Caparra Confirmatoria e Risoluzione per inadempimento
Cass. S.U. 553/09
La caparra confirmatoria è un elemento accidentale del
contratto regolato dall’art. 1385 c.c. attraverso il quale, una parte da all’altra una somma di denaro o una quantità di cose fungibili a rafforzamento dell’impegno contrattualmente assunto: in caso di adempimento, la caparra deve essere restituita ovvero imputata alla prestazione dovuta, in tale ipotesi, dunque, la caparra svolge una funzione di parziale anticipazione dell’esecuzione della prestazione; in caso di inadempimento, invece, la parte non inadempiente ha il diritto di recedere dal contratto e di trattenere la caparra ricevuta ovvero pretendere il doppio della caparra versata, in tale ipotesi, pertanto, la caparra svolge una funzione di garanzia, attraverso la liquidazione anticipata e convenzionale del danno da inadempimento, volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso. Si è posto in giurisprudenza il problema dei rapporti esistenti tra il diritto di recesso di cui all’art. 1385 c.c. con corrispondente ritenzione della caparra o richiesta del doppio della stessa e l’azione risoluzione del contratto per inadempimento con richiesta di risarcimento del danno, ed in particolare, ci si è interrogati sulla possibilità di sostituire la prima domanda con la seconda e viceversa. La risoluzione per inadempimento, ossia lo scioglimento del vincolo contrattuale a seguito dell’inadempimento di una delle parti, è riconosciuta in favore della parte non inadempiente, dall’art. 1453 c.c. essa può essere giudiziale o di diritto, nel primo caso è legata alla pronuncia del giudice nel secondo caso, invece, la risoluzione opera in via stragiudiziale ed ex lege, in seguito ad un’attività qualificata delle parti. Più precisamente, la risoluzione di diritto opera in tre casi: diffida ad adempiere, clausola risolutiva espressa, termine essenziale. Ebbene, nell’esaminare i rapporti tra risoluzione e recesso la giurisprudenza è giunta risultati contrastanti: secondo una parte della giurisprudenza, la parte non inadempiente che, ricevuta una somma in denaro a titolo di caparra confirmatoria, abbia poi agito per la risoluzione del contratto e per la condanna al risarcimento del danno, può legittimamente sostituire tali istanze, in grado di appello, con quelle di recesso dal contratto e di ritenzione della caparra, configurandosi queste, rispetto alla domanda originaria, come una domanda più limitata, che non altera i presupposti oggettivi e soggettivi dell’azione e che, pertanto, non viola il divieto di nuove domande di cui all’art. 345 c.p.c. in tale prospettiva, la caparra costituirebbe una sorta di minimum risarcibile. Secondo altra parte della giurisprudenza, invece, la domanda di risoluzione del contratto e di risarcimento del danno, da un lato, ed il diritto recesso ex art. 1385 c.c. con ritenzione della caparra o richiesta del doppio della stessa, dall’altro, avrebbero un diverso oggetto e causa petendi, sicché, la seconda domanda, se formulata soltanto in appello, in sostituzione della prima, costituisce una questione del tutto nuova, e come tale, inammissibile ai sensi dell’art. 345 c.p.c. Con specifico riferimento a alle ipotesi di risoluzione di diritto poi, parte della giurisprudenza ha negato la possibilità di esercitare il recesso e ritenere la caparra o richiedere il doppio della stessa, dopo che si sia già perfezionata una delle ipotesi di risoluzione di diritto di cui agli art. 1454, 1455, 1457 c.c. infatti, secondo tale orientamento, una volta verificatosi l’effetto risolutivo, per diffida ad adempiere, clausola risolutiva espressa o termine essenziale, non sarebbe più possibile procedere al recesso essendosi il contratto già risolto ex lege. Altra parte della giurisprudenza, invece, ammette la sostituzione della domanda di risoluzione e risarcimento del danno con il recesso e ritenzione della caparra o conseguimento del doppio della stessa, purché, la parte abbia rinunciato agli effetti della risoluzione di diritto, rientrando, secondo questo orientamento, nell’autonomia privata, il potere di non avvalersi della risoluzione già verificatasi o già dichiarata. Il contrasto giurisprudenziale ha reso necessario l’intervento delle Sezioni Unite, le quali hanno compiutamente affrontato la questione con la recentissima sentenza n. 553/2009, che ha definitivamente affermato l’incompatibilità tra le due domande. La Suprema Corte ha ricostruito il diritto di recesso di cui all’art. 1385 c.c. come una peculiare ipotesi di risoluzione di diritto, destinata ad operare attraverso la semplice comunicazione, all’altra parte, di una volontà caducatoria degli effetti negoziali, si tratterebbe, pertanto, di una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto che presuppone, come le altre forme di risoluzione di diritto, l’inadempimento della controparte. Se così è, secondo la Corte, le interazioni rilevanti da esaminare sul piano normativo, non sono tanto quelle tra il recesso stesso e le varie forme di risoluzione, quanto, piuttosto, i rapporti tra azione di risarcimento ordinaria e domanda di ritenzione della caparra o richiesta del doppio della stessa: ebbene, l’unico riferimento normativo ai rapporti tra i due istituti è quello contenuto nell’ultimo comma dell’art. 1385 c.c. il quale, si limita a stabilire che, se la parte non inadempiente preferisce domandare l’esecuzione o la risoluzione del contratto, il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali. Dunque, il legislatore nell’accordare alla parte inadempiente la facoltà di avvalersi della tutela risarcitoria ordinaria, non ha in alcun modo previsto la risarcibilità dell’eventuale maggior danno, ma ha soltanto previsto il risarcimento integrale del danno subito, se provato in sede processuale ed in modo del tutto indipendente dalla caparra, che, pertanto, non può essere configurata come minimum risarcibile . Tale interpretazione risulta del resto confermata dal confronto sistematico con la disposizione in materia di clausola penale, contenuta nell’art. 1382 c.c. dove, viceversa, è stata contemplata, sia pur previo patto espresso, la facoltà di agire in giudizio per il risarcimento del solo danno ulteriore, con ciò presupponendosi la ritenzione della penale. Da tali considerazioni, la Corte ha dedotto l’inevitabile conseguenza dell’incompatibilità tra la domanda di risarcimento del danno in via ordinaria e la ritenzione della caparra o la richiesta del doppio della stessa, sicché, l’originaria domanda di sola risoluzione non può legittimamente ritenersi convertibile, in sede d’appello, in domanda di solo recesso, perché tale modifica consentirebbe di ampliare l’ambito risarcitorio previsto dalla legge, riattivando il meccanismo legale di cui all’art. 1385 comma II c.c. ormai definitivamente estinto. Verrebbe, infatti, così a vanificarsi la stessa funzione della caparra, cioè, quella di consentire una liquidazione anticipata e convenzionale del danno, volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso, e consentirebbe alla parte non inadempiente di “scommettere” puramente e semplicemente sul processo, alla ricerca di un danno ulteriore. Specularmente, deve ritenersi inammissibile la domanda di risoluzione giudiziale introdotta dopo essersi avvalsi della tutela dell’art. 1385 c.c.: in primo luogo, perché dopo aver esercitato il diritto di recesso, il contratto deve considerarsi già definitivamente risolto, in secondo luogo, perché, ancora una volta, con tale trasformazione si cercherebbe surrettiziamente di ampliare l’ambito risarcitorio in sede processuale, dopo avere già incamerato la caparra. Quanto, infine, alla presunta rinunciabilità dell’effetto risolutorio sostenuto da parte della giurisprudenza, in relazione alle fattispecie di risoluzione di diritto, la Suprema Corte ha negato tale configurabilità in relazione alla diffida ad adempiere: infatti, mentre la clausola risolutiva espressa ed il termine essenziale, contemplano, per loro stessa natura, la necessità o la possibilità di una ulteriore manifestazione di volontà della parte non inadempiente, che potrebbe farsi portatore di un interesse diverso da quello alla risoluzione del contratto, lo stesso non avviene per la diffida ad adempiere, dove alla inutile scadenza del termine, l’art. 1454 c.c. sembra ricollegare un effetto risolutorio automatico. Nello stesso senso depone, altresì, anche il disposto dell’art. 1453 c.c. che vieta la possibilità di richiedere l’adempimento una volta proposta l’azione di risoluzione giudiziale, non si vede, infatti, perché la stessa soluzione non debba trovare applicazione nel caso di diffida ad adempiere, posto che in entrambi i casi vi è, comunque, una espressa dichiarazione di non interesse all’adempimento tardivo. Una perdurante disponibilità dell’effetto risolutorio, del resto, determinerebbe una ingiustificata lesione dell’interesse del debitore, il quale facendo ormai definitivo affidamento sulla risoluzione del contratto inadempiuto, potrebbe indursi ad un riassetto della propria complessiva situazione patrimoniale.