”.
A questo fenomeno, che esiste da sempre, ma è diven-
tato massiccio a partire dalla Rivoluzione francese, si
aggiunge spesso la tendenza di certi storici ad usare
l’analisi del passato come strumento di lotta politica.
La tragedia epocale degli italiani del confine orientale è
stata purtroppo per decenni trattata dalla storiografia
mediante l’utilizzo degli stereotipi suddetti.
Un mainstream storiografico, saldamente dominato da
una sedicente “sinistra” per lo più passata direttamente
dai ranghi del PNF a quelli del PCI, ha teso dapprima a
tacere rastrellamenti, massacri, persecuzioni, di cui so-
no stati oggetto i nostri connazionali dell’Istria, della
Venezia Giulia, della Dalmazia, del Friuli, per poi mi-
nimizzarli e ridurli a jacquerie di gruppi isolati, para-
gonate da uno dei manuali scolastici più diffusi nella
seconda metà del secolo scorso alle azioni perpetrate
nel “Triangolo rosso” dell’Emilia dopo il 25 aprile
1945, e relegando ambo i fenomeni nell’ambito di “re-
golamenti di conti” nei confronti di personaggi ritenuti
legati o collusi con il regime fascista.

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Solo dall’ultimo decennio del secolo scorso si è regi-
strato un approccio storiografico più attento alle fonti
ed alla corretta interpretazione dei fenomeni. Lavori
come quelli di Marina Cattaruzza, Carlo Ghisalberti,
Egidio Ivetic, Luciano Monzali, Raoul Pupo, fino al
saggio di alta divulgazione, Italiani due volte, di Dino
Messina, destinato per molto tempo a fungere da refe-
rence book sul tema, hanno correttamente individuato
le azioni terroristiche degli slavi nei confronti degli ita-
liani come azioni antiitaliane, negando in ogni caso la
proporzionalità della reazione rispetto alle politiche an-
ti-slave messe in atto dal fascismo prima del giugno
1940
L’istituzione, nel 2004, del “Giorno del Ricordo”, da
celebrare quale solennità nazionale il 10 febbraio di
ogni anno, il conferimento, durante la presidenza
Ciampi, di medaglie d’oro a Franco Paglia, caduto du-
rante i moti del 1953 per Trieste italiana, a Norma Cos-
setto, una delle prime infoibate, al gonfalone di Zara,
città simbolo dei pogrom antiitaliani, sembravano aver
trovato, quanto meno, un denominatore comune per fis-
sare una “memoria condivisa” di questo dramma.
Purtroppo, le pretese di chi si sente “dalla parte giusta
della storia” non hanno consentito di chiudere il cerchio
di questo processo.
L’onnipresente ANPI ha preteso di cambiare la motiva-
zione del conferimento della medaglia d’oro al gonfa-
lone di Zara; i manuali scolastici sono ancora fortemen-
te reticenti sul tema, esiste comunque una corrente sto-
riografica che lega con rapporto di causa-effetto le per-
secuzioni degli italiani alle azioni antislave dei fascisti.

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Va dato atto, comunque, all’Istituto regionale per la sto-
ria della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli
Venezia Giulia di avere tentato un approccio alla que-
stione diverso da quello del mainstream, redigendo un
“vademecum per il giorno del ricordo”, curato da Glo-
ria Nemec, Raoul Pupo e Anna Vinci, che si sforza di
superare gran parte delle reticenze e delle amnesie che
hanno caratterizzato la storiografia “orientata”.
Tuttavia, restano i “riflessi condizionati” determinati
dal fatto che a coloro che nella Seconda Guerra Mon-
diale stavano “dalla parte giusta della storia” non pos-
sano essere attribuite azioni che, nell’immaginario in-
dotto da 75 anni di storiografia di parte, erano da attri-
buire unicamente a quelli che stavano “dalle parte sba-
gliata”.
Così, la amnesia (o omertà?) più grave è quella riguar-
dante i partigiani friulani, giuliani, istriani, che furono
oggetto di persecuzione per il solo fatto di non abbrac-
ciare la fede titina. Certo, l’episodio più grave è quello
dell’annientamento della brigata Osoppo a malga Por-
zûs, ma vi furono altri episodi, meno gravi, ma comun-
que sintomatici di un disegno complessivo anti-italiano
dei partigiani, anche italiani, che avevano sposato le ri-
vendicazioni titine su Friuli, Venezia Giulia, Istria e
Dalmazia.
La strage di Porzûs è stata a lungo rimossa (ancora og-
gi, è difficile trovare un libro scolastico che la riporti),
poi attribuita ad iniziativa della “testa calda” Mario
Toffanin detto “Giacca”, mentre è da attribuire ad una
precisa strategia. Nel Vademecum non c’è traccia di
questa strategia, men che mano della strage di Porzûs.

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Così, si fa un’acrobazia dialettica, per negare che si sia
trattato di “pulizia etnica”, con una sottile distinzione
tra “etnia” e “nazione”. Ma non è così. “Razza” e “Na-
zione” differiscono, e sono gli stessi razzisti a dirlo. Si
legge nel Manifesto degli scienziati razzisti (noto anche
come Manifesto della Razza), pubblicato originaria-
mente in forma anonima sul Giornale d'Italia il 14 lu-
glio 1938 col titolo Il Fascismo e i problemi della raz-
za: «Il concetto di razza è concetto puramente biologi-
co. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non
i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmen-
te su considerazioni storiche, linguistiche, religiose».
Ma l’“etnia” no. La “etnia”, come si legge nello Zinga-
relli è un “raggruppamento umano distinto sulla base di
caratteri geografici, linguistici e culturali … che privi-
legia il concetto di cultura rispetto a quello di razza”.
D’altra parte, il termine greco antico ἔθνος, da cui deri-
va “etnia”, è dagli autori latini tradotto con “Natio”. Il
termine “Natio” viene usato nell’Alto Medioevo da
Beda il Venerabile, nella sua Historia ecclesiastica
gentis Anglorum, scritta nella prima metà dell’VIII se-
colo, di capitale importanza per comprendere come un
popolo possa creare sé stesso prima che la comunità co-
sì creata possa generare entità politiche che recepiscano
il dato unitario (l’Inghilterra come entità politica si
formerà più tardi, nel X secolo).
Nessuna validità ha, pertanto, il funambolismo del Va-
demecum nel negare che si tratti di “pulizia etnica” per-
ché gli italiani furono perseguitati per la loro nazionali-
tà e non per la loro razza.
A maggior ragione fu “pulizia etnica” perché la perse-
cuzione si abbatté anche su quelli che erano italiani

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“per scelta”, pur avendo origini diverse, ma essendo di
sentimenti italiani. Se un popolo, una nazionalità si crea
sempre e comunque per identità culturale, ciò è mag-
giormente visibile nell’Adriatico orientale dove, come
diceva Niccolò Tommaseo ne La questione dalmatica
scritta nel 1861: «Né solo i sangui si sono commisti, e
le glorie e i dolori, le utilità e le speranze compenetrate-
si; Famiglie slave assunsero nomi italiani; talché gli
odiatori del nome italiano può dirsi che a doppio titolo
odiano la patria, rinnegano sé stessi». Non è senza si-
gnificato che molti proseliti dell’irredentismo triestino
avessero origini croate e slovene, greche, ebraiche, ar-
mene.
Amnesie e reticenze del Vademecum sono state rilevate
in sede politica, con un’interrogazione di alcuni consi-
glieri della Regione Friuli Venezia Giulia. Ciò ha dato
l’estro a Nicoletta Bourbaki, un’esponente della corren-
te storiografica maggiormente restia ad accettare gli
approdi ormai assodati dagli studiosi più attenti, a iro-
nizzare sul fatto che ora proprio su Raoul Pupo si sia
ribaltata l’accusa di “negazionismo”. Accusa che lo
stesso Pupo aveva rivolto alla Bourbaki.
L’articolo della Bourbaki è un vero paradigma di come
si sia ancora davvero lontani da una “memoria condivi-
sa” che trovi un “asse medio” su cui confrontarsi. A chi
parla di pulizia etnica viene rivolta l’accusa di “fasci-
smo”. E si rovescia letteralmente la realtà, quando si
accusa chi si approccia all’argomento senza pregiudizi
su “buoni” e “cattivi” di voler imporre un “pensiero
unico”, mentre è vero l’esatto contrario, quando, infine,
si ripetono le tesi per le quali la “ferocia titina” è inven-
zione della “propaganda nazifascista”. Insomma, per la

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Bourbaki il tempo si è fermato a quando della tragedia
degli italiani dell’Est non si poteva parlare perché era
“roba da fascisti”.
Ma, in sede scientifica, le aporie del Vademecum sono
state fatte notare da Eugenio Di Rienzo sul blog “La
Nostra Storia” del Corriere della Sera il 14 giugno 2019
(http://lanostrastoria.corriere.it/2019/06/14/alcune-
amnesie-nel-vademecum-sul-giorno-del-ricordo). Nello
stesso blog, all’articolo ha risposto, piccato, Raoul Pu-
po, per conto dell’Istituto
(http://lanostrastoria.corriere.it/2019/06/17/foibe-ed-
esodo-raoul-pupo-risponde-a-eugenio-di-rienzo/), ri-
vendicando ad esso una meritoria opera di approfondi-
mento dell’argomento. Ma nel farlo ha ribadito lo stes-
so equivoco del Vademecum, confondendo “etnia” e
“razza”, che sono concetti tra loro diversissimi.
In realtà, quello perpetrato contro gli italiani del confi-
ne orientale fu un vero e proprio democidio, cioè “l'in-
tenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo
nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”, se-
condo la definizione del termine approvata dall’ONU.
Ma il “riflesso condizionato” della storiografia tenden-
ziosa non ammetterà mai che coloro che si trovavano
“dalla parte giusta della storia”, abbiano potuto com-
mettere quel crimine.

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