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Gli interessi e l’anatocismo

In applicazione del principio di naturale fecondità del denaro,


le obbligazioni pecuniarie, cioè, quelle aventi ad oggetto il
pagamento di una somma di denaro, sono produttive di
interessi. Gli interessi sono prestazioni accessorie, omogenee
rispetto all’obbligazione principale, che si producono per
effetto del decorso del tempo, essi, dunque, costituiscono
l’oggetto di una obbligazione pecuniaria accessoria che si
aggiunge ad un’altra obbligazione pecuniaria principale (c.d.
obbligazione di capitale).
In relazione alla fonte, si distinguono interessi legali ed
interessi convenzionali: gli interessi legali sono quelli dovuti in
mancanza di diversa pattuizione delle parti, essi sono fissati
annualmente con apposito Decreto Ministeriale, sulla base del
rendimento dei titoli di Stato di durata inferiore ad un anno e
tenuto conto del tasso di inflazione. Gli interessi convenzionali,
invece, sono quelli determinati di comune accordo tra le parti,
la pattuizione in misura superiore al tasso legale deve rivestire
la forma scritta ad substantiam, in mancanza, gli interessi sono
dovuti nella misura legale. La disposizione mira in tal modo ad
evitare fenomeni di approfittamento in danno del debitore,
richiamando l’attenzione dello stesso sulla misura degli
interessi pattuiti.
Con riferimento alla funzione, gli interessi si distinguono in
moratori, corrispettivi e compensativi.
Gli interessi moratori hanno la funzione di risarcire il danno
subito dal creditore a causa del ritardo nel pagamento da parte
del debitore, essi sono dovuti dal giorno della costituzione in
mora, anche se il creditore non prova di aver subito alcun
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danno. Gli interessi moratori sono dovuti nella misura del tasso
legale, se però prima della mora erano dovuti interessi in
misura superiore a quelli legali, gli interessi moratori sono
dovuti nella stessa misura. In ogni caso, però, se il creditore
dimostra di aver subito un danno superiore, ha diritto al
relativo risarcimento.
Gli interessi corrispettivi rappresentano, invece, la
remunerazione dovuta al creditore per aver attribuito
temporaneamente a terzi il godimento del proprio denaro. Essi
sono previsti dall’art. 1282 c.c. , il quale, subordina la
corresponsione degli stessi alla circostanza che il credito sia
liquido, cioè, esattamente determinato nel suo ammontare ed
esigibile, cioè, non sottoposto a termine o condizione. Gli
interessi corrispettivi decorrono automaticamente e di pieno
diritto, senza alcun onere per il creditore, con la sola
esclusione dei debiti per fitti e pigioni, che producono interessi
solo dalla formale costituzione in mora del debitore, nonché, i
legati e le obbligazioni da indebito, per i quali, gli interessi
decorrono dal giorno della domanda giudiziale. Gli interessi
corrispettivi svolgono, dunque, una funzione propriamente
remuneratoria e costituiscono diretta applicazione del
principio della naturale fecondità del denaro, in tale
prospettiva, essi costituiscono veri e propri frutti civili ai sensi
dell’art. 820 c.c. .
Altra tipologia di interessi è, infine, costituita dagli interessi
compensativi, che vengono corrisposti per motivi di equità a
causa del ritardato conseguimento, da parte del creditore,
della prestazione dovuta. A differenza di quelli corrispettivi, gli
interessi compensativi decorrono pur non essendo il credito
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liquido ed esigibile, a differenza di quelli moratori, invece, non
conseguono ad un illecito contrattuale, essendo dovuti anche
nel caso in cui il ritardo non sia imputabile al debitore ed a
prescindere dalla costituzione in mora. Il legislatore prevede
espressamente gli interessi compensativi in materia di vendita
di cose fruttifere all’art. 1489 c.c. , la disposizione mira a
tutelare l’equilibrio economico del rapporto giuridico,
stabilendo che gli interessi, qualora la cosa venduta e già
consegnata al compratore, produca frutti ed altri proventi,
decorrono anche se il prezzo non è ancora esigibile. Infatti, in
mancanza di tale disposizione, l’acquirente conseguirebbe
contemporaneamente i frutti della cosa consegnata ed il
vantaggio derivante dalla disponibilità della somma non ancora
versata al debitore.
Una problematica molto discussa in materia di obbligazioni
pecuniarie è quella relativa all’anatocismo. Il termine deriva
dal greco anatokismòs ed indica il fenomeno in forza del quale,
gli interessi già maturati, accorpati al capitale originario
(capitalizzati), producono ulteriori interessi. Diffuso nella
Grecia antica, già in epoca romana l’anatocismo veniva
costantemente qualificato come riprovevole, tanto da essere
espressamente vietato a partire dall’età repubblicana, in
quanto idoneo a penalizzare oltremisura la posizione debitoria.
Anche in epoca successiva si rinvengono evidenti tracce di
avversione del fenomeno anatocistico, in particolare,
nell’elaborazione canonistica qualunque convenzione che
contenesse un patto d’anatocismo veniva sanzionato con la
nullità, del resto nel diritto canonico il mutuo era configurato
come negozio essenzialmente gratuito, al quale non poteva
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accedere alcuna prestazione accessoria di carattere oneroso.
E’ solo con il codice napoleonico del 1804 che si assiste ad una
parziale apertura consentendosi la capitalizzazione degli
interessi in presenza di determinate condizioni. Tale
impostazione fu sostanzialmente trasfusa nel Codice Civile
italiano del 1865 che ammetteva l’anatocismo a condizione che
gli interessi fossero scaduti e quindi esigibili da almeno un
anno e che fossero stati oggetto di domanda giudiziale o di
specifico patto successivo tra debitore e creditore; il Codice del
Commercio del 1882 poi ammetteva l’anatocismo secondo gli
usi e le consuetudini.
Anche il Codice Civile del 1942 all’art. 1283 c.c. continua a
prevedere un generale divieto di anatocismo, tuttavia, in linea
con le previgenti disposizioni normative, prevede delle
significative eccezioni, più precisamente, l’anatocismo è
ammesso: dal giorno della domanda giudiziale ovvero per
effetto di convenzione tra le parti posteriore alla scadenza ed,
in entrambi i casi, purché si tratti di interessi dovuti da almeno
6 mesi. Inoltre, l’anatocismo è ammesso in presenza di usi
normativi, cioè, comportamenti costantemente ed
uniformemente tenuti dalla generalità dei consociati (usus) ed
accompagnati dalla convinzione che essi siano giuridicamente
obbligatori, in quanto, conformi ad una norma già esistente o
che si reputa debba fare parte dell’ordinamento giuridico
(opinio juris ac necessitatis). Gli usi normativi cui fa
riferimento l’art. 1283 c.c. sono, in ogni caso, necessariamente
anteriori all’entrata in vigore del Codice Civile del 1942,
infatti, avendo l’art. 1283 c.c. carattere di norma imperativa,

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non è ipotizzabile la formazione di usi contrari dopo la sua
entrata in vigore.
Particolarmente dibattuta è stata nell’ultimo decennio la
tematica dell’anatocismo bancario: per molti anni, infatti, le
banche hanno imposto nei rapporti con la clientela ed in
deroga all’art. 1283 c.c., una capitalizzazione trimestrale degli
interessi passivi, sull’assunto che tale pratica si fondasse su un
uso normativo.
A partire dalla fine degli anni ’90 la giurisprudenza, mutando il
proprio precedente orientamento, ha ritenuto la clausola di
capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi nulla per
contrasto con l’art. 1283 c.c. , in quanto non fondata su un uso
normativo anteriore all’entrata in vigore del Codice Civile.
In tale prospettiva, è stato sottolineato come nessun elemento
permette di affermare che, prima del 1942, esistesse un uso
normativo che consentisse la capitalizzazione trimestrale degli
interessi a carico dei clienti degli istituti di credito. Al
contrario, tale pratica sembra essere stata introdotta, per la
prima volta, dalle c.d. norme bancarie uniformi, elaborate
dall’ABI nel 1952, le quali, in quanto condizioni generali di
contratto predisposte da un’associazione di categoria, non
hanno certamente carattere di uso normativo. Del resto, anche
dal punto di vista soggettivo, appare evidente che la clausola di
capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi si fonda, non
sulla convinzione di entrambi i contraenti che essa sia
giuridicamente obbligatoria, ma sull’imposizione degli istituti
di credito come clausole non negoziabili, sicché, manca
l’elemento costitutivo dell’opinio juris ac necessitatis proprio
degli usi normativi.
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Il legislatore nel tentativo di limitare il contenzioso, che il
nuovo orientamento giurisprudenziale rischiava di innescare, è
intervenuto con il D.Lgs. 342/99, successivamente attuato con
la delibera CICR del 9 febbraio 2000, che ha riconosciuto la
legittimità delle pattuizioni anatocistiche nei contratti bancari,
purché, sia rispettato il principio della medesima periodicità
nella capitalizzazione attiva e passiva.
Per le clausole stipulate anteriormente a tale data, tuttavia,
permane la nullità per contrasto con l’art. 1283 c.c. poiché, la
Corte Costituzionale con la sentenza n. 425/2000, ha dichiarato
incostituzionale l’art. 25 del D.Lgs. 342/99, nella parte in cui
riconosceva la piena validità ed efficacia alle clausole
anatocistiche anteriormente stipulate, purché venissero
adeguate alle nuove previsioni.
E’, dunque, su tali clausole, soggette alla previgente disciplina,
che si è sviluppata l’elaborazione giurisprudenziale, in
particolare, l’attenzione della giurisprudenza si è recentemente
soffermata sulla decorrenza della prescrizione dell’azione di
ripetizione delle somme indebitamente versate alla banca.
Infatti, se l’azione volta a far valere la nullità della clausola di
capitalizzazione trimestrale degli interessi è senza dubbio
imprescrittibile ex art. 1422 c.c. , l’azione di ripetizione
dell’indebito versato, in applicazione di tale clausola, è
soggetta a prescrizione decennale.
Il problema è stabilire il momento in cui la prescrizione inizia a
decorrere: secondo un primo orientamento, tradizionale, il
termine di prescrizione inizia a decorrere al giorno della
chiusura definitiva del rapporto, infatti, trattandosi di rapporto
unico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi, è
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solo con la chiusura del conto che si stabiliscono
definitivamente crediti e debiti delle parti.
Altro orientamento, invece, vorrebbe individuare il dies a quo
del decorso della prescrizione, nella data di annotazione in
conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente
addebitati dalla banca al correntista.
La giurisprudenza più recente, al fine di individuare il
momento in cui la prescrizione inizia a decorrere, si è
focalizzata su concetto di pagamento, infatti, in assenza di un
pagamento non è sicuramente configurabile alcun diritto di
ripetizione, non essendosi verificato alcuno spostamento
patrimoniale privo di idonea causa giustificativa e, quindi, un
indebito ex art. 2033 c.c. .
Per stabilire quando si è in presenza di un pagamento, nel
senso proprio del termine, occorre aver riguardo alla natura
propria del contratto di apertura di credito in conto corrente,
consistente nella messa a disposizione da parte della banca di
una determinata somma di denaro al cliente, che questi può
utilizzare, anche a più riprese, per l’intera durata del rapporto,
con possibilità di ripristinarne in tutto o in parte la
disponibilità eseguendo versamenti che gli consentano ulteriori
prelevamenti, entro i limiti del credito accordatogli.
Ne deriva, dunque, che se in pendenza dell’apertura di credito,
il correntista non effettua alcun versamento, non è
configurabile alcun pagamento in senso tecnico prima della
chiusura del conto, solo in tale momento, infatti, se la somma
restituita dal cliente alla banca è superiore al dovuto, a causa
della capitalizzazione trimestrale degli interessi, sarà
configurabile un pagamento indebito. Per cui in tal caso la
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prescrizione decorrerà necessariamente dalla chiusura del
conto.
Se, invece, durante lo svolgimento del rapporto, il correntista
ha effettuato dei versamenti, occorre distinguere: ove si tratti
di meri atti ripristinatori della provvista, cioè, di versamenti sul
conto ancora entro i limiti dell’affidamento, aventi lo scopo di
riespandere la provvista in vista di futuri utilizzi, non si potrà
parlare di pagamenti in senso proprio, quindi la prescrizione
anche in questo caso decorrerà dalla chiusura del conto.
Viceversa, ove si tratti di versamenti intesi a coprire
scoperture sul conto eccedenti l’affidamento, si può parlare di
pagamenti in senso proprio, in quanto determinano un effettivo
spostamento patrimoniale in favore della banca. Solo in
quest’ultimo caso, ove i pagamenti effettuati siano in tutto o in
parte indebiti, a causa della capitalizzazione trimestrale degli
interessi, la prescrizione decorre dalla data del singolo
pagamento.
Sulla questione è recentemente intervenuto il legislatore con la
Legge n.10/2011 di conversione del D.L. 225/10 (c.d.
Milleproroghe) stabilendo che, per le operazioni bancarie
regolate in conto corrente, l'articolo 2935 del codice civile si
interpreta nel senso che “la prescrizione relativa ai diritti
nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno
dell'annotazione stessa”. Specificando ulteriormente che “In
ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi già versati
alla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto”. Con tale norma di interpretazione
autentica, il legislatore ha voluto porre fine alla questione,
stabilendo che la prescrizione per l’azione di ripetizione
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dell’indebito, derivante da clausole anatocistiche, decorre da
ogni singola operazione effettuata, cioè, dal giorno
dell’annotazione sul conto.
In realtà la formulazione della norma, solleva parecchi dubbi
interpretativi, essa, infatti, fa esplicito riferimento ai diritti
nascenti dall’annotazione, ma come chiarito dalla Corte di
Cassazione a S.U. dall’annotazione non deriva il diritto di
ripetizione dell’indebito, il quale, è configurabile soltanto in
seguito ad un pagamento nel senso sopra chiarito, cioè, a
seguito di uno spostamento patrimoniale privo di idonea causa
giustificativa. Ne deriva, che la novella apportata, come
sembra confermato anche dalle prime pronunce di merito,
potrebbe rivelarsi all’atto pratico totalmente inidonea a
raggiungere lo scopo voluto, perché essa non ricollega in alcun
modo il sorgere dell’indebito all’annotazione contabile. La
disposizione, infatti, si limita a stabilire che per i diritti
nascenti dall’annotazione in conto, la prescrizione inizia a
decorrere dal giorno dell'annotazione stessa, ma tra tali diritti
non può esservi ricompreso quello di ripetizione dell’indebito
che, all’atto dell’annotazione in conto, non sussiste ancora,
salvo che si tratti di versamenti intesi a coprire scoperture sul
conto eccedenti l’affidamento.
Parecchi problemi solleva anche il secondo periodo della
norma: nell’immediatezza dell’emanazione, essa è stata
interpretata come clausola di salvaguardia in favore dei clienti
che avessero già ottenuto, dall’istituto di credito, il rimborso
delle somme illegittimamente versate in applicazione di
clausole anatocistiche. Ma essa, per la sua genericità, può
essere interpretata anche nel senso che il cliente non può più
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richiedere la ripetizione di quanto già versato indebitamente in
favore della banca. Tale interpretazione renderebbe la norma
passibile di sindacato di legittimità costituzionale per
violazione dell’art. 3 Cost. in quanto determinerebbe una
ingiustificata disparità di trattamento, sulla base di un mero
dato temporale, a seconda che l’azione di ripetizione sia stata
esercitata prima o dopo dell’entrata in vigore della norma.
Altra questione problematica che si è posta in materia di
anatocismo bancario è quella di stabilire se, accertata la nullità
della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi, gli
interessi passivi del cliente debbano essere computati con
capitalizzazione annuale (cioè, come si fa di regola per gli
interessi attivi) ovvero senza capitalizzazione alcuna. In
proposito la giurisprudenza si è orientata nel senso di negare
la possibilità di applicazione in favore delle banche di una
capitalizzazione annuale, in quanto manca un uso normativo
idoneo a giustificare tale deroga al divieto generale di
anatocismo posto dall’art. 1283 c.c. . Infatti, un uso siffatto
non si rinviene nella realtà storica degli ultimi 50 anni, nei
quali le banche, invece, hanno applicato illegittimamente la
clausola di capitalizzazione trimestrale, per cui mentre la
clausola di capitalizzazione trimestrale difetta del requisito
soggettivo, cioè, la convinzione che regola di condotta sia
giuridicamente obbligatoria, un’eventuale clausola dei
capitalizzazione annuale difetterebbe del requisito oggettivo,
cioè, la ripetizione costante ed uniforme nel tempo. Ne deriva
che, accertata la nullità della clausola di capitalizzazione
trimestrale, gli interessi a debito del correntista debbono
essere calcolati senza alcuna capitalizzazione.
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